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«Si comincia leccando un francobollo, si finisce leccando il culo» Renato Poggioli Mario Baudino, “Generazione video: quando lo scrittore non è anche lettore” La Stampa, 17 gennaio 2008 3 Alessandra Farkas, “Nabokov al rogo? Caso riaperto” Corriere della Sera, 19 gennaio 2008 5 Mia Peluso,“Adesso l’amore lo racconta lui” Ttl La Stampa, 19 gennaio 2008 7 Marco Belpoliti, “Da cosa nasce Munari” Alias – il manifesto, 19 gennaio 2008 9 Mauro Calamandrei, “44 mosse verso il successo” Domenica Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2008 13 Luca Mascheroni, “Non ci sono più i giovani scrittori di una volta” il Giornale, 20 gennaio 2008 15 Pietro Citati, “Kawabata. L’ultimo segreto dell’eros” la Repubblica, 21 gennaio 2008 19 Mario Pirani, “Renato Poggioli. Una vittima illustre delle censure del Pci” la Repubblica, 22 gennaio 2008 21 “I miei conti con l’Einaudi” la Repubblica, 23 gennaio 2008 25 Mario Pirani, “E adesso rendete pubblici gli archivi dell’Einaudi” la Repubblica, 24 gennaio 2008 29 Maurizio Corsetti, “Misteri e veleni nella fiera di Premiopoli” la Repubblica, 28 gennaio 2008 31 Monica Vignale, “Passaparola” Panorama, 31 gennaio 2008 35 Paolo Bianchi, “Vi racconto la beffa dei falsi versi d’autore” il Giornale, 31 gennaio 2008 37 La rassegna stampa di Oblique dal 16 al 31 gennaio 2008 RassStampa_16-31genn2008.qxp 05/02/2008 11.27 Pagina 1

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«Si comincia leccando un francobollo, si finisce leccando il culo»

Renato Poggioli

– Mario Baudino, “Generazione video: quando lo scrittore non è anche lettore”La Stampa, 17 gennaio 2008 3

– Alessandra Farkas, “Nabokov al rogo? Caso riaperto”Corriere della Sera, 19 gennaio 2008 5

– Mia Peluso, “Adesso l’amore lo racconta lui”Ttl – La Stampa, 19 gennaio 2008 7

– Marco Belpoliti, “Da cosa nasce Munari”Alias – il manifesto, 19 gennaio 2008 9

– Mauro Calamandrei, “44 mosse verso il successo”Domenica – Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2008 13

– Luca Mascheroni, “Non ci sono più i giovani scrittori di una volta”il Giornale, 20 gennaio 2008 15

– Pietro Citati, “Kawabata. L’ultimo segreto dell’eros”la Repubblica, 21 gennaio 2008 19

– Mario Pirani, “Renato Poggioli. Una vittima illustre delle censure del Pci”la Repubblica, 22 gennaio 2008 21

– “I miei conti con l’Einaudi”la Repubblica, 23 gennaio 2008 25

– Mario Pirani, “E adesso rendete pubblici gli archivi dell’Einaudi”la Repubblica, 24 gennaio 2008 29

– Maurizio Corsetti, “Misteri e veleni nella fiera di Premiopoli”la Repubblica, 28 gennaio 2008 31

– Monica Vignale, “Passaparola”Panorama, 31 gennaio 2008 35

– Paolo Bianchi, “Vi racconto la beffa dei falsi versi d’autore”il Giornale, 31 gennaio 2008 37

La rassegna stampa di Obliquedal 16 al 31 gennaio 2008

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T utto cominciò negli Ottanta, quando PierVittorio Tondelli, giovane maestro peralmeno due generazioni di scrittori italia-

ni, ripeteva di sentirsi più debitore verso la musicarock che verso i libri. O forse prima, secondoFilippo La Porta. Il critico che ha appena licenzia-to, fra grandi discussioni, il suo Dizionario della cri-tica militante scritto per Bompiani con GiuseppeLeonelli, ricorda una battuta di Wim Wenders,regista da lui molto amato: «Devo tutto al rock».Vennero poi i Cannibali, e si disse che i loro terri-tori di partenza erano le giungle della cultura pop,dei fumetti, del cinema d’azione, anche se poi ave-vano un retroterra letterario. Pare che la mammadi Niccolò Ammaniti, ad esempio, gli facesse leg-gere Cechov in dosi massicce. E ora? Ora un nar-ratore come Pietro Grossi confessa a Ttl di dove-re ai «librogame» la sua passione per la letteratura,perché leggere è sempre stata una fatica, «lo scot-to da pagare per tentare di riuscire a scrivere qual-cosa di decente».

Alfonso Berardinelli, in Casi critici (Quodlibet)celebra la fine del postmoderno e annuncia,riprendendo un saggio del ’97, l’Età dellaMutazione, quella in cui, «dopo aver diffidato percirca un secolo della comunicazione», la letteratu-ra vorrebbe oggi «essere comunicazione di cosegià comunicate». È lo scenario in cui stannoGrossi e i suoi coetanei? Coloro che addobbaronoi predecessori con ossa umane, e cioè il duoSeverino Cesari-Paolo Repetti, inventori diEinaudi-Stile Libero, non sono d’accordo.«All’inizio degli anni Novanta cominciammo a leg-gere testi – dicono – dove le merci e la cultura

popolare costituivano l’enciclopedia di riferimen-to». Con una differenza, però: «La lezione dei clas-sici, in autori come Ammaniti, Nove, Scarpa oSimona Vinci, era ben presente. Forse era sparitala gerarchi dei valori. Ma l’idea del giovane scritto-re che arriva dai fumetti è spesso caricaturale».

Anche se si avvicina a quanto accade oggi: «Ineffetti riceviamo testi di ventenni strettamentelegati a linguaggi frantumati, come gli sms, i blog,le e-mail. Va detto che nel 99 per cento dei casirestano generazionali nel senso peggiore del ter-mine». Quindi non vengono pubblicati. «No,anche perché in questo momento proprio nonfunzionerebbero in libreria». C’è del resto unacontroprova: la Bompiani sta per ristampare inedizione tascabile di un libro del ’97, il volumePanta-scrittura creativa curato da Laura Lepri, bibbiadell’apprendistato tecnico letterario, che in diecianni ha continuato a trovare lettori. E La Porta,per quanto lo riguarda, sposta il problema.

Da un certo punto di vista, osserva, è vero che igiovani scrittori arrivano spesso dalla cultura pop enon dai libri. Bene. «Sarà pure un evento epocale,però, alla fine, che importa? È il risultato quello checerchiamo. A me non interessa che uno scrittoreesibisca le sue letture». E secondo lei si comincia avederli, questi risultati? «Per trasformare alchemica-mente manga, canzonette, cinema di serie B in qual-cos’altro ci vuole uno stile, anche di pensiero, e unosguardo. Qualcuno lo fa: Ammaniti può sbagliareun libro, ma a me continua a interessare moltissimo.O, fra i più giovani, Giordano Tedoldi», che ha scrit-to per Fazi i racconti di Io odio John Updike. Con ungrande scrittore già nel titolo, anche se il materiale

Generazione video:quando lo scrittore non è anche lettore

Mario Baudino, La Stampa, 17 gennaio 2008

Film, fumetti e rock per autori pop

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usato profuma di extraletterario. «Penso anche adApocalisse da camera di Andrea Piva (Einaudi), storiadi un professore ossessionato dal sesso. Potrebbenascere da un film che ha visto».

Il romanzo, aggiunge Berardinelli, non è maistato, del resto, «un genere intellettuale. Il suo ter-reno è il senso comune di un’epoca. Se quelloattuale è fondato sulla cultura di massa e sulle sub-culture giovanili, si parte di lì». Non è una novità,non è neanche una «mutazione». «Esistono due tipidi senso comune: quello sentimentale dei più adul-ti, e quello dei monellacci sadomaso. Due nomi:Sandro Veronesi per la prima categoria, TizianoScarpa per la seconda, o almeno lo Scarpa degliesordi. Lo scopo è analogo: acchiappare una fettadi lettori “nuovi” in contatto con la realtà attuale».Questo, aggiunge, se ragioniamo in generale. Seinvece guardiamo al risultato, cominciano i guai.

«Nella mescolanza tra alto e basso, credo checonti il clima morale del Paese. E allora penso chegli autori Usa siano messi meglio perché lì le coseavvengono sul serio; i nostri meno, perché quitutto è di riporto». Eccola, la mutazione. «Primac’era un super-io culturale, la società letteraria. Oranon c’è più, tant’è vero che la critica non contanulla ed è pure detestata. Ricordo Emanuele Trevi,in un dibattito: “Se i miei libri non piacciono ai cri-tici, ’sti cazzi!”, diceva. Anche lui ha subito unamutazione. Forse è andato dallo psicanalista». Edov’è il problema? «In una società culturale di“guariti”, con una letteratura che vuol essere gua-rita anche da se stessa». Ma la letteratura non èsempre un po’ malata? «Dovrebbe. Ora però vuoleessere la malattia che tutti hanno, e quindi la reci-ta indolore della malattia». Sembra persino che ciriesca.

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«Bruciarlo o non bruciarlo?». L’amleticodilemma che da anni lacera il settanta-treenne Dmitri Nabokov starebbe per

risolversi con un falò destinato a cancellare The ori-ginal of Laura, il romanzo che il padre Vladimirstava scrivendo prima della morte, nel 1977, esecondo alcuni il capolavoro inedito che potrebbegettare nuova luce su uno dei più complessi scritto-ri del XX secolo. A lanciare l’allarme, dal sitodell’intellighenzia Usa Slate, è il critico letterarioRon Rosenbaum, da anni in contatto epistolare conl’unico erede e traduttore dell’autore di Lolita. Inuna recente e-mail Dmitri gli avrebbe manifestatol’intenzione di distruggere il manoscritto, custoditonella camera blindata di una banca svizzera, dellaquale, oltre a lui, un’altra misteriosa personaconserverebbe le chiavi. Non si tratta di un sempli-ce capriccio. «Mio padre ci ha incaricati di distrug-gerlo perché non voleva fare uscire opere incom-piute», spiegava Dmitri al Corriere della Sera inun’intervista del luglio 2004. Ma la vedova Vera nonse l’era sentita di portare a termine il gravoso com-pito e alla sua morte, nel 1991, la responsabilità ri-cadde sul loro unico figlio, che nella stessa intervi-sta ne annunciava l’imminente pubblicazione«perché tanto vale farlo adesso, sotto la mia guida».

Che cosa gli ha fatto cambiare idea? «Il deside-rio protettivo di sottrarlo alle analisi psicologichedei lolitologi — ribatte Dmitri — Perché la loroidiozia rasenta la criminalità». Nel mirino diNabokov junior sono soprattutto quei critici che,dietro il romanzo più celebre del padre, hannoletto presunte molestie sessuali subite dallo scritto-re russo nella sua infanzia. In passato Dmitri rive-lò a Rosenbaum che «Laura è totalmente originale,molto diverso dal punto di vista letterario dal resto

della sua opera». «Il distillato più concentrato dellacreatività di mio padre. Il suo romanzo più brillan-te», aveva aggiunto. «È giusto privare il mondo diquesto capolavoro?», si chiede adesso Rosenbaum.

Eppure l’unica cosa certa del libro è che consi-ste in 50 schede di pugno di Nabokov, un testopari a circa una trentina di pagine convenzionali dimanoscritto. Anche la tesi di Rosenbaum secondocui il romanzo si ispirerebbe a due Laure del pas-sato (l’omonimo film di Otto Preminger del 1944e la Laura del Petrarca) è stata demolita da Dmitri.«È la storia di un individuo che invecchia, ma nonha perso l’amore originale per la vita», teorizzaZoran Kuzmanovich, docente di inglese alDavidson College in North Carolina e direttoredella rivista Nabokov Studies, reduce da un semina-rio in cui, alla fine degli anni Novanta, DmitriNabokov ne lesse un brano. Mentre in un sondag-gio istantaneo i lettori di Slate si sono spaccati indue sul da farsi, la sorte di Laura ha diviso anche ilmondo letterario americano, che negli ultimi tempisi interroga sempre più spesso sul diritto disopravvivenza dei romanzi postumi. Il mese scor-so ha suscitato polemiche la decisione di TessGallagher, vedova di Raymond Carver, di pubbli-care le opere originali del marito, pesantementetagliate dal suo editor Gordon Lish quando era invita. E ad agosto ha fatto scalpore l’uscita dellaversione integrale del leggendario romanzo di JackKerouac Sulla strada, mai pubblicata prima a causadelle pressioni maccartiste per il suo contenuto disesso gay, pedofilia, parolacce e misoginia. Da allo-ra gli eredi di autori quali Hemingway, Steinbeck,Heller, Austen e Tolstoj hanno manifestato l’inten-zione di ripubblicare le versioni originali dei capo-lavori dei loro celebri defunti.

Nabokov al rogo? Caso riaperto

Alessandra Farkas, Corriere della Sera, 19 gennaio 2008

Da Kerouac a Carver: scontro sulla sorte dei manoscritti postumi

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«Salviamo i testi». «No, sono inutili»Stefano Bucci

Da una parte ci sono l’Eneide e l’opera omnia di Kafka, destinate dagli stessi autori alla distruzione e poi salvate peril bene dell’umanità. Dall’altra, ci sono i recenti casi degli inediti di Kerouac e di Carver mandati in stampa, nonsenza critiche e nonostante i divieti in precedenza imposti. Meglio, insomma, bruciare o pubblicare? «Come scrit-tore sono perplesso davanti alla pubblicazione di un inedito che doveva essere distrutto – dice Edoardo Sanguineti–. Come critico la trovo invece opportuna perché fornirà nuovo materiale di studio e di approfondimento».Sanguinetti cita Virgilio e Kafka («non abbiamo seguito la loro volontà e abbiamo salvato capolavori»), analizza lareale volontà degli scrittori («non sono morti in disgrazia, se davvero avessero voluti distruggerli lo avrebbero fattoloro stessi»), del reale valore di questi inediti («lo giudicheranno i posteri,, per adesso leggiamoli»).

Secondo Franco Cordelli «se Nabokov, che era un uomo consapevole, aveva deciso di far distruggere quegli scrit-ti avrà avuto le sue ragioni». E aggiunge: «a parte poche grandi eccezioni i postumi non hanno mai aggiunto un gran-ché alla conoscenza di uno scrittore». Invece di pubblicare i postumi o di ripubblicare sempre classici, sarebbe megliomandare alle stampe opere che non sono state mai edite. Penso a Look at the Harlequins! l’ultimo romanzo di Nabokovmai uscito da noi». Giulio Ferroni sottolinea le differenze («il caso di Petrolio di Pasolini è diverso: doveva uscirepostumo, non doveva essere distrutto») anche di momento storico. «Un tempo – dice – era difficile rispettare que-sta volontà di distruzione. Oggi, nell’epoca in cui tutto diventa visibile, si cerca di pubblicare tutto. Se fossi l’autoremi arrabbierei, ma come critico anch’io dico, aspettiamo di averlo letto. Ma dico anche: non facciamoci prendere dellavoglia della pubblicazione dell’inedito a tutti i costi che sta sempre più prendendo editori e critici».

