Gianmarco Pinciroli - Due poemi (2013) - La dimora del tempo … · la nitida compattezza...

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1 GIANMARCO PINCIROLI DUE POEMI

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GIANMARCO PINCIROLI

DUE POEMI

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Quaderni di RebStein, XLVI, Giugno 2013

Gianmarco PINCIROLI

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(Immagine: Anselm Kiefer, Lilith, 1996) (Fonte: http://www.currenticalamo.com/FOTO/ANSELM-KIEFER-LILIT-1996.jpg)

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DOPO-GHETTO

Verbracht ins Gelände

mit der untrüglichen Spur P. Celan

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[1a]. Non ricordo il numero cui davi mano e senso nel comporre poeti lungo traiettorie sapide acerbe l’età ti macchiava l’orecchio e aveva nome il latte della terra si gonfia l’alato cielo senza rossi, belve, clangori dipingevi leggero il camino con dito acceso digestione e parole erano fiamma fino allo spegnimento dell’unghia, così possedevi fortuna e tramortivi

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[1b]. Donde viene l’aroma fertile, porta luce e falce a terre dall’unghia dissodate morte per dei e misericordia In Alessandria sponda di tramonto siano terra e corpo altro dal tempo siano vestigia scritte le rinunce chiedete se esiste, è, c’è qualcosa come il mondo Lo sguardo del giorno attraverso gli strappi colpevoli della notte puniti e sempre vandali di sé bocche sfibrate a rimpiangere la nitida compattezza dell’eden cade, mangia il peccato nel vaso della giovinezza zeppo di enigmi e feci arabescate dare luci alla palude senza specchi e foglie all’oracolo invernale sulle vette accese di oratori e di sentenze Tu sei, tu: voltato secchio dal dorso umido di numeri coperchio di graticola e il vento fuori esce in forma di formula così rinasce il mito e Prometeo continua a diventare aquila e non può certo riconoscere il fegato nel cuore spaccato delle reni da selvagge danze, totem, ira misteri d’archi senza freccia bastano a se stessi, saltano, tripudio vita e vita: negano qualcosa tu, ancora, sai cos’è ma non dire, non sanno, non fa parte della danza non specchiarsi

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[2]. Ellittico il fuso dell’oro strinato di spasmi, gas, cenci Firenze muore sul lastrico, tramonta e l’immortale cuoce l’odio in basso oh che si pasca di fiuti e salmi il sacerdote con la lira tintinna nelle tasche dei musici la salvezza con dissonanti peccati ma tu chi sei, altro che fissa udienza? Scagli messi al seme che hai gettato gettato tu stesso, l’altr’anno oh cento tracce oh evo oh revertor continuamente nella continuità ma fragile il mito del sempre, ora, dopo per chi ha tanto futuro in bocca mastica, digestione a donare pellicce d’aria nel domani fiaccola di gioia ellittico il fantastico chiarore che domina, matrona stella, la pietà

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[3]. Edera in ombra, ti sei arborizzata come il pensiero nel pensante in sonno vita d’altri, da sempre invischiata nelle pieghe del danno e dell’incesto La terra è già l’amore del pensiero da che, sale furente, il mare s’arrischiò a uscire dal fazzoletto del mio secolo piccola beltà che ti scommetti vita con vita, sperando nella gioia che mai ti resta in arsi, se non l’accento d’una ricomposta foia? Cinghie per soffocare l’acqua, piove nel grembo si ripete la fistula nei denti del pastore erette le fabbriche e i manieri cantore in erba: l’erba ti cresce addosso canto superbo, manto, frutto ma non turbare il sonno dormi con tutti, stupito e tu vita, stupita di tanto clamore nel cuore molle della nostra odierna POESIA

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[4]. Mortali e immortali, siamo balenante fioritura del dopo-ghetto crescendo nella cenere di tutto compresi di nostalgia per dure, igieniche fertilità “innocentemente belli, almeno questo è quanto crediamo” narriamo la storia di un figlio – tra cenci, soldi e amanti non si è più trovato radice rigurgito folla tutto dentro sé per un sempre – disegna orizzonti e ponti verso l’acqua delle macellate identità che fortuna, a un gradino dall’altare sacrificarsi in piedi nella piena immersione di un coltello nel vagire della terra, calamo di mortalità per immortali promesse di parole feconde e non più soltanto faconde disturbano, addiviene un nodo di rami all’alba fortunata tutto spunta così in fretta, spuma che diviene prima ancora di essere l’attimo che forma Di noi, mortali immortali, “decidere la storia”? non resta altro: vuoto il desiderio di possedere il popolo di noi stessi le vie della guarigione

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[5]. Presagi e cenni dicono è il futuro ciò che non sa ripetizione e pur si muove in cerchio la increata difformità dell’esserci Pensiamo, crudi, mortalità fuggente attimo di carestia – si rapprende attorno a un idolo terroso, fessura barbaglio estatico – scatena visioni, occultamenti, freddi inchiostri cineserie incredibili, tappeti oh tutto fuggire e tutto assai lontano dar di volo alle ali per raschiare il seno al muto biologico dispiegamento annientata speranza di diffondermi a voi, celesti impuri abitatori di case abbaglianti nel costante pericolo di crollo stupore, fame, rossa benda, sterco

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[6]. Aurora, sbatti l’angolo come una finestra il vento polveroso di settembre l’angolo della piazza muta e chiusa nel canile livido dell’ultimo silenzio prima del gran boato, motori della ripetizione Aurora, gialli e rossi crescono su te blanda semente i papaveri del male, senza miele profumo, velluti e midriasi quando ne senti il fruscio addosso sbocciano fragore di canapa nel greggio della zolla, cranio di calda messe scura senza spume o eccedenze, pullulano i fiori letto d’anime nude di corolla d’amido freddo il movimento dei tulipani s’agghiaccia di stupore il sole – colpisce senza reclinarne il busto gigli fusi d’oro liquido fumo immoto, valvole crude nel zeppo schifoso della terra

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[7]. Arca perenne, all’ancora nel golfo i misteri della generazione esclude con reti di nebbia per orecchie tese a tutto udire, a nulla vilipeso l’occhio di punta nel braccio cerchio Assumere, viltà del novo dipanar di gioventù, balocco tondo per gesta che si dicono democratiche scura capellatura all’inedia ruvida dei fari spenti nella notte stella ma s’assomma in un grumo la colpa all’innocenza perché il declinare è un’epoca – indugia al solido rapprendersi del tempo dentro noi cresce dentro la cucina del feto – dà poi nascita agli inferi umidi del genio tutte le volte che rivolta il corpo la zappa indifferente della penna povero ramo di un secolo deforme la stolida emergenza per la salvezza il popolo, risulta: un’addizione l’opinione genera colui che si attacca al dio di se stesso per non morire di buoni sentimenti e adorare la propria immortalità ogni sera di penna, quando cadono innumerevoli i residui dell’immonda fabbrica, letteratura

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[8]. Lettera, o specchio recalcitrare nel livore notturno (di solito colora di sé tutte le aurore della vita) sapersi gracile e sospeso senza difesa nei confronti della cenere che su me, su te sparsa ha la zampa anemone del vento, passa sola, la torpedine, la frusta, dà malanno barche ancora ferme negli angiporti stalli, tu, me, vicini al tempio dell’accidia ma io mi so degenerato da che sorvola il pianto la putredine del filo ramato e gessoso per il gran numero d’unghie fulminate un attimo prima della fuga Non ti credere dentro il campo, sei quasi più fuori di tutti, il campo è dopo, è sotto, è IL reticolarsi dei nervi attorno allo stupore così, mi vedi nel cervello a pieghe mobili concentrato sui limiti del corpo sembro chiuso a chiave e destinato a sopportare il gas e il necro/ così, mi sento pelle, nuda elettricità a contatto del fato d’occhi mentre il campo si riveste di neve, brina e il sesso è arcangelo di quiete, un’altra volta Di me, di te, maschera di pece stremo di pensate vicissitudini nel gioco cerchio di un fallace bombo di libertà, da tutti generato, da nessuno solo, insieme al dopo-ghetto di secoli (ben donde) stuprati d’acciaio e vischio scuro

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plastica beltà (ho di che morire) di vivere nel sempre che taglia i corti affanni gli strali umidi a cader dai viali i monchi cerebri, osanna fumo

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ALBE

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1. È, quanta rabbia se spalanca in aria e tomba l’acqua bianca, d’oggi, strame i tuoi piedi, d’albero, stanca difformità nel dire i passi “giorno dopo giorno” E tu lo chiami risveglio con quella prosa facile e svigorita… stride l’aceto su città, copre il grumo è nebbia o è rasoio pelle sfibrata il tuo dagherrotipo dal tempo al sole che tra i platani ti assorbe

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2. L’auberge doré, stellata è in arsi la gioia del sonno comparizione del senno, abito onnicoprente l’inverno appena desto non uscire, tu, me, resta, vicino resta, mi, col fiato aguzzo delle volpi già da tempo profondate in sonno ma è il poi che – intelligenza – ti scaglia nel diamante grezzo delle strade, quelle sempre

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3. Il sogno, che mai?, intende mostrarmi il cammino appannando le intiepidite usanze Desidero? perder sé nella marcia tombale che il verme fa sul verme quando confusa o terrea accade briciola di spazio il tonfo dentro me Ogni ridesta fede accorre DUNQUE mentre il tempo scoppia in lacrime e io non ho buona suola rosa calpestare potrei alba del mondo ma l’occhio è chiuso in una goccia dorme

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4. Eredito, insieme al lucido cancello mani di gelo e pomata spalancando Un’Altra Cosa al mucchio spesso degli anni, dietro disinteresse e accostamento immemoriale Eredito un monte di debolezza quaternaria cinghiando fino al soffocamento l’elisio, futuro, questa parola mattutina augurale, bianca, d’un orizzonte – chiude il sonno aprendo il definitivo sogno di corallo, eredito da un impiastro di brina e ruggine Un’Altra Cosa, Un’Altra Cosa

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5. Farfalle, sanguine, nel tempo che verrà di maggio e fuochi allora sarà il tutto un miraggio di grazie a un creante, conduttore d’anime uscite! dal vaso perituro nel futuro fuori dall’ambiguità risponde l’alba del mondo ma più che solo, aspro l’albero contorce la vite precipitando addosso al più maturo grappolo dei miei anni e corre la sevizia del gelo sul grano falce ci circonda il termine del giorno il terrore della Cosa

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6. Il riposo d’occhi appena desti dal libro, dalla spada il lago blu d’occhi svenata nobiltà d’acqua per un salasso di cupidine celeste e in alto l’alto azzurro nella formidine dell’alba col carico di stelle appassite a larghe braccia accantonate, voce tonante Ma più tardi, ecco per il momento vette grigie di polvere nella sezione popolare del vento e neve da contaminare in fretta prima che il gran bombo del nuovo sciolga il mago

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7. Tu sei l’imago, idro – che lavi croste e albumi fecondi – specchio di un solo demonio – il colore del tempo (grigio, azzurro) con l’evento della morte il nero si strappa lunga pezza di sangue ed è la nascita dell’uovo nell’alveare ripete sé la monotonia del sempre sempre sempiterno Profumo d’alberi freddi nella ruggine del cupo dicembre senza promesse di bianco né coperture o nebbie o crochi: pallido

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8. Il verbo aiuta molto il mio sbattere il verbo che aurora pronuncia per tutto me dinanzi atteso a un idillio, treno, altri verbi “Lo zoppicante giambo” come una pellicola corrosa percorso il sentiero nei fiori della brina argento nebulare sulla pelle del cancello nessuna route abbaia, anche i cani stanno, in sogno ma non pare, è vero, differire, ancora ancora notte

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9. Ci fu giorno in cui non appena uscii dal bosco costa di veli per capezzoli di pioggia ci fu, che una mite macchia bruna il lastrico del sempre attraversò grande scoraggiamento Infatti, male comincia il giorno chi s’occupa di guardare attraverso la magia del gioco gli spettri del fiume (mai lo stesso fiume, le stesse membra) il dovere di scorrere lungo un eterno infaticabile

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10. Ci fu un mattino, folle di desideri, slacciate cinghie invaginarsi di mutazioni stelle in acqua, soli in giochi di specchi Sempre in Albero della Conoscenza “e il Bene e il Male” nelle pareti di una mela ci fu un mattino mi si attestarono nell’aula del processo come tentazione, disbrigo, morso fugace castigo, colpa, rimorso caduta, tramonto e attesa di spasmi: -urus

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11. Viscida la scia del me divagante da porta a porta per aprire gli abiti al nascente stupro del gelo, davvero (ho pensato) il mondo oggi non merita l’invenzione della vite Poi nel vetro dell’affermazione storica col mio linguaggio ho letto il pudore di una liquida mediocrità inabissare il tempo dalle altitudini la gioia del gallo saettante

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12. Merito né gloria il tuo corpo è donna dell’alba la sua rubrica raccoglie il segno silenzioso terragna violenza, il seme percorre il divenire del sole l’accoppiamento della notte con lo spettro palpebra, la lucentezza del piano morente astro salmastro sorge una goccia d’alto vigore e serro la maniglia della perfezione raccattandoti anima sul piancito arboreo dell’uovo, tu, dì

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13. Papavero da guancia a destra l’orizzonte sfiorisce montagne scure segnano la cornice della presente avventura Viene crescendo la città del cielo nella mente fatta terra del popolo dio di tutte le stagioni, papavero cara, nella guancia e pure tra poco sfiorisce il fiorire di tanta splendida manifestazione di forza d’altri su di me, sempre più grigio nel decodificare sassi casuali tra il cancello sporco di mani ostili e ceralacca dai capelli di novembre, stanco

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14. Io vesto un passo rapido nel raggiungere il diritto del mio giorno sopravvivere al convoglio non è freddo né impossibile, è semplicemente demodée la veglia di generare mostri e rispetti innocui per i controlli sottili dell’età avanza il canto d’artiglio sulla scorticata fede dell’intransigente e mattiniero Tramonto di gioia e carne nel grembo, tuo, tellus

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