La Querelle Degli Antichi e Dei Moderni

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Q uando si pensa a un’opposizione fra antichi e moderni si ha l’abitudine di citare la famosa Querelle des anciens et des modernes, una lunga controversia che giunse a una crisi decisiva, con una gran quantità di pamphlet e tratta- ti, all’Académie de France alla fine del regno di Luigi XIV. Nel corso di questo dibattito, Boileau e altri sostennero che l’imitazione della letteratura antica era l’unica possibile garanzia di eccellenza, mentre i ‘moderni’ come Charles Perrault nel suo Parallèle des anciens et des modernes (1688-97) e Fontenelle, nella sua Digression sur les anciens et les modernes (1688), erano convinti del primato delle opere contemporanee, in virtù della loro superiore maturità. Si assiste così alla lotta fra i classicisti (come Boileau, Racine, La Fontaine, La Bruyère) e i poètes galants, o gli esprit curieux (Perrault e Fontenelle), che privilegia- no nuovi generi quali l’opéra, il conte o il romanzo. L’Enciclopedia Britannica ha buon gioco a definire sterile e inconcludente questo dibattito e in effetti si trattiene a stento il sorriso allorché leggiamo dell’affaire des inscriptions: era meglio il latino o il francese per le iscrizioni dei monumenti cele- brativi di Luigi XIV? Ma questa controversia non ci interessa più di tanto. La verità è che lo stesso termine modernus è piuttosto antico, visto che fa la sua comparsa verso la fine dell’Impero romano, e già allora con il significato odierno, ossia ‘nuovo’, ‘recente’, ‘attuale’. Tutto ciò lascia forse intendere che il conflitto fra padri e figli non è un prodotto dei tempi moderni. Non lo è certamente, visto che ha a che fare con le relazioni parentali e i conflitti psicologici e psicoanalitici (come testimonia il mito di Edipo), ma non lo è anche perché, fin dai tempi antichi, molti dibattiti letterari e filosofici hanno ruotato proprio attorno al concetto di modernità. «Poetae Novi» Ai tempi di Catullo il termine «modernus» non esisteva ancora, ma, come sapete, un gruppo di scrittori battezzatosi poetae novi oppose la sua nuova, irriverente e provocatoria maniera poetica, ispirata dalla lirica greca, alla tradizione poetica della letteratura latina. L’episodio rappresentò indubbiamente uno scontro gene- razionale, la prima vera querelle des anciens et des modernes. Orazio (Epistulae II, I, * Il testo originale di questo saggio è stato tradotto dall’inglese da Francesco Ghelli. 1. La querelle degli antichi e dei moderni. The day after * 9 LA QUERELLE DEGLI ANTICHI E DEI MODERNI. THE DAY AFTER

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Quando si pensa a un’opposizione fra antichi e moderni si ha l’abitudine dicitare la famosa Querelle des anciens et des modernes, una lunga controversiache giunse a una crisi decisiva, con una gran quantità di pamphlet e tratta-ti, all’Académie de France alla fine del regno di Luigi XIV. Nel corso di

questo dibattito, Boileau e altri sostennero che l’imitazione della letteratura anticaera l’unica possibile garanzia di eccellenza, mentre i ‘moderni’ come CharlesPerrault nel suo Parallèle des anciens et des modernes (1688-97) e Fontenelle, nellasua Digression sur les anciens et les modernes (1688), erano convinti del primato delleopere contemporanee, in virtù della loro superiore maturità.

Si assiste così alla lotta fra i classicisti (come Boileau, Racine, La Fontaine, LaBruyère) e i poètes galants, o gli esprit curieux (Perrault e Fontenelle), che privilegia-no nuovi generi quali l’opéra, il conte o il romanzo.

L’Enciclopedia Britannica ha buon gioco a definire sterile e inconcludente questodibattito e in effetti si trattiene a stento il sorriso allorché leggiamo dell’affaire desinscriptions: era meglio il latino o il francese per le iscrizioni dei monumenti cele-brativi di Luigi XIV?

Ma questa controversia non ci interessa più di tanto. La verità è che lo stessotermine modernus è piuttosto antico, visto che fa la sua comparsa verso la finedell’Impero romano, e già allora con il significato odierno, ossia ‘nuovo’, ‘recente’,‘attuale’.

Tutto ciò lascia forse intendere che il conflitto fra padri e figli non è un prodottodei tempi moderni. Non lo è certamente, visto che ha a che fare con le relazioniparentali e i conflitti psicologici e psicoanalitici (come testimonia il mito di Edipo),ma non lo è anche perché, fin dai tempi antichi, molti dibattiti letterari e filosoficihanno ruotato proprio attorno al concetto di modernità.

«Poetae Novi»

Ai tempi di Catullo il termine «modernus» non esisteva ancora, ma, come sapete,un gruppo di scrittori battezzatosi poetae novi oppose la sua nuova, irriverente eprovocatoria maniera poetica, ispirata dalla lirica greca, alla tradizione poeticadella letteratura latina. L’episodio rappresentò indubbiamente uno scontro gene-razionale, la prima vera querelle des anciens et des modernes. Orazio (Epistulae II, I,

* Il testo originale di questo saggio è stato tradotto dall’inglese da Francesco Ghelli.

1. La querelle degli antichie dei moderni.The day after *

9LA QUERELLE DEGLI ANTICHI E DEI MODERNI. THE DAY AFTER

vv. 75 e sgg.), invece di «modernus» usa l’avverbio «nuper», per dire che è un pec-cato che un libro sia condannato non per i suoi difetti stilistici, ma perché è uscitoil giorno prima. Egli, tuttavia, non sta argomentando in favore di un nuovo tipo dipoesia, se la prende invece con l’inerzia delle vecchie generazioni, incapaci dicomprendere il nuovo gusto.

Ovidio nella sua Ars Amandi (III, vv. 120 e sgg.) proclama: «prisca iuvent alios,ego me nunc denique natum / Gratulor; haec aetas moribus acta meis» [«ami chivuole quelle antiche età; per me, sono contento d’esser nato oggi soltanto. È fattasu mio gusto l’età presente»].

Siamo abituati a pensare che ogni epoca sia ossessionata dalla laudatio temporisacti ed è senz’altro vero che, da che mondo è mondo, si odono voci poetiche e filo-sofiche intente a celebrare il passato. Ma è altrettanto vero che per ogni laudatortemporis acti ci furono molti laudatores modernitatis.

Ernst Robert Curtius, nel suo splendido libro Europäische Literatur und lateini-sche Mittelalter (Letteratura europea e Medioevo latino, 1948) nota che uno dei topoiricorrenti nella Bibbia e nella tarda antichità è il cosiddetto «puer senilis» o «puersenex» [«fanciullo anziano»]. In contrapposizione all’abitudine quasi obbligatoriadi lodare i tempi antichi, è spesso rappresentato o citato un giovane che possiedetutte le virtù della senectus: giovane sì ma saggio.

«Modernus»

Il termine «modernus» appare, come ho detto, quando l’Europa intera sembra aversmarrito del tutto i tesori della cultura classica, del resto dal V secolo dopo Cristo alRinascimento carolingio si parla di secoli bui – e proprio allora, presumibilmente,qualcuno avvertì il papa che tutte le cerimonie battesimali effettuate in Gallia nonerano valide dal momento che i preti, che avevano dimenticato il latino, cristianiz-zavano i bambini «in nomine Patris et Filiae». Ma questa perdita di memoria stori-ca fu accompagnata da uno sforzo immane per inventare un nuovo linguaggio,una nuova letteratura e nuove forme artistiche. Spesso questi inventori erano astu-ti, poiché presentarono le loro invenzioni come parte del tesoro della tradizione.Forse erano ignoranti, forse erano allegramente impudenti, impertinenti e insolenti(il che è uno dei tratti tipici di ogni movimento moderno).

Per prima cosa, le storie della cultura dell’alto Medioevo (VII-X secolo) registra-no lo sviluppo di quello che è stato chiamato «il gusto barbarico», uno stile chenacque e si sviluppò dalla Spagna verso le isole britanniche, coinvolgendo anche laGallia. La tradizione classica aveva già descritto (e condannato) questo stile, defi-nendolo «Asiano» o «Africano», e opponendolo all’equilibrio dello stile «Attico».Quintiliano, nella sua Institutio oratoria (XII, 80), già aveva sottolineato che il bellostile doveva possedere questi attributi: «magna non nimia, sublimia non abrupta,fortia non temeraria, severia non tristia, gravia non tarda, laeta non luxuriosa,iucunda non dissoluta, grandia non tumida [«elevato senza essere eccessivo, altosenza essere impervio, coraggioso senza essere temerario, severo senza essere tri-ste, grave senza essere lento, ricco senza essere lussureggiante, piacevole senzaessere dissoluto, grandioso senza essere gonfio»]. Non solo i retori romani maanche i primi cristiani condannarono la «kakozelon», o cattiva affettazione, dello

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stile ‘asiano’. Per avere un’idea di quanto fossero scandalizzati i padri della chiesada questi esempi di «mala affectatio», si consideri questa invettiva di San Girolamo(Adversus Jovinianum I):

Scriptorum tanta barbarie est, et tantis vitiis spurcissime sermo confusus ut nec quiloquantur nec quibus argumentis velit probare quod loquitur, potuerim intelligere. Totumenim tumet, totum iacet: attollit per se singula, et quasi debilitatus coluber, in ipso conatufrangitur… Preterea sic involvit omnia et quibusdam inextricabilibus nodis universa per-turbat, ut illo plautinarum litterarum ei possit adaptari: «Has quidem prater Sybillamleget nemo». Quo sunt haec portenta verborum?

[È così grande la barbarie di questi scrittori, e il loro lurido stile è appesantito dauna tale quantità di vizi che non è possibile capire né di che cosa parlino, né qualiargomentazioni sostengano. In questi scritti di volta in volta tutto si gonfia o deca-de quasi fosse un serpente agonizzante che prova a mordersi mentre si attorci-glia… Inoltre tutto è contorto in nodi verbali così inestricabili che gli si potrebbeadattare il detto di Plauto: «Nessuno ci capisce, eccetto la Sibilla». Ma a che servo-no mai questi sortilegi della parola?]

Ebbene, nei secoli di cui sto parlando, le caratteristiche che la tradizione classicagiudicava ‘vizi’divengono virtù.

Barbarico

La pagina barbarica non obbediva più alle leggi tradizionali della sintassi e dellaretorica; le norme del ritmo e del metro erano violate per produrre elementi digusto barocco. Lunghe catene di allitterazioni, che i classici avrebbero giudicatocacofoniche, iniziarono a far sentire una musica nuova, e Adelmo da Malmesburysi dilettò a comporre frasi nelle quali ogni parola iniziava con la stessa lettera:«Primitus pantorum procerum praetorumque pio potissimum praesertim privilegiopanegyricum poemataque passim prosatori sub polo promulgantes stridula vocumsymphonia ac melodiae cantilenaeque carmine modulaturi hymnizemus».

Il lessico barbarico si arricchì di ibridi numerosi e incredibili, prendendo in pre-stito termini ebrei o ellenismi, nel mentre che il discorso si infittì di crittogrammi eenigmi che sfidavano ogni tentativo di traduzione. Se l’estetica classica aveva comesuo ideale la chiarezza, l’estetica barbarica sceglierà l’oscurità. Se l’estetica classicaesaltò la proporzione, quella barbarica opterà per la complessità, l’abbondanza diepiteti e perifrasi, il gigantismo, il mostruoso, lo smisurato e il prodigioso. La stessaricerca di fantasiose etimologie porterà alla scomposizione delle parole in elementiatomistici, capaci ciascuno di acquisire un significato enigmatico.

Il gusto barbarico arriverà a rappresentare lo stile dell’Europa nei secoli bui, unepoca in cui l’antico continente subirà un calo della popolazione, una crisi neimetodi di coltivazione agricola, la distruzione delle grandi città, delle strade, degliacquedotti romani. In un territorio coperto di foreste, non solo i monaci, ma anche ipoeti e i miniaturisti concepiranno il mondo come una foresta oscura, minacciosa,brulicante di mostri, solcata da sentieri labirintici. In questi secoli disordinati e pienidi difficoltà la cultura latina sarà riportata nel continente a partire dall’Irlanda. Ma

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questi monaci irlandesi che avevano conservato e elaborato quel poco della tradi-zione classica che si era salvato si muoveranno nel mondo del linguaggio e dell’im-maginazione visiva come se si aprissero a tastoni un sentiero in una foresta fitta,proprio come compagni ideali di quel San Brandano che, gettato in mare alla deri-va, incontro a mostri e a isole incantate, sbarca infine su un pesce gigantesco e loscambia per un’isola (in cui risiedono le anime di coloro che caddero assieme aLucifero) e si imbatte via via in fontane miracolose, alberi del paradiso, in unacolonna di cristallo in mezzo al mare e in Giuda, prigioniero su uno scoglio, tortura-to e battuto dalle onde incessanti…

Nella Hisperica famina si trovano aggettivi come «astriferus» o «glaucicomus»(usato per descrivere le onde del mare), e il gusto barbarico apprezzava perfinoneologismi quali «pectoreus», «placoreus», «sonoreus», «alboreus», «propiferus»,«flammiger», e «gaudifluus».

Sono queste le invenzioni lessicali lodate da Virgilio Grammaticus nelle sueEpitomae e nelle sue Epistulae. Questo folle grammatico di Bigorre, una località vici-no a Tolosa, visse nel VII secolo. Citava passi di Cicerone o di Virgilio (l’altro Virgilio,quello vero) che questi autori non avrebbero mai potuto scrivere, sennonché sco-priamo poi che egli appartiene a un piccolo gruppo di retori, ciascuno dei quali hapreso il nome di uno degli autori classici. Virgilio così cita le invenzioni dei suoiamici, o forse le inventa. Forse, come è stato ipotizzato, scrive per prendere in girogli altri retori. Influenzato dalle culture dei celti, dei visigoti, degli irlandesi e degliebrei, descrive un universo linguistico che potrebbe essere stato partorito dall’im-maginazione di un moderno poeta surrealista. Sostiene che ci sono dodici varietà dilatino e, in ciascuna, il termine per ‘fuoco’ è differente, ossia «ignis, quoquihabin,ardon, calax, spiridon, rusin, fragon, fumaton, ustrax, vitius, siluleus, aeneon»(Epitomae I, 4). Una battaglia si chiama «praelium» se avviene in mare, «praelum» seè la sua grandezza a essere sottolineata, o «praelatum», in virtù della sua meraviglia(Epitomae IV, 10). La geometria è l’arte che riguarda gli esperimenti con erbe e pian-te, e questa è la ragione per cui i medici sono detti geometri (Epitomae IV, 11).Galbungus e Terrentius si impegnarono in una disputa di quattordici giorni e quat-tordici notti sul vocativo di «ego», un problema di grandissima importanza visto chesi trattava di decidere come uno potesse rivolgere la parola a se stesso in modoenfatico («O egone, recte feci?» [«Ho fatto davvero la cosa giusta?»]).

Ciascuno dei testi appena menzionati potrebbe essere usato per descrivere unapagina del Libro di Kells, che risale alla fine dell’VIII secolo. Descrivere a parole ilLibro di Kells significa reinventare una pagina di letteratura barbarica. Il Libro diKells è tutto un fiorire di ghirlande, di forme animali stilizzate, di piccole figure discimmia in mezzo a fogliami impossibili che coprono una pagina dopo l’altra,come se nella ricerca dei motivi di una tessitura – sempre gli stessi – in realtà ogniriga, ogni corimbo rappresentasse una nuova invenzione. È tutto una complicazio-ne di curve spiraliformi che ignorano volontariamente le più elementari regoledella simmetria, una sinfonia di delicate sfumature, dal rosa al giallo arancione, dalgiallo limone al rosso porpora. Quadrupedi, volatili, levrieri che giocano col beccodi un cigno, impensabili figure di umanoidi contorte, come un atleta circolare conla testa fra le ginocchia che si protende per formare un’iniziale, esseri malleabili,pieghevoli come pongo, che si introducono fra i viticci delle ghirlande, sporgono leteste dalle decorazioni astratte, si intrecciano attorno alle iniziali, si insinuano fra le

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righe. La pagina non riposa sotto il nostro sguardo, ma sembra animarsi di vitapropria, non ci sono punti di riferimento precisi, ogni cosa si mescola con ognialtra. Il Libro di Kells è il regno di Proteo. È il prodotto di un’allucinazione lucidache non ha bisogno né di mescalina né di acido lisergico per aprire tali abissi,anche perché non rappresenta il delirio di una mente individuale, bensì il delirio diun’intera cultura, impegnata in un dialogo con se stessa e che cita altri Vangeli,altre lettere miniate, altri racconti.

È la lucida vertigine di un linguaggio che cerca di ridefinire il mondo nel mentresta ridefinendo se stesso, con la piena consapevolezza che – in un’epoca di oscuritàe incertezza – la chiave della rivelazione del mondo non si può trovare sulla linearetta bensì nel labirinto – e non è un caso che il Libro di Kells ispirò Finnegans Wake,allorché Joyce cercò di scrivere un libro che nello stesso tempo fosse un’immaginedell’universo e un’opera per un «lettore ideale affetto da un’ideale insonnia».

Il Libro di Kells, per la sua epoca, è un vero e proprio esperimento di avanguar-dia. Nulla a che vedere con un’arte classica, da molto tempo caduta nell’oblio,nulla a che vedere con l’arte tardo romana. Era insomma modernus.

Nuove lingue

Se Virgilio o i poeti irlandesi potevano ancora credere, o far credere, che non stesserofacendo altro che seguire le orme degli antichi, con l’ascesa delle lingue europee perla prima volta accade qualcosa di innegabilmente nuovo. Fra la caduta dell’Imperoromano e l’alto Medioevo, l’Europa non c’è ancora: se ne agitano i presentimenti.Nuove lingue stanno formandosi lentamente, e si è calcolato che, verso la fine del Vsecolo, il popolo già non parli latino bensì gallo-romano, italo-romano, o ispano-romano. Gli intellettuali continuano a scrivere un latino che si imbastardisce semprepiù e sentono parlare attorno a loro dialetti locali in cui si incrociano ricordi delleparlate precedenti la civilizzazione romana e nuove radici introdotte dai barbari.

Ed ecco che, prima ancora che appaiano i primi documenti scritti delle lingueromanze o germaniche, nel VII secolo appare, opera di un grammatico irlandese, laprima apologia del gaelico parlato in contrapposizione al latino come lingua dellacultura. Nella sua opera intitolata Auracepit na n-Éces (I precetti dei poeti), il gram-matico irlandese si rifà ai componenti della Torre di Babele: «Altri affermano che latorre era fatta solo di nove materie, e che queste erano argilla e acqua, lana e san-gue, legno e fango, pece, lino e bitume… cioè nome, pronome, verbo, avverbio,participio, congiunzione, preposizione, interiezione». Se tralasciamo lo scarto fra lenove parti della Torre e le otto parti del discorso, si comprende che la struttura dellinguaggio e la costruzione della Torre di Babele sono analoghe. Tutto ciò fa parte diun’argomentazione secondo cui il gaelico costituisce il primo e unico esempio disuperamento della confusione delle lingue. Era infatti la prima lingua programma-ta, costruita dopo la diaspora babelica, dai 72 saggi della scuola di Fenius. Questalingua primigenia, e quindi soprannaturale, conserva tracce dell’isomorfismo conl’ordinamento naturale del creato e stabilisce una sorta di legame iconico tra gene-re grammaticale e referente, quando si sia rispettato il giusto ordine degli elementi.

Non si deve fraintendere la posizione dell’autore dei Precetti. Forse l’ebreo anti-co, forse il latino erano lingue illustri, ma adesso bisogna prendere seriamente in

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considerazione la nascita di un nuovo idioma che abbia tutti i pregi delle lingueantiche, ma nessuno dei loro difetti. Non c’era insomma alcuna querelle des ancienset des modernes. Gli antichi per lui erano definitivamente morti. Solo la nuova lin-gua era quella giusta.

Poco più di cinque secoli dopo Dante segue un’analoga strada. Quando Dantescrive il De vulgari eloquentia, i dialetti italiani hanno già trionfato sul vecchio lati-no, che resta soltanto la lingua della chiesa, dell’università e dei documenti giuridi-ci e politici.

Il testo di Dante si apre su una constatazione ovvia, ma fondamentale per ilnostro assunto: esiste la pluralità delle lingue volgari, e il volgare si oppone inquanto lingua naturale al latino come modello di grammatica universale ma artifi-ciale. Esisteva, prima della costruzione blasfema della Torre di Babele, una linguaperfetta, con la quale Adamo aveva parlato con Dio, e con la quale avevano parlatoi suoi discendenti, ma con la «confusio linguarum» nasce la pluralità delle lingue.Dimostrando una conoscenza di linguistica comparata eccezionale per i suoitempi, Dante mostra come le varie lingue nate dalla confusione si siano moltiplica-te ternariamente, prima seguendo una divisione tra le diverse zone del mondo, poiall’interno dell’area che oggi diremmo romanza, distinguendosi tra lingua d’oc, lin-gua d’oil e lingua del sì. Quest’ultima si è frammentata in una pluralità di dialettiche talora, come per esempio a Bologna, variano da zona a zona della città. Questoperché l’uomo è animale instabile e mutevole, per costumi, abitudini e linguaggio,nel tempo come nello spazio.

Poiché era intenzione di Dante scoprire una lingua più decorosa e illustre dellealtre, egli dovette passare in rassegna i vari volgari, sottoponendoli ciascuno a unsevero esame critico. Dopo aver analizzato l’opera dei migliori poeti italiani eessersi reso conto che ciascuno era sempre andato al di là dei limiti del suo dialettolocale, Dante pensò di creare un volgare che fosse illustre (nel senso di splendentedi luce propria), cardinale (tale cioè da poter servire da cardine, da norma guida),regale (degno cioè di essere parlato nella reggia di un re nazionale – se mai gli ita-liani l’avessero) e curiale (degno ossia di essere la lingua del governo, delle corti digiustizia e dei sapienti). Un tale volgare apparteneva a tutte le città d’Italia e a nes-suna. Esisteva solo come forma ideale, avvicinata dai migliori poeti, e solo in base aquesto modello i volgari esistenti dovevano essere giudicati.

La seconda parte del trattato delinea le regole della composizione nell’unica evera lingua cui si potesse applicare legittimamente il termine «illustrius», la linguapoetica di cui Dante stesso si considerava il fondatore. Opponendo questa linguaalle lingue della confusione, Dante si presentò come colui che aveva ristabilito laprimigenia affinità fra le parole e le cose che fu propria della lingua adamitica.

A differenza di quanto faranno i rinascimentali andando alla ricerca di una lin-gua ebraica restituita al suo potere magico e divinatorio, Dante intende ricreare lacondizione originaria con un atto di invenzione moderna. Se un uomo con la tem-pra di Dante avesse veramente pensato che l’ebraico inventato da Adamo era lasola lingua perfetta, avrebbe appreso l’ebraico e in ebraico avrebbe scritto il suopoema. Non l’ha fatto poiché pensava che il volgare che egli doveva inventareavrebbe corrisposto ai princìpi della forma universale donata da Dio meglio diquanto potesse fare l’ebraico adamitico. Dante così si candida a essere un nuovo (eancor più perfetto) Adamo.

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«Logica Modernorum»

Per quanto riguarda i grandi secoli del Medioevo, ossia dopo la fine del primo mil-lennio, è tempo ormai di sbarazzarci della vecchia idea secondo la quale ci trovia-mo di fronte a un’epoca di assoluta fedeltà alla verità rivelata e all’inalterabileautorità delle Sacre scritture e dei padri della chiesa. Per prima cosa, il Medioevoconobbe una forte nozione di modernità tutte le volte in cui è questione dei classicidella tradizione filosofica. Già nell’alto Medioevo si commentavano testi come Dedivinis nominibus dello pseudo Dionigi e i testi aristotelici conosciuti da Boezio,raggruppati sotto il titolo Logica vetus (ossia le Categorie e il De interpretatione diAristotele e l’Isagoge di Porfirio). All’inizio del XII secolo cominciano a circolare letraduzioni di Boezio di tre testi di Aristotele: gli Analitici primi, le Topiche e leConfutazioni sofistiche. Nel secondo quarto di quello stesso secolo, Giacomo daVenezia tradusse dal greco gli Analitici secondi, e da quel momento l’intero Organonfu disponibile in latino. Queste opere aristoteliche appena riscoperte sono notecollettivamente come Logica nova. Nel bel mezzo di una grande attività, altri nel XIIe nel XIII secolo producono ulteriori traduzioni di queste opere e commenti ingreco e in arabo, assieme a molti altri scritti filosofici da fonti greche e arabe.

Le confutazioni dei sofisti, e lo studio dei loro errori, danno vita a un’intera let-teratura logica. Si sviluppa un nuovo genere, i sophismata (sofistiche), che esploragli errori in teologia, fisica e logica. Anche la teoria delle ‘supposizioni’ si sviluppadallo studio degli errori logici.Vengono scritti trattati di un nuovo genere su quelleche vennero definite «le proprietà dei termini», e si sviluppa un nuovo genere ditesti logici sul tema dei «syncategoremata» – espressioni del tipo «solo», «nel men-tre che», «oltre», «eccetto», «almeno» e così via, che pongono problemi del tuttonuovi rispetto alla logica antica. Gli studi sulle inferenze valide producono tuttauna nuova letteratura dedicata alla ‘deduzione’. Verso la fine del XII e l’inizio delXIII secolo trattati speciali sono dedicati agli insolubilia (paradossi semantici sull’e-sempio di quello del mentitore: «Questa frase è falsa»). La logica sviluppata inquesti trattati fu chiamata, non senza orgoglio, Logica modernorum.

In che misura questi filosofi si possono considerare moderni in rapporto ai loroavi, ossia alle grandi figure dei secoli precedenti come Sant’Anselmo da Canterbury,San Tommaso d’Aquino, San Bonaventura e così via? Per quel che so, la chiesa nonha canonizzato nemmeno uno degli autori della Logica modernorum. Stavano ucci-dendo i loro padri così come gli scienziati del Rinascimento avrebbero ucciso loro(per un lungo periodo almeno, e solo adesso cominciamo ad accorgerci che essierano molto più moderni di quanto credessero i loro avversari scienziati).

Sulle spalle di giganti

Ovviamente i pensatori medievali non proclamarono mai apertamente che quelloche scrivevano era in contraddizione con la tradizione precedente. Al contrario,essi erano dei bugiardi spudorati e presentarono idee nuove travestendole con gliabiti di quelle vecchie. Una volta Maritain ha detto che con Descartes e il suo cogitoi filosofi cominciarono a presentarsi come debuttant dans l’absolu. Dopo Descartesla mossa tipica dei pensatori (e dei poeti) contemporanei è stata quella di chiarire

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subito che essi rifiutavano in toto la tradizione e proponevano qualcosa di provoca-toriamente nuovo. E lo facevano (e noi continuiamo a farlo) anche quando nonavevano in realtà nulla di nuovo da dire. Nel Medioevo invece gli intellettualiseguivano una via del tutto opposta. Presentavano qualcosa di nuovo travestendo-lo da verità tradizionale. In altre parole, i moderni dicono che stanno uccidendo iloro padri anche quando li rispettano. Gli intellettuali del Medioevo invece diconodi rispettare i loro padri anche quando li stanno uccidendo.

C’è un topos in grado di incarnare in modo esemplare quest’abitudine ed èquello dei nani sulle spalle dei giganti. In molti pensano che si tratti di un aforismamoderno e citano Burton: «Un nano che sta sulle spalle di un gigante vede piùlontano del gigante stesso», o Newton, quando disse: «se ho visto più lontano, èperché stavo sulle spalle di giganti». Tuttavia la storia è parecchio più antica.

La fonte principale del noto aforisma è un passo del Metalogicon (III, 4) diGiovanni da Salisbury:

Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, utpossimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentiacorporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea.

[Bernardo da Chartres diceva che noi siamo come dei nani che stanno sulle spalledei giganti perché possiamo vedere di più e più lontano di loro, e non per l’acutez-za della nostra vista o per la statura del corpo ma perché siamo portati in alto e sol-levati dalla grandezza dei giganti.]

Di fatto l’idea (se non la stessa metafora dei nani) appare in Prisciano sei secoliprima. Ma un tramite interessante fra Prisciano e Bernardo sarebbe Guglielmo diConches, che di nani e di giganti parla nelle sue glosse a Prisciano. Il testo diGuglielmo è anteriore a quello di Giovanni da Salisbury ed è stato scritto negli anni incui Bernardo è cancelliere a Chartres. Ma troviamo l’aforisma in numerosi altri testidel periodo; nel XIII secolo appare per esempio in Gerardo di Cambrai, Raoul deLongchamp, Egidio di Corbeil, Gerardo d’Alvernia, nel XIV secolo in Alexandre Ricat,medico dei re di Aragona, nel XVI nell’opera di Ambroise Paré, e così via.

È un aforisma ‘umile’o ‘orgoglioso’? A seconda di come lo si prende, può essereinteso nel senso che conosciamo, sia pure meglio, tutto quello che gli antichi cihanno insegnato, oppure che conosciamo, sia pure grazie al debito con gli antichi,ben più di loro. Se un aforisma analogo, che appare in San Bernardo, il quale parladegli spigolatori che vanno dietro ai mietitori, non lascia adito a dubbi – poiché glispigolatori raccolgono solo gli avanzi dei grandi mietitori – resta ambigua la posi-zione di Prisciano, e del suo glossatore Guglielmo di Conches, il quale dice che imoderni sono «più perspicaci», ma non «più sapienti».

Nel Medioevo si dicono cose vere solo se esse sono sostenute da una auctoritasprecedente, a tal punto che, se si ha il sospetto che l’auctoritas non sostenga lanuova idea, si provvede a manipolarne la testimonianza. Ed è per questo che Alanoda Lilla scrive che l’auctoritas ha un naso di cera. Viene naturale a un uomo delMedioevo usare l’aforisma, poiché la modalità di discussione tipica dell’epoca è ilcommento e la glossa. Si deve sempre partire da un gigante, insomma. Ma se si èmoderni si può andare oltre.

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Uno dei temi ricorrenti nella cultura medievale è la progressiva senescenza delmondo, ma l’aforisma di Bernardo dice che, anche se «mundus senescit», e inesora-bilmente, si possono comunque apprezzare alcuni vantaggi in questa tragedia.Seguendo Prisciano, Bernardo usa l’aforisma nell’àmbito di un dibattito sulla gram-matica, al momento di discutere il tema della conoscenza e dell’imitazione dellostile degli antichi. Il tema non ha nulla a che fare con nozioni quali il miglioramentodelle conoscenze teologiche o scientifiche. Bernardo (come attesta Giovanni daSalisbury) rimproverava gli allievi che copiano servilmente gli antichi e diceva che ilproblema non era tanto scrivere come loro ma imparare da loro a scrivere benecome loro avevano fatto. Quindi, nel suo aforisma un appello all’indipendenza e alcoraggio di innovare c’era, seppure non nei termini in cui noi lo intendiamo oggi. Enon bisogna trascurare il fatto che Giovanni da Salisbury riprenda l’aforisma nonnel contesto della grammatica, ma in un capitolo in cui discute il De interpretationedi Aristotele. Appena qualche anno prima, Adelardo da Bath si era scagliato controuna generazione che riteneva accettabili solo le scoperte fatte dagli antichi. Unsecolo dopo, Sigieri da Brabante avrebbe detto che l’auctoritas da sola non basta,poiché siamo uomini come coloro a cui ci ispiriamo, e quindi «perché non dovrem-mo impegnarci nella ricerca razionale come fecero loro?».

Rinascimento e XVII secolo

C’è poco da dire sulla nozione di modernità che domina il Rinascimento. Ècomunque abbastanza curioso che l’uomo del Rinascimento creda di essere tantomoderno quanto abile a ritornare al passato, e alla sapienza sconosciuta non solodei greci ma anche degli oracoli della Caldea e del Corpus Hermeticum. Ci sonoalcune curiose analogie fra l’appello del Rinascimento alla sapienza degli antichi el’invocazione postmoderna di una Nuova Era (New Age). In entrambi i casi, il ritor-no a una sapienza antica è presentato come una forma di modernità, o di post-modernità. È certo in ogni caso che il richiamo alle humanae litterae venne intesodagli uomini del Rinascimento come una difesa orgogliosa di un nuovo modo difare filosofia, teologia e poesia. È all’incirca da quest’epoca che il termine «gotico»comincia a caratterizzare una cultura barbara del passato, una cultura che gliuomini nuovi rappresentati da Pico della Mirandola avevano il dovere di ripudiare.

Nell’età barocca, la gente si trovò di fronte all’esperienza scioccante del muta-mento totale della visione del mondo, anche se cercò disperatamente di ignorarlo.Molti si sentirono obbligati a essere moderni, anche se ciò non piacque loro, efurono incapaci di far fronte a un tale shock. Per darvi un’idea di questo trauma,invece di tentare una complessa panoramica della cultura del XVII secolo, perdo-natemi se mi cito e, per amore di brevità, leggo una pagina dal mio romanzo L’isoladel giorno prima (cap. 40):

Ché, se dovessi trarne una conclusione, dovrei andare a ripescare tra le carte diRoberto una nota, che risale certamente a quelle notti in cui ancora si interrogavasu un possibile Intruso. Quella sera Roberto guardava ancora una volta il cielo.Ricordava come alla Griva, quando era crollata per l’età la cappella di famiglia, quelsuo precettore carmelitano che aveva fatto esperienza in Oriente, aveva consigliato

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che ricostruissero quel piccolo oratorio alla moda bizantina, a forma rotonda conuna cupola centrale, che proprio nulla aveva a che vedere con lo stile a cui si eraabituati in Monferrato. Ma il vecchio Pozzo non voleva metter naso nelle cose d’ar-te e di religione, e aveva ascoltato i consigli di quel sant’uomo.Vedendo il cielo antipode, Roberto si rendeva conto che alla Griva, in un paesaggiocircondato da ogni lato dalle colline, la volta celeste gli appariva come la cupoladell’oratorio, ben delimitata dal breve cerchio dell’orizzonte, con una o due costel-lazioni che egli era capace di riconoscere, così che per quanto sapesse lo spettacolomutava di settimana in settimana, visto che andava a dormire di buonora, nonaveva mai avuto modo di rendersi conto che esso cambiava persino nel corso dellastessa notte. E quindi quella cupola gli era sempre parsa stabile e rotonda, e di con-seguenza altrettanto stabile e rotondo aveva concepito l’universo mondo […].Ora, spettatore antipode dell’infinita distesa di un oceano, scorgeva un orizzontesconfinato. E in alto sopra il capo vedeva costellazioni mai viste. Quelle del suoemisfero le leggeva secondo l’immagine che altri ne avevano già fissato, qui la poli-gonale simmetria del Gran Carro, là l’alfabetica esattezza di Cassiopea. Ma sullaDaphne non aveva figure predisposte, poteva unire qualsiasi punto con ciascunaltro, trarne le immagini di un serpente, di un gigante o di una coda di insetto vele-noso, per poi disfarle e tentare altre forme.In Francia e in Italia osservava anche in cielo un passaggio definito dalla mano diun monarca, che aveva fissato le linee delle strade e dei servizi postali, lasciando traesse le macchie delle foreste. Qui invece era pioniere in una terra ignota, e dovevadecidere quali sentieri avrebbero collegato un picco a un lago, senza un criterio discelta, perché non vi erano ancora città nelle falde dell’uno o sulle rive dell’altro.Roberto non guardava costellazioni: era condannato a istituirle. Si sgomentava chel’insieme si disponesse come una spirale, un guscio di chiocciola, un vortice.È a quel punto che si ricorda di una chiesa, assai nuova, vista a Roma – ed è l’unicavolta che ci lascia immaginare di aver visitato quella città, forse prima del viaggio inProvenza. Quella chiesa gli era parsa troppo diversa e dalla cupola della Griva edalle navate, geometricamente ordinate per ogive e crociere, delle chiese viste aCasale. Ora capiva perché: era come se la volta della chiesa fosse un cielo australe,che invogliava l’occhio a tentare sempre nuove linee di fuga, senza mai riposarsi suun punto centrale. Sotto quella cupola, dovunque si collocasse, chi guardava versol’alto si sentiva sempre ai margini.Si rendeva ora conto che, in modo più imprecisato, meno evidentemente teatrale,vissuto attraverso piccole sorprese giorno per giorno, quella sensazione di un ripo-so negato l’aveva avuta prima in Provenza e poi a Parigi, dove ciascuno in qualchemodo gli distruggeva una certezza e gli indicava un modo possibile di disegnare lamappa del mondo, ma i suggerimenti che gli provenivano da parti diverse non sicomponevano in un disegno finito.Udiva di macchine che potevano alterare l’ordine dei fenomeni naturali, in modoche il grave tendesse in alto e il leggero piombasse al basso, che il fuoco bagnasse el’acqua bruciasse, come se lo stesso creatore dell’universo fosse capace di emen-darsi, e potesse infine costringere le piante e i fiori contro le stagioni, e le stagioni aingaggiare una lotta col tempo.Se il creatore accettava di mutar d’avviso, esisteva ancora un ordine che Egli avesseimposto all’universo? Forse ne aveva imposti molti, sin da principio, forse era di-sposto a cambiarli giorno per giorno, forse esisteva un ordine segreto che presiede-va a quel mutare di ordini e di prospettive, ma noi eravamo destinati a non scoprir-lo mai, e a seguire piuttosto il gioco mutevole di quelle apparenze d’ordine che siriordinavano a ogni nuova esperienza.

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E allora la storia di Roberto de la Grive sarebbe solo quella di un innamorato infeli-ce, condannato a vivere sotto un cielo esagerato, che non è riuscito a conciliarsi conl’idea che la terra vaghi lungo un’ellisse di cui il sole è soltanto uno dei fuochi.

Ci stiamo avvicinando a epoche nelle quali il concetto di modernità è semprepiù simile al nostro. Gli illuministi pensavano di essere non solo moderni, maanche coloro che con la loro Encyclopedie distruggevano un’obsoleta immagine delmondo. La Rivoluzione francese e il mito di Napoleone si presentarono nel segnodel nuovo. Kant era certo di aver fatto una rivoluzione copernicana. I romantici checombatterono la bataille de l’Hernani per una nuova letteratura si consideravano itedofori di un nuovo Zeitgeist. La filosofia hegeliana ha convinto una generazionedopo l’altra che il Presente sta in un certo senso fagocitando e assimilando ilPassato, per plasmarlo in forme sempre nuove.

Solo l’episodio del Decadentismo sembra rimettere in favore le epoche passate dicontro al trionfo della modernità. Ma basta pensare a un figlio del Decadentismocome D’Annunzio per vedere come l’amore del passato si confonde, in un nodo ine-stricabile, con l’esaltazione della gioventù e della modernità.

Le avanguardie storiche all’inizio del XX secolo rappresentano il trionfo finaledell’ideologia del Moderno. Se i futuristi italiani volevano uccidere, assieme al pas-sato, anche il chiaro di luna, ogni movimento d’avanguardia successivo si è presen-tato come una feroce operazione chirurgica avente per scopo ultimo una totaletabula rasa. E le cose sono andate così, a tal punto che le ultime incarnazioni dellamodernità non potevano far altro che creare, dal suo interno, la più ovvia delle rea-zioni, ossia la svolta dal moderno al postmoderno.

Postmoderno

Malauguratamente «postmoderno» è un termine buono à tout faire. Ho l’impres-sione che oggi lo si applichi a tutto ciò che piace a chi lo usa. D’altra parte, sembraci sia un tentativo di farlo slittare all’indietro: all’inizio sembrava adattarsi solo aalcuni scrittori o artisti attivi negli ultimi vent’anni, poi gradualmente è arrivatosino all’inizio del secolo, e la marcia continua. Di questo passo la categoria delpostmoderno includerà presto Omero.

Di fatto, credo che il postmoderno non sia una tendenza circoscrivibile in ter-mini cronologici, ma piuttosto una categoria ideale – o, meglio ancora, unKunstvollen, un modo di operare. Si può dire che ogni epoca ha il proprio postmo-derno, così come ogni epoca ha il suo manierismo (e, in effetti, mi chiedo se post-moderno non sia il nome moderno del Manierismo, come categoria metastorica).Credo che in ogni epoca si arrivi a dei momenti di crisi quali quelli descritti daNietzsche nella Seconda inattuale, sul danno degli studi storici. Il passato ci condi-ziona, ci sta addosso, ci ricatta. Le avanguardie storiche (ma io penserei che anchequella di avanguardia sia una categoria metastorica, che potrebbe includere anche ipoetae novi dei tempi di Catullo) cercano di regolare i conti col passato. «Abbasso ilchiaro di luna»: l’avanguardia distrugge il passato, lo sfigura: le Demoisellesd’Avignon sono il tipico gesto di avanguardia. Poi l’avanguardia va oltre, distruggela figura, la cancella, arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lace-

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rata, bruciacchiata. In architettura, o nelle arti visive, sarà il curtain wall, l’edificiocome stele, puro parallelepipedo, l’arte minimalista; in letteratura, la distruzionedel flusso del discorso, il collage alla Burroughs, il silenzio, la pagina bianca; inmusica, il passaggio dall’atonale al rumore e poi al silenzio assoluto (in questosenso, il primo Cage è ancora moderno).

Ma arriva il momento che l’avanguardia (il moderno) non può più andareoltre, poiché ha prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi(l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno consiste nel riconosce-re che il passato, visto che non può essere davvero distrutto, poiché la sua distru-zione porta al silenzio, deve essere rivisitato: ma con ironia, in modo non inno-cente. Penso all’atteggiamento postmoderno come a quello di chi ami una donnamolto cólta, e che sappia che non può dirle «Ti amo alla follia», poiché lui sa chelei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c’èuna soluzione. Potrà dirle: «Come direbbe Liala, ti amo alla follia». A questopunto, avendo evitato la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non sipuò più parlare innocentemente, costui avrà però detto alla donna ciò che volevadirle: che la ama, ma che l’ama in un’epoca di innocenza perduta. Se la donnasta al gioco, avrà ricevuto lo stesso una dichiarazione d’amore. Nessuno dei dueinterlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato,del già detto che non si può eliminare; entrambi giocheranno consapevolmente econ piacere al gioco dell’ironia… Ma entrambi saranno riusciti, ancora una volta,a parlare d’amore…

Ironia, gioco metalinguistico, enunciazione al quadrato. Così, col moderno chinon capisce il gioco può solo rifiutarlo; ma col postmoderno, è sempre possibilenon capire il gioco e prendere le cose sul serio. C’è chi parla di «doppia codifica»(«double coding»). Che è, dopo tutto, il pregio (e il rischio) dell’ironia. C’è semprequalcuno che prende il discorso ironico come se fosse serio. Penso che i collage diPicasso, di Juan Gris e di Braque fossero moderni: per questo la gente normale nonli accettava. Al contrario, i collage che faceva Max Ernst, montando insieme pezzi diincisioni ottocentesche, erano postmoderni: si possono anche leggere come unracconto fantastico, come il racconto di un sogno, senza accorgersi che rappresen-tano un discorso sull’incisione, e forse sul collage stesso. Se il postmoderno è que-sto, è chiaro allora perché Sterne e Rabelais fossero postmoderni, perché lo è certa-mente Borges, e perché in uno stesso artista possono convivere, alternarsi o seguir-si a breve distanza il momento moderno e quello postmoderno. Si pensi a Joyce. IlPortrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima,sono ancora più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wake è giàpostmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno: richiede, per essere com-preso, non la negazione del già detto, ma il suo ripensamento ironico.

Il più grosso problema nell’era postmoderna è quello dell’influenza e dell’an-goscia che provoca. Prendere i nostri padri come modelli e come spunti di rifles-sioni ironiche, è ancora un modo di sfidarli, anche se assai curioso. Ogni sfida,nello sport come in guerra, è contraddistinta dalla volontà di far qualcosa di più,se non qualcosa contro, colui che si sfida, dal desiderio di diseredarlo e di toglier-gli il primato. Se, come proclamarono i futuristi, una moderna auto da corsa erapiù bella della Vittoria di Samotracia, la sfida consisteva nel mettere l’auto alposto della statua antica sullo scalone principale del Louvre – e, se ciò non era

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possibile, di creare un museo d’arte moderna in cui esporre l’auto e l’Olivetti let-tera 22 come esempi di un nuovo classicismo. Cosa accade nel caso della sfidapostmoderna, che non consiste tanto nell’andare avanti, bensì nel tornare indie-tro? Gli artisti che passano il loro tempo a manipolare e reinterpretare la Vittoriadi Samotracia stanno davvero uccidendo i loro padri o non cercano invece diriaffermare disperatamente il loro potere?

Riesco a immaginare una possibile risposta a questo tremendo quesito: vabene, il postmoderno è stato solo una parentesi nella dialettica millenaria fra vec-chi e giovani. Una volta liquidata la frenesia postmoderna, le generazioni ricomin-ceranno la loro eterna lotta. Tuttavia, al di fuori del regno dell’arte e della letteratu-ra, intravedo alcuni caratteri del nostro presente che mettono in dubbio una pro-spettiva così ottimistica.

La querelle fra antichi e moderni non nasce mai solo grazie a una decisioneautonoma degli artisti o dei pensatori, è invece figlia del mutamento complessivodi una situazione culturale, allo stesso modo in cui una rivoluzione non dipendemai solo dalle decisioni di un gruppo rivoluzionario ma è preparata, incoraggiata esupportata dal collasso di un intero ancien régime. Al tempo di Marinetti era possi-bile proporre un’auto da corsa come nuovo emblema della bellezza, perché l’autoda corsa offendeva la sensibilità degli anziani, abituati ai cavalli – o tutt’al più aitreni. Oggi, tanto per fare un esempio, come potrebbe il computer divenire l’em-blema delle nuove generazioni quando i primi a adottare la tecnologia informaticasono stati (vent’anni fa) attempati professori universitari, molto tempo prima che iloro studenti accedessero a queste macchine?

Nell’era della globalizzazione le innovazioni tecnologiche (con tutti i cambia-menti linguistici, comportamentali e morali che si portano dietro) vengono accet-tate contemporaneamente dai padri e dai figli, o, per essere politicamente corretti,dalle madri e dalle figlie. Non è certo un’innovazione diffondere il linguaggio dellechat line, dal momento che si scoprono vecchi pedofili che adottano il linguaggiodelle loro vittime.

Le innovazioni vengono irradiate da qualche centro autonomo, nel quale unvecchio giapponese inventa un nuovo chip che cambierà radicalmente il nostromodo di comunicare: ma una tale scoperta sarà immediatamente accettata dapadri e figli. La televisione offre ai bambini i Pokemon e ai grandi il Grande fratello,ma i genitori non hanno difficoltà ad accettare il linguaggio dei Pokemon, non nesono scioccati. Allora nel futuro prossimo come potrà un artista d’avanguardiaprodurre un’arte corrispondente ai Pokemon con la pretesa di sfidare il gusto dellevecchie generazioni? Se Picasso oggi dipingesse le Demoiselles d’Avignon, il suomodello iconografico sarebbe subito carpito dall’industria pubblicitaria per pro-muovere un nuovo prodotto gerontologico, in grado di sedurre un pubblico coicapelli bianchi. Non c’è più nessun intervallo fra innovazione e totale accettazio-ne sociale.

Per questo motivo, per le nuove generazioni l’unico modo di distinguersidagli anziani è diventato tingersi i capelli, mettersi un anello al naso, passare lanotte intera in discoteche con musica assordante, e credere così che l’unica avan-guardia sia ormai l’autosegregazione. Ma in questo modo essi stanno facendoproprio quel che l’industria del divertimento, governata dai loro padri, suggerisceloro – un modo inoltre per tenerli buoni. L’innovazione globale e istantanea

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rende obsoleto il concetto di rivoluzione. Anche la cosiddetta New Age rappre-senta un ritorno a tradizioni del passato e rimane sotto lo stretto controllo dicoloro che, grazie alla loro esperienza, sanno come e fino a che punto riviverle.Anche i poeti simbolisti della fine del XIX secolo celebravano e cercavano dirievocare il passato: «Je suis l’empire à la fin de la decadence / Qui regarde pas-ser les grands barbares blancs / En composant des acrostiques indolents / Où lalangueur du soleil d’or danse» [«Io sono l’Impero alla fine della decadenza, / cheguarda passare i grandi Barbari bianchi / componendo acrostici indolenti / inaureo stile in cui danza il languore del sole»], cantava Verlaine. Ma un tale ritornoal passato era vagheggiato da un’élite di giovani artisti in opposizione al trionfodella modernità industriale, per sfidare le attese e le opinioni della folla. Oggi alcontrario, ogni ritorno a Avalon, al Santo Gral, alle segrete e ai castelli, è lanciatoe confezionato dall’industria del fantastico e dell’occulto.

Certo il titolo del mio intervento era «la querelle degli antichi e dei moderni»,ma quello su cui volevo concentrare l’attenzione era «the day after». Ecco, ci tro-viamo adesso proprio in quel giorno dopo.

Vi confesso francamente che mi avrebbero potuto invitare a un convegno suquesto stesso tema quarant’anni fa. Ma allora avevo poco meno di trent’anni. Ilmio discorso avrebbe indispettito i miei maestri e sarebbe piaciuto ai miei giovanicompagni. Perché continuate a invitarmi, invece di chiamare dei giovani capaci discandalizzarmi?

C’è del marcio nel nostro mondo globalizzato.

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