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Quale beverone sortisce se si mixanoRosemarie Altea, sibilla del paranormaleche intreccia vivi e morti in nome di un

amore senza tramonto, ed Erich Segal, fine anti-chista autore per caso di Love Story, dove Eros eThanatos si abbracciano in una fruttifera stretta?Pura ambrosia, almeno in Francia, dove gli chefelaborano le salse più squisite e l’amore romanticoha il suo nido più antico. La versa a piene maniGuillaume Musso che, dopo i successi mietutianche in Italia con Sonzogno, approda ora aRizzoli, con Quando si ama non scende mai la notte. MaMusso è soltanto l’esempio più recente dell’inva-sione di campo dei maschi che, non paghi didominare la cucina, si prendono la leadershipanche nella narrativa sentimentale. Un tempo restiia firmare con il proprio nome storie d’amor genti-le, irrompono ora con intrecci castamente arabe-scati, spesso giocati sul sorgere nel quotidiano diuna fiaba inquietante di impalpabile matrice. E,non soddisfatti di fermarsi al narrato, si protendo-no in intimità verso un pubblico non solo femmi-nile, porgendo linee guida di lettura, proponendo-si come confidenti e offrendosi compiacenti inpasto ai media. Trentaquattrenne, docente di eco-nomia ma addicted alla letteratura, Musso immer-ge le proprie vicende nel soprannaturale e nelmeraviglioso, attingendo a un romanticismo affinea quello che fu di Malombra o di Piccolo MondoAntico, spogliato però di ogni riferimento luttuosoma denso di gioiosa malinconia. Nel suo ultimoromanzo, pur proponendo dell’«altrove»spiegazioni vagamente scientifiche e introducendoscaltramente molti elementi di cronaca, miscela il

tutto a un senso arcano del destino, tradotto in ci-frari simbolici e in una rete misterica di coinciden-ze. Il tutto in un linguaggio quasi elementare, talo-ra rozzo ma di notevole impatto. Piace anche acerti ambienti cattolici questo scrittore, perchénelle sue pagine l’amore si espande dalla coppia ailegami parentali, sempre presenti. Un’attualissimamarca di genere riscontrabile in tutto il rosa dinuova generazione.

Con noncurante signorilità gareggia con luiMarc Levy, parigino di nascita e londinese di elezio-ne, dotato di un cattivante physique du role. Fortedi una scrittura leggera e densa, sfumata di ironiasoprattutto nei dialoghi, Levy si prende sul serioquel tanto che basta per proclamare la propriaestraneità a qualsiasi tentazione di letteratura alta.Una scrittura cinematografica, una sorte toccata direcente a Se solo fosse vero, la cui tematica, ripresa inSe potessi rivederti, si concentra sull’esistenza fanta-smatica, su una corrispondenza di amorosi sensiche s’impone come uno dei misteri più insondabilidi una vita volta ad accogliere nei propri limiti l’in-finitudine dell’ignoto. Non sorprende allora cheLevy sia stato definito il Coelho francese. E se inAmici miei, miei amori (tr. F. Bruno, pp. 315, €16,60),il suo romanzo più recente, pubblicato come sem-pre da Corbaccio, l’autore sospende questo tema,lo fa solo per sfondare la monade della coppia eaprirla lui pure all’amicizia e alla famiglia. E ilromantico casto andare dei francesi non si esauri-sce qui. Più silenzioso, meno disposto a concessio-ni mondane, Philippe Delerm, del quale esce ora Ilsapore delle fragole (tr. E. Riva, Frassinelli, pp. 151,€14), condivide questo clima arcano in storie

Adesso l’amore lo racconta lui

Mia Peluso, Ttl – La Stampa, 19 gennaio 2008

Gli scrittori rosa. Un genere invaso dai maschi con storie che intrecciano con furbizia romantici-smo e fiaba, dolori e speranze

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d’amore appena sussurrate che si svolgono in pae-saggi rarefatti dove ogni particolare è denso dirichiami e di reconditi significati, quasi la naturafosse l’epifania di un linguaggio divino offertosubliminalmente all’interpretazione.

Di fronte all’avanzare dell’armata francese, nonmolla la presa l’americano Nicholas Sparks, eletto«autore più sexy del mondo», sempre sulla brecciaa molcire le fan col suo suadente sorriso e fascinoanomalo di una vita assolutamente comune. Sparitinelle nebbie Erich Segal e il Robert James Waller diI ponti di Madison County, quest’autore prolifico simantiene fedele alla tradizione maschile del rosad’oltreoceano, confezionando storie d’amore su unfondo di sofferenza, narrando i piccoli eroismi delquotidiano e opponendo ai colpi avversi del desti-no l’elegia degli affetti. Il suo ultimo romanzo,Ricordati di guardare la luna, non sfugge alle regole esi attiene al formulario consueto.

A esternizzazioni di vario genere con il propriopubblico si prestano volentieri assai anche i diviitaliani del rosa, che i furori metapsichici non se lisognano neppure e non hanno soverchie propen-

sioni al tacer casto. Incerto nelle sequenzedescrittive ma abile forgiatore di dialoghi, FedericoMoccia fa scivolare nelle sue pagine note di bona-ria casalinghitudine. Come Fabio Volo, l’altroautore cult di casa nostra, possiede l’abilità diacchiappare trame seducenti, condite da un’accor-ta dose di sesso distribuito con mano leggera. Equando mette di fronte, come in Scusami ma ti chia-mo amore (la cui versione cinematografica esce inquesti giorni), un adulto e un’adolescente, assegnaalla ragazza la funzione di mentore, sovvertendo lecoordinate tradizionali. Poliedrico trentenne tut-t’altro che bamboccione, Fabio Volo è senz’altropiù divo nel suo ostentato antidivismo.Ammantandosi fieramente della sua lacunosa sco-larizzazione, da autodidatta onnivoro e vorace,assapora la gloria grazie al recentissimo Il giorno inpiù. Bello l’intreccio, anche se immerso in una tor-renziale verbosità da guru mediatico. Da Parigi aParigi attraverso New York, Volo veleggia con abi-lità furbetta, tra moti del cuore e moti dell’intesti-no: la celebre defecazione di Bloom nell’Ulisse diJoyce ha forse trovato uno strabordante cultore?

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La foto è celebre. Bruno Munari che disegnacon la luce. Un turbinio di circonferenzeluminose; fili sottili nell’aria e flash; svirgola-

ture di un folletto a braccia aperte. Sembra che ildesigner galleggi sospeso per aria, producendovisioni con semplici gesti della mano: magia delsegno, segno della magia. Nessuna immagine rendecosì bene il senso del lavoro di Bruno Munari, natoa Milano nell’ottobre 1907 – oggi avrebbe cent’annie tre mesi. La mostra aperta alla Rotonda dellaBesana, sino al 10 febbraio (Bruno Munari, a cura diBeppe Finessi e Marco Meneguzzo, catalogo SilvanaEditoriale, pp. 159, € 32,00), lo festeggia nella suacittà, un esempio perfetto di come coniugare cultu-ra e didattica: semplicità nell’esporre contenuti com-plessi. Come scrivono i due curatori, il lavoro diMunari non può ancora essere archiviato nel catalo-go della storia, resta aperto perché ancora contem-poraneo. Contemporaneo, ovvero «con-tempo»,nello stesso tempo, contrapposto ad «attuale», ciòche è in atto, passato dalla potenzialità alla realizza-zione, secondo il dettame aristotelico. Bruno Munariè sempre “nello stesso tempo”, e mai in atto; il suolavoro esprime infatti l’assoluta potenzialità del fare:realizzazione virtuale. Detto altrimenti: il suo design– attività a cui si è dedicato in forma piena solo tardi,negli anni Sessanta – è concettuale, un processoaperto che resta per sua stessa natura in fieri. Nons’invera in oggetti. Piuttosto li produce, ma poifugge via, perché il concetto che c’è dentro – o fuorio sopra o sotto o a fianco – non si riconduce com-pletamente all’oggetto.

Sono idee. Non so bene se nel senso platonico deltermine – Munari non è un filosofo; o forse no: è un

pensatore, uno che fa opere di pensiero. Insomma,Munari è l’anello mancante tra il Moderno e ilPostmoderno, il punto di passaggio dal razionalismodi forma-funzione al decorativismo sovversivo diMemphis; ma anche l’anti-Sottsass, per dire del gran-de designer scomparso da poco: per Sottsass l’emo-zione viene prima della funzione, per Munari, all’op-posto, la funzione crea l’emozione. Il suo approccioalle «cose» – libri, fontane, mobili, lampade, graficaeditoriale, ecc. – è sornione, come ha scritto MarcoMeneguzzo in un bel libro a lui dedicato, Bruno Muna-ri, uscito nel 1993 da Laterza (che andrebbe ristam-pato). Usa l’ironia, ma non nel senso postmodernodel termine, bensì moderno: vuole smascherare leconvenzioni, non per irriderle o smontarle, piuttostoper spiazzarle, senza mai negarle. E lo spiazzamentoè, come nella foto coi gesti di luce, uno stare sospesinell’aria, fare segni con una lampada, segni visibili, einsieme invisibili, che l’occhio vede, eppure non fissa,e che l’istantaneità paradossalmente fa durare. La dia-lettica è tra leggerezza e solidità, tra visibile e invisibi-le, tra forma e funzione.

Quale funzione hanno dei segni fatti nell’aria onell’acqua?, si chiede Munari. Nessuna: sono deiprocessi mentali versus processi reali. Più vicino aCage che non a Duchamp – anche se con quest’ul-timo condivide l’idea di «spiazzamento linguistico»– Munari ha svolto una sostanziale critica dell’idearomantica di artista, ancora così pervicacementepresente nelle teste di molti.

La mostra milanese con il suo sottotono, l’appa-rente didatticismo (tutto munariano) dell’allesti-mento, e con il laboratorio dei bambini al centro(un’invenzione di Munari stesso, una sua grande

Da cosa nasce Munari

Marco Belpoliti, Alias – il manifesto, 19 gennaio 2008

È stato l’anello di congiunzione tra il razionalismo dei moderni tutto forma-funzione, e l’emozio-ne di Sottsass. I suoi oggetti (libri, fontane, mobili, lampade) smascheravano le convenzioni senzaperò mai negarle. E alla rotonda della Befana si può ammirare il suo vero lascito di utopista con-creto: il superamento dell’antitesi artista/designer

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lezione pedagogica, a partire dal 1977), ci fa vedereproprio quello che è il lascito maggiore di Munari: ilsuperamento dell’antitesi artista/designer (lezioneche i postmoderni seguenti, zitti zitti, hanno fattopropria). L’arte non pone regole, il progetto viveinvece di regole. Munari non è un utopista, o meglio,la sua utopia è sempre concreta. In questo è unantiplatonico, più aristotelico di Aristotele. L’arte èatto individuale, il design un fatto collettivo, anchequando è il prodotto di un singolo. Ecco la sua seris-sima proposta di istituire il premio del Compassod’oro da consegnare a «ignoti»: il creatore della sediaa sdraio, delle forbici del sarto, della pinza del vetrini-sta, del treppiedi dell’orchestrale, ecc. Il miglior pro-gettista, ripeteva, è quello che viene dimenticato, purcontinuando a esistere i suoi oggetti.

Si può dire che Munari è il Perec del design:votato alla contrarietà, alla sfida imposta dalle re-gole, che segue pedissequamente eppure contrav-viene. Tuttavia la variazione che contraddice la co-strizione è nascosta: leggera, invisibile,imprendibile. Un autore dopo la mortedell’Autore. Per questo è così simpatico, così leg-gero, così fine: finge di non impegnarci, e ci impe-gna. Per dirla con Caillois, teorico del gioco,Munari è per il game, fingendo di fare del play.Regole ferree che si nascondono nel «trastullo», il«divertimento». E in effetti si «diverte», gira laregola contro sé stessa.

Ecco le bellissime lampade, in cui il packaging,l’imballaggio, è già una forma, e insieme una fun-zione: la lampada si piega e ripiega, ed entra perfet-tamente nel sottile cartone che la contiene. Aperta sidispiega: piegarsi, ripiegarsi e spiegarsi sono i treverbi della sua attività di scrittore di libri (bellissimi,inventivi, didattici e insieme trasversali, tutti editi daLaterza, ma anche da Corraini, suo appassionatosponsor. Artista e designer, Fantasia, Da cosa nasce cosa...Design come comunicazione visiva, le lezioni a Harvardnel 1967). Paolo Fossati, suo acuto interprete inCodice ovvio – il libro-riassunto di Munari uscito nel1971 da Einaudi (vetrina del suo pensiero e pensie-

ro che si mette in vetrina) –, ha spiegato in modomirabile nella postfazione (assente dalla recentissimaristampa Einaudi a tiratura limitata) la differenza traartista e designer: il primo «stacca il suo prodotto dalflusso fenomenologico o fisico o psicologico, collo-candolo in opposizione ad esso sia come rispec-chiamento, sia come definizione culturale»; il secon-do (cioè Munari) «resta in quel flusso, lo chiariscenella sua dimensione specifica, nella sua qualità diconoscenza e di riconoscibilità, e la definisce e inten-sifica in quanto tale: che è poi anche una pedagogiavisiva». Meravigliosa doppia definizione che ci per-mette di capire la specificità stessa dell’arte italiana,la sua intrinseca parentela con il design. Meglio:come il design – nel caso di Munari, e di AchilleCastiglioni, Sottssas, Enzo Mari, ecc. – nasca instretto rapporto con l’arte, ma rovesciandone lamodalità stessa d’azione. I designer italiani, a diffe-renza di quelli svedesi, o danesi, non produconooggetti, ma incrementano il flusso, lo evidenziano elo punteggiano d’opere. Tutto quel che fanno – la‘modernità postmoderna’ di Munari – resta semprein contatto con la conoscenza e la riconoscibilitàEcco perché davanti a una lampada di Castiglioni, auna libreria di Mari o all’Abitacolo di Munari, si ha lasensazione di averlo già visto; un’impressione difamiliarità, ovvero la riscoperta di quel flusso cuiappartengono le chiese romaniche e i templi baroc-chi, l’affresco della chiesetta di campagna come ilTempio Malatestiano – e naturalmente i quadri diBoccioni e di Morandi, ma anche i segni di GiulioPaolini e i sacchi di Burri o le putrelle di Kounellis.

Munari è uno dei padri del design italiano.Meglio: ne è lo zio, visto che come parente latera-le, né padre né madre, può praticare il proprioeccentrico nomadismo culturale, sviluppare la suanicchia progettuale, divertirsi e farci divertire,senza quasi pagar dazio. Ex-futurista comePalazzeschi, è l’autore di una Sedia per sedute brevis-sime, che come molte sue creazioni accorcia iltempo dell’azione e al tempo stesso la prolunga inuna infinita, ma leggerissima, coazione a ripetere.

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Povero Norman Mailer! Se n’e andato colrimpianto di non aver potuto realizzare ilsuo sogno di scrivere «The Big Novel» e,

negli ultimi anni, ha più volte cercato di dare lacolpa alle troppe mogli e ai figli ancora più nume-rosi che lo avevano costretto a sfornare manoscrit-ti a grande velocità. Non si era mai accorto, forse,che erano scomparsi i tempi di libri come Guerra epace, Via col vento o solo Il grande Gatsby, opere cioèvenute tutte intere dalla creatività di uno scrittoree benedette dal successo genuinamente tributatodal pubblico.

