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La Pratica Analitica Rivista del Centro Italiano di Psicologia Analitica

Istitutodi Milano

Vla biblioteca diVIVARIUM

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La Pratica Analitica - rivista annuale - nuova serie n. 1/2003

Cipa - Istituto di Milanovia Donizetti 1/A - 20122 Milanotel: 025513817 - fax: 0259902644e-mail: [email protected]

Rossella Andreoli, Giorgio Cavallari, Monica Ceccarelli, Susanna Chiesa, Silvia Di Lorenzo, Nadia Fina, Gianni Kaufman, Laura Vanzulli

RIFLESSIONI DI CLINICA JUNGHIANA, a cura di S. Di Lorenzo, L. VanzulliI MODI DEL PENSARE, a cura di G. Cavallari, S. Chiesa, N. Fina, G. KaufmanINFANZIA E ADOLESCENZA, a cura di R. Andreoli, M. Ceccarelli RECENSIONI, a cura della redazione

N. Fina, G. Kaufman

Angela Maria Frigerio

L’abbonamento alla rivista deve essere effettuato tramite un versamento sul conto corrente postale n. 38616462, intestato a: Associazione Vivarium, via Stoppani 12, 21014 Laveno M. (VA).- Abbonamento individuale € 12,00 (biennale € 22,00)- Abbonamento per Enti e Biblioteche € 15,00 (biennale € 28,00)- Abbonamento extra-Europa $ 80,00

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Registrazione Tribunale di Milano n. 468 in data 18/07/03

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Il 9 Ottobre 2009 ci ha lasciato la cara amica e collega, fondatrice e direttore responsabile de La Pratica Analitica,

Ela Frigerio

Con i colleghi e gli allievi la ricordo con affetto e rimpianto per la sua cordialità, la sua professionalità

e il suo incessante impegno nella nostra istituzione.

Se un’amica è una persona con cui abbiamo condiviso momenti importanti della vita,

la sua morte significa anche la morte di parti di noi.Ogni rievocazione porta con sé il rischio del retorico o del patetico.Perciò voglio dedicare solo questi versi alla memoria della cara Ela:

Siamo una narrazione che finisceE tu mi cogli

— impreparata —Mentre ancora dipano il tuo passato

E te lo narro come storiaChe ti custodisca nel presente.

(Chandra Livia Candiani)

Grazie Ela.Mia Wuehl

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Sommario

I MODI DEL PENSARE

Maria Ilena Marozza Quale verità per l’interpretazione? Trasformazioninella teoria della prassi psicoterapeutica 7Enrico FerrariLa pratica analitica tra espressione e rivelazione 31Anna BenvenutiL’interpretazione come visione immaginale 53Giuseppe M. VadalàUn delirio di verità. Osservazioni su un casodi schizofrenia paranoide (Caso clinico di |F|) 63

RIFLESSIONI DI CLINICA JUNGHIANA

Alda MariniLa verità come interpretazione 83Elena Cristiani1. Questioni di metodo.Io-tu-egli e il gruppo in supervisione 109Nadia Fina2. Questioni di metodo.A proposito delle questioni di metodo 113E. Kersevan, P. Zucca, C. Trivelli, E. Greco, C. Sgobba3. Questioni di metodo.Riflessioni su un lavoro di supervisione in gruppo 120

INFANZIA E ADOLESCENZA

Rossella Andreoli, Monica CeccarelliPensare/sognare la clinica.Ricerca clinica e supervisione di gruppo 143 Patrizia Conti“Gelsomino nel paese dei bugiardi” 171

Autori 203

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1. L’INTERPRETAZIONE: DALLA SPECIFICITÀ

TECNICA ALL’ESTENSIONE ONNICOMPRENSIVA

“Si potrebbe caratterizzare la psicanalisi conl’interpretazione, cioè con la messa in evi-denza del senso latente di un materiale”.

Jean Laplanche e Jean-Baptiste Pontalis1

“La psicoanalisi è, dunque, a mio avviso,un’ermeneutica nel senso in cui l’uomo è unessere che si comprende interpretandosi edil modo in cui si interpreta è di interpretarsinarrativamente”.

Paul Ricoeur2

Nel contesto della psicoterapia psi-coanalitica, è possibile riscontrare unasignificativa ambiguità nella definizione e nell’uso delconcetto di interpretazione. La prima accezione co-stituisce, per così dire, il suo “senso proprio”: essa si ri-ferisce all’interpretazione nel significato originariointeso da Freud a partire dalla Traumdeutung, cioè co-me il più importante strumento tecnico dell’analista,capace di ripercorrere al contrario il lavoro onirico,risalendo dal contenuto manifesto al contenuto la-tente, e svelando le modalità e gli scopi del masche-ramento difensivo dal desiderio inconscio. In questosenso, l’interpretazione costituisce la modalità d’azio-ne elettiva dell’analista, che la comunica all’analiz-zando all’interno delle regole tecniche del trattamen-to, nonché lo strumento più efficace per la trasfor-mazione terapeutica. La specificità di questa accezio-ne è altissima: come rilevato da P.L. Assoun3 e ribadi-to da J. Laplanche e J.P. Pontalis4 nel loro Dizionario, iltermine Deutung è molto più vicino nel testo freudia-no al concetto di spiegazione che non di interpreta-zione in senso ermeneutico, avendo l’ambizione distabilire un rapporto specifico, scevro da ogni com-ponente soggettiva, tra il contenuto manifesto e ilcontenuto latente, rivelando così la struttura profon-da della psiche, nascosta dall’apparenza fenomenica.

I modi del pensare

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Quale verità perl’interpretazione?

Trasformazioninella teoriadella prassi

psicoterapeuticaMaria Ilena Marozza

1. J. Laplanche; J.B. Pon-talis (1967), Enciclopediadella psicanalisi. Trad. it.Laterza, Roma-Bari, 1968,p. 2392. P. Ricoeur (1987), “Lacomponente narrativadella psicoanalisi”. In Me-taxù, 5, 1988, p. 15.3. P.L. Assoun (1981), In-troduzione all’epistemologiafreudiana. Trad. it. Theo-ria, Roma-Napoli, 1988.4. J. Laplanche; J.B. Ponta-lis(1967), Enciclopedia del-la psicanalisi, cit., p. 240.

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Come spesso succede ai pioneri, le nuove esplora-zioni possono essere viste come la prosecuzione del-le terre già note, o come gli avamposti di nuovi terri-tori; ed è così che, in contrasto con la precedente in-terpretazione, proprio la scelta del termine Deutungpiuttosto che del termine Erklärung viene considera-ta da P. Ricoeur molto significativa per sostenere l’a-pertura del discorso freudiano alla comprensione er-meneutica,5 attraverso la considerazione del sognocome un testo da interpretare quale discorso di un al-tro. E con ciò si stabilisce il passaggio alla seconda ac-cezione del termine interpretazione. Quest’ultima sisviluppa tardivamente, ed è debitrice della “svolta lin-guistica” che domina la filosofia della seconda metàdel XX secolo (rappresentata in particolare dall’er-meneutica, ma anche dalla filosofia analitica e percerti versi dalla fenomenologia): con essa viene rico-nosciuta al linguaggio la funzione di medium inelimi-nabile della comprensione umana, contestando lapossibilità di accesso a qualunque dato immediato eponendo nell’interpretazione linguistica ogni poten-zialità conoscitiva.

La talking cure è stata ovviamente influenzata dallenuove posizioni ermeneutiche, che hanno introdottouna nuova sensibilità verso le forme organizzative deldiscorso, valorizzando la capacità rivelativa dell’inter-pretazione linguistica piuttosto che la sua portata de-mistificatoria, e inaugurando il paradigma narrativi-stico in psicoterapia. La posizione ermeneutica è sta-ta però fortemente osteggiata negli ambienti psicoa-nalitici più tradizionali, che hanno scorto nell’esten-sione generalizzata della dimensione interpretativauna perdita del suo valore tecnico specifico, nonchéuna diluizione della capacità deterministica dell’in-conscio. Spesso però questa opposizione è stata so-stenuta da profondi fraintendimenti, dovuti a unavulgata riduttiva di una disciplina filosofica non sem-plice né tantomeno unitaria nelle sue impostazioni.Spesso l’ermeneutica è stata vista come una prospet-

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5. P. Ricoeur (1976), “Im-magine e linguaggio inpsicoanalisi”. Trad. it. inD. Jervolino; G. Martini(a cura di) Paul Ricoeur ela psicoanalisi. Angeli, Mi-lano, 2007, p. 97.

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tiva volta a privilegiare la comprensione soggettiva ascapito della conoscenza oggettiva, o come un invitoa rinunciare ad ambizioni veritative sulle prospettiveinterpretative a favore di più pragmatici atteggia-menti fondati sull’efficacia delle interpretazioni stes-se. Spesso, quando si parla di approccio ermeneuticoin psicoanalisi, ci si riferisce alle impostazioni d’ol-treoceano, a un paradigma narrativistico legato a uncostruttivismo epistemologico più o meno radicale,che ha senz’altro il merito di aver messo in crisi unavisione naturalistica dell’interpretazione, ma senza ilvigore della riflessione filosofica continentale, chenon ha mai negato tout court il rapporto dell’inter-pretazione con la verità, ma l’ha profondamente pro-blematizzato, centrando proprio sulle modalità com-plesse di questa relazione la propria ragione d’essere.Questa recezione amputata delle vocazioni teoretica-mente più robuste non ha consentito alla psicoanali-si di cogliere e sviluppare appieno il potenziale ap-porto metodologico ed epistemologico legato alla ri-flessione ermeneutica. Coloro che lo hanno saputocogliere — in primo luogo l’antesignano P. Ricoeur ealcuni analisti di lingua tedesca, quali W. Loch, o H.Thomä e H. Kächele — sono riusciti a proporre dellevisioni profonde e originali della conoscenza psicoa-nalitica, riconoscendo a un tempo il suo posto tra lescienze umane, e la sua validità come conoscenza ve-ritativa sull’umano. In queste impostazioni, l’inter-pretazione analitica assume — rispetto a una dimen-sione inconscia concepita non soltanto come il ri-mosso rappresentazionale, ma anche come una ma-trice generativa prerappresentazionale — una funzio-ne anfibola che, mentre costruisce, o ricostruisce,narrazioni e identità psichiche, favorisce la capacitàdel soggetto di porsi attivamente di fronte alle di-mensioni incognite della propria soggettività, trasfor-mando, come dice Ricoeur, l’angoscia dell’irrappre-sentabile in creatività.

Indubbiamente la “via lunga” imboccata da questi

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autori risulta particolarmente difficoltosa ed esigente,poiché conduce verso un ripensamento radicale dimolti topoi del pensiero psicoanalitico, inaugurandouna modalità complessa di concepire il rapporto tra lasoggettività, il linguaggio e le forme dell’oggettività.Peraltro proprio dall’approfondimento di questo rap-porto potrebbe venire un rinnovamento profondodella psicoanalisi, oggi piuttosto in difficoltà nel so-stenere la validità delle proprie osservazioni, espostaal rischio di perdere di specificità quando cerca unsupporto oggettivo avvicinandosi alle metodologieforti delle neuroscienze, o quando si impegna in mi-surazioni empiriche che spesso snaturano le dimen-sioni portanti del pensiero e della prassi analitica. Pro-babilmente non è possibile a una pratica che vogliacontinuare a dirsi “scienza della soggettività”6 perdereun rapporto con una dimensione oggettiva, né soste-nere la fatica di una prassi terapeutica non garantitasenza uno sfondo etico e un’autentica passione per laricerca della verità. Resta però aperta la domanda sucome intendere questi riferimenti, senza appoggiarsia un naturalismo ormai insostenibile, o a dogmatismiautoreferenziali, tentando piuttosto l’avvicinamento aforme più sofisticate e rigorose di oggettività, che so-stengano senza svilirlo il lavoro clinico.

2. “LA VERITÀ VI RENDERÀ LIBERI”7 (E SANI)

“Il grande elemento etico del lavoro psicoanalitico è la verità,e ancora la verità”.

Sigmund Freud8

Càpita raramente di incontrare, tra le varie teoriecliniche, una posizione così profondamente omoge-nea, congrua, ricca di pensiero e mossa da un’istanzaetica come la teoria della clinica freudiana. La singo-lare forza della posizione freudiana risiede nell’averstabilito, con un unico gesto, un principio che, subor-dinando ogni autentico vantaggio terapeutico alla

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6. La definizione è di E.Roudinesco (1999), Per-ché la psicanalisi. Trad. it.Editori Riuniti, Roma,2000.

7. L’aforisma di SamuelJohnson è stato posto daWilfred Bion e da HannaSegal come epitaffio sullatomba di Melanie Klein.8. La citazione è tratta dauna lettera di S. Freuddel 1914, riportata in W.Loch, Psicoanalisi e verità,Borla, Roma, 1996, p.154.

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scoperta di una verità nascosta, sconosciuta sia all’a-nalizzando che all’analista, ha caratterizzato la prassiclinica come un’attività profondamente motivata dal-l’euristica della scoperta. L’incrollabile credenza nel “le-game inscindibile” tra terapia e ricerca è straordina-riamente efficace nell’interpretazione del senso dellaclinica: ogni nuovo caso ha il valore di un’esplorazio-ne in cui può essere conquistato un brandello di veri-tà, necessario sia per gli scopi terapeutici, sia per la co-noscenza scientifica. La coppia analitica appare cosìcementata e impegnata a superare ogni ostacolo del-la cura proprio in virtù di questo trascendente amoreper la verità, che costituisce il valore principe che, tra-sformando il paziente in “collaboratore”, consente diinterpretare la cura, piuttosto che come un processoriparativo, come un processo eminentemente conoscitivo.Questo principio, mentre per un verso delinea conchiarezza la meta del lavoro analitico come scoperta erivelazione del rimosso, per altro verso conferisce unposto e una funzione specifica, ad un tempo teoretica,etica e terapeutica all’attività interpretante dell’analista,neutrale ricercatore della verità posto a garanzia con-tro ogni nevrotica tendenza ripetitiva alla perpetua-zione dell’autoinganno difensivo. L’interpretazione,mentre è per un verso nietzschianamente dotata del-la violenza demistificante della falsa coscienza, è peraltro verso positivamente capace di dischiudere un ac-cesso veridico alla realtà inconscia, delineando pro-gressivamente la speranza, aperta al futuro e al supe-ramento dei difetti penetrativi del metodo, di costi-tuire un’autentica scienza dell’inconscio.

Anche C. G. Jung, per quanto molto distante dalconcetto freudiano di interpretazione, mantiene, nel-la sua teoria, un rapporto molto stretto con il valoredi una verità oggettiva. La sua critica al freudismo ri-vendica l’impossibilità di espungere la soggettività in-terpretativa da ogni formulazione di carattere psico-logico, e per questa convinzione Jung è stato avvici-nato all’ermeneutica e al prospettivismo psicologico.

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Ma Jung non è tutto qui, nel senso che a questa con-cezione relativistica e debole delle ipotesi interpreta-tive egli associa una concezione molto forte del de-terminismo e dell’oggettività dell’inconscio: in que-sto senso egli appartiene senz’altro a quella genera-zione di padri fondatori della psicoanalisi che hannosposato un’idea fondativa, necessitante e veritativadella dimensione inconscia. Da ciò deriva l’impossi-bilità di intendere, nella teoria junghiana, in sensopuramente soggettivo il piano interpretativo: Jung èlontanissimo da ogni costruttivismo, poiché ritieneche non possa esistere una libera scelta interpretativa,decisa o trovata dal soggetto interpretante. Egli pen-sa piuttosto che le singole soggettività interpretativevengano come attraversate e passivizzate da un’ogget-tività della realtà inconscia, che, a differenza diFreud, non può essere còlta né compresa come strut-tura rappresentazionale specifica,9 imponendosi piut-tosto per vie extrarazionali come donazione di senso. Ladialettica che si instaura così è tra la ricerca apertadelle varie possibilità significative e il vincolo espe-rienziale posto dal determinante inconscio, e dunquetra l’ipoteticità delle teorie elaborate dalle diverse co-scienze interpretative e la dura oggettività della realtàinconscia. Resta però aperto l’interrogativo su comeintendere tale oggettività: si tratta senz’altro di un’og-gettività non significativa, poiché il significato è stabili-to nel lavoro interpretativo della coscienza, non diret-tamente conoscibile, poiché di essa possiamo cogliere so-lo segni indirettamente allusivi, ma di un’oggettività in-fluente, poiché capace di agire sulla coscienza ponen-dola in condizioni di passività e attivandola verso la ri-cerca di un significato. Essa non può dunque mai di-venire oggetto diretto di conoscenza scientifica, men-tre di essa si porta un segno nell’esperienza: in questosenso, vi sarebbe sempre e comunque un’anteriorità,una sorta di supremazia dell’esperienza psichica (chepossiamo chiamare, con Jung, i fatti, o anche la veritàempirica), dischiusa dalla sfera del sentire, sulla sua in-

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9. Nel pensiero junghia-no, la struttura dell’in-conscio tende piuttosto aesser pensata come unqualcosa di indefinito, dioscillante, che tende adefinirsi solo nella rela-zione con la coscienza.Già nel contrastare, nelcarteggio, la teoria freu-diana dell’organizzazionespecifica del contenutolatente del sogno, a favo-re piuttosto della sua “va-ghezza e oscurità”, finoall’idea dell’oscillazionedelle rappresentazioni in-torno al nerbo dell’affet-tività proposta nella teo-ria dei complessi, fino an-cora alla descrizione delsincretismo delle immagi-ni, Jung ha posto piutto-sto l’indefinitezza a fon-damento della vita psichi-ca, proponendo la speci-ficità rappresentazionalecome il vertice più defini-to dell’organizzazione ra-zionale. Questo è uno deipunti del pensiero jun-ghiano che possono offri-re buoni agganci per unconfronto con il pensierocontemporaneo.

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terpretazione, sempre a essa successiva e aperta alconflitto interpretativo.

La portata teorica dell’opposizione tra la conce-zione freudiana e quella junghiana del rapporto traverità e interpretazione è enorme, e si riverbera sul-l’intera teoria della pratica clinica e sui valori che laregolano. L’ottica freudiana è infatti sostenuta da unprincipio oggettivo molto forte, individuabile nellarealtà della rappresentazione inconscia, che costitui-sce il fondo veritativo che vincola l’interpretazionead adeguarsi a un’oggettività radicale, mentre costi-tuisce la norma ideale che guida la ricerca scientifica.L’ottica junghiana, viceversa, è portata a spostare inavanti, nell’interazione con la soggettività interpreta-tiva, la scoperta del significato, relativizzando la por-tata veritativa dell’interpretazione cosciente ed enfa-tizzando però il valore esperienziale della realtà in-conscia. Ciò fa sì che, per Jung, il valore etico e veri-tativo del processo terapeutico non sia coincidentecon l’interpretazione teorica, ma resti un compitoche “grava sul ricercatore”, lasciando una grande re-sponsabilità implicita nella sua pratica terapeutica.

3. PICCOLI E GRANDI TARLI NELL’EDIFICIO PSICOANALITICO

“Se tenete alla verità, non dovreste tenere al dogma”.Michael P. Lynch10

Ci siamo abituati, in questo secolo di pratica psi-coanalitica, sulla base della nostra stessa esperienza oprendendo in considerazione le critiche esterne, a ri-mettere in discussione quasi tutto delle formulazionioriginali dei padri fondatori. Sicuramente il freudia-no patto d’acciaio tra interpretazione, verità e terapiaha cominciato fortemente a vacillare, trascinandocon sé l’ottimistica definizione del “legame inscindi-bile”, e disgregando la compattezza della posizioneetica, teoretica e terapeutica dell’analista. In partico-lare, alcune linee di sviluppo della teoria psicoanali-

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10. M. P. Lynch (2004),La verità e i suoi nemici.Trad. it. Cortina, Milano,2007, p. XVII.

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tica costituiscono per essa degli autentici cavalli diTroia.11 In primo luogo, il progressivo spostamentoverso una concezione arappresentazionale dell’in-conscio, come matrice funzionale che precede l’isti-tuzione di pensieri formati, si riverbera nell’impossi-bilità di continuare a credere che lo svelamento dispecifiche rappresentazioni inconsce sia necessarioper gli esiti terapeutici. Inoltre, il recupero delle teo-rie del deficit, che motivano la psicopatologia con ildanneggiamento di funzioni rappresentative legato atraumi evolutivi, sottrae gran parte della validità almetodo interpretativo freudiano, spostando l’obietti-vo terapeutico dal perseguimento dell’insight alla co-struzione di una relazione efficace per la riparazionedel deficit evolutivo. Analogamente, la psicologia delSé, nel momento in cui tende a destituire di valore lacomponente cognitiva dell’interpretazione per la tra-sformazione terapeutica a tutto favore della com-prensione empatica, propone un sovvertimento delpostulato etico freudiano secondo cui ciò che curanon può essere altro che la verità: anche se le defini-zioni più sofisticate della comprensione empatica so-no ampiamente dotate di un alto valore cognitivo erappresentazionale, di fatto in questa impostazioneciò che autenticamente cura è la capacità di sostene-re una serie di illusioni legate ai bisogni infantili, dacui dipende il processo riparativo del deficit.

Da un versante opposto, la forte valorizzazionedella componente interpretativa legata all’imposta-zione ermeneutico-narrativistica conduce a perderedi vista uno degli aspetti più significativi del sistemafreudiano, il determinismo inconscio, come elemen-to fondamentale e prioritario della vita psichica. Co-me molti critici dell’impostazione ermeneutica han-no sottolineato, due ambiti rischiano di uscire impo-veriti rispetto alla teoria originaria. Il primo ha a chevedere con una perdita di efficacia terapeutica dovu-ta a una perdita della fiducia nella verità della creden-za: l’ammissione di una plurivocità interpretativa può

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11. Per una discussionepiù ampia di questi temirimando a M.I. Marozza,“L’altro ritrovato. L’em-patia come fondamentoempirico dell’interpreta-zione”. In M. La Forgia;M.I. Marozza (2000), L’al-tro e la sua mente, Fioriti,Roma, pp. 47-53.

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condurre a uno scetticismo sul valore di verità del-l’interpretazione corretta, alla sottovalutazione del-l’importanza trasmutante dell’insight e, tutto somma-to, alla diminuzione dell’investimento emotivo sul va-lore etico e conoscitivo della ricerca della verità comeelemento motore dell’analisi. Il secondo ha invece ache fare con un indebolimento dello statuto scienti-fico della psicoanalisi: lo spostamento della conce-zione dell’interpretazione su un piano linguisticosembra apparentare troppo la psicoanalisi alla di-mensione culturale, dimenticando la sua origine co-me scienza globale dell’uomo, e sottovalutando l’esi-genza freudiana di affondare ogni propria teorizza-zione nel bios, come elemento prioritario e necessi-tante, di cui la pulsione è il rappresentante psichico.

E indubbiamente il rischio di una perdita del pe-so veritativo e necessitante dell’inconscio è talmentegrave da far temere uno snaturamento della teoriapsicoanalitica, che perderebbe una sua specificità dif-ferenziale, avvicinandosi troppo al costruttivismo ra-dicale o anche alla psicologia cognitiva.

Tutto ciò fa sì che non vi sia più un consenso in-torno all’idea freudiana del “legame inscindibile” traterapia e ricerca, né sull’etica della cura in quantoscoperta della verità, né sull’identità dell’analista esul senso della prassi analitica. In questo modo ri-schiano inoltre di andar persi alcuni valori specificiche hanno caratterizzato la psicoanalisi: l’anteceden-za necessitante dell’inconscio; la sua vocazione a es-sere una teoria generale della psiche non separatadal bios; il valore etico-terapeutico della conoscenzadella verità.

Non meno problematica sembra essere oggi la ver-sione junghiana, che, nonostante sia epistemologica-mente più avvertita nelle questioni interpretative, ri-mane piuttosto ambigua nel modo di intendere l’og-gettività e il peso deterministico dell’inconscio, oscil-lante tra interpretazioni naturalistiche o spiritualisti-che che, quando restano sganciate dalla componen-

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te cognitiva, producono un depauperamento dellasfera teorica, lasciando uno spazio eccessivo alle varieforme di dogmatismo. Già Jaspers si era reso inter-prete di tali rischi, segnalandone essenzialmentedue: in primo luogo, l’ambiguità di una concezioneche valuta analogicamente la presenza di figure sim-boliche nell’esperienza individuale e nella tradizioneculturale come se si trattasse di un’oggettività dellospirito, senza valutare le differenze dovute all’appro-priazione individuale della tradizione;12 in secondoluogo, la proposta di un naturalismo che vede l’in-conscio come invariante che domina lo sviluppoumano, svilendo completamente il valore dell’esi-stenza storica.13 Non sempre Jung urta in questi osta-coli: ma quelle strane impressioni di straordinaria at-tualità e insieme di insostenibile farraginosità ricava-te dalla lettura di tanti suoi brani; quelle frequenti ca-dute del pensiero che, mentre virtuosamente si sfor-za di comprendere aderendo il più possibile all’espe-rienza, scivola in formulazioni apodittiche che conl’esperienza non hanno più niente a che fare, sonoprobabilmente dovute alla mancanza di un livello piùspeculativo e di una riflessione metodologica sui mo-di di concettualizzare l’espressione nella soggettivitàdella “verità” dell’inconscio. Per molti versi, la con-cezione junghiana della psiche oggettiva, nei punti incui viene elaborata in termini strutturali e depuratada ogni aspetto contenutistico, si presta a essere vir-tuosamente interpretata come l’alterità irriducibile,impersonale e autonoma, mai del tutto integrabilenella coscienza, che vincola la soggettività interpreta-tiva costringendola a una passività da cui parte ognistimolo a interpretare. Per altri versi, però, quandoquesta stessa esperienza viene intesa come un’illumi-nazione da cui scaturisce l’assoggettamento della co-scienza a una verità rivelata, preordinata, già fatta,ogni movimento interpretativo si annulla nell’affer-mazione del dogma.

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12. Cioè, come ha oppor-tunamente specificatoMario Trevi, senza far ri-ferimento alla storicitàdel processo di accultura-zione.13. Per un approfondi-mento di questo punto ri-mando al mio saggio “DaJaspers a Jung. Il ripensa-mento dell’esperienza co-me base della teoria clini-ca” (ATQUE, 22/23, 2001,pp. 125-150).

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4. UNA PRASSI SENZA VERITÀ?

“Il nostro uso ordinario del termine ‘vero’ si può davvero ri-descrivere in modo da sbarazzare questa nozione dei suoipresupposti oggettivistici? Se il fatto di ammettere che ci so-no implicazioni oggettivistiche significa che occorre intro-durre discriminazioni tra i discorsi, in funzione del loro pre-teso grado di corrispondenza con la realtà, allora penso cheoccorra in effetti rinunciare a quelle pretese oggettivistiche”.

Richard Rorty14

“A fondamento della credenza fondata sta la credenza infon-data”.

Ludwig Wittgenstein15

È un fatto che i tarli abbiano ormai eroso le traviportanti dell’edificio psicoanalitico, e che sia difficileoggi sostenere il lavoro clinico con una solida fiducianella capacità dei nostri dispositivi interpretativi — sia-no essi concepiti come strumenti tecnici di carattereempirico, o siano invece intesi come solidamente an-corati a una metapsicologia — di cogliere una veritàoggettiva. La rivoluzione ermeneutica non è passatainvano per molti, ma anche i più irriducibili realistimetapsicologici16 si vedono costretti a prendere attodella legittimità di esistenza di paradigmi interpreta-tivi multipli altrettanto coerenti dal punto di vistateorico ed egualmente efficaci nella pratica clinica.

Peraltro, le critiche epistemologiche rivolte in que-sti ultimi anni alla psicoanalisi hanno colpito nel se-gno relativamente alle ambizioni di quest’ultima diderivare verità scientifiche dalle proprie osservazionicliniche: dopo il fallimento del tentativo verificazioni-sta in senso sperimentale delle ipotesi metapsicologi-che,17 si assiste oggi all’affermazione di un altro tipodi progetto che tende ad abbandonare ipotesi specu-lative lontane dall’esperienza sostituendole con tesiderivate dalla psicologia evolutiva, mantenendo dun-que, come sfondo delle ipotesi interpretative, alcuneacquisizioni scientifiche nate in altri contesti osserva-tivi. Al di là della perfetta legittimità di questa opera-

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14. P. Engel; R. Rorty(2005), A cosa serve la veri-tà? Trad. it. Il Mulino, Bo-logna, 2007, p. 57.

15. L. Wittgenstein(1969), Della certezza.Trad. it. Einaudi, Torino,1978, p. 41.

16. Utilizzo questa defini-zione in sintonia con ladefinizione di Putnam di“realista metafisico” comedi colui che sostiene chequando diciamo che uncerto enunciato è vero, di-ciamo qualcosa di più diquando semplicementeasseriamo l’enunciato,per cui la verità è qualco-sa di ulteriore rispetto al-l’enunciato. H. Putnam(1999), Mente, corpo, mon-do. Trad. it. Il Mulino, Bo-logna, 2003, p. 92.17. È molto significativoche i più vicini collabora-tori del progetto verifica-zionista di Rapaport, R.Schafer, D.P. Spence e M.Gill, siano poi stati i primia mettere in dubbio lepretese veritative in sensoscientifico della psicoana-lisi e ad abbracciare ilparadigma narrativistico.

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zione, va però sottolineato che un certo valore euri-stico legato all’enfasi della “scoperta” viene così sot-tratto alla prassi clinica, mentre si viene a perdere latensione verso la ricerca di specifici valori, disatten-dendo l’orgoglioso principio freudiano teso a negarela dipendenza da qualunque altra forma di sapere,nella convinzione che “la psicoanalisi farà da sé”.

Un destino non meno problematico si è abbattutoanche sulla concezione esperienziale della verità in-conscia: sembra condannata all’afasia la posizione dicoloro che si aspetterebbero di “sentire” dall’incon-scio un segno che conferisca verità a un’ipotesi inter-pretativa, nel senso che è molto difficile riuscire adargomentare in modo credibile e comunicabile un’e-sperienza di tal genere, e ancora di più a connetterlaal piano interpretativo, con il rischio di sfociare nelmisticismo.18

Al di là dello scetticismo nei riguardi di ogni pre-tesa veritativa — scetticismo che è sempre l’esito piùradicale di delusioni senza appello da parte di coloroche avrebbero in realtà aspirato a una conoscenzaperfetta — il problema sembra essere quello di riusci-re a pensare se sia possibile concepire una praticache continui a dirsi psicoanalitica prescindendo com-pletamente da pretese veritative, o se dobbiamo cer-care di ripensare radicalmente il rapporto della no-stra pratica interpretativa con la verità, magari riela-borandone il senso fino a poterne dare per lo menoun’accezione minimalista.

In effetti, per come molti analisti poco attratti dal-le ideologie si sono ormai abituati a lavorare, lepreoccupazioni riguardo alla verità sembrerebberoessere, come sostiene Rorty, più degli ostacoli che deiprincipi guida. Nel senso che, nel momento in cui cisiamo resi conto che tramite la nostra attività inter-pretativa tendiamo a costruire con i nostri analizzan-di mondi ed esistenze, a costituire strutture, a edifi-care apparati differenziandoli da qualcosa di indefi-nito, utilizzando in questa operazione prevalente-

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18. A meno di non intra-prendere una “via lun-ghissima”, che passa perl’intendere questa di-mensione come la patici-tà che sottende semprel’esperienza umana, la-sciando problematica-mente aperta la sua in-fluenza sulla sfera inter-pretativa. Infatti, come ri-sulta dalla complessa ri-cerca di A. Masullo (Pati-cità e indifferenza, Il Me-langolo, Genova 2003, ) ilpatico è fondamental-mente intransitivo e inco-municabile, anche se daesso in modo indirettoscaturisce l’impulso a co-struire una comunicazio-ne razionale.

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mente la nostra capacità d’ascolto e la nostra sensibi-lità clinica, ci sentiamo sicuramente più portati ad af-fidarci piuttosto a criteri d’efficacia e di adeguatezzache non a criteri veritativi. Ogni preoccupazione nor-mativa, che esuli dal mantenimento di una “normali-tà” del setting analitico, e che pretenda di appoggiar-si a un sapere o a un saper fare garantito, rischia d’es-sere più un ostacolo al libero ascolto e alla capacità disintonizzazione con gli altrui stati affettivi che un au-silio per la mente al lavoro dello psicoanalista. Pen-sare a una verità che preesiste al nostro lavoro clinicofunziona come un principio autoritario che, invecedi stimolare la nostra attività, può occludere la nostrasoggettiva capacità d’appropriazione e di riflessionesulla nostra esperienza. Certamente credere di ope-rare sotto l’egida di credenze “vere” o fondate ci fa-rebbe sentire più sicuri, ma forse ci avvicineremmocosì al nevrotico di Freud, sempre pronto a barattarela propria felicità per un po’ di sicurezza.

Probabilmente la concezione quietista o ironicadella verità proposta da Rorty19 si presta bene a libe-rare le nostre menti da ingombri che ci precludonoun libero gioco interpretativo garantito solo da un’a-derenza sensibile al mondo dell’altro. La verità è unbagaglio pesante, e nei percorsi difficili che dobbia-mo fare è quasi sempre meglio viaggiare leggeri, an-che se con il necessario.

L’idea rortyana della necessità di non classificare idiscorsi in base alla loro presunta miglior corrispon-denza alla realtà è senz’altro anche per noi una buo-na norma che ci garantisce dal rischio dell’ideologia.Sicuramente ci è oggi insopportabile l’idea freudianaper cui “né un sì né un no” da parte dell’analizzandopossono essere criteri di validità per un’interpreta-zione: quest’ultimo atteggiamento, mentre svalutaproprio quelle funzioni sensibili di autocomprensio-ne della soggettività che dovremmo invece occuparcidi nutrire, conferisce una posizione di potere ingiu-stificato all’analista, trasformando nel contempo la

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19. Che non è, come mol-ti critici del rortyano “teo-rista ironico” sostengono,non credere fino in fondoa quello che si pensa,quanto un credere all’in-terno di limiti e contin-genze che segnano un ac-cesso vincolato alla realtà,mai assoluto, aperto al-l’ulteriorità e alla discon-ferma. Cfr. E. Ambrosi,“Introduzione. La filoso-fia dopo l’11 settembre”,in E. Ambrosi (a cura di),Il bello del relativismo, Mar-silio,Venezia, 2005, p. 24.

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sua teoria nel punto di vista di Dio. Ed è allo stessomodo lesivo per l’intelligenza e la capacità critica siadell’analista che dell’analizzando mettersi in una co-mune condizione di attesa che un segno dall’incon-scio venga a illuminarci la strada.

Per altro verso, però, un radicale “addio alla veri-tà” rischia di svalutare l’impegno con cui cerchiamodi connettere l’esperienza clinica con un’autenticacomprensione: in fondo, se il nostro lavoro continuaa distinguersi da modalità psicoterapeutiche più tec-niche e pragmaticamente fondate sull’efficacia, è perl’etica che lo sottende, legata all’idea che sia semprepreferibile, per una buona vita, cercare di non illu-dersi, di non eufemizzare, di affrontare i lutti, di nonmistificare la miseria con deliri di grandezza, di com-prendere sempre meglio la nostra e l’altrui esistenza:dunque, di aver di mira un’autenticità, che è un ter-mine senz’altro molto difficile da definire, ma cheper lo meno ci fa pensare che non tutti i modi di ri-solvere la propria esistenza si equivalgono. Certa-mente, ci riferiamo in questo senso più alle “virtù diverità”,20 quali la sincerità, la fiducia, la veridicità, ilsenso della precisione, piuttosto che a un valore pro-priamente concettuale e oggettivo della verità.

Insomma, anche oggi può continuare a essere ve-ro che la passione per la verità costituisce l’autenticoprincipio terapeutico ed etico della psicoanalisi, ma-gari però, come nell’interpretazione umanistica di W.Loch, nella forma di una “verità che sostiene l’esi-stenza”,21 come un qualcosa cioé che non esiste bell’efatto già da prima che lo si trovi, ma che al contrarioprende forma durante la nostra indagine, e che si co-stituisce strettamente intrecciato con i valori che so-stengono lo sviluppo di una singola esistenza, benchédebba in qualche modo risuonare con qualcosa diesterno, di “terzo” rispetto all’interpretazione stessa.

Dunque, se è il valore assoluto, rappresentazionalee corrispondentista della verità a essere divenutoestraneo al lavoro interpretativo, bisognerà cercare di

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20. P. Engel; R. Rorty(2005), A cosa serve la veri-tà?, cit., p. 41.

21. W. Loch, Psicoanalisi everità, Borla, Roma 1996,p. 151.

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vedere se qualche altro ancoraggio “leggero” si rendedisponibile per una prassi, quale quella analitica, che,sebbene integralmente situata all’interno delle formedel discorso, ha sempre privilegiato un punto d’osser-vazione molto specifico, il punto cioè in cui un dis-corso interpretativo scaturisce dai fenomeni emer-genti nell’incontro clinico. In fondo, l’interpretazio-ne analitica, proprio nel senso più specifico stabilitoda Strachey, è fondata sulla capacità di cogliere un fe-nomeno nell’hic et nunc, e dunque è una continua tra-sposizione dall’ordine percettivo del fenomeno all’or-dine interpretativo linguistico. In questo senso, essavive perennemente in bilico tra due registri, il senso-riale e il verbale: con le parole di Merleau-Ponty, sipuò dire che il nucleo pulsante della psicoanalisi cor-risponde al momento in cui si assiste alla messa in paroladi un sentire, cioè alla trasformazione di elementi del-l’esperienza percettiva in pensiero verbale.

Probabilmente, la riflessione sul modo in cui l’e-spressione verbale prende rapporto con la dimensio-ne del “sentire” rappresenta il terreno nel quale pos-siamo cercare un nuovo ancoraggio dell’interpreta-zione ai valori della verità.

5. LA REALTÀ INCONTRATA E L’INTERPRETAZIONE

“La parola più giusta non è quella che pretende di ‘dire sem-pre la verità’. Non si tratta neppure di ‘dirla a mezzo’, questaverità, regolandosi teoricamente sulla mancanza strutturaledi cui le parole, attraverso la forza delle cose, recano il segno.Si tratta di accentuarla. Di illuminarla — di sfuggita, in manie-ra lacunosa — attraverso istanti di rischio, decisioni su un fon-do d’indecisioni. Darle aria e gesto. Poi, lasciare il posto ne-cessario all’ombra che si richiude, al fondo che si capovolge,all’indecisione che è ancora decisione dell’aria. È dunque unproblema, una pratica di ritmo: respiro, gesto, musicalità.Una respirazione, dunque. Accentuare le parole per far dan-zare le mancanze e dar loro potenza, consistenza di ambien-te in movimento. Accentuare le mancanze per fare danzare leparole e dar loro potere, consistenza di corpi in movimento”.

Georges Didi-Huberman22

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22. G. Didi-Huberman(2005), Gesti d’aria e di pie-tra. Trad. it. Diabasis, Reg-gio Emilia, 2006, p. 13.

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Non è banale ricordare che nella nostra pratical’interpretazione si fonda sull’ascolto, cioè su un ca-nale sensoriale che costituisce il nostro principalestrumento di accoglienza dell’altro. Peraltro, non ècerto nel senso di un realismo ingenuo che il prima-to dell’ascolto si è imposto in psicoanalisi: in quantorivolto a cogliere il discorso dell’inconscio, l’ascoltova ben oltre la naturale recezione e comprensionedel linguaggio, alimentandosi, secondo la più puralezione fenomenologica, piuttosto della negatività,dell’assenza, di ciò che la parola propriamente nondice: l’ascolto è aperto alla recezione di una parola in-satura, che a sua volta rimanda direttamente all’insa-turazione del desiderio umano.23

Nel primato dell’ascolto, dunque, la psicoanalisiha giocato la sua esigenza di lasciare decisamente insecondo piano la dimensione percettiva a tutto favo-re della dimensione rappresentativa, che, in sintoniacon il privilegio accordato al “mondo interno”, costi-tuisce il suo più autentico e originale campo d’inte-resse. L’ascolto, cioè, piuttosto che essere aperto ver-so il mondo esterno, è rivolto verso un mondo inte-riore fantasmatico, che è altra cosa rispetto a quantola percezione restituisce.24 Che è come dire che l’in-teresse specifico per l’ascolto risuona con il doppio li-vello che costituisce un assunto di base del pensieroanalitico, la differenza cioè tra mondo esterno emondo interno, tra realtà e fantasia, tra percezione erappresentazione, tra oggetto e rappresentazioned’oggetto, tra conscio e inconscio.

