La rassegna stampa di Oblique · 2007. 9. 3. · lità spirituali e qui il poeta cerca e trova la...

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Alla ricerca di libri che gli editori ormai non pubblicano più: le librerie si svuotano di classici e capolavori e si riempiono di vestiti e telefonini Roger Scruton, “Eliot, cultura e religione per ritrovare ciò che è perduto” Il Foglio, 19 maggio 2007 3 Luigi Mascheroni, “Chi conta molto e chi nulla nell’editoria” Il Domenicale, 19 maggio 2007 9 Geraldine Schwarz, “Come ti vendo il piccolo editore. Un segreto di nome ‘Vivalibri’” la Repubblica, 25 maggio 2007 13 Giorgio Vasta, “Il letto di procuste e la Cura Ludovico #6” www.nazioneindiana.com, 25 maggio 2007 15 Seia Montanelli, “Cresce un nuovo genere di libri, quelli scomparsi e dimenticati” Stilos, 26 maggio 2007 17 Paola Calvetti, “Il codice Campbell” D la Repubblica delle donne, 26 maggio 2007 21 Chiara Dino, “Libri, vestiti e brioche” D – la Repubblica delle donne, 2 giugno 2007 25 Mirella Appiotti, “Grandi Libri per pochi euro” Tuttolibri – La Stampa, 2 giugno 2007 29 Nicola Lagioia, “Roth e Dylan e l’elogio del cattivo carattere” www.nazioneindiana.com, 6 giugno 2007 31 Giuseppe Scaraffia, “Il tramonto del giovane Gatsby” Il Foglio, 4 giugno 2007 33 Silvio Bernelli, “I persecutori AA. VV.” www.ilprimoamore.com, 4 giugno 2007 37 Idolina Landolfi, “Céline, viaggio alla fine dell’Europa” il Giornale, 5 giugno 2007 39 Claudio Gorlier, “Pirandello quanto ci manchi” La Stampa, 6 giugno 2007 41 La rassegna stampa di Oblique dal 15 maggio al 16 giugno 2007 Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 1

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  • Alla ricerca di libri che gli editori ormai non pubblicano più:le librerie si svuotano di classici e capolavori

    e si riempiono di vestiti e telefonini

    – Roger Scruton, “Eliot, cultura e religione per ritrovare ciò che è perduto”Il Foglio, 19 maggio 2007 3

    – Luigi Mascheroni, “Chi conta molto e chi nulla nell’editoria”Il Domenicale, 19 maggio 2007 9

    – Geraldine Schwarz, “Come ti vendo il piccolo editore. Un segreto di nome ‘Vivalibri’”la Repubblica, 25 maggio 2007 13

    – Giorgio Vasta, “Il letto di procuste e la Cura Ludovico #6”www.nazioneindiana.com, 25 maggio 2007 15

    – Seia Montanelli, “Cresce un nuovo genere di libri, quelli scomparsi e dimenticati”Stilos, 26 maggio 2007 17

    – Paola Calvetti, “Il codice Campbell”D – la Repubblica delle donne, 26 maggio 2007 21

    – Chiara Dino, “Libri, vestiti e brioche”D – la Repubblica delle donne, 2 giugno 2007 25

    – Mirella Appiotti, “Grandi Libri per pochi euro”Tuttolibri – La Stampa, 2 giugno 2007 29

    – Nicola Lagioia, “Roth e Dylan e l’elogio del cattivo carattere”www.nazioneindiana.com, 6 giugno 2007 31

    – Giuseppe Scaraffia, “Il tramonto del giovane Gatsby”Il Foglio, 4 giugno 2007 33

    – Silvio Bernelli, “I persecutori AA. VV.”www.ilprimoamore.com, 4 giugno 2007 37

    – Idolina Landolfi, “Céline, viaggio alla fine dell’Europa”il Giornale, 5 giugno 2007 39

    – Claudio Gorlier, “Pirandello quanto ci manchi”La Stampa, 6 giugno 2007 41

    La rassegna stampa di Obliquedal 15 maggio al 16 giugno 2007

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  • – Aldo Piccato (traduzione di), “Oprah Winfrey & l’Apocalisse”Il Foglio, 7 giugno 2007 43

    – Vito Punzi, “Scorpacciata (indigesta) di Rilke”Il Domenicale, 9 giugno 2007 49

    – Mirella Appiotti, “L’Adelphi un’altra recerche”Tuttolibri – La Stampa, 9 giugno 2007 51

    – Roberto Carnero, “Un best-seller ci salverà”Il Mattino, 9 giugno 2007 53

    – Leonardo Colombati, “Bellow. Il dono di Saul è narrare le idee”il Giornale, 9 giugno 2007 55

    – Paolo Di Stefano, “Snob o populisti, autori sconfitti dalla modernità”Corriere della Sera, 11 giugno 2007 57

    – Edgar L. Doctorow, “Il potere della scrittura”la Repubblica, 11 giugno 2007 59

    – Aridea Fezzi Price, “Tennessee Williams. Un diario che si chiama desiderio”il Giornale, 14 giugno 2007 61

    – Dario Pappalardo, “Pubblicherò libri imperfetti”la Repubblica, 15 giugno 2007 63

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  • Eliot, cultura e religioneper ritrovare ciò che è perduto

    Roger Scruton, Il Foglio, 19 maggio 2007

    Una critica della modernità fatta dal suo interno, la liberazione poetica del pensiero dalsentimentalismo dell’umanesimo liberale

    Indiscutibilmente Thomas Stearns Eliot èstato il maggior poeta di lingua inglese delXX secolo, il critico letterario anglofono piùrivoluzionario dall’epoca di Johnson e il piùinfluente pensatore religioso nella tradizioneanglicana dai tempi del movimento del metodi-smo di John Wesley. La sua visione sociale e poli-tica è presente in tutti i suoi scritti, ed è stataassorbita e riassorbita da generazioni di lettoriinglesi e americani, sui quali esercita un fascinoquasi mistico anche quando sono spinti – come losono in molti – a rifiutarla. Senza Eliot la filoso-fia del conservatorismo avrebbe perso qualunqueforma di solidità durante il secolo scorso.Sebbene non fosse suo preciso intento, egli haelevato questa filosofia – sul piano intellettuale,spirituale e stilistico – a un livello superiore, mairaggiunto prima dall’idea socialista.

    Nato nel 1888 a St Louis, nel Missouri, Eliotstudia a Harvard, alla Sorbona e al Merton Collegedi Oxford [...]. Nel 1914 conosce Ezra Pound, chelo incoraggia a trasferirsi in Inghilterra. L’annodopo si sposa, ed esce il suo primo componimen-to poetico di successo, “Il canto d’amore di J.Alfred Prufrock”, che, con altri poemetti pubbli-cati insieme nel 1917 con il titolo “Il canto d’amo-re di J. Alfred Prufrock e altre osservazioni”, haprofondamente cambiato il corso della letteraturadi lingua inglese. [...]

    Poco dopo, Eliot pubblica un libro di saggi –“Il bosco sacro”, che avrebbe avuto la stessainfluenza delle sue prime poesie – nei quali soste-neva la sua nuova e impegnativa teoria sul ruolodella critica, anzi della necessità della critica sevogliamo che la nostra cultura letteraria sopravvi-va. Secondo Eliot non è un caso fortuito che criti-ca e poesia spesso si accompagnino nello stessointelletto, come nel suo caso o in quello diColeridge, che egli ha eletto a migliore dei critici

    inglesi. Come il poeta, il critico si preoccupa di svi-luppare il “buonsenso” (sensibility) del suo lettore,un termine con il quale Eliot intendeva una sortadi intelligente osservazione del mondo umano. Icritici non procedono per astrazione o generaliz-zazione: osservano e registrano ciò che vedono e,così facendo, comunicano anche un senso di ciòche conta nell’esperienza umana, distinguendol’emozione falsa da quella genuina. Anche se aEliot sarebbero occorsi molti anni per spiegarecon precisione – gradatamente e, a tratti, in modooscuro – cosa intendesse esattamente per “buon-senso”, il suo alto concetto del ruolo del criticoaveva comunque fatto presa su molti dei suoi let-tori. Per di più, “Il bosco sacro” conteneva saggiche avrebbero rivoluzionato il gusto letterario: inalcuni di essi, il tono autorevole e il rifiuto delromanticismo sentimentale proprio di numerosisuoi contemporanei fecero nascere l’impressioneche il mondo moderno stesse finalmente facendosentire la sua voce nella letteratura e che tale vocefosse quella di T.S. Eliot.

    “Il bosco sacro” ha distolto l’attenzione delmondo letterario dalla letteratura romantica e l’hafocalizzata sui “poeti metafisici” del XVI e XVIIsecolo e sui drammaturghi dell’epoca elisabettiana– predecessori minori o eredi di Shakespeare – ilcui lessico crudo, che ben comunicava la sensazio-ne della cosa descritta, forniva un contrasto effica-ce con il sentimentalismo melenso che Eliot con-dannava nei suoi immediati contemporanei. C’èanche un saggio su Dante che tratta di una que-stione che avrebbe spesso angustiato lo scrittore:la relazione fra poesia e credenza religiosa. Fino ache punto si può apprezzare la poesia della“Divina Commedia”, se si rifiuta la dottrina chel’ha ispirata? Questo interrogativo era profonda-mente sentito da Eliot, e per diverse ragioni.Anzitutto (come i suoi contemporanei modernisti

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    Pound e Joyce), era profondamente influenzato daDante, la cui limpida forma in versi, lo stile collo-quiale e la filosofia sublime avevano creato unavisione dell’ideale poetico. Al contempo, tuttavia,Eliot rifiutava l’ottica teologica della “DivinaCommedia”, un rifiuto permeato da un profondosenso di perdita. Eppure, nella poesia di Eliot, lavoce di Dante sarebbe costantemente risuonata,offrendogli giri di frase, fulminei lampi di pensie-ro e una visione del mondo moderno da un puntodi vista al di fuori di esso, un punto di vista scatu-rito da un’esperienza di santità – che, per altro, eraun’esperienza che Eliot allora non condivideva. Equando, infine, giunse a condividerla – o, almenoa riconoscere la propria conversione al cri-stianesimo – nell’ultimo dei “Quattro quartetti”scrisse la più elegante delle imitazioni di Dante inlingua inglese, anzi qualcosa di infinitamente piùbello di una imitazione, in cui la visione religiosadantesca è trasferita e tradotta nel mondo dellamoderna Inghilterra. Un altro dei saggi in “Ilbosco sacro” merita di essere citato: “Tradizione etalento individuale”, nel quale Eliot introduce iltermine che meglio sintetizza il suo contributo allacoscienza politica del nostro secolo: “tradizione”.Nel saggio, si sostiene che la vera originalità è pos-sibile solo all’interno di una tradizione e che ognitradizione deve essere ricostruita dall’artista men-tre crea qualcosa di nuovo. La tradizione è qual-cosa che vive e, proprio come ogni scrittore vienevalutato paragonandolo a chi lo ha preceduto, cosìil significato della tradizione cambia man manoche vi vengono aggiunte nuove opere. In pocheparole, sarebbe stata questa idea letteraria di unatradizione viva che avrebbe gradualmente permea-to il pensiero di Eliot e costituito il fulcro della suafilosofia sociale e politica.

    “Prufrock” e “Il bosco sacro” già ci aiutano acapire il paradosso di T.S. Eliot: i nostri maggiorimodernisti dovrebbero essere i nostri maggioriconservatori moderni. L’uomo che ha rivoluziona-to una letteratura che era ancora d’impronta otto-centesca e ha dato vita all’epoca del verso libero,dell’alienazione e dell’esperimento è stato anchel’uomo che, nel 1928, si sarebbe definito “un clas-sico in letteratura, un monarchico in politica e unanglocattolico in religione”. Questo apparenteparadosso contiene l’indizio che indica la statura diEliot come pensatore sociale e politico: egli si èreso conto che è proprio nelle condizioni moder-ne – di frammentazione, eresia e scetticismo – che

    il progetto conservatore acquista il suo senso. Ilconservatorismo è esso stesso un modernismo, equi sta il segreto del suo successo. Ciò che distin-gue Burke dai rivoluzionari francesi non è il suoattaccamento alle cose del passato, ma il suo desi-derio di vivere pienamente il presente, capendoloin tutte le sue imperfezioni e accettandolo comel’unica realtà che ci viene offerta. Come Burke,Eliot ha colto la distinzione tra una nostalgia voltaal passato – che non è altro che un’altra forma disentimentalità moderna – e una tradizione genuinache ci dà il coraggio e l’ottica giusta con i quali vi-vere nel mondo moderno.

    Nel 1922 Eliot fonda una rivista letteraria tri-mestrale, The Criterion, che doveva continuare acurare fino al 1939, quando dovette chiuderlasotto la pressione di “anime depresse” a causadello “stato attuale degli affari pubblici”. Come faintuire il titolo [Il Criterio], il progetto era anima-to dal suo senso dell’importanza della critica edella futilità degli esperimenti modernisti quandonon siano confortati da giudizio letterario, daserietà morale e dal senso dell’importanza dellaparola scritta. La filosofia proposta dalla rivistaera di orientamento conservatore, anche se perdefinirlo Eliot preferiva il termine “classicismo”.The Criterion è stato il forum dove venne pubbli-cata per la prima volta molta della nostra lettera-tura modernista, inclusa la poesia di Pound,Empson, Auden e Spender. Il primo numero pro-pose il lavoro che ha eletto Eliot stesso a maggiorpoeta della sua generazione: “La terra desolata”. Ilpoemetto, ai suoi primi lettori, apparve subitocogliere appieno il disinganno e il vuoto seguitialla vacua vittoria della Prima guerra mondiale, unconflitto nel corso del quale la civiltà europea siera suicidata, esattamente come era accaduto aquella greca nella guerra del Peloponneso. [...]Dopo “La terra desolata” Eliot continuò a scrive-re ispirandosi a quella che vedeva come la disso-ciazione dolorosa tra il buonsenso della nostracultura e l’esperienza che si ha del mondo mo-derno. Questa fase del suo percorso doveva cul-minare in una profonda dichiarazione cristiana:“Il mercoledì delle Ceneri”. Qui il poeta lascia laconnotazione antropologica e annuncia la suaconversione alla fede anglo-cattolica. Eliot eraormai pronto a portare la sua croce tanto perso-nale quanto particolare: quella del senso di appar-tenenza. Finito il tempo dell’esilio spirituale epolitico, decise di condividere la sorte di quella

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    tradizione alla quale appartenevano i suoi autoripreferiti. Divenne cittadino britannico, membrodella chiesa anglicana e scrisse il suo straordinariodramma in versi, “Assassinio nella cattedrale”, sulsignificato del martirio cristiano e sul lunghissimoconflitto tra chiesa e stato, a cui doveva porre finela nascita della chiesa d’Inghilterra. […] “Quattroquartetti” esplora in profondità le nostre possibi-lità spirituali e qui il poeta cerca e trova la visioneal di fuori del tempo in cui tempo e storia sonoriscattati. È un’opera religiosa e, al contempo, distraordinario potere lirico, come il “Cimiteromarino” di Valéry, ma infinitamente più maturanel suo spessore filosofico. […]

    Ciò che Eliot rimproverava alla letteratura neo-romantica non si limitava al campo letterario. Eraconvinto che l’uso di uno stile poetico trito e diritmi cadenzati fosse spia di grave debolezzamorale: non riuscire a osservare la vita come èdavvero e a sentire quello che deve essere sentitonei confronti di un’esperienza che è inevitabilmen-te nostra. Credeva che questo fallimento non ri-guardasse solo la letteratura, ma pervadesse anchel’intera vita moderna. La ricerca di un nuovo idio-ma fa pertanto parte di una indagine più ampia,volta a capire la realtà dell’esperienza moderna.Allora, e solo allora, possiamo affrontare la nostrasituazione e chiederci cosa dovremmo fare in pro-posito. […] Per Eliot, le parole avevano comin-ciato a perdere la loro precisione, non malgrado lascienza, ma a causa sua; non malgrado la perdita divere credenze religiose, ma a causa sua; non mal-grado la proliferazione di termini tecnici, ma acausa sua. Il nostro moderno modo di esprimercinon ci consente più di “prendere una parola e daessa estrarne il mondo”; al contrario, le parole locelano, visto che non comunicano a esso unarisposta vissuta. Sono semplici fiches di un giocodi cliché, preposte a riempire il silenzio, a occulta-re il vuoto che è sopravvenuto dopo che gli antichidei se ne sono andati dai luoghi dove abitavanocon noi. Ecco perché, di norma, i moderni modidi pensare non sono ortodossie ma eresie, dovecon “eresia” si intende quella verità che è stata esa-sperata in menzogna; una verità nella quale, percosì dire, ci siamo rifugiati; nella quale abbiamoinvestito tutte le ansie che non abbiamo analizza-to, attendendoci da essa delle risposte a quegliinterrogativi che non ci siamo preoccupati di capi-re. Nelle filosofie che predominano nella vitamoderna – utilitarismo, pragmatismo, comporta-

    mentismo – troviamo “parole che hanno l’abitudi-ne di cambiare il loro significato […] o altrimentivengono brutalmente condannate”. Eliot sottin-tende che lo stesso sia vero ogni volta che suben-tri l’eresia umanista, ogni volta che trattiamo l’uo-mo come un dio e crediamo che i nostri pensieri ele nostre parole non debbano essere misurati conun altro standard al di fuori di se stessi.

    Eliot è cresciuto in una democrazia e ha eredi-tato quel grande bene dello spirito pubblico che èil dono della democrazia americana al mondomoderno. Ma non era democratico nei sentimenti,poiché credeva che la cultura non potesse essereaffidata al processo democratico, proprio per que-sta incuranza nei confronti delle parole, questa abi-tudine ai cliché ottusi, che sempre si presentanoquando si reputa che chiunque abbia uguale dirittodi esprimersi. In “L’uso della poesia e l’uso dellacritica” scrive: “Quando il poeta si trova in un’etànella quale non c’è aristocrazia intellettuale, quan-do il potere è nelle mani di una classe così de-mocratizzata che, mentre rimane tale, si pone comerappresentante dell’intera nazione; quando le uni-che alternative sembrano essere il parlare a un ce-nacolo o fare un soliloquio, le difficoltà del poeta ela necessità della critica diventano maggiori”.

    Per Eliot nasce da qui l’accresciuto valore deicritici nel mondo moderno: sono loro che devonoagire per recuperare ciò che l’aristocratico idealedel gusto generava altrimenti in modo spontaneo:un linguaggio in cui le parole siano usate in tutto illoro pieno significato, per mostrare il mondocom’è, senza appannarlo in una foschia disentimento oppresso da cliché. Chi è stato cre-sciuto con sentimenti vuoti non ha armi per afron-tare la realtà di un mondo abbandonato da Dio:cade immediatamente dalla sentimentalità nel cini-smo, e così perde il potere sia di fare esperienzadella vita sia di viverla con le sue imperfezioni.

    Eliot aveva pertanto percepito un enorme peri-colo nell’umanesimo liberale e “scientifico” propo-sto dai profeti della sua epoca. Gli sembrava chequesta forma di liberalismo fosse l’incarnazione delcaos morale, poiché permette a qualunque senti-mento di fiorire e uccide qualunque forma di giu-dizio critico con l’idea di un diritto democraticoalla parola, che diventa inconsapevolmente undiritto democratico al sentimento. Sebbene “l’uma-nità non possa sopportare troppa realtà” – comedice prima in “Assassinio nella cattedrale” e poi in“Quattro quartetti” – il proposito della cultura è di

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    conservare l’osservazione intelligente del mondoumano, quella cosa sfuggevole che è detta“buonsenso”: l’abitudine al giusto sentimento. Ilbarbarismo non scaturisce dalla perdita delle abili-tà o della conoscenza scientifica della gente, né losi evita mantenendole: nasce da una perdita dicultura, visto che è solo attraverso essa che le real-tà importanti possono essere veramente percepite.

    Qui è difficile definire con precisione il pensie-ro di Eliot e vale la pena di tracciare un parallelocon un pensatore che egli non amava: Nietzsche.Secondo il filosofo, la crisi della modernità erasopravvenuta a causa della perdita della fede cri-stiana, inevitabile risultato dello sviluppo scientifi-co e della crescita della conoscenza. Allo stessotempo, però, per gli esseri umani è impossibilevivere davvero senza fede e, per noi che abbiamoereditato le consuetudini e i concetti della culturacristiana, quella fede deve essere il cristianesimo.Se si toglie la fede, non si toglie soltanto il nucleodella dottrina, né si lascia un paesaggio disboscatoe scevro da ingombri, in cui la gente può esserefinalmente vista per quella che è. Si toglie il pote-re di percepire altre e più importanti verità – veri-tà sulla nostra condizione che, senza il beneficiodella fede, non possono essere affrontate nelmodo giusto. (Per esempio, la verità della nostramortalità, che non è un semplice “fatto” scientifi-co da immagazzinare nella nostra conoscenza, mauna esperienza penetrante, che scorre e pervadetutte le cose e cambia l’aspetto del mondo.)

    La soluzione che Nietzsche ha appassionata-mente proposto per questo dilemma è stata lanegazione della sovranità della verità nel suo insie-me; è stato proclamare che “non ci sono verità”; èstato costruire una filosofia di vita sulle rovine discienza e religione, in nome di un ideale puramen-te estetico. Eliot ha colto l’assurdità di quella rispo-sta e il deliberato autoisolamento dell’uomo chel’ha fornita. Eppure, il paradosso rimane. Le veritàche contavano per Eliot erano verità di intuizione,verità sul peso della vita umana e la realtà del senti-mento umano. La scienza non rende queste veritàpiù facilmente percettibili, al contrario: scatenanella psiche umana una pioggia di fantasie – libera-lismo, umanesimo, utilitarismo, e tutto il resto –che la distraggono con la futile speranza di unamoralità scientifica. Il risultato è la corruzione dellinguaggio vero e proprio della sensibilità interiore,una caduta dal buonsenso nella sentimentalità el’offuscamento del mondo umano. Ecco quindi il

    paradosso: le menzogne della fede religiosa ci con-sentono di percepire le verità che contano; le veri-tà della scienza, investite di autorità assoluta,nascondono quelle che contano e rendono imper-cettibile la realtà umana. La soluzione di Eliot alparadosso era “obbligata” dal sentiero che avevaimboccato per giungere alla sua scoperta – il sen-tiero della poesia, con i suoi tormentosi esempi dipoeti la cui incisività, percezione e sincerità eranodovute alle credenze cristiane. La soluzione eraabbracciare la fede cristiana, non come Tertullianoa ragione del paradosso, ma, piuttosto, malgradoesso. Questo spiega la crescente convinzione diEliot che cultura e religione siano, in ultima analisi,indissolubili. Era persuaso che la malattia della sen-timentalità potesse essere superata solo con unagrande cultura, in cui l’opera di purificazione fosseincessante. Questo è il compito del critico e dell’ar-tista, ed è un compito difficile:

    E così ogni impresa/ È un cominciar di nuovo,un’incursione nel vago/ Con logori strumenti chepeggiorano sempre/ Nella gran confusione di sen-timenti imprecisi,/ Squadre indisciplinate di emo-zioni e quello che c’è da/ conquistare/ Con laforza e la sottomissione è già stato scoperto/ Unavolta o due, o parecchie volte, da uomini che nonsi/ può sperare/ Di emulare – ma non c’è com-petizione –/ C’è solo la lotta per ricuperare ciò chesi è perduto/ E trovato e riperduto senza fine: eadesso le circostanze/ Non sembrano favorevoli…

    Questo lavoro di purificazione è un dialogo,attraverso le generazioni, con chi appartiene alla tra-dizione: solo pochi possono parteciparvi, mentre lamassa dell’umanità si smarrisce nelle retrovie, assa-lita da “quelle indisciplinate squadre di emozioni”.La grande cultura dei pochi è, tuttavia, una necessi-tà morale per i molti, poiché consente alla realtàumana di mostrarsi e quindi guidare la nostra con-dotta. Ma perché mai la massa dell’umanità, persacom’è nella sua goffa discesa dal sublime al ridicolo– “distratta dalla distrazione dalla distrazione” –,dovrebbe essere guidata da “color che sanno”,come dice Dante? La risposta deve trovarsi nellareligione e, in particolare, nel linguaggio comuneche una religione tradizionale dona sia alla grandecultura dell’arte sia alla cultura di base della gente.La religione è la linfa di una cultura. Permette di cu-stodire i simboli, le storie e le dottrine che ci con-sentono di confrontarci sul nostro destino; attraver-so i sacri testi e le liturgie, costituisce il punto fermoal quale il poeta e il critico possono tornare – con

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    uno stesso linguaggio, quello dei semplici credenti edei poeti, che devono affrontare le sempre nuove

    condizioni di vita che seguono la conoscenza: unavita in un mondo senza più valori.

    dal “Manifesto dei conservatori”

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  • In Italia un vero potere editorial-letterario, cioèfigure-chiave, salotti o consorterie così autore-voli e influenti da poter cambiare le sorti di unautore o imporre un titolo, non esiste. Poiché illibro non è un bene particolarmente richiesto diquesti tempi, e visto che il mercato culturale ormaisi governa malissimo da solo, alla fine coloro chehanno a che fare con editoria, giornali e letteratu-ra, si trovano in mano lo stesso potere di un vec-chio bibliotecario a riposo o di un professore dellemedie in pensione. Cioè nulla. Le casematte del-l’intellighenzia si sono sgretolate: tramontatal’epoca dell’Einaudi faro intellettuale del Paese. Ibaroni della critica si sono estinti: finiti i tempi incui bastava un elzeviro di Borgese per lanciare ungiovane Moravia. Passata l’età dell’oro della Terza:quando i direttori corteggiavano scrittori e poetipur di avere una Grande Firma in pagina.

    I centri di potere oggi sono gli ufficietti pette-goli di case editrici alla disperata ricerca del “casodell’anno”, i mammasantissima delle lettere sonogiornalisti-poetastri che in cambio di una collabo-razione sulle loro pagine ti chiedono una recensio-ne della loro ultima plaquette, i sacerdoti della cri-tica sono marchettari che scrivono bene del librodel direttore del festival che poi li invita a parlaredell’amico scrittore il quale poi la settimana dopoelogerà il loro saggio. Il Potere con la “P” maiu-scola, quello bello, quello vero, quello autoritario,quello che non ammette No, che può decidere ciòche la gente deve leggere non esiste più, purtrop-po. E al posto di Gramsci ci siano trovati Faletti.

    Invece il potere con la “p” minuscola, quellobrutto, quello falso, quello untuoso, quello che vaavanti a “forse sì, mandami il libro, magari riesco afare qualcosa, poi vediamo”, quel potere inveceesiste, eccome. Anzi, esistono, perché i poteri sonotanti, diversificati, incrociati, ramificati, cornificati.Sono così tanti, che se ne può quasi tracciare un

    mappa. La “mappa dei micro-poteri”, dove microsta per micragnoso. Anzi, la “mappa delle macro-amicizie”, dove macro sta per macrò.

    Mica siamo un gruppo di poterePartendo dal fondo, si può citare il giro del

    “carrierino del piccolo” del mai abbastanza com-pianto Enzo Siciliano, signore-padrone di NuoviArgomenti, attorno alla quale ancora ruotano lestelle più belle del firmamento letterario. I nomi –che poi per dirla tutta, presi singolarmente, ci piac-ciono anche: sui prossimi numeri usciranno estrat-ti dei futuri romanzi di Michelangelo Zizzi e diPippo Russo – sono quelli conosciutissimi, mira-colati dal Gran Cerimoniere Antonio D’Orrico:Alessandro Piperno, Roberto Saviano, LeonardoColombati, Mario Desiati. Sono i “romani” ospi-tati di recente nell’Officina milanese di AlessandroBertante e Antonio Scurati, uno che senza chenessuno glielo chiedesse, ha detto: «Non siamo ungruppo di potere». E magari uno poi pensa chevolesse pararsi il culo, tanto per dirla alla francese.Sono bravissimi scrittori, ma così ipnotizzati dallaribalta mediatica da farci diventare simpatici iCannibali di una volta, al confronto. Comunquesono molto amici, si leggono, si scrivono, si parla-no, dominano le classifiche, si dividono le paginedei giornali, vanno tutti insieme in pizzeria e nondanno interviste a un quotidiano che li ha criticati.E be’, che c’è di male?

    Sempre a Roma. Mentre c’è gente che frequen-ta pizzerie, ci sono persone che invece continuanoa preferire i salotti, ormai con i divani un po’ lisi.Uno ancora molto ospitale è quello dei “furbettidell’adelphino”, frequentato da Paolo Mauri, navi-gatissimo editor-in-chief delle pagine culturali diRepubblica, il fido Antonio Gnoli, braccio gnosticodel quotidiano in Adelphi (una casa editrice chegrazie alla forza del marchio, proprio come il suo

    Chi conta molto e chi nulla nell’editoria

    Luigi Mascheroni, Il Domenicale, 19 maggio 2007

    Tra editor e uffici stampa, tra scrittori, scrittorucoli e megadirettori ecco chi fa dell’edito-ria una camera delle meraviglie. E dei pettegolezzi. Ovvero: chi conta molto e chi nonconta un’acca, chi è in grado di tramutare in oro un mediocre libello e in almanacco difilosofia un concetto smilzo. Soprattutto, il catalogo di quelli a cui non si può mai e poimai rifiutare un favore, figurarsi una recensione

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    ufficio stampa, può permettersi di non chiederenulla a nessuno), il lunatico, economista pentito emai pentito antiamericanista, Elido Fazi (che qual-che libro buono però lo azzecca) e quel fenomenodi Paolo Repetti, l’uomo che riesce a vendere incontemporanea più anteprime ai giornali di chiun-que altro, la mente che insieme a Severino Cesarida dieci anni si scervella sui titoli della collana“Stile Libero” di Einaudi, la sigla di frontiera piùdiscussa e discutibile della casa editrice torinese.

    Si trovano tutti a bere qualcosa al mercoledìsera: al giovedì esce su Repubblica un’articolessa diCitati sul saggio Adelphi curato da un professoreche è consulente di Einaudi, il giorno dopo esceVenerdì con un servizio su un libro Fazi firmato daun giornalista che pubblica per “Stile Libero”, alsabato il paginone centrale di Repubblica con l’ante-prima del libro di Calasso e alla domenica unadoppia pagina sull’ultimo libro dei Wu Ming conl’intervista a Repetti. Al lunedì LoredanaLipperini, l’ufficio stampa online dell’Einaudi,mette ogni cosa su Lipperatura e al martedì vannotutti a giocare a pinnacola a casa di Fanucci, chepubblicando solo fantascienza lo prendono sem-pre per il culo (Castelvecchi, invece, non lo fannoneppure entrare).

    Giovani, giovani, giovani!Poi però, a Torino, c’è l’altra Einaudi, quella

    vera, che considera “Stile Libero” l’album dellefigurine di famiglia, quella che non ti manda mai ilibri sempre convinta che il marchio tanto si impo-ne da solo, l’Einaudi dei giovani torinesi ancoraconnessi alla vecchia guardia degli allievi diBobbio, l’Einaudi di Andrea Romano, storicodell’Europa contemporanea, già direttore scientifi-co della fondazione “Italianieuropei” di MassimoD’Alema e Giuliano Amato e ora potentissimoeditor della saggistica (pardon, non-fiction editor)nonché autore Mondadori e editorialista di puntadella Stampa. Ormai si dice che conti più dellostesso Ernesto Franco, che di Einaudi è direttoreeditoriale. Insieme al sociologo Luca Ricolfi, altroinsigne notista della Stampa, autore di Longanesi edel Mulino e direttore dell’Osservatorio del NordOvest, l’intellettuale che conta di più oggi aTorino&dintorni.

    Per il resto, Ernesto Ferrero al massimo ti puòinvitare al Salone del Libro a parlare nello stand afianco di Enrico Brizzi e Giuliano Soria, se ti vabene, a un viaggio-stampa in Sudamerica per il

    “Grinzane Cavour”, in cambio di un paio di pezziin cultura. Nient’altro.

    Giovani, giovani, ci vogliono i giovani! Cisono anche quelli: Andrea Cortellessa, meno di40 anni e più di dieci pagine di curriculum. Ilruolo di ricercatore in Italianistica alla “Sapienza”di Roma è solo la prima delle sue poliedriche atti-vità che lo rendono uno tra i più influenti sacer-doti delle Lettere Moderne. Già cavalier serventedi Sua Maestà Franco Cordelli, Cortellessa ècuratore e antologizzatore per Bruno Mondadori,autore per Einaudi, curatore per Adelphi, colla-boratore per Fazi, critico letterario su Alias,L’Indice, l’Unità e Tuttolibri, presenzia convegni, ègiurato in un paio di premi, ha un programma dipoesia in radio su Rai3, è amico di GabrielePedullà (figlio di tanto padre, anche lui italianista,anche lui collaboratore di Einaudi, anche luifirma di Alias), ma anche di Emanuele Trevi, diRaffaele Manica, di Massimo Onofri, di ArnaldoColasanti e di Rosaria Carpinelli, ex editor-vesta-le della Rizzoli e ora – con molta meno fortuna –della baricchiana Fandango. Rispetto alla tagliaextra-large dell’onnivoro Cortellessa, i fratellini diminimux fax, altro centro nevralgico dell’intelli-ghenzia romana, Marco Cassini&soci, fanno lafigura degli anoressici.

    Cattolici&CompagniLa figura dei bulimici la fanno invece i cattolici,

    di cui è nota la capacità tentacolare dentro ilmondo editorial-letterario. E la parte piovra, daquesto punto di vista, la fa C.L., un “mostro” chedal Meeting di Rimini muove migliaia di libri ven-duti, s’infiltra nelle case editrici, nei giornali, neicentri-studi. E un bel polipone, in questo senso, èDavide Rondoni, poeta appena over-quaranta,uno che fa moltissimo per gli altri (e parecchio persé): già direttore di Tracce e fondatore della rivistaclanDestino, è editorialista di Avvenire, autore perGuanda (e non solo), curatore di collana per IlSaggiatore e Marietti, direttore del centro di poesiaContemporanea di Bologna, responsabile dellacollana “I libri dello spirito cristiano” della Bur.Quel poco che rimane sulla mensa, se lo dividonoevangelicamente gli altri fratelli.

    Tra gli “ortodossi”, un posto di primo pianoper autorevolezza e aplomb spetta a CesareCavalleri, direttore di Studi cattolici e della casa edi-trice Ares, gran firma di Avvenire e temutissimostroncatore; tra gli “eretici”, il priore della

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    Comunità di Bose Enzo Bianchi, notista dellaStampa, collaboratore di Mondadori, fine apologe-ta su Tuttolibri, ascoltatissimo ospite nel salotto-tivù di Gad Lerner. Sopra a tutti, però, l’ubiquomons. Gianfranco Ravasi, la cui produzione gior-nalistico-editoriale ha del miracoloso. Per il resto,sul fronte squisitamente letterario, appannatosi il“potere” di due grandi vecchi catto-intellettualicome Raffaele Crovi e Ferruccio Parazzoli, il veroreferente oggi è Fulvio Panzeri, cinquantenne cri-tico di Avvenire e Famiglia cristiana e “testoriano” diferro. Anche se, va detto, per far “muovere unlibro”, in questo settore, basta una citazione indiretta di padre Livio Fanzaga, storica voce di“Radio Maria”.

    A proposito di radio e tivù. Una volta, ancorafino a qualche anno fa, il modo più semplice enaturale per far parlare di un libro era scrivernenelle pagine culturali dei giornali. Oggi è il modomigliore per ucciderlo. Gli uffici stampa lo sannobene, e infatti cercano di far passare i loro titoli inqualsiasi altra pagina, dalla cronaca agli spettacoli,dal costume agli esteri. “Ma scusa, perché non faifare una recensione in cultura? No, grazie, non lalegge nessuno: non è che lo puoi intervistare perle pagine del week-end?”. Oltre, c’è solo la televi-sione. Ieri era il Maurizio Costanzo Show che conun’inquadratura di cinque secondi della copertinafaceva vendere 1.500 copie di qualsiasi libro. Oggiè Fabio Fazio che in questo senso fa il bello e cat-tivo tempo. Caso a sé, come in tutte le altre cose,Giuliano Ferrara il quale sia a Otto e mezzo che sulsuo Foglio è capace di trasformare in oro tutto ciòche legge, come insegnano i casi di MordecaiRichler, Cormac McCarthy e dello stessoButtafuoco. Con dei limiti: Maurizio Milani, nono-stante gli sforzi di Mariarosa Mancuso e fogliantivari, rimane quello che è.

    Poi ci sono gli editor, gli agenti e gli uffici stam-pa. Tra i primi, saltando a piè pari gli ex ragazziniprodigio Benedetta Centovalli (la cui paraboladiscendente è speculare al livello delle case editricinelle quali è passata: prima Rizzoli, poi Alet e oraCairo) e Sergio Claudio Perroni (editor straordina-rio, inappuntabile traduttore e splendido critico dipoesia che da quando i romanzi invece che correg-gerli si è messo a scriverli non conta più nulla), lapiù potente, una donna alla quale non si può diredi no, un po’ per il nome che porta, un po’ per ilsuo carattere, un po’ perché magari dopo non tiinvita alla Milanesiana, è Elisabetta Sgarbi, signora

    della narrativa Bompiani folgorata sulla via dellaregia, ormai abbondantemente più potente del fra-tello, elegante, stakanovista e onnipresente. Se leialza il telefono, tu abbassi la testa.

    Suor Germana batte SavianoTra gli agenti letterari, invece, l’unico davvero

    degno di nota è Marco Vigevani, altro figlio dicotanto padre, già talent scout della Mondadori eora professionista in proprio con un cospicuoportafoglio clienti (tra i quali, cosa che male nonfa, diversi giornalisti). Tra gli uffici stampa, infi-ne, preferiamo scegliere qualcuno della vecchiaguardia, quando non ti vendevano di tutto soloper la foga di venderti qualcosa, ma selezionava-no la merce a seconda di chi avevano di fronte.Nomi professionalmente strutturati, corretti,autorevoli, al confronto dei quali la maggiorparte dei giovani – peraltro gambizzati nellegrandi case editrici da un turn over vorticoso –sono diligenti compilatori di comunicati stampa.Esempi? La storica capa di Rizzoli AnnaDrugman, figura che sfiora la leggenda (già «ilvolto umano della Garzanti», come dicevaArpino), front-woman dei più bei nomi dellanostra narrativa e oggi consulente per alcunigrandi nomi della maison Rizzoli, una donna chequando si annuncia al telefono incute lo stessopanico timore del “direttore Totale, l’Ing. GranMascalzon. di Gran Croc. Visconte Cobram” conl’eco che rimbalzava per la redazione.

    Poi la supervisor del gruppo Longanesi,Valentina Fortichiari: un’intellettuale prestata allepubbliche relazioni che forse memore delle vicen-de dell’amato e studiato Guido Morselli ci pensadue volte prima di dire di no a qualcuno, moltoelegante nei rapporti e che personalmente simuove pochissimo, ma quando lo fa, pesa. Infine,Piera Cusani, cugina di tanto cugino, oggi massi-mo responsabile delle relazioni esterne dellaMondadori, molta classe e simpatia; e IdaMeneghello, padrona di casa del Mulino, ineccepi-bile, preparatissima, autorevole quanto la sigla cherappresenta. Caso a sé Mara Vitali, dell’omonimostudio di comunicazione, forse più potente ieririspetto a oggi, ottima stratega pur con qualcheinfortunio (il lancio dell’ultima Tamaro non èandato troppo bene, però sarà lei a curare il pros-simo libro di Scurati) che gestisce un portafogliopiuttosto gonfio di autori, eventi e case editrici.Parla solo coi giornalisti che abbiano come grado

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    quello dal vicedirettore in su, lasciando le altreincombenze alla sua numerosa truppa.

    Alla fine, comunque, i best-seller ormai sifanno da soli. Non ci sono salotti, santuari di cartao potentati che tengano. Vorremmo averlo, ecco-me, un dominus del panorama letterario.Purtroppo i (pochi) lettori, che non si fidano piùdei consigli dei critici, i libri oggi se li scelgono dasoli al supermercato dove la varietà dei titoli èinversamente proporzionale a quella dei gusti delloyogurt e neppure Gian Arturo Ferrari può farglicambiare idea. La televisione parla solo di libri digiornalisti, e quindi fa soldi ma non fa testo, leclassifiche di vendita pubblicate dai grandi giorna-li, lo sanno tutti, sono pesantemente taroccate(altrimenti ai primi posti ci sarebbero solo librireligiosi o per bambini: è noto che un solo titolo

    della Famiglia Orsetti batte Ammaniti sette a zero eun qualsiasi ricettario di Suor Germana a unocome Saviano non dà solo la pappa, ma primo,secondo, frutta, dolce e caffè); i festival, i Salonidel libro e i grandi reading sono importanti per gliautori e le case editrici, ma non servono a far ven-dere copie (al confronto paga molto di più unapresentazione nella biblioteca rionale con parenti,amici e colleghi d’ufficio), qualcosa in più, semmai,possono farlo una dotta articolessa di Pietro Citatisu Repubblica (una scrittrice come MartaMorazzoni, sostanzialmente, l’ha creata lui) o unlectio magistralis di Claudio Magris sul Corrieredella sera (un paio di anni fa ha portato per manoPino Roveredo al Campiello). E comunque sonocasi rarissimi, come i romanzi buoni dellaMondadori.

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  • Che cosa c’e dietro un libro? Quali fili simuovono dietro la parola scritta e organiz-zata in progetto editoriale? C’è un autore,certo, ed un editore, ovviamente. Ma se l’editorenon è quello “super”, inserito nella grande catenadi montaggio di una grande realtà imprenditorialeo commerciale, tra l’autore e l’editore c’è un sog-getto di mezzo che lavora per la visibilità di caseeditrici indipendenti, minori, bisognose di strut-ture di distribuzione più flessibili e adatta alle sin-gole esigenze del prodotto libro. È il caso dellafactory che stiamo per raccontarvi, che si posizio-na proprio in questo territorio di mezzo. E propo-ne modelli strategici innovativi operando in libre-ria, on-line, attraverso forme di vendita diretta ne-gli spazi raggiunti dalla grande distribuzione in unafitta rete di relazioni.

    Cos’hanno in comune titoli come “Tutt’al piùmuoio” di Filippo Timi o “Cento colpi di spazzo-la” di Melissa P? Poco sembrerebbe, visto chesono editi da editori differenti; eppure dietro aquesti titoli e a tanti altri, c’era sempre Vivalibri.Siamo in via Isonzo 34, quartier generale di questafactory romana dedicata all’editoria, che conta 60dipendenti e molti collaboratori. Nel palazzotto al34 di questa strada alle spalle di via Salaria, trepiani sono occupati da Vivalibri o da sue dirama-zioni. Incontriamo Pietro D’Amore, ex rappresen-tante Einaudi, ex direttore commerciale allaDonzelli, oggi amministratore unico della VivalibriSpa. Le parole chiave delle attività che svolgonoqui si evidenziano subito: «distribuzione, flessibili-tà e case editrici indipendenti». Così era quandol’attività iniziò, dieci anni fa, accanto e insieme apiccole (allora) case editrici romane come Fazi,Carocci e Donzelli e così è oggi, in una società cheper esigenze commerciali è diventata Spa e checonta quasi trenta editori tra i suoi clienti, tra cuitanto per citarne alcuni ci sono Meltemi, Carocci,

    Fandango, Cooper, Gremese ma anche marchid’arte come Allemandi, de Luca, e nuove sigle diprogetto come Ferro di Cavallo, Playground,Pequod, la Gallucci per la letteratura per ragazzi ola neonata romana Elliot. «Ci occupiamo di pro-mozione e distribuzione di prodotti editoriali dicase editrici minori che non entrano nella grandedistribuzione – spiega D’Amore – insieme all’edi-tore pensiamo e valutiamo tutti gli aspetti di ven-dita del libro dalla distribuzione al marketing pas-sando per la pubblicità e i lanci, cerchiamo di tro-vare con creatività delle strade alternative chesiano giuste per il tipo di prodotto che andiamo apromuovere, importante infatti è che tutti i passag-gi siano adeguati alle potenzialità di mercato diquel singolo libro».

    Una rete di agenti, promotori librari, che lavo-ra su tutto il territorio nazionale assieme alcostante potenziamento dei servizi offerti conno-tano il lavoro della promozione di Vivalibri che in10 anni ha moltiplicato il numero di editori clien-ti. «Ora stiamo aprendo nuove librerie – continuaD’Amore – ne abbiamo in progetto 10 in tuttaItalia, a Roma ne abbiamo aperta una a Testaccioin piazza Santa Maria Liberatrice, un’altra do-vrebbe aprire a piazza Navona in via di TorMillina ed entro la fine di maggio aprirà anche ilnuovo bookshop della Casa delle Letteraturegestito da noi». Ma vista la crescita, Vivalibri hapartecipato anche al rilancio di Castelvecchi, diArcana, editrice di musica, e di Elliot, neonatomarchio di narrativa.

    Negli uffici di Vivalibri c’è il cuore della socie-tà composto da una ventina di persone. Tra loro,accanto a Pietro D’Amore, c’è Maria Grazia Zulli,direttore commerciale, responsabile forza venditee nuove librerie; come assistente Federico Pan-caldi, all’ufficio stampa Livia Senni, al CentroStudi Alessandra Gambetti e come responsabili

    Come ti vendo il piccolo editore.Un segreto di nome “Vivalibri”

    Geraldine Schwarz, la Repubblica, 25 maggio 2007

    Nella factory dei tecnici del marketing editoriale

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    nuove librerie, Adele e Luigi Toni per la libreria diTestaccio. L’attività di Vivalibri prevede anche uncorso di alta formazione in editoria libraria in col-laborazione con il centro europeo per l’editoriadell’Università di Urbino perché, spiega D’Amore,c’è l’esigenza di creare nuove figure professionali

    per l’editoria. Per il futuro, una sfida: «Mi piacereb-be – conclude D’Amore – che libri e altri prodot-ti fossero meno divisi fra loro, che ci sia fusioneanche strutturale. Penso per esempio allaFandango di Domenico Procacci che fra l’altro ènostra cliente».

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  • Con quella a Maurizio Donati, editor dellasaggistica per la casa editrice Chiarelettere,concludo il ciclo di interviste sull’editing eil sistema editoriale. Per chi fosse interessato alleinterviste precedenti, qui la premessa, segue ilpunto di vista di Paola Gallo, di Giulio Mozzi, diNicola Lagioia, di Michele Rossi.

    Ringrazio tutti gli editor per le loro risposte etutti coloro che hanno voluto commentare. gv.

    Proviamo a partire da una definizione secca: che cosa siintende per editing?

    S’intende per editing il lavoro di lettura e revi-sione di un testo prima che questo arrivi in libre-ria. Anzitutto credo vada subito fatta una precisa-zione, ossia va detto che l’editor non si occupasolo di editare un testo. Il suo ruolo e le sue fun-zioni sono diverse – e solitamente cambiano dacasa editrice a casa editrice e da linea editoriale alinea editoriale. L’editor nello specifico segue illibro in tutto il suo sviluppo, e non solo nella suamaturazione letteraria: dalla valutazione inizialealla grafica di copertina alla comunicazione conchi poi dovrà occuparsi di promuovere il libro, siadal punto di vista commerciale che per ciò checoncerne la copertura stampa, con recensioni anti-cipazioni e altro. Ovviamente sono ruoli copertida altre persone, c’è un ufficio commerciale, unufficio stampa eccetera, ma va detto che l’editor èla persona che per prima e in maniera più profon-da conosce il testo.

    Mi chiedi una “definizione secca” ma credoche ogni definizione in quanto tale si lasci sfuggi-re qualcosa. Qualcosa d’importante. Credo, senzascadere in inutili sentimentalismi, che il lavoro diediting abbia qualche analogia con la Compagnia,con l’Accompagnare nel senso migliore del termi-ne, non perché l’autore sia una specie d’infermoma perché nell’incontro con l’editor e con l’edi-

    ting l’autore trova un primo confronto, un con-fronto necessario, un confronto solitamente cer-cato dall’autore stesso, e un confronto volta avolta diverso. Ci sono autori così importanti enavigati da far diventare questo Accompa-gnamento una semplice attività di servizio. Altritrasformano questo Accompagnare in un’amiciziatutta particolare, un’amicizia editoriale che puòessere anche molto intima, una specie di condivi-sione molto sottile, un’esperienza reciprocamentemolto appassionante.

    Come si imposta il lavoro con gli autori?Il lavoro con gli autori si sviluppa, cresce,

    diventa via via più complesso mano a mano checresce la conoscenza e la padronanza del testo. Èun investimento reciproco, fatto sia dall’autore,che crede nelle potenzialità della casa editrice, siadall’editor, che crede nell’idea, nello stile, nella ric-chezza di quel particolare testo. L’editor in questocaso offre sostegno e professionalità. L’autoreinvece offre creatività e conoscenza (ricordo chemi occupo di saggistica). Questa divisione è sem-pre molto chiara ed esplicita.

    Come si comportano gli autori rispetto all’editing? C’èdisponibilità? Resistenza?

    Il rapporto con gli autori è molto singolare,volta a volta diverso. Richiede una plasticità anchecaratteriale perché poi è sempre l’editor – chequando si dispone all’editing ha praticamente giàcreduto e investito nell’idea del libro in oggetto –a dover trovare una sintonia tutta particolare conl’autore. Disponibilità? Resistenza? Credo che que-sto lavoro e questo incontro debba essere sempreinteso in maniera non agonistica, ossia come unasorta di confronto-scontro. Anche se è innegabileche un editing vero, profondo, reciprocamentepartecipato raggiunga pure un’intensità emotiva

    Il letto di Procuste e la Cura Ludovico #6

    Giorgio Vasta, www.nazioneindiana.com, 25 maggio 2007

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    molto forte, a volte su certi aspetti anche di scon-tro, sebbene sia piuttosto raro. Più spesso s’instau-ra un rapporto di complicità tra editor e autore.

    Il luogo comune, con particolare solerzia ribadito negliultimi tempi, vuole l’editing come una forma di manipola-zione capziosa del testo – ad opera di uno sgherro dellacasa editrice, appunto l’editor – finalizzata all’adegua-mento del testo stesso alle condizioni delle mode e del mer-cato. Cosa produce, secondo te, un’idea di questo genere?Perché, cioè, in Italia l’editing subisce questo destino didemonizzazione?

    Su questo lascerei parlare le persone-autori chenell’editing hanno avuto un’esperienza fortementenegativa e manipolatoria. Il resto risulta abbastan-za gratuito e sa di polemica facile.

    Un’altra idea – per molti una convinzione indiscutibile –è quella che pensa al sistema editoriale come a un qualcosadi omogeneamente cinico e opportunista, un luogo nel quale– attraverso la già descritta mortificazione dell’autorialità– si procede compattamente alla fabbricazione di prodotticommerciali. Sembra quasi che la condizione d’accesso allavoro editoriale sia il pelo sullo stomaco, una cinica igno-ranza, un appetito da squali e un disincanto assoluto che sitraduce in strategia commerciale. È tutto davvero così sem-plice o ha senso pensare invece a uno scenario più contrasta-to e contraddittorio?

    Io credo, in un senso che forse è inutile qui spie-gare, nell’“intelligenza” del mercato e credo che i let-tori non siano degli imbecilli, tutti clonati a misura dibest-seller. C’è, è indubbio, una caccia sempre piùsfrenata al best-seller ma oltre a questo – e soprat-tutto per chi non può permettersi investimentimilionari, o forse più semplicemente non vuol gio-care a chi offre di più (e per fortuna non son pochi)– c’è uno spazio gigantesco fatto d’idee, di libri pos-sibili che nessuno fa, di libri a loro modo necessari.Mi sembra una banalizzazione questa dell’intendereil lavoro dell’editor nei termini di una semplice stra-tegia commerciale, anche se poi i libri vanno fattivedere, le idee che stanno dietro il progetto devonoessere visibili, e lo spazio in cui possono essere visi-bili è uno spazio commerciale, ossia la libreria.

    Qual è, nel rapporto tra editor e autore così come in quellotra i diversi comparti di una casa editrice, il valore dellanegoziazione?

    Io non parlerei tanto di negoziazione, nonridurrei tutto nei termini di una trattativa. Quelloche s’instaura tra editor e autore è un confrontotutto particolare, va detto, e qui mi ripeto, che giàprecedentemente alla fase in cui ci si dispone allavoro di editing, tra editor e autore si è instaura-to un rapporto molto stretto legato al fatto chel’editor ha deciso d’investire in quel libro. Giàquesta fase, di più stretta valutazione del proget-to editoriale, contribuisce non poco a instaurareun rapporto molto ravvicinato con l’autore. Vadetto, e anche qui mi ripeto, che la situazionecambia da autore ad autore, ossia se ti trovi alavorare con uno scrittore o un giornalista che hagià una storia editoriale, e, come dire, un’abitudi-ne al lavoro editoriale, be’ questo confronto conl’editor assume una fisionomia molto differente.Ci tengo a sottolineare però che in molti casi ilruolo dell’editor non è semplicemente quello dichi, seduto quotidianamente alla sua scrivania,riceve testi da leggere e ne valuta la pubblicabili-tà. Sarebbe francamente un po’ triste. Il ruolodell’editor è un ruolo attivo, di ricerca di idee dasviluppare, di libri potenziali a partire dai qualipoi prendere contatti con persone del mondodella cultura o dell’informazione capaci di realiz-zarli. Non parlo di libri commissionati dall’editor.L’editor è perfettamente consapevole del suomestiere, dei suoi limiti. Deve tenere occhi eorecchie bene aperti per capire che aria tira làfuori nel mondo, quali sono gli interessi, di cosaè urgente parlare. Raccogliere suggestioni che poisolo l’autore giusto potrà far diventare concreta-mente dei libri, assolutamente non come sempli-ce esecutore, ma come soggetto capace di racco-gliere quella suggestione, magari ribaltarla, tra-sformarla, filtrarla attraverso la propria esperien-za, il proprio lavoro, la propria intelligenza, leproprie competenze. Be’ questo, oltre che moltoistruttivo, è anche parecchio divertente. Anche inquesto consiste il lavoro dell’editor.

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  • Ha scritto il poeta inglese William H.Auden in “The Dyer’s Hand” (Il jolly nelmazzo, Garzanti, 1972): «Ci sono dei libriingiustamente dimenticati, non ce ne sono diingiustamente ricordati». Se sulla seconda asser-zione possono esserci legittimi dubbi, chi potreb-be smentire l’assunto prima? Il mondo è pieno dilibri dimenticati, sommersi e ormai sconosciuti,che spariscono dagli scaffali delle librerie per fini-re – quando va bene – sui banchi dei mercatinidell’usato e tra i remainders, a meno che qualchepiccolo editore volenteroso non li salvi dall’oblio,spesso però con ristampe limitate nella tiratura,infelicemente esposte o mal distribuite. Sono librisottratti al lettore: non solo testi minori di grandiartisti o di scrittori poco noti, ma opere ormaistoricizzate che non vengono ristampate dadecenni e capolavori stranieri che non vengonotradotti (o ritradotti).

    Di recente l’Adelphi ha rispolverato Santuario diFaulkner, un classico moderno, che era irreperibi-le in libreria dall’ edizione Garzanti dell’86. LaSellerio sta riconsegnando al pubblico i romanzi diWilliam R. Burnett – inventore della cosiddettacaper novel (ovvero romanzo della grande rapina)con Giungla d’asfalto, la cui ultima edizione perve-nuta era del 1974 nei Gialli Mondadori; le opere diAnnie Vivanti, vivace scrittrice, nota soprattuttoper la scabrosa relazione con Giosuè Carducci e, apiù di vent’anni dalla morte, l’opera omnia delgiornalista e narratore russo Sergej Dovlatov.

    Per Neri Pozza è stato tradotto dopo oltre untrentennio il magnifico e scandaloso Ginger mandell’irlandese James P. Donleavy; mentre perEinaudi proprio negli ultimi anni sono uscite leprime edizioni dei romanzi di Magda Szabo, scrit-trice ungherese di fama mondiale, conosciuta inItalia per una sola opera (irreperibile, ça va sansdire), L’altra Ester, pubblicata da Feltrinelli nel 1964

    e successivamente distribuita dal “Club degli edi-tori”, ma da poco Einaudi ha pubblicato La portae La ballata di Iza.

    E ancora recuperando: Marcos y Marcos si stadedicando al revival di Ring Lardner; Adelphi pro-pone per la prima volta in Italia gli scritti dell’in-tensa e sfortunata autrice ucraina IreneNemirovsky; e Fazi scopre Dawn Powell, definitada Gore Vidal come «la nostra migliore scrittricedella seconda metà del secolo».

    Per giocare in casa, oltre allo sdoganamento delmanualetto futurista di Filippo TommasoMarinetti, Come si seducono le donne e si tradiscono gliuomini, ripubblicato da Vallecchi nel 2003 a novan-t’anni dall’esordio, ci pensano soprattutto i“Meridiani” Mondadori (insieme a corposi“Antimeridiani”) a riscoprire autori nostrani tra-scurati, da Luciano Bianciardi a Luigi Meneghelloa Domenico Rea.

    Questo elenco dimostra come a subire l’o-stracismo del circolo editoriale siano anche grandiautori e opere ammirevoli; e come intere genera-zioni vengano private di letture che per i genitori ei nonni sono state dei “classici”. Gli esempi citatisono così dei veri e propri «recuperi letterari», cheperò non esauriscono il panorama dei «sommersie sconosciuti». Erskine Caldwell, scrittore america-no esponente della cosiddetta «letteratura sociale»,ha venduto ottanta milioni di copie dei suoi librinel mondo ed è stato tradotto in 43 lingue, eppu-re in Italia al momento sono reperibili solo tre deisuoi innumerevoli romanzi, mentre di decine diracconti, diverse opere di non fiction e di poesienon si hanno tracce qui da noi. Sfortunata anchePearl S. Buck, le cui opere – a parte qualche titolosparso – non risultano pervenute dalle lontane edi-zioni Mondadori degli “Oscar” anni ’70 e ’80; maancor peggio è andata a Sinclair Lewis, del quale èstato pubblicato negli ultimi quarant’anni solo

    Cresce un nuovo genere di libri,quelli scomparsi e dimenticati

    Seia Montanelli, Stilos, 26 maggio 2007

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    Babbitt (Tea, 1997). Riflettori spenti dal ’74 perLascia che accada di Paul Bowles, nell’olimpo degliscrittori americani assieme ai grandi della suagenerazione, da William Burroughs ad AllenGinsberg, da Truman Capote a TennesseeWilliams, più conosciuto forse per la paternità delTè nel deserto sebbene meno maturo e solido delromanzo sommerso.

    Quanti hanno letto Sherwood Anderson negliultimi vent’anni? E Jules e Jim di Henri-PierreRoche? E Jorge De Sena (vivamente consigliato ilsuo racconto La finestra d’angolo pubblicato oltredieci anni fa da Sellerio, ma originariamente conte-nuto nella famosa raccolta Scorribande del demonio)?E La nobile arte di farsi dei nemici del pittore JamesMcNeill Whistler, classico della letteratura ingleseoltre che acuta riflessione sull’arte e sul suo rap-porto con la critica, pubblicato solo nel 1988 dallacasa editrice Lubrica?

    E quanti sanno che C’era una volta in America,capolavoro di Sergio Leone, è l’adattamento cine-matografico di un libro, Mano armata, di HarryGrey, perdipiù largamente autobiografico? Moltopochi sicuramente, visto che l’ultima edizione ita-liana del libro è del 1983, per Longanesi.Misconosciuto ai più è O’Henry (pseudonimo diWilliam Sydney Porter), considerato il padre dellamoderna short story americana (ogni anno il migliorracconto statunitense viene addirittura premiatocon il prestigioso riconoscimento che porta il suonome), eppure pochissimi dei suoi racconti sonostati tradotti in italiano, tutti introvabili ormai adeccezione di quelli raccolti in Marionette pubblicatoda Tranchida Editore nel 1998, che a scavar benenei mercatini dell’usato può saltar fuori all’improv-viso. Stessa sorte per l’omologo inglese diO’Henry: V.S. Pritchett, un genio della novellad’oltremanica che in Italia è presente con due soliracconti tradotti da Adelphi, già da tempo ormai.Ed è inutile chiedersi poi quanti conoscano LaFormula di Origine di Johannes Mario Simmel, curio-so romanzo ambientato subito dopo il bombarda-mento di Vienna del 1945, scritto nel 1949, pubbli-cato in Italia dalla Sonzogno alla fine degli anni ’60e mai più ristampato. E La camera cinese di VivianConnell? Una vera chicca da bibliofagi che merite-rebbe un destino migliore: è stato pubblicato inItalia per l’ultima nel lontano 1967 da Garzanti.

    Veniamo alle patrie lettere. Molto più che at-traverso i suoi romanzi, dalla Controfigura a Esterinaa Il congresso, è leggendo Le stanze di Libero

    Bigiaretti – un non-romanzo di matrice autobio-grafica in cui l’autore attraverso la finzione narra-tiva ripercorre aneddoti e incontri della sua vita –che non si può fare a meno di chiedersi come siastato possibile dimenticare quest’acuto scrittoremarchigiano. È infatti con Le stanze che apparesubito chiaro come Bigiaretti sia stato una figuracentrale del nostro panorama culturale. E che fineha fatto Carlo Bernari? Se ormai non è piùcomplicato reperire Tre operai (ristampato peròsolo di recente per gli Oscar Mondadori) la suaopera più importante, è invece del 1976 l’ultimaedizione di Domani e poi domani, crudele storia di unamore impossibile sullo sfondo dei disordini cau-sati dal fallimento della politica agraria nel Sudd’Italia; ed è quasi improbabile da scovare, persinotra i remainders, L’ombra del suicidio, pubblicatopostumo da Newton&Compton, straordinarioromanzo breve dalle atmosfere vagamente kafkia-ne. Completamente dimenticato è anche La duraspina di Renzo Rosso, autore fortemente in debitocon Italo Svevo, intenso romanzo incentrato sullafigura capricciosa e dolente di un artista, scritto inuna prosa raffinata e lussuosa, che non meritereb-be l’oblio in cui è caduto. Si pensi infine a GiorgioSaviane, Guido Piovene, Ottiero Ottieri, GiovanniArpino, Carlo Castellaneta, Ernesto Ragazzoni,Mario Tobino, Giuseppe Antonio Borghese,Alberto Savinio, Giacomo Debenedetti, BrunoTacconi, Lucio Mastronardi: quanti dei loro libri sitrovano ancora nelle librerie italiane?

    E non sempre è necessario andare troppo lon-tano nel tempo per individuare libri (già) di-menticati. Due esempi per tutti. Il primo è Aimargini del caos di Franco Ricciardiello: romanzointelligente e sofisticato, premio Urania nel 1998e poi scomparso dalle librerie a dispetto del buonsuccesso di pubblico (13.500 copie vendute) edella pubblicazione in Francia per la casa editriceFlammarion. E poi Tuta blu di Tommaso diCiaula, un commovente ritratto della condizioneoperaia, pubblicato da Feltrinelli nel 1978, accol-to calorosamente da critica e pubblico, tradottoin tutt’Europa, riadattato per il teatro e per ilcinema, e inspiegabilmente sparito per oltre tren-t’anni, fino alla recente ristampa con l’editoreveneto Zambon: forse però questo libro meritaqualcosa di più.

    Quanto alle cause che hanno costruito il«cimitero dei libri dimenticati» (al centro delfortunatissimo romanzo di Carlos Ruiz Zafen

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    L’ombra del vento, Mondadori, 2004), se è pur veroche il mercato e la questione delle vendite incidain parte nelle scelte editoriali, e sebbene possanointervenire anche questioni inerenti i diritti d’au-tore ed eventuali problemi di traduzione, quelloche influisce maggiormente sulla «scomparsa deilibri» è soprattutto la memoria corta degli opera-tori editoriali, coniugata ad una cultura del libroda fast-food: oggi in Italia vengono pubblicaticirca 170 libri al giorno (fonte: Maria Novella DeLuca, “la Repubblica”, 15 marzo 2007) – chenella maggioranza dei casi rimangono sugli scaf-fali per un tempo sempre più ridotto – e negliultimi dieci anni sono stati ritirati dalla circolazio-ne 377 mila titoli.

    Con questi standard magari può sembrarecomplicato dedicarsi ad operazioni di recuperonon in sintonia con le mode del momento, ma cosìfacendo non si tiene conto del fatto che gli autori«sommersi e sconosciuti» sono nella stragrandemaggioranza dei casi dei campioni, dei cavalli dirazza su cui varrebbe la pena scommettere.

    Per mere ragioni di pragmatismo poi sarebbebene cavalcare la tendenza alla riscoperta che s’in-travede nel comportamento del lettore negli ultimianni – forse sollecitato dall’uso di internet chefavorisce lo scambio d’informazioni tra gli utenti(le vendite di libri on line sono salite di oltre il qua-ranta per cento nell’arco di cinque anni) che affol-la le fiere e i negozietti dell’usato alla ricerca della

    «perla rara». In questo senso si sono mossi piccolieditori come il già citato Tranchida, che per primoha scoperto Ring Lardner; la Robin edizioni che hauna collana intitolata proprio «Libri ritrovati»; laGalaad edizioni che ha scoperto la statunitenseKate O’Flaherty Chopin (1850-1904), inedita inItalia ma molto famosa in patria; o minimum faxche ha creato la collana «Miminum classics» in cuipropone soprattutto autori inediti che però vengo-no considerati ormai dei classici contemporanei: daRichard Yates a John O’Hara (autore del bellissimoAppuntamento a Samarra). Addirittura la Bibliotecacomunale Renato Fucini di Empoli ha creato unasezione del sito internet dedicata alle segnalazionidegli utenti, chiamata “Libri belli e dannati”(comu-ne.empoli.firenze.it/biblioteca/iniziative/varie/belliedannatielenco.htm), dedicata “alla scoperta dilibri dimenticati e sconosciuti, ma imperdibili”.

    Sono decine le piccole case editrici che s’im-pegnano a liberare dalla polvere volumi da re-stituire al loro pubblico (ma il problema rimanesempre la distribuzione e la visibilità in libreria)forse perché convinte che perdersi per stradapezzi di storia della letteratura sia un delitto chenessuna strategia di marketing può giustificare. Oforse, più realisticamente, perché non hannomolto da perdere rischiando.

    Diceva Gesualdo Bufalino: «Che ci vuole a scri-vere un libro? Leggerlo è fatica». Ma pure trovar-lo, a volte, dà il suo bel daffare.

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  • Dalle finestre del suo ufficio, al tredicesimopiano di Park Avenue South, Maria vedeManhattan, ma se chiude gli occhi, forse,ascolta il rumore del mare. Il mare azzurro, viola eturchese del Golfo di Napoli. Il mare della suainfanzia. Se chiude gli occhi, forse, sente ancora ilprofumo del caffè espresso che la nonna maternale offriva in bianche tazzine di porcellana, nell’in-nocente complicità segreta con la nipotina di quat-tro anni. Oggi, Maria B. Campbell, nata MariaBarra, fondatrice e Presidente della Maria B.Campbell Associates, è tra le più affermate – eascoltate – Lady dell’editoria mondiale. Più cheuna semplice scout, una talent-scout alla quale siaffidano i principali gruppi editoriali per scovarescrittori, autori di romanzi e saggi, spesso destina-ti a diventare titoli da classifica. Una vita, quella diMaria, trascorsa tra le pagine di alcuni dei più stra-ordinari successi editoriali degli ultimi vent’anni, ilrisultato di una vocazione tenacemente coltivatagrazie alla passione, alla curiosità, e alla capacità didivorare dattiloscritti, riuscendo a viverne in primapersona le emozioni e carpirne i misteriosi segnidel successo. O della bellezza tout-court.

    «Io leggo sempre» ammette, con il candoredella neofita. «Come un’alcolista nasconde le bot-tiglie per non farsi beccare, io tengo libri nascostiin ogni angolo».

    Dall’appartamento della famiglia Barra che affacciava suPosillipo a questo ufficio inondato di luce nel cuore diManhattan: come è andata?

    «La storia di famiglia è “da romanzo”. Ilnonno era guantaio, papà Armando venne inviatoda Napoli a New York per la fiera mondiale del1939; inaugurò un negozio su Madison Avenue,lavorò a Washington nel settore commerciale del-l’ambasciata italiana, ma scoppiò la guerra e fucostretto dagli eventi a rimanere qui, chiamato per

    arruolarsi nell’esercito americano, un fatto abba-stanza complicato per un ragazzo italiano! A sal-varlo da un caso diplomatico imbarazzante fu unostravagante “sequestro”: venne nascosto con altriitaliani nella zona nell’estremo nord di New Yorkinsieme all’equipaggio della nave italiana ConteBiancamano, normalmente destinata a una clien-tele di lusso. Immagini la gioia e lo stupore di tro-varsi in un rifugio corredato di prelibatezze e lus-suose suppellettili. Proseguì la sua attività negliStati Uniti anche dopo la guerra, facendo la spolacon l’Italia, ma non dimenticherò mai i suoiracconti da scapolo napoletano a Manhattan enemmeno quella nave. Ogni volta che mi capita dirivedere E la nave va di Fellini, penso a lui. Ungiorno, passeggiando sul lungomare di Napoli,incontrò mia madre, Ione, la sposò e la portò consé a New York, dove sono nata io. Tornammo inItalia e ci rimanemmo cinque anni. Dalla scuolamedia, sono diventata newyorchese a tutti glieffetti, anche se i miei genitori non hanno maipreso la cittadinanza americana».

    Cosa ricorda della Napoli della sua infanzia?«I giochi a nascondino in via Petrarca, la nonna

    collezionista di antiquariato, il gracchiare del car-retto che ci portava ogni mattina il fiordilatte fre-sco, la squadra di calcio nella quale giocavo, inmaglietta bianca e blu».

    In che ruolo? «Rigorosamente centravanti».

    E i libri? Quando sono entrati i libri nella sua vita?«A dodici anni leggevo voracemente, i libri

    erano il mio mondo privato, un rifugio sicuro. Infondo ho sempre desiderato vivere nei libri, masolo più tardi sono diventati un lavoro, dopo ilperiodo della comune».

    Il codice Campbell

    Paola Calvetti, D – la Repubblica delle donne, 26 maggio 2007

    Da Napoli a New York per fare la segretaria. E intanto leggere, leggere, leggere. Finoad aggiudicarsi per 500 dollari i diritti di un romanzo semisconosciuto: GuerreStellari. Oggi Maria B. Campbell è la mente dietro il Da Vinci Code. Scoperto comesempre: scorrendo le pagine al buio, con una lampada da minatore

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    Non proprio il posto ideale per una ragazza di buonafamiglia…

    «Erano gli anni Settanta, vivevo in una comunedi artisti scrittori, poeti, pittori, nel cuore di unaBrooklyn in pieno fermento creativo. Io ero l’uni-ca a condurre una vita, diciamo, normale».

    Normale?«Avevo trovato un impiego come segretaria alla

    Mondadori di New York, mi alzavo alle sette, nonc’entravo molto con gli amici artisti. Così decisi ditrasferirmi in un piccolo appartamento conun’amica, erano gli anni delle battaglie femministee invece… al cocktail di inaugurazione del miopiccolo appartamento incontrai Woody e tuttocambiò di nuovo».

    Woody è l’avvocato civilista Woodrow WilsonCampbell, jr, marito di Maria: «Un ragazzo altissi-mo, bellissimo, che somigliava a Mark Twain e delquale mi sono innamorata subito. Altro che fem-minista! Sono stata la prima tra le mie amiche asposarmi, dopo soli nove mesi da quel cocktail,salvo poi partire per l’Europa, due giorni dopo ilmatrimonio».

    Una fuga?«No, una straordinaria opportunità. Ero una

    segretaria, ma contemporaneamente leggevo testiamericani e segnalavo al mio editore quelli che amio avviso meritavano di essere tradotti in italiano.Uno dei primi romanzi che suggerii allaMondadori fu Ragtime di E.L. Doctorow. Volleroconoscermi di persona e mi invitarono alla Fieradel libro di Francoforte che… si inaugurava duegiorni dopo le mie nozze. Mi sono sposata il saba-to e il lunedì sono partita per la Germania. Nienteluna di miele».

    E Woody come l’ha presa?«Gli è venuta l’influenza, si è trasferito a casa

    dei miei genitori e mi ha aspettata. Stavo tutto ilgiorno in Fiera e la sera mi chiudevo nella miastanza d’albergo a leggere».

    Una secchiona?«No, un malinteso: gli italiani pensavano che

    io trascorressi le serate impegnata con gli ameri-cani, gli americani mi credevano con gli italiani eio, che ero timidissima, non trovai di meglio chetrascorrere le mie serate da sola. Fu il mio debut-to ufficiale come scout. Rimasi legata alla

    Mondadori, ma altri editori europei si interessa-rono al mio lavoro e poco alla volta iniziai a leg-gere libri da proporre al mercato svedese, olande-se, finlandese, espandendo il mio piccolo regnonel mondo. Non sono nata imprenditrice, losono diventata mio malgrado, ho assunto laprima collaboratrice e dopo un passaggio allaRizzoli, ho fondato la mia società, che adesso hacontratti esclusivi con dodici Paesi».

    Le cinque scoperte letterarie delle quali va fiera?«Difficile scegliere, ma se proprio devo selezio-

    narne cinque, penso a Presunto innocente di ScottTurow, a Star Wars, che sono riuscita ad acquistareper soli 500 dollari, prima che la saga cinematogra-fica diventasse un successo mondiale; La scelta diSophie di William Styron; i romanzi di PatriciaCornwell e fra i casi più recenti, Il cane ucciso a mez-zanotte di Mark Haddon».

    Come si scopre un best-seller?«Un vero best-seller non si cerca, capita. È il

    lettore che “fa” il best-seller, non c’è strategia dimarketing più incisiva del passaparola fra i lettori.Non esistono “scout di best-seller”. I libri nonsono panini o biscotti, dei quali puoi preventivareun successo di mercato a tavolino».

    Anche il Codice da Vinci, il caso letterario più imponentedell’ultimo decennio, è passato tra le sue mani…

    «Avevo già letto Angeli e demoni di Dan Brown,quando ho letto Il Codice da Vinci la mia scheda dilettura fu positiva per gli editori in tutto il mondo,ma con gli italiani fui prudente, ci aggiunsi unpunto interrogativo. Temevo che nella patria diLeonardo avrebbero potuto considerarlo un pocoingenuo. Invece…».

    La Maria B. Campbell Associates lavora anche per ilcinema e ha un’esclusiva per la Warner Bros: il secondoamore, dopo i libri?

    «È successo che… ho incontrato Spielbergdopo il successo di E.T. quando fondò la AmblinEntertainment con Kathleen Kennedy. Mi chiese-ro di consigliare dei libri che fossero adatti per ilgrande schermo, ma non mi sentivo preparata a unmondo che non conoscevo. Suggerii tuttavia aSteven Jurassic Park di Crichton e da quel momentohanno pensato che fossi un’esperta di cinema! Lapiscina della nostra casa di campagna, inConnecticut, si chiama Jurassic Park».

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    È a forma di uovo di dinosauro?«No, è una piscina rettangolare, ma ho utilizza-

    to il bonus dei diritti per costruirla».

    “Il libro è la storia di due persone che si amano” scriveMarguerite Duras. Si riconosce in questa frase?

    «Posso dire che ho conosciuto meglio mio mari-to grazie a tre libri. Gli chiesi un parere sul dattilo-scritto di Dispatches di Michael Herr, A Rumor of Wardi Philip Caputo e un terzo, A Bright Shining Lie, diNeil Sheehan, tutti dedicati alla Guerra in Vietnam,alla quale Woody aveva partecipato come ufficialedei marines. Non me ne aveva mai parlato in modoapprofondito, leggere quei romanzi lo aiutò ad aprir-si, a raccontarmi anche episodi drammatici. Tutta lasua squadra era morta in un attacco e lui era vivo permiracolo grazie a un compagno che gli aveva salva-to la vita. Me ne parlò con grande pudore».

    Che cosa è rimasto, in Maria B. Campbell dell’entusiasmodella ragazzina?

    «Il senso della scoperta, l’idea di iniziare a leg-gere un libro con la speranza di trovarci qualcosa

    che mi prenda e… mi porti via. Non sono snob,posso amare allo stesso modo un thriller, un ro-manzo al femminile o un testo raffinato».

    Non scarta nulla?«Certo. Capita che dopo poche pagine, chiuda

    un libro per non riaprirlo più».

    I giovani Campbell (Francesca, 23 anni, studentessa discienze politiche e Alessandro, 28, assistente legale) legge-vano tanto da bambini?

    «Certo, ma senza forzature. Dopo cena, nientetelevisione. Solo libri. Per le notizie e i giornali c’èInternet».

    Suppongo che anche i fine settimana siano dedicati allalettura…

    «In campagna si nuota, si passeggia, si va alcinema. Ho una grande passione, però: leggo inautomobile. Due ore all’andata e due al ritorno,mentre Woody ascolta opera lirica. Per Natale miha regalato una bellissima lampada da minatore,per poter leggere in auto anche di notte».

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  • Milano, piazza Duomo: in vetrina, su untappeto di prato sintetico, tre elegantimanichini vestiti Etro armeggiano conun telefonino di Prada sfogliando libri di turismo.Nella vetrina accanto, si preparano caffè e si sfor-nano brioche e focacce. I passanti, distratti e unpo’ incerti, cercano di capire se l’ultimo multicen-ter Mondadori, grande 4 mila metri quadrati, sipossa ancora definire in qualche modo una libre-ria. Ma ormai, i romanzi e i saggi, per grande chesia l’autore, si vendono così, tra gadget, cibi, vesti-ti. È inutile fare i puristi: mentre i Meridiani fini-scono in edicola e i best-seller al supermercato, lelibrerie devono inventarsi formule nuove persopravvivere, strategie di diffusione dei prodottiaggiornate al mercato.

    «I nostri punti vendita», spiega con sprintmanageriale Riccardo Cattaneo, direttore generaledi Mondadori Retail, «sono stati progettati comelocation plurifunzionali, dove chi entra può conce-dersi un momento di relax a tutto tondo. Le libre-rie che nascono col nostro brand – 213 in tutto,comprese quelle date in gestione a terzi in franchi-sing – danno la possibilità agli utenti di acquistareun libro, un oggetto per casa, un telefonino o uniPod, ma anche di partecipare a un evento. Il libro,sia chiaro, continua ad avere uno spazio rilevante,noi teniamo dentro dai 70 agli 80mila titoli, manon necessariamente centrale». Insomma libreriecome ibridi, centri commerciali governati dal tron-fio linguaggio del marketing, la filosofia del brande della location.

    La rivoluzione nei rapporti tra librerie e lettoripartì nel 1957 a Pisa, alla Feltrinelli, ma fu di tut-t’altro genere. Per la prima volta si esposero i librisui banconi. «Quella scelta segnò un cambiamentoradicale nella grande distribuzione del libro», spie-ga Dario Giambelli, amministratore delegato diFeltrinelli librerie, «perché rese l’accesso alla lettu-

    ra più facile e più democratico, consentendo aimeno culturalmente attrezzati di passare eventualiimbarazzi nel chiedere consigli ai librai, troppospesso percepiti come distanti e troppo “colti”».

    Il ragionamento è convincente e l’intento nobi-le. Oggi quel rapporto è sicuramente mutato,come è cambiato, e molto, l’identikit del lettoretipo: il suo profilo oggi è quello di un naivigatoredi Internet che è anche consumatore di media egadget tout court: videogame, mp3, dvd, “perfi-no” libri. È un cliente che compra vestiti, oggettiper la casa, ama l’happy hour ma stenta ad avvici-narsi al mondo della cultura. Molto probabilmen-te, è a questa difficile tipologia di acquirenti che sirivolgono le nuove catene di librerie.

    I dati Istat sulla lettura in Italia non sono moltoconfortanti. Gli italiani che hanno letto almeno unlibro negli ultimi 12 mesi sono il 65 per cento. Diquesti, l’11,8 per cento l’ha acquistato in un centrocommerciale, il 17,4 per cento in grandi catenetipo Messaggerie, Fnac ecc. Ma la stragrande mag-gioranza, cioè oltre il 70 per cento, si accosta allaparola scritta solo se lo riceve in dono, un best-sel-ler, e il 12 per cento degli intervistati rivela di nontenere a casa neanche un libro.

    «Con cifre di questo tipo», dice Claudia Tarolo,cofondatrice della casa editrice Marcos y Marcos,«lo spazio per studiare nuove formule di vendita edi proposta è immenso. Perché i lettori, in Italia,possono solamente aumentare».

    E le librerie indipendenti? «Nella maggior partedei casi stanno morendo. Solo poche sopravvivo-no», prosegue Tarolo. «E questo nonostante fac-ciano spesso un buon lavoro. Penso all’impegno diGerardo Pellegrino, un libraio di Maglie, in Puglia.Da solo è riuscito a calamitare l’attenzione e lacuriosità dell’intero paese, organizzando nella suaLibreria Europa presentazioni di libri e momentidi lettura corale».

    Libri, vestiti e brioche

    Chiara Dino, D – la Repubblica delle donne, 2 giugno 2007

    La libreria per raggiungere i suoi difficili clienti diventa un centro commerciale.Funzionerà? Ne discutono alcuni addetti ai lavori

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    Una voce competente “dall’esterno” è quella diAlberto Notarbartolo, che non ha librerie ma èpatron di Internazionale e di Fusi Orari, la casa edi-trice nata dalla costola della rivista, che offre ognisettimana il meglio dei giornali stranieri: «Cerchia-mo di pubblicare autori di nicchia, abbastanzaricercati, che scrivono per il nostro giornale. E cifacciamo distribuire da Messaggerie, la più grandein questo settore, per poter avere un po’ di visibi-lità nelle librerie».

    Arrivare al mercato è un problema che affliggechi i libri li produce quanto chi li vende. In genereottiene maggior visibilità la casa editrice che escecon un numero minimo di titoli l’anno. «È unalogica fuorviante quella della quantità», aggiungeNotarbartolo, «davanti alla quale io non intendoarrendermi. Ragion per cui, vivendo a Roma e nona Pavia, dove la libreria Il delfino è una delle piùbelle d’Italia, ho scelto da anni di comprare i mieilibri su Internet».

    Usato garantito

    C’è una frase di Chamfort che ho trascritto nelmio quaderno di citazioni: “La plupart des livresd’à prèsent ont fair d’avoir ète faits en un jour,avec des livres lus de la ville” (la maggior parte deilibri di adesso sembra fatta in un giorno, con i libriletti un giorno prima). Se è vero che vengono pub-blicati 170 libri al giorno, è inevitabile che le libre-rie siano diventate magazzini di una merce a bre-vissima scadenza, per non dire scadente o scaden-tissima. Ormai bisogna andare in biblioteca pertrovare un libro uscito due o tre anni fa. L’annoscorso ho cercato Aprire Venere di Georges Didi-Huberman (Einaudi. 2001) per prepararmi allalezione che avrebbe tenuto agli studenti di Brera.Non l’ho trovato. La settimana scorsa ho cercato ilCanzoniere di Petrarca della Bur con la prefazionedi Zanzotto (ultima ristampa 2004) per un incon-tro di “pugilato letterario”. Non ho trovato nean-che quello, e sono finita ko. La responsabilità diquesta vergogna bisogna dividerla equamente tra ilibrai e gli editori, o bisogna imputarla tutta quan-ta agli editori? Non lo so: so solo che mi gira latesta, che mi viene da vomitare davanti a quei ban-coni di “novità” tutte lustre, tutte rilucenti, tuttestraelogiate, tutte strapubblicizzate. Domani mimetto alla ricerca di Fitzcarraldo di Herzog(Guanda 1982 e 1997), ma siccome “non ci hoscritto gioconda” – espressione sentita da Antonio

    Di Pietro e che mi ha fatto tenerezza – non andròné alle Mondadori né alle Feltrinelli. So benissimodove posso trovarlo: prima tappa L’Atlante di viaTadino, poi il Libraccio di via Vittorio Veneto, poiil Trovalibri di viale Montenero a Milano… Per mele vere librerie, i luoghi dove si può comprare ilvero nutrimento della mente, sono le librerie dilibri vecchi e usati.

    Patrizia Valduga (autrice di Lezione d’amore,Einaudi)

    Dico no ai librai co.co.co

    Io vado in una libreria grande a due vetrine, aTorino. È vicino casa e dentro c’è un libraio chese gli chiedo un libro, di norma sa che libro è. Losa anche se non è uscito nelle ultime due settima-ne, anche se non è pubblicato da un grande edi-tore. Di solito sa anche se è uscito da anni dalcatalogo. Poi ha un altro pregio: per lui la lettera-tura non si divide per generi, ma va tutta scaffa-lata insieme. Ecco, la mia libreria ideale ha a chefare con tutte queste cose. Vorrei una libreriagestita da chi ama i libri e li conosce. Vorrei nonveder sudare una commessa mentre cerca Guidagalattica per autostoppisti nello scaffale del turismo,o trovarmi a scrivere il nome di Malcolm Lowryperche il commesso non ne ha mai sentito parla-re. Per questo bisognerebbe investire anche sulpersonale. Non vorrei più vedere librai improvvi-sati e precari, librai a progetto, gente messa die-tro a un bancone di libri dopo essere passata peril bancone di un supermercato, per lo scooter diuna ditta che consegna pizze a domicilio o la cuf-fietta di un call center. Così facendo le libreriesaranno sempre più simili agli autogrill e sempremeno a quelle piccole botteghe di quartiere, dicui dovrebbero essere il potenziamento. Infinedalla mia libreria vorrei vedere scomparire lemille etichette, i mille generi sotto cui vienerubricata la letteratura. Vorrei poter trovarePhilip Dick dopo l’autore che lo precede in ordi-ne alfabetico, e non nella riserva della fantascien-za. Vorrei non vedere etichette con su scritto“romanzi rosa”, “thriller”, “polizieschi”, o“Torino scrive”, “romanzi gastronomici”. Vorreiche ai lettori fosse lasciato intatto il mistero dellaletteratura, e che non venissero programmati perprovare l’emozione scritta sulla scatola.

    Andrea Bajani (autore di Mi spezzo ma non m’im-piego, Einaudi)

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    Una collana consolatoria

    Il giorno in cui decido di andare in libreria è moltoprobabile che mi sia alzata con la luna di traverso.La libreria è uno di quei luoghi in cui spero di pla-care la tristezza, un altro luogo di spaccio pergente che cerca consolazioni durature ma a buonmercato, un luogo che non esiste, dunque.Raramente chiedo aiuto, solo quando quello checerco sono proprio sicura di non trovarlo. E sicco-me sono già di cattivo umore, per non aggiungereuna delusione generalmente mi avvicino al boxinformazioni chiedendo di prenotare il libro.

    L’ultima volta che ero sicura di trovare il volu-me che cercavo è stata una vera disfatta. Ho chie-sto Romanzi e Racconti di Truman Capote, collana IMeridiani di Mondadori. Già decidere di compra-re un libro così costoso, con dentro opere cheavevo già letto, era sintomo di un grave disagio dacurare all’istante. In ogni caso non pensavo che unclassicone del genere potesse mancare in una libre-ria come la Feltrinelli di Bari, insomma ero certa dicavarmela e uscire dalla libreria con un sorriso.

    Invece la perfida commessa, prima mi ha dettodi sì, poi, non trovandolo sullo scaffale, che sareb-be andata in magazzino a prenderlo. Ma io giàavevo capito come andava a finire: «L’abbiamo ven-duto», mi ha comunicato al ritorno. Venduto? Ma senon posso contare neppure sui Meridiani, cosa miresta, che certezze ho? Chi mi aiuta oggi? Comefaccio ad arrivare alla fine della giornata? Nella mialibreria ideale ci sono almeno i classici, tutti, le com-messe ti sorridono e, soprattutto, non ti illudono,perché quando non sorridono penso che ancheloro hanno una vita complicata e allora mi passapure la voglia di comprare, ma poi una volta fuorimi ricordo di essere triste e torno sui miei passi.Scusi, signorina, ma almeno Anna Karenina, cel’ha?». «Certo, glielo prendo?». «No grazie, era soloper sapere, ora sono più tranquilla».

    Susi Brescia (autrice di Tu mi dai il male,Nutrimenti)

    Bella vita in piccolo

    Entro spesso in libreria ma non sempre con l’in-tenzione di comprare. Sono un modesto consu-matore di libri. Ne conservo pochi: a casa ne homeno di 200. Le immense collezioni degli scritto-ri mi lasciano indifferente. Entro nelle grandilibrerie perché sono luoghi accoglienti. In questestrutture posso permettermi di dare un’occhiatain giro. Non solo al libro. Si incontrano personeinteressanti nelle librerie. Il fatto è che conservoancora questa abitudine provinciale allo struscio,così preferisco fare le vasche nelle grandi librerie.La mia preferenza va alla Mel book di Roma.Puoi passarci l’intera giornata. Non ho pregiudi-zi verso le grandi librerie, voglio dire non pensoche le piccole siano, per forza, migliori. Anzi,quando entro nelle librerie non penso proprio aniente. Mi abbandono alla distrazione. Tuttaquella conoscenza contenuta nei libri forse nonmi apparterrà mai, non ho tempo per approfon-dire, però è bello che il mio sguardo sfiori i libriche mai potrò leggere. È bello, sensato che inqualche angolo della mia mente si dispongano,più o meno disordinatamente, titoli che ho intra-visto su uno scaffale. Spesso torna utile. Magarivedo una persona che dice al commesso di nonricordarsi il titolo di un libro che parlava di unargomento strano, che so, i fiori selvatici, o l’ar-redo urbano. E io ricordo che l’ho intravisto, quellibro, nello scaffale più avanti, appena in ombra.Così mi intrometto e gli suggerisco il titolo.Capita che poi, a titolo indovinato, ci mettiamo aparlare e facciamo conoscenza. Frequentarelibrerie è una pratica che mi concilia con la vita.A volte è bellissima, la vita. Ecco, questa frase miviene spesso in mente quando sono in libreria.

    Antonio Pascale (autore di S’è fatta ora, mini-mum fax)

    Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 27

  • Rassegna_stampa_15maggio_16giugno.qxp 09/07/2007 16.11 Pagina 28

  • Parola d’ordine: «Aggredire tutto il mercato».Questa «filosofia» semplice ma tutt’altroche facile, Vittorio Avanzini, prima, suofiglio Raffaello, adesso (direttore generale), la met-tono in pratica da quasi 40 anni con la NewtonCompton i cui attuali 30 mila titoli in catalogo (5-6 mila in produzione) dilagano dalle Alpi allaSicilia, dalla grande distribuzione agli uffici di«scouting» che l’impresa libraria con l’anima piùpopolare del nostro Paese (per questo, tappa inte-ressante nel nostro viaggio tra gli editori italiani «dipeso») ha aperto a Londra e a N.Y., diffondendo lesue oltre 20 collane. Dai manuali (accurati) ai clas-sici latini e greci con testo a fronte, ai «Libri chehanno cambiato