Il bestseller oggi è un prodotto industriale atutti gli effetti, nel quale gli addetti al marketing ealla pubblicità possono anche prendere il so-pravvento sull’editor e sullo stesso autore.Copertine, titoli, caratteri, tirature sono spessodecisi dagli addetti al marketing magari in combut-ta con certi dirigenti di grandi reti librarie. Il modoin cui si prepara e si lancia un testo di grande –possibile – successo è ben illustrato dal caso delgiallo Child 44 che tra poco arriverà nelle librerie dimezzo mondo (in Italia lo dovrebbe pubblicare,con il titolo di Il bambino n. 44, l’editore Sperling &Kupfer). In questo caso all’inizio c’è ancora ungiovane che, al momento di lasciare la CambridgeUniversity dove si è appena laureato, decide di farcarriera scrivendo sceneggiature per la tv e il cine-ma. Tom Rob Smith, questo il nome dell’autoredel libro (nato nel 1979 da madre svedese e padrebritannico, un passaggio di studi anche in Italia, aPavia per perfezionarsi), dopo qualche tempo,mentre si trovava in Cambogia per lavorare a unasoap su commissione della Bbc World, aveva scrit-

to il giallo che ora diventerà Child 44, ambientatonella Russia del 1953. Il protagonista della storia èun agente del Kgb di nome Leo che ha sempreeseguito tutti gli ordini di Stalin senza fiatare fin-ché un giorno vede torturato un suo conoscenteche sapeva innocente e il giorno successivo deveaddirittura arrestare per spionaggio la sua stessamoglie. Ma i capitoli più terrificanti del libro sonoquelli dedicati alla carestia del 1933 in cui milionidi contadini morirono di fame: ci sono scene dipovertà e durezza estreme. In una due ragazziammazzano l’amato gatto e riducono in trucioli glistivali del padre di uno di loro per cercare di farneuna minestra, in altre sono descritti anche casi dicannibalismo.

Bene. L’agente di Smith suggerisce al suo auto-re di usare la storia per un romanzo, perché per latv la Russia del 1953 è un po’ troppo lontana.Detto fatto: da un rapido sondaggio il romanzo ri-sulta appetibile per Simon & Schuster che ne lan-cia l’edizione inglese. Resta da dragare l’ambitissi-mo mercato americano. Grand Central Publishinge Little Brown – che l’imprenditore-armatoreLagardére aveva acquistate da Warner Books –erano interessate al libro. Ma prima di comprarelibro, secondo Jamie Raab di Lagardére, e di paga-re un milione di dollari di anticipo per i dirittimondiali era necessario rimandare il lancio di Child44 di almeno un anno per trovare non soltantocoeditori in almeno una ventina di nazioni – cosache poi è successa – ma anche superdistributori eproduttori cinematografici e televisivi aHollywood. Child 44 ora infatti avrà due lanciseparati. L’edizione rilegata sarà lanciata a maggio

44 mosse verso il successo

Mauro Calamandrei, Domenica – Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2008

Il thriller di Tom Rob Smith sta per uscire in America. Ma gli editori, prima di accettarlo, hannopreso accordi con produttori cinematografici e catene di distribuzione come Wal Mart

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con l’aiuto di Costco e di Wal Mart; quella inpaperback in data ancora da precisare. Né Costconé Wal Mart sono librerie: Costco è una rete diparecchie migliaia di magazzini dove si vendono aprezzi ridotti migliaia di oggetti; Wal Mart, cometutti sanno, è la più grande compagnia del mondodi vendite al dettaglio. In molte località, dunque,montagne di Child 44 saranno posizionate e ven-dute non tra gli scaffali dei libri ma insieme adaccendini, chewingum e ventilatori. Ma ancor piùessenziale per il lancio del libro dell’alleanza conWal Mart e Costco è stato il gemellaggio stipulatocon la casa cinematografica Fox 2000 di RupertMurdoch e col produttore e regista Ridley Scottche ha recentemente lanciato alcuni dei film piùpopolari della stagione. Scott ha creduto nel libroe ne ha acquistato i diritti: il film non compariràsugli schermi probabilmente fino al 2009, ma dalprimo giorno in cui aveva acquistato i diritti, l’uf-ficio stampa di Ridley Scott non fa altro che man-dare comunicati per ricordare il prossimo avventodel libro, in modo che la suspense mediatica siacreata ad arte. Nel frattempo il celebre sceneggia-tore Richard Price sta già approntando lo storybo-

ard del film. Allo stesso tempo è risultata crucialeanche la decisione di dare a Tom Rob Smith unaltro mezzo milione di dollari di anticipo in cam-bio dell’impegno a scrivere il sequel di Child 44,cosa che l’autore sta facendo in questi mesi. Inquesto momento Tom Rob Smith non è certo unautore ricercato quanto David Baldacci, JohnGrisham o Dan Brown e senza la pubblicità che glifaranno Wal Mart e Costco e i produttori diHollywood, i proprietari di grosse reti di libreriecome Barnes & Noble avrebbero potuto avere latentazione di ignorare Child 44 o, quanto meno, ditrattarlo come tanti altri libri. Ma la visibilità cheha già acquistato con l’annuncio del film, quasisicuramente assicurerà a questo giallo enormispazi anche nelle grandi librerie di catena. Non èun caso che i resoconti più dettagliati delle varievicende di questo thriller – che poi magari si rive-lerà un fiasco colossale – sono arrivati quasi daHollywood e dintorni più che dagli ambienti edi-toriali. Insomma a questi livelli libri, spettacoli epubblicità «sembrano sempre più ibride facce dellastessa realtà», come ci spiega un esperto di editordi una casa editrice tradizionale.

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Non esiste in letteratura espressione piùpericolosa e meno tollerata di «giovanescrittore». Nessuno sa neppure cosa

significhi esattamente (è una categoria anagrafica,estetica, sociologico-merceologica?) eppure daglianni Ottanta – Pier Vittorio Tondelli docet – infe-sta le cronache culturali nazionali. E allora, ancorauna volta, torniamo a chiederci: chi saranno i «gio-vani scrittori», dal punto di vista anagrafico o edi-toriale, protagonisti di questa stagione leteraria?Cosa ci riserva il 2008 sul fronte della narrativa? Esul fronte editoriale? Lo abbiamo chiesto a ungruppo di critici letterari. Categoria, se possibile,ancora più negletta di quella dei «giovani scrittori».

Avendo letto, nell’anno appena trascorso,Everyman di Philip Roth e La strada di CormacMcCarthy, c’è chi ritiene di aver chiuso i conti conla Grande Letteratura. Per il 2007 e forse ancheper questo 2008. Narrativamente parlando il dub-bio è che tra la produzione letteraria statunitense equella italiana da parecchio tempo non ci sia pos-sibilità di confronto. La differenza di vedute èquella che passa tra un attico su Central Park, NewYork, e un bilocale con abbaino sui GiardiniMontanelli, Milano. Da una parte la triade piùdebole è composta da Wallace-DeLillo-Palahniuk,da noi ad andar bene è Piperno-Scurati Saviano ead andar male è Faletti-Moccia-WuMing. Meglioandare a capo.

*

«Giovani scrittori» è una di quelle espressioni cheda quando è morto Erich Linder fa venire il mal di

pancia a tutti gli editor d’Italia. Figuriamoci a edi-tori, critici, recensori, giornalisti. E lettori. Allostato attuale pochissimi li vogliono pubblicare, eancora meno li vogliono leggere. E per i «grandivecchi», a parte rare, rarissime eccezioni (Magris?La Capria?) le cose vanno appena meglio. Per ilresto, rimangono quei due tre «casi letterari» a sta-gione – da Faletti a Piperno da Ammaniti aSaviano – che saccheggiano librerie, recensioni,premi, traduzioni e soldi. Stop. Anno nuovo, vitadura. Mentre in questi mala tempora di post moc-cismo, la critica militante tradizionale – come hanotato una brillante penna del manifesto – assomi-glia sempre più a una guida gastronomica col criti-co che assegna le tre forchette al prodotto miglio-re, la narrativa italiana fatica a uscire dal frustranteritornello secondo il quale «gli italiani non sannoraccontare il mondo», «non abbiamo narratori co-me gli americani», «da noi escono solo romanziusa-e-getta», «tanta carta sprecata e occasioni per-dute». Un po’ come il nostro cinema, se non peg-gio. Qualcuno ha azzardato quali siano i requisitinecessari per «fare buona letteratura», e cioè: 1)non solo raccontare il mondo in cui viviamo, maprovare a dargli una forma (la lingua) e un conte-nuto (la sostanza); 2) saper rischiare, mettendosi ingioco, con la coscienza che la Letteratura non èuna comoda via che porta ai talk-show ma unastraordinaria e pericolosa possibilità di conoscen-za dell’Uomo; 3) saper creare personaggi più veridi quelli reali e «inventare» uno stile unico, preciso,anche spiazzante ma che abbia carattere; 4) guar-dare con passione violenta dentro al cuore umano

Non ci sono più i giovani scrittori di una volta

Luca Mascheroni, il Giornale, 20 gennaio 2008

Perché la narrativa «made in Usa» ha un respiro molto più ampio e profondo della nostra?Rispondono i maggiori critici italiani. Che non risparmiano editori ed autori, dai quali si aspet-tano un 2008 «frizzante»

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e non solo attorno al proprio ombelico; 5) nonscrivere per Antonio D’Orrico ma per i posteri.

*

E i critici? Che cosa dicono i critici? Chi sono – seci sono – i «giovin scrittori», gli eroici salvatoridelle Patrie Lettere, i cavalieri senza Moccia e sen-za paura che sfilano in parata lungo i gloriosi vialidella Letteratura? Carla Benedetti – critica temutae temibile – accetta di compilare l’elenco dei titolida salvare del 2007: Succulente di Luisa e FulvioErvas, un giallo botanico di uno strano fascinoscritto da due fratelli del Nord-Est; il lungo rac-conto di fantascienza Sirene di Laura Pugno; Il buiodel mare di Ron Kubati, albanese che scrive in ita-liano; Dio non ama i bambini di Laura Pariani. Perquesto 2008, invece, «mi aspetto, come al solito,qualcosa di grande da un ignoto. E poi non vedol’ora di leggere la terza parte dei Canti del caos diAntonio Moresco, il più grande romanzo deinostri tempi». E su Moresco, come è noto, sipotrebbe aprire un capitolo infinito su chi lo con-sidera il più grande scrittore italiano vivente e chisolo un grande illeggibile. Enzo Golino, il «deca-no» più implacabile della nostra critica, nel 2007 haapprezzato Napoli Ferrovia di Ermanno Rea,L’estranea di Elisabetta Rasy, Non avevo capito nientedi Diego De Silva, Prima esecuzione di DomenicoStarnone, Rosso vermiglio di Benedetta Cibrario,Troppi paradisi di Walter Siti, Un saluto attraverso lestelle di Marisa Bulgheroni, Gomorra di RobertoSaviano: «quattro cinque titoli sono di autori nati aNapoli e dintorni, e questo è indice di una tenden-za davvero spontanea. Dopo la canzone, il teatro eil cinema, la creatività napoletana rinasce (unRinascimento che non è quello bassoliniano, percarità!) anche in letteratura. E poi aspetto conmolta curiosità il nuovo romanzo di ValeriaParrella, oltre ad augurarmi che spunti all’oriz-zonte un libro – a quale generazione appartengal’autore non ha importanza – che rompa conven-zioni narrative e faccia circolare spifferi di aria fre-sca nelle stanze dell’industria editoriale». Da partesua, Ermanno Paccagnini, il critico più attento alla«nuova» narrativa italiana, tra le sorprese positivedella scorsa stagione segnala da un lato gli esordidi Alessandro De Roma con Vita e morte di LudovicoLauter e di Annalena Manca con L’accademia degliscrittori muti; dall’altro, tra gli autori già sul campo,ha apprezzato il cambio di rotta introdotto dall’ul-

timo Diego De Silva. Altri? Tra gli stranieri chescrivono in italiano salva Ron Kubati, tra le vocifemminili Rosella Postorino e Lucrezia Lerro, tra iromanzi «colti» L’armatura di Franco Cordero e Ilcorrettore di bozze di Francesco Recami. «Per quantoriguarda l’anno che inizia quello che cerco è laconferma di un buon romanziere attraverso un bellibro, indipendentemente dai nomi, che siano unButtafuoco, un Piperno o altri». Infine Filippo LaPorta, critico accusato di preferire la saggistica airomanzi. Il quale in realtà si dice semplicemente«molto fiducioso nella scrittura ibrida, nei testinon classificabili che mescolano i generi, come aesempio Piergiorgio Bellocchio in Al di sotto dellamischia, un libro in bilico tra racconto, autobio-grafia, satira sociale, critica letteraria».Parzialmente deluso lo scorso anno da Come Diocomanda di Niccolò Ammaniti e Strada provinciale tredi Simona Vinci – «autori discontinui che alterna-no parti ispirate ad altre più velleitarie ma che miinteressano perché rischiano, non si chiudononella prigione dorata della bella pagina né si rifu-giano nella retorica della inabitabilità del mondoma provano a raccontarlo miscelando gerghi emitologie della contemporaneità» – salva La kryp-tonite nella borsa, un romanzo umoristico e poeticonel quale Ivan Cotroneo riusa il melò e il folclorenapoletano in chiave surrealista e visionaria, e poiIl sorcio di Andrea Carraio, un romanzo duro, pernulla consolatorio, che va alla radice delle cose.«Che cosa mi aspetto nel 2008? Attendo concuriosità un romanzo in uscita a marzo di ChiaraTozzi, che anni fa pubblicò dei bellissimi raccontidi ispirazione “carveriana”, e Sardinia blues diFlavio Soriga, un sardo che al contrario di Niffoifinalmente usa il suo arsenale linguistico per con-frontarsi con la modernità, lo spaesamento e l’as-senza di radici. Certo, poi c’è da leggere il nuovoromanzo di Piperno, anche se del primo non miconvinceva la lingua, e soprattutto Contronatura diMassimiliano Parente che esce tra poco. Vedremo.Di certo scommetto su Luca Doninelli, uno scrit-tore che maneggia molto bene i temi forti: mipiace la sua asprezza, la sua drammaticità moltopoco italiana».

Ecco, allora è vero! Gli americani filosofeggia-no di Vita, Morte, Vecchiaia, Dolore,Disperazione mentre gli italiani perlopiù chiac-chierano di beghe da cortile, saghe&seghe familia-ri, storie di cosa nostra e affari di cose loro. «No,no – corregge La Porta – a parte il fatto che anche

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noi fino all’altro ieri avevamo scrittori universali, epenso a Calvino, o Sciascia piuttosto che laMorante di Menzogna e sortilegio... comunque ilpunto non è opporsi a priori alla narrativa minima-lista o intimistica. Ogni autore deve seguire la pro-pria ispirazione. Ad esempio Andrea De Carlo,che pure non leggo da anni, quando fa il moralistanon è credibile. Al contrario, quando AndreaCarraro racconta del suo ambiente di lavoro, labanca, rimane sì all’interno di un microcosmo mache rispecchia il mondo. La scommessa, per unvero scrittore, è di estrarre dalla propria visionesoggettiva qualcosa che interessi tutti».

«Certo, l’ombelicalità nelle versioni più pedestrie caserecce è una sciagura – concorda Golino – mase un narratore possiede abbastanza immaginazio-ne, capacità stilistica, profondità interiore, espe-rienza vissuta, può scrivere pagine straordinarieanche partendo dal salotto di casa o dal suo quar-tiere. Insomma, anche l’ombelicalità a volte èmotore di narrazioni eccellenti... Gli indifferenti puòessere analizzato sotto la prospettiva ombelicale,ma di sicuro con questo romanzo Moravia hascritto un capolavoro del ’900; e così Ferito a mortedove l’ombelico dei circoli nautici napoletani e diPalazzo Donn’Anna ha consentito a La Capria discrivere un romanzo europeo». «Gli elementi cen-trali della nostra narrativa – precisa Paccagnini –spesso sono i problemi della famiglia, della coppiao i disagi sociali ma a volte si riesce a guardareverso l’alto. Lo scorso anno non abbiamo avutonulla che possa stare al pari dell’ultimo libro diMcCarthy, ma l’anno prima è uscito Alla cieca diMagris».

*

Ricapitolando: gli scrittori italiani veri esistono, enon sono pochi; sono capaci anche di parlare ditemi forti e non solo dei loro mal di pancia; e c’è

speranza che le cose, quest’anno, vadano ancorameglio. I nostri critici sono implacabili nell’abbat-tere tutti i luoghi comuni che infestano la narrati-va italiana, anche il peggiore: e cioè che le grandicase editrici, ossessionate dalla ricerca del best sel-ler, rischiano poco sulla narrativa italiana succhia-no idee e nomi ai piccoli editori... A CarlaBenedetti semmai pare vero il contrario: «Ci sonopiccole case editrici coraggiose e altre che inveceripetono i formati del mercato. L’essere piccolonon è garanzia di nulla. E a volte succede persinoche a osare di più sia un grande marchio». E LaPorta è convinto che «lo spazio c’è, eccome: se unautore vale, trova sempre qualcuno che lo pubbli-ca: se non sono i grandi marchi c’è la collana“Nichel” di minimum fax o “Evasioni” di Gaffi,poi c’è Fazi, c’è Perrone, Coniglio, Pequod,Sironi... Mai come oggi il manoscritto di uno sco-nosciuto ha la possibilità di essere perlomeno lettoda un editore».

Per Golino «meno male che c’è questa ossessio-ne! Come farebbe una casa editrice a pubblicarecollane di scarsa redditività se non disponesse dititoli ad alta penetrazione e diffusione nel mercatodei lettori? Il prodotto, nelle sue articolazioni indu-striali e commerciali, deve soddisfare l’élite e lamassa». E a Paccagnini la rincorsa al best seller nonfa né caldo né freddo: «È anche giusto che lo cer-chino, purché non diventi l’unico obiettivo. Dicerto noto che è tornata l’abitudine delle grandicase di pescare nelle piccole: ad esempio, Rizzoliche prende un Igino Domanin da Pequod oBompiani un Flavio Soriga partito anni fa da IlMaestrale... E comunque è innegabile che le propo-ste più interessanti negli ultimi tempi le ho trovatetutte nelle piccole sigle: Il Maestrale appunto, e poiHacca, Pequod, minimum fax, Fazi quando nonsbraca e le stesse Sironi o Avagliano anche se ulti-mamente calibrano meno le loro scelte. Forse addi-rittura il rischio oggi è la iperproduttività». Come

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«Sarebbe meglio stroncare solo i forti»

Intervista a un battitore libero. Alfonso Berardinelli collabora a tre quotidiani ed è fra ipochissimi ad avere mano libera sui libri di cui parlare (o sparlare)

Alfonso Berardinelli è, inesorabilmente, il «principe» della critica letteraria in Italia. Serio, autorevole, persino ele-gante. Uno dei pochi che può scrivere ciò che vuole, quando vuole, sul libro che vuole. Un vero privilegio, di que-sti tempi. Già firma storica di innumerevoli testate, oggi collabora con Il Foglio (cosa che gli ha procurato parecchieinimicizie – o invidie? – a sinistra), l’inserto culturale del Sole 24 Ore e Avvenire.

Berardinelli, è ancora possibile fare critica letteraria sui giornali?«La possibilità non va esclusa a priori. Però, salvo eccezioni, mi pare che i giornali non vogliano i critici. Né tantomeno un critico ufficiale come un tempo. Perché? Preferiscono i recensori, molti e possibilmente che scrivano recen-sioni veloci, poco impegnative, poco pagate e scritte per lo più avendo appena annusato i libri. Questo tipo di recen-sore, dato che si impegna poco, è più facile che prenda ordini dalle redazioni. In realtà, invece, come disse EdmundWilson, un critico per funzionare dovrebbe essere pagato abbastanza da poter fare solo il lavoro di recensore».

È per questo che ha deciso di passare al Foglio di Giuliano Ferrara?«Con Il Foglio mi è accaduto per la prima volta di avere totale libertà nella scelta degli argomenti, nella misura del-l’articolo e di essere pagato decentemente».

Per questo la accusano di essere un «traditore»: un intellettuale di sinistra che scrive per Berlusconi.«Ma perché lo dicono solo a me, se Il Foglio è pieno di gente di Sinistra? Forse è un segno particolare di stima... Mivedo riservato un trattamento speciale, anche se tutti sanno benissimo che tra me e Ferrara non c’è coincidenza divalutazioni politiche. Trovo la sinistra insopportabile, e soprattutto per ragioni culturali, avendo io più sensibilitàculturale che politica. Quelle cinque o sei star dell’intellighenzia di sinistra le ho sempre interpretate come fenome-ni degenerativi, o puri bluff. E non mi chieda i nomi. Li ho già fatti tante volte...».

Funziona ancora il genere recensione? E la stroncatura?«Il genere recensione funziona se il critico “fa sul serio”, cioè se ha in mente un’idea forte sulla cultura contempo-ranea. Non basta capire i singoli libri, dal momento che la letteratura non è mai puro stile. La stroncatura? Sarebbebene stroncare solo autori e libri così forti e di successo da non nuocere loro. Bisogna avere la passione perversadi contraddire le maggioranze. Accanendosi a dimostrare - cosa impossibile - che una cosa in apparenza bella è inrealtà brutta».

La critica letteraria sui giornali può influenzare il mercato editoriale?«È opinione comune che né i recensori né i critici influenzino davvero il mercato del libro. Anzi, ho la quasi cer-tezza che gli editori scelgano di pubblicare e promuovere soprattutto gli autori giudicati male dai critici, secondo ilragionamento: non piace ai critici quindi avrà un successo di pubblico. Ecco a quale punto è arrivato il discreditogenerale, e commerciale, che colpisce la critica».

Ma la critica può ancora influenzare le vendite di un libro o creare un caso letterario?«La critica funziona come pubblicità, solo se è pubblicità. Mi pare che alcuni recensori si stiano specializzando intecnica pubblicitaria. In un futuro prossimo saranno i più autorevoli e universalmente apprezzati. La critica, comeè noto, disturba. Mentre forse la letteratura vuole solo pace».

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Quando leggiamo un libro di Kawabata,(Immagini di cristallo, a cura di LydiaOriglia, Einaudi, pagg. 128, euro 8,50)

abbiamo la continua impressione che noi, esseriumani, occupiamo una parte piccolissima dell’uni-verso. Siamo soltanto un dubbio prolungamentodella natura: forse nostro unico compito è quellodi guardarla: non solo a Kyoto, dove raggiunge lasua forma suprema, ma dovunque o almeno intutti i luoghi di quel paese felice che è il Giappone.Scrivere romanzi è un’arte secondaria, rispetto allavera arte – la contemplazione della natura. Quasisempre, conosciamo la parte più lieve e graciledella natura. Fiori di girasole dallo stelo spezzato,fiori di ciliegio, fiori bianchi di susino, fiori rossi dipesco, bianche e fluttuanti azalee, fiori di loto conun passato di migliaia di anni, piccoli, anonimifiori azzurri, le foglie rosse dell’acero: tre farfalleche appaiono e scompaiono tra le foglie nerazzur-re di un cespuglio, libellule che volano in sciametemendo di essere inghiottite dalla notte: alberi dinespolo che estendono i rami in ogni goccia dipioggia sulle punte degli aghi dei pini, simili a fioridi rugiada improvvisamente sbocciati. Non c’èmai quella grandiosa metamorfosi delle donne infiore e degli alberi in donne, che incontriamo nellaRecherche di Proust. Sia che contempli un tramontosia che ammiri giardini di Kyoto, Kawabata non siidentifica o si trasforma in natura: è natura.

Tutti i romanzi di Kawabata sono imbevuti diun intensissimo sentimento erotico: davanti algrembo armonioso di una ragazza, il vecchioEguchi «ne ha il fiato mozzo e le lacrime agliocchi», tanto la bellezza femminile lo sconvolge.

Questo sentimento non ha quasi bisogno di veni-re tradotto in atti sessuali, perché pervade l’univer-so: l’amore per una donna comprende in sé il volodi due farfalle, il fogliame di un bosco, un vaso dafiori o un bricco di tè che conservano tracceumane, e persino un punto lontanissimo della ViaLattea. Tutto odora di eros, finché l’eros si trasfor-ma in ogni senso: sguardo, suono, profumo, colo-re. Le sensazioni tenui e lievi si intrecciano.Qualche volta, Kawabata dimentica di raccontare.Gli importa soltanto vedere, ascoltare, odorare,toccare la grande analogia dell’universo: la tessi-tura delicatissima e compatta, che ci salva e ciimprigiona.

Quando le «piccole e fioche lanterne» dei mortibrillano nella notte, ci ricordano che niente dura,la vita è caduca, e la morte abita dentro la vita. Neiromanzi di Kawabata la morte è sempre prossima,e ogni momento vecchi stanchi e giovani coppie siuccidono, in primo luogo perché il passaggio di làè così facile. Ogni istante è pieno di passato. Seafferriamo una semplice tazza da tè, ricordiamoche molte persone l’hanno conservata gelosamen-te, l’hanno portata con sé in viaggio e hannolasciata sopra di lei la propria traccia: la tazza vibra,emana luce, ci comunica l’ebbrezza erotica cheuno di questi morti ci ha dato durante l’esistenza.Qualche personaggio aspetta il passato: il passatofiorisce nel presente, nascondendosi dappertutto,finché forma nell’oggi come un bianco fiore diloto; e calma, placa, cancella ciò che è effimero.Ma il tempo non lascia polvere né squallore névecchiaia né peso, come noi europei siamo abitua-ti a credere. Se viene immersa in un vaso vecchio

Kawabata. L’ultimo segreto dell’eros

Pietro Citati, la Repubblica, 21 gennaio 2008

La bellezza femminile, la natura, la morte e il peso del passato nei cinque raccontidi “Immagini di cristallo” del grande scrittore giapponese

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di trecento anni, una campanula di colore blususcita “una sensazione di viva freschezza”. Lafreschezza è uno dei valori supremi nei libri diKawabata: egli ripete di continuo questa parola; esa che può essere evocata anche da ciò che odoradi tempo.

Come scriveva Mishima, nessun scrittore giap-ponese ha mai rappresentato con tanta attenzionee tenerezza l’anima femminile del Giappone.Quanti visi e corpi di donne incontriamo neiromanzi di Kawabata: grandi occhi dalle iridi neree lucenti, palpebre leggiadrissime, carnagioni lu-minose, pelli delicate e soavi, capezzoli rosa, orec-chi minuscoli. Il puro fascino della vita sembranon avere altro luogo dove posarsi. La volontà e laviolenza dei maschi si scagliano contro questi visie questi corpi: le donne li assecondano «con un’ar-rendevolezza flessuosa», sembrano cedere; ep-pure, alla fine, tutto, uomini, case, alberi, fiori, gio-chi del go, tazze di tè, è imbevuto da onde di caldoprofumo femminile. L’ultimo segreto della bellez-za femminile è la tristezza: le donne, dicevaMishima, sono «avvolte dalla tristezza, come dauna lieve foschia», che respira silenziosamente neicorpi.

Quando gli occhi e le carnagioni si tingono dimalinconia, un soffio celeste pervade il Giappone.Anche la neve è femminile. Nel Paese delle nevi,tutto è bianco, gelido e diafano: la neve dell’altopaese di montagna imbeve il racconto, finché leg-gendo sentiamo di respirare soltanto neve.Quando è inverno, le ragazze preparano il lino chi-jim, impiegato per i freschissimi kimono estivi. «Ilfilo viene filato nella neve, la tela tessuta nellaneve, lavata in acqua di neve e lasciata a sbiancarenella neve». I lini sono abbandonati sulla neve akae, ogni mattina, colpiti dal sole nascente, si tin-gono di una sfumatura scarlatta. Allora la scena,dicono gli appassionati giunti da ogni parte delGiappone, è «di una bellezza incomparabile».Nessun maschio prepara i lini: solo ragazze tra iquattordici e i ventiquattro anni che hanno impa-rato l’arte fin da bambine; se superano i ventiquat-tro anni, il tessuto perde la sua lucentezza e fre-schezza, che si prolungano nell’estate. La nevebianca, i lini bianchi: tutto ciò allude alla purezza,alla verginità e alla morte (il bianco, in Giappone,è anche il segno del lutto), che accompagnano ilmondo femminile. Nel libro più famoso di Kawa-

bata, La casa delle belle addormentate, il vecchioEguchi penetra, la sera, in una strana casa diappuntamenti, dove tutto è vuoto e silenzioso. Inuna stanza dalle rosse tende di velluto, una ragaz-za ha assorbito un potente sonnifero e dorme:nelle sere successive, verrà sostituita da altre ragaz-ze. Tutte le ragazze dormono con un respiro pro-fondo: la mano destra sfiora il volto addormenta-to: le dita, nell’abbandono del sonno, si incurvanoappena; la mano è bianca e morbida, ma il rossodel sangue si fa più intenso verso le punte delledita. Nel sonno, le ragazze fanno piccoli gesti: vol-tano il viso, muovono le spalle, sollevano la manosinistra e la portano alle labbra, lasciano intravede-re i denti; le labbra dischiuse e le guance paiono, avolte, attraversate da un sorriso. Qualcuna profu-ma di peonia o di glicine. Sebbene le ragazze sianoprezzolate, sono vergini. Conservano il chiuso, ildifeso, il protetto, l’inconscio dell’anima femmini-le: quel bianco che avevamo intravisto nei lini deikimono distesi sulla neve.

Credo che solo Proust abbia rappresentato,come Kawabata, il dolcissimo e tremendo misterodel sonno: questo luogo sconosciuto, che esisteaccanto a quello diurno; quest’abisso che costeg-gia la nostra vita, straniero alla vita, e che puresembra custodire la profondità della vita. NellaRecherche, Marcel penetra nel sonno di Albertine:ne possiede la mente e le sensazioni come non lipossiede nel giorno; mentre Eguchi contemplasoltanto dall’esterno le ragazze che dormono. Ilsuo è un lungo assedio. Ausculta il respiro delleragazze, odora i profumi, sfiora i denti, respiracapelli, appoggia una guancia e passa le labbra suldorso di una mano, sfiora, accarezza, bacia: unavolta vorrebbe violare una delle ragazze. Poirinuncia, perché capisce che nessuna violazione glipermetterà di penetrare nei corpi e nelle mentiaddormentate. Non saprà mai quali pensieri e sen-sazioni li attraversano: il sonno resta, fino alla fine,inespugnabile – la cosa più inespugnabile dell’uni-verso. Eppure, mentre ausculta i respiri e odora iprofumi, capisce di intravedere un altro spazio,superiore al nostro: il suo è un rapporto esoterico,gli dice un amico, come se dormisse accanto a unBuddha. Contemplando il sonno delle ragazze,contempla la sorella del sonno, la morte – unamorte candida, innocente, verginale che è l’ultimosegreto dell’anima femminile.

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L’emblematica vicenda va collocata neiprimi anni del dopoguerra quando laguerra fredda si allarga a tutti i domini

della cultura. Ebbe rapporti con numerosi editoriitaliani e con Einaudi l’avvio è folgorante: “siamoincantati”, gli scrive Cesare Pavese, “della Sua pro-posta”. Dall’America dirigeva la rivista “Inventario”che ebbe un taglio internazionale con contributi diEliot, Nabokov, Lowell, Ungaretti e Quasimodo.Quando esce il “Fiore” Einaudi cerca di prendere ledistanze dall’antologia con una prefazione, ma aicomunisti questo non basta. Tre università america-ne – Massachusetts, Brown e Harvard – hannoorganizzato nelle rispettive sedi per tre giorni conse-cutivi (25, 26, 27 ottobre) un simposio internaziona-le di studi su Renato Poggioli (1907-1963) nel primocentenario della nascita. Dal 1946 fino alla mortericoprì ad Harvard la cattedra di letteratura compa-rata ma, pur essendo trascorsi oltre quarant’anni,resta un personaggio assai noto fra gli studiosi statu-nitensi interessati alla slavistica e all’italianistica (ilsuo libro più celebre, Il fiore del verso russo del 1949,viene ancor oggi ristampato). In Italia, per contro,ha subito una vera e propria damnatio memoriae, mal-grado la sua figura sia stata di primo piano soprattut-to per la cultura del nostro Paese. Non, però, la pol-vere inesorabile del tempo ha ricoperto le ormelasciate da Poggioli ma l’impalpabile rimozione ideo-logica indotta dalla guerra fredda e dagli effetti chela pavida osservanza dei dettami stalinisti ebbe inquella stagione su larga parte degli intellettuali, anchefra i migliori, e dell’editoria più prestigiosa.

Lo provano la corrispondenza fra Poggioli,Pavese, Giulio Einaudi, Vito Laterza, Eugenio

Montale, Paolo Milano, Isaiah Berlin ed altri, for-nitaci dalla figlia Sylvia, e gli esaurienti riscontrianalizzati a suo tempo da Luisa Mangoni nella suamonumentale storia della casa editrice Einaudi(Pensare i libri, Torino 1999, Bollati Boringhieri).L’emblematica vicenda cultural-editoriale va collo-cata nei primissimi anni del dopoguerra, quando laguerra fredda si proietta anche nella battaglia delleidee e si allarga a tutti i domini della cultura, dallaletteratura alla musica, dalla biologia alla linguisti-ca, dalle arti figurative alla storiografia.

Secondo i dettami di Stalin e di Zdanov, cui èaffidata la gestione dell’ideologia, la produzioneculturale deve essere rigidamente «realista nellaforma, socialista nel contenuto». Se nell’Urss e neipaesi del «socialismo reale» la mancata osservanzadi questo schema porterà a pesanti persecuzionicon conseguenze tragiche, lunghi internamenti neigulag, spietate esecuzioni, disperati suicidi, inOccidente, soprattutto in Italia e Francia dovegrande è la forza dei partiti comunisti, gli ukase diZdanov si tradurranno in condanne ideologiche,rotture politiche, censure editoriali, velenose pole-miche. Certo, in Italia l’ortodossia è stemperata dalfiltro gramsciano, dalla duttilità togliattiana, dallaspecificità originale del Pci, ma la radice persecu-toria resta pur sempre di marchio stalinista e,soprattutto nella prima fase della guerra fredda, èsaldamente coerente con quella impronta.

L’avventura letteraria di Renato Poggioli si col-loca in quel contesto, pur se le premesse germo-gliano nel decennio precedente quando studia e sisposta per approfondire le conoscenze linguisticoletterarie a Vienna, Praga e Varsavia. In quegli

Renato Poggioli. Una vittima illustre delle censure del Pci

di Mario Pirani, la Repubblica, 22 gennaio 2008

L’ostracismo all’antologia dello slavista Renato Poggioli. Quando il Pci censurò i poeti russidell’Einaudi. Lo slavista fu attaccato per aver raccolto nell’antologia “Il fiore del verso russo” ipoeti perseguitati da Stalin. Nel centenario della nascita Harvard, dove ha insegnato, lo celebra,in Italia è dimenticato

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anni, però, punto di riferimento, per prolungatisoggiorni, è Firenze, la città natìa. Così lo ricorde-rà molti anni dopo Carlo Bo in un articolo rievo-cativo della vita letteraria fiorentina negli anniTrenta: «All’epoca c’erano a Firenze due universi-tà, la prima la statale a piazza San Marco, la secon-da che aveva tante succursali quanti erano i caffèdi Firenze, dove a seconda dell’ora si riunivanoscrittori, alcuni già famosi, la maggioranza princi-pianti. Renato Poggioli era il presidente di questaanonima università ed ogni giorno teneva lezionesu una gamma di argomenti letterari». In un altroarticolo, apparso nel ’63 sull’Europeo, Bo definiràPoggioli come «il maestro dei nostri primi passi...conosceva letterature che noi ignoravamo e, infat-ti, è stato merito suo se già da allora abbiamopotuto affrontare poeti come Anna Achmatova ePasternak. Poggioli arrivava puntualmente tutte lemattine, verso mezzogiorno, con un nuovo librosotto il braccio e teneva lezione: una lezione estre-mamente viva, poco o niente accademica... Moltianni dopo si seppe che era approdato in Americae insegnava in una di quelle università. Oggi è unmaestro di Harvard (era titolare di slavistica e let-teratura comparata, ndr)».

E infatti Poggioli, che nel frattempo si era spo-sato con una allieva italiana di Ortega y Gasset,Renata Nordio, informato che le autorità fascistediffidavano della sua attività e stavano per prende-re misure contro di lui, era riuscito nel 1938 ademigrare in America, anche grazie ai rapporti dellamoglie con Gaetano Salvemini, già esule negli StatiUniti. E qui si legò politicamente con la MazziniSociety e con gli antifascisti che gravitavano,appunto, attorno a Salvemini. Se la guerra inter-ruppe i rapporti con l’Italia, questi ripreseroimmediatamente con la Liberazione in due dire-zioni. La prima fu la fondazione, assieme ad unsuo amico fiorentino, il poeta Luigi Berti, di unarivista unica nel suo genere che battezzò“Inventario” cui ambiva affidare il compito disprovincializzare la cultura italiana. Usciva aFirenze – editore Parenti – ma Poggioli la dirigevadall’America. Durò fino al 1963 – anno dellamorte quasi contemporanea dei due promotori –ed ebbe un taglio internazionale senza confronti,dovuto appunto al prestigio di Poggioli che erariuscito a far confluire nel comitato direttivo nomicome T.S. Eliot, Vladimir Nabokov, Jorge Guillén,Robert Lowell, Giuseppe Ungaretti, SalvatoreQuasimodo, Pedro Salinas, Allen Tate e altri. Tra i

collaboratori, fin dal primo numero, ThomasMann e Saint-John Perse. ContemporaneamentePoggioli avviò una sua periodica collaborazione dicritica letteraria con “Il Mondo” di Pannunzio.

Nello stesso tempo s’impegnò con uno slanciodavvero straordinario nel tentativo di imprimereun profilo cosmopolita all’asfittica vita culturaleitaliana tessendo un carteggio imponente con glieditori americani perché scoprissero poeti e scrit-tori italiani ma, soprattutto, rivolto ai maggiori edi-tori del nostro paese, da Einaudi, il suo preferito,a Bompiani, da Laterza a Guanda, da Mondadori aNeri Pozza, ecc. fornendo a tutti note, schede,proposte motivate, suggerimenti riguardantiromanzi, saggi critici e politici, poesie. Il carteggioè di grandissimo interesse. Montale scherzosa-mente si dichiara «un po’ vergognoso di scrivere aun full professor giunto tanto in alto», si dilungasull’invio di testi, destinati ad editori americani,accenna a due suoi scritti che potrebbero venir tra-dotti per il pubblico d’oltreoceano e spiega chesono «apparsi su Società, la rivista paracomunistache stampa Einaudi. Io, però, non ho trovato asilonel P ci; sono politicamente roofless (senza tetto,ndr) e tale mi manterrò se potrò, dopo molte delu-sioni». Tra gli editori vi è chi ringrazia comeValentino Bompiani che in data 7 settembre 1946scrive: «Io penso che la sua attività sia di grandeimportanza per la letteratura e l’editoria italiana eper parte mia sarò lietissimo se in qualunquemomento e in qualunque modo riuscirò a dimo-strarle la mia gratitudine». E vi è chi declina, comeVito Laterza, che otto anni dopo, il 17 novembre1954, avendo ricevuto da Poggioli alcune schededi segnalazione che comprendono il Diario parigi-no di Trotzkij e altri saggi storico-sociologicisull’Urss e sulla Cina di Mao, tutti curati dallaHarvard University Press, dichiara: «La situazioneculturale e politica del nostro Paese è così tesa cheaffrontare certi argomenti comporta rischi note-voli, ma soprattutto fastidiosi. Un’opera sul comu-nismo o sulla Russia, anche se disinteressata e seriae obbiettiva, si presta a impensate critiche e aimpensate lodi, e comunque sempre a reazioniassai poco pertinenti... se il libro critica alcuniaspetti negativi di quell’ideologia e di quella socie-tà, ci sarà sempre qualcuno che ne trarrà spuntoper discorsi volgarmente anticomumisti e intima-mente reazionari». Con Einaudi l’avvio è folgoran-te: «Tanto io che Einaudi – gli scrive Cesare Pavese– siamo incantati della Sua proposta di collabora-

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zione con noi». Sarà l’inizio di una corrisponden-za fittissima che culminerà nel 1949 con la pubbli-cazione dell’opera che sta più a cuore a Poggioli, Ilfiore del verso russo, una sua antologia critica e stori-ca della poesia russa tra Ottocento e Novecento,con particolare riguardo alle correnti decadenti,simboliste e futuriste a cavallo della Rivoluzione diOttobre «che pesa ancora – scriverà nel prologo –come una promessa e una minaccia sulla Russia,sull’Europa e sul mondo». Un ampio saggio, cor-redato da biografie e note, guida il lettore alla let-tura di grandi lirici, in quel tempo quasi sconosciu-ti in Occidente, dalla Achmatova a Pasternak, daMandel’stam ad Essenin, da Block a Majakovskijalla Cvetaeva non tacendo della tragica fine dimolti, perché «la nuova età, spietata come ognicosa barbara e naturale, molti di loro anche uccise,o con le armi o con il solo suo avvento». A questopunto l’idillio con la Einaudi subisce gravi con-traccolpi anche se le prime avvisaglie sembranoancora amichevoli. Il 5 ottobre 1949 Pavese scrivea Poggioli: «Oggi il Fiore entra in stampa: suoni lecampane. Einaudi che scorre i libri soltanto in ulti-me bozze ha deciso, per varie ragioni, di premette-re al Fiore una sua avvertenza... La veda, mi parepiccante». Accenna poi in termini entusiastici adun altro libro che Poggioli sta scrivendo per la casaeditrice sulla cultura d’avanguardia e dichiara: «Holetto l’altra puntata dell’Arte d’avanguardia e sonosempre più interessato e impaziente di averla tuttafra le mani per fare il libro». Ma cosa è questainconsueta prefazione dell’editore ad un libro dalui pubblicato? Lo ha raccontato con dettagli stra-bilianti Luisa Mangoni (opera citata) riportandoquale irritazione stesse montando nel gruppo diri-gente del partito quando trapela che sta per esserepubblicato da un editore considerato amico unlibro che cita le persecuzioni staliniste contro imaggiori poeti russi. Giulio Einaudi tenta, quindi,di prendere qualche distanza dal Fiore, pur senzasconfessarlo. «A noi preme osservare – scrive nellaprefazione – che l’interpretazione che l’antologistadà dello sviluppo di questa poesia e l’asprezza diqualche suo giudizio sulle sue più recenti vicende,sono testimonianza, una fra le molte, della crisidella cultura contemporanea, della sua tragicamutilazione e fungibilità di valori».

Nel frattempo la discussione coinvolge tutto ilgruppo di intellettuali che facevano capoall’Einaudi (oltre Pavese, Antonio Giolitti, FeliceBalbo, Natalia Ginzburg, Carlo Muscetta,

Francesco Jovine ed altri), che in una riunioneapposita convengono sulla opportunità di orienta-re i recensori che scriveranno sui giornali comuni-sti perché la critiche siano almeno rispettose.

In proposito Carlo Muscetta scrive a Einaudiche si atterrà a questa sollecitazione anche se giu-dica il testo «sostanzialmente schifoso». LaGinzburg, per contro, rivolgendosi a Jovine sostie-ne che sarebbe bene recensisse lui il «bellissimovolume... anzitutto perché altri difficilmentesaprebbero apprezzare sia le finezze della tradu-zione che il commento, e poi perché trattandosi,come vedrai di un libro che non può non essereattaccato sull’Unità, avremmo caro fossi tu adattaccarlo alla luce dell’intelligenza e dell’intendi-mento poetico, col criterio e il discernimento chemeritano e Poggioli e il volume». Infine AntonioGiolitti, come ultima istanza, pensa a Togliatti echiede di vederlo. Togliatti, però, è in viaggio eGiolitti, per saggiare il terreno, sottopone unadelle prime copie a Felice Platone, molto vicino alcapo del partito. La reazione è drastica e Giolitti,con una lettera ne informa Torino: «L’amico filo-sofo (per il nome, evidentemente, ndr) ha annusa-to il fiore e ne è rimasto disgustato: addirittura si èposto la domanda se Einaudi possa continuare adessere l’editore di certe opere complete.

Ritiene – e in coscienza non so dargli torto –che quel libro superi ogni più largo limite consen-tito. La missione presso il principale si fa assai deli-cata». E, infatti, pochi giorni dopo Togliatti rientraa Roma e telegrafa ad Einaudi invitandolo asospendere «edizione miei scritti da me non auto-rizzata». Mentre sul Corriere Montale recensisce ilFiore con un lungo articolo, ricco di lodi, sui gior-nali del Pci appaiono articoli in cui si accusaPoggioli di essere un agente al soldo degli StatiUniti e si lasciano trasparire velate minacceall’Einaudi.

I rapporti tra Botteghe Oscure e la casa editri-ce minacciano di volgere al peggio. Non resta perricomporli che sacrificare Poggioli sull’altare dellaragion politica.

Pavese gli manda una lettera in data 16/2/1950in cui rinnega l’impegno a pubblicare il secondolibro, Teoria dell’arte d’avanguardia, con questa paro-le: «Il libro non si fa... Si tratta di non liquidarel’unità del consiglio editoriale insistendo sul Suonome: se Einaudi lo facesse, si troverebbe pratica-mente l’indomani senza i collaboratori, che, beneo male l’hanno fatto chi è, e si precluderebbe un

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largo nascente pubblico... Badi, però, che il Suorifiuto – “né rosso né nero” – significa attualmen-te in Italia “sospeso tra cielo e terra”, “né dentroné fuori”, “né vestito né ignudo” – insomma unasituazione quale soltanto Bertoldo seppe sostene-re e con una facezia dopo tutto. In Italia, ripeto,non so altrove». Il libro verrà pubblicato dalMulino nel 1962 ma, per quanto riguarda la pub-blicistica di sinistra, il nome di Poggioli, che mori-rà in un incidente d’auto nel 1963, sarà totalmen-te bandito. Con effetti che andranno anche al di làdell’ambito culturale cosiddetto progressista. Nel’98 Carlo Bo si rammarica del velo di silenziocaduto su un intellettuale benemerito per la cultu-ra italiana «tanto che il suo nome non si trova

neppure nella Treccanetta, dove di Poggioli c’èsoltanto il regista». Del resto neppure l’ultimaGarzantina ne fa cenno. La damnatio memoriae,infatti, si perpetua ancora oggi. Nel centenariodella nascita di Pavese la Einaudi ha deciso infattil’uscita di un volume sulla sua attività di editordella casa editrice e il curatore si è rivolto alla figliadi Poggioli, Sylvia, per ottenere l’assenso alla pub-blicazione del carteggio tra i due, ben 59 lettere.In questi giorni marcia indietro: l’Einaudi hainformato che pubblicherà solo le lettere dei col-laboratori regolarmente stipendiati dalla casa edi-trice. Poggioli non era tra questi e lo scambio epi-stolare tra lui e Pavese resterà inedito. L’ombra diZdanov si proietta ancora su via Biancamano?

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Torino, 15 dicembre 1949 Caro Poggioli,aspetto i primi due terzi della Teoria dell’arte. Finoral’unico lettore sono stato io, ma dovendo portarela proposta al consiglio editoriale, occorre il testocompleto. Come Lei può ben pensare, non tuttiqui sono entusiasti del Fiore – bisogna quindi pro-cedere nel più formale dei modi. Una volta appro-vato il contratto, credo che il libro possa uscire in3-4 mesi. (…)

Cordialmentesuo Pavese

*

Torino, 16 febbraio 1950 Caro Poggioli,non ho ancora avuto la terza parte del libro (…).Ma la cosa è già decisa. Il libro non si fa. Come ve-de, non si tratta di un giudizio di merito – per oraalmeno – si tratta di non liquidare l’unità del Con-siglio editoriale insistendo sul Suo nome: seEinaudi lo facesse, si troverebbe praticamente l’in-domani senza collaboratori e si precluderebbe unlargo nascente pubblico che, nell’economia dellaCasa, conta ogni giorno di più. Einaudi La salutacaramente, e così anch’io

suo Pavese

*

Torino, 15 luglio 1950Caro Poggioli,vedo la Sua lettera a Einaudi. Sono lietissimo che

resti buon amico della Casa e, come già mi pare Lescrissi, non dispero che potremo ancora colla-borare. Intanto, a ulteriore dimostrazione dellanostra “concordia discorde”, la Sua segnalazionedell’Auerbach coincide con un nostro interesseben preciso (…).

suo Pavese

*

Harvard University, 6 maggio 1953Caro Paolo (ndr Milano), (…) qualche anno fa, quando offersi a Einaudi il mano-scritto del mio Fiore del Verso Russo, ricevei fra l’al-tro un’entusiastica lettera d’accettazione da parte diCesare Pavese. Ora ho l’impressione che Einaudi, eforse anche Pavese, non lessero che l’antologia e lalunga introduzione, e trascurarono d’esaminarel’apparato critico. Il quale conteneva, nelle brevibiografie di Esenin, Mandel’stam, Majakovskij,Achmatova, Cvetacva, etc, documenti significativiriguardo a quella tragedia quotidiana che è la vitadello scrittore in Russia. Questi documenti furono,per così dire, “scoperti” dagli editori soltanto almomento della correzione delle bozze. A quel-l’epoca Pavese mi scrisse chiedendomi il permessodi pubblicare in testa al volume una breve nota edi-toriale, firmata dallo stesso Einaudi, dove, framolte parole di lode, l’editore dichiarava che nonc’era bisogno di consentire con l’opinione del-l’autore riguardo alle circostanze storiche che ren-devano difficile la condizione culturale della Russiacontemporanea, e così via. Io risposi a Pavesedicendo che il mio desiderio era stato sempre quel-

I miei conti con l’Einaudi

la Repubblica, 23 gennaio 2008

Il caso Poggioli. I carteggi con Pavese e Paolo Milano

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lo di parlare liberamente sul problema della lettera-tura sovietica, e allo stesso tempo d’evitare, nei li-miti del possibile, che questo mio libero parlarefosse sfruttato ai loro fini dalle estreme destre dellapolitica e della letteratura (…). Prima della pubbli-cazione del Fiore, Pavese aveva letto su Inventario leprime puntate della mia Teoria dell’Arted’Avanguardia, e mi aveva chiesto di concedere aEinaudi i diritti per la pubblicazione di quello stu-dio in volume. (…) A un certo momento, riceveiuna lettera di Pavese con misteriose allusioni acerte oscure difficoltà (…). Esigei una risposta. Laprima spiegazione fu che, se Einaudi avesse pubbli-cato un’altra opera mia, si sarebbe dimessa la mag-gioranza dei consiglieri editoriali di quella casa. Lacorrispondenza continuò sotto la mia pressione, efinalmente Pavese fu costretto a riconoscere che ilpartito aveva messo il veto sul mio nome, e che ladisobbedienza avrebbe significato una serie di rap-presaglie tali da mettere in pericolo l’avvenire eco-nomico delle edizioni Einaudi. (…) Ora io credoche tale intransigenza fosse dovuta a Pavese anco-ra più che ad Einaudi. Non v’ha dubbio che dopo

la morte di Pavese Einaudi ha fatto l’impossibileper rimediare il torto che mi fu fatto e per violareil veto menzionato di sopra. (…) Ma torniamo aPavese. Il suo carteggio con me mi risulta ora se-gno evidente della sua crisi. L’impazienza delle sueaffermazioni non fu certo dovuta soltanto all’im-barazzo. Si trattò piuttosto di un malsano irrigidi-mento della sua posizione. (…) Io seppi del suici-dio con un ritardo di settimane, se non di mesi.Quando finalmente lessi le sue parole d’addio, viriconobbi un’eco o una reminiscenza; e mi ricordaid’una frase della lettera che Majakovskij scrisseprima di darsi la morte: «Non fate pettegolezzi: ildefunto non li poteva soffrire». Quelle parole, equella lettera, erano state tradotte da me, e citate incalce al profilo di Majakovskij, che segue le lirichedi quel poeta, da me incluse nel Fiore. (…) Il chevuol dire che la nostra controversia editoriale, nellaforma ch’essa assunse nel mio carteggio con lui, onelle conversazioni con amici o nemici, deve esse-re stata un episodio importante, una fase significa-tiva della sua crisi. (…) T’abbraccia, intanto,caramente, il tuo Renato.

Quelle lettere usciranno in rivistaErnesto Franco, Direttore editoriale Einaudi

Caro direttore, l’ampio articolo di Mario Pirani su Renato Poggioli uscito sulla Repubblica di martedì 22 gennaio èmolto bello e ricostruisce con chiarezza una fase precisa del rapporto tra Renato Poggioli e l’Einaudi, quella tra il1949 e il 1950. Però dal suo articolo sembrerebbe che l’episodio della mancata pubblicazione della Teoria dell’arted’avanguardia sia una specie di licenziamento di Poggioli da parte della casa editrice. Mentre invece, come è noto,Poggioli collaborò con l’Einaudi per tutti gli anni Cinquanta e i primi Sessanta fino alla morte, pubblicando le sueedizioni del Cantare delle gesta di Igor (1954), di Babel (1958), Blok (1961), Esenin (1961), per citare quattro libri passatialla storia. Dunque la politica di Giulio Einaudi nei confronti dell’ingombrante partito amico era più articolata emeno succube di quanto possa sembrare da qualche singolo episodio. E il rapporto tra la casa editrice e lo studiosofu continuo e proficuo. Quanto alla chiusa dell’articolo, in cui si accenna a un’edizione prossima ventura di lettere diPavese inizialmente prevista comprensiva delle lettere a Poggioli, posso assicurare che la scelta editoriale di non inclu-derle deriva soltanto da una configurazione del volume che via via, nell’andamento del lavoro, si è fatta più precisa.L’idea iniziale di pubblicare tutte le lettere di Pavese si è presto trasformata in quella di selezionare le lettere editoria-li; poi si è deciso di rendere ancora più specifico e compatto il volume centrandolo sulla storia della casa editrice elimitando il numero degli interlocutori pavesiani a quello dei consulenti fissi, i partecipanti alle famose riunioni delmercoledì, che erano per forza di cose più addentro alle discussioni e alle polemiche interne alla casa editrice, rispet-to a un collaboratore apprezzatissimo ma lontano ed esterno rispetto a molte questioni. La decisione dei curatori delvolume, Franco Contorbia e Silvia Savioli, e della casa editrice, è stata di sfrondare dal volume alcuni carteggi, tra iquali quello di Poggioli (che prossimamente verrà pubblicato nella rivista Levia Gravia, a cura della stessa Savioli), edunque squisitamente editoriale. D’altra parte se Poggioli continuava a pubblicare all’Einaudi in pieni anni Cinquantatogliattiani, sarebbe davvero ridicolo che venisse «censurato» oggi, quando tutti i riferimenti e le pratiche politiche diquei frangenti non esistono più da tempo. Sarebbe come se in Francia si temesse, oggi, per la testa di qualcuno. Vistoche c’è stata la Rivoluzione. E pure il Terrore.

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Il Pci pesò molto almeno fino al ’56Simonetta Fiori

Intervista con Luisa Mangoni, autrice di una storia della casa editrice

«Il caso Poggioli? Grave, gravissimo, rivelatore dell’organicità einaudiana al Pci negli anni più bui della guerra fredda.Ma sarebbe sbagliato schiacciare su quell’episodio la complessità d’una casa editrice che in quella stessa stagione pub-blicava “fior di reazionari” come Mircea Eliade, Kerényi e gli autori della collana Viola». Luisa Mangoni è autrice diun’opera monumentale sulla Einaudi, Pensare i libri (Bollati Boringhieri), che del travagliato rapporto con BottegheOscure non tralascia niente. Nel volume sono documentati cedimenti, ambiguità, giudizi liquidatori che sono significa-tivi di un clima culturale non libero, condizionato dalla prossimità al comunismo italiano. «È fuori discussione che laEinaudi, almeno fino al 1956, abbia fiancheggiato il Pci. Il rapporto è intrinseco, dettato anche dalla circostanza chegran parte della cultura italiana si affidava allora alla lettura della storia proposta da Gramsci e Togliatti. Il comporta-mento collettivo della redazione in quel decennio è efficacemente espresso da Italo Calvino: “Se una volta avevamo delleobiettive, storiche limitazioni alla nostra libertà, più che giustificarle, allora le negavamo a noi stessi. Non potevamoneanche ammettere per un momento di non essere liberi”». La Mangoni la definisce “introiezione della cultura di schie-ramento”. Non erano liberi, ma lo ignoravano. «Era il prezzo che ritenevano di dover pagare». Censure gravi, dunque.Ma la studiosa s’oppone a un’interpretazione monolitica dello Struzzo, ridotto semplicisticamente a strumento del Pci.«Sempre sul finire degli anni Quaranta, la biblioteca einaudiana appare molto più sfaccettata. Se oggi leggiamo i saggidi Ernesto De Martino o di Károly Kerényi lo dobbiamo alla collana Viola, ossia alla Collezione di studi etnologici, psi-cologici e religiosi fortemente sostenuta da Pavese alla fine del 1947: una collezione in netto contrasto con la direzioneculturale comunista. La prefazione al saggio Il cannibalismo di Volhard fu affidata a un fascista dichiarato come Cogni. Ilcaso più noto è quello di Mircea Eliade: era giudicato un “controrivoluzionario”, eppure Eliade fu pubblicato daEinaudi, non da altri. Con questo non voglio minimizzare il caso Poggioli: bene ha fatto Mario Pirani a ricordarlo. Lacasa editrice, però, non è riassumibile in quell’episodio».

Nella sua densa lettera a Paolo Milano, qui riportata, Renato Poggioli insiste sulle rappresaglie economiche minac-ciate dal Pci sulla Einaudi. Si riferisce anche a finanziamenti diretti, oltre alla circolazione dei libri favorita dal partito neipropri circuiti? «Non escludo che il Pci potesse fungere da garante per le banche, ma non sono in grado di risponderealla domanda sui finanziamenti diretti: la documentazione è irraggiungibile. L’unico dato certo è che nelle case dei mili-tanti, dall’operaio all’intellettuale, c’erano sempre i libri dello Struzzo». A Cesare Pavese, interlocutore in viaBiancamano, Poggioli attribuisce la responsabilità del suo congelamento: significativo, secondo lo slavista, che prima disuicidarsi lo scrittore evochi una frase di Majakovskij – “non fate pettegolezzi” scritta dal poeta russo prima di darsi lamorte e tradotta proprio nel Fiore tanto avversato. «Non sarà casuale il richiamo a Majakovskij e non c’è dubbio chequelle parole siano rimaste incise nella memoria di Pavese, ma tenderei a escludere che dietro l’estremo gesto possaesservi il problema del rapporto con il Pci. Non mi risulta poi che Pavese fosse mosso da avversione nei confronti dellostudioso. Quella espressa da Poggioli è un’emozione profonda, che è doveroso registrare ma da utilizzare con un’om-

“Il giorno che Italo Calvino venne a scusarsi con mio padre”Francesco Erbani

«Mentre in Italia l’Einaudi bloccava l’uscita del suo libro, negli Stati Uniti mio padre subiva i sospetti del maccarti-smo”. Non c’era alcuna relazione fra le due vicende, ma nei ricordi della figlia Sylvia questo era il paradosso nelquale era costretto Renato Poggioli. E ciò spiega anche perché i contrasti con la casa editrice torinese Poggioli voles-se tenerli al riparo dalle strumentalizzazioni. «In quegli anni Cinquanta mio padre era guardato con diffidenza negliUsa. Pesava il fatto che insegnasse il russo e gli venne ritardata la concessione della cittadinanza. Durante unariunione con altri professori si ventilò l’ipotesi che venisse loro chiesto una specie di giuramento di fedeltà antico-munista. Qualcuno disse: “Che sarà mai, è come leccare un francobollo”. “Si comincia leccando un francobollo, sifinisce leccando il culo”, sbottò mio padre».Come visse Renato Poggioli quel “no” opposto da Einaudi?«Ero troppo piccola, non ho ricordi diretti. Ma fa fede il contenuto della sue lettere. Ho ben presente in compen-so una scena accaduta nel 1960, quando tornammo in Italia per alcuni mesi. Italo Calvino venne a trovare mio padree con lui si scusò per quello che era successo dieci anni prima».Lo fece a nome suo personale o di Einaudi?«Fu un’iniziativa personale. D’altronde mio padre non ruppe mai con la casa editrice, che continuò a considerarefra le migliori d’Europa».Che cosa ha provato quando ha saputo che nella prossima edizione dei carteggi di Cesare Pavese non ci saranno le lettere di suo padre?

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La vicenda letteraria, politica e umana diRenato Poggioli, le censure che personalitàcome Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Italo

Calvino, Natalia Ginzburg, Vito Laterza e altriaccettarono, negli anni ’40 e ’50, da parte del Pci,pur cercando talvolta di sfuggire alla stretta del-l’ideologia staliniana, sono state ampiamente ricor-date in questi giorni da Repubblica (22 e 23 genna-io). È bastato riportare all’onor del mondo, periniziativa di Sylvia Poggioli, un carteggio non secre-tato ma ai più ignoto, per permettere ai nostri let-tori la conoscenza di un episodio esemplare diquella che venne a ben ragione chiamata la guerrafredda culturale. In questi anni molto è stato stu-diato e scritto sugli aspetti politici, militari, diplo-matici di quegli anni di ferro. Non solo abbondanole testimonianze e le ricostruzioni più rispondentialla verità storica di quanto le vulgate di parte nonavessero propagandato, ma si sono in gran parteaperti gli archivi più segreti: la Cia e i Servizi ingle-si hanno dato via libera sul loro operato fino adanni abbastanza recenti, in Russia miniere di docu-menti sono a disposizione, l’ex Pci ha consegnatole carte di Botteghe Oscure all’Istituto Gramscidove gli studiosi possono consultarli, in tutti i Paesiorientali, specie nell’ex Germania Est, si è fattoaltrettanto, il nostro ministero dell’Interno ha con-segnato i dossier fino agli anni Settanta all’Archiviocentrale dello Stato, a disposizione dei ricercatori.Vengo alla questione specifica da noi sollevata: gliarchivi Einaudi e la decisione, spiegata ieri daldirettore editoriale, Ernesto Franco, di non pubbli-

care nel libro su Pavese editor, contrariamente aquanto era stato richiesto e promesso a SylviaPoggioli, il carteggio tra lo scrittore e l’autore delFiore del verso russo. Non voglio entrare nel meri-to di questa scelta, ma trarne spunto per chiederealla casa editrice torinese se non sia venuta l’ora dipermettere ai ricercatori l’accesso ai verbali dellefamose riunioni del mercoledì che dagli anni ’40fino agli ’80 costituirono il fulcro di un dibattitoche aveva un gran peso sulla attività culturale inItalia. A quelle riunioni, attorno a Giulio Einaudi eper lungo tempo, a Giulio Bollati si riunivano set-timanalmente Calvino, Pavese, la Ginzburg, FeliceBalbo, Carlo Carena, Delio Cantimori, FrancoVenturi, Massimo Mila ed altri intellettuali di gran-de prestigio, collaboratori della casa editrice. Ognisettimana si discutevano i libri da pubblicare omeno, questioni culturali e politiche venivanodibattute e, almeno per i primi anni, come si evin-ce dalla questione Poggioli, gli interventi del Pci, seaccettarli o come aggirarli, erano all’ordine del gior-no. Ebbene, a tutt’oggi, quando qualche studioso oricercatore chiede di accedere alla lettura dei verba-li, la risposta è cortesissima quanto elusiva: sononelle mani del gentile presidente della Società,Roberto Cerati, non s’ebbe tempo di riordinarli,forse in un futuro più o meno prossimo, chissà,una sbirciatina sarà possibile, comunque, solo ilpresidente è abilitato a decidere. Via Biancamano èrimasta, almeno per questo decisivo comparto, piùinviolabile della Lubianka, la vecchia sede dellaGhepeù.

E adesso rendete pubblici gli archividell’Einaudi

Mario Pirani, la Repubblica, 24 gennaio 2008

Il caso Poggioli e la censura dei vertici del Pci ai poeti russi

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Presto quei verbali saranno pubblicatiErnesto Franco, Direttore editoriale Einaudi

Caro Direttore,Mario Pirani torna dal caso Poggioli all’archivio Einaudi e in particolare ai verbali delle riunioni del mercoledì. Sonomateriali attraverso cui, in estrema, talvolta stenografica sintesi, è passata tante parte della cultura italiana. Ci sonole discussioni, i no e, voglio ricordarlo perché è ovvio ma talvolta sembra sfuggire o essere ininfluente, i tanti sì chehanno fatto una delle parti più significative della biblioteca degli italiani che leggevano e che leggono. L’ArchivioEinaudi è organizzato e gestito come segue. È un archivio degli anni 1933-1993 di proprietà della casa editrice,dichiarato dal Sovrintendente archivistico per il Piemonte e la Valle d’Aosta di “notevole interesse storico”. ConConvenzione del 2002 fra Regione Piemonte, Sovrintendenza archivistica per il Piemonte e la Valle d’Aosta,l’Archivio di Stato di Torino, l’Einaudi e il Centro Studi Piemontese, lo si è depositato presso l’Archivio di Statoper consentirne il riordino per la pubblica fruibilità. Già sei anni fa, quindi, l’Einaudi ha scelto di non ostacolare inalcun modo la consultazione dei documenti relativi alla propria storia. Ma ha anche, per legge e per tutela degli scri-venti e dei loro eredi, il dovere di vagliare le richieste che riguardano l’ultimo settantennio. Quanto all’opportunitàdi rendere pubblici i verbali del mercoledì, ne siamo tanto convinti anche noi che da tempo ne è in preparazionel’edizione integrale, affidata a uno studioso di chiara fama, e che sarà pronta entro l’anno; cosa non semplice, comefacilmente comprensibile, per l’estensione e lo stato di conservazione dei documenti. Il libro sarà un contributoimportante per una miglior comprensione della cultura italiana e non, per citare ancora Cesare Pavese e quegli annilontani, una miniera di pettegolezzi. Questo è un impegno che la casa editrice ha preso da tempo con il mondo dellacultura. L’Einaudi di oggi, sulle spalle di tanto passato, propone un modo di guardare il presente e il futuro. A que-sto stiamo provando a lavorare, e questo si può fare solo con una piena ma serena consapevolezza del passato. Unodei modi per farlo è certamente quello di renderlo accessibile ma anche comprensibile a tutti.

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Dovrebbero premiare parole, ma semprepiù spesso volano parolacce. Insulti,mica avverbi. E molto, molto oggettivi.

Per alcuni, addirittura, sono una specie di mafia.Per altri uno strumento di potere, un gioco diclan, una compagnia di giro. Quasi tutti ne parla-no male, quasi tutti si dannano per partecipare evincere. In Italia esistono più di mille premi lette-rari, anche se soltanto cinque contano davvero:quello che si chiama come il liquore, lo Strega, epoi Campiello, Bancarella, Viareggio e GrinzaneCavour. Ma l’ultimo Viareggio stava per saltare:furibonda lite tra giurati, piccola fronda, carteggiopubblicato integralmente su Internet (con menolettori, si presume, rispetto a libri che già nonnavigano nell’oro). E il Grinzane ha appena vistola non memorabile litigata tra il padre-padroneGiuliano Soria e l’illustre giurato scartato, GuidoDavico Bonino. A seguire, pure un pubblico car-teggio. Ma come funziona la strana macchinadelle premiate pagine? Chi la governa? Vincerecambia la vita degli autori e i fatturati degli edito-ri? Perché la spuntano sempre i grandi gruppi?Perché gli assessori alla cultura si dannano permettere a bilancio questi eventi tra la sagra paesa-na e la vanitosa passerella? Infine, e soprattutto: ipremi c’entrano qualcosa con la letteratura e lacultura?

«L’unico che sposti davvero migliaia di copie èlo Strega». Ernesto Ferrero, direttore della Fiera delLibro di Torino e scrittore, lo vinse nel 2000 con ilromanzo “N”. «Mi imposi in volata, contro ilbanco. Perché un banco esiste. Spesso, le giuriesono composte da addetti ai lavori, premiati e pre-

mianti si confondono, anch’io faccio il giurato:sempre meglio, però, delle cosiddette giurie popo-lari. Forse si dovrebbe smettere di omaggiare isenatori delle lettere, per concentrarsi invece sugliemergenti. Soprattutto, nel computo di costi e rica-vi c’è da chiedersi se ne valga la pena». Perché glisponsor sono quasi sempre gli enti pubblici. E gliamministratori locali si arrabattano per tre minutisul Tg regionale. «È un’epidemia», commentaGiovanni Tesio, critico letterario e docenteall’Università del Piemonte Orientale. «Certe giurienon cambiano mai, sono autentici vitalizi: invecequella del Calvino per l’inedito muta ogni anno,così è una cosa seria. Anche il Bagutta resta moltovirtuoso. Ma in generale, quasi mai si va in cerca dilibri e autori, cioè della qualità: si punta invece sul-l’evento, sulla forza degli uffici stampa e sull’arro-ganza di certi patron. Nelle giurie prevalgono i col-lusi più che i critici, e spesso la stampa si presta aquesto gioco. Va poi da sé che Fabio Fazio muovemolte più copie di tutti i premi messi insieme».

Negli ultimi dieci anni, l’84 per cento dei suc-cessi è andato ai grandi editori. Su 61 vittorie,Mondadori ne ha ottenute 24 e Rizzoli 17. Ma nes-sun libro premiato nel 2006 è stato tra i dieci piùvenduti. E allora perché si briga tanto per addo-mesticare i giurati? Lo Strega ne ha 400, anonimi,anche se è il segreto di Pulcinella (pare che le sche-de arrivino prima agli editori che allo scrutinio),quelli che un tempo si chiamavano «Gli amici delladomenica». A cicli periodici si propone di pubbli-carne i cognomi, ma già nel 1968 il giuratoEugenio Montale si batte per l’anonimato:«Altrimenti perderei la pace». Sapeva, il sommo

Misteri e veleni nella fiera di Premiopoli

Maurizio Corsetti, la Repubblica, 28 gennaio 2008

Oltre mille i concorsi letterari, solo pochi sono quelli che contano davvero. Un gioco di clan delquale quasi tutti parlano male, ma al quale tutti si affannano a partecipare. Un viaggio dietro lequinte dopo le ultime liti dal Viareggio al Grinzane

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poeta, che in caso contrario non avrebbe più avutotelefono libero.

«Ancora oggi, negli uffici stampa delle grandicase editrici c’è gente che passa un anno intero allacornetta per strappare il voto a un giurato mori-bondo. È avvilente». Daniele Di Gennaro fondònel 1994 minimum fax. È dunque un editore chenon vince i premi letterari: «Se si entra in cinquina,come a noi accadde con Valeria Parrella alloStrega, è solo perché l’outsider dà una parvenza dilibertà. Poi, perde regolarmente. Le giurie sonovecchie, si smette di votare solo quando si muore.I premi sono quasi tutti una truffa, le schede sicomprano con un pezzo di pane, però gli scrittorici tengono perché sono dei narcisi pazzeschi. E glieditori vogliono mettere la fascetta sul libro. Nullache cambi i fatturati, o che giovi alla qualità dellaletteratura italiana».

Il Viareggio, dove nel 2007 i giurati litigaronocon la presidentessa Rosanna Bettarini per unafaccenda di nuove nomine, era per tradizione«comunista». Invece il Campiello, quello con lagiuria popolare come il festival di Sanremo (c’èanche la giuria tecnica nella quale si distingue,accanto a critici importanti, Irene Pivetti: ma leiche c’entra?), è l’emanazione della Confindustriaveneta ed era, nella storia lontana, cattoliberale edemocristiano. Anche il Grinzane Cavour è uncaso interessante: i nemici dell’artefice GiulianoSoria, colui che si vanta di essere una specie di pro-feta anticipatore del Nobel (poi li porta tutti aTorino, pagando decine di migliaia di euro concena finale al “Cambio”, ristorante di Cavour), loraccontano come una specie di Moggi dei libri.Guido Davico Bonino, che ci ha appena litigato, lodefinisce: «Un personaggio particolare, diciamocosì. Con me sono stati maleducati, ho saputo dauna segretaria di non essere più in giuria, ma nonè questo il punto. I premi letterari sono una nobi-le e inutile istituzione, non fanno vendere unacopia. I giurati sono quasi sempre collaboratoridelle case editrici, giornalisti culturali, curatori,prefatori, introduttori: insomma, premiati e pre-mianti sono la stessa cosa, a rotazione. Chi lavoracon i libri ha a che fare con chi li pubblica. E l’ego-latria di chi governa questi premi è smisurata: Soriasi sente il Grinzane, o forse di più, pensa di esserepadrone di tutto».

Difficile che i giurati leggano davvero, e perintero, i libri che devono poi votare, spesso susegnalazione di terzi. Improbabile che gli autori si

chiamino fuori da gare e mondanità: persino l’algi-da Rossana Rossanda, icona rossa, non si negò lapasserella al Campiello. Veramente, uno che hadetto no esiste e si chiama Sebastiano Vassalli.Sulla copertina einaudiana delle sue opere, da qual-che anno c’è scritto: per volontà dell’autore, que-sto libro non concorre a premi letterari. «All’iniziol’editore storse un po’ il naso» – dice Vassalli –«anche perchè mi risulta di essere l’unico. E nep-pure mi sono attirato troppe simpatie di colleghi,critici o altri editori. Pazienza. Tra parentesi,anch’io ho vinto in passato premi importanti.Nulla in contrario, se servissero alla qualità e alladivulgazione, però quasi sempre sono gare trucca-te o manipolabili, dove i cavalli corrono contro legalline e i cani, insomma c’è di tutto. E nessunlibro morente viene mai resuscitato. Nel ’90, quan-do vinsi lo Strega con «La chimera», tra i cinquefinalisti figurava pure un titolo appoggiato dal cra-xiani, allora funzionava così».

L’età media delle cosiddette giurie tecniche è.65 anni. Ottuagenari editor e dinosauri dell’edito-ria ringhiano per la famosa fascetta da avvolgereattorno alla copertina come un monile di carta. Èun gioco di pressioni, voti di scambio, promesse,favori da chiedere e da rendere. Non a caso, è statausata anche qui l’orrenda desinenza: Premiopoli.Ma è così importante vincere? Italo Calvino, scon-fitto quattro volte allo Strega, nel ’68 rinunciò alViareggio con un telegramma: «i premi letterarisono istituzioni ormai svuotate di significato». Masarà poi vero, se hanno resistito tanto?

«Per quanto riguarda le vendite, è risaputo chepochissimi premi le muovono davvero». CarloFeltrinelli è sensibile al loro fascino? «Non sononeppure in giuria allo Strega, al limite possoinfluenzare mia madre che invece vota. Noi nonsiamo tra i vincitori frequenti, comunque quandodecidiamo di competere preferiamo una campa-gna elettorale light. E se poi si arriva prima, fa pia-cere. È innegabile che esistano giurie composte dafunzionari di case editrici, autori e collaboratori, equi può esserci non dico una compravendita divoti ma una forte pressione. Credo che bisogne-rebbe essere più esigenti, più capaci di rinnovare legiurie e forse limitare i libri ammessi, così almenosarebbero letti davvero da chi li deve giudicare. Eauspicherei che i giornali parlassero più di lettera-tura e meno di pettegolezzi letterari, e che magarisi dessero mille euro in meno ai vincitori e milleeuro in più a chi diffonde i libri».

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Rassegna stampa 16-31 gennaio 2008

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Non è facile premiare parole, specialmente seintorno girano un bel po’ di soldi. Non è facilesoprattutto in un paese di scarsi e deboli lettoricome il nostro. La mossa di allargare le giurie tra la«ggente» può sembrare democratica, però nonsempre giova alla causa della trasparenza. E nonlibera dal rischio di clamorose gaffe, come quelladi portare una gloria come Carlo Fruttero in fina-le, da favorito, al Campiello (edizione 2007, ilromanzo era «Donne informate sui fatti») e poifarlo arrivare quinto su cinque. «Un verdetto scan-daloso, c’è poco da dire» ricorda Ernesto Ferrero.Il grande Fruttero, maestro di ironia e disincanto,non ci restò benissimo anche se la platea dellaFenice lo acclamò in piedi per tre minuti e passa.

Infine commentò: «Il mio era un romanzo AnciénRegime, il popolo della giuria ha assaltato laBastiglia e mi ha giustamente tagliato la testa. Ipremi? Boh, non li ho mai vinti e non faccio nep-pure parte di nessuna giuria. Allo Strega, Mastellavota e io no».

Il presentatore della serata era l’immancabileBruno Vespa (lui brilla anche allo Strega, visto che«Porta a porta» è ormai un format applicabileall’Italia intera), assai più interessato alle vezzosescarpe gialle di Fruttero che non ai libri. Alla fine,al vecchio scrittore consegnarono il dono spettan-te ai finalisti, una conca in vetro di Murano.«Molto bella, la riempirò di ortensie o forse difrutta finta». Applausi.

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Irina ha appena finito di leggere Il giorno in piùdi Fabio Volo (Mondadori). Le è piaciuto eritiene importante condividere le impressioni

con altri lettori. Apre il sito di comparazione prez-zi www.ciao.it e nella sezione dedicata alla lettera-tura scrive: «Quella che sembrava una storia desti-nata a finire subito si rivela una storia quasifiabesca, un sogno… lo consiglio a tutti». Su lette-ratitudine.blog.kataweb.it si discute animatamentedi romanzi di guerra e si promuovono Il pittore dibattaglie (Arturo Pérez-Revert, editore Tropea),Neven (Joe Sacco, Mondadori) e Ali di sabbia(Valerio Aiolli, Alet Edizioni). Gli interventi fioc-cano a centinaia, malgrado l’argomento sia di nic-chia. C’è anche chi non ha ancora letto i romanzi:«Ma lo farò presto, mi avete fatto venire voglia dicorrere in libreria».

Che i libri si vendano col passaparola assai piùche con le promozioni ufficiali è vero da secoli.Funzionava cosi nei «salons» settecenteschi e, intempi più recenti, è stata la comunicazione direttafra i lettori a consacrare il capolavoro di BorisPasternak quando, nel 1957, la Feltrinelli pubblicòin anteprima mondiale Il dottor Zivago, traducendoil dattiloscritto che in pochi mesi divenne best sel-ler. Con internet sarebbe bastata qualche settima-na. Come è accaduto, per esempio, con L’eleganzadel riccio (edizioni e/o), opera prima della docentedi filosofia Muriel Barbery, best seller in Francia, egran successo in Italia, che ha venduto centinaia dimigliaia di copie grazie all’impressionante tam tamonline. È il web ad accorciare i tempi. I lettorinavigatori si definiscono books-eater (letteralmente:divoratori di libri) e condividono le emozioni che

regala un romanzo avvincente, decretandone, piùo meno inconsapevolmente, la popolarità. Com’èavvenuto per The Stolen Child di Keith Donohue,mandato in libreria dalla Rizzoli con il titolo IIbambino che non era vero. Nel silenzio della critica, ilromanzo ha fatto incetta di consensi grazie al bru-sio telematico scattato su Amazon, il più impor-tante sito di libri del mondo. Le librerie onlinehanno capito che conviene cedere la parola ai let-tori più che ai recensori di professione.Riproponendo sul web un’abitudine consolidata: illettore chiede una dritta sui titoli da acquistareall’amico che stima e che ha dimostrato, nei gusti,di essere attendibile. Così, sulla scia dei blog per-sonali, i maggiori portali specializzati nel lancio enella vendita di libri hanno aperto spazi di discus-sione libera dove i lettori diventano recensori. SuBol.it oppure Qlibri.it, per citare due delle più fre-quentate librerie della rete, sotto ogni titolo incommercio si possono leggere i contributi deinavigatori, le loro opinioni e il voto assegnatoespresso in stelle, come per i film. A guadagnarcisono soprattutto gli scrittori esordienti. Come lacontroversa Babsi Jones, autrice per la Rizzoli diSappiano le mie parole di sangue, una storia intensaambientata durante il conflitto nei Balcani dellaquale, in rete, si sta discutendo moltissimo.

Capita in Italia e capita oltre confine. In SpagnaLa sombra del viento di Carlos Ruìz Zafón è stato sco-perto dal pubblico di internet prima che dai critici.E internet l’ha rilanciato anche sul mercato italiano,dove il romanzo è stato pubblicato, con successo,dalla Mondadori. Tanti lettori dagli scaffali virtualidi www.internetbookshop.it l’hanno consigliato

Passaparola

Monica Vignale, Panorama, 31 gennaio 2008

Letteratura in rete. Aumentano i siti nei quali i lettori diventano recensori dei libri che compra-no. Ne discutono, li consigliano o li stroncano e il tam tam dei navigatori influenza il mercato.Risultato: i romanzi snobbati dai critici di professione diventano successi. E gli editori corrono airipari.

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come regalo di Natale. Le comunità del passaparo-la sono un aiuto determinante soprattutto per lapiccola editoria, che può aspirare a un’improvvisanotorietà. È il caso di Ultimo appello dell’esordienteSalvo Toscano, un giallo pubblicato da DarioFlaccovio che, viste le dimensioni dell’editore, èstato un trionfo di vendite. Può accadere anche ilcontrario, certo. Il contagio viaggia in due direzio-ni, come racconta un lettore sul forum di Qlibri.it:«Volevo comprare Brucia Troia, perché dello stessoautore di Caos calmo (Sandro Veronesi, ndr), un libroche ho adorato. Però ho visto che a molti lettori,dei quali recepisco i consigli su internet, non è pia-ciuto, e per ora ho rimandato». Potere del condizio-namento reciproco, che può influenzare facilmen-te anche il non acquisto. Nei cyberluoghi dovenavigano milioni di persone dai gusti variegati, iltam tam riserva sorprese inaspettate. I gruppi dibibliofili sparpagliati dalla Valle d’Aosta alla Sicilia,refrattari ai diktat delle mode, discutono anche diopere datate o trascurate, delle quali sintetizzanopregi e difetti in schede che inseriscono sul propriosito web, dando vita a una rete nazionale(http://gruppodilettura.wordpress.com) di scam-bio di opinioni e giudizi sulla letteratura, classica ocontemporanea.

Non è strano, quindi, che improvvisamentenelle librerie si registri una impennata di richiesteper Danny l’eletto dell’americano Chaim Potok,pubblicato in Italia all’inizio degli anni Ottanta eriscoperto vent’anni dopo, quando internet hafatto da cassa di risonanza a una toccante storia diamicizia fra due ragazzi divisi dall’ortodossiaebraica.

Significativo anche il caso di Eureka Street del-l’irlandese Robert McLiam, una storia di amicizia,sangue e perdono ambientata in una Belfast diconflitti irrisolti. Il romanzo, pubblicato dalla Fazinel 1999, è stato scoperto solo qualche anno piùtardi sul web, dove è rimasto a lungo fra i testi«vivamente consigliati». L’ascesa è stata irresistibi-le, tanto che l’editore ora annovera il libro comeuno dei più venduti del suo catalogo.

Miracoli di un fenomeno il cui esempio piùvivido resta Il cacciatore di aquiloni (Piemme) diKalhed Hosseini, che ha fatto piangere l’Europaben prima che i raffinati opinionisti lo incoronas-sero principe delle librerie, e che per 3 anni, inItalia, ha venduto quasi 1.000 copie al giorno nel-l’indifferenza di giornali e tv. La critica lo avevaignorato ma i libri, è risaputo, vendono grazie aiconsigli di chi li legge per piacere, non per dovere.

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Casa editrice Il Filo. Al telefono della sededi Viterbo rispondono voci vellutate eflautate. Incredibile. Provate a chiamare i

«grossi» editori, se non ci credete. Vi sbrigherannoin pochi minuti. Se poi siete un autore inedito,all’esordio, allora è una Linea Maginot, un tappetodi «cavalli di Frisia». E se mandate un manoscritto,è come spedirlo all’inceneritore. Al Filo invecesono gentilissimi. Non solo non cercano di sot-trarsi, ma s’intrattengono con lo sconosciuto. Nonbasta. Sono proprio loro che vengono a cercarvi.Acquistano spazi pubblicitari sulle pagine di gior-nali di tutto rispetto, il Corriere della Sera e Repubblicae Il Sole-24 Ore e anche sui quotidiani gratuiti. Gliannunci recitano «Scrittori emergenti». Bello gros-so. E poi, te lo dicono chiaro: «La casa editrice IlFilo seleziona opere letterarie inedite per la pubbli-cazione». Tu, autore emergente ma inedito, vuoiessere scelto? Manda il tuo materiale. Un romanzodi 400 pagine va benissimo, anche 600, non cisono limiti massimi, ma solo limiti minimi (nonmeno di 40 pagine per la prosa, non meno di 30poesie).

Così ha fatto una nostra amica, Monica, l’annoscorso. Ha mandato 30 poesie. Le hanno rispostosubito, via e-mail. «Gentile autrice, qualora l’operarisulti selezionata dal nostro comitato di lettura, Leinvieremo una proposta editoriale entro il 29 feb-braio 2008. Qualora non ricevesse nostra comuni-cazione entro la suddetta data può considerare laSua opera non selezionata». La nostra amica era unpo’ sulle spine. Finché, all’inizio di gennaio, le èarrivato a casa un plico. L’editore esordiva:«Oggetto: Selezione Opere Letterarie. Gentile

ecc., Le scriviamo dopo aver letto con interesse laSua Opera, che ha inviato in esame alla nostra casaeditrice e che ci ha ben impressionato. Di qui laconvinzione che il Suo lavoro sia pronto ad entra-re nel nostro progetto di pubblicazione e lancio dinuovi autori. In allegato troverà il contratto di edi-zione che desideriamo proporLe (…)»

La lettera proseguiva con espressioni come:«nuove realtà letterarie», «scommessa editoriale»,«efficacia, trasparenza, stretta collaborazione» e«correttezza». Tutta musica per le orecchie dichiunque abbia mai affrontato i centralini deglieditori. Poi la lettera spiegava che lei, Monica,doveva pagare. E infatti, nell’allegato Accordo diEdizione, già firmato dall’editore Il Filo, si dice:«Siamo pronti a pubblicare la Sua Opera all’inter-no della collana “Nuove Voci” qualora possa fareacquistare, o acquistare direttamente, presso lanostra casa editrice n. 150 copie del Suo libro, alprezzo di copertina di Euro 12,00». Dunque, 1.800euro, anche a rate, tre o dieci, e il libro uscirà aquattro mesi dal saldo.

Solo a questo punto Monica si è resa conto diavere a che fare con un editore a pagamento. Cheperò in cambio le promette servizi letterari e pro-mozionali. Presentazione in una trasmissioneradiofonica (una piccola radio, per la verità, legataal Filo. Il programma si chiama La luna e i falò).Pubblicità nel sito della casa editrice. Promozioneall’interno della rivista Nuove Voci, sempre dicasa. Poi, in un opuscolo che illustra le strategieeditoriali del Filo, la matassa comincia un po’ aimbrogliarsi. Molte voci della cultura vengonocitate come testimonial, da Alda Merini, presiden-

Vi racconto la beffa dei falsi versi d’autore

Paolo Bianchi, Il Giornale, 31 gennaio 2008

Una ragazza risponde a una casa editrice che seleziona opere inedite. Manda 30 testi di cantan-ti e poeti dicendo che sono opera sua. Dopo pochi mesi la risposta: «Il suo lavoro ci ha benimpressionato»

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Oblique Studio

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te onorario, a Alberto Bevilacqua, Andrea DeCarlo, Luciano De Crescenzo, Dario Fo, GiorgioForattini, Maurizio Maggiani, Mario Monicelli,Aldo Busi e via dicendo. Ma non è chiaro che cosaabbiano fatto a parte essere intervistati sulla rivi-sta. La casa editrice dice che grazie a un intensolavoro di promozione «è riuscita ad arginare le dif-ficoltà legate alla distribuzione tradizionale».Ammette che la prima tiratura sarà bassa (non dicequanto). Che la distribuzione la farà il GruppoMursia (confermano, ma è una distribuzione surichiesta). Che si partecipa a premi, come «IlLitorale», «Il Giunco», il «Città di Arona» o il«Terme di Spezzano». E se non si vince, ci saràalmeno un piazzamento, una menzione speciale.Poi, nell’opuscolo, appaiono una ventina di strug-genti testimonianze scritte di autori pubblicati dalFilo. Non uno che ammetta di aver sborsato uncentesimo.

Infine, va detto che Monica è una birichina enon pagherà e non pubblicherà, perché la Sua

Opera che ha «tanto bene impressionato» è una col-lezione di trenta testi, tutti già strapubblicati e strae-diti. Ha mandato una poesia di Bukowski, una diRabindranath Tagore, un pezzo di Kahlil Gibran,un passaggio dell’Ecclesiaste, in ossequio al princi-pio di mescolanza tra cultura alta e bassa, i versi diUna manciata di miracoli di Franco Califano e quelli diTi scatterò una foto di Tiziano Ferro. Emily Dickinsone Orietta Berti. Ha cambiato solo i titoli.

Così chiamiamo Il Filo. Il direttore editorialeGiuseppe Lastaria, non c’è. Parliamo con il dott.Silvio Scorsi, responsabile dei comitati di lettura.Ci spiega che i testi sono selezionati con scrupoloda lettori qualificati. Che stanno attenti. Che nelmomento in cui fanno una proposta editoriale èperché il testo ha delle qualità letterarie, o perlo-meno l’autore promette bene. Gli chiediamo:«Supponga che uno le mandi un capitolo di Guerrae pace e che gli venga proposto un contratto di pub-blicazione a pagamento…». «Be’ sarebbe davveroimbarazzante», risponde.

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