In psicoanalisi c’è sempre un qui, che va smasche-rato, e un altrove che esprime la motivazione e il fon-damento veritativo del primo. Con il rischio però diuna costitutiva svalutazione del valore realistico del-l’esperienza sensibile: i sensi, come la coscienza, illu-dono, mistificano, nascondono, segnalando la dis-continuità tra quanto le cose sembrano essere equanto realmente sono.

Forse però è proprio questa “fuga dal percettivo”

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23. Una trattazione piùapprofondita di questoargomento si trova in M.La Forgia; M.I. Marozza,Le radici del comprendere.Fioriti, Roma, 2005.24. In questo senso, dal-l’attenzione fluttuante diFreud, al “terzo orecchio”di Th. Reik, fino all’anali-sta “senza memoria e de-siderio” di Bion, sembrache la psicoanalisi vogliaattribuire la recezione deldiscorso inconscio a unasorta di organo specialedotato di capacità extra-sensoriali. Come rilevanoH. Thomä; H. Kächele(1985, Trattato di terapiapsicoanalitica, vol. I. Trad.it. Bollati Boringhieri, To-rino, 1990, pp. 315-316)si tratta di una linea di svi-luppo ancora legata a uningenuo presupposto po-sitivistico che pone il “ter-zo orecchio”, o chi perlui, come una tabula rasa,virtualmente vuota e asso-lutamente priva di aspet-tative. A questa tendenza,Thomä e Kächele con-trappongono un’altra li-nea che privilegia i pro-cessi cognitivi e inferen-ziali dell’analista comesintesi complessa del sen-tire e del pensare, “in unquadruplice processo co-stituito da ascolto passivoe attivo, dal vissuto, dallapercezione e dall’inter-pretazione”.

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che rende così debole la posizione psicoanalitica, im-pedendole di avere accesso a una concezione pluridi-mensionale della realtà, e costringendola ad acroba-zie teoriche quale la definizione di una “realtà psichi-ca”. In fondo il punto più debole e meno interessan-te della teoria freudiana è proprio l’esame di realtà.25

Perché, in effetti, il discorso si può fare molto piùinteressante se consideriamo che, in linea di massima,i sensi non ci illudono affatto, anzi, se una qualitàhanno è per lo più quella di disilludere, di smentire lenostre aspettative, di incuriosirci rispetto a qualche in-cognita o di riempirci di meraviglia rispetto a qualchenovità. I sensi ci aprono al mondo, o meglio, i sensi ciaprono a quella costitutiva forma di passività tramitela quale il mondo lascia in noi un segno. Come scriveFerraris,26 non sono certo i sensi, semmai sono le teo-rie false a illuderci: l’elemento più importante dell’e-sperienza sensoriale è proprio il contrasto tra ciò checi aspettiamo con il pensiero e ciò che incontriamocon i sensi. Se non è detto che i sensi esprimano ne-cessariamente il vero, quello che importa è che essinon confermano supinamente le nostre attese.

Insomma, ribadire la differenza tra la realtà incon-trata e la realtà rappresentata, affermando nel contem-po la loro simultanea presenza nei nostri vissuti, si-gnifica già introdurre un gioco di confronti e di pro-spettive, che rende ragione del modo complesso, tra-vagliato, pluridimensionale e non omogeneo con ilquale sperimentiamo il mondo. Nell’esperienza dellapassività alla quale i sensi ci inchiodano diviene evi-dente l’autonomia del mondo, la sua differenza ri-spetto alle rappresentazioni che ce ne facciamo, lasua inemendabilità,27 come pure l’irriducibilità dellanostra capacità percettiva alla noetica.

Interpretare è l’azione che intraprendiamo sulla ba-se della disconferma, dell’urto, del “calcio in faccia”che ci dà il mondo, che ci costringe, proprio attra-verso la sua resistenza alle nostre attese, a guardare dinuovo, ad aguzzare i sensi, traumatizzati dall’impatto

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25. Su questo punto inve-ce il pensiero junghianopuò offrire alla riflessio-ne attuale un altro spun-to originale, l’idea cioèche “reale è ciò che agi-sce”. Cfr. l’argomentazio-ne di S. Garroni (1988),Quaderno freudiano, Bi-bliopolis, Napoli, ripresain M.I. Marozza, “L’altroritrovato. L’empatia co-me fondamento empiricodell’interpretazione”. InM. La Forgia; M.I. Maroz-za (2000), L’altro e la suamente, cit., p. 63.26. M. Ferraris, “Perché èmeglio che la sintesi siapassiva”. In M. Cappuccio(a cura di), Neurofenome-nologia, Bruno Mondado-ri, Milano, 2006, p. 373.

27. Ibidem.

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con quanto non siamo in grado di capire. Altrimenticomprendiamo, avvicinando empaticamente il nostrosimile o confermando piacevolmente la nostra visio-ne del mondo. Insomma, comprendere e interpreta-re scorrono su binari diversi e descrivono diverse fun-zioni della nostra soggettività.28

In una prospettiva più empirica, e diversamentedalla metapsicologia psicoanalitica, potremmo limi-tarci, nella nostra ricerca di un fulcro oggettivo nellenostre ipotesi interpretative, a valorizzare proprioquesta posizione di passività percettiva dell’io che, men-tre lascia il comando alla pressione delle cose, costi-tuisce anche un limite all’estensione arbitraria del-l’interpretazione, rappresentando il vincolo tematicodi una nuova condizione di apertura e di slancio in-terpretativo. In questo modo, andremmo a sostituirel’articolazione per doppi livelli della comprensionepsicoanalitica con una bipolarità funzionale dell’io,oscillante tra una posizione attiva, epistemofilica, auto-matica e comprensiva, e una posizione passiva, patica,sensibile e non direttamente conoscitiva. Nella psicologiadinamica questa condizione di sensibilità recettivache caratterizza la condizione passiva dell’io — dal ce-dimento della coscienza che inaugura la possibilitàdella formazione di un sogno al dissidiato io jun-ghiano ridotto a oggetto dall’assalto dell’inconsciocollettivo — ha sempre rappresentato il presuppostodi ogni apertura al confronto con l’inconscio. Peral-tro, anche se la precondizione per l’apertura all’in-conscio continua a essere una destrutturazione dellacoscienza, si tratterà di una destrutturazione moltopiù simile a una sospensione che a una demistificazio-ne, tendente non tanto a sconfessarla quanto a favo-rire l’integrazione di nuove prospettive scaturite dal-l’apertura di nuove domande.

Quando l’ascolto analitico diviene apertura totalealla fenomenalità dell’atto verbale, s’allontana decisa-mente dall’essere mera comprensione decifrativa dellinguaggio, configurandosi piuttosto come recezione

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28. Cfr. F. Desideri, “Delcomprendere. A partireda Wittgenstein”. In P.F.Pieri (a cura di), ATQUE.Fare e pensare in psicotera-pia. Moretti e Vitali, Ber-gamo, 2008, pp. 135-154.

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e integrazione dell’intera sensorialità connessa allaparola, in cui il senso è inestricabilmente connesso coni sensi, e le parole s’arricchiscono di valenze fisiogno-miche. L’ascolto diviene, così, molto più che un sem-plice udire, un sinestesico sguardo dell’orecchio29 rivoltoa tutte quelle risonanze sensoriali che ruotano intor-no a ogni parola e che ci riportano potentemente al-l’atto della sua espressione, al suo colore, alla sua so-norità, al suo timbro, alla sua musicalità, alla sua cor-poreità, alla sua affettività.30 La comprensione pro-fonda della parola, piuttosto che esser racchiusa neldizionario intellettuale e astratto dei suoi significati, èprobabilmente molto più legata alla recezione delladimensione sensibile nella quale si innesta e si vinco-la ogni sua interpretazione. A volte è necessaria unaprovocazione per rompere la crosta del senso proprioe riuscire a cogliere le figure della sensorialità, a volte èinvece la parola stessa che ci inquieta e ci disorienta:in ogni caso è dal nostro sentirci turbati e coinvolti dal-la sensorialità che procede la necessità interpretativa,dalla rottura di una continuità del nostro sapere quo-tidiano, dalla percezione di un’anomalia o di unoscollamento dell’enunciato da ciò che lo sostiene.L’interpretazione torna così a essere uno strumentospecifico, che insistendo sempre sull’innesto del lin-guaggio nella dimensione sensibile, è tesa a restituireal linguaggio e alla nostra capacità di comprensioneuna motivazione originaria, mostrando, forse anchesolo per un istante, un po’ di verità.

6. L’INTERPRETAZIONE E L’INQUIETANTE ESTRANEITÀ

“L’analista non può che attendere una cosa: l’inquietanteestraneità, il perturbante. Se si trova all’interno di una fami-liarità del simile, si trova all’interno di una pratica della teo-ria dell’Io, teoria che fa sì che io sia supposto aiutare l’altroperché immagino di potergli somigliare (…) Il processo ana-litico umano-disumano comincia con l’inquietante estranei-tà, che è ciò con cui l’analista ha un appuntamento. Se que-

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29. L’espressione è di I.Calvino, “Un re in ascol-to”. In Sotto il sole giagua-ro, Garzanti, Milano,1986, p. 85.

30. Cfr. J.L. Nancy (2002),All’ascolto. Trad. it. Corti-na, Milano, 2004.

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sto incontro non c’è, non vi è nessuna possibilità di pensaredi poter curare un simile. ‘Inquietante estraneità’ significache è lì dove qualcosa s’infrange, si interrompe, che ci si puòmettere ad ascoltare, ad intendere”.

Pierre Fédida31

Il brano di P. Fédida mette in luce, con la profon-dità e l’esperienza umana di questo grande psicoana-lista, che il nostro lavoro analitico procede per crisi.Abitualmente ci troviamo a comprendere, a muovercinell’ambito di una familiarità con l’altro con il qualesentiamo di condividere un mondo di significati e dimotivazioni. Potremmo dire che ci muoviamo di soli-to, con i nostri pazienti non troppo disturbati, nel-l’ambito della comunanza di un’evidenza naturale,mentre riusciamo a leggere le loro menti sulla base diuna risonanza empatica che ci conferma che siamotutti fatti della stessa sostanza. Eppure dobbiamo sa-pere che l’analisi non è tutta qui, che percorriamoquesta strada attendendo qualcosa, una crisi, un ter-remoto, un momento in cui non possiamo più com-prendere, e ci sentiamo male: qualcosa ci sfuggementre sperimentiamo una sensazione angosciosa.

Potremmo dire che in questi momenti alla linea or-dinaria, caratterizzata dal saper riconoscere, o ancheinterpretare ex novo, cosa una cosa sia tramite gliorientamenti e il sapere condiviso, esplicito o implici-to che sia, subentra una linea straordinaria, caratteriz-zata viceversa da uno spaesamento angoscioso dell’io,che non sa ricondurre l’esperienza che sta subendoad alcunché, né avanzare linearmente verso nuovemodalità di interpretazione dell’evento. La psicoana-lisi ha sempre posto un’ipoteca di diffidenza sulla pri-ma modalità, ritenendola assoggettata ai meccanismidifensivi della coscienza adattata, e proponendo piut-tosto la sua destrutturazione per aver accesso a qual-cosa di più radicale. Ma Fédida ci dice qualcosa di più.Non c’è smascheramento né tecnica dell’analista chesia in grado di aprire la strada dell’inconscio, c’è soloun incontro inquietante, un momento in cui è l’analista

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31. P. Fédida (2007), Uma-no/Disumano. Trad. it. Bor-la, Roma, 2009, p. 82.

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stesso che si smarrisce, che si trova davanti qualcosa diincomprensibile, sentendosi costretto a sospendere ilgiudizio. Ed è qui che comincia la linea straordinariadel suo lavoro interpretativo, nel momento in cui simette davvero in ascolto.

L’esperienza del non poter comprendere più siconfigura con una “catastrofe” della sfera cognitiva,che si sperimenta come inadeguata, e con una iper-stimolazione della sensibilità, che si manifesta comeangoscia. Sono micro o macro catastrofi di tal genereche Freud descrive nella categoria dell’Unheimliche, eche Jung considera le più specifiche manifestazionidell’assalto dell’inconscio collettivo alla posizione at-tiva dell’io: per ambedue, queste crisi segnano l’ini-zio dell’analisi.

L’inquietante estraneità,32 che è un termine senz’al-tro più efficace di “perturbante”, indica una derivadell’esperienza vissuta, una perdita dell’agio che siprova nel sentirsi competenti, uno smagliamento at-traverso cui nella coscienza adattata emerge l’inquie-tudine di una parte incognita e indomita della sog-gettività inconscia, che è tanto più inconscia quantopiù fallisce ogni empatico tentativo di eguagliare l’iodifferenziato, umano, a “esso”, l’estraneo.

Si configura così “un altro modo di pensare”,33 incui la nostra continuità e la nostra reciproca umanasomiglianza vanno alla deriva, mentre ci sentiamo as-surdamente avvinti dall’opposto di quanto riteniamodi essere, sperimentando la parentela “con gli ani-mali e con gli Dei, con i cristalli e con le stelle”,34 co-me scacco della pretesa di un’identità compatta, co-me smentita dell’eguaglianza del sé a se stesso, comesentimento di essere ciò che mai avremmo pensato dipoter essere.35

L’esperienza dell’inconscio si configura così piùpropriamente come un’esperienza patica di apertura almondo che ci disloca verso i confini di noi stessi, comerilievo sensoriale di un mondo la cui materialità è di-rettamente, senza mediazioni, anche senso psichico,

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32. “Inquiétante étrange-té” è l’espressione impie-gata da Fédida per tra-durre il sostantivo Un-heimliche, per sottolinea-re l’importanza della pre-senza dell’étranger inquesto tipo di esperienza.

33. P. Fédida (2007), Uma-no/Disumano, cit., p. 79.

34. C.G. Jung (1928)“L’Io e l’inconscio”. Trad.it. in Opere, vol.VII, Borin-ghieri, Torino, 1983, p.233.35. Rimando, per uno svi-luppo più approfonditodi questa tematica, al mioscritto “Cercarsi nel lin-guaggio. Il fondamentosensibile dell’identità”. InM. La Forgia; M.I. Maroz-za (a cura di), La cono-scenza sensibile, Moretti &Vitali, Bergamo, 2008.

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come indistricabile intreccio di senso e sensi, di sog-getto e oggetto, di sé e mondo. E, se non è necessa-rio intendere questi momenti come tormentate nottidi Valpurga, è però necessario sottolineare la disconti-nuità che introducono nei nostri vissuti, anche nelleesperienze più ordinarie.

Il senso di originarietà, di coinvolgimento, di og-gettività di cui è portatrice la dimensione sensibile di-viene così un livello di fondo potenzialmente intrin-seco a ogni singola esperienza: un livello che divieneper noi tematico — e dunque non più automatico —se, nella percezione dei nostri turbamenti, rivolgia-mo la nostra attenzione a quelle impronte patiche che,come primum movens della vita psichica, debbono es-sere senz’altro intese in continuità tematica con lemodalità interpretative che su di esse si innescano.Ogni appello a queste origini non ha certamente ilvalore né della ricerca di un fondamento determini-stico, né di una spiegazione del perché venga attivatauna linea interpretativa della realtà piuttosto cheun’altra: esso vale semplicemente come riconosci-mento di una dimensione tonale, con tutte le sue mol-teplici e immaginifiche modulazioni di senso, in cuisi muove il nostro pensiero, testimoniando che nonesiste nella nostra vita psichica un pensiero conven-zionale e astratto, svincolato dalla paticità del nostrofondo esistenziale, ma rivalutando nello stesso tempola datità di un tale livello come un’originaria, non si-gnificativa forma di vita.

In questo modo, siamo in grado di valorizzare po-sitivamente la grande indefinitezza che caratterizza illinguaggio, e in generale la nostra vita psichica, valu-tandola come una plasticità che consente di giocare alsuo interno molteplici percorsi significativi, dischiusidalle componenti non linguistiche, e aperti alla mol-teplicità e alla dubitabilità delle interpretazioni.

E, in questa prospettiva, diviene anche possibile ri-elaborare la concezione psicoanalitica dell’inconscioabbandonando ogni ontologia e ogni determinismo

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esplicativo, ma preservando il suo significato più pro-fondo, come ciò che, nella nostra esperienza, non è cono-sciuto né è mai direttamente conoscibile, ritenendolo co-stitutivamente connaturato all’esperienza umana enello stesso tempo considerandolo influente e asso-lutamente oggettivo nel provocare la soggettività ver-so un’inesauribile ricerca di senso, una continuaspinta per la nostra soggettività a sporgersi sempre ol-tre il livello convenzionale del linguaggio, nel tenta-tivo di interpretare in esso quegli indizi sensibili chetestimoniano l’impegno di ogni singola esistenza nelmondo della vita.

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Quale verità per l’interpretazione? I modi del pensare

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Non esiste una psicologia (o una psichia-tria) che non rinvii, consapevolmente o in-consapevolmente, ad una filosofia: è il pun-to di riferimento ineludibile della riflessio-ne e della esistenza jaspersiana. Così come,forse, non può esistere una filosofia che nonapra, più spesso inconsapevolmente, adun’infinità di significati relativi a quella in-dividualità dell’e-sistere che chiamiamo“psichica”, la cui considerazione ha solleci-tato sul finire del secondo millennio la na-scita di una molteplicità di discorsi, di psico-logie.

Compenetrazioni e differenze, dunque. Sfida allapurezza del pensiero e accettazione della contamina-zione (termine tra i più cari a Jung), che si avvale diispirazioni (lessicali e soprattutto semantiche) ed ar-rischia lo sfondamento dei confini, in un oltre mai in-teramente derivabile dalle postazioni di partenza enutrito ab origine ed in itinere (è lo psico-logico amostrarcelo) dalla junghiana “equazione personale”.

Così è stato, in questa circostanza, per il pensieroermeneutico di Pareyson, cui ci siamo volti a partiredalla nostra quotidiana esperienza analitica, attrattidall’idea d’interpretazione che ne costituisce il cuoree mossi dalla necessità di “significare” il disagio diquei pazienti che ci chiedono aiuto. Disagio “psichi-co”, incarnato nella individualità bio-grafica comenella particolarità storico-culturale (lo Zeitgeist). Ma,al contempo, disagio che toglie il velo (la verità dellaa-létheia) a quelle dominanti antropologiche chepaiono tessere la matrice originaria (arche-tipica)dell’essere umano.

VERITÀ E INTERPRETAZIONE: LA TEMATIZZAZIONE FILOSOFICA DI PAREYSON

Quale pensiero (ma più in generale quale atteg-giamento), si chiede Luigi Pareyson1, è in grado di

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La praticaanalitica

tra espressionee rivelazione

Enrico Ferrari

1. L. Pareyson, Verità e in-terpretazione, Mursia, Mila-no, 1971.

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rendere manifesta all’uomo la verità? La risposta è: ilpensiero “rivelativo”. Mentre mostra tutta la sua insuf-ficienza veritativa il solo pensiero “espressivo”. Que-st’ultimo è un pensiero storicistico, che riduce la ve-rità, per l’appunto, ad espressione della situazione edel tempo. Riduzione che invece non soddisfa l’ap-proccio rivelativo il quale, nel cogliere l’espressionedel proprio tempo, ne vede anche una rivelazionedella verità ancorata all’essere.

Il pensiero rivelativo, nella concezione del filosofotorinese, è anche insieme pensiero espressivo, poiché

“la verità non si offre se non all’interno d’ogni singola pro-spettiva”.2

Ma, al contempo, offre una cifra di significazioneulteriore poichè

“non può essere verità quella che non è colta come inesauri-bile”.3

La verità conferisce alla parola che la intende ri-velare

“una profondità che non si lascia mai esplicitare completa-mente né interamente chiarire”.4

Quali le conseguenze di queste premesse sul mo-do di pensare o, se vogliamo, sull’utilizzo dei nostridiscorsi volti a cogliere la verità delle cose? La conse-guenza fondamentale, foriera di implicazioni ancheper la sfera analitica che qui ci interessa, è questa: ilpensiero (o discorso) epressivo, nel ricondurre il ve-ro alla storicità soggettiva e culturale, non esplicitaciò che significa ma lo sottintende. La parola espres-siva rinvia sempre ad un nascosto che ha bisogno diessere smascherato: il léghein è un krùptein. Nel pen-siero (o discorso) rivelativo è invece la parola stessa asignificare: il léghein è un semaìnein. L’esplicito con-tiene cioè una profondità implicita, presente ma maipossedibile in maniera ultimativa. È questa la sostan-

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2. Ibidem, p. 17.

3. Ibidem, p. 18.

4. Ibidem.

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za dell’interpretare, dove l’implicito è radicalmentedifferente dal sottinteso.

Queste le parole, nitide e scheggiate, di Pareyson:

“Nel pensiero storico la parola dice una cosa ma ne significaun’altra; nel pensiero rivelativo la parola rivela molto più diquanto non dica (…) [Nel pensiero espressivo] comprenderesignifica smascherare, cioè sostituire il sottinteso all’esplicito.Nel pensiero rivelativo (…) comprendere significa allora in-terpretare, cioè approfondire l’esplicito per cogliervi quell’in-finità dell’implicito ch’esso stesso annuncia e contiene”.5

Il discorso prosegue e dilata i propri confini disenso, fino a proporre un pensiero ermeneutico chenon si chiude nel freudiano dis-occultamento, ma siapre alla gadameriana infinità della domanda:

“Rivelare la verità non significa né conoscerla tutta, median-te la rimozione d’un velo (…) né coglierne semplici parti(…) Il pensiero rivelativo raggiunge il suo scopo anche senon giunge al ‘tutto detto’: il suo ideale (…) [è] l’incessantemanifestazione d’un’origine inesauribile (…) Comprenderesignifica rendersi conto che la verità non si possiede se nonnella forma di doverla cercare ancora”. 6

VERITÀ, INTERPRETAZIONE, PSICOLOGIA ANALITICA

Le analogie tra il discorso filosofico e il conoscereed esperire analitico sono evidenti e suggestive. E co-involgono due specificità, che non possono non farconfrontare la pratica analitica con l’orientamentoermeneutico: la sensatezza delle esperienze psicopa-tologiche e il confronto con l’inconscio.

La prima ripropone, adottando il linguaggio pa-reysoniano, la dialettica tra un pensiero (ma potrem-mo anche dire: un metodo) espressivo ed un pensie-ro (un metodo) rivelativo. Il secondo, non disgiungi-bile dalla prima, rimanda all’antinomia tradurre/in-terpretare.

Entrambe le specificità sono al centro dei recipro-ci rimandi e delle reciproche differenze tra psicoana-

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5. Ibidem, p. 22.

6. Ibidem, p. 23.

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lisi e psicologia analitica. E ciò che qui vogliamo con-siderare, al di fuori di rigide biunivocità con il pen-siero ermeneutico di Pareyson e di schematiche con-trapposizioni con il pensiero freudiano, sono le riso-nanze tra pensiero rivelativo e psicologia analitica.

A suggerircele è il globale atteggiamento junghia-no nei confronti della clinica. Un atteggiamento ma-turato nel confronto con i malati “in carne e ossa” delBurghölzli e con le sterminate letture filosofiche emitologiche; con l’iniziale fascinazione della meteorafreudiana, capace di illuminare i sintomi dei pazien-ti con la luce dell’inconscio storico-individuale, e conl’ulteriore ricerca in essi dei segni “rivelatori” diun’inconscia universalità collettiva.

Ne è derivata, nella pratica della psicoterapia adorientamento junghiano, l’eredità dell’ inserimentodella vicenda individuale in una dimensione che pos-siamo definire mitica, “sub specie aeternitatis”:

“Se dovesse esistere quest’anima superindividuale, tutto ciòche è tradotto nel suo linguaggio perderebbe il proprio ca-rattere personale, e divenendo coscienti ci apparirebbe subspecie aeternitatis, non più come sofferenza mia, ma come lasofferenza del mondo, non più come dolore personale cheisola, ma come dolore senza asprezza, che unisce tutti noiuomini. Che ciò possa guarire è cosa di cui non occorre cer-care le prove”. 7

E ancora, in un discorso volto al significato del so-gno, ma paradigmatico di un più generale atteggia-mento psico-logico:

“La tecnica usuale del sogno è di riportare il paziente alla si-tuazione archetipica, alla situazione del dio-uomo sofferenteo alla situazione della tragedia umana. Era questa l’efficaciadella tragedia greca”. 8

Certo, che la rivelazione di una verità sovraindin-dividuale consegni senso al dolore individuale è espe-rienza ricorrente nella pratica analitica. Meno vere,forse espressione di un ottimismo del tempo un po’forzato, ci sembrano invece le allusioni di Jung ad un

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7. C.G. Jung (1927/1931),“La struttura della psi-che”, Opere, vol. 8, BollatiBoringhieri, Torino, 1976,p. 168.

8. C.G. Jung, Analisi dei so-gni, Bollati Boringhieri,Torino, 2003, p. 165.

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dolore senza asprezza e ad una improblematica gua-rigione. Contrastanti, anche, con il riferimento alsenso del tragico contenuto nella seconda citazioneche abbiamo proposto, tratta da Dream Analysis. In-tendiamo cioè dire che l’apertura di senso comportapur sempre il confronto “patico” con il dolore indivi-duale. La verità del senso è una verità “tragica”.

Dunque apertura ad una verità sovraindividualecapace di donare senso all’esistenza individuale: cisembra questo, in buona sostanza, il parallelo erme-neutico tra il pensiero rivelativo e la psicologia anali-tica. Apertura ermeneutica che non tras-cura, se au-tenticamente ricercata, la storia individuale del pa-ziente, così come la cultura del tempo in cui il pa-ziente vive. In Jung, del resto, la scelta del linguaggiomitico è una scelta che concilia l’individuale e l’uni-versale: linguaggio simbolico, che coniuga (sym-bal-lein) le due dimensioni e al contempo ulteriorizza ilsenso. Non esiste una soggettività storica con-cludibi-le nella biografia, come non c’è senso senza e-sisten-za singolare. L’universale è rivelabile pienamente so-lo (e il parallelo con Pareyson è evidente) nell’indi-viduale storico soggettivo.

Naturalmente, nel dominio del nostro discorso,che vuol essere psico-logico nell’accezione scientifi-co-comprensiva di Jaspers9, la verità rivelabile non èquella ontologica cercata da Pareyson, ma quella dei“fondamentali” antropologici che le esperienze psi-copatologiche sono in grado di mostrare. Il discorsopuò essere anche fatto convergere con quello degliarchetipi di Jung, intesi come forme antropologichefondamentali, storicamente pensate (anzi: immagi-nate) in modalità molteplici e differenti. Con l’ag-giunta che la loro conoscibilità è sempre storico-indi-viduale. Che non significa ammettere, con un esa-sperato relativismo, che dell’uomo (del paziente) esi-sta una sola verità individuale; ma che la verità sovra-individuale ha la propria conoscibilità nella sola(quindi anche relativa) prospettiva individuale.

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9. K. Jaspers, Psicopatolo-gia generale, Il PensieroScientifico Editore, Ro-ma, 1964.

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Una significativa esemplificazione dell’atteggia-mento ermeneutico junghiano lo si ha nella formu-lazione del metodo dell’amplificazione nell’interpreta-zione del sogno e nella critica apportata al metodofreudiano dell’ associazione. Discorso che apre alla se-conda delle specificità analitiche considerate a inizioparagrafo: il confronto con l’inconscio.

La preoccupazione di Freud, nota Jung, è di dis-occultare la latenza del sogno, svelarne il significatonascosto. La libera associazione sarebbe il metodoper vincere le resistenze a scoprire ciò che si nascon-de: nel linguaggio junghiano, i complessi.

“Secondo Freud (…) il sogno è un’abile deformazione cheocculta la figura originaria, e così non si deve far altro chesmantellare la ragnatela per tornare alla prima enunciazioneragionevole”. 10

Ma la riconduzione al “sottinteso” o allo “storico-biografico”, per riecheggiare il lessico qui opportu-namente utilizzabile di Pareyson, secondo Jung non“rivelerebbe” (ancora Pareyson) l’essenza e la pie-nezza del sogno, portatore di una verità per “come es-sa è”, sia pur connotata da un’oscurità e misteriositàmai interamente esplicitabili e concettualizzabili.Una verità dai significati, ermeneuticamente, sempreaperti e trascendenti l’individualità psichica del so-gnatore. Da qui il metodo dell’amplificazione:

“Perciò lo tratto come se fosse un testo di difficile interpreta-zione (…), oppure come se fosse un testo frammentario (…).Sono convinto che il sogno non nasconda niente, ma che noisemplicemente non ne comprendiamo il linguaggio (…).Adotto il metodo del filologo (…) e applico un principio lo-gico che si chiama amplificazione. Si tratta semplicemente diricercare paralleli”. 11

E ancora, in una conferenza successiva alla prece-dente:

“L’interpretazione di un sogno profondo (…) non può mailimitarsi alla sfera personale. Il sogno contiene un’immagine

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10. C.G. Jung (1935),“Fondamenti della psico-logia analitica”, Opere, vol.15, Bollati Boringhieri,Torino, 1991, p. 96.

11. Ibidem, pp. 94-95.

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archetipica, il che denota sempre che la situazione psichicadel sognatore si protende oltre lo strato puramente persona-le dell’inconscio. Il suo problema non è più soltanto perso-nale, ma riguarda l’umanità in generale (…). 12

Il sogno, dunque: la freudiana, ma anche junghia-na, via regia di accesso all’inconscio, cuore del terri-torio analitico. Sogno che copre e sogno che rivela.Sogno da smascherare e sogno da ascoltare. Se si ac-cetta la provocazione junghiana, che si fa metodo epensiero, più che decodificare occorre far parlare ilsogno. Dialogare “con” l’inconscio, più che spiegar-lo. Qui si colloca la distinzione che intendiamo ope-rare tra “traduzione” e “interpretazione”.

La prima, letteralmente, è un “trasportare da unalingua in un’altra”, dal latino tradūcere che vuol dire“condurre” (dūcere) “oltre” (tra). Analiticamenteesprime l’esigenza di indicare un significato (de-fini-to) nella veste di un contenuto noto. Sembra collo-carsi entro questo orizzonte la primaria vocazione psi-coanalitica, bisognosa di anticipare le regole per unacorretta traduzione che consenta di riesprimere l’o-scurità in una lingua nota e sicura. La parola diventacodice dell’inconscio e si fa tecnica del significato. Co-sì per il sintomo e per il sogno. Come per la narra-zione in generale del paziente, ritradotta nel linguag-gio del transfert che permette la riduzione ad un pas-sato chiaribile di un presente in stato di smarrimento.

Diversamente, l’interpretazione vera e propriapresuppone un’oscurità mai pienamente eliminabilenell’intento della significazione, che può avvenire so-lo stabilendo un valore (pretium) nell’atto stesso delrelazionarsi (inter) con l’esperienza che si ha di fron-te. Qui la parola diventa messaggio dell’inconscio,traghettatrice ambigua ed oscura come lo era la figu-ra mitologica di Ermes, da cui: ermeneutica. Nell’in-ter-pretazione la parola non si fa tecnica del signifi-cato, ma apertura al senso, mai interamente de-fini-bile. E la valenza semantica dell’ inter di interpretareè una sottolineatura peculiare della psicologia anali-

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12. Ibidem, p. 113.

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tica che, sia pur con linguaggi differenti, si connettealla tradizione ermeneutica più strettamente filosofi-ca. Entro questo orizzonte, solo nel relazionarsi av-viene la possibilità del significare.

Sulla scia della famosa distinzione diltheyana trascienze dello spirito e scienze della natura13, il sensoprofondo dell’interpretare consiste allora forse pro-prio nel “com-prendere” (verstehen) e non nello “spie-gare” cauasalistico (erklären). Dove il comprenderemutua la sua essenza dalla categoria del dialogo. In-ter-pretare, com-prendere il vero, è dia-logo: parolache “sta nel mezzo”, flusso di domanda e di rispostache riposa non nella pre-tesa del con-cludere ma nel-l’umiltà del pro-seguire. È lo stesso Gadamer, fonda-tore dell’ Ermeneutica contemporanea, a ricordarlo:

“l’arte del domandare è l’arte del domandare ancora” 14

DIA-LOGHI CLINICI

Presentiamo ora due situazioni vissute nella stanzad’analisi. La prima è tratta dalla vita della veglia e ri-guarda una condizione di perdita della naturalitàpercettiva in un ragazzo che ha sofferto di attacchi dipanico. La seconda è tratta dalla vita onirica di unagiovane donna affetta da neurosi d’ansia. In entram-be le situazioni, al livello espressivo del dia-logo ana-litico, cioè ai rimandi biografici individuali e cultural-collettivi dei contenuti esperienziali, si affianca, qua-si per una spontanea (a volte consapevole, altre in-consapevole) messa in marcia ermeneutica, il livellorivelativo di contenuti antropologici più generali. Èquest’ultimo, che presuppone il primo, a caratteriz-zare il resoconto analitico, come se le tracce “rivela-te” in seduta insistessero più a lungo nel tempo e piùa fondo nell’anima rispetto alle “espressioni” di vita.E questo al di là delle esplicitazioni avvenute, poichéogni resoconto analitico tradisce, nella sua fedeltà, la

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13. W. Dilthey, Introduzio-ne alle scienze dello spirito,La Nuova Italia, Firenze,1974.

14. H.G. Gadamer, Verità emetodo, Bompiani, Mila-no, 1983, p. 431.

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scena analitica. Andandone “oltre”, e così contri-buendo alla ricerca rivelativa.

1. Il cielo stellato di Orlando

Orlando, un giovane paziente di 25 anni che sof-fre di Disturbo di panico, riferisce così una propriaesperienza che qualifichiamo come dissociativa, sen-za che tuttavia possieda la radicalità di frattura tipicadelle condizioni psicotiche:

“Quando parlo con qualcuno mi distacco dall’altro; l’al-tro è come se passasse in second’ordine... È come se ascoltas-si me stesso per controllare come parlo, per valutare se parlobene o parlo male... Mi sento distante dal mio interlocutore,come se ci fosse della nebbia”.

Il rimando, in chiave anche di spiegazione del dis-turbo, alla storia di vita del paziente (specie alla suainfanzia) indubbiamente si impone: a quelle situa-zioni di non ascolto da parte di “un altro”, di carenzadi una spontanea fiducia “nell’ altro”, di precaria le-gittimazione da parte “di altri”. Situazioni che, purnon avendo la drammaticità del trauma acuto, sem-brano aver sollecitato la necessità di una manovra dis-sociativa, quasi per creare una duplicità dell’io a ga-ranzia dell’inter-locuzione. Ma, egualmente, perpe-tuando la distanza dal mondo-degli-altri (il Mit-weltdei fenomenologi).

Ma se rimaniamo nella dimensione della parolaesplicitata, ricercandovi l’implicito che essa contienee rivela, mettendo tra parentesi (la epoché husserlia-na) la spiegazione storico-biografica, la nostra atten-zione si trattiene e si approfondisce sull’esperienzadi estraneità dall’altro. Esperienza in cui la comuni-cazione, da intersoggettiva, si fa intrasoggettiva: dal-la inter-locuzione, linguaggio che si costruisce nellarelazionalità io-altro, si passa alla intra-locuzione,che è linguaggio non declinato ma semplicementeesaminato nel suo abilitarsi, luogo di verifica delle

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capacità dell’io.C’è un sentimento di insicurezza alla base di que-

sta come, più in generale, delle esperienze di estra-neità che appartengono al circolo neurotico: non laradicale frattura del dialogo io-mondo (la demonda-nizzazione psicotica) ma l’insicurezza dell’io nel suonon potersi “naturaliter” radicarsi nella fiducia nel-l’altro e prima ancora in sé stesso. In questo caso, nelfarsi corpo-che-parla “significando”.

È una sorta di scollamento dal fondo della vita,quella che Jung chiamerebbe disgiunzione dell’io dalSé quale “volume complessivo psichico”15, che compren-de l’io e da cui l’io stesso si origina e attinge senso edenergia. Ciò che induce ad un grande, compensato-rio, lavorìo mentale che tenta di supplire al non po-ter essere spontanei, all’implicita sfiducia in sé stessi.

Sono ancora parole di Orlando: “Vedo le stelle di notte, a me piace vedere le stelle, mi ha

sempre dato fiducia e sicurezza. Ma ora non le percepiscocon l’intensità di prima, è come se vedessi offuscato. E misembra di avere un problema di vista, perché percepisco unapressione alla radice del naso tra i due occhi. Capisco, an-che per tutte le visite e gli esami fatti, di non avere nulla diorganico, che la mia è ansia, ma a me viene da localizzarelì l’origine del disturbo!”.

Anche qui il livello “espressivo” del discorso, il ri-levare che cosa “sta sotto”, è irrinunciabile. Il riferi-mento è questa volta alla “cultura del tempo”, vale adire al paradigma tecnico-scientifico. Il tentativo daparte di Orlando riflette la tendenza a “spiegare” l’e-splicitazione corporea della sofferenza (i sintomi) inchiave medicalistica o psicologistica. Nei termini, co-munque, di una significazione definita e controllatama che pre-scinde dai contenuti esplicitati.

Così è per la chiave di lettura psicosomatica, chenell’affermare il trasferimento sul soma di un dis-agio psichico, presuppone la Spältung cartesiana trares cogitans e res extensa, e risponde all’esigenza di rin-

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15. C.G. Jung (1921), “Ti-pi psicologici”, Opere, vol.6, Bollati Boringhieri, To-rino, 1969, p. 477.

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venimento di una causa, forse per pacificare l’in-quietudine del mistero di queste ambigue forme disofferenza.

Il paziente percorre in realtà una pista ancor piùunilaterale, quella della linearità eziologica propriadelle discipline medico-naturalistiche. È in verità lapista inizialmente percorsa (spesso anche incoraggia-ta da parenti, amici e da molti stessi medici) dallagran parte dei pazienti con Disturbo di panico, al-meno fino a quando il paradigma tecnico-scientifico,cui non è estranea la stessa psicosomatica, incontra losbarramento invalicabile del non rinvenimento dellacausa. E il buon senso comune, ancor prima della psi-chiatria, fa sentire di non trovarsi di fronte a perso-nalità travolte dalla parabola della follia.

È qui che si pone l’esigenza di un altro modo dicom-prendere l’umano, di una ricerca del vero “persensum” e non “per causas”. Ricerca che di fronte al-l’esperienza del soffrire scompagina spesso il poteredella scienza e le sue disarticolazioni reificanti, chesezionano l’uomo e il suo vivere per poterlo in-clu-dere in una teoria pre-supposta.

Il disturbo della visione, sensorialmente percepito,non è allora proiezione sul “corpo-cosa” (Körper) diun’inquietudine di quell’altra cosa che è la psiche, maè modo di partecipare nella dimensione corporea altentativo di abbraccio all’interezza della vita, la vitacosmicamente percepita. Un metaforico abbraccioche, nel caso emblematico sopraccitato, viene ricerca-to attraverso lo sguardo alle stelle: sguardo che non èmai solo atto-cosa, ma atto-intenzione, comprensibilenel suo costituirsi simbolico dell’alludere ad un’ulte-riorità di senso non interamente con-cludibile.

Lo sguardo all’alto-oltre rispetto alla terra, alla lu-ce-altra rispetto all’oscurità del presente, è sguardocercato per pro-durre “fiducia e sicurezza”. È sguardodi de-siderio (da de-sidera, relativo alle stelle), di ri-cerca di una pienezza, di un nutrimento spiritualemutuato dalla natura. Di una riconciliazione, nella

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dimensione del corpo (Leib, il “corpo soggettivo” o“corpo-vita”), con la natura nella sua veste di altezzae di ulteriorità rispetto all’hic et nunc della paralisiesistenziale.

Questo atteggiamento, suggestivamente, rimandaa espressioni di una religiosità naturale (storicamen-te antica, ma psicologicamente non eludibile) e, sul-la scia delle riflessioni junghiane intorno all’alchi-mia, a quella comunanza uomo-natura che nel corpotrova il suo luogo rivelativo. Quella tensione all’unusmundus (dimensione unificante uomo e natura, fon-damento per Jung di ogni esistenza empirica) chepresuppone le nozze chimiche della riunificazione tramente e corpo.16

Ebbene, i pazienti con Disturbo di panico non rie-scono a vivere pienamente questa esperienza, questapartecipazione al dinamismo della natura e questaconciliazione tra mente e corpo. E sentono tutto ciòcome “perdita” di senso, come non pienezza del vive-re. Le strade per “capire” indicate dalla scienza me-dica non portano a nulla, se non a formulazioni dacui gli stessi pazienti non si sentono rappresentati.Solo nel descrivere queste sensazioni e gli stati d’ani-mo che le accompagnano, nel poter condividere inun’atmosfera psicoterapica “comprensiva” questosentimento di estraneità (esperienza di condivisioneche ha spesso per loro del sorprendente, vista la pau-ra della perdita della naturalità del vivere che li ca-ratterizza e fa loro provar vergogna), questi pazientiavvertono il senso e la qualità della mancanza che licaratterizza. La mancanza, potremmo dire sulla sciadelle riflessioni di La Forgia e Marozza, della cono-scenza sensibile che è costituita

“dalla parentela profonda tra evidenza, intuizione e verità”.17

O ancora, sulla scia invece della densa riflessionedi Blankenburg18 e pur consapevoli del differente re-gistro qualitativo là dove si parla di condizioni psico-

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16. C.G. Jung (1955/56),“Mysterium coniunctio-nis”, Opere, vol. 14**, Bol-lati Boringhieri, Torino,1990, pp. 532 ss.

17. M. La Forgia, M.I. Ma-rozza, Le radici del com-prendere, Giovanni FioritiEditore, Roma, 2005, p.21.18. W. Blankenburg, Laperdita dell’evidenza natura-le, Raffaello Cortina Edi-tore, Milano, 1998.

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tiche, potremmo parlare di attenuazione (più che divera e proprio perdita, come dall’autore tedesco rife-rito alle psicosi) dell’evidenza naturale.

Riflessioni sul senso, sulla sua ricerca e sul suoscacco, che la parola dei pazienti implicitamente con-tiene ed esplicitamente comunica richiedendo con-divisione; e che la sola riduzione alla storia di vitapersonale non consente di pienamente significare.

2. Marta alla fiera d’oriente

Ecco il testo onirico della seconda scena analitica.Il racconto è di Marta, donna di 35 anni, la cui vita èaccompagnata da tantissimi anni da una condizionedi ansia generalizzata. Da bambina, all’età di 4-5 an-ni, è stata vittima di attenzioni sessualizzate da partedel nonno paterno.

“Mi trovo in un mercato enorme: giro tra i banchi e pro-vo un certo disagio. Mi fermo ad un banco dove vi sono dueorientali che fanno reggiseni su misura.

Ora giro tra i banchi con una ragazza; vorrei correre,forse scappare, ma le gambe sono come bloccate! Con lei ini-zio un discorso: le chiedo se può farmi un’operazione che soessere collegata al poter avere figli. Mi dice che mi porterà daappositi dottori.

Mi sento disorientata, non trovo più il banco dei reggi-seni. Poi finalmente lo trovo e prendo un reggiseno bianco.Il colore mi sta bene, mi dico che ne ho proprio bisogno!”

Il riferimento immediato, tenuto conto della vitapersonale di Marta e delle sue associazioni, è al “com-plesso del seno piccolo”. Marta riferisce di aver sempreavuto conferme circa la sua bellezza e femminilità,ma il seno piccolo, specie nei momenti di intimitàsessuale, le ha sempre creato imbarazzo. Lo vive co-me una sorta di ferita narcisistica, accompagnata dal-la vergogna dell’inadeguatezza e dal timore di nonessere mai pienamente desiderata da un uomo.

Anche qui, lo stato d’animo e le rappresentazioni

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della paziente non possono non “esprimere” valenzebiografiche, che rimandano ad un’infanzia in cui laconfusione tra desiderio e adeguatezza relazionale èstata acuta ed in cui l’esperienza del materno è stataprecaria. Come, anche, al momento attuale della vitadi Marta, anagraficamente segnato dal dilemma (fi-no ad ora eluso) se accedere o meno all’esperienza didiventare lei stessa madre.

Ma il sogno, se guardato con gli occhi junghianidell’amplificazione di senso, contiene e “rivela”un’ulteriore complessità che la libera associazionedella paziente non esaurisce. Come metodo unico,anzi, può rischiare la chiusura di senso là dove, inve-ce, paziente e analista sono invitati a partecipare econdividere quella vocazione individuativa che esigela percorrenza di strade più universali.

Così, il sogno di Marta ci chiama all’interno di unmercato, luogo aperto, dis-orientante per chi è abi-tuato alla regolarità delle città. Luogo dalle mille pos-sibilità, luogo dell’originalità, dello scambio e dellarelazione. Spesso luogo dove si possono fare degli af-fari, che esigono più l’intuito che non il pensiero, piùl’inventiva che non l’applicazione delle regole.

Mitologicamente, il mercato evoca la figura di Er-mes, dio dei mercanti e dei ladri, capace di furberiee di tresche. Ermes la cui figura, come ha ricordatoJung, è sovrapponibile a quella del Trickster, il bricco-ne che agisce nell’inconscietà ed annuncia l’ombra(in senso junghiano).

Poi compaiono gli orientali, con tutto ciò che l’O-riente, per noi che abitiamo la regione della sera,evoca: sorgente e origine; ma anche, in opposizioneai valori forti dell’Occidente: inconscio e femminile.Perché l’Oriente (l’inconscio, il femminile), più del-l’Occidente (la coscienza, il maschile), dà spazio almistero non controllato dal logos e contenente il di-vino femminile con il principio della fecondità.

Proprio nel mercato, allora, e non negli abitualiluoghi della città, è messa a tema la possibilità della

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femminilità/maternità. Che proprio come possibili-tà-apertura, al di là dei suoi compimenti storico-bio-grafici, è chiamata ad entrare nella scena della psichedi Marta, sporcata dalla storia ma non impedita nelricreare uno spazio puro (il bianco!) che, pur nelcondizionamento, allude alla libertà .

Il complesso del seno piccolo, da vergogna esteti-ca, diventa dunque topos psicologico per poter farcrescere la figlia-bambina (che non aveva ancora bi-sogno di “portare il peso” del seno), trasformandolain donna (madre?).

E dal mercato, dall’analisi, ma ancor di più dalconfronto con il mondo dei possibili, non si può fug-gire. È come se il corpo, che è la dimensione dell’u-mano più inconscia e che nei suoi segni contiene(ma troppo spesso, nella nevrosi, trattiene) le poten-zialità del senso, lo impedisse. La coscienza non puòpiù ignorare la spinta inconscia all’apertura di senso.Questo è il momento per la visita al mercato: il Kai-ròs, lo chiamerebbero i greci. Non un’occasione, ma:l’occasione, il tempo propizio, quello in cui le sceltenon possono essere rinviate!

E, nella temerarietà dell’amplificazione, sempreattratta dalle ninfe del transpersonale ma non di-mentica delle peculiarità individuali, un altro signifi-cato sembra essere rivelato dal sogno.

Ci riferiamo ancora all’Oriente (all’immagine diOriente coltivata da noi occidentali) che non espri-me solo il femminile e l’inconscio, ma anche il pesodel Male. In natura, mai disgiunto dal Bene. Così siesprime, in tarda età, uno Jung consapevole dei pre-gi e dei limiti della morale occidentale:

“In India mi interessai soprattutto del problema della naturapsicologica del male… Anche conversando con cinesi coltifui sempre colpito dal fatto che questi popoli sono capaci diintegrare il cosiddetto ‘male’, senza ‘perdere la faccia’. In Oc-cidente è diverso. Per gli orientali il problema morale non stain primo piano, come per noi; per essi il bene e il male sonocompresi nella natura, con un loro senso, non sono altro che

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differenze di grado di una stessa cosa”.19

Sappiamo quanto, in Occidente, il male e la fem-minilità siano stati accomunati e spesso rimossi. Inquesto senso non possiamo non ribadire che anche ildiscorso ermeneutico su questo sogno (su ogni so-gno), nella sua valenza rivelativa di verità di fondo,non si disancora mai dalla sua valenza espressiva delcontesto culturale di appartenenza. Le verità fonda-mentali (sull’uomo), direbbe Pareyson, sono coglibi-li unicamente entro la particolarità e la singolarità diuno sguardo storico, di una pro-spettiva. E tuttavia,l’esigenza di integrazione del male e della femminili-tà nella coscienza individuale e collettiva, che questosogno sembra voler annunciare, non può non esserevalore trans-culturale e trans-individuale.

L’ANALISI NON DICE IL VERO. LO ASCOLTA...

A-létheia (la verità), contrapposta a Doxa (l’opinio-ne), è la parola con cui la lingua greca ha interpella-to l’occidente, chiamato ad abitare il giorno e a pre-servarsi dalla inquietudine della notte. Letteralmen-te, aletheia, è la privazione del nascondimento. Come sela condizione “naturale” non fosse la chiarezza ma lasegretezza. E la libertà, l’opera del far venire alla lu-ce.

Ma s-velamento (forse la miglior versione di alé-theia) “di” che cosa?

O: “da parte di” che cosa? Nel rispondere a questi due interrogativi varie so-

no le strade percorribili. Anzi, la scelta di farsi inter-rogare dall’una piuttosto che dall’altra questione giàrappresenta un’opzione di fondo. E la duplicità delladomanda indica quell’ambiguità di fondo che alé-theia di per sé contiene. Ambiguità rifluita anche nel-la pratica analitica che, nelle sue diverse provenienzee nei suoi diversi sviluppi, è stata sempre attraversata

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19. C.G. Jung, Ricordi, so-gni, riflessioni, BUR, Mila-no, 1994, pp. 328-329.

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dalla preoccupazione del ritrovamento di una verità,oscillando tra la tentazione di un sicuro passaggiodall’oscuro al chiaro e l’attrazione per un’inquietama accorta sosta sulla soglia del chiaroscuro.

L’analisi come pratica e come teoria ha, del resto,una configurazione complessa, perché non può nonessere la convergenza contaminante di vari saperi earti: dalla scienza, alla filosofia, alla poesia, alla lette-ratura… Non per niente si diventa analisti dopo es-sere già medici o psicologi. Una volta (ora purtropponon più, per il tiranno spirito del tempo!) anche fi-losofi o letterati.

È allora possibile che la greca a-létheia “esprima” il“pensiero della cosa”, nel senso del genitivo oggetti-vo: e così abbiamo la verità ricercata dalla scienza. Eda un certo tipo di pratica analitica. Ma è anche pos-sibile il genitivo nell’accezione soggettiva: e allora è“la cosa a svelarsi” (o “ri-velarsi”), e abbiamo la veritàdella poesia. E di un certo tipo di pratica analitica, di-versa dalla prima. Dentro questa seconda possibilità,della verità non si fa esperienza nella sola luce dellarazionalità, ma sempre nel nascondimento, che maiva incontro ad esaurimento e ad esautoramento.

Heidegger, nel “Parmenide”, motiva la differenzadei percorsi possibili ricorrendo allo scarto semanti-co che sarebbe avvenuto nel passaggio dall’alétheiadei greci alla veritas dei latini. Così ne riferisce, acommento, Aldo Masullo:

“La veritas, secondo Heidegger, esprimerebbe l’idea della ve-rità quale volitiva decisione, funzione di autorità, effetto diviolenza ordinatrice, in contrasto con l’idea greca del-l’αλήθεια quale remissiva apertura allo svelarsi dell’essere co-me dono”.20

Anche il pensiero “rivelativo” di Pareyson, dallacui suggestione abbiamo sviluppato il presente lavo-ro, si colloca nel secondo dei solchi possibili:

“La verità ci viene incontro uscendo dal mistero solo per tor-narvi e restarvi”.21

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20. A. Masullo, Praticità eindifferenza, Il Melangolo,Genova, 2003, p. 72.

21. L. Pareyson, op. cit., p.26.

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La frase, intuitivamente semplice e logicamentecomplicata, come si addice ai discorsi ermeneutici,apre due ulteriori orizzonti: quello della natura delrivelare e quello del mistero. Orizzonti che, ritenia-mo, sono anche quelli più compiutamente caratteriz-zanti la tensione propria della pratica analitica.

Rivelare, dal latino re-velāre, suggerisce infatti unaduplicità di significato, almeno là dove consentiamoalle parole un potere evocativo, al di là della rigidascientificità etimologica: il re che accompagna l’ope-ra del velare esprime tanto l’azione di “togliere” il ve-lo che copre, quanto quella di “nuovamente” posi-zionarlo. Così la verità, in questa accezione che perHeidegger non esprime l’intero dell’occidente maraccoglie l’autentico della grecità, è uno s-velarsi masempre anche, di nuovo, un velarsi. La conoscenza èessenzialmente chiaroscurale. Ricerca, apertura, maicon-clusione. Nel nostro territorio di analisti, se l’“analisi in-terminabile” rappresenta un problema, lo“spirito analitico” è invece tale solo se in-terminabile,non solamente in senso cronologico ma soprattuttoin senso col-laborativo con altre forme di conoscenzae di esperienza di vita.

Pareyson parla inoltre di “mistero”, come luogo-dimensione da cui proviene e a cui fa ritorno la veri-tà. E il mistero è il vero luogo della ri-velazione, cosìcome l’abbiamo intesa. Mystérion era infatti in Grecial’esperienza di iniziazione alle verità segrete, che esi-geva un atteggiamento di discrezione, perché la loropiena “visione” non era possibile. Il verbo da cui de-riva il sostantivo è mýein, che esprime l’azione di chiu-dere gli occhi, del vedere e non vedere, come quan-do si è di fronte a ciò che si mostra ma mai intera-mente. In una visione che differisce dal comune, im-problematico, modo di vedere.

Un vedere, come quello che avviene in analisi, chetutela il nascosto e non lo vuole colonizzare, ma la-sciar essere. È questa, almeno ci sembra, la caratte-rizzazione peculiare dell’atteggiamento psicologico-

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analitico, junghianamente ispirato, nei confronti del-l’inconscio: componente della psiche e della realtànon interamente conosciuta e mai interamente co-noscibile. L’inconscio ermeneuticamente inteso, cherende aperti alla trascendenza (all’oltrepassamentorispetto al loro apparire) l’incontro con l’altro e la ri-cerca della verità.

In questo orizzonte di senso la pratica analiticanon può proporsi come tecnica, o come applicazionedi una sapere dato. Orizzonti, questi, necessariamen-te privi di apertura allo stupore dell’ulteriorità (e del-l’alterità), perchè costretti nella notorietà delle pre-messe.

In una feconda, ermeneutica, confluenza con laprospettiva fenomenologica, la pratica analitica è dia-logo con il fainomenon che, nella precisazione di Hei-degger, è un andare alle cose stesse, così come esse simostrano, in un apparire che tuttavia rinvia sempre

“[a un] non-manifesto non mai manifestabile per essenza (…).L’annunciante (…), in quanto emanazione di ciò che annun-cia, lo vela costantemente in se stesso. (…) Annunciante ema-nazione di qualcosa che nell’apparenza si nasconde”.22

Il fainomenon, nella pratica analitica, è la paroladel paziente, il suo sguardo, il suo gesto, il suo silen-zio, e le controrisonanze verbali e non verbali nel te-rapeuta. Esperienze mai interamente svelabili nel lo-ro manifestarsi, e neppure interamente riconducibiliad un significato noto (sottostante). È questo lo scar-to insaturabile che consente la relazione, possibiledove è accolta l’assenza e la parola diventa e-vocativae, per necessità prima ancora che per scelta, com-uni-cativa.

E la re-lazione non può non rimandare al relativo(l’etimologia è la medesima), alla paradossalità delrelativo messo a tema da Jung, teso non ad escludereogni possibilità veritativa (teorica ed esperienziale)ma a qualificarne la valenza di non esauribilità.

È questa l’accezione junghiana del relativo che

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22. M. Heidegger, Essere etempo, Longanesi, Milano,1971, p. 45.

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più ci interessa sottolineare in questa sede, accanto aquella, più scontata e da Jung stesso più esplicitata,del carattere soggettivo di ogni psicologia che, neldiscorso qui tratteggiato, assolverebbe il carattere perlo più “espressivo” della conoscenza. Ma il relativojunghiano è in realtà più ampio e concorre, anchenei suoi aspetti impliciti, a far incontrare parola ana-litica e “ri-velazione”. Il punto d’intersezione è pro-prio l’inconscio.

Ecco due passi di Jung, tra i numerosi citabili:

“Vi è quindi una coscienza nella quale predomina l’incon-scio, e vi è una coscienza nella quale domina la consapevo-lezza. Questo paradosso diventa immediatamente comprensi-bile non appena si rifletta che non esiste contenuto consciodi cui si possa affermare con certezza che esso è totalmenteconscio per qualcuno; un’affermazione del genere esigereb-be una totalità inimmaginabile della coscienza, e tale totalitàpresupporrebbe una totalità o completezza altrettanto im-pensabile dello spirito umano. Si giunge così alla conclusio-ne paradossale che non esiste contenuto della coscienza che non siainconscio sotto un altro aspetto. E forse non esiste neppure psi-chismo inconscio che non sia al tempo stesso conscio” 23

L’inconscio esige però una riformulazione rispet-to all’idea originaria:

“Secondo l’idea originaria di Freud, l’inconscio è una sorta diricettacolo, un arsenale di materiale rimosso, di desideri in-fantili e simili elementi. Esso è invece molto di più: (…) è lavita psichica prima, durante e dopo la presa di coscienza.24

La reciprocità tra coscienza e inconscietà (forse èpreferibile questo termine, per uscire dalle secche diuna visione topologica), l’essere in stretta relazionedi queste due modalità del conoscere e dell’esperireo, detto altrimenti, di queste due sfaccettature del-l’unica spinta ad accedere e lambire il senso, rappre-senta dunque il contributo più fecondo della psico-logia analitica al tema della “rivelazione”.

Jung ce ne ricorda anche il carattere di para-dos-salità, il collocarsi di questa ricerca (conoscitiva masoprattutto esperienziale) sempre a fianco o contro

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23. C.G.Jung (1947/1954),“Riflessioni teoriche sul-l’essenza della psiche”,Opere, vol. 8, Bollati Bo-ringhieri, Torino, 1976,p. 206.

24. C.G. Jung (1930), “Al-cuni aspetti della psicote-repia moderna”, Opere,vol. 16, Bollati Boringhie-ri, Torino, 1981, p. 39.

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(para), mai in coincidenza, rispetto all’opinione co-mune (doxa): collocazione che per il mondo grecoche ci ha partoriti rappresentava l’essenza della veri-tà (alétheia).

La pratica analitica, quando accetta di arrischiarsientro questo solco, forse consiste proprio in questoesercizio di religiosa laicità: apertura ad orizzonti dicambiamento e di smarrimento, esperienza di ap-prodo sì ma non definitivo, rinuncia a riconducibili-tà certe, fiducia in una verità che sempre ci superama su cui è sospeso il giudizio. E la para-dossalità, an-che storica, di raccogliersi (relĕgere, religāre, da cui: re-ligione) attorno alle dimensioni più misteriose del vi-vere pur mantenendo il ritmo del mondo (laicālem,da cui: laicità), non può che costringere chi pratical’analisi (come paziente o come terapeuta) all’oscil-lazione tra elitarismo e solitudine.

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Il pittore disse: “io penso per immagini.”Lo scrittore replicò: “ io invece immaginopensieri.”

Giulia non era capace di immaginareneppure le conseguenze delle sue azio-ni. Poteva davvero cacciarsi in guai seri.Eppure era intelligente, con una buonacultura, una certa scioltezza di linguaggio e una po-tenzialità creativa che mi lasciò stupefatta quando miregalò un suo quadro. Anche una discreta capacitàlogica, quando non si perdeva in libere dis-sociazioninel bel mezzo di un discorso e spariva nelle sue fan-tasticherie. Dovevo prenderla metaforicamente permano e ricondurla a noi. Ci misi un po’ a capire cheanche mentre stava parlando le capitava di finire inun vuoto, che riempiva delle più strampalate fanta-sie, alla stessa stregua con cui riempiva il vuoto ab-buffandosi con tutto quel che trovava nel frigo. Co-me se quel senso di vuoto si introducesse nella sua co-scienza e, approfittando della mancanza di energiadell’io, creasse un abbassamento del livello mentale.In quel vuoto, che lei sempre e da sempre tentava diriempire ora con fantasticherie, ora con cibo — tuttinutrimenti non soddisfacenti — precipitava anche ilsuo senso di essere reale.

L’accenno a Giulia è solo un’introduzione per ri-prendere una distinzione tra immaginazione e fanta-sia. L’immaginazione non va confusa con l’immagi-nario inteso come fantasia, buono come distrazionedai problemi o come rimedio all’ansia e allo stress. Ilmondo dell’immaginazione è analogo a quel luogodi congiunzione tra conscio e inconscio cui la fun-zione trascendente permette l’accesso. La funzionecognitiva dell’immaginazione permette a tutti gli uo-mini di esistere in relazione simbolica l’uno con l’al-tro, consente la creazione di una rigorosa conoscen-za analogica. Henry Corbin chiama questo mondo

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L’interpretazionecome visione

immaginaleAnna Benvenuti

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mundus imaginalis e parla dell’immaginazione attivacome di uno specchio, che riflette il luogo epifanicodelle immagini del mondo archetipico.1 Winnicot de-finì spazio transizionale lo spazio psichico dell’imma-ginazione. Jung descrive la capacità di simbolizzare,immaginare e giocare come funzione trascendente,come l’emergere dell’immaginazione simbolica dalconflitto tra conscio e inconscio.

Gran parte del lavoro di analisi ha a che fare conimmagini, dai sogni, ai ricordi, alle libere associazio-ni, immagini tradotte in parole, metafore, racconti,descrizioni, narrazioni. Pensieri per immagini e pen-sieri immaginati. È strano come poca attenzione ven-ga riservata all’immaginazione, anche se come scriveTrevi:

“Nel momento in cui la psicologia depone la sua hybris discienza razionale della natura, di scienza empirica con meto-dologia galileiana, essa riapre le porte all’esperienza dell’ani-ma, alla frequentazione del limite e del paradosso, infine allapratica dell’immaginale (...) in quella provincia privilegiatadell’immagine che è il simbolo (...). Per Jung il simbolo nonè segno che rimandi a un significato già dato, ma configura-zione ambigua e indistinta del non ancora (...) la funzionedel simbolo è (...) evocazione anticipatrice del futuro”.2

Eppure esiste ormai la consapevolezza che granparte delle patologie nascono da una incapacità asimbolizzare, da una de-simbolizzazione.

Cosa accade in analisi se un paziente non è capa-ce di immaginare? Anzitutto ci si domanda perchénon lo sia, poiché la capacità di immaginare, come lacapacità simbolica, appartiene alla natura umana.

“(...) la ricchezza immaginale dell’uomo…fa parte di unastruttura fondamentale capace di determinare proprio quel-le condizioni che costituiscono l’individuo come produttoredi cultura. La vita immaginale dell’uomo è parte della strut-tura e non della sovrastruttura”.3

Un’ ipotesi è che possa dipendere dallo sviluppodi un io non abbastanza differenziato per potersi

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1. H. Corbin, Corpo spiri-tuale e terra celeste, tr. it.Adelphi, Milano 1986.

2. M. Trevi, Metafore delsimbolo, Cortina, Milano1986, pp. 94, 98.

3. M. Trevi, Per uno jun-ghismo critico, Fioriti, Ro-ma 1987, p. 52.

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confrontare con le immagini provenienti dall’incon-scio, le uniche che possono funzionare come attiva-tori di energia e quindi di cambiamento. Senza la ca-pacità di immaginare, che apre la porta sul simbolo,l’uomo sarebbe ancora nelle caverne.

L’ipotesi sostenuta da A. Plaut in un suo articolodel 1966 dal titolo Riflessioni sul non essere capaci di im-maginare4 è che cure materne insufficienti non per-mettono al bambino di sviluppare un senso di realtàdel proprio essere, della propria esistenza e del pro-prio corpo. In tali situazioni non è possibile connet-tere gli stati emotivi al proprio io, poiché non c’è sta-ta l’esperienza di un contenitore che possa contener-li. Possono esserci solo fantasie che riempiono glispazi dei desideri insoddisfatti.

Oggi quasi ogni forma di patologia viene collega-ta a uno sviluppo disturbato delle precoci relazionioggettuali. Conosciamo tutti la grande produzione diletteratura a questo proposito: da Bion a Winnicott, aFonagy, a Bowlby, a Fairban...

C’era in Giulia un “vuoto” di madre? Di sicuro c’e-ra in Giulia un vuoto di relazione. Provammo a met-tere insieme un Tu ed un Io, dove questo Tu venivarispettato nelle sue paure, nelle sue buffe allegrie,nei suoi sogni, a volte un po’ folli, nei momenti delledifferenze; dove questo Tu veniva ripreso e ri-raccon-tato nelle sue distrazioni pericolose; dove l’Io mante-neva la sua inevitabile e confortante (per l’altro)asimmetria; dove l’Io lo teneva nella sua mente e do-ve il Tu gli apriva pian piano, nel corso di anni, lastanza della sua verità, la stanza della sua paura, del-la speranza, della confidenza. Dove il Tu cominciavaad esistere per diventare un Io a sua volta. Dopo qual-che anno di analisi sognò di avere un bambino pic-colo per mano e quando il bambino si allontanavatroppo e si metteva in situazioni pericolose il suobraccio si allungava come fosse stato di gomma, cosìda poterlo sempre salvare. Imparò a contenersi, aguardarsi, anche nel senso di badare a stessa. Il bam-

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4. A. Plaut, “On not beingable to immagine” in Ana-lytical Psychology, A modernscience, The Library of An-alythical Psychology, Vol.1, 1973.

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bino ritrovato divenne progetto di vita, capace di im-maginare domani.

In qualche modo l’altro ti ha chiesto di rispec-chiarlo. Ti ha chiesto di vederlo in trasparenza, oltrel’immagine che lui ha costruito di sé, oltre l’assenzadi un’immagine di sé, ma con il sentore che da qual-che parte deve pur esserci, se la sto cercando. Ti chie-de di stare a guardare. E non bisogna fare confusio-ne, perché l’altro, o l’inconscio dell’altro, gli indizi teli ha dati tutti, attraverso i sogni, attraverso le resi-stenze, attraverso le lamentazioni, attraverso le ag-gressività, attraverso gli sguardi, attraverso la narra-zione della sua vita, quella di ieri e quella di oggi equella che ha bisogno di un Tu per essere racconta-ta. Dopo aver visto e sentito tutto ciò si può parlare diinterpretazione. L’interpretazione nasce da una vi-sione, non da una teoria. Devo aver visto non il bam-bino abbandonato, ma quel bambino abbandonato,emerso come visione chiara da quella storia e non daun’altra storia. Devo aver visto l’ espressione dellapaura in quel volto e non l’idea dell’avere paura.

La realtà psichica possiede lo stesso impatto dellarealtà fisica, perché lo spazio interno dell’analistanon è solo mentale, ma fisico. Dovrebbe saper pas-seggiare nel sogno di un altro, se è di grandi spazi, ve-dere il buio se è buio, cogliere le espressioni dellepersone, come in una scena teatrale cui sta assisten-do. Ci sono sogni o racconti che ci fanno venire let-teralmente i brividi: perché in quel caso siamo entra-ti nella realtà psichica, in una prossimità psichica.

È così che si attivano i neuroni specchio, attraver-so la vista. Scrive Luigi Zoja nel suo libro La morte delprossimo:5

“(...) I “neuroni specchio”, però, hanno un comportamentoparticolare. Per entrare in funzione non richiedono un’attivitàdel soggetto: basta che i sensi (in genere la vista, che è quellopiù sviluppato) percepiscano un vicino che compie quell’at-tività. Così se il vicino mangia un frutto, la scimmia inizia a sa-livare e a muovere impercettibilmente le mascelle, anche se

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5. L. Zoja, La morte delprossimo, Einaudi, Torino2009, p. 19.

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non lo sta masticando lei. Ma anche se il vicino si contorce egrida per una ferita, il soggetto può aggrottare il viso, comese stesse soffrendo a sua volta: nel frattempo i suoi neuroni ri-fletteranno , come uno “specchio” quelle esperienze, che nonsta compiendo ma con cui è entrato in risonanza (...)”.

I neuroni specchio ci confermano che noi reagia-mo a ciò che vediamo. Possiamo vedere attraverso isentimenti che un’immagine ci suscita. Accade anchesemplicemente se andiamo al cinema, o a teatro, o seleggiamo un libro che ci coinvolge. Ogni tanto un pa-ziente chiama “film” un sogno “ stanotte ho avuto unbel sogno. Nel film succedeva…”. E non va inteso néin senso svalutativo, né difensivo, è che ha la pre-gnanza di un film che ci ha toccato.

Credo che solo così si possa entrare nella vita in-teriore dell’altro e fare da ponte porgendo all’altro,all’interno di un contenitore che è la relazione anali-tica, le immagini che non è in grado di vedere o quel-le che non è in grado di integrare. Nasciamo in unarelazione duale ed esistiamo perché siamo stati visti.Si dice che sia lo sguardo della madre a collocare ilbambino nel mondo. E comunque senza relazionel’essere umano si sente precipitare nel vuoto.

Lucio questo l’aveva intuito benissimo dall’altodei suoi vent’anni. L’aveva scoperto da solo: quandoin strada o al supermercato o in autobus aveva unodei suoi feroci attacchi di panico si accostava a qual-cuno e chiedeva una cosa qualunque: l’ora, la strada,la fermata per… Era sufficiente questo piccolo con-tatto umano per sentire la terra sotto i piedi tremareun po’ meno.

Il dialogo tra paziente e analista permette unascrittura a due mani, dove a volte l’analista presta lasua mente all’Io del paziente, a volte presta il suoascolto alle immagini che emergono dall’inconsciospesso solo per tradurle in parole, non per scioglier-le in interpretazioni.

Da ciò nasce una narrazione trasformativa, unastoria che cura, un nuovo testo narrativo, per usare le

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parole di Trevi:

“Il testo inedito che lascia intatti i contenuti dell’Io comequelli dell’inconscio, ma li combina in qualcosa di nuovo, ap-punto li compone come un testo insolito. Avviene così unamodificazione della personalità: la coscienza è ampliata inquanto innumerevoli contenuti inconsci diventano coscientie viene gradatamente demolita l’influenza dominante del-l’inconscio”.6

È questo ampliamento che fornisce energia all’Io,che gli permette di trovare o ritrovare lo slancio vita-le, la forza di volontà bloccata. L’analista assumequindi il ruolo di attivatore di immagini, non quellodi risolutore di problemi.

“Privi della facoltà di immaginare non avremmo accesso aquell’‘intermondo’ dove i contenuti inconsci trovano espres-sione e dove prendono forma il non-ancora detto e il non-an-cora pensato, dove le cose possono essere colte non solo nelloro essere così come sono, ma anche nel modo del poter es-sere altrimenti”.7

Warren Colman in un suo articolo del 2006 “Ima-gination and the imaginary”,8 riprende l’articolo diPlaut citato sopra e fa riferimento anche ad altri la-vori pubblicati nel Journal of Analitycal Psychologynegli anni ’60 sulla relazione tra immaginazione atti-va, transfert e sviluppo dell’Io. Anch’egli proponeuna distinzione tra immaginazione (imagination) efantasticheria (imaginery) seguendo la traccia diCorbin.

Colman sostiene che la capacità di immaginarepuò essere inibita in modi diversi, e distingue coloroche non sono in grado di immaginare da coloro che non vo-gliono immaginare.

Se la capacità di simboleggiare nasce dallo svilup-po di uno spazio creato con la rêverie materna, puòaccadere che pazienti particolarmente disturbatimanchino di tali fondamenta. In questo caso non so-no in grado di immaginare e l’analista può fare daponte tra Io e inconscio attraverso la propria rêverie

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6. M. Trevi, Adesione e di-stanza, Melusina, Roma1991, p. 55.

7. A. Benvenuti, “‘Verità’e ‘Realtà’ in analisi”, LaPratica Analitica, Moretti& Vitali, Bergamo 1993,vol. 8.8. W. Colman, “Imagina-tion and the imaginery”,Journal of Analytical Psy-chology, vol. 51, n. 1, Feb-ruary 2006.

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all’interno della relazione analitica. Esistono pazientiinvece che hanno una certa forza dell’ io in alcunearee, ma usano la loro capacità immaginativa per di-fendersi da aspetti di realtà che riguardano l’intolle-rabilità dell’assenza, del vuoto, della perdita. Questipazienti in qualche modo sanno di negare la realtà,ma desiderano negarla, anzi non possono fare a me-no di negarla. In questo caso l’immaginazione si ri-duce a fantasie o fantasticherie che mancano dellaprofondità e della sostanza della vera immaginazione.

Sara non riuscivo neppure io a vederla, né a sen-tirla davvero presente. Non perché non parlasse, an-zi parlava molto, mi sommergeva con fiumi di parole,tanto che mi domandai se la mia incapacità di vede-re fosse dovuta alla visione offuscata di chi sta sot-t’acqua: era sempre tutto così opaco. Al Centro dipsichiatria cui si era rivolta le avevano detto che nonaveva problemi psichiatrici e che per lei era adattauna psicoterapia. Dal test di Rorschach era emersauna sua emotività eccessiva rispetto alla realtà dei fat-ti, che il pensiero era però in grado in un secondomomento di correggere. La sua storia era la storia diuna bambina nella cui famiglia era il padre che pro-teggeva la madre e i figli alla sua maniera: con il de-naro. Nel senso che qualunque problema poteva es-sere risolto concretamente, comprando una soluzio-ne. Di vari anni più piccola del fratello, Sara crebbecon una sensazione di solitudine. Comunque crebbecome tanti bambini: nessun grosso problema a scuo-la, socializzazione nella norma, una esagerata suscet-tibilità nelle relazioni con le amiche; si offendeva perpoco e troncava subito la relazione. Un grosso tarlo :si vedeva fisicamente sempre “piccola”, pur essendo lasua statura nella media/piccola normale. In terzamedia un disturbo che il medico di famiglia chiamò“nervoso”, una tosse secca che durò un anno intero.Poi più nulla. Un liceo classico, buoni risultati allamaturità, a vent’anni il primo grande amore ricam-biato che dura quattro anni, poi lui la lascia. È il pri-

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mo problema che neppure suo padre poteva risolve-re con il denaro.

Quando arriva in terapia ha quasi trent’anni, ma èancora nel lutto non elaborato di quella perdita. So-no passati cinque anni e non ha mai più avuto una re-lazione, né ha mai più investito in una vita propria.Ma non lo sa. L’Università si trascina, le amicizie so-no poche, le recriminazioni molte, gli alibi per nonfare altrettanto forti e sostenuti da abili razionalizza-zioni con le quali non provo neanche a competere. Ilcorpo disarmonico, pesante, anche se non proprioobesa: cammina con uno strano movimento dellegambe, innaturale, un po’ meccanico, come un lentometronomo. Un bel faccino, bionda, grandi occhi az-zurri, lineamenti regolari, un sorriso aperto, del tut-to scisso dal suo corpo. È ferma a quella perdita, nonfa che parlarne, il mondo da allora — e sono passaticinque anni — non è più lo stesso. Eppure non è de-pressa, non nel senso clinico con cui definiremmouna depressione. Perché lei desidera, anzi pretende,che il passato venga cancellato e tutto ricominci dac-capo. Pretende che qualcuno la renda felice. Ed è l’u-nica cosa che le interessa davvero. Tutta la sua ener-gia è bloccata lì, tutto il suo investimento vitale. Stu-diare, pensare a un lavoro, a una propria indipen-denza, a una propria vita, in poche parole a un futu-ro, sono parole vuote. Un giorno mi porta un sogno,una sola immagine, in realtà: una sua immagine dapiccola con un vestitino rosso, dove sembra una bam-bola. Poi ricorda che c’era davvero una sua foto dapiccola con il vestitino rosso dove sembrava una bam-bola. Felice come una bambola. Mi domando se ab-bia mai smesso di vivere nel mondo delle bambole, seabbia mai smesso di vivere in una favola il cui finale è“e vissero felici e contenti”. No, non aveva mai smes-so. E non voleva smettere. Viveva nell’attesa che unprincipe azzurro la rapisse e la portasse nel suo re-gno. Questa fantasia — difensiva nei confronti di unarealtà che non aveva mai potuto accettare — occupava

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tutti i suoi sogni ad occhi aperti e non. C’era un’osti-nazione nel suo inconscio e nella sua coscienza chemi apparve insormontabile. Ogni frustrazione eracompensata da una fantasia consolatoria e magica.Per cui nessuna frustrazione veniva vissuta, o elabo-rata, né permetteva un accostarsi alla realtà. C’erasempre e solo il lamento nei confronti di un mondoche non avrebbe dovuto essere come era. La realtàera troppo dolorosa e lei era incapace di sopportarla.Cominciai a seguire l’immagine della bambola.Quando la bambola dentro di lei iniziò a diventareuna bambina, un po’ come Pinocchio, alla bambinaerano concessi poteri magici. Dopo non ricordo qua-le sconfitta sognò di essere in una notte magica, conuna grande luna piena, davanti alla statua di unabambina. Lei toccò la statua come per consolarla. Al-lora divenne una bambina vera che cominciò a vola-re. Volò fino a stagliarsi nel mezzo della luna, poi tor-nò al suo piedistallo e alla sua esistenza di statua. Perquanto tentasse di trasformarsi in umano, il suo desi-derio infantile la riportava al suo aspetto marmoreo.Per molto tempo stetti a guardare le immagini chescorrevano nella sua fantasia, immagini che non fa-cevano che ripetere ossessivamente il desiderio di ri-torno al “paradiso” precedente. Non c’era mai dolo-re per la perdita, ma solo rabbia. Per molto tempo milimitai a riflettere la realtà psichica che emergeva dalsuo blocco, senza nessuna accoglienza da parte di leiche non fosse puramente mentale o che si trasfor-masse in una cognizione emotiva. Lentamente, mamolto lentamente (parlo di anni), qualcosa cominciòa cambiare. Divenne un po’ più attiva, cominciò astaccarsi un po’ dalla famiglia. In una seduta, sullesue solite lamentazioni, le dissi che forse continuan-do ad aspettare l’arrivo del “salvatore” rischiava unaperenne delusione. La seduta successiva mi portò unsogno: “Sto volando, non troppo alto, infatti posso ve-dere bene il paesaggio e le case sotto di me, per rag-giungere il mio amico Salvatore che mi sta aspettan-

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do all’aereoporto, mi pare di Venezia, dal quale do-vremmo poi partire entrambi per un bel viaggio. Io,sempre volando, arrivo lì, cerco Salvatore ma nonc’è, non capisco se è andato via e non mi ha aspetta-to, o forse non è mai venuto. Mi fa proprio male”. Miguardò con un sorriso un po’ triste, come a dire cheaveva capito. La consolai dicendo : “meno male chesta volando abbastanza basso, almeno un po’ di con-tatto con la realtà l’ha mantenuto”. Fu la prima voltache nel suo inconscio si attivò un’immagine che ri-specchiava la mia immagine di lei e che permetteva alei di cogliere emotivamente la sua illusione e la suadelusione. Poteva lei, a partire dalla possibilità di ve-dersi, guardare in avanti, invece che sempre indie-tro? Poteva lei accettare il dolore che viene dal lasciarandare un sogno impossibile’. Ancora non lo so.

“ Perché mai non ci avvediamo che un caso clini-co è una storia, che parliamo della vita nel linguaggiodi questa particolare forma narrativa, che creiamoquel che Jung ha chiamato una ‘storia che cura’, uncontesto immaginale per la vita che stiamo descri-vendo, per cui quella vita può immaginare se stessa inun altro modo? Perché dovrebbe essere l’unico, il pa-ziente, a dipingere per sé una nuova esistenza? Nonpotrebbe il terapeuta, scriverne in modo immagina-tivo, in un’altra storia?”9

Stefano mi raccontava che non riusciva a prende-re una decisione, neppure quella di fare un viaggio,se non riusciva a immaginarsi in quella situazione oin quel luogo.

Ieri Maria mi ha detto che il suo cervello non ri-esce più a immaginare un domani diverso e che for-se c’è qualcosa nel suo cervello che si è atrofizzato...

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9. J. Hillman, Trame perdu-te, Cortina, Milano, 1985,p. 14.

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Nel delirio paranoide, prima ancora dell’e-ventuale bizzarria dei contenuti, ciò che piùcolpisce l’osservatore è la certezza assolutacon cui questi contenuti sono comunicati.Tale certezza viene interpretata, sia dal sog-getto delirante che dall’ascoltatore, comeespressione della veridicità di cui questi con-tenuti sono caricati dal soggetto. Ovvero, ilsoggetto considera vere le sue rivelazioni,così come l’osservatore è certo che il sog-getto consideri come assoluta verità ciò cheva enunciando.

Quando capita che l’osservatore sia unanalista, il criterio di verità diventa: “Il pa-ziente è convinto che ciò che rivela è vero, elo è, ma non nel senso in cui lo intende.”Viene in tal modo posto il problema del senso diquanto viene detto. Ciò pone due problemi: primo, ilpaziente è spesso consapevole che la sua verità non ècondivisa, e quindi con estrema circospezione si apri-rà alla comunicazione; secondo, l’analista, consapevo-le che il contrapporre verità a verità non porta ad al-cuna trasformazione, dovrà trovare una terza via fra ilproporre una verità più forte di quella del paziente, el’acquiescere alle mere enunciazioni del paziente.

Il caso clinico che presento mostra l’effetto cheun trattamento analitico può avere su un pazienteparanoico. Effetto di costruzione di un senso condi-viso fra paziente e analista, o meglio assorbito dal pa-ziente. Questo senso, inglobato nel delirio, gli forni-sce nuovo materiale; la produttività delirante noncambia, ma essendo costruita su un materiale condi-viso, mantiene il paziente in una bolla di normalità.

Decenni fa, assistendo alle conferenze di un notopsicoanalista, mi capitava di imbattermi, fra gli ascol-tatori, in un discreto campione di psicotici, oltre ainumerosi nevrotici. Tra questi psicotici, vi erano deiparanoici, a loro volta in cerca di ascoltatori.

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Un deliriodi verità.

Osservazionisu un caso

di schizofreniaparanoide

(Caso clinico di |F|)

Giuseppe M. Vadalà

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Uno di questi, |F|, di circa 33 anni, dopo un brevecolloquio esplorativo, decide che potrei essere in gra-do di capire il suo messaggio, e mi consegna unoscritto in cui spiega la verità, sia di quella che lui stes-so chiama la sua follia, sia del mondo.1 |F| è stato unbrillante ingegnere elettronico, subito coinvolto, do-po la laurea, in progetti di ricerca universitari. La suacarriera si era però arenata, tutta la sua attenzione eproduttività essendo stata assorbita dal delirio.

Lo scritto di |F|, inizia con la seguente dichiara-zione di principio:

“Se è vero che vivere vuol dire operare nel mondo perchè ildestino del mondo si compia e se è vero che questo tempo ènuovo per riporsi il problema dell’esserci nel mondo, e questoè vero perchè così io sento e comprendo, il mio compito non puòche essere quello di aiutare, aiutandomi, a riporre il proble-ma della coscienza dell’esserci affinchè l’uomo, in quanto co-scienza del mondo, riconoscendo il senso della creazione,realizzi la possibilità che gli è data di portarla a compimento. Perchè questo si realizzi è sufficiente che la coscienza dell’es-serci diventi totale in un unico essere. Totale vuol dire per me che se ogni essere partecipa alla vitadel mondo e ha un compito che gli è dato come possibilitàmassima da svolgere fra il nascere e morire, dal sasso all’uo-mo, e cioè è totale nella sua parzialità, vi sarà necessariamen-te un essere, e non può che essere un uomo, a cui, in quantopartecipante del desiderio di divenire di ciascun essere, è data la pos-sibilità di portare la singolarità ad essere totalità assoluta, cioè a rac-chiudere in sé per tutti il destino del mondo” (1) [Corsivi di GV].

Notiamo la chiarezza e il rigore dell’argomenta-zione, la precisione con cui |F| definisce le parole chel’ascoltatore potrebbe fraintendere, e anche la mo-destia con cui i concetti sono offerti al lettore. Notia-mo che lo stile esistenzialista (quello di Heideggerdopo la Kehre: l’esserci assume in sé lo svelamentodell’essere) fa da cornice all’assunzione da parte di|F| di due funzioni: quella di criterio di verità, e quel-la di portatore del destino dell’essere (essendo in nu-ce proprio questa seconda funzione, la verità).

Avendo dichiarato a noi la sua posizione, |F| può

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1. |F| (con questo simbo-lo indico il soggetto inquestione), non sarà l’u-nico a consegnarmi lesue memorie. Il numerofra parentesi tonde indi-ca la pagina del suo scrit-to (82 pagine ordinata-mente battute a macchi-na, ciascuna di circa unacartella e mezza). |F| ha,mentre scrive, 32 anni.

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cominciare a narrare, con ammirevole sincerità, ilsuo percorso di scoperta della verità.

Veniamo a sapere che a 23 anni, un anno prima dilaurearsi, |F| si accorge improvvisamente di non ricor-dare nulla del passato e di non vedere un futuro: èquando muore sua madre. |F| non riesce a descrivereil dolore: qualcosa di impossibile, atroce, semplice-mente atroce. Viene assalito da pensieri di morte, perpoi accorgersi, con orrore, che non ricorda nulla, cheil suo tempo è senza passato. Riappare soltanto ciòche sua madre ha detto alla morte vicina: — |F| sto ma-le — Gli sembra orribile, perchè uno quando muore,pensa, deve lasciarti un segreto, deve dirti qualcosa,non può parlarti del suo dolore così, mentre va via la-sciandoti solo nel mondo. Pensa anche che solo unbambino può capire il dolore dell’uomo a cui muorela madre (3).

La morte della madre lascia un vuoto incolmabileche cancella passato e futuro. Questa esperienza divuoto mortale, il crollo psicotico da cui origina il de-lirio, è un’esperienza infantile: solo un bambino puòcapirla. Ma questa morte lascia un vuoto (di passato efuturo) perché non lascia al soggetto un sapere (unsegreto): la scomparsa della madre, di un essere dicarne e ossa che entra come tutti nel nulla, per il bam-bino |F| significa la scomparsa di ogni tempo e me-moria perché al di fuori di lei è il nulla. Se non vuolemorire, se non vuole essere anche lui ingoiato dal nul-la, |F| deve trovare il segreto, e così colmare il vuotoinaccettabile: questo segreto si chiamerà “la verità”.

Il primo passo, consiste nel dare senso all’ingiusti-zia subita perdendo la madre: lo fa, riconoscendo lasua insufficienza ad amare la madre, “perché piccolo,come tutti i bambini quando vengono al mondo” (4).Analogamente a molte teodicee, l’ingiustizia delmondo viene reinterpretata come una più profondagiustizia: in realtà il bambino, |F| stesso, non ha ama-to a sufficienza la madre (forse, diremmo, l’ha ancheodiata). Non capiamo, per ora, la spiegazione di que-

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sto scarso amore: “perché piccolo”.Quando |F| ha 25 anni, il padre decide di rispo-

sarsi: la sua reazione (puramente interiore, non ma-nifestata a nessuno) è terribile, non accetta una cosacosì. Questo secondo matrimonio è la confema diqualcosa che, senza saper bene il perchè, |F| ha sem-pre conosciuto: il padre non ha mai amato sua madre(7). Così anche il padre si mostra incapace di amoreper la madre: madre degna di immenso amore, e nonamata dai suoi due uomini, padre e figlio. L’odio ver-so il padre, sottinteso dalla reazione terribile di |F|, cisuggerisce però anche una rabbia smisurata che |F|prova verso se stesso. Verso il padre, la rabbia ha dueragioni: perché rivale d’amore di |F|, e perché inde-gno depositario dell’amore materno; verso se stesso,perché anche |F| si è mostrato indegno amante dellamadre, da cui giustamente è stato separato.

All’odio terribile segue una lacuna nel racconto di|F|, lacuna che dice più di qualsiasi possibile descri-zione: è un periodo vuoto. Sono gli anni dell’inizio(abortito) di carriera universitaria, e dell’unica rela-zione sentimentale di una certa durata: una ragazzaconosciuta a 24 anni, un anno dopo la morte dellamadre. La sceglie dopo aver sentito che questa ra-gazza ha simpatia nei suoi confronti, perchè gli ri-corda qualcosa di sua madre: “l’assunsi come coleiche doveva sostituirla nella mia vita” (17). La relazio-ne, platonica, dura tre anni, mentre |F| ha frequentie fugaci rapporti sessuali con altre donne.

Il vuoto lasciato dalla madre viene colmato conuna adeguata sostituta, che viene assunta quasi fosseuna dipendente dopo presa visione del curriculum vi-tae. Assunta scientemente come sostituta, si rivela tan-to adeguata da essere coperta dallo stesso tabù del-l’incesto. |F| può iniziare una vita sessuale, in appa-renza abbastanza normale data l’epoca e l’età, al difuori del rapporto privilegiato con la fidanzata-ma-dre, che sempre comunque resta il polo di riferi-mento e la base sicura cui ritornare regolarmente. |F|

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stabilisce una vita sessuale (con le “altre ragazze”) da“cocco di mamma”, salvo il fatto che la “mamma” èun’altra ragazza essa stessa. Una vita sessuale (quellada falso “cocco”), che si sovrappone alla falsità dellafigura materna, quindi una vita indipendente in mo-do doppiamente falso.

Sono gli anni, dunque, del tentativo di costruireuna vita esteriormente normale, tentativo lacerato dapensieri di morte che affiorano dall’“ombra” nera incui vive (2); anni, questi fra i 23 e i 27, di costruzionedel delirio, da intendere come ritessitura di un realeche è stato disgregato dal lutto.

A 27 anni, quando crolla tutto questo edificio fon-dato sul falso, inizia un periodo terribile, in cui co-minciano a crollare quelle cosiddette certezze che siporta dentro e in cui fantastica di guardare il mondoper quello che è. La prima “certezza” a crollare èquella sull’esistenza della Verità (17). Crollata questa,|F|, novello Cartesio,2 dovrà farsi scopritore e porta-tore di una nuova certezza di verità.

La lettura dei filosofi non porta alcuna luce: total-mente sconcertato, conclude che nessuno di costoroha mai detto la verità. Questa amara constatazione,però, diventa una liberazione quando, in preda all’e-saltazione, decide che, se nessuno ha detto la verità,dirà lui la Verità (18). Dunque, sarà l’Io a (ri)co-struirla.3 Verità che non esita a rivelare a |F| il voltonascosto della vita quotidiana: si guarda intorno, esceper le strade e guarda la gente andare, venire, e glipare che non abbia molto senso tutto questo, che gliuomini si trovino insieme ormai non chiedendosi piùmolto che cosa stiano facendo, che l’angoscia sia rea-le, esista, sia magari latente ma impregni ogni essereche sta nel mondo. Ormai vede tutto sempre più ne-ro, riesce a percepire solo la sua angoscia e il suopianto, che giustifica però con questa sua percezionedi un mondo esterno soffuso di caoticità, frettolosità,sbandamento (19).

Non possiamo negare che, in questa atmosfera di

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2. Cartesio ventitreenne:“X novembris 1619, cumplenus forem enthusia-smo, et mirabilis scientiaefundamenta reperirem”,e narra di sogni e di visio-ni che resero agitata lanotte.

3. Nel nostro tempo, o al-meno per noi intellettua-li piuttosto smaliziati, èsconcertante sentire qual-cuno esprimersi in tonicosì apodittici: ma certitoni non sono privilegiodel delirio. Non ci ricor-da forse, il nostro |F|,l’austero Wo Es war, sollIch werden di Freud, dovel’Io si fa soggetto di unaverità che parla per tra-mite suo?

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derealizzazione in cui vive |F|, è presente un fondo diverità: che l’angoscia e l’alienazione sono una plausi-bile dimensione di interpetazione del vivere indivi-duale e sociale. Il problema di |F| è che l’angoscia delmondo lo invade senza che egli riesca a difenderse-ne, e che la sua personale angoscia, oscura nelle ori-gini e nel senso, invade il mondo per cercarvi sensoe origine.

In questo momento drammatico della sua vita, sulfinire dei 27 anni, in cui il senso sembra scomparire,un giorno |F| riesce a provare una gioia profonda: èquando vede “il cielo fra le gambe di un uomo” (19).Gli sembra una cosa così bella, che si mette a fare sal-ti per strada dicendo: “Ho visto il cielo fra le gambedi un uomo e tutti gli uomini sono immersi nel cielo”(20). Questi momenti estatici tornano ogni tanto e lorafforzano, giacché per lui significano che qualcosadi positivo avviene. Questa rivelazione gioiosa è mol-to singolare, e siamo portati a ritenerla un punto disvolta nella costruzione del delirio. Nel momento ditotale non senso delle sue percezioni, |F| vede “il cie-lo fra le gambe di un uomo”. Prescindendo dal con-tenuto reale di questa percezione, resta da indivi-duarne il senso simbolico. Abbiamo letto che tutti gliesseri sono impregnati di angoscia, e vivono nellacaoticità; ora il cielo fra le gambe di un uomo, cioè ilvivere di quest’uomo sullo sfondo del cielo, implicaper |F| che tutti gli uomini vivano in cielo, intuizioneche trasforma l’atmosfera di non senso in un tripu-dio di gaudio. Cosa è successo?

Questa nostra domanda è, implicitamente, la stes-sa che deve essersi posta |F|. E, in mancanza di unapossibilità di rispondervi, cioè di dare senso all’espe-rienza percettiva, il male continua. Anzi, esplode. Iperiodi positivi durano sempre di meno, lasciandospazio ad un’angoscia tenebrosa; vede tutti gli uomi-ni da soli, e non riesce più a capire per che cosa vivaciascuno. Gli sembra di essere uno stupido, che si il-lude a cercare il senso nelle cose, e si convince che

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nella vita il modo giusto sia un altro, quello di affer-mare se stessi nel modo più violento possibile controgli altri, senza nessun pudore. Si dice: “Questa è lalegge della vita, anche gli animali fanno così fra di lo-ro, una specie vive distruggendo l’altra, devi ammet-tere che la forza regola il rapporto tra gli uomini esmetterla di spaziare all’interno del sapere, della ri-cerca del senso, del tutto, del vero, come se ci sia unvero da scoprire nel mondo; riconosci quindi che tisei illuso e agisci di conseguenza” (20).

Emerge, come nuovo tentativo di dare senso al(suo) mondo, una dimensione finora nascosta di |F|:la distruzione dell’altro. È discutibile se si tratti diuna pulsione preesistente che solo ora viene alla lu-ce. Il problema di fondo però sembra essere quello ditrovare saldi ancoraggi alla e per la realtà, qualcheelemento che renda stabile il mondo percepito da|F|: infatti, la frase che ripete più spesso in questo pe-riodo (fine 27 anni) è “certo, certo”. Quasi digri-gnando i denti, ci dice, inorridendo per la paura diperdere ogni certezza, si aggrappa disperatamente aquesta piccola parola (21). Da questo punto di vista,l’aggressione come legge della vita equivale a qual-siasi altra affermazione: l’importante per |F| è trova-re la certezza; quale sia la verità acquisita è seconda-rio e accessorio.

Il percorso continua, e ora la “verità” progressiva-mente si orienta come verità dell’altro. Invece di es-sere sempre preoccupato di sé e della sua “mancan-za”, |F| si volge alla supposta mancanza dell’altro. Si-no ad ora, aveva ritenuta vera ogni cosa che l’altro di-ceva: ora, intende risalire alla cause ultime del parla-re ed agire di questo “altro”. E anche nell’altro trovaun non senso (come abbiamo visto), ma superficiale,perché questo non senso copre un senso (22). Do-vremo più tardi arrivare a capire quale.

Questo delirio, iniziato con la misteriosa visionedel “cielo fra le gambe” (altro mistero per noi), e cheora continua paranoicamente con la scoperta del ve-

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ro senso degli altri, per un certo verso è positivo, giac-ché dà sollievo a |F|, immerso in un mondo di caos.Gli manca però un criterio oggettivo, condiviso conalmeno un altro. Per questa ragione, e per esercitarsi(nella sua indagine sul senso dell’altro) su un “altro”specifico, |F| ritiene opportuno andare da uno psi-coanalista, il quale ha buon gioco, come comprensi-bile, a prendere alla lettera le parole di |F|. Per |F|,questa presa in carico da parte di uno psicoanalista si-gnifica dare un senso e dunque un valore di verità al-le proprie creazioni deliranti. Capisce, finalmente,perché non è riuscito a cogliere il senso del mondo,perché gli è sfuggita la verità: capisce, che “il fallo nongli è mai entrato in testa” (23). Ora gli entra final-mente in testa. Il “fallo” è ciò che mancava a |F|.

Mi pare evidente che questa reinterpretazione delreale delirante di |F| sia diretta filiazione dell’inter-vento analitico; grazie ad esso, una parola dotata di si-gnificato apparentemente chiaro e condiviso diventail nucleo di una riaggregazione di senso: è così, ades., che il “cielo” fra la gambe diviene il “fallo” tra legambe. Questa intepretazione psicoanalitica presen-ta alcuni vantaggi: appaga il desiderio di senso unifi-cante sia del paziente che dell’analista, e permette in-teressanti flashback e interconnessioni con vari episo-di della vita di |F|. Egli può ricostruire che questa sto-ria del fallo è qualcosa che lo ha perseguitato per tut-ta la vita. Ricorda che da bambino, quando andava ingiro e vedeva un uomo (“vestito”, tiene a precisare),era paralizzato dalla sua presenza; lo guardava “lì nelmezzo del corpo” e non riusciva a pensare più nulla.Non riusciva ad imnaginarlo, ma era come se si bloc-casse paralizzato, senza capacità di parlare (29).

Il “fallo” diventa per la coppia analitica lo stru-mento di unificazione dei buchi di senso di |F|: il pa-ziente e l’analista infatti scoprono che tutta la vita di|F| è stata percorsa dal desiderio di vedere e ritrovareun “fallo” che desse senso alla frammentaria molte-plicità del mondo. D’ora in poi, quindi, il racconto di

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|F| (che stiamo studiando) viene condotto attraversola cifra del “fallo”. Questo diventa l’oggetto di veritàcondiviso da paziente e analista, e il suo valore inquanto organizzatore di verità diventa più importantedell’eventuale sollievo provato dal paziente.

L’effetto, comunque, è sorprendente: si sente ri-posato e con grande forza interiore, tant’è vero che,per la prima volta nella sua vita, a 28 anni, ha l’im-pressione di essere un genio (24-25).

Questo trionfo narcisistico (non sappiamo dire sespeculare, idealizzante o gemellare), effetto collate-rale dell’interpretazione analitica, si accompagna al-l’idolatria fallica: ora concepisce l’ardito pensieroche l’importante, per piacere ad una donna, è di“averlo duro”.

“Pensavo: ‘Che cosa sono queste storie dell’amore, del senti-mento; l’importante è averlo duro e metterlo dentro fino infondo e squarciare il ventre della donna’. Mentr’ero preso inquesti pensieri, con orrore mi apparvero per un momento imobili della casa in cui ero stato dai due ai sette anni (...)”(25-26).

Perché dopo tanta esaltazione analitico-fallica |F|piomba nell’orrore al pensiero dei mobili dell’infan-zia? La fantasia di squarciamento della donna si asso-cia alla casa materna con i suoi contenuti: dietro la“parata” fallica di questo paranoico, il centro della re-te significante di |F| è la madre, o più precisamente ilcorpo materno. La grandiosità fallica di |F| è solo lachiave di accesso al mitico mondo materno dell’in-fanzia. La distruzione della donna si scopre essere un(supposto) terribile attacco alla madre. Non ci è chia-ro però il senso, il perché di questo attacco distrutti-vo alla madre, attuato per il tramite di una esaltazio-ne narcisistica del “fallo”. Dovremo tornarci. Per ora,ripetiamolo, abbiamo visto che un intervento analiti-co ha (ri)costruito una (la) verità del soggetto, con-temporanemente aprendo (per noi) un al di là di ve-rità, per ora non chiaro.

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L’emersione di simili contenuti lacera la coscienzache deve contenerli, richiamando per noi il “doloreatroce” già provato da |F| alla morte della madre. Neconsegue un’oscillazione nelle convinzioni di |F|, e,nuovamente, un crollo del criterio di verità per giu-dicare il mondo e la sua esistenza.

È colpito dal “non so di sapere” di Platone, trovan-do in questo pensiero la conferma che l’uomo ha giàdentro di sè la “conoscenza”: il vivere allora è una ten-sione continua verso il disvelamento della verità, chepuò essere riconquistata (11-12). La situazione è para-dossale: anche per noi |F| sa la propria verità (il dolo-re per la mancanza della madre, l’angoscia per la di-struzione della madre), e la sa coscientemente (è luia dircela), ma non è in grado di pensarla, cioè di arti-colarla nel contesto della propria vita, trarne le con-seguenze interne e mediarne le implicazioni rispettoalla realtà esterna; anche per noi, quindi, “non sa disapere”. |F| mantiene quest’ultimo assunto, ma lo faproiettando questo “sapere non saputo” su una veritàal di là delle proprie vicende dolorose: in tal modo |F|può mantenere la certezza di possedere questo sape-re. In sintesi, |F| ama Platone perché afferma apodit-ticamente di sapere la (propria) verità, e sta quindipreparandosi a porsi nella posizione di “sapere di sa-pere”: posizione, precisamente, delirante.4

Naturalmente |F| non ama Socrate, perchè il suo“so di non sapere” è incompatibile col sapere assolu-to (27) di |F|, che, a 28 anni, vuole “esprimere il Tut-to, la Verità”, anche se non ha assolutamente idea dicosa significhi questo (14). Si trova nella situazioneesaltante di voler affermare lui la verità come qual-cosa di assolutamente nuovo per l’umanità; contem-poraneamente comincia ad avere paura di quello chel’aspetta e cerca di sfuggire a questa tensione che loprende (27): in ciò segue il modello della “Notteoscura” del dubbio, che ogni innovatore dell’umani-tà attraversa prima della rivelazione.

Questa mitica oscillazione fra la coraggiosa pro-

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4. Vedi G. M. Vadalà(1999), “Maieutica e in-terpretazione”, in L’imma-ginale, anno XV, n. 26(aprile), pagg. 171-184.

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clamazione della verità, e la “troppo umana” fuga dalproprio grandioso destino, si esprime nelle conside-razioni seguenti:

“Dal punto di vista logico mi era chiaro la situazione in cuiero, avevo cercato il vero, mi ero accorto che gli uomini nonavevano detto il vero, (...) e potevo scegliere di dire a questopunto il vero, ma questo implicava uno sforzo terribile, op-pure rinunciare a dire il vero per assumere una posizionequalsiasi nel mondo (punto di vista), oppure infine affer-marmi negando che ci fosse una possibilità qualsiasi di veritàultima nel mondo” (28).

Per noi, il vero è la morte della madre, che è stataun punto di non ritorno nel processo degenerativodella mente di |F|. Per noi, la verità è la distruzionedella madre, che, abbiamo visto, |F| attribuisce a sestesso. Ora, ci dice |F|, nessun padre (nessun pensa-tore) riesce a dire il vero sulla morte della madre,giacché questa morte è il segreto omicida di |F|: dun-que la verità è indicibile da un padre. Potrebbe dirla|F|, ma questo è uno sforzo terribile, come è terribileperdere la madre e contemporaneamente dirsi di es-sere la causa di questa perdita. Oppure, |F| potrebbenon dirla, tenerla per sé, facendo finta che nulla siastato, ma questa ipotesi non viene neanche discussada |F|, perché contraddittoria: una verità nascosta, èuna non-verità, essendo “verità” proprio il “toglieredal nascondimento” (a-lḗtheia). Infine, |F| potrebbenegare che esista questo atroce vero. Proprio questaè la scelta di |F|, l’unica possibile se vuole sopravvive-re: infatti solo così, dice, riesce ad affermare la pro-pria esistenza.

Purtroppo la negazione della distruzione dellamadre è una distruzione essa stessa, che si ritorce po-tentemente su |F|: si sente completamente cieco, eviene preso da un grandissimo desiderio di distruzio-ne (28). La fantasticata distruzione della madre siespande nella distruzione dell’intero mondo ester-no; questa a sua volta comporta la distruzione di ognipossibilità di comunicare con questo mondo, sinché

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|F| sente che il suo stesso corpo e la sua stessa mentestanno disgregandosi. Si dice che sta “diventandopazzo”, ascolta il suo corpo, sente formicolii e pensache se ne parlasse ad un altro non trasmetterebbequello che lui stesso sente davvero, ma passerebbe so-lo una parola che per convenzione tutti siamo d’ac-cordo esprima qualcosa di simile. Il fatto che il lin-guaggio nasca da, e produca, un allontamento ri-spetto alla realtà, provoca in |F| un senso inarrestabi-le di svuotamento (32-33).

Con l’usuale lucidità, |F| si fa incontro al tremen-do problema del linguaggio; ma proprio questo pro-blema, la distanza che esso pone fra noi e il nostrocorpo, e fra gli altri e noi, viene adoperato da |F| perrisolvere il suo dilemma. La percezione della sua di-struttività, della sua capacità di demolire il mondo,esige una reazione allo scopo di impedire il crollo delmondo reale e della propria persona; la scappatoia di|F|, al posto delle abituali derealizzazione e deperso-nalizzazione, consiste nello scaricare sull’essenza dellinguaggio tutta la vis demolitoria di cui non riesce afarsi carico: è il linguaggio a dissolvere la mia comu-nicazione col mondo, è il linguaggio a dissolvere lamia percezione del mondo e quindi il mondo stesso.Questo procedimento, che |F| chiama “pazzia”, nonottiene solo lo scopo di alleggerire il fardello dellapropria distruttività; proprio questa pazzia, svalutan-do la struttura linguistica che media la nostra rela-zione col mondo, smorza quella stessa capacità di-struttiva, giacché il linguaggio viene relegato lontanodal mondo, inefficace e quindi innocuo: il mio dis-corso sulla distruzione della madre è lontano dallarealtà, non è la realtà.

In questo periodo, il periodo conclusivo della ma-turazione della follia, |F| fa una misteriosa riflessione;essa viene riportata nella sua memoria scritta con unavaghezza che probabilmente rispecchia l’incertezza econfusione provate. Nota che ha sempre vissuto nel-la sua famiglia non accettando di esserci e nello stes-

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so tempo negando la presenza degli altri, in partico-lar modo di suo padre, perchè

“c’era una piccola cosa che non essendo uguale a quell’altradell’altro e non venendo quindi riconosciuta, faceva sì cheio rifiutassi di essere lì, ma per sopportare la mia presenzalì, dovevo immaginare che la piccola cosa fosse una grandecosa. Questo enigma si sciolse nel momento decisivo della‘follia’” (9).

Qual è questa cosa? Anche la risposta a questoenigma angustia |F|, ma, come sappiamo, c’è uno, lopsicoanalista, che riesce a dare nome alla “piccola co-sa”, chiamandola “fallo”. Nominazione plausibile, eprobabilmente fondante l’universo teorico e clinicodel suddetto psicoanalista. Ciò che però qui interessamaggiormente, non è tanto il valore di verità oggetti-va che questa nominazione si attribuisce, quanto il va-lore di rivelazione, di chiarezza, di certezza, di dissol-vimento dell’oscurità — che questa nominazione hasull’universo delirante di |F| in costruzione. Come giàabbiamo visto, ora c’è una categoria intepretativa delcaos e del delirio, non più autonomamente prodottadalla mente isolata di |F|, ma co-prodotta dalla coppiaanalitica.5 Questa condivisione, già di per sé, spezza lasolitudine del paziente, rende il suo delirio intersog-gettivo, e quanto meno dissolve l’angoscia del sogget-to. Ciò dovrebbe avvenire, inoltre, e questo è fonda-mentale, in una cornice terapeutica, ossia in un settingove uno dei membri della coppia mantiene i confini,non solo interpersonali, ma anche intrapersonali, trafantasia e realtà.6 In questo senso, e in nessun altro, laspecificazione del suddetto confronto come “con-fronto fallico” ci potrebbe apparire come la verità di|F|. L’analista però, con tutto il peso della sua posizio-ne di detentore del sapere, esplicita la sua rivelazionecome la verità di |F|: e questi, conseguentemente, siscioglie nella follia, come lui stesso ci dice.

Gli viene voglia di fare il poeta, e si lascia andare acomporre senza freni. Con grande sorpresa, sente

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5. Che la nominazione siastata co-prodotta, nullatoglie alla pesante asim-metria della relazione.

6. G.O. Gabbard, E.P. Le-ster (1995), Boundariesand Boundary Violations,BasicBooks (ed. it. Viola-zioni del setting, Cortina,1999).

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improvvisamente che le parole gli escono di conti-nuo da dentro, “come se avessi un organetto dentroil cuore (...) le parole mi vengono fuori senza che iosappia bene cosa vogliano dire” (33). La scrittura,che riempie il vuoto del foglio con i suoi segni, chepromette al soggetto di disporre nella sua ordinata li-nearità il caos della mente, affascina e dispiega il de-lirio, come sa Jung e chi si imbarca nell’immagina-zione attiva. L’ultimo, maturo frutto della produzio-ne artistica di |F|, a 29 anni, è anche la semplice de-scrizione della struttura del suo delirio. Purtropponon ci è dato sapere quanto ci sia dello zampino del-lo psicoanalista in questo materiale: ma è proprioquesta nostra incertezza a suggerirci che la verità di|F| si è creata nella co-costruzione (dovremmo forsedire “co-delirio”?) di analista e paziente. |F| scrive

“di un bimbo, un vecchio e una donna. Il vecchio parla dellavita, delle cose accadute, della saggezza conquistata ogni gior-no ed il bimbo che entra nella vita, ancor poco capendone, èlì che vuole ascoltare quel vecchio e imparare; in mezzo, fra idue, una donna, ch’è madre dell’uno e donna dell’altro e poimadre d’ognuno e poi, raccogliendo i desideri dell’uno e del-l’altro, da madre diventa la puttana del mondo”7 (35).

Il triangolo edipico (“madre dell’uno e donna del-l’altro”) si schiaccia su una Madre origine di tutto(“madre d’ognuno”), e, contemporaneamente, me-ta, fine di tutto (raccoglie “i desideri dell’uno e del-l’altro”); e poiché tutto e tutti appaga, è “puttana delmondo”. Dopo lunghe elucubrazioni, |F| riesce aidentificare questa Madre-Puttana: si tratta di sua ma-dre. Anche qui, ripetiamo, sembra probabile un pre-ciso intervento dello psicoanalista nel favorire questaidentificazione, eppure questa assume una formaparticolare: invece di porre se stesso come il bambi-no i cui desideri sono raccolti dalla madre, |F| fa slit-tare la linea di discendenza proprio-padreàse-stessoin quella padre-della-madreàmarito-della-madre.Pensa infatti, “con ferocia”:

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7. Le espressioni violentedi |F| hanno certamenterisonanze dell’Apocalisse(cap. XVII). Infatti prestovedremo sorgere Dio al-l’orizzonte.

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“— Ecco, mia madre è una puttana, perchè, come tutte le don-ne, non ha avuto il coraggio di andare verso il suo desiderioe si è fatta prendere da un altro, mio padre, uno che certonon amava con l’intensità con cui aveva amato quell’altro, ilsuo padre. — Ha sostituito al primo il marito e questo me la faconsiderare una puttana” (59).

Non è chiaro se |F| si identifichi con il vero ogget-to dell’amore materno, o con il sostituto e usurpato-re di tale oggetto. In ogni caso il paventato incesto fra|F| e la madre viene traslato su quello (impossibileper scelta materna) fra la madre e il di lei padre, ov-vero su quello (condannato da |F|) fra la madre e ildi lei marito. Questa traslazione, però, non è suffi-ciente: |F| sente che il rapporto con gli altri uominiormai è rotto, che non può più credere loro, e che sedeve credere a qualcuno, non gli resta che credere aDio (37). Il ritiro schizoide dal mondo è completato.Ma, quel che è peggio, il delirio incestuoso diventapresente in |F| in forma di allucinazione ad occhiaperti: in una allucinazione, vede il padre morto, epuò così dire alla “moglie del padre” che ora posso-no finalmente stare insieme (39). Data l’epoca, èchiaro che |F| intende riferirsi alla seconda mogliedel padre, la matrigna di |F|. L’espressione equivocadel testo però, se mai ce ne fosse bisogno, indica sen-za dubbi la madre di |F| come reale oggetto del deli-rio. La mente è invasa e frantumata, e mette in scenauna recita dove l’Io di |F| è nulla più che frammento.

“Qui avvennero i fatti più drammatici della mia vita. In untempo brevissimo, concentrato, non più di una settimana, siscatenò quella che io chiamo ‘follia’ (...)Un giorno, era l’ora di pranzo, mio padre non c’era (...), de-cisi di prendere il posto di mio padre a tavola, cosa che non avevomai fatto in vita mia e neppure mi sembrava di aver mai pen-sato di desiderare. Invece quel giorno improvvisamente deci-si che quello doveva essere il mio posto e, prima di farlo, an-dai in cucinino e mettendo un pezzetto di pane nel sugo, co-sa ch’io amavo fare da quando ero bambino suscitando le iredi mia madre, bruciai sul fornello un pullover a me molto ca-ro, forse la cosa più cara che avessi non essendo io stato mai at-taccato alle cose, e nel farlo pensai che distruggevo mia madre.

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Altro fatto avvenne un mattino, al risveglio pensai: ‘Basta colsoffrire così senza sapere il perchè, devo capire’ ed improvvi-samente vidi una cosa enorme di fronte a me, agghiaccante,che subito capii essere il fallo di mio padre che mi si presen-tava davanti in una dimensione assolutamente enorme, im-possibile da sostenere con lo sguardo” (39-40).

Abbiamo due scene. Nella prima, |F| elimina eprende il posto del padre: viene qui recitato non tan-to un incesto, quanto l’assunzione di un’identità chesembra sfuggire a |F|, assunzione che contempora-neamente sembra cercare rimedio a (o sfruttare) unpadre assente. Dico “sembra”, perché ciò alla fine ri-sulta impossibile: il tentativo non è senza conseguen-ze. Prima conseguenza, proprio “la cosa più cara” vie-ne sacrificata, proprio la madre viene distrutta. Pro-prio il momento dell’unione con la madre (madreche doveva avvolgere |F| come una caldo indumentoaderente), il momento della ripetizione di un anticogioco infantile con la madre, diventa il momento del-la rinnovata morte della madre, provocata qui impli-citamente da |F|.

Seconda conseguenza (e seconda scena): il tenta-tivo comporta il ritorno del padre in forma mostruo-sa, schiacciante, e, soprattutto, non simbolica, mabrutalmente materiale, realistica. Il padre spodestatoritorna come allucinazione insostenibile nella formadell’organo sessuale: un pezzo del padre col qualenon si stabilisce più relazione, se non quella di farsisottomettere e sopraffare. Solo così, dice |F|, è possi-bile “capire”: divenendo succube di un’entità non-umana.

Infatti l’Io, come istanza limitata e finita, scompare:

“Poi decisi che fuggir non dovevo e pensai: ‘Se il futuro delmondo s’oscura, dentro me io devo cercare ritornando all’i-nizio del tempo, che la storia ogni uomo la compie e s’io ilsenso lo trovo, è la storia del mondo a trovarlo’.8

Decisi cioè che la mia storia doveva coincidere con la storiadel mondo!” (53).

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8. Spesso |F| inserisceclausole metriche nel dis-corso, come qui, dovetroviamo un settenario,un senario, quattro deca-sillabi, un settenario e undecasillabo.

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Ecco cosa significa “capire”. Io e mondo sonoidentici: nella paranoia il soggetto è identico al reale.Tutto il reale, anche quello metafisico. |F| sta diven-tando il Cristo prima di tutti i tempi, origine, svolgi-mento e fine di tutte le cose:

“In breve non fui soddisfatto di quello che leggevo e cercai dipensare per conto mio all’origine dell’universo, prima che cifosse il tempo del mondo. Un giorno che pensavo a questoproblema sentii improvvisamente che io ero stato all’Inizio,prima che ci fosse il tempo. Fu soltanto un sentire, privo dicomprensione razionale, ma ne fui certo” (61).“Non andavo più contro il desiderio di nessuno, ma anzi inme realizzavo il desiderio di tutti! Anche il desiderio di miopapà! Finalmente la mia storia poteva coincidere con la storiadel mondo, non più separato ma unito a tutti!” (62).

|F| ora non deve più articolare e negoziare il pro-prio desiderio e la propria soggettività con quelli de-gli altri: |F| è il desiderio e la soggettività di tutti. An-cora, la “puttana del mondo” non è più la madre, ma|F| stesso diventa tale: colui che realizzza il desideriodi tutti. Il paranoico riorganizza e ricostruisce il mon-do che, prima della costruzione del delirio, risultavapolverizzato. E così ricostruisce anche se stesso: in-fatti non vi è differenza fra sé e madre, fra sé e padre,fra sé e gli altri, fra sé e mondo: Tutto è Uno. Non piùIo, non più mondo, ma Unità perfetta: puro moni-smo advaita.

Il pezzetto di verità che lo psicoanalista ha cercatodi dare a |F|, è stato rielaborato ed amplificato: l’in-terpretazione analitica ha fornito lo spunto per unacompleta ristrutturazione del delirio, e pertanto orapuò essere lasciata non tanto alle spalle, quanto ri-contestualizzata in una teoria grandiosa che non de-ve attardarsi sulle vicende personali. |F| abbandonal’analisi e può annunciare al mondo la Verità.

“La realtà ultima, la Verità non è quella esterna all’uomo, lanatura in sé per così dire, o gli uomini stessi se assunti comenati per vivere definitivamente la Terra, perchè Dio ha crea-to il mondo solo come mezzo affinchè l’essere in esso conte-

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nuto, rivelandosi a se stesso nella storia, si realizzi pienamen-te diventando degno della posizione che Lui gli ha donatonel suo amore prima che ci fosse il mondo. Ecco che l’attivi-tà del pensare acquista allora il senso di modalità dell’essere dirivelarsi a se stesso per la conquista del riconoscimento del pro-prio senso e cioè storicamente della Verità” (65).

L’edificio innalzato da |F|, molto simile a ora quel-lo hegeliano, pone l’autocoscienza come momentodell’autorivelazione dello spirito a se stesso. L’uomoè l’essere divino che finalmente si riconosce in sé eper sé. In questo edificio la vicenda prsonale di |F| as-sume senso e valore perché questa rivelazione avvie-ne solo in alcuni uomini, e |F| è uno di loro.

“Dio stesso, attraverso quella parte di Lui già presente, comerivelazione possibile, in alcuni uomini fin dalla nascita, usa illinguaggio per Rivelarsi direttamente ad essi (come è accadu-to a me nel momento della ‘follia’). Pure comprendo come lamia meraviglia nel momento in cui la ‘Voce’ mi ha parlato dadentro, se era fin lì giustificata dall’esser quella la prima voltain cui sentivo di non essere padrone dei miei pensieri, dopo èassolutamente sciocca perchè di fatto capisco come tutto il mioessere non dipende da me, se non nell’assecondarlo” (65).

|F| diventa qui un autentico fondatore di religio-ne, e la sua “follia” può essere messa fra virgolette.Egli è non solo il portatore della Verità divina, nonsolo l’enunciatore della Parola divina, ma la Veritàstessa, il luogo in cui Dio acquista coscienza di sé e incui dunque può manifestarsi la sua Parola. Viene co-sì anche risolta l’angoscia relativa al linguaggio comebarriera fra sé e il proprio corpo, e fra sé e gli altri.

Certamente questo delirio dice, con gli opportunitoni profetici, che l’Io è tributario dell’inconscio: chel’Io del paranoico (uso le parole di |F|) non dipendeda se stesso, bensì non può che “assecondare” un in-conscio sopraffacente. Questo delirio dice, nel casoparticolare, che un padre non in grado di occupareil proprio posto, lascia la madre in balia di un figlioche non la sa conservare, di un Io che la distrugge.Dice che allora il padre ritorna per vendicare l’usur-

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pazione del posto e la distruzione della madre; manon per occupare quel posto ormai per sempre va-cante, e salvare la madre ormai per sempre perduta,bensì per riempire come fallo iper-realistico e imma-ginario ogni luogo della mente del soggetto. Dice in-fine che questo totem si trasformerà in un Dio cheoccupa l’Io del soggetto, il quale d’ora in poi saràl’autocoscienza di Dio e la Verità del mondo.

Un delirio di verità I modi del pensare

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“Ogni comprensione del singolo elemento è condiziona-to dalla comprensione del tutto. Ogni spiegazione delsingolo elemento presuppone la comprensione del tutto”.

(Hans Georg Gadamer)

“È difficile dire la verità perché ne esiste si una sola, maè viva e possiede pertanto un volto vivo e mutevole”.

(Franz Kafka)

Il tema che propongo per il mio lavoro è un casoclinico che seguo da oltre un anno, che mi ha moltocoinvolto, costringendomi a riflettere sul tema dellaverità e il suo rapporto con la guarigione nella prati-ca analitica. Dovendo scegliere un nome fittizio pernon rendere riconoscibile la paziente, dati gli ele-menti che emergeranno, l’ho chiamata Cosetta, uti-lizzando il nome della protagonista del romanzo diVictor Hugo “I miserabili”.1 L’accostamento rendeanche conto della complessa vicenda familiare che ri-corda tragicamente le vicende dei romanzi ottocen-teschi. Ho cercato invece di modificare il meno pos-sibile gli altri dati, che rivestono una grande impor-tanza nel quadro clinico della paziente.

IL CASO DI COSETTA

Cosetta mi viene inviata da una sua amica, che èmia paziente da qualche anno. Viene definita comeuna donna molto in crisi per una vicenda familiareche mi verrà narrata personalmente da lei.

Cosetta ha 43 anni e decide di venire da me peruna forte ansia che fin da subito attribuisce a recentiscoperte su vicende familiari.

Mi appare una donna bionda, alta, slanciata, mol-to semplice nel vestire ma con abiti di taglio raffina-to. Peraltro, l’impressione d’insieme è di una sporti-va acqua e sapone, piuttosto androgina. I capelli so-no di media lunghezza, portati lisci, non ha un filo di

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La verità comeinterpretazione

Alda Marini

1. V. Hugo (1862), I mise-rabili, voll. 1-2, Einaudi,Torino, 2006. Romanzostorico ambientato nellaParigi del primo trenten-nio del sec. XIX. La vi-cenda ruota attorno allaconversione di Jean Val-jean, personaggio para-gonabile ad un fra’ Cri-stoforo potenziato, verodeus ex machina dellanarrazione, il quale si ri-vela benefattore delleumane sorti, lottandoper i poveri e riscattando-li dalle ingiustizie. Qui siintreccia la vicenda diFantina, madre di Coset-ta e della stessa Cosetta,che lui poi adotterà,mantenendo peraltrocon lei un rapporto affet-tivo ambiguo, residuo delsuo passato. Ciò lo portaa cercare di tenere legataa sé Cosetta quando la re-lazione con Marius laporta a staccarsi da lui.

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trucco e sul volto vi è qualche segno di un’acne gio-vanile.

Premessa

La storia familiare di questa paziente pare fin dasubito prendere grande rilievo nelle sedute e la suanarrazione occupa molto tempo. La sintesi che vi pro-pongo è frutto di una ricostruzione avvenuta nel cor-so di un anno di terapia. Gli stessi episodi sono stati ri-visitati più volte, più volte rettificati e messi in dubbionella coerenza della versione dei fatti. Più volte i luo-ghi comuni familiari sono stati messi al vaglio di unaverità che, comunque, necessita di un racconto di al-tri per essere comprovata. La terapia si è dovuta muo-vere ampiamente in questi ambiti per poter ricostrui-re una storia possibile per questa paziente.

L’ampio spazio dedicato alle vicende che prece-dono la nascita di Cosetta rende conto delle nume-rose sedute occorse per ricostruirle. Gli eventi eranonel tempo diventati miti familiari costituendo i pila-stri del romanzo familiare. Su questi si è fondata l’i-dentità della paziente, oltrechè la sua ‘autorizzazio-ne ad esistere’.

Premessa alla storia

Data la complessità delle vicende familiari, il gio-co delle aspettative e l’intreccio dei destini ho rite-nuto utile distinguere la sua storia in due narrazioni,una che precede la nascita di Cosetta e che riguardala madre, che per coerenza chiamerò Fantina,2 l’altrache inizia quando Cosetta si inserisce nel complessomondo familiare materno.

Storia di Fantina

Fantina è la terza di cinque sorelle in un contestofamiliare contadino della vecchia Como. La famiglia

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Cosetta, come già la ma-dre prima di lei, è sopraf-fatta da eventi che non ri-esce a dominare e che lasottopongono a sofferen-ze continue, fin dalla piùtenera età, piu’ della Lu-cia dei Promessi Sposi. Inun alternarsi continuo dicadute e risalite, soffe-renze e speranze, la vi-cenda di Cosetta giungead un felice epilogo.

2. Nome della madre diCosetta nel romanzo “IMiserabili”(vedi nota 1).

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è costituita da un nucleo ampio (i nonni, i genitori euna zia nubile) e fra loro vige uno stile comunicativorigido e tradizionale. Le relazioni paiono regredite einconsistenti, improntate a ruoli sclerotizzati. Ha unforte ascendente nelle decisioni familiari la vecchiazia nubile, sorella del padre, molto ricca, e che dàun’impronta particolarmente rigida e bigotta alla fa-miglia. Fantina appare fin da subito la ‘ribelle’ dellafamiglia, ha solo 17 anni quando rimane incinta, co-me ‘incidente’ a seguito di un unico rapporto ses-suale con un ragazzo, che le aveva chiesto ‘la provad’amore’. La notizia della gravidanza di Fantina è ac-colta con scandalo.

Di fronte all’evento traumatico la rigida ma fragi-le struttura familiare non riesce a sostenere la giova-ne: la madre non riesce a proteggerla e a guidarla adaffrontare la vicenda della gravidanza, dura sia perl’epoca che per l’area geografica. Il padre si qualificasubito come figura assente e casomai punitiva, cui te-nere nascoste le cose, comunque incapace di gestireuna situazione complessa.

Delegheranno una figura misteriosa a gestire la vi-cenda: tal Vittorio, amico di famiglia, che avrà unruolo importante in tutta la vicenda, seppur pocochiaro, e che pare sopperire alla carenza di un prin-cipio paterno nella famiglia di Fantina. Vittorio ha dapoco perso il proprio figlio, coetaneo e amico sia diFantina che del suo giovane amante, e viene incari-cato dalla famiglia di Fantina di verificare la possibi-lità di un matrimonio riparatore. La famiglia del ra-gazzo dubita della paternità, dandole di fatto dellapoco di buono. Indignato Vittorio suggerisce alla fa-miglia di Fantina di non chiedere altro dimentican-dosi dell’esistenza di quel ragazzo e rinunciandoquindi ad azioni legali di riconoscimento, seppur ilragazzo sia già maggiorenne.

Viene quindi dato un grande potere a questo si-gnore nel destino della vita di Fantina, ulteriormen-te confermato dal fatto che la ragazza verrà portata a

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Firenze, luogo dove nel frattempo Vittorio si era tra-sferito, a vivere con lui e la moglie fino al parto.

Questo come altri fatti si perdono in versioni ro-manzate e Cosetta fino al momento dell’analisi nonsi è mai soffermata a indagarne le motivazioni reali.Sarà oggetto di diverse sedute.

Quando fanno ritorno a Como è poco prima del-l’estate, ed è prossimo il matrimonio di una sorellaminore.

Storia di Cosetta

Qui inizia la storia di Cosetta, con un altro avveni-mento poco chiaro: appena tornata, la piccola, cheha un mese, viene mandata in Svizzera. Di questoevento la spiegazione proposta è che una delle sorel-le della madre aveva portato i figli in Svizzera, in uncollegio che giudicava ottimo per la salute e l’educa-zione dei bambini. Anche Cosetta verrà mandata làper un mese perché cagionevole di salute.

Questo è un altro dei tanti misteri della sua vita,mai veramente chiariti dai familiari, ma ben presentinei ricordi della sua storia come dati precisi di riferi-mento.

In realtà una neonata è scomoda da giustificare,ad un matrimonio, di fronte a tutti i parenti, neancheal corrente della gravidanza della madre, Fantina. Pe-rò Cosetta là sta male, deperisce velocemente e devo-no correre in Svizzera a recuperarla.

Sarà la nonna materna da lì in poi ad occuparse-ne, a guarirla dalla gastroenterite, con un ‘latte buo-no’, che la collocherà nella posizione di figlia piùche di nipote, a questo punto. Viene di fatto a man-care alla bambina una vera esperienza di holding ehandling a causa dello scarto generazionale fra non-na e nipote, che vede la nonna decisamente ‘spiccia’nella relazione con la bambina, a causa del tempo de-dicato, che è quello residuo dopo i numerosi oneri.Inoltre, dato che di lei si occuperanno diverse figure,

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la relazione privilegiata non ha modo di strutturarsi. Così Cosetta cresce col cognome della famiglia

materna, accudita dalla nonna, dalle zie e dalla vec-chia prozia. Inizia quindi a generarsi la confusione diruoli e funzioni che caratterizzerà tutta la sua vita.

Fra tutte queste figure materne che si muovononel mondo di Cosetta vi è la madre vera. Lei brillaper la sua assenza. La famiglia non naviga in buoneacque e Fantina è l’unica che va al lavoro all’esterno,il nonno è contadino, e le zie in casa eseguono lavo-ri di sartoria. Lei è un’impiegata brillante, i suoi sol-di sono importanti in famiglia, il lavoro le piace e ri-mane fuori casa anche fino a tardi la sera.

La figura di Jean

Dopo qualche anno Fantina conosce Jean,3 riccoimprenditore di Como, più grande di lei di 12 anni,e ne diventa l’amante. Questa diventerà una figuraimportantissima nelle dinamiche familiari, condizio-nando pesantemente le vicende della bambina .

Sposato con due figli, bello, colto, affascinante,brillante, creativo, artista (dipinge anche a livelloprofessionale), per Fantina è la figura del riscatto, ea lui si attaccherà a livello morboso sacrificandogliqualunque altro obiettivo. Jean diventerà per lei lavera figura di attaccamento, compensando i proprivissuti abbandonici materni, a suo tempo rinforzatidall’abbandono da parte del padre di Cosetta.

Il paese è piccolo e quando la cosa viene resa no-ta i nonni si infuriano.

Quando Fantina decide di andar via con lui, lanonna, come estremo deterrente, le impone di por-tare con sé Cosetta. Cosetta fino a questo momento(ha sei anni) è sempre vissuta nella vivace casa deinonni in centro a Como, immersa nel materno e nel-le continue cure di tutti, in attesa sempre della mam-ma-premio.

A questo punto Cosetta entra in contatto con Jean.

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3. Verrà utilizzato il nomeche Hugo diede al tutoree poi padre adottivo diCosetta, Jean Valjean. Difatto, come nel romanzo,anche la figura reale avràil medesimo il ruolo rile-vante nella vita della pa-ziente.

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Anche lui è portatore di romanzi familiari incom-pleti che aleggeranno sulla nuova famiglia. Si separadalla moglie, che si suiciderà dopo qualche anno, enello sfondo rimarranno i due figli avuti da lei chenon compariranno quasi più nella vicenda.

La cacciata. Il periodo dell’albergo

Il trasferimento avviene in modo traumatico: lamadre preleva Cosetta da scuola senza preavviso e laporta direttamente in albergo, in un contesto anoni-mo e sconosciuto, dove vivrà con la coppia, improvvi-samente sradicata dal contesto dove è sempre vissuta.

Alla piccola, che aveva già iniziato le elementari etornava tutti i giorni a casa per pranzo, è vietato di ve-dere i nonni, come ritorsione per la cacciata.

Cosetta passa quindi dal ricco mondo affettivo ma-triarcale alla dimensione di un paterno, più distante,dove il contatto fisico è respinto. La madre è freddacon lei, non ha mai avuto un rapporto fisico con labambina, riserva le carezze solo a Jean. “Sta su dèdoss”, le ripete sempre. Si intravede nella complessafigura di Fantina un’ambivalenza nell’interpretazio-ne della propria funzione materna, non alimentata asuo tempo da un materno affettivo e saziante. Da lì inpoi la vorrà sempre accanto, ma sostanzialmente re-spingendola e non considerandola nella sua soggetti-vità. Cosetta è inserita nella nuova famiglia quindi inmodo funzionale ai bisogni della madre, che proiet-ta massicciamente su di lei i propri vissuti. Come unvero e proprio oggetto-sé è trascinata nella vicendafamiliare, vittima di dinamiche contorte e della vora-cità materna.

Inizia per lei quindi un periodo di disorientamen-to ed instabilità, avendo perso tutti i riferimenti cheaveva e le relazioni più significative. Non possiedeuno spazio protetto, i tempi della sua vita sono scan-diti dalle esigenze di lavoro della madre e del suocompagno. Infatti Jean e Fantina nel frattempo han-

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no rilevato un’attività in società in un paese dellaBrianza e lavorano fino a tardi, quindi la bambina èlasciata tutto il giorno a scuola e ripresa la sera al lo-ro ritorno.

L’isolamento. Il periodo del collegio

Dopo qualche mese l’assetto cambia nuovamentecon un’ulteriore destabilizzazione per Cosetta: datoche il lavoro impegna tanto la coppia e non c’è tem-po per accudire la bambina, la mettono per un annoin un collegio di suore lontano da Como. La bambi-na rimane sempre in collegio, compresi i fine setti-mana. Ricorda come ossigeno le visite che ogni tantole facevano le zie, decisamente più frequenti di quel-le della madre e del compagno.

Per il resto quell’anno scompare dalla sua memo-ria. Il suo ricordo non riesce a strutturarsi intorno arelazioni significative, gli eventi si susseguono, ma ivissuti abbandonici, troppo potenti e continuativi, laportano ad un isolamento affettivo che le permettedi tollerare il vuoto relazionale.

La reintegrazione e la nuova identità. La casa della nuova famiglia

In terza elementare finalmente si torna ad una sta-bilizzazione almeno apparente: torna a casa, in unappartamento che i suoi hanno nel frattempo presoa Como. Intorno a lei però tutto cambia, compresa lasua identità. Ha circa otto anni quando nasce il fra-tellino, Mario,4 peraltro anche lui subito affidato aduna balia. Intanto Cosetta viene adottata legalmenteda Jean, evento che calerà come un trauma nel suofragile inserimento sociale, creandole imbarazzo equesiti cui non sa rispondere. La vita comincia a scor-rere con una nuova normalità, riprendono i contatticon la casa dei nonni.

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4. Ho utilizzato per la fi-gura del fratello il nomedell’innamorato della Co-setta del romanzo e che siprenderà veramente curadi lei, Marius, in quanto ilfratello è l’unica figuracon cui nel tempo la pa-ziente stabilirà una verarelazione di complicità.

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Lo sradicamento. La casa in Brianza

Quando Cosetta ha circa dodici anni vi è un nuo-vo trasferimento, nel paese dove ha sede l’azienda dicoloro che Cosetta ormai chiama ‘i genitori’. Quellasarà la casa definitiva della famiglia. Ricorda quel pe-riodo come il più doloroso, magra e allampanata, coiprimi brufoli, per la prima volta lontana dall’amataComo, sradicata dal suo habitat, si sente emarginatae soffre di complessi d’inferiorità. I genitori non se-guono i suoi problemi di adattamento e piuttosto èutilizzata come baby-sitter per il fratellino nei mo-menti che la coppia si prende per fare vita sociale.

La figura di Jean si definisce come un padre unpo’ strano. Non entra mai in un vero contatto con lei.Tutte le decisioni che la riguardano sono mediatedalla madre, mentre per il fratello le discussioni av-vengono direttamente in sua presenza. Comunquelui agisce e decide dietro le quinte, anche per Coset-ta, e non accade nulla che lui non voglia. I suoi in-terventi diretti paiono effettuati non per un vero in-teressamento per quella che lui chiama figlia, ma perpropri aspetti narcisistici. Come la volta che intervie-ne per contestare l’approccio storico di un’insegnan-te che lui giudica incompetente e che da allora saràparticolarmente dura con Cosetta, creandole un sac-co di problemi in classe. La sua smisurata cultura, lasua capacità personale e professionale di far fronte aqualunque evenienza, lo rendono grande figura di ri-ferimento per tutti. Il suo parere fa legge.

La ‘normalità’

Da questa realtà non si allontanerà più. Sempreper decisione familiare alle superiori frequenta un li-ceo privato inglese, scelta apparentemente di presti-gio, ma la scuola non è parificata e l’ indirizzo è com-merciale.

Inoltre, quando Cosetta si impunterà per gli studi

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universitari, questa scelta la costringerà ad un duris-simo impegno per conquistare il riconoscimento deldiploma e ci vorranno due anni per conseguirlo. Ini-zierà gli studi universitari di lingue smettendo dopoaltri due anni.

Ancora una volta le massicce proiezioni svalutativedella madre l’hanno condannata a scelte in linea conil futuro che altri hanno pensato per lei. Non vi è in-vestimento in un progetto centrato su di lei, non vi èun ascolto che le permetta di guardarsi dentro e farcrescere ciò che più la rispecchia.

Gli studi commerciali quindi la avviano ad un ve-loce inserimento nel mondo del lavoro con funzioniesecutive.

In realtà solo la parte maschile, Jean e poi il gio-vane Mario, possono permettersi questo protagoni-smo. Jean è laureato e Mario diventerà ricercatore,iniziando una brillante carriera universitaria.

Cosetta comincia quindi a lavorare in un’azienda,dove lavora tuttora, situata nel medesimo paese doveabitano i suoi e dove, quando a trent’anni uscirà di ca-sa, affitterà un appartamento. In azienda, in realtà,pian piano conquista una posizione di maggiore re-sponsabilità che, nel tempo, la qualificherà. Si occupadella gestione dei clienti e dell’assistenza ai venditori.È molto brava nel suo lavoro, benché dichiara di nonavere mai fatto veramente carriera. È diventata amica,nel tempo, dei suoi clienti e il suo stile affettivo e ami-cale caratterizza tutti i suoi rapporti professionali. Èsoprattutto molto orgogliosa della propria sinceritàche conquista il cliente più delle manovre e delle stra-tegie dei colleghi. La sincerità, il vero pare da sempreun tema dominante nella sua esistenza.

Gli affetti

Gli affetti sono il suo cruccio. Ha avuto parecchierelazioni dove si ritrova nella scomoda posizione dichi non ha una legittimazione. Amante di un collega

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sposato, fidanzata di un uomo che non vuole legami,invaghita di un collega più giovane che non pare in-teressato a lei, se non nei pochi momenti di sesso.Tutti sembrano godere della sua conversazione intel-ligente, dei suoi modi garbati, dell’accudimento edell’assistenza che offre, senza però darle un postostabile nella loro esistenza.

In realtà sarà molto difficile occuparci di questo te-ma perché le vicende del ‘romanzo familiare’ occu-peranno un lungo periodo dell’analisi, importanteper ricostruire la sua storia e percepire la sua identità.

L’abuso

Ho deciso di non parlare finora del tema dell’a-buso per poterlo meglio enucleare con una narrazio-ne maggiormente centrata. Riprenderò alcuni temigià introdotti.

Cosetta, quando a 30 anni esce di casa, è ormai datempo completamente identificata con il quadro so-ciale rassicurante che la famiglia le offre: benestante,di elevate frequentazioni, con beni e sicurezza eco-nomica, con solidi affetti e una rete familiare sup-portante. Tutto ciò costituisce per lei fonte di sicu-rezza e gratificazione, oltreché fornirle un’immaginesociale invidiabile. Sembrano scomparse dai suoi ri-cordi tutte le vicissitudini dell’infanzia e dell’adole-scenza.

Affitta quindi un appartamento vicino all’abitazio-ne dei suoi, mantenendo comunque con loro la mo-dalità di supporto e assistenza che ha avuto per tuttala vita. Allontanandosi un pochino e conquistandoperiodi sempre maggiori di autonomia, affioranoogni tanto ricordi che non quadrano con la situazio-ne attuale di sana famiglia borghese, in cui circolanormalità, affetto, solidarietà.

Parlando con una delle sorelle della madre di que-sti dubbi e incoerenze nei ricordi, la zia le rivela ‘lastoria della paternità biologica’, così la chiama, il fat-

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to importante di non essere figlia naturale di Jean. Èil 2000, lei ha 36 anni, e il perfetto quadro familiareche nel tempo si era costruita inizia ad essere messoal vaglio di una critica. Cosetta ha delle reminiscen-ze, riaffiorano elementi coerenti con questa verità ca-duta in oblio.

Però pian piano, negli anni, emerge qualcos’altro,che ha sempre saputo, ma che solo ora mette a fuocoattribuendogli il giusto valore. Ciò accade in un mo-mento in cui riceve una forte frustrazione da partedei genitori. Volendo finalmente acquistare una casatutta sua, in una località che le piace e dove abitanotutti i suoi amici, chiede un contributo alla famiglia ene riceve un rifiuto.

A questo punto la rabbia e il senso di ingiustiziasubita si arricchiscono di ricordi precisi e di un for-tissimo bisogno di riscatto e riparazione: Cosetta hasubito abusi sessuali continuativi da parte di Jean, ilpatrigno.

Con questa abbozzata consapevolezza Cosetta vie-ne nel mio studio per iniziare una terapia.

Molto tempo è stato dedicato alla collocazionetemporale di tali fatti, elemento determinante per lavalidazione dei suoi ricordi. Gli eventi collegati all’a-buso hanno subito parecchi aggiustamenti in relazio-ne alla ricerca di una concordanza dei ricordi ed èstata molto importante per lei questa ricerca ancheattraverso le testimonianze dei parenti, per dare so-stanza e realtà a fatti negati e misconosciuti dalla fa-miglia.

Il ricordo finalmente emerge in tutta la sua porta-ta. Sono i tempi della convivenza nella casa di Comocon la nuova famiglia. Cosetta ha circa 8 anni.

La sera la madre era sempre stanchissima e alle ot-to era già a letto. Era Jean ad occuparsi del piccoloMario e di Cosetta. Tutte le sere lei e il “padre” stava-no insieme sul divano a guardare la televisione. Ri-corda confusamente di essere stata toccata da lui. Neltempo la consapevolezza si conferma ed emergono

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ricordi più precisi. In analisi ne ricostruirà tre in mo-do sicuro:

“Sono sul divano, sono piccolina e guardo i carto-ni animati. La mamma è a letto e, come al solito, Jeaninizia a masturbarmi. Mi dice che ciò che mi fa miservirà da grande”.

“Sono con i miei cugini che abitano in un paese vi-cino. Ricordo di avere detto: ‘Non fatemi anche voile brutte cose che mi fa Jean’, durante un gioco in-fantile di esplorazione delle nostre nudità. La zia sen-te e allarmata chiama la mamma. Ricordo che questoangustia mia madre a lungo, ma la cosa cade poi neldimenticatoio”.

“Sono probabilmente adolescente perché ricordoil garage che avevamo nella casa in Brianza, l’auto èposteggiata lì e lui per passare nello spazio ridotto frail muro e la vettura si strofina contro di me indu-giando a lungo”.

Prima della terapia, quando il tema dell’abuso siandava delineando, Cosetta aveva cominciato a staremale, era spesso in ansia, non sapeva cosa fare, si sen-tiva disorientata, tutti i suoi riferimenti si erano rare-fatti nuovamente. Erano passati quasi otto anni daiprimi dubbi. Un’amica con cui si confida la spinge afarsi aiutare. Viene da me.

Come mai i ricordi sono riaffiorati dopo tantotempo? Cos’era accaduto?

Quei ricordi erano sempre stati lì, come deposita-ti in un’area neutra della psiche, visibili e accessibili,ma non sottoposti al vaglio della critica, non con-frontati con il resto del quadro della propria conqui-stata normalità, inerti e neutralizzati non hanno ri-schiato di alterare la fragile sensazione, conquistatadopo anni di traversie, di avere un posto preciso nel-la vita di qualcuno. Malgrado l’età, Cosetta ha sicura-mente più di dodici anni nell’ultimo periodo in cui ècollocato l’abuso, non ne ha percepito l’illiceità equindi la portata psicologica di questo nella sua esi-stenza. L’abuso sessuale, ultimo di una lunga catena

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di abusi psichici, non è avvertito come alterazionedella percezione del sé corporeo, come violazione diconfini, come un farsi oggetto di manipolazioni fun-zionali a bisogni altrui. Cosetta subisce i toccamenti ele intrusioni sessuali, la spersonalizzazione che ne de-riva, come conferma delle esperienze precedenti,non anomalia ma continuità, quindi non ne percepi-sce il valore di abuso e non è in grado di denunciar-lo. Le sue relazioni significative l’hanno portata astrutturare un modello interattivo modulato sui bi-sogni e sulle esigenze altrui. La sua prima preoccu-pazione è sempre stata in che modo far contenti glialtri, come farli star bene e quindi sentirsi per questoapprezzata e valorizzata. E anche in questo caso è il‘bisogno’ di Jean che viene privilegiato. Cosetta nonpossiede una propria lettura degli eventi, in automa-tico si allinea alla versione che le viene porta, perquanto opinabile possa essere. Quella di Jean è poicompletamente idealizzata e nel contesto familiarenon esiste possibilità di metterla in discussione. Co-setta non percepisce il proprio valore intrinseco,non possiede uno spazio interno integro, strutturatointorno ad un centro e in cui vigono leggi coerenti.In lei sono presenti isole di consapevolezza, ricordiisolati e sistemi in labile collegamento fra loro. Perciòla legge non è unica. Ciò che sarebbe condannatonella vita di un altro, diviene possibile e giustificabilenella propria. Cosetta, abituata a sentire empatica-mente l’altro non è in grado di sentire se stessa, senon flebilmente, e quindi non percepisce il senso dellimite e del confine proprio, mentre rispetta quelli al-trui con un’attenzione e una sensibilità decisamenteelevati, probabile proiezione del proprio bisogno diessere difesa e capita. I suoi confini quindi sono dasempre violati psicologicamente, il passaggio all’in-trusione sessuale avviene in continuità con le viola-zioni e gli abusi psicologici cui è da sempre abituata.

Il sé corporeo, materia estensiva della dimensionepsicologica, era già negato, da sempre Cosetta è og-

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getto di manipolazioni altrui. L’identità più volte e invario modo negata, l’idea ormai radicata che non cisia uno spazio definito e autonomo per lei nel mon-do la rendono soggetto privilegiato per un abuso.Abuso, quindi, come ultimo atto di spossessamento e‘cosificazione’ della soggettività della paziente.

Ma anche, può in questo modo continuare la suafunzione di supporto alla vita della madre, sostituen-dola dove lei non arriva e servendo Jean quando lamadre non riesce più a farlo. D’altro canto ha final-mente in mano Jean, possiede qualcosa che lo inte-ressa e lo seduce. Il mancato contatto fisico con lamadre, negato a lei ma concesso ampiamente a Jean,le viene restituito con le carezze di lui e così è consu-mata anche la vendetta nei confronti della madre, ap-propriandosi di ciò che lei tanto ama.

La comunicazione verbale in terapia

Cosetta fin dal primo momento è gentilissima, co-nosce bene cos’è la psicoanalisi ed ha con me l’atteg-giamento di grande rispetto dovuto alla mia posizio-ne di psicanalista.

Il suo parlare è ‘stile intrattenimento’, non com-pare uno stato d’animo personale e lei ha un sorrisostampato sul viso, come chi cerca di piacere antici-pando le domande e le richieste, seppur trasmettaempatia. Annuisce molto e, se chiedo qualcosa cheancora non mi ha detto immediatamente sottolineache stava proprio per dirmelo, e probabilmente è ve-ro, data la grande attenzione che tributa al suo inter-locutare.

Ogni evento narrato, anche il più crudo, pare pri-vato della coloritura affettiva personale, come se leinon avesse una psiche e non provasse sofferenza. An-zi, Cosetta, quando espone la sua storia, pare quasidivertita e compiaciuta del romanzo familiare che siaccinge a narrare e di cui va in un certo senso orgo-gliosa. Quasi come se l’aver preso parte ad eventi co-

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sì singolari, la rendesse degna di un’attenzione dicui non ha mai veramente goduto, e interessante aimiei occhi.

Il percorso analitico

Data la sua storia, la paziente all’inizio faceva fati-ca a sostenere un rapporto di vicinanza in seduta. Èquindi stato molto importante cercare con lei una di-mensione di intimità che le facesse percepire la no-stra relazione come luogo di accoglienza per tuttiquei contenuti che nella sua mente si sovrapponeva-no, si schieravano secondo un ordine e secondo unagerarchia che apparteneva al sistema malato che l’a-veva strutturata.

Pian piano, attraverso la comprensione, la solida-rietà e la lettura della portata emotiva degli eventinarrati, si è instaurato un clima di fiducia e valorizza-zione che di rado aveva sperimentato. Mi ha percepi-to dalla sua parte e ha quindi visto che una sua partepoteva esistere, seppur per ora solo nella mia mente,percepita dalle mie parole.

È stato in questo molto importante il passaggio allettino, apparentemente luogo più neutro nel set-ting, per ciò che riguarda la relazione. In realtà perCosetta è stato più facile aprirsi dandomi le spalle.Poter parlare senza guardarmi la autorizzava a guar-darsi, e creava la posizione psicologica, per lei ano-mala, di potersi occupare dei propri contenuti senzamettere in atto manovre ‘seduttive’. Finalmente po-teva focalizzare l’attenzione su di sé, non era costret-ta dal suo sistema a darmi qualcosa, a sorridermi in-dipendentemente dallo stato d’animo, ad anticiparele mie domande, a scrutare nel mio viso segni di ap-provazione, a cercare nelle mie espressioni segnali diuna noia che lei stessa provava per la propria esisten-za e per l’inautenticità delle proprie comunicazioni.

Inoltre per darmi le spalle si doveva fidare. Coset-ta ha imparato a fidarsi. All’inizio ogni tanto si gira-

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va, forse per controllare cosa io facessi o per aggan-ciarmi affettivamente, timorosa di essere dimenticatalì, sul lettino. Poi vedendomi ogni volta attenta, conlo sguardo sempre rivolto a lei o intenta a volte aprendere qualche appunto, si è rassicurata.

La tranquillità relazionale finalmente conquistatal’ha indotta a concentrarsi su ciò che attirava la suaattenzione, cioè gli eventi del passato. Il nostro per-corso terapeutico, apparentemente anomalo, mi hacostretto ad un’attenzione non usuale ai fatti. In se-duta Cosetta sembrava ruotare sempre intorno agliaccadimenti del passato, quasi nel tentativo di carpi-re negli eventi stessi una possibile dislocazione emo-tiva personale.

I suoi vissuti non erano coerenti con gli eventi,sembrava accettare tutto senza manifestare un impat-to emotivo personale. Non potendo amplificare i vis-suti della paziente, ho raccolto l’invito del suo incon-scio a parlare degli eventi della storia personale.

I fatti sprigionavano un’energia che continuava acatturarla, anzi a catturarci. I miti familiari avevanocreato una versione dei fatti incoerente e le motiva-zioni da sempre addotte sembravano inadatte a spie-gare ciò che era accaduto. Mi trovavo a chiedere e ap-profondire, alla ricerca di coerenza e motivazione. Imiei dubbi erano diventati i suoi dubbi, il mio noncapire e indagare ancora portava anche lei a noncontentarsi più delle solite spiegazioni e ad indagarecoi familiari, con le numerose zie, finchè l’evento fi-niva per apparire nella sua, questa volta più verosi-mile, realtà.

Siamo passate insieme attraverso continue rettifi-che del quadro entro cui collocare gli eventi, alla ri-cerca di una verità che sta nel racconto della rico-struzione dell’accadimento e dei fatti. Ho vissuto in-sieme a lei la confusione fra passato e presente, laconfusione dei ruoli fra le varie figure, i vissuti checomparivano insieme ai fatti in una dimensione se-mionirica, finchè la conquista della verità ha permes-

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so di sostanziare i suoi vissuti ancorandoli al reale. Lacollocazione spazio-temporale adeguata, le nuovespiegazioni trovate per gli eventi, in una co-costru-zione che è diventata processo di riconquista dellapropria storia, hanno contribuito a ricreare un ordi-ne e al delinearsi di una storia personale, dotata dicoerenza. Ciò ha permesso anche un potente rinfor-zo del complesso dell’Io della paziente.

Dalla ricostruzione della storia Cosetta ha impara-to ad ‘agganciare’ il suo stato d’animo. L’immaginedi bambina serena non poteva reggere alla nuova ver-sione dei fatti. Cosa avrebbe pensato della qualità del-la vita di una bambina che avesse vissuto una storiacosì travagliata? È semplice per la paziente pensare aldolore, allo sconcerto, al disorientamento di quellabambina, ma non lo percepisce per sé. Si scandalizzaper la bambina di cui il patrigno abusa, ma fa fatica aprovare rabbia per la propria vicenda, non ricordacosa può avere provato, forse niente e se non ha sen-tito male dentro, forse nessuno le ha fatto male, quin-di lei è cattiva a pensare male degli altri.

Allora Cosetta cerca testimonianze, foto e vedeuna bambina triste e pallida, passiva spettatrice diuna realtà dove non c’era spazio per un suo contri-buto energetico e vitale. Col ragionamento Cosettaha imparato quale avrebbe dovuto essere il suo statod’animo verso Jean, dato quello che era accaduto, eman mano ha cominciato a provarlo, prima a tratti,poi assumendo un vissuto costante, finalmente il suo.

Ma se il trauma dell’abuso sessuale è stato piùsemplice da riconoscere, più laboriosa è stata l’ela-borazione degli altri aspetti traumatici della sua sto-ria, i frequenti abbandoni, la mancata vicinanza emo-tiva di figure costanti, la mancata attenzione ai suoibisogni e la continua richiesta di supporto agli altriche le veniva fatta, quasi dovesse sempre guadagnar-si in qualche modo il proprio posto in famiglia.

L’idealizzazione compensatoria sostitutiva dei ge-nitori, lascia man mano il posto ad una nuova consa-

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pevolezza, molto cruda, di non avere più una fami-glia, anzi di non averla, in un certo senso, mai avuta.Comincia la delicata analisi della figura della madre,vero oggetto del desiderio, per lei ha sacrificato tutto.

Man mano che la storia si dipana emergono ricor-di, via via sempre più chiari e definiti nelle emozioni.Emergono aneddoti che le permettono, nel tempo,di rivivere il proprio stato emotivo nelle vicende,identificandosi con il proprio punto di vista.

In tal modo la bambina abbandonata e abusata co-mincia a parlare e a percepire la propria consistenzapsichica, sostenuta e difesa dalla donna forte e sicurache Cosetta appare agli altri.

Questa operazione avviene attraverso alcuni sin-goli ricordi che compaiono improvvisamente in se-duta attratti da contenuti affini, finalmente chiamatia raccolta per costituire un quadro coerente dei seg-menti sparsi della sua esistenza emotiva. Questi epi-sodi sono stati molto importanti ed hanno determi-nato una svolta significativa nella terapia, riempien-do di emozioni proprie vicende finora percepite congli occhi degli altri e creando un centro intorno a cuisi sono situate, secondo un nuovo ordine e senso, levarie vicende significative della sua esistenza.

Ricorderò alcuni episodi che insieme agli altri giàcitati dell’abuso hanno costituito nel corso della te-rapia le pietre miliari di una nuova versione dellapropria storia, costituendo una nuova ‘mitologia fa-miliare’ questa volta coerente con i propri vissuti. Adessi Cosetta fa spesso riferimento anche in modo sin-tetico assurgendoli a simbolo delle verità che avevanodisvelato.

Un aneddoto viene ricordato con intensa emozio-ne. Il venerdì a casa della nonna si facevano gli gnoc-chi che a lei piacevano molto. Durante il primo dis-tacco dalla casa della nonna, il periodo dell’albergo,contravvenendo al divieto materno, un giorno non sifermò a scuola a pranzo, ma uscì recandosi là, dallanonna. Era venerdì e voleva proprio mangiare gli

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gnocchi. Si allontanò quindi da scuola presentandosia casa della nonna. Erano tutti a tavola col propriopiatto davanti. Racconta di avere detto di essere lì permangiare gli gnocchi. La nonna, allora, attonita le dàil proprio piatto. Ricorda con una punta di orgogliomisto a vanto che da allora la nonna non ha più man-giato gli gnocchi. Per la nonna, forse, il ricordo diquell’episodio era troppo doloroso e quel cibo ri-apriva la ferita. Fu quello il primo atto di protesta diCosetta, sempre costretta in situazioni che non avevavoluto e coinvolta in scelte nelle quali il suo benesse-re non veniva considerato.

Altro ricordo importante riguarda l’adozione daparte di Jean. Verso gli 8 anni ricorda di essere stataportata a Milano, in tribunale. Non le viene spiegatoil motivo. Si trova davanti qualcuno che le chiede se èproprio sicura di voler cambiare il cognome, che ilsuo cognome attuale, Ferrero,5 è così bello, ricordaquello di una marca famosa di cioccolato, e il nuovocognome, Occhipinti,6 non è altrettanto bello. Leinon ha alcuna voglia di cambiare cognome ma è sta-ta istruita e dice di si. Tornata a scuola non sa comegiustificare il nuovo cognome e si vergogna tantissi-mo. Non vuole, non le piace, la prendono in giro. Co-sì ancora una volta un cambiamento della sua identi-tà avviene in modo non favorevole a lei e senza che cisia un’attenta analisi della portata delle scelte degli al-tri nella sua vita o un supporto nell’affrontarle.

Ma i ricordi riguardano anche il romanzo familia-re. Ricostruisce il seguito della vicenda antica. Vitto-rio, il vecchio amico di famiglia che aveva ospitato lamadre a Firenze, chiamerà una zia più giovane pres-so di lui, come domestica, per sdebitare la famiglia diFantina dell’accoglienza durante la gravidanza, ma laragazza se ne verrà via spaventata perché questo si-gnore aveva cercato di abusare di lei. Forse la stessasorte era toccata alla madre? Ricorda che un giornola madre l’ha portata sulla tomba del misterioso ami-co di famiglia, come un evento importante, sottoli-

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5. Cognome di fantasia,vengono comunque man-tenute le caratteristicheche ne hanno determina-to il vissuto.6. Cognome di fantasia,vengono comunque man-tenute le caratteristicheche ne hanno determina-to l’impatto di disagiopsicologico.

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neando il legame verso di lui. Anche questo Cosettanon l’ha mai capito.

Quando Cosetta parla della madre è evidentissimal’ammirazione che ha per la sua vita intensa e il suoinfaticabile impegno nel portare avanti le propriescelte. Possiamo parlare di un vero e proprio investi-mento oggettuale arcaico nei suoi confronti, che hasempre avuto soddisfacimento parziale o inadeguato.La madre con cui non ha mai potuto sperimentare lafusione, l’intimità, la vicinanza che fa scattare l’iden-tificazione, si è posta per lei come un vero e propriooggetto del desiderio, desiderio frustrato e sempreinappagato che la portava a reiterare la richiesta d’a-more in un gioco perverso e masochista. Rileggere lesue vicende con i propri occhi le ha permesso di in-taccare questo meccanismo se non altro nei suoi au-tomatismi. Oggi, seppur a volte ancora vittima dellarichiesta infinita di riconoscimento e valore che ponealla madre, la paziente sta iniziando a staccarsi, age-volata in questo dall’incorerenza e dall’ambiguitàmaterne, che ora riconosce e dichiara.

Finalmente Cosetta ha raggiunto la consapevolez-za di ciò che è accaduto, una consapevolezza quasisensoriale, materica, che l’ha portata a rivivere il pas-sato riconquistandolo. Il nostro rapporto analitico hacoinciso con il processo che ci ha portato a realizzareun contatto con la realtà, con la verità, in un’intera-zione continua e in un costante scambio e allinea-mento di vissuti.

La verità come interpretazione

Nel corso del lavoro analitico mi accorgo dell’im-portanza che riveste per la paziente la relazione chesi è stabilita fra noi. Contenimento, comprensione evicinanza emotiva le permettono di provare fiducia,aprirsi ora senza paura e lasciare che emerga libera-mente ciò che in lei è racchiuso.

Man mano mi accorgo che il mio ruolo è dare vo-

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ce alla sofferenza della paziente, restituirle la dimen-sione affettiva rimossa, provare per lei e aiutarla aprovare anche lei. Gli eventi narrati, la ricerca effet-tuata insieme, la dimensione di verità conquistata pertappe e nella continua verifica, hanno creato paroleper sensazioni forti e traumatiche che la pazientenon era mai riuscita a rappresentarsi. Gli accadimen-ti, finalmente condivisi, si sono fatti materia pensabi-le e solo allora è diventata possibile la loro elabora-zione, attivando il percorso evolutivo. Il tutto delica-tamente però, perché sul piatto ci sono tante cose,troppe cose, una consapevolezza troppo forte po-trebbe pietrificarla, ottenendo l’effetto opposto. Op-pure potrebbe distruggerla, slatentizzando vissuti ar-caici che potrebbero sgretolarla.

L’esperienza del trauma dell’abuso non è stato unevento unico ma continuativo e si è precocemente in-serito in una struttura psicologica già abbondante-mente abusata sul piano psicologico, impedendoneun adeguato sviluppo e concorrendo ad una struttu-razione frammentata o dissociata.

Jung dice che agli inizi dell’esistenza psichica nonvi è un Io ben formato, ma man mano attraverso leprime esperienze di vita, si creano delle isole di co-scienza,7 atolli di consapevolezza che si costituisconointorno agli archetipi e poi alle esperienze primarie,non ancora amalgamati in un complesso più ampio estrutturato. Queste isole contengono esperienze di-verse e non necessariamente in comunicazione fra lo-ro. Possono coesistere realtà contraddittorie, le unenon sottoposte al vaglio della critica delle altre.

Ancora Jung qui ci aiuta introducendo il concettodi coscienza secondaria,8 separata dalla coscienza del-l’Io. Può essere che un contenuto originariamenteconscio, ma di natura incompatibile con la coscienzasia diventato subliminale e non viene percepito per-ché non esiste nella coscienza la possibilità di perce-pirlo, per mancanza di comprensione. In tal caso ri-mane sotto la soglia della coscienza pur avendo dal

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7. Vediamo questi concet-ti delineati nel pensierojunghiano in modo preci-so e limpido nelle citazio-ni seguenti. “Come ci dice l’esperien-za immediata, la luce del-la coscienza ha molti gra-di d’intensità, e il com-plesso dell’Io ha parecchilivelli di accentuazione. Alivello animale e primitivoregna una semplice lumi-nositas ancora quasi indi-stinguibile dalla chiarezzadi frammenti dissociatidell’Io, così come, a livel-lo infantile e primitivo, lacoscienza non è un’unità,non essendo ancora cen-trata da un complesso del-l’Io consolidato, ma di-vampa ora qui ora là, do-ve eventi, istinti e affettiinterni o esterni la desta-no. A questo livello la co-scienza ha ancora un ca-rattere insulare o di ‘arci-pelago’. Anche a livellopiù alto, e al livello massi-mo, la coscienza non è an-cora una totalità comple-tamente integrata, mapiuttosto un qualcosa ca-pace di un ampliamentoindefinito. (…) Sarà quin-di bene pensare alla co-scienza dell’Io come a unqualcosa circondato damolte piccole luminosi-tà.” (1947/54, “Riflessionisul- l’essenza della psi-che”, in Opere, vol. VIII,Bollati Boringhieri, Tori-no, p. 210).“Sono collegati all’Io icontenuti psichici chepossiedono una certa in-tensità. Tutti quei conte-nuti invece, che non rag-giungono la necessaria

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punto di vista energetico la possibilità di accedervi.Nei casi in cui il ricordo contiene elementi forte-

mente conflittuali e il rinforzo dato dal ripetersi del-l’evento ne impedisce la completa rimozione, comenel caso di Cosetta, può rimanere accessibile alla co-scienza seppur non in contatto con essa. La psichedell’individuo si organizza, si stabiliscono ponti dicollegamento fra le varie aree, ma quella ne rimaneesclusa.

È il principio dello strutturarsi dei casi di disturbodi personalità multipla.

Ma Cosetta non è così ferita da dichiarare una pa-tologia gravissima, né così sana da riuscire a integra-re tutti i suoi vissuti. Nella sua esistenza sottotono visono dei luoghi ‘neutralizzati’ dove nessuno ha ac-cesso, neanche lei, e i ricordi che questi contengonosaranno oggetto dell’indagine analitica.

L’indagine che ha portato la paziente a ricostrui-re gli eventi rivivendoli, rievocandoli e sistemandoliin una necessaria ricostruzione ha avuto anche un va-lore abreativo, che assume valore terapeutico, comeJung9 ci ricorda, in presenza di una persona nellaquale il paziente ha fiducia e che gli offre sostegnomorale contro l’affetto altrimenti insolubile del com-plesso traumatico. Questa esperienza di rievocazionepuò aiutare ad eliminare la dissociazione soltantoquando la personalità conscia del paziente risulti co-sì rafforzata dalla relazione col terapeuta che il pa-ziente può riportare coscientemente il complesso au-tonomo sotto il controllo della volontà. È la relazionecol terapeuta che eleva il livello di coscienza del pa-ziente consentendogli di dominare e assimilare ilcomplesso, come Jung sottolinea nel suo unico lavo-ro espressamente dedicato al trauma.

La ricostruzione della storia, la ricerca della veri-tà, sarà l’occasione per reintegrare alla coscienza, an-nettere alla personalità strutturata le isole dimentica-te, recuperando le energie in esse racchiuse e la di-gnità di essere umano intero.

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intensità, o che l’hannogià nuovamente perduta,restano al di sotto dellasoglia della coscienza, so-no subliminali, e appar-tengono alla sfera dell’in-conscio. Poiché è impos-sibile definirne i confini,l’inconscio si può parago-nare al mare; la coscien-za, invece, a un’isola cheemerge dal mare (…)Non si tratta di un rap-porto stabile, bensì diuno scambio incessante edi un continuo travaso dicontenuti (1923, “Svilup-po ed educazione delbambino”, in Opere, vol.XVII, Boringhieri, Tori-no, p. 51).8. C.G. Jung (1947/54),“Riflessioni sull’essenzadella psiche”, in Opere,vol. VIII, Bollati Borin-ghieri, Torino, p. 194 e sg.

9. C.G. Jung (1928), “Va-lore terapeutico dell’a-breazione”, in Opere, vol.XVI, Boringhieri, Torino,1984.

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Così, tenendo conto di queste considerazioni, holavorato con Cosetta, cercando con fatica di tenere inequilibrio elementi della vita attuale con ricordi delpassato. L’ho aiutata a ricostruire la sua storia cer-cando una verità possibile, una verità che di volta involta lei potesse reggere. Ho messo di fatto grande at-tenzione ai tempi di cui mi sembrava avesse bisogno,per assimilare gli eventi che emergevano dai ricordiconfusi, perché la portata emotiva delle ferite di cuidiventava consapevole non fosse troppo forte espo-nendola ad un dolore che non poteva sopportare.

Era come se Cosetta avesse da sempre un’incon-scia percezione di poggiare su sabbie mobili. Il mon-do dei ricordi, confuso e contraddittorio, eppur ac-cettato, costituiva un luogo dove non era lecito ad-dentrarsi, pena lo sprofondare in abissi senza limitiin cui non c’erano più appigli e punti di riferimento.Tenersi in equilibrio in una siffatta realtà psichica eramolto difficile e le richiedeva tutta l’energia a dispo-sizione.

In terapia, la mia autorizzazione alla ricerca, la va-lidazione di dubbi leciti e razionali, le ha permesso dicompiere la sua indagine senza essere sommersa dal-l’angoscia e dal disorientamento, è riuscita a guarda-re nel magma dei ricordi, tirando fuori ogni voltaqualcosa, ogni volta ripulendo il vago ricordo dalleemozioni contrastanti che ne annebbiavano la perce-zione e ogni volta inserendolo nel puzzle complessodella sua esistenza. Pian piano la consapevolezza hasostituito il disorientamento, la conquista della cer-tezza del dato reale che partiva da un suo ricordo leha trasmesso un’importante sensazione di consisten-za quasi ponderale. Lei esisteva, i suoi ricordi aveva-no legittimità, tutto quanto era accaduto riconquista-va un senso e una giustificazione a partire da quellarealtà prima incapsulata.

Il suo mondo interno riprendeva ordine con laconsistenza della verità, quindi verità e realtà, verità ediritto risultano legati strettamente. Conquistare la

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verità ha significato conquistare se stessa e la sua sog-gettività.

CONCLUSIONI

Cosetta ha costruito nel corso della sua vita unpersonaggio efficiente, integrato, con una socializza-zione apparentemente adeguata, ama lo sport e lanatura ed è immersa negli eventi sociali. Incarna laperfetta interpretazione del ruolo di una donna ingamba: colta, intelligente, piena di amici, con fre-quentazioni ricercate e di alto livello, di cui a volte sifregia. Varie le relazioni affettive con cui ha mante-nuto poi buoni rapporti, rimanendo l’amica di tutti.Pare temere l’ostilità. Interpreta un clichet moderno,radical chic.

La sua vita pare disegnarsi in un collettivo stereo-tipato, incentrato sull’Io e con una grossa sensibilitàche si manifesta in empatia accudente verso gli altri.La gravità della portata emotiva delle esperienze sub-ite ha impedito un adeguato sviluppo della sua per-sonalità manifestando un Sé frammentato e utiliz-zando diversi meccanismi di difesa per sostenere unasituazione difficile.

Attraverso la terapia che ha anche esplorato la te-matica psicosomatica che per brevità qui ometto, Co-setta è uscita da questa dimensione irrigidita e artifi-ciale conquistando un’autenticità prima negata.

Oggi Cosetta ha avuto accesso a se stessa. Ha rive-lato ai familiari l’abuso subìto incorrendo nel previ-sto rifiuto ed espulsione dal gruppo. Ha dovuto quin-di affrontare il materializzarsi del fantasma abbando-nico, ma ha retto al duro impatto, tenendo la posi-zione conquistata e ricostruendo la propria storia in-torno al nucleo del proprio Sé, liberando tratti dellapropria aggressività repressa.

La ‘verità’ finalmente raggiunta ha costituito perlei l’esperienza mancante di una consapevolezza qua-

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si materica del proprio esistere e le ha permesso di ri-costruire la propria storia dotandola di un senso au-tentico e personale e contribuendo all’inizio di unpercorso evolutivo.

La verità è diventata sostitutiva dell’interpretazio-ne e ne ha svolto la funzione.

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Dice Jung:1

“Il rapporto tra terapeuta e paziente è un rap-porto personale nell’ambito impersonale deltrattamento (...). Da ogni trattamento psichicoefficace ci si deve aspettare che il terapeuta eser-citi la sua influenza sul paziente, ma quest’in-fluenza può verificarsi soltanto se il paziente loinfluenza a sua volta. Influenzare significa essereinfluenzati. Non giova affatto a chi cura difen-dersi dall’influsso del paziente (...) ciò implica larinuncia a (...) servirsi di un organo essenziale diconoscenza (...). Una delle manifestazioni piùnote di quest’influenza — quasi chimica — è lacontrotraslazione indotta dalla traslazione”.

Ho scelto questo enunciato di Jung perché in essosono espressi in modo sintetico i punti chiave delprocedere analitico e proprio da qui vorrei partireper sviluppare alcune riflessioni sulla supervisione.

Dunque troviamo qui delineati i presupposti del-l’approccio terapeutico junghiano: il punto focale èposto sul “rapporto”, quindi sulla “relazione”, che sipone come oggetto centrale del processo terapeuticoe, al tempo stesso, come oggetto di ricerca sul come sicaratterizza e quali ne sono le componenti psichiche.

Nel relazionarsi all’oggetto vi è una “modalità” edè “dalla” e “sulla” modalità di rapportarsi all’oggettoche Jung fa partire i presupposti della sua metodolo-gia di ricerca sulla psiche.

Vediamo di fermarci sulla prima frase di questoenunciato: la supervisione allora avrebbe come og-getto “il rapporto tra terapeuta e paziente”, conside-rato come rapporto “personale” “nell’ambito imper-sonale del trattamento”.

Si porrebbe quindi come sguardo terzo tra duepunti focali:

— il rapporto terapeuta-paziente;— l’ambito impersonale del trattamento.Se ora ci interroghiamo su cosa si intenda per

“ambito impersonale del trattamento”, potremmoenuclearlo su più punti:

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1. Questionidi metodo

Io-tu-egli e il gruppoin supervisione

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1. C. G. Jung, Opere, vol.16, Bollati Boringhieri,Torino 1993, p. 80 seg.

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— il setting— le coordinate teoriche che caratterizzano l’in-

quadramento diagnostico, i riferimenti metapsicolo-gici e l’impianto metodologico.

Ciascuno di questi elementi implica a sua voltauna conoscenza oggettiva condivisa e un marginesoggettivo nella scelta e nell’utilizzo. In questo qua-dro la supervisione assume principalmente un ruolodi approfondimento didattico.

Rifacendoci alla felice considerazione di Bologni-ni2 che distingue un aspetto “pubblico” e un aspetto“privato”nella tecnica psicoanalitica, “l’ambito im-personale del trattamento”, sotto questo profilo, sa-rebbe riconducibile all’aspetto “pubblico” della mo-dalità di trasmissione e confronto teorico sulla prassiprofessionale. Nel rapporto di supervisione questoaspetto riveste una duplice funzione: di verifica e svi-luppo della conoscenza oggettiva. Si riferisce cioè aiparametri teorici di riferimento attraverso cui vienedescritto e inquadrato il caso.

Il polo “privato” del rapporto terapeutico emergenel territorio che si costituisce tra l’esplicitato e l’im-plicito della descrizione della relazione di transfert econtrotransfert (uso qui termini con riferimento allaconcezione junghiana di tali processi).

L’addentrarsi nell’analisi dei meccanismi che sot-tendono e caratterizzano il processo controtransfera-le nel rapporto terapeutico e nel rapporto di super-visione apre la riflessione a una notevole complessità.

Sotto questo profilo infatti la supervisione può es-sere descritta come un rapporto che, in un setting de-finito, si sviluppa avendo a sua volta come suo ogget-to un altro rapporto, ovvero la relazione terapeuta-paziente, e i dati relativamente oggettivi che rientra-no nell’inquadramento psicologico del paziente.

L’esperienza di lavoro e ricerca condotta nel grup-po con gli allievi, e di cui gli stessi hanno dato un ap-profondita relazione, è stata mossa appunto dall’in-

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2. S. Bolognini, L’empatiapsicoanalitica, Bollati Bo-ringhieri, Torino 2002, p.110.

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tento di riflettere su ciò che avviene parallelamentenella relazione terapeutica e nella supervisione, foca-lizzandoci più specificamente sull’individuazione esull’utilizzo del controtransfert.

La modalità di impostare il lavoro e le conseguen-ti elaborazioni si sono mosse in un’ottica specificadella metodologia junghiana, focalizzandosi cioè su“ciò che avviene e come avviene”, orientandosi pre-valentemente su “come funziona il processo” piutto-sto che cercarne la spiegazione in categorie metapsi-cologiche. In quest’ottica è stata centrale l’esperien-za condivisa nel ruolo dell’osservatore.

Se ora assumiamo l’ottica dell’osservatore sull’in-tero processo potremmo, riprendendo il titolo diquesto intervento, descriverlo come segue:

— nel rapporto terapeutico: c’è un io che si confrontacon un tu e in questa relazione si sviluppa il processoterapeutico;

— nel rapporto di supervisione: lo stesso io portaun egli complesso perché la sua caratterizzazione de-riva dalla narrazione che l’io ne fa.

In questa narrazione vi sono dati soggettivi ricon-ducibili:

— alla modalità specifica dell’io narrante di rap-portarsi all’oggetto;

— agli aspetti controtransferali sviluppatisi nel rap-porto terapeutico;

— al proprio vissuto transferale nel rapporto di su-pervisione;e dati relativamente oggettivi che riguardano:

— l’anamnesi e le problematiche del paziente;— i parametri clinici o, in altri termini, l’apparato

teorico di riferimento cui ci si riferisce nell’inqua-dramento e nella narrazione sul paziente.

In quest’ottica potremmo dire che il rapporto disupervisione può essere caratterizzato come il rap-portarsi di un io e un tu attorno ad un egli che è al tem-po stesso il paziente e il modo reciproco di rappor-tarsi alla conoscenza professionale ed esperienzale.

Questioni di metodo. Io-tu-egli e il gruppo in supervisione Riflessioni di clinica junghiana

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Se ci focalizziamo sulle dinamiche controtransfe-rali nel supervisore possiamo rilevare che la descri-zione del terzo è in grado di attivarle:

— attorno a ciò che evoca quanto emerge dalla de-scrizione del paziente;

— attorno a ciò che evoca la modalità del supervi-sionato di rapportarsi al supervisore;

— attorno a ciò che evoca la modalità del supervi-sionato di rapportarsi al paziente.

Ora, se prendiamo in considerazione la dinamicadi gruppo che si è realizzata nell’esperienza comunedi supervisione, è interessante rilevare come i conte-nuti attivati tendessero nell’implicito a porsi comecomplementari al processo esplicitato e analizzatosecondo i parametri propri della conoscenza condi-visa. Questo aspetto del procedere implicito delgruppo è stato felicemente colto nella sua relazionesulla funzione dell’osservatore dalla dottoressa Tri-velli quando rileva che:

“la prospettiva fenomenologica dell’osservatore ha mostratocome il movimento del gruppo mimasse le complesse inter-sezioni transferali e controtransferali della situazione clinicatrattata”.

A questo aggiungerei una seconda dinamica im-plicita nel procedere del gruppo e cioè che proprioladdove l’orientamento cosciente tendeva ad assu-mere una convergenza unilaterale su un aspetto del-la problematica esaminata, facilmente tendeva acrearsi una polarizzazione al suo interno tra due pos-sibili interpretazioni, quasi che nella specularità del-le complesse intersezioni transferali e controtransfe-rali il gruppo stesso agisse o fosse agito da una fun-zione compensatoria.

Il costituirsi di questa funzione tocca, a mio avviso,uno degli aspetti centrali del movimento controtran-sferale, e l’analisi dei contenuti attivati costituisce un“organo centrale di conoscenza”(per usare le paroledi Jung) per orientarsi nel processo terapeutico.

Elena CristianiRiflessioni di clinica junghiana

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L’addentrarsi sui complessi meccanismi che sot-tendono il costituirsi del controtransfert ed esami-narne le specifiche componenti esula da questo bre-ve intervento. Qui mi basta averne evidenziato unacomponente centrale che, a sua volta, richiederebbeun ben maggiore approfondimento.

Numerosi sono ormai gli scritti che si oc-cupano dei processi formativi in ambitopsicoterapeutico e psicoanalitico. A secon-da delle scuole di riferimento e dei diversiparadigmi che le definiscono, le riflessionievidenziano differenze concettuali signifi-cative. Tuttavia un elemento trasversale ècomune: quello di considerare che una“sfida” del processo formativo è, per il can-didato, la necessaria conquista di un pas-saggio interno da “oggetto soggettivo” a“soggetto soggettivo” (Bordi, 2000).

Riflettere e concettualizzare questo deli-cato passaggio del processo formativo, comporta nu-clei di aggregazione teorico-clinica di una certa im-portanza.

Innanzitutto è necessario riflettere sul particolarestato d’animo che questa esperienza formativa com-porta per l’allievo, poiché può essere per lui difficileesprimere liberamente i sui pensieri e le sue conside-razioni sul caso che sta trattando, dati i vincoli che iltraining comporta. Nella mia esperienza di supervi-sore ho rilevato una caratteristica che accomuna gliallievi e che mi ha fatto pensare a quella peculiaremodalità relazionale che intercorre nelle situazionidi abuso: il giovane terapeuta cerca di anticipare, conuno scarto di “previsione”, ciò che il terapeuta su-pervisore può pensare della situazione in esame. Nonsempre questa modalità è consapevole, a mio avviso.Non nel senso che vi sia un’intenzionalità manipola-

Riflessioni di clinica junghiana

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2. Questionidi metodo

A proposito dellequestioni di metodo

Nadia Fina

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tiva. Il problema è semmai quello di una relazione,quella tra supervisore e allievo, delicatissima, poichéè del tutto evidente che un elemento valutativo sot-tende questa esperienza. Ma di quale valutazione inrealtà noi parliamo?

Ho potuto anche osservare che questa dinamica,presente in un assetto relazionale tanto delicato eparticolare come quello della supervisione, può esse-re, in modo prevalentemente inconsapevole, spostatasul caso clinico che è oggetto dell’osservazione con-giunta.

È come se si formasse un’area marginale nellamente del giovane terapeuta, un luogo in cui gliaspetti emotivi, affettivi, evocativi vengono “costretti”divenendo contenuti non dicibili, inespressi, di unarelazione.

Il lavoro della supervisione dovrebbe invece apri-re una strada che, lungo tutto il suo percorso, aiuti ilcandidato a trovare una situazione propizia per l’ar-ricchimento e lo sviluppo di quella dimensione psi-cologica che è l’acquisizione della propria specificasoggettività.

“In contesti psicoanalitici la trasmissione del sapere procedecon una forma di conoscenza — esplicita ed implicita — che èessa stessa una eredità raccolta dalle generazioni che si avvi-cendano e che nella successione a quelle precedenti, forma-no una catena di trasmissione che si può definire transgene-razionale”. (Robutti, 2000). Questa preziosa eredità dovrebbepoter essere via via trasformata attraverso processi di identifi-cazione e disidentificazione continua; processi che dovrebbe-ro essere garantiti tanto dai complessi processi di formazione,quanto dall’istituzione che è preposta alla organizzazione del-la didattica nelle sue varie articolazioni.I fantasmi, le fantasie, i vissuti, le aspettative di futura appar-tenenza dovrebbero essere elaborati analiticamente” (NissimMomigliano, 2001).

Nel modello junghiano, come in ogni altro mo-dello psicoanalitico, l’interpretazione è l’atto di ren-dere chiaro, in un linguaggio, ciò che è stato espres-so in un altro. L’analista deve affrontare un lavoro

Nadia FinaRiflessioni di clinica junghiana

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psichico molto complesso per tradurre un’espressio-ne psicologica le cui origini, significato e scopo pos-sono essere, all’inizio, oscuri.

Le interpretazioni sono cruciali, inoltre, non soloe non tanto per il valore informativo che contengo-no, quanto piuttosto per la capacità che hanno direndere “oggetto reale e concreto” l’analista che par-la. È grazie a questo lavoro che analista e paziente ge-nerano un nuovo oggetto relazionale, promuovendonuove interiorizzazioni.

A tale proposito, la concezione junghiana del fun-zionamento psichico della coppia terapeutica, ci aiu-ta a comprendere qualcosa di ancora più specificocirca la qualità e il valore dello scambio terapeutico,soprattutto grazie all’introduzione del concetto difunzione psicologica. A differenza di quanto ipotiz-zato dai teorici delle relazioni oggettuali, che defini-scono la struttura come introiezione dell’immaginedell’altro, nel modello relazionale è il possesso stabi-le di una funzione svolta dall’altro — e da questi atti-vata nello scambio interattivo — ad essere individuatacome il fulcro attorno al quale si organizza la strut-tura psichica del soggetto (Aron, 2000).

Pensare in termini di funzione modifica la conce-zione stessa di sviluppo del processo di cura poiché,nello scambio clinico, l’azione terapeutica si compiegrazie alle nuove forme interattive e regolative, man-tenendo la diade in una posizione sempre più flessi-bile e sempre meno sbilanciata verso le esperienzecarenti delle fasi precoci di vita del paziente (Aron,2000).

Queste brevi considerazioni introduttive possonoavere, a mio parere, un loro significato nel processoformativo quando pensiamo al lavoro di supervisionee di supervisione in gruppo in modo particolare. For-mare significa aiutare i candidati in training a for-mulare ipotesi e ad avere opinioni personali; a pen-sare alle persone e alle relazioni che tra esse inter-corrono; a trovare e sostenere obiettivi condivisi e

Questioni di metodo. A proposito delle questioni di metodo Riflessioni di clinica junghiana

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condivisibili. Tutto ciò avendo ben presente i diversilivelli di realtà (conscia, preconscia e inconscia) del-le persone coinvolte nel progetto comune. Poiché laformazione analitica, di cui la supervisione è parte, èun progetto comune (Nissim Momigliano, 2001).

Lavorare in gruppo nei processi formativi e quin-di nella supervisione, contribuisce a formare un pen-siero gruppale, con la consapevolezza della comples-sità e del valore di una logica congiuntiva.

Formare, dunque, significa introdurre il candida-to ad un pensiero gruppale, che possa arrivare adesprimersi modulandosi dialetticamente, non solofra teoria e prassi ma anche fra individuo e gruppo.Si tratta, in altri termini, della attivazione e della in-troiezione della funzione psicoanalitica della mente,cioè quella peculiare capacità specifica di entrare inrapporto con l’altro e di trasformare gli elementi af-fettivi insopportabili o impensabili perché troppo do-lorosi, in comunicazioni e pensieri attivanti la cresci-ta personale e quella sociale (Corbella, 2004).

Utilizzare il piccolo gruppo di supervisione comestrumento formativo è un’esperienza che si muove inquesta direzione.

Innanzitutto la condivisione modula la dipenden-za dai supervisori, alleggerendo il peso che la valuta-zione incrociata, da parte dei supervisori e da partedegli allievi, può evocare.

La valutazione dell’allievo sul lavoro di supervisio-ne, ha una funzione emancipativa di notevole porta-ta, in quanto riduce l’idealizzazione e fa sentire il do-cente meno “sicuro” nella sua posizione di potere,spingendolo verso un comportamento maggiormen-te responsabile. Si verifica una diffrazione degli ele-menti transferali, consentendo al gruppo di lavoro diamplificare molto il ventaglio di possibilità relaziona-li tra supervisore e allievi e tra gli stessi allievi. La pre-senza di più supervisori con le loro specifiche com-petenze, i loro orientamenti culturali e personali a

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confronto, produce nel tempo flessibilità di pensieroe logica inclusiva piuttosto che selettiva.

Il gruppo, inoltre, si pone come oggetto e comesoggetto della formazione verificando, nel qui ed oradell’esperienza che si sta compiendo, quanto vienesostenuto teoricamente e l’eventuale scarto tra teoriae prassi. Il lavoro gruppale aiuta, infatti, a tollerarel’incertezza attraverso la realizzazione di spazi transi-zionali fra mondo esterno e mondo interno e tra di-versi riferimenti teorici.

“Questi spazi si aprono a momenti di autonomia e creativitàpermettendo lo sviluppo di nuovi pensieri sia di gruppo chein gruppo, abituando i partecipanti a legare elementi che ilpensiero comune tenderebbe a tenere separati, quando noncontrapposti, tra individuo e individuo e tra questi e il grup-po, per pensarli invece in costante interconnessione” (Cor-bella 2000).

Nel lavoro in gruppo la teoria di riferimento, in-fatti, si organizza “naturalmente” intorno a paradigmidi complessità e complementarità in quanto, al suo in-terno, differenti sono le menti che organizzano rifles-sioni e deduzioni. In tal modo la formazione divieneun momento autentico di confronto e scambio.

L’esperienza di supervisione in gruppo perseguedunque una strada di ricerca, che partecipa dialetti-camente della polarità teorica e di quella clinica, fa-cilitando una riflessione teorica insatura dell’espe-rienza che, proprio in quanto insatura, è disponibilea verificare nella prassi stessa una sua verifica o unasua disconferma che possa, eventualmente, indurreuna rimessa in discussione creativa per nuove solu-zioni.

Se è essenziale che i docenti esprimano le loroteorie di riferimento nel condurre la supervisione, èconseguenzialmente evidente nel lavoro gruppale ve-rificare che un sapere già costituito può essere ridi-scusso come problematica di ricerca.

Questo particolare modello di supervisione ingruppo, prevede la figura dell’osservatore ed è attivo

Questioni di metodo. A proposito delle questioni di metodo Riflessioni di clinica junghiana

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al Cipa da oltre dieci anni. Nato come progetto di ri-cerca con le dottoresse Andreoli, Ceccarelli, Chiesa,ha un valore formativo particolare per l’acquisizionedi una capacità di ascolto e di riflessione sulle dina-miche intra ed inter-soggettive sia in merito al casoesposto, sia in merito alle modulazioni che sollecita-no il gruppo.

Nel corso di questi lunghi anni, abbiamo potutoconstatare che l’inserimento nel gruppo di supervi-sione della figura di osservatore è una modalità ditraining a tutti gli effetti.

L’osservatore, infatti, si pone nella posizione disentire e capire quali esperienze emotive e riflessive ilcaso esposto mobilita nel gruppo di supervisione equali forme espressive canalizzano i vissuti contro-transferali. Osserva i momenti evolutivi o involutividel gruppo, presentificandosi egli stesso come terzoall’ascolto, imparando a cogliere gli effetti del pro-cesso terapeutico che costituiscono l’essenza stessa diun metodo e, nel momento della restituzione algruppo, per tutti diviene evidente l’importanza dipensare — ad un tempo — in termini di complessità in-satura e di inclusività, imparando a sviluppare la ca-pacità di contenere l’altro e di essere recettivi.

Grazie alla presenza dell’osservatore, che alla finedella supervisione restituisce al gruppo le sue rifles-sioni sul lavoro comune, la focalizzazione sul processo,che si attiva nello svolgimento della supervisione delcaso, evidenzia come si strutturi una fiducia e un’a-pertura tra i partecipanti e tra questi e i supervisori.

La presenza dell’osservatore è un buon contribu-to all’apprendimento in contesti psicoanalitici inquanto la figura dell’osservatore — vicina come statusagli altri allievi presenti — presentifica continuamen-te l’importanza della relazione di scambio per la tra-smissione del sapere grazie alle comunicazioni cheintercorrono tra gli allievi, che imparano ad appren-dere dai loro compagni, a confrontarsi, a discutere, amotivare in modo riflessivo i loro pensieri.

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Inoltre, il timore che l’assunzione del ruolo di os-servatore può suscitare, in particolare le prime volte,aiuta i terapeuti in training a comprendere ed af-frontare la natura stessa delle paure e delle resisten-ze che nelle loro esperienze di analisti essi possonovivere.

In questo senso l’osservatore diviene, nel gruppoe per il gruppo, un modello di crescita e un’attuazio-ne effettiva di apprendimento per tutti, anche per isupervisori, che ascoltano la restituzione sul casoesposto ricevendo a loro volta nuovi stimoli forieri dinuove e più ampie prospettive elaborative.

Il ruolo di osservatore facilita una forma di iden-tificazione maturativa con il supervisore, distinguen-dosi da forme imitative e offrendo nel contempo al-l’allievo l’opportunità di realizzare al massimo le suepotenzialità, nel rispetto delle differenze e delle ca-ratteristiche personali. Il confronto tra differenzecontribuisce a ridurre la negazione della curiosità,negazione funzionale ad alleviare un vissuto ambiva-lente generato dal timore di essere penalizzati nelprocesso di training.

Questa forma particolare di costruzione inter-re-lazionale si svolge secondo eventi relazionali distintiin momenti a volte attesi e prevedibili, a volte inatte-si, di rottura e successiva riparazione che, grazie allaloro esplicitazione attraverso forme espressive anchedi “enactement”, determinano un continuum di mo-menti affettivi intensi che organizzano e rendonopensabili nuove dimensioni emotive e nuove formedi riorganizzazione mentale ed affettiva nei terapeu-ti. Fenomeni questi del tutto presenti e che scandi-scono il lavoro con i pazienti.

Nel processo formativo la psicoanalisi viene tra-smessa, più che insegnata.

Trasmettere significa approntare strumenti di in-segnamento e di apprendimento, più che codifichenormative. La mera codifica normativa, in ambito

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formativo, penalizza la finalità di ricerca a cui la stes-sa formazione analitica dovrebbe tendere, favorendoinvece un’anacronistica forma di autosufficienza delsapere psicoanalitico.

In tal modo noi formatori corriamo il rischio didare vita a formazioni tecniche, prive di anima, inca-paci di stimolare curiosità e autentico interesse perl’oggetto dell’apprendimento che è il paziente.

Il modo in cui un analista viene formato non èprescindible dal modo in cui tratterà i suoi pazienti edal modo in cui imparerà a pensare agli aspetti pato-logici che questi presenteranno.

Bibliografia

Aron M. (1999), Menti che si incontrano, Cortina, Milano 2000.Bordi S. (2000), Seminari Milanesi, Centro Musatti, Milano 2000.Corbella S. (2004), Storie e luoghi del gruppo, Cortina, Milano 2004.Nissim Momigliano L. (2001), L’ascolto rispettoso, Cortina, Milano

2001.Robutti A. (2000), Sulla supervisione, Seminario presentato all’I-

SIPsé, Milano 2000.

LE MOTIVAZIONI

(a cura di Emiliano Kersevan)

Lo svolgimento di un’attività comporta l’e-sistenza di motivazioni. La partecipazione aduna supervisione sul metodo terapeuticocomporta il fatto che i membri del grupposiano motivati in tale direzione. Inizialmente,in quanto allievi del Centro Italiano di Psico-logia Analitica, siamo partiti dal desiderio diapprofondire cosa ci fosse di peculiare nel-l’approccio metodologico junghiano, per in-terrogarci successivamente in generale sulmetodo in psicoanalisi.

Nadia Fina / Emiliano KersevanRiflessioni di clinica junghiana

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3. Questionidi metodoRiflessioni su un lavoro di supervisione in gruppo

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Va detto che la finalità del nostro lavoro è stata du-plice: da un lato avremmo partecipato ad un gruppodi supervisione clinica, dall’altro ci saremmo apertiad un lavoro di ricerca sul metodo. A partire da unagenerica definizione di metodo, quale può essere il“procedimento atto a garantire sul piano teorico e pratico ilsoddisfacente risultato di un lavoro” (Devoto e Oli,2002), ognuno di noi ha deciso di partecipare a taleesperienza spinto da particolari aspettative che pos-sono essere brevemente riassunte e condensate inpiù filoni. Ci si aspettava infatti un lavoro di ricercache discutesse ed approfondisse aspetti teorici, ideaquesta chiusa in una visione secondo la quale il me-todo è una cosa pensata, tecnico-teorica, sganciatadal resoconto clinico, quasi una sorta di formula attaa rassicurare; oppure ci si aspettava un lavoro finaliz-zato a trovare un’euristica utilizzabile per affrontarecon successo un più ampio spettro di patologie; o an-cora un lavoro finalizzato a reperire strumenti in gra-do di offrire una chiave di lettura della realtà, cioèuna coerente e realistica lettura dei casi clinici inquestione.

A partire da queste aspettative derivanti dalla defi-nizione stessa di metodo e che ci hanno portato a de-finire mentalmente le finalità del gruppo di lavoro, ènato in ognuno di noi un secondo livello di aspetta-tive, quello relativo al metodo che sarebbe stato uti-lizzato nello svolgimento delle supervisioni.

Forse la stessa affascinante considerazione diJung, nota a noi tutti, secondo la quale “il terapeutanon ha soltanto il suo metodo: è egli stesso il suo metodo”(Jung, 1945, p. 98) ci ha in parte condizionato, adogni modo le aspettative su come si sarebbe svolta lasupervisione sono state abbastanza simili. Ci si imma-ginava a grandi linee la presentazione di un caso cli-nico da parte di qualcuno, seguita da una sorta di do-manda rivolta al gruppo, domanda riguardanteun’impasse terapeutica. La supervisione stessa venivaimmaginata quale luogo in cui portare delle doman-

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de derivanti da uno stallo interno al processo tera-peutico, o luogo in cui elaborare mentalmente il pas-saggio da un singolo caso ad un sistema organizzato;insomma una sorta di ricetta terapeutica.

Tutto questo ci è sembrato essere l’aspetto motiva-zionale di cui eravamo abbastanza consapevoli. A li-vello implicito, inoltre, ci siamo forse voluti misurareanche con la nostra capacità di rielaborare contenutiteorici ed esperienziali. In fine sarebbe però un erro-re, o perlomeno un atto di superficialità, non pren-dere in considerazione l’ombra della motivazione, laquale, anche se sfuggente, non può non aver condi-zionato le scelte dei partecipanti. Le docenti che han-no organizzato questo gruppo di ricerca sono infattinostre insegnanti alla Scuola di Psicoterapia del CIPA,sono membri delle commissioni durante gli esami,possono avere o aver avuto a che fare con noi in sededi supervisione individuale, di colloqui di selezione,eccetera. Ritenere che tutto ciò non abbia avuto alcu-na influenza sulla scelta di partecipare a questa espe-rienza di gruppo non sembra plausibile; ovviamentein questa sede non ci addentriamo di più a riguardo.

Ad ogni modo qualunque sia stata la serie di moti-vazioni consce o inconsce che ci ha portato a parteci-pare al gruppo di ricerca sul metodo nella clinica jun-ghiana, alla fine siamo stati tutti quanti concordi nelritenere di aver vissuto un’esperienza formativa im-portante, faticosa, piacevole, ma soprattutto dissimileda ciò che ci eravamo immaginati. Discuteremo oranello specifico la realtà oggettiva dei fatti, ovvero lapeculiarità di questi diciotto mesi di lavoro assieme.

IL METODO “OPERATIVO”(a cura di Paola Zucca)

Entriamo quindi nell’attività realizzata in questoanno e mezzo per consentire a chi ci legge di mette-re a fuoco la modalità del nostro lavoro.

Emiliano Kersevan / Paola ZuccaRiflessioni di clinica junghiana

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Se l’etimo greco della parola metodo “metà hodos”significa la via (hodòs) che conduce oltre (metà), al-lora la “strada” che abbiamo seguito nel nostro ricer-care è stata la definizione di una forma del lavorareinsieme che ha consentito di costruire un contenito-re dentro cui si è potuto sperimentare l’ “andare ol-tre”. Una forma non solo fatta di tempi, ruoli, fun-zioni ma anche “di una particolare qualità della rela-zione” a sua volta non solo tra i partecipanti ma an-che nei confronti dei racconti, delle emozioni, deipensieri emersi durante il lavoro e delle aperture diconsapevolezza che hanno accompagnato come rit-mo il nostro procedere.

Venendo alla forma/contenitore che abbiamo ri-petutamente adottato, una volta al mese, per due orecirca, è stata quella già incontrata anche in altri grup-pi di supervisione, costituita da almeno tre momentiin sequenza:

— un primo momento in cui un membro-terapeu-ta del gruppo, racconta la storia / la situazione / ilpercorso terapeutico di un paziente e conclude conuna domanda al gruppo;

— un momento successivo che vede una differen-ziazione di ruoli tra chi esprime ciò che il raccontoha suscitato a livello di emozioni e pensieri, portandole proprie riflessioni/emozioni e confrontandosi congli altri membri del gruppo e chi (una persona perincontro) osserva la dinamica che si attiva nel grup-po, mantenendosi “silente”;

— un momento conclusivo in cui viene restituito al“terapeuta narratore” dall’ “osservatore silente” ciòche è emerso nella discussione del gruppo, “connes-so ad un senso”.

La possibilità per ciascuno di “abitare” i diversiruoli ed essere portavoce in momenti diversi dellevarie funzioni nel gruppo è stata una specificità mol-to gradita in questo gruppo “in ricerca”, che attra-verso la sperimentazione di ciascuno sulla propriapelle di tutti i ruoli ha consentito una comprensione

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comune e la possibilità di un confronto “paritario”(malgrado le differenze di esperienza) legittimandol’espressione di ogni emozione e pensiero emergen-te nel gruppo.

Possiamo rintracciare la qualità della relazioneche si è costruita incontro dopo incontro percorren-do le diverse funzioni, che sono emerse nelle fasi dellavoro di gruppo, come elementi in relazione tra imembri:

— la funzione del narratore come attivazione delgruppo su un “oggetto di ricerca”, costituito da fatti,emozioni, risonanze, di volta in volta differente, pre-sentato in modo libero a seconda dello stile del tera-peuta;

— e, parallelamente, la funzione di ascolto del gruppo co-me contenitore, ricettivo e accogliente, che tiene amente non solo ciò che racconta il terapeuta ma an-che il terapeuta stesso nella sua relazione con il pa-ziente;

— la funzione di ampliamento ed esplorazione del grup-po, che si pone in modo anche dialettico con il nar-ratore, supportandolo nella ricerca di senso rispettoal paziente, partendo dal principio che tutto ciò cheemerge nel “controtransfert del gruppo” potrebbeavere a che fare con la situazione della coppia anali-tica, oggetto del racconto;

— e, parallelamente, la reazione del narratore a ciò cheesprime il gruppo, che manifesta il suo sentire e la mo-dalità di confrontarsi e considerare ciò che emerge, asua volta ri-influenzando il gruppo;

— la funzione dell’osservatore, su cui ci si soffermerànel prossimo intervento, che si pone inizialmente co-me contenitore, in ascolto di tutte le parti finora de-lineate, circolanti nel gruppo, e parallelamente ri-flessiva, all’interno del suo silenzio per poter poi di-venire attiva nel rispecchiamento, al gruppo deglielementi emersi.

Così come l’incontro analitico tra terapeuta e pa-

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ziente può essere considerato un incontro su più li-velli (tra inconscio e conscio all’interno di ciascuno etra le diverse parti della psiche in relazione tra i dueindividui1), anche il lavoro del gruppo in supervisio-ne e in ricerca del metodo terapeutico può esserepensato come un ampliamento della stessa fluttua-zione tra le parti consce e inconsce degli attori pre-senti (e assenti), che rende ancora più complesso ilmovimento.

Jung in “Psicologia dell’inconscio” scrive che ilsuo metodo, partendo dal processo naturale dell’u-nificazione dei contrari, consiste nel

“far emergere intenzionalmente ciò che per sua natura si ve-rifica inconsciamente e spontaneamente, e integrarlo nellacoscienza e nel modo di vedere proprio della coscienza”(Jung, 1942, p. 81).

Possiamo forse pensare che il lavoro del nostrogruppo sia andato in questa direzione attraverso lafunzione dell’osservatore e nell’esplicitazione di“momenti presenti” sperimentati a più livelli, comeeventi di co-costruzione di esperienza di senso.

Ad un certo punto del nostro percorso l’ andareoltre ci ha portati proprio a ricercare intorno al “mo-mento presente”, definito da Stern come quello in cui

“due persone stabiliscono un contatto intersoggettivo [dove] si deter-mina quella reciproca interpenetrazione delle menti che ci consente didire: ‘Io so che tu sai che io so’ o ‘Io sento che tu senti che io sento’[secondo l’accezione Stern]. (...) Momenti come questi possonocambiare il corso della vita e orientare la storia relazionale dell’indi-viduo (…)” (Stern, 2005, p. 63).

La ricerca del momento presente non è avvenutain modo strutturato, ma è stata principalmente un as-setto della mente dei membri del gruppo, fluttuantee intento a scoprire e riconoscere, all’interno del la-voro terapeutico e del lavoro del gruppo di supervi-sione riguardo al lavoro terapeutico portato, gli istan-ti emozionalmente carichi condivisi, che per l’autore

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1. Dieckmann ha rappre-sentato attraverso unoschema questa relazione.Lo schema viene origina-riamente da Jung che l’a-veva utilizzato per rappre-sentare schematicamentealcune coppie di oppostisui due livelli, conscio einconscio. Dieckmannconsidera i due attori del-la relazione analitica, te-rapeuta e paziente, cia-scuno portatore di particonsce e inconsce in rela-zione tra loro e con leparti rispettive dell’altro.H. Dieckmann, I metodidella psicologia analitica,La biblioteca di Vivarium,Milano 2003.

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sono elementi definibili come “qui ed ora con un pote-re trasformativo senza pari” (ibid., p. 3). Stern delineanell’omonimo testo il momento presente, come orasoggettiva e in particolare:

“ogni momento di cambiamento implica ‘un’esperienza reale’ ina-spettata, riguardante la relazione tra due (o più) persone in un in-tervallo di tempo che viene esperito come ora. Un’ ‘ora’ è un momen-to presente con una certa durata, che mette in scena una breve storiaemozionale riguardante la loro relazione” (ibid., p. 19).

È stato interessante come alcuni momenti presen-ti siano stati esperiti e “nominati” all’unanimità daipresenti, rimandandone un senso di realtà (quasiscientifica, se pensiamo all’interosservabilità comeprincipio del metodo scientifico) e permettendo diconfrontarci sul nostro procedere.

SULLA FUNZIONE DELL’OSSERVATORE

(a cura di Cristina Trivelli)

Nel procedere del nostro lavoro di supervisioneabbiamo prestato un’attenzione costantemente cre-scente al ruolo dell’osservatore ed abbiamo provatoa riflettere insieme sulle caratteristiche di questa fun-zione.

Come abbiamo descritto, l’osservatore non inter-viene attivamente nella discussione del caso clinico, ètenuto a registrare ciò che accade nella seduta di su-pervisione avendo nella propria mente l’obiettivo diuna restituzione finale.

L’osservatore assiste ad una narrazione che ri-guarda i contenuti di una relazione divenuta proble-matica, osserva il lavoro di ampliamento avviato dallanecessità dei partecipanti di giungere a chiarificazio-ni, condividere i sentimenti suscitati ed esprimernegli affetti, avendo come obiettivo finale quello di aiu-tare il terapeuta narrante a superare l’impasse segna-lata. L’osservatore prende atto di un processo di

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scomposizione del quadro clinico operato dai parte-cipanti, che discutono la situazione clinica per rag-giungere un’immagine del caso arricchita ed appro-fondita. All’osservatore spetta quel compito di ride-scrizione rappresentazionale (Karmiloff-Smith, 2004)che mira a restituire una nuova immagine del campoanalitico dotata di un significato più ampio e che po-trà sollecitare nuove possibilità di sviluppo.

Abbiamo osservato come la capacità di ascolto deipartecipanti abbia spesso seguito un andamentocompensatorio, facendo emergere aspetti inconscidella relazione terapeutica oggetto di approfondi-mento. Il riscontro di tali elementi, accolti e ricono-sciuti, ha potuto trasformare una narrazione statica,percepita senza via di uscita dal paziente, ed in quelmomento anche dal terapeuta, in una storia dotata disenso e quindi aperta al futuro. Un racconto centra-to su fatti concreti, su vicende comuni del mondoesterno, ad esempio, può cambiare grazie ad una dis-cussione che si soffermi su ciò che manca, come i vis-suti più personali; procedendo in questo modo, sipuò chiamare in scena qualcosa di nuovo che sugge-risce altri possibili sviluppi e letture. Inoltre, una per-cezione controtransferale del paziente come piùadulto ed evoluto di quanto sia internamente può es-sere ridimensionata dagli interventi più regressivi delgruppo, che avviano il confronto con aspetti che lasola mente del terapeuta, in collusione con quella delpaziente, non riesce ad avvicinare.

Con sorpresa abbiamo rilevato come le sollecita-zioni di uno dei partecipanti dessero il via ad ulterio-ri osservazioni da parte di altri che inizialmente po-tevano apparire distanti ed inconciliabili, mentre losguardo più distante dell’osservatore traeva da questielementi spunti fondamentali per il suo obiettivo fi-nale di conferire il senso di un andamento dinamicoed articolato alla complessità degli elementi emersi.Si tratta di un lavoro di “co-creazione” (come suggeri-sce Stern, 2005, p. 132), laddove ciò che emerge alla

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fine è frutto di un impegno mentale condiviso in cuinon è più possibile tornare alle singole parti se nonperdendo il senso della totalità. Seguendo questopercorso di lavoro possiamo dire che ciascun parteci-pante sia diventato esso stesso rappresentante delmondo interno del paziente, perdendo la sua neu-tralità; possiamo anche aggiungere che, se la super-visione è “costruibile”, ogni membro del gruppo nonpossa che essere attivo poichè vi partecipa come in-dividuo a se stante, ma in relazione dialettica con tut-ti gli altri.

La prospettiva fenomenologica dell’osservatoreha mostrato come il movimento del gruppo mimassele complesse intersezioni transferali e controtransfe-rali della situazione clinica trattata e ci ha invitati aprestare molta attenzione alla dimensione implicita.Rendere dicibile l’indicibile allude a quel faticoso la-voro di rendere esplicito tutto quel campo di feno-meni impliciti che sottostanno ad una relazione eche conducono a ciò che Stern definisce una “consa-pevolezza verbalizzabile” (ibid., p. XIV).

La buona riuscita di un lavoro di supervisioneconcepito in questi termini presuppone, a nostro av-viso, una condizione di sufficiente libertà personalenell’esprimere i propri pensieri ed il proprio sentire,confidando nei sottili legami di senso sincronica-mente mossi dall’inconscio e condividendo la consa-pevolezza che, al di là delle considerazioni esplicita-te, nel campo relazionale qualcosa si muova ad un li-vello più inconscio o implicito che l’osservatore, conil suo spirito di ricerca attiva, valorizza nel creare unsignificato condivisibile. L’assunto implicito della no-stra modalità di procedere pensiamo sia stato il rico-noscere come sistema motivazionale fondamentalel’intersoggettività: come suggerisce Stern (2005),due menti si incontrano e generano qualcosa di spe-cifico ed unico che porta a qualcosa di nuovo a cia-scuna delle due menti.

Se uno scopo del terapeuta che lavora con il pa-

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ziente è quello di trasmettere e restituire un’immagi-ne di sé come dotato di una mente che si muove se-condo un funzionamento intenzionale e finalistico(teleologico) volto quindi a stimolare il divenire del-la sua personalità (Knox, 2007), possiamo dire che illavoro dell’osservatore abbia mostrato al gruppo co-me, attraverso il lavoro condiviso, ciascun terapeutapartecipante alla discussione potesse sperimentare ilsuo essere una mente attiva al lavoro, ma potesse an-che essere testimone dell’emergere nel campo rela-zionale di qualcosa il cui senso è tutto da ricercare,scoprire e conoscere.

L’osservatore si muove come abbiamo visto su unterritorio denso di complessità ed imparare ad eser-citarne la funzione non è un’impresa semplice. Ri-pensando alla nostra esperienza di lavoro possiamoconsiderare come l’osservazione e l’ascolto inizialedel punto di vista di ciascuno dei supervisori, diven-tato osservatore, ci abbia offerto l’opportunità di fa-re direttamente esperienza di un suo personale mo-do di operare. Sapevamo sin dall’inizio che ciascunodi noi avrebbe dovuto assumere tale funzione, per-tanto abbiamo cercato di elaborare ed interiorizzarequella esperienza facendola diventare un pò nostra,immaginiamo riconoscendone assonanze e verifican-done distanze. L’operato degli osservatori-superviso-ri ha svolto in sostanza una funzione di guida nel-l’implicito invito ad orientare le nostre menti non so-lo alla ricerca del noto da riconoscere e descrivere,ma anche del nuovo da ricercare e comprendere.

L’osservatore nella funzione descritta assume lavalenza di colui che effettivamente osserva come sidelinea un metodo coniugando quel doppio signifi-cato di metodo (Devoto e Oli, 2002) per cui, accantoalla spiegazione di un procedimento sequenziale vol-to alla soluzione di una situazione problematica, stiaanche il dispiegarsi di un procedimento mentale epersonale che diventi una guida interna alla soluzio-ne di problemi complessi.

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Il lavoro dell’osservatore, come sappiamo, non èspecifico della metodologia junghiana, ad esempiopotremmo ricollegare questa funzione alla concezio-ne del terzo analitico di Ogden (1994). Come allieviin formazione junghiana teniamo a riflettere innan-zitutto sui concetti della psicologia analitica ed alloraci domandiamo se l’osservatore nella sua funzione siavvalga di concetti tipicamente junghiani come adesempio il concetto di emergente, di funzione tra-scendente, dei principi dell’energetica e ne sostengail principio della finalità teleologica dell’esperienza.

CIÒ CHE L’ESPERIENZA CI HA TRASMESSO

(a cura di Elena Greco)

Restituire il senso di ciò che questa esperienza ciha dato è un po’ simile al compito che l’osservatoreè chiamato a svolgere nel corso della supervisione, èun atto sintetico che nel cogliere una visuale, neces-sariamente ne trascura altre possibili. Per quel che ri-guarda l’aspetto individuale ciascuno di noi potrebberiferire questa esperienza da una angolazione diffe-rente, tuttavia ciò che ci ha accomunato è stata la pos-sibilità di condividere un’area di riflessione e di ri-cerca che ci ha fatto sperimentare la fatica ed il pia-cere di pensare insieme.

Per quanto riguarda la valenza formativa del lavo-ro fatto ci sembra di poter dire che l’aver ricoperto idiversi ruoli possibili all’interno del gruppo, nei pan-ni di chi presenta il caso, di chi partecipa alla discus-sione o di chi osserva il gruppo al lavoro, ci abbia per-messo di fare direttamente esperienza della comples-sità che si muove nel campo analitico, approfonden-do di volta in volta una angolazione senza poter di-menticare le altre, tutte simultaneamente presenti. Èun modo di avvicinarsi agli aspetti teorici e metodo-logici, partendo dall’esperienza diretta, utile per l’ap-prendimento della capacità di ascolto di se stessi in

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relazione all’altro e di ciò che accade nel campo ana-litico.

L’ascolto delle reazioni emotive degli altri parteci-panti, dei loro interventi così come delle proprie rea-zioni emotive, può aiutare a divenire maggiormenteconsapevoli del modo in cui la propria psicologia in-dividuale agisce nel corso del procedere analitico.

Considerando che l’analista è sempre un osserva-tore partecipe del processo, ci si può chiedere in qua-le modo la sua “equazione personale” contribuisca acostruire il metodo ed il processo terapeutico, en-trambi legati all’interpretazione che dona significato.Le discussioni di gruppo hanno evidenziato come inciascuno di noi il confronto con il paziente abbia sol-lecitato risonanze diverse, simpatie ed antipatie chehanno a che vedere con la dimensione controtran-sferale. Il lavoro ci ha stimolato inoltre ad osservaremeglio le nostre reazioni idiosincratiche e a cercaredi capire come usarle nel setting analitico, grazie allapossibilità di vederle all’interno del quadro più vastoofferto dall’osservatore.

L’inconscio ha una dimensione comune condivisi-bile ed il confronto con altri punti di vista può apriread altre possibilità e, paradossalmente, può diventareanche stimolo per rafforzare il proprio punto di vista.In un’ottica più individuativa, il riconoscimento di vi-suali troppo lontane dalla propria possibilità e capa-cità di sentire offre una specificità al proprio modo dilavorare. Quando Jung ci suggerisce che “il terapeutaè egli stesso il suo metodo”(Jung, 1945, p. 98) ci costrin-ge ad impegnarci per la nostra crescita personologi-ca, che non ha ovviamente a che vedere solo con unaccrescimento delle conoscenze, ma con la nostra ca-pacità di aprirci a nuove prospettive cercando altresìla via che più ci rappresenta. Se il medico contribui-sce “allo sviluppo delle potenzialità creative del paziente”(Jung, 1929, p. 50), il terapeuta in formazione devepotersi cimentare con una possibilità di sviluppo del-le proprie potenzialità creative.

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Per poter lavorare in questo modo è stato neces-sario affidarsi fiduciosamente ai propri commenti,pensando che una sorta di comunicazione fra incon-sci potesse permettere una conoscenza più vera dellasituazione descritta, certi che ciò che accadeva potes-se essere comunque attinente all’oggetto della nostraindagine.

Nel confronto di gruppo non è sempre stato fa-cile coniugare i nostri punti di vista, il nostro fatico-so tentativo è stato anche quello di provare a con-frontarci sul piano delle esperienze e dei vissuti. Inquesto senso, partecipare alla discussione portandoun caso che mette in difficoltà comporta un mag-giore coinvolgimento e suppone un diverso verticedi osservazione. È un po’ come portare qualcosa dise stessi insieme al paziente, qualcosa che riguardaentrambi e che in quel momento non si riesce a ve-dere, ma solo a sentire, attraverso il disagio che com-porta. Da questa prospettiva può essere difficile ac-cogliere nuovi stimoli ed osservazioni, un po’ comeil paziente resiste a ciò che può mettere in discussio-ne un equilibrio, per quanto disfunzionale sia. Nell’esperienza fatta, il tentativo di superare queste rigi-dità ci ha permesso di andare oltre e di trasformare,attraverso il confronto con le osservazioni degli altri,la rappresentazione del paziente e della nostra rela-zione. L’emergere di un modo altro di guardare al-l’impasse terapeutica ha aperto nuove domande chehanno portato movimenti significativi nel lavoro conil paziente.

La possibilità di mettere insieme l’aspetto espe-rienziale del momento presente con la riflessionesuccessiva, le sollecitazioni emotive con un pensieroche permette di dare senso a ciò che accade è unodegli elementi che ha dato spessore formativo al no-stra esperienza, mostrandoci più da vicino il percor-so cognitivo ed affettivo che prende corpo nel lavoroanalitico.

Partecipare a questo gruppo di ricerca ha impli-

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cato inoltre di riflettere più attentamente su cosa cia-scuno di noi intenda per metodo psicoanalitico, sul-la relazione con la teoria e sulle conseguenze chequesto comporta per il personale operare clinico.Ciascuno di noi ha sperimentato lo sforzo di provarea leggere ciò che accade nella relazione con il pa-ziente alla luce di un sistema teorico di riferimento,portando con sé la sensazione di uno scarto mai col-mabile al di là della propria inesperienza. Per quan-to la consapevolezza della complessità relativa ai fe-nomeni psichici possa aiutare a ridurre il bisogno dipunti di riferimento certi, tale consapevolezza nonpuò comunque eliminare la necessità di ricercare edi orientarsi nella messe di dati che il confronto siacon l’altro che con se stessi sollecita.

Il gruppo è inizialmente partito con un grado ri-stretto di consapevolezza sul significato di metodo, ri-conducendolo ora all’aspettativa di ottenere chiarelinee guida per affrontare il lavoro psicoterapeuticoora all’idea di un sapere trasmissibile e assimilabile,derivante da un approccio teorico organico. Per talemotivo in un primo momento si è prestata maggioreattenzione al contenuto delle problematiche ineren-ti il caso di volta in volta presentato, piuttosto che fo-calizzarsi sul processo e su ciò che accadeva nel corsodel lavoro fatto insieme. Nello svolgersi del lavoro digruppo, il riconoscimento dell’importanza del lavorodell’osservatore ha aperto nuove domande, non soloteoriche ma anche pratiche, su cosa e come inter-pretare, in bilico tra la confusione data dall’attenzio-ne ai soli dati ed il rischio di eccessiva astrazione nelvoler ricondurre gli elementi emersi ad un esclusivoassetto teorico. La maggior consapevolezza dellacomplessità dei piani che si intersecano ci ha portatialla fine dell’anno di lavoro a spostare più esplicita-mente l’attenzione su ciò che Stern definisce “nowmoment” cioè quel

“momento presente che si manifesta improvvisamente nella seduta

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come priorità emergente del processo di avanzamento terapeutico. Èun momento affettivamente carico, perché mette in discussione la na-tura della relazione tra paziente e terapeuta (…). Si crea, dunqueuna crisi che richiede una risoluzione, la quale può giungere sottoforma di un momento di incontro o di una interpretazione” (Stern,2005, pag 202).

In questo modo può emergere una nuova “verità”che ri-organizza la mente del gruppo e la mente del-la coppia analitica.

Gli incontri successivi hanno accordato una mag-giore attenzione alla dimensione “tempo”, intesa co-me “qui ed ora” della discussione di gruppo e “là e al-lora” nell’incontro con il paziente. Il fatto stesso disforzarsi di stare nel presente ha comportato unascolto più mirato a cogliere gli aspetti di relazione edi confronto tra due soggetti all’interno del campoanalitico, più che sui soli aspetti di contenuto. In que-sto modo di procedere potremmo forse riformularela concezione di interpretazione considerandola nonpiù soltanto la decodifica di qualcosa di ritrovato, mala ricerca e la “tessitura” (o co-costruzione) condivisadi un senso all’interno di un’esperienza intersogget-tiva. Partecipare al gruppo di supervisione con le mo-dalità che abbiamo descritto ci ha aiutati a coglierequell’aspetto del metodo inteso come modalità diporsi di fronte all’oggetto, piuttosto che come tenta-tivo di ricondurre i fenomeni ad una teoria esplicati-va. In questo senso l’affermazione di Jung secondo laquale “si può andare avanti a lungo con una teoria ina-deguata, ma non con metodi terapeutici inadeguati” (Jung,1929, p. 47) sembra bene rappresentare lo spirito delnostro interrogarci.

Nello stesso tempo gli stimoli teorici provenientidai supervisori, i richiami al punto di vista di diversiautori, anche a seconda della problematica emer-gente nel corso della discussione del caso, ci hannospinti ad approfondire alcuni contributi e ci hannofatto riflettere sull’importanza di muoverci all’inter-no di una posizione che potremmo definire “clinica”,

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utilizzando le diverse impostazioni teoriche comechiavi di lettura in relazione al funzionamento delpaziente.

CONCLUSIONI: TRA SINTESI E PROSPETTIVA

(a cura di Cosimo Sgobba)

Per quanto riguarda l’ultima parte del nostro la-voro, ci è parso appropriato nominarla con il titolo:“Conclusioni: tra sintesi e prospettiva”. Nel nostro inten-to, l’aspetto della sintesi rappresenta quel movimen-to che ci consente di cogliere un senso d’insieme,non attraverso la griglia preconfezionata che cerca-vamo all’inizio del nostro percorso ma attraverso l’a-scolto e l’accoglimento della complessità. È una par-ticolare posizione della mente che ha consentito al-l’osservatore di trarre le sue conclusioni durante levarie sessioni di supervisione ed è proprio questa po-sizione della mente che permette di cogliere la com-plessità, senza ridurne la portata energetica ne’ satu-rare troppo il campo relazionale co-costruito da ana-lista e paziente. Tornando al titolo di quest’ultimaparte, l’accento sulle prospettive future ci dà modo divalutare le possibili implementazioni del nostro pro-getto, soprattutto nelle implicazioni riguardanti la ri-cerca. Ciò che non siamo riusciti a fare, o ciò che nonsiamo riusciti a comprendere o a sedimentare, divie-ne stimolo per ulteriori passaggi da realizzare in unprossimo futuro, proprio perché crediamo che la dif-ficoltà tracci anche la direzione nella quale è possibi-le continuare ad esplorare.

L’esperienza che abbiamo fatto insieme ci ha in-segnato molto, fornendoci parecchi stimoli impor-tanti; tutti noi abbiamo inoltre immaginato che pro-prio tali stimoli potessero avere preziosi riverberi so-prattutto sul nostro modo di affrontare le varie diffi-coltà nella relazione con il paziente. A questo puntoè importante chiarire che l’intento della nostra pre-

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sentazione non è quello di offrire una erudita disser-tazione teorica, bensì di raccontare una nostra espe-rienza concreta. A questo proposito, potrebbe essereutile cominciare con il riferire come abbiamo prepa-rato questo lavoro. Abbiamo lavorato in gruppo cer-cando di organizzare sinteticamente in un unico dis-corso le considerazioni analitiche di cui ognuno dinoi precedentemente si era fatto portavoce. Possia-mo dire quindi che, proprio come in una sessione disupervisione, il gruppo ha attraversato prima un pia-no analitico, rappresentato dagli interventi dei sin-goli membri, e poi un piano sintetico, finalizzato allacostruzione di un’ottica d’insieme attraverso l’inte-grazione delle varie parti precedentemente espresse.È importante inoltre aggiungere che anche la prepa-razione di questi contributi ci ha costretti a rifletteresulla nostra esperienza comune, arricchendo così ul-teriormente il nostro apprendimento.

Proviamo ora ad analizzare le tre fasi nelle quali sisono articolate le sessioni di supervisione, partendodalla presentazione del caso. Ci sembra molto im-portante riflettere su come si debba presentare un ca-so; soprattutto dal punto di vista della ricerca, forse cisiamo soffermati troppo poco su questo aspetto. Si èpiù volte detto che si porta un caso in supervisionepoiché si sta attraversando col paziente un momentodi impasse e quindi paziente e analista vivono unostallo dal quale non riescono ad uscire. Provando pe-rò a fare qualche riflessione ulteriore su questo pun-to, possiamo affermare che non sia necessario porta-re solo momenti di crisi in supervisione ma, peresempio, si possono esporre anche passaggi impor-tanti o emotivamente carichi. Inoltre potremmo in-terrogarci su quanto la presentazione del caso corri-sponda effettivamente al momento critico, o se vice-versa sia già un passaggio, più o meno consapevol-mente elaborato, per rispondere alle esigenze del te-rapeuta in formazione di reggere sia il confronto coni suoi colleghi che il giudizio dei suoi docenti.

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Per tutte le cose enunciate fino a qui, divienequindi fondamentale per il futuro soffermarsi pro-prio sulla presentazione del caso. Ci si può chiederese, nell’ottica di ottenere dati il più possibile rispon-denti a ciò che realmente è accaduto in seduta, siautile registrare e trascrivere successivamente la regi-strazione della seduta stessa. Dal nostro punto di vistaquesto non ci avvicina sufficientemente a ciò che èrealmente accaduto tra analista e paziente, poichémanca il sentire dell’analista, le sue fantasie, le sue as-sociazioni, i suoi vissuti controtransferali e le sue os-servazioni e considerazioni sugli aspetti non verbalidella comunicazione. Una registrazione, per esem-pio, non può da sola dare il giusto spessore all’impli-cito che il controtransfert dell’analista e la sua atten-zione al non verbale possono più ampiamente co-gliere. La presentazione del caso deve rispettare lacomplessità creata dall’insieme dei reali contenutidel paziente portati in seduta e accolti dal terapeuta,e dai contenuti messi nel campo relazionale dall’ana-lista. Essa non deve già fornire un senso saturo a ciòche è accaduto, perché questo serve più a placare leansie di chi porta il caso che a favorire il lavoro suc-cessivo del gruppo. Porre attenzione a questo ulte-riore livello di complessità ci ha indotto a riflettere sucosa dobbiamo ascoltare e su cosa deve destare la no-stra attenzione quando siamo di fronte ai nostri pa-zienti, ma ci ha anche aiutato a comprendere che ciòche si porta in supervisione, più che il paziente, è larelazione tra il paziente e il terapeuta.

Divenire consapevoli delle modalità più adeguateper presentare un caso è importante anche al fine diindividuare criteri comuni per la presentazione stes-sa; una volta individuati questi criteri si potrebberoaprire nuovi scenari di approfondimento e di ricerca:ad esempio, tenendo il più possibile invariata la mo-dalità di presentazione, potremmo sottoporre il me-desimo caso a due gruppi di terapeuti diversi, che uti-lizzino lo stesso metodo di lavoro, e potremmo verifi-

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care se, nonostante percorsi analitici e sintetici diffe-renti dovuti ai raggruppamenti diversi di tipologie al-l’interno dei due gruppi, si possa giungere a conclu-sioni in qualche modo sovrapponibili.

Successivamente alla presentazione del caso ilgruppo si attiva, consentendo ai singoli partecipantidi ampliare i contenuti ascoltati in modo libero. Inquesta fase il gruppo ha una posizione maggiormen-te analitica, atta a costruire varie ipotesi sul senso delcontenuto portato in supervisione; la mente delgruppo funziona rendendo visibili i vari piani (og-gettivo, soggettivo, transferale) di lettura del caso,oppure i vari ruoli che il paziente o il terapeuta si tro-vano ad interpretare nella loro reciproca relazione.In questo modo prende vita una complessità ricca distimoli e di potenzialità, accompagnata da una note-vole carica affettiva.

La restituzione da parte dell’osservatore è il fon-damentale momento di sintesi, successivo all’attiva-zione del gruppo. La figura dell’osservatore coglie gliaffetti e i significati impliciti circolanti grazie ai suoistrumenti empatici e li restituisce al gruppo, dopoaverli coniugati in un senso d’insieme grazie alla suacapacità di rêverie. Questo passaggio è molto legato al-l’accrescimento della consapevolezza nei vari mem-bri del gruppo, circa l’andamento della sessione disupervisione e circa le dinamiche interne al gruppo,direttamente connesse al materiale riguardante il ca-so. In sostanza, potremmo dire che l’obiettivo del-l’osservatore, come del resto quello dell’analista neiconfronti del suo paziente, sia offrire la possibilità diincremento della consapevolezza e, di conseguenza,far nascere nuove opportunità di evoluzione e dicambiamento. Per quanto detto fino a qui, possiamoaffermare che la figura dell’osservatore sia quella chepiù si coniuga con le riflessioni attorno al metodo. Invirtù di queste ultime considerazioni, e per l’impor-tanza che abbiamo attribuito proprio all’osservatore,possiamo forse dire che il nostro progetto di ricerca

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avrebbe potuto soffermarsi maggiormente sulle ri-flessioni che riguardano il funzionamento di questafigura e che noi avremmo potuto inoltre dedicare piùtempo alla fase della restituzione, già durante le variesessioni di supervisione.

A questo punto va sottolineato che l’intenzione diriflettere attorno alle specificità del metodo junghia-no ci ha paradossalmente portati ad allargare i nostriorizzonti a prospettive teoriche diverse da quelle spe-cificatamente junghiane. Proprio durante le sessionidi supervisione, abbiamo constatato che conoscereanche il pensiero di altri autori consente di averemaggiori riferimenti nell’approcciare le realtà dei di-versi pazienti; questa apertura aiuta il terapeuta anon enfatizzare l’utilizzo esclusivo di uno schemateorico di riferimento, bensì a tendere per esempioad un modello eclettico che, come afferma Aguilla-me (2007), tenga presente le varie teorie a secondadel livello evolutivo o del tipo di patologia di cui il pa-ziente è portatore.

Come è già emerso, abbiamo utilizzato per il no-stro studio anche le teorizzazioni di Stern (2005) sul“momento presente” e, in particolare, ci siamo concen-trati sul “momento ora”. Quest’ultimo concetto ci è par-so molto utile al fine di comprendere chiaramente ladinamica del cambiamento in psicoterapia, che spie-ga come da un momento critico si possano aprirenuove prospettive, attraverso le risposte del terapeuta,elaborate grazie ad un particolare assetto mentale.Questi passaggi di Stern (2005), a nostro parere, tro-vano un significativo riscontro anche nella teorizza-zione di Jung. Ci ha colpito soprattutto il legame in-dissolubile del “momento presente” al mondo degli af-fetti, poiché ci ha ricordato l’enfasi che lo stesso Jung(1934) ha riservato all’affetto nella sua “teoria dei com-plessi”. Cogliamo inoltre importanti assonanze tra ciòche sostiene Stern (2005) circa il “momento ora” e ciòche Jung afferma circa le dinamiche energetiche in-trapsichiche, soprattutto quando lo stesso Jung

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(1916) descrive come dalla tensione degli opposti na-sca, attraverso la mediazione riconciliante della fun-zione trascendente, il “tertium non datur”. Entrambi gliautori ribadiscono che, proprio quando il conflittogiunge ad un’estrema criticità, nuove mediazioni con-sentono l’emergere di un assetto psichico maggior-mente evoluto che, a sua volta, può influenzare un’ul-teriore evoluzione futura. Come dicevamo all’inizio diquest’ultima parte della nostra presentazione, siamoancora una volta in un’area compresa tra sintesi e pro-spettiva. È essenziale ribadire che il nostro lavorare in-sieme, sia durante le sessioni di supervisioni che du-rante la preparazione di questa presentazione, ci haconsentito di esperire concretamente gli assunti teo-rici che qui abbiamo riportato solo brevemente.

In conclusione, proprio in virtù di quanto affer-mato da tutti noi attraverso i nostri contributi, pos-siamo ribadire che il metodo non vada confuso conla tecnica e non consista in una sorta di decalogoteorico al quale attenersi rigidamente, bensì constidello stare in ascolto, in un certo assetto mentale, da-vanti alla complessità che impattiamo, incontrandol’ignoto del paziente. Diviene importante accettareil disorientamento che provoca una tale complessità,ma è altrettanto essenziale farsi orientare dalla fidu-cia nel proprio funzionamento mentale e nella ca-pacità di mettere in atto quell’attenzione fluttuanteche consente di applicare contemporaneamente dif-ferenti piani di lettura del caso. Fare epochè, sospen-dere cioè il giudizio, è il primo passo verso un ascol-to “completo”, compiuto cioè contemporaneamenteda tutti i nostri sensi e dalla nostra sensibilità, dal no-stro corpo e dalla nostra mente, dai nostri affetti edalla nostra razionalità. È proprio questo tipo diascolto che ci permette di rimanere nello spaziomentale nominato all’inizio “tra sintesi e prospettiva” edi dare nuovamente senso all’affermazione di Jung(1945), più volte citata, che vede proprio nel tera-peuta il suo stesso metodo.

Cosimo SgobbaRiflessioni di clinica junghiana

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Questioni di metodo. Riflessioni su un lavoro di supervisione... Riflessioni di clinica junghiana

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“Scrivere nel piacere mi garantisce — me scrit-tore — del piacere del mio lettore? In nessunmodo. Questo lettore bisogna che lo cerchi(lo ‘draghi’) ‘senza sapere dov’è’. Si è creatoallora uno spazio del godimento. Non è la‘persona’ dell’altro che mi è necessaria, è lospazio: la possibilità di una dialettica del de-siderio, di una ‘imprecisione’ del godimen-to: che il gioco non sia già chiuso, che ci siaun gioco.

(R. Barthes, Il piacere del testo)

1. DIVAGAZIONI

Nel dare avvio ad una riflessione suun tema così cruciale per la psicoanali-si, quale il rapporto tra verità e interpretazione, lamente ci conduce ad una breve divagazione su altriterritori, conformi a quell’attitudine mentale, eredi-tà preziosa del pensiero di Jung, che trova arricchi-mento e linfa dal transitare curiosi e ricettivi, nei luo-ghi di altre discipline: a dialogare, a cogliere intui-zioni, anticipazioni o rispecchiamenti rispetto al no-stro sapere psicoanalitico, siano esse l’arte, l’antro-pologia, la biologia, le neuroscienze, la linguistica, lafilosofia o altro.

E pensiamo che tale disposizione ad una “menteaperta”, ad un “pensiero giocoso” in quanto tran-sitante/transizionale in un luogo “altro”, possa rap-presentare il fil rouge delle nostre considerazioni.

Una radice importante, forse talvolta rimasta inombra nel nostro pensiero vigile, ma operante comepensiero onirico della veglia, è stata nel tempo, perchi scrive, l’originaria passione per la filosofia e i sa-peri ad essa collegati, dall’epistemologia alla lingui-stica all’analisi del testo.

Così di fronte alla complessa questione del rap-porto verità-interpretazione, la divagazione ci porta alasciar emergere tracce provenienti dalla nostra for-mazione filosofica, con un intento squisitamente evo-

Infanzia e adolescenza

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Pensare/sognarela clinica.

Ricerca clinicae supervisione

di gruppoRossella AndreoliMonica Ceccarelli

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cativo, lungi dalle pretese di una ricostruzione esausti-va di un’evoluzione del pensiero filosofico tout court.

Come primo spunto affiora il ricordo di ciò cheper molti di noi, futuri psicoterapeuti, può aver rap-presentato in origine la fascinazione per il sapere fi-losofico, soprattutto negli anni acerbi degli studi gio-vanili: il modello di una disciplina che poneva comeoggetto d’indagine la conoscenza e la verità dell’uo-mo e del mondo, ben rispondeva alla curiosità delcomprendere i fenomeni più profondi della realtà edella mente umana.

Non a caso l’origine della filosofia fa la sua com-parsa nella storia umana a partire da un’epoca e daun bisogno particolare dell’uomo antico: di fronte ainterrogativi ancora confusi sulla conoscenza umana,il sapere filosofico sembrava fornire riposte certe,esaustive, rigorose e quindi rassicuranti.

Scrive E. Severino in La filosofia antica:

“Per la prima volta nella storia dell’uomo, i primi pensatorigreci escono dall’esistenza guidata dal mito e la guardano infaccia. Nel loro sguardo c’è qualcosa di assolutamente nuovo.Appare cioè l’idea di un sapere che sia innegabile...L’idea diun sapere che non può essere negato né da uomini, né da dei,né da mutamenti dei tempi e dei costumi. Un sapere assoluto,definitivo, incontrovertibile, necessario, indubitabile”.1

È in questo senso che la filosofia si offre qualestrumento d’eccellenza per prendere le distanze daquel pensiero pre-filosofico rappresentato dal pen-siero mitico, immaginifico, intriso talvolta di creden-ze popolari e religiose.

L’accostarsi iniziale allo studio della conoscenza fi-losofica era in fondo dettato anche per noi, in qual-che modo come per l’uomo antico, dalla ricerca di unsapere che si presentasse come luogo elettivo di cer-tezze, fondato su leggi ordinate, regolate su uno stru-mento altrettanto incontrovertibile quale la ragione.

La ricerca di una risposta al timore degli eventi in-

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1. Emanuele Severino, Lafilosofia antica, Rizzoli, Mi-lano 2002, p. 47.

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spiegabili, al “thauma”, ossia allo stupore attonito checoglie l’uomo antico di fronte all’ignoto, al divenire,alla trasformazione imprevedibile degli elementi(dalla creazione alla loro distruzione), aveva dato av-vio al progetto di una conoscenza “epistemica”, ossiauna conoscenza altrettanto incontrovertibile, che po-tesse fornire sicurezza contro la minaccia dell’impre-vedibile.

La filosofia, afferma Severino, nasce propriamen-te come “rimedio” per l’uomo dell’età antica.

In tal senso se lo scopo della filosofia delle originiconsisteva primariamente nel raggiungimento dellaverità, la verità diveniva il fine ultimo della cono-scenza epistemica.

È da tali premesse che si sono sviluppate nel tem-po teorie e modelli filosofici che, sulla certezza dellaragione, hanno fornito spiegazioni e postulato assio-mi (da Cartesio ad Hegel), rispondendo al bisognoprimitivo dell’uomo di classificare e ordinare la real-tà, in modo che la verità ultima potesse sembrare inqualche modo dominabile.

Ma tornando a noi e al procedere del tempo, deinostri studi e della formazione che cominciava asconfinare nel campo della psicoanalisi, accadde inseguito, intorno agli anni ’70, che ci imbattessimo inun pensatore che all’epoca aveva suscitato notevoledibattito sia nella comunità filosofica che in quellapsicoanalitica: P. Ricoeur col suo saggio Della interpre-tazione.

Ricordo come molti di noi furono catturati dallalettura di un testo e di un autore che, all’interno diquella corrente che a partire da Heidegger e passan-do poi per Gadamer e Betti ha dato avvio alla mo-derna epistemologia, trasformava profondamente ilsenso originario della verità e del pensare filosofico.

Era stato Heidegger per primo a rovesciare l’in-terpretazione usuale del mito della caverna, secondola quale l’uomo, staccandosi dall’opinione e dai sen-

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si e rivolgendosi verso le idee attraverso il passaggiointermedio della matematica, si sarebbe innalzato al-la verità. Heidegger affermava propriamente il con-trario, sostenendo che Platone, indirizzando l’uomoverso le “essenze”, aveva introdotto un concetto di ve-rità come “esattezza”, concetto che ha gravato comeun destino sull’intera civiltà occidentale.

Nella nuova prospettiva dell’ermeneutica, l’auten-tico concetto della verità si rivela contenuto nell’eti-mologia stessa del termine, in quanto “verità” signifi-ca dis-velamento, manifestazione dell’essere: da que-sto momento la verità non coincide più con la veritàdell’essere, ma con l’interpretazione, la manifestazio-ne della verità.

Con l’avvento del concetto di verità come inter-pretazione e non come conseguimento oggettivo del-l’oggetto conosciuto, come verità storica e non meta-storica, si evince che l’interpretazione non conducepiù ad un esito fondativo della verità, ma suggeriscesolo l’apertura di molteplici interpretazioni della ve-rità stessa, in una rete infinita di possibilità mai defi-nitive e pertanto sempre relative.

Tutto questo appariva realmente una rivoluzionecopernicana, non solo rispetto al sapere filosoficoclassico, ma anche rispetto alla visione dell’uomo edella conoscenza umana.

Gadamer sottolineerà, a commento di Platone, co-me ci sia un solo “Logos” a livello del pensiero divi-no, mentre a noi sono necessari i molti “logoi” e lemolte parole, per una molteplicità di prospettive sul-la verità.

Un’ulteriore questione di grande innovazione sol-levata dall’ermeneutica contemporanea, riguardava,inoltre, la particolare prospettiva “fenomenologica epersonalista” della verità, contrapposta a quella stret-tamente logica.

Dal momento che la verità è svelamento dell’esse-re, la ricerca della verità corrisponde ora ad una dis-posizione ad accogliere, a “comprendere”, come

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“esperienza coinvolgente”, come afferma Gadamer, asottolineare il carattere emotivo, dialettico, e soprat-tutto dialogico e interpersonale, della ricerca. Il co-noscere dunque, per la fenomenologia ermeneutica,non si dichiara più un conoscere fondato sull’esat-tezza logica, piuttosto si offre come un conoscere cheha origine nel vissuto dell’esperienza: da questa pre-messa consegue come il processo conoscitivo non siesplichi tanto nel rapporto tra un soggetto e un og-getto, quanto invece nella relazione tra un soggetto eun altro soggetto, con quella comprensione progres-siva e mai esaustiva che ha da rispettare lo spazio al-tro del “mistero” della realtà ultima.

È ancora Ricoeur a sottolineare come compren-dere un “testo” non corrisponda a collocarci davantiad un oggetto neutro da interpretare, come potevaavvenire per l’ermeneutica classica, quanto più a dis-porci di fronte ad un’opera ( “opera aperta”, direbbeEco), con cui dialogare, incontrarsi, ad ascoltarne lalingua viva, con la consapevolezza che la verità del te-sto comporta anche una trasformazione reciproca.Ricoeur sosteneva, al riguardo, come il testo sia unpre-testo per una maggiore comprensione di sé, lad-dove il linguaggio “simbolico” e “narrativo”, (po-tremmo dire “mitico”), caratteristico in particolaredella poesia, diviene quello che, più del pensiero lo-gico, è deputato a svelare o cogliere la verità.

Con un percorso circolare l’ermeneutica contem-poranea ci riconduceva per un verso agli albori dellanascita della filosofia, come a riconnetterci al biso-gno di quella dimensione pre-filosofica, immaginifi-ca, emotiva, vicina all’origine del pensiero umano, diun pensiero immaginale, poetico, che si è dispersonello sviluppo unilaterale della coscienza occidenta-le, scriveva Jung.

Ci torna alla mente un bel testo di U. Galimberti,uno tra i suoi primi scritti, La terra senza il male, in cuiaffermava come il disagio della civiltà non abbia tan-

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to a che fare con la repressione delle pulsioni, quan-to con la repressione-negazione dei simboli e delpensare simbolico.

Per un altro verso però, il pensare simbolico, con-dizione della verità, veniva ora a definirsi sempre piùcome pensiero dialettico, ossia condiviso e giocatoinsieme nella creatività di quel momento e di quel-l’incontro, nella relazione con l’altro, sia esso un te-sto, un lettore o un qualsiasi oggetto, che in tale pro-cesso si trasforma in soggetto.

Il pensiero e il linguaggio diventano allora co-co-struzioni, come a dire che l’incontro con l’altro danoi è ciò che permette l’incontro con l’altro in noi,in una reciprocità di flussi e trasformazioni.

Torniamo a capo, al nostro fil rouge: a questopunto del nostro percorso, dopo lo sconfinamentodefinitivo avvenuto negli anni successivi nel campo enella pratica psicoanalitica, ci trovavamo portatoridel bagaglio di una rivoluzione del pensiero (la sco-perta del “pensiero aperto”) allora in modo non cosìconsapevole rispetto alle possibili germinazioni cheavrebbe prodotto nello sviluppo di un nostro assettodella mente, da quel momento chiaramente psicoa-nalitico.

Una rivoluzione che, nella messa in crisi di certez-ze e di assiomi, di logiche esatte e oggettività (la “fi-losofia delle origini”) versus una visione relativistica,un pensiero più “debole”, una comprensione più em-patico-dialogica, appare contrassegnare, agli occhipiù maturi e disillusi di oggi, il cambiamento radica-le della moderna epistemologia (“la filosofia dell’ etàpost-moderna”).

Queste le premesse che, in modo silente, hannolavorato nei sotterranei delle nostre menti, negli an-ni a venire, dagli esordi della formazione psicoanali-tica, al radicamento vero e proprio nella pratica tera-peutica; premesse, che hanno trovato intrecci signi-ficativi nei cambiamenti avvenuti al contempo nella

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psicoanalisi stessa, in quel passaggio dalla visione diun pensiero psicoanalitico forte, ben esemplificatonell’accezione lacaniana del “soggetto supposto sa-pere” (la “psicoanalisi delle origini”), alla prospettivadi una psicoanalisi relazionale, dialogica, di campo, ilpensiero giocoso, che sembra rappresentare trasver-salmente l’ottica psicoanalitica attuale; al di là delledifferenze di modelli o teorie (“la psicoanalisi del-l’età post-moderna”), una prospettiva che capovolge,a sua volta, l’antica questione dell’essenza della veri-tà e della sua interpretazione.

2. ANCORA STORIA

E fu così che iniziammo a “pensare da psicoanali-sti”, sentendo fin da subito l’importanza di condivi-dere in gruppo la complessità di questo passaggio. Fi-nimmo in tal modo per dare avvio a una pratica chesarebbe diventata per noi consueta e, nel tempo, ne-cessaria: pensare la clinica in gruppo. All’inizio, neiprimi anni ’90, questo avveniva all’interno di ungruppo di pari. Eravamo allora giovani analisti che,terminata la formazione, avevano sentito il bisognodi interrogarsi sulla propria identità, sul proprio stiledi lavoro in costruzione, sollecitati anche dalle diffi-coltà che alcune tipologie di pazienti ci creavano apartire dall’impiego di un certo approccio junghia-no, così come lo avevamo sperimentato nelle nostreanalisi. Un approccio principalmente incentrato sul-l’ascolto della dimensione onirica intesa come di-mensione elettiva dello scambio analista-paziente. Nenacquero così gruppi di ricerca clinici al cui internoerano presenti analisti con diverse competenze e di-versi ambiti di esperienze, dalla psicoterapia dell’etàevolutiva al trattamento di pazienti adulti affetti dagravi disturbi di personalità. Successivamente, l’as-sunzione di compiti formativi all’interno dell’Istitutomilanese del CIPA ci avrebbe messo in contatto con

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diverse esigenze degli allievi via via incontrati, esi-genze per certi versi convergenti con le nostre ricer-che, spingendoci a dare vita a gruppi di supervisionecondotti con la presenza simultanea di più supervi-sori. Nella nostra ipotesi di lavoro, questo accorgi-mento ci avrebbe consentito l’elaborazione del mate-riale da più vertici e in particolare ci avrebbe con-dotti a focalizzare l’attenzione sugli “stati della men-te” e sul “bambino nell’adulto”, nel tentativo di rag-giungere anche aree di esperienza non verbali, pre-simboliche, aree non immediatamente accessibili al-l’interpretazione analitica e dunque non facilmenteaffrontabili all’interno di un assetto psicoanaliticoclassico. Ma come eravamo arrivati a tutto ciò?

Alcuni tra noi avevano avuto modo di prendereparte a un’esperienza fondamentale che ebbe luogonel corso degli anni ’80. Fondamentale anche perchécontribuì a gettare i semi di una ricerca che, insiemeai seminari condotti da Adriana Mazzarella, e moltolentamente in verità per tutte le resistenze che l’im-patto di un’area clinica nuova e di un diverso mododella mente producevano, avrebbe condotto a inter-rogarci sulla specificità del pensiero junghiano intor-no all’infantile. Ci riferiamo al contributo di Mara Si-doli grazie alla quale furono organizzati presso l’Isti-tuto Milanese dei seminari di Infant-Observation, cuinoi allievi partecipammo in forma libera — nel sensoche allora non facevano parte del training istituziona-le — e che si protrassero per circa un triennio. En-trammo così in contatto con la disciplina del protocol-lo clinico — a quell’epoca poco consueta in ambito jun-ghiano — una scrittura puntuale e rigorosamente de-scrittiva dell’interazione madre-bambino osservatanel suo ambiente naturale. L’Infant Observation, co-me si sa, prevede che l’osservatore si rechi settimanal-mente a domicilio della famiglia e possa poi trascrive-re ciò che ha osservato il più fedelmente possibile. Ta-li trascrizioni vengono quindi commentate in gruppoin presenza del supervisore. La disciplina della “scrit-

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tura clinica”, così concepita e trasferita successiva-mente dal contesto dell’Infant Observation a quellodell’interazione analista-paziente, fu una scoperta checi permise di riconoscere sia l’importanza della co-municazione non-verbale nel contesto dello scambioanalista-paziente, come pure di fare esperienza di unostare con e accanto al paziente in un assetto emotivo in-saturo, astinente ma insieme partecipe. Grazie alla di-sciplina della scrittura del protocollo, venivamo an-che progressivamente a realizzare che l’esperienza discrittura, in uno spazio-tempo altro rispetto allo spa-zio-tempo dell’incontro, finiva per esercitare come uneffetto retroattivo, generativo di senso e costruttivodel significato, ponendosi essa stessa come atto tra-sformativo e, per così dire, interpretante. La scritturaclinica, qui intesa non tanto come atto quanto piutto-sto come processo, vale a dire come attitudine menta-le, ci permetteva di sperimentare i suoi effetti sullamente conscia e inconscia del soggetto-della-scrittura perriconoscerne le sue ricadute sull’altro, l’oggetto-della-scrittura. Ci si accorgeva invariabilmente che, per talevia, ci trovavamo consegnati alla relazione profonda-mente modificati, giungendo talvolta anche a speri-mentare quelle trasformazioni inattese che abbiamo im-parato a riconoscere come la cifra di un buon incon-tro. E ciò anche quando non venisse esplicitato al pa-ziente alcunché delle ulteriori comprensioni messe inatto dal processo della scrittura condivisa o dall’ela-borazione compiuta per il tramite del processo di su-pervisione. La trasformazione dell’atteggiamentoemotivo dell’analista produce, come si sa, una trasfor-mazione del clima del campo e contribuisce a mette-re in moto processi nuovi.

D’altra parte, sappiamo che la scrittura analitica,anche quando si prefigga come scopo quello di ren-dere conto di un “dato” clinico in modo “semplice-mente” descrittivo, è costretta a fare i conti con unacondizione paradossale. Trovare “parole per dire” ciòche nella sua forma originaria non si dà in parole.

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Quando un paziente racconta un sogno fatto la not-te precedente, non sta semplicemente riproducendonel racconto un evento soggettivo cui l’analista nonha preso parte. Il racconto del sogno finisce, infatti,per contribuire a creare una dimensione relazionalee affettiva che porterà via via l’analista a “vivere” il so-gno raccontato e a sentirlo “come se” fosse il propriosogno sognato. Così facendo, nel dirsi del sogno, ac-cade alla coppia di vivere un’esperienza ancora “al-tra”, di dare vita a un sogno che non è più né dell’u-no né dell’altro, bensì di entrambi, e che diviene co-sì il sogno sognato da quella particolare coppia costi-tuita da quell’analista e da quel paziente. Sulla scortadi questo riverberare di senso e significato, senso e si-gnificato solitario e insieme condiviso, va da sé che ilrender conto dell’esperienza analitica non possa, persua natura, risolversi nella parola detta o scritta. Sem-plicemente essa “è ciò che è” e descriverla risultereb-be impresa paradossale alla stessa stregua di dire oscrivere dell’aroma del caffè o del sapore del ciocco-lato (Ogden). Pertanto, quando un’analista si accin-ge a scrivere dell’esperienza vissuta con il proprio pa-ziente, difficilmente descriverà ciò che è realmenteaccaduto, ma avrà l’opportunità di ricreare le condi-zioni perché il lettore sperimenti l’emozione da luistesso vissuta. L’analista che scrive potrà “fare” al let-tore quello che “è stato fatto” a sé, proprio ricreando“nelle” parole l’esperienza vissuta per colui che leg-ge. In tal senso la narrazione analitica, nel suo resti-tuire la “musica di ciò che è accaduto”, scaturirebbeda un’operazione congiunta di interpretazione ecreazione artistica (Ogden).

A partire da queste premesse, si comprenderà be-ne che, per come noi impostiamo il lavoro di super-visione, quando il presentatore del caso offre la suascrittura analitica al gruppo, venga innanzitutto sol-lecitata una partecipazione emotiva la quale poi, apartire dall’intreccio dialogico e narrativo di tutti imembri del gruppo, si troverà arricchita di nuova

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espressività e carica immaginativa. La comprensioneche ne scaturisce, a partire dalla quale risulta possi-bile l’incontro con la verità emotiva della coppia, èfrutto dell’intrecciarsi delle rêveries condivise. Ci pa-re qui di riconoscere, in ambito psicoanalitico — e col-to per così dire dal vivo del pensiero di un gruppoche ha come suo fine il riconoscimento della veritàemotiva e come suo oggetto di indagine la realtà psi-chica — quel processo di “apertura alla rete infinita dipossibilità interpretative mai definitive” di cui altroveparlava Gadamer. Possibilità che proprio in virtù delloro esser molteplici ci sembrano render conto dellacomplessità dell’accadere analitico nel particolareprocesso di costruzione del senso quale si sostanzianell’intreccio dialogico di conscio e inconscio.

Parallelamente e insieme alle esperienze di InfantObservation, ci siamo incontrati con la metodologiadelle supervisioni di gruppo condotte da Meltzer. Se-condo tale metodologia, il materiale di una singolaseduta, trascritto in forma di protocollo ma privo deicommenti dell’analista, veniva discusso nel gruppoconsentendo in tal modo un’esperienza di attivazio-ne emotiva particolare. Ciascun partecipante, infatti,si trovava a essere attraversato dalle emozioni e dagliaffetti del paziente — evocato dalla trascrizione dellesue comunicazioni verbali nella forma di una sortadi monologo virtuale — facendo così esperienza soli-taria e insieme gruppale dei propri vissuti contro-transferali — e dunque virtualmente occupando la po-sizione dell’analista assente — per tentare poi di dareforma interpretativa al processo in atto nella coppia.I singoli movimenti emotivi, partecipando dell’inte-razione con i movimenti del gruppo, finivano per da-re vita a una comprensione ulteriore, come co-co-struita da un’ipotetica “mente del gruppo”, in unatensione dinamica di verità soggettiva (individuale) everità di gruppo (condivisa).

È questo concetto di mente del gruppo che abbiamocercato di sperimentare e conoscere nella sua dialet-

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tica, come specifico delle supervisioni di gruppo con-dotte secondo la metodologia da noi messa a puntonel corso del tempo.

3. METODOLOGIA

Esperienza della scrittura-processo da un lato e dellamente-di-gruppo dall’altro ci hanno portato gradual-mente a trasformare l’assetto iniziale delle supervi-sioni di gruppo e contemporaneamente a interro-garci sul senso e sulla dinamica del processo di su-pervisione.

Inizialmente, come si diceva, l’obiettivo esplicita-to era quello di raggiungere una migliore compren-sione di un’area clinica particolare, che a noi appa-riva nuova e complessa, e che tentavamo di ricono-scere non tanto a partire da una definizione dellesintomatologie specifiche. A dire il vero, saremmocertamente stati in grado di riconoscere nella nostracasistica delle ricorrenze: ci trovavamo spesso a ra-gionare delle difficoltà incontrate con pazienti chepresentavano disturbi del comportamento alimenta-re o attacchi di panico, o ancora patologie psicoso-matiche, oppure un funzionamento “normotico”,per dirla con Bollas. Ci sembrava, nel contatto conquesti pazienti, di trovarci piuttosto alle prese conun particolare modo di funzionamento psichico,uno stile espressivo che ci appariva opaco e concreti-stico, quando non occupato dall’urgenza della pron-ta risoluzione. Un genere di pazienti che sempre piùfinivano allora, e oggi ancor più finiscono, per ap-prodare a trattamenti di ispirazione cognitivo-com-portamentista, così agli antipodi dell’approccio psi-coanalitico nel loro essere estremamente strutturatie limitati nella tempistica di intervento, laddove l’e-mozione è “umore” e il controtransfert del terapeu-ta “rumore”. Pazienti poco accessibili e poco pensa-bili, “nuovi pazienti” si era detto, non più nuovi og-

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gi, che ci spinsero oltre l’esperienza del sogno so-gnato, ricordato e raccontato, condiviso e interpre-tato. Come già dicevamo, inizialmente avevamo pre-visto gruppi di supervisione con la presenza simul-tanea di più supervisori, in alcune circostanze fino aquattro — supervisori caratterizzati da una specificitàdi esperienza e competenza, oltre che, inevitabil-mente, differenti per modi di pensiero e stili di per-sonalità — poiché questo ci pareva rimettere più fa-cilmente in circolo affetti, tornando a rendere pen-sabile quanto sembrava non esserlo più. Cercavamodi sentire il paziente adulto come se fosse un bambi-no alle prese con i giochi nella stanza di analisi, nel-lo sforzo di incontrare, a partire dall’intreccio dellesincronie e delle diacronie immaginative, il bambinoche era stato e il bambino che era ancora. L’infanti-le come luogo delle origini ma anche come mododell’essere. E ancora, cercavamo di offrirci comemente “in prova” laddove una mente pareva disatti-vata. O ancora, semplicemente provavamo l’“esser-ci”, essere ambiente, stanza, divano, voce, alle presecon una mente non nata. E lentamente ci siamo tro-vati sempre più a pensare all’incontro terapeuticocome a un “inedito”, aspetto su cui ci pare che oggisi insista da più parti e in diversi contesti teorici, perriprendere la capacità di “giocare la” e “giocarsi nel-la” relazione. “Giocare l’immagine”, come avevamoavuto modo di raccontare in occasione del seminarioresidenziale di Siracusa (maggio 2006). Le espe-rienze vissute con pazienti psicotici, borderline, obambini e adolescenti, ci permettevano di attivare esperimentare nel gruppo assetti di ascolto e modali-tà espressive tra loro anche differenti e tuttavia acco-munati dalla necessità fondamentale per l’analistaimpegnato in queste situazioni di mantenersi vivo. Di“sopravvivere”, direbbe Winnicott.

Il gruppo di supervisione divenne quindi ai nostriocchi sempre più connotato come “contenitore di rê-verie”. Ci convincemmo pertanto che il nostro prin-

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cipale impegno formativo non fosse tanto l’accom-pagnare i partecipanti del gruppo, attraverso noiconduttori, a un “supposto sapere” intorno al pa-ziente, o a una presunta verità clinica, quanto piut-tosto il creare le condizioni per favorire quell’espe-rienza di “sognare sogni non sognati”, cosicché siaprisse la strada a una più profonda comprensioneemotiva dell’incontro terapeutico. E questo proprioa partire dall’ascolto delle emozioni controtransfera-li sperimentate nell’impatto con il materiale presen-tato al gruppo, che chiedevamo nella forma della vi-gnetta o del protocollo, il più possibile scarno, privodi dati anamnestici e di considerazioni parallele. Co-me un entrare nella stanza di analisi del presentatoredel caso, essere lì da qualche parte e indossare i pan-ni di qualcuno, o anche più d’uno, dei personaggipresenti nel campo.

Apparirà chiaro a questo punto che l’insegna-mento della psicoanalisi, e dunque la pratica della su-pervisione così intesa, non ci pare possa risolversicon la consegna di verità teoriche già codificate epresenti nella teoria psicoanalitica. Pensiamo che l’e-sperienza della supervisione debba innanzitutto sol-lecitare “momenti di essere” così da riconoscere lamatrice emotiva di quelle medesime codificazioni,proprio in quanto esse stesse scaturite da “momentidi essere”. Teorie come distillati di pensiero, pensie-ro come coagulo di emozioni e affetti, laddove il pen-siero-della-teoria, altrove “pensiero forte”, si genericome “precipitato” del pensiero onirico della veglia.In tal senso riteniamo, sostenuti in ciò da Ogden, cheinsegnare psicoanalisi e fare supervisione coincidacon una forma di “sogno guidato”. Per questa ragio-ne, il compito del gruppo di supervisione così inteso,diventa “sognare” il paziente la cui analisi viene dis-cussa, e questo paziente, così presentato, non sareb-be un qualche paziente in una supposta oggettività —quella persona che siede di fronte all’analista o stasdraiato sul divano con le cose che racconta e agisce.

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Questo paziente coinciderebbe con una narrativa.Nella provocazione di Ogden, “è” una narrativa, lad-dove la creazione di una narrativa non dovrebbe es-sere confusa col “raccontare bugie”. L’analista chepresenta il caso, infatti, non avrebbe altra via, comeabbiamo visto, se non quella di trovare le parole chetrasmettano la propria verità emotiva di ciò che eglista vivendo nell’incontro con il suo paziente. Così fa-cendo, non solo “direbbe” ma nel medesimo tempo“mostrerebbe” al gruppo i propri sogni sognati equelli non riusciti, e il gruppo, d’altra parte, avrebbemodo di sperimentare questo lavoro del sogno con-diviso. Proprio a partire da questa condizione, che èfatta di ascolto il più possibile non giudicante, “senzamemoria e senza desiderio”, prenderebbe forma unprocesso che consentirebbe di sognare aspetti dell’e-sperienza emotiva del paziente che l’analista non erastato in grado di sognare. Ci pare di ritrovare qui, ap-plicato in altro contesto, quanto teorizzato da Brom-berg a proposito della relazione analitica, laddoveegli sostiene che soltanto quando l’analista smette ditentare di comprendere il paziente per accingersi aconoscerlo direttamente, a partire dal campo inter-soggettivo condiviso, avrebbe luogo “un atto di rico-noscimento”. Riconoscimento e non comprensione,per cui le parole e i pensieri simbolizzerebbero l’e-sperienza piuttosto che semplicemente sostituirsi adessa. È così che “qualcosa di nuovo” può accadere,qualcosa che è generato dal fare condiviso di pazien-te e analista e che ha la qualità emotiva dell’inatteso.Queste “sorprese sicure” possono aprire la porta auna nuova esperienza della realtà, “co-costruita e in-fusa di un’energia propria” (Blomberg).

Va da sé che un gruppo così concepito non possafunzionare come un gruppo di apprendimento toutcourt e che la pratica dell’apprendimento come for-ma di sogno collettivo richieda che il gruppo semi-nariale diventi un impegno continuativo (Winnicott)e necessiti di una sua stabilità anche per quanto ri-

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guarda i partecipanti. È necessario, infatti, che si creiun sufficiente clima di fiducia e di intimità così da fa-vorire “il sognare in gruppo” cui si faceva cenno. Sicreerebbe in tal modo un vero e proprio inconscio digruppo, più ampio della semplice somma delle men-ti inconsce dei partecipanti, in cui tuttavia ciascunpartecipante mantiene la propria soggettività separa-ta e la propria personale vita inconscia. Una sorta di“terzo analitico gruppale” (Ogden).

Nel tempo abbiamo ulteriormente definito, e inun certo senso anche semplificato, la modalità diconduzione, ritenendo più efficace individuare unacoppia di supervisori con funzioni differenti: da unlato un conduttore — il supervisore in senso stretto —con il compito di sollecitare il funzionamento libero-associativo del gruppo e una migliore comprensioneclinica della situazione presentata; dall’altro un osser-vatore che, non prendendo parte attiva alla discussio-ne, restituisse l’immagine complessiva del funziona-mento della mente del gruppo nel suo essere cassa dirisonanza degli affetti — più o meno inconsci, più omeno agiti — presenti nella coppia raccontata.

Questo nuovo modo di concepire la conduzioneci sembra aver progressivamente spostato l’accentosempre più sull’ascolto del processo e dello scambiorelazionale in atto nella coppia paziente-terapeuta.In tal senso, nel definire il compito e il ruolo dei su-pervisori, non abbiamo più tanto pensato a presuntecompetenze specifiche in merito di casistica, quantopiuttosto a funzioni della mente e modalità di pre-senza nel gruppo. Ciò avrebbe reso possibile espe-rienze di incroci dal nostro punto di vista molto pro-duttivi, come l’affrontare il caso di pazienti adulti, oanche anziani, in ambiti inizialmente dedicati alla cli-nica infantile. Una ricerca, questa, che ci appare insintonia con alcune importanti ricerche cliniche de-gli ultimi anni. Pensiamo in particolare a DanielleQuinodoz quando racconta del suo approccio a unaparticolare casistica, apparentemente “fuori dai gio-

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chi” — pensiamo, tra gli altri, a una paziente da leipresentata di oltre settant’anni, “perché ancora nonriusciva a trovare un posto nella vita” — pazienti che,pur presentando meccanismi psichici secondari, fa-rebbero ampiamente uso di meccanismi primitivi co-me il diniego, l’identificazione proiettiva, ricorrendoanche alla scissione. Come avvicinarsi alla parte ar-caica di questi pazienti? Fino a che punto attendersiin questi casi un’evoluzione risulterebbe legittimo o“sufficientemente folle” da giustificare una presa incarico con l’orecchio intonato alla parola psicoanali-tica? E quali gli strumenti? Queste e altre domande cisiamo trovati a condividere nei nostri “gruppi misti”di psicoanalisti adulti e infantili, gli uni e gli altri ac-comunati dallo sforzo di dare pensieri e parole a chisente di non averle, di averle perdute e, pure, non hasmesso di cercarle, come si vedrà bene nel caso cheabbiamo scelto di presentare nella parte clinica diquesto nostro scritto.

Un’ultima considerazione riguarda la nostra abi-tudine di riferirci, nei seminari clinici, a materialenarrativo, sia esso tratto da film, da romanzi o da ope-re poetiche. Ci accade di sceglierlo, nel senso di cer-carlo appositamente per affiancare una particolarestoria clinica, o di trovarlo come già pronto nelle no-stre rêverie e di impiegarlo così in una forma-funzio-ne di interpretazione. È un “addestrare l’orecchio”come anche sottolinea Ogden quando riferisce cheproprio la poesia e altre forme di scrittura immagi-nativa sarebbero stati essenziali per la vita di sognodei seminari clinici da lui condotti. Leggere poesia onarrativa in un seminario analitico consentirebbe asuo parere, un parere che ci sentiamo di condividereappieno, di raffinare la capacità di essere consapevo-li degli, e sensibili agli, effetti propri del linguaggio,per i modi in cui questo viene usato. In tal modo, ilproprio orecchio si educherebbe a cogliere i suoni ei sovrasuoni delle parole, facendosi ricettivo di tuttele fughe di senso che la polifonia della poetica della

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stanza di analisi ci regala ogni giorno. È questo il mo-tivo per cui riteniamo che essere psicoanalisti signifi-chi anche un po’ esser poeti, poiché nostro compitonon sarebbe soltanto il comprendere qualcosa che ri-sulti oscuro, ma anche il narrarlo, cantandolo in pa-role che rendano una musica che tocchi.

4. SOGNARE IN GRUPPO

Riteniamo possa essere utile, a questo punto, pre-sentare a titolo di esemplificazione del materiale cli-nico. Si tratta di alcuni passaggi di una supervisione digruppo, che permettono bene di seguire il processodi un pensiero gruppale che si dispone a ricercare,con l’attitudine sopra esposta, non tanto la verità diquel paziente, quanto le verità dell’incontro con il mondodel paziente, in tutte le dimensioni presenti nel campo:la relazione paziente-terapeuta, la relazione gruppo-coppia analitica, e ancora la relazione supervisore-gruppo-coppia analitica, nelle possibili risonanze atti-vate. È un gruppo che si ritrova da anni, con cadenzamensile, cadenza che successivamente, per motivi dicarattere organizzativo, è diventata bimensile. I parte-cipanti sono in un numero più o meno stabile, che va-ria da cinque a otto candidati in training (ultima-mente un paio di questi hanno ultimato il passaggio asoci analisti) e due analisti con funzioni di trainer, chesono anche psicoterapeuti infantili, e che si alternanonelle funzioni di conduttore e supervisore. Proprioin considerazione di questa specificità dei conduttori,il gruppo si era costituto con l’intento di ascoltare “ilbambino nell’adulto” e si era dunque trovato ad af-frontare una casistica che spaziava dalla primissima in-fanzia fino alla tarda maturità, e in qualche caso an-che alla vecchiaia. L’incontro dura un’ora e mezza eviene articolato in due tempi successivi. In una primafase viene presentato il caso, nella forma del proto-collo di una singola seduta o di una vignetta, dattilo-

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scritta in modo che tutti i partecipanti ne possiedanouna copia, e segue una fase di libere associazioni efantasie che si protrae in modo non direttivo per qua-rantacinque minuti. Dopo una breve pausa, della du-rata di una decina di minuti, segue la restituzione delconduttore, che ha il compito di riprendere il filo deipensieri emersi e di offrire una lettura complessivadella situazione presentata. A chiusura, viene propo-sta la riflessione dell’osservatore, che non ha mai pre-so parte attiva al lavoro di rêverie e che ha invece ilcompito di rendere conto del processo in atto nelgruppo, per quanto riguarda i processi di identifica-zione e le risonanze controtransferali, cioè di mostra-re gli effetti che l’impatto con il materiale presentatoha prodotto sulla mente del gruppo.

4.1 Sognando in gruppo un sabato mattina

Poco prima che la dottoressa A. si accinga a pre-sentare il caso come stabilito e il gruppo si dispongaad ascoltare — siamo riuniti in cerchio, in una salettapiccola e accogliente — uno dei partecipanti, comechiacchierando, mostra ai colleghi come gli si siagonfiato un occhio. Chissà cosa può essere? I parte-cipanti paiono coinvolti dal piccolo incidente e cia-scuno esprime un parere al riguardo. Anche il su-pervisore interviene suggerendo che potrebbe trat-tarsi di una puntura di insetto.

A questo punto, la terapeuta prende la parola perpresentare il caso dichiarando di averlo scelto perché“si sente turbata”.

Si tratta di una giovane donna che si è rivolta allacollega a seguito di un trauma doloroso, la morte delproprio bambino, avvenuta 12 ore dopo la nascita. Laterapia, in corso da due mesi, è iniziata poco dopo illutto.

La causa della morte del piccolo parrebbe incerta(qualche anomalia del liquido amniotico). La collega

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racconta che il piccolo era stato concepito proprionel momento in cui la signora era sul punto di con-cludere la relazione col compagno con cui viveva ecol quale avrebbe condiviso la gravidanza, pur avendogià in corso una relazione con un altro uomo. La col-lega aggiunge poi che il padre non avrebbe voluto ilbambino e che, come fosse logica conseguenza di ciò,non parteciperà alla messa trigesima del piccolo.

Mentre la terapeuta parla, tutti i partecipanti paio-no molto assorti, in un ascolto molto attento, e se-guono il racconto protesi in avanti, immobili.

La terapeuta racconta come a seguito del traumala signora fosse incorsa in un grave stato depressivo,tanto che un primo collega a cui inizialmente si erarivolta le avrebbe consigliato una terapia intensivacon una frequenza di quattro sedute settimanali e lapossibilità di richiedere un TSO. Un parere che avevatrovato disorientata la paziente che avrebbe finito perrivolgersi, dopo qualche tempo, alla attuale terapeuta.

Dopo i primi colloqui, la paziente prende accordicon la terapeuta per una frequenza iniziale di due se-dute settimanali, dichiarandosi da subito contrariaad assumere farmaci.

La presentazione prosegue e la terapeuta raccon-ta, con molto pathos, come nelle prime sedute ladonna fosse in uno stato di disperazione e ripetessecome con la morte del bambino fosse morta una par-te di lei. Aveva infatti lasciata intatta la stanza del pic-colo e non finiva di preoccuparsi a proposito dei ve-stitini che aveva scelto per il funerale. L’aveva vestitoabbastanza? Avrebbe avuto freddo una volta depostonella tomba? Con il trascorrere del tempo, pian pia-no, è sembrata sempre meno addolorata…

Della sua vita la paziente avrebbe raccontato poco.Parrebbe che la sorella avesse compiuto un tentativodi suicidio e che la paziente stessa, bambina quieta edobbediente, avesse sofferto intorno ai 16 anni di “unesaurimento nervoso”, come si era abituati a chia-marlo un tempo. Un esaurimento che era sfociato

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poi in un ricovero. A dispetto della vaghezza del rac-conto, la terapeuta riferisce di non essersi sentita diinsistere con la paziente per ottenere altri particola-ri. Precisa a questo punto che la paziente, una scien-ziata, sarebbe una appassionata di insetti.

La terapeuta prosegue poi la sua presentazioneraccontando il primo sogno portato in terapia:

“Mi trovo in una casa, sdraiata sul letto, sopra di me èdistesa una coperta bianca, in alto vi sono tanti insetti, ma-schi e femmine: sento disagio… È la prima volta nella miavita che provo questo sentimento verso gli insetti”.

Ascoltato il sogno, il gruppo sembra distendersidalla posizione tesa mantenuta fino a quel momento.Silenzio di qualche istante, dopo di che la terapeutalegge il protocollo della seduta scelta.

Il racconto si apre con la descrizione dell’aspettodella paziente al suo arrivo: ordinata, curata, ben ve-stita, anche sorridente. Qualche minuto di ritardo.Inizia subito a parlare dicendo di stare meglio. Hasentito l’attuale compagno, con cui si è rappacificata:in sua presenza, le riesce di smettere di pensare albambino. Poi racconta un sogno della notte prece-dente.

“Ero in una casa fuori città, ma non la mia. L. (l’at-tuale compagno) arrivava in bici e mi chiamava da fuoriper dire di chiudermi bene dentro perché stava arrivandouna banda di bulli, ragazzi vandali. Intanto gettava inaria dei fiocchi bianchi, come quelli dei pacchetti. Poi se neandava. Io chiudevo tutte le imposte e la porta a doppiamandata e, mi dicevo, che forse stava esagerando… Arri-vavano i ragazzi, ma erano solo dei ragazzini, tipo quelli diHalloween che suonano dicendo ‘dolcetto scherzetto’”.

Al risveglio si era sentita tranquilla.Aggiunge poi di aver dormito con il precedente

compagno (il padre del bambino), che era venuto atrovarla una delle ultime sere. Non era successo nien-te, sono solo amici, però non erano riusciti a dormi-re. Erano rimasti svegli fino alle tre del mattino, ri-uscendo a prendere sonno solo all’alba.

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A questo punto la terapeuta chiede come si siasentita in quella circostanza. “Bene”, risponde la pa-ziente, anche perché si sente sempre legata a lui, “co-me stessero ancora insieme”, anche se, in realtà, so-no solo amici. Sebbene col secondo compagno siapiù tranquilla, non riesce comunque a fare a menodel primo. A quel punto la signora mostra alla tera-peuta alcune foto del bambino e del padre. Osser-vandole, la terapeuta prova disagio e pena di frontealle immagini del piccolo, e rabbia di fronte a quelledel padre, e si trova a osservare a voce alta, e dunquea condividere con la paziente, che quest’ultimo in-dossa un copricapo-cuffia con l’immagine di un te-schio. La paziente annuisce, aggiungendo che in ef-fetti l’uomo ha dei “gusti strani”. “Pensi che si è ta-tuato un’immagine della morte anche sulla schiena!Lui dice sempre che la morte ci sta alle spalle ”. Aquel punto, ormai la seduta volge alla fine, la signorasi alza e sollevando un sacchetto di erboristeria com-menta: “Èun regalo di compleanno acquistato per unmio amico. Quando l’ho comperato ho pensato diprenderne anche uno per il mio fidanzato e uno perG., (il padre del bambino). Poi però ho cambiatoidea…” Al termine della presentazione, il gruppomostra un’espressione perplessa. Si percepisce chia-ramente un disorientamento generale.

Dopo qualche minuto di silenzio, una prima col-lega osserva con stupore di non essere riuscita mini-mamente a sentire una qualche dimensione emotivanella paziente e come invece abbia potuto incontrareil dolore, come ci si può legittimamente attendere dauna situazione così traumatica, solo attraverso il rac-conto della terapeuta. La terapeuta concorda su que-sta percezione di distacco, ed è stato proprio questodistacco il motivo all’origine del turbamento che l’a-vrebbe spinta a presentare il caso al gruppo.

Un altro collega esprime come inizialmente nonriuscisse a seguire il racconto, avvertendo in sé uno

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stato confusionale che gli impediva di cogliere chifosse il padre del bambino e chi l’attuale compagnodella signora. Si sarebbe trovato poi a formulare den-tro di sé considerazioni più teoriche che lo hannoportato a sentire il bambino come puro oggetto nar-cisistico di gratificazione della paziente. In tal senso,infatti, come anche la dottoressa A aveva raccontatopresentando il caso, la paziente avrebbe detto di pen-sare alla morte del proprio bambino come alla mor-te di una parte di sé.

A proposito del primo sogno, poi, più colleghi os-servano come gli insetti facciano pensare ad una for-ma istintuale molto primitiva, corazzata, e ritengonosignificativo il fatto che la paziente, per la prima vol-ta, avverta del fastidio nei loro confronti, lei che èscienziata appassionata di insetti.

Un collega fa presente una sensazione di sfugge-volezza e di difficoltà a formulare domande sulla pa-ziente o sulla terapia.

Qualcuno chiede, in modo estemporaneo, che co-sa sia la messa trigesima. La terapeuta spiega che èuna funzione celebrata a distanza di tempo, dopotrenta giorni appunto, in ricordo del defunto. Nes-suno nel gruppo conosceva il significato di questafunzione e si crea nuovamente un momento di smar-rimento di senso all’interno del gruppo.

Un collega si sofferma poi sulla figura del padre,sottolineando come appaia una figura inquietante,e un partecipante si chiede se, nell’ipotesi del TSOavanzata dal primo collega che aveva visitato la si-gnora, non ci fosse stato il pensiero di un rischio sui-cidale.

La dottoressa A. afferma di aver pensato in effettialla necessità di ricorrere a un supporto farmacologi-co per la paziente, e ribadisce ancora di aver sentitocome la signora, raccontando del bambino, in realtàparlasse di sé. Per contrasto, si dichiara particolar-mente colpita dall’aspetto della donna, curatissimanel vestire, come a trasmettere un’idea di perfezione.

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Qualcuno osserva come sotto la “corazza” si per-cepisca una donna svuotata, fuori di sé. Qualcun al-tro aggiunge la sensazione che le persone intorno alei sembrerebbero soprammobili.

A questo punto, viene chiesto un chiarimento sul-la morte del bambino, come essa possa essere avve-nuta dopo il parto. Viene fatto qualche commentointorno ai frequenti casi di morte in culla e la tera-peuta riferisce che, di fatto, la gravidanza non era sta-ta affatto tranquilla. La signora, d’altronde, aveva in-trapreso la nuova relazione nel momento in cui il pri-mo compagno l’aveva lasciata.

Qualcuno si chiede confuso: “Chi può essere il pa-dre del bambino?”. In base alla presentazione, infat-ti, risulterebbe che il primo compagno non avrebbedesiderato un figlio e aveva anzi abbandonato la don-na proprio quando quest’ultima era in attesa (…)Ancora confusione, nel gruppo, sensazione di diffi-coltà di fronte ai distacchi. La paziente ha forse pro-blemi legati alla separazione?

Il pensiero del gruppo si ferma a questo punto,dopo aver dato espressione alle differenti risonanze eangolazioni di senso, alle diverse “verità” potremmodire, e dopo aver compiuto un tortuoso percorso, al-la ricerca di una significazione pensabile.

Seguono le riflessioni del conduttore e poi quelledell’osservatore che mettono in luce i rispettivi verti-ci di ascolto.

Il conduttore osserva come inizialmente il casopresentato sembrasse riferirsi ad una situazione didepressione reattiva ad un grave trauma, un lutto, de-pressione in qualche modo negata dopo poco dallapaziente stessa. Nel corso del lavoro il gruppo ha pe-rò lentamente espresso una difficoltà ad entrare incontatto emotivo con la paziente, come a riflettere,in risonanza, proprio una difficoltà della pazientestessa e della coppia terapeuta-paziente. La donnasembrerebbe infatti sopraffatta da un dolore impen-

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sabile che può solo cercare di isolare, sulla scorta diuna difesa massiccia quale la scissione: non c’è spa-zio, né “un tempo per il dolore”. Il sogno stesso mo-strerebbe le scissioni difensive in atto, laddove vienemesso in scena, nella forma depotenziata dello“scherzetto dolcetto”, il pericolo della presenza diaspetti distruttivi-vandalici nella paziente stessa.

Il lavoro del gruppo sembra altresì portare gra-dualmente alla luce come il tema del lutto del bam-bino reale possa rimandare a vissuti ed esperienzetraumatiche appartenenti anche alla bambina-pa-ziente (il bambino nell’adulto). Si chiarisce in tal mo-do come la confusione che permea il materiale, equindi la mente della terapeuta e del gruppo intero,stia a rispecchiare lo stato confusivo della mente del-la paziente stessa, una donna incapace di conteni-mento, nella cui famiglia di origine aleggerebbe, co-me si è appreso da qualche elemento riferito dalladottoressa A., il senso di una morte psichica.

Il conduttore sottolinea quindi come la terapeutasembri contagiata, attraverso un’identificazioneproiettiva, da un ottundimento ipnotico, proprio co-me in una sorta di inoculamento di veleno ad operadi un insetto.

Il pensiero del bambino generato in quella parti-colare situazione, sul crinale della fine di un rappor-to e dell’inizio di una nuova relazione, appare rimar-care la difficoltà di vivere e pensare una separazione.Il bambino stesso, di cui rimane avvolto nel misterol’oscuro decesso, rimanderebbe all’immagine di unpossibile oggetto persecutorio per la madre, già all’e-poca della difficile gravidanza.

Affiorano a questo punto nel gruppo alcune fan-tasie angosciose: ad un partecipante viene in menteil caso della signora Franzoni con il dubbio del figli-cidio ancora incerto a quell’epoca; ad un altro un’o-pera di Magritte dal titolo Gli amanti, quel particola-re dipinto in cui sembra che l’autore intendesse co-municare il drammatico evento del suicidio della

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madre.Dunque ancora temi di morte e di solitudine.

Prende a questo punto la parola l’osservatore, ilquale mette in luce come l’andamento del pensierodel gruppo si sia dispiegato rivivendo in qualche mo-do l’atmosfera emotiva dell’incontro della pazientecon la dottoressa A., sperimentando la stessa atmo-sfera emotiva presente nella coppia analitica. Come ari-sognare quello stato di confusione letargico al disotto del quale sembrerebbero nascondersi, scisse,emozioni terribili e indicibili, profonde angosce dimorte.

Il non vedere, ben segnalato dall’iniziale occhiosofferente di un partecipante, “forse perché un in-setto aveva irritato la palpebra”, parrebbe costituirela fantasia costellata immediatamente nel campo,fantasia che lentamente si rivela come il tema cen-trale. Come a dire che la funzione deficitaria dellapaziente e, per contagio, della terapeuta e anche delgruppo all’inizio, sarebbe proprio l’incapacità di ve-dere, di essere a contatto col dolore. Un’incapacitàche rimanda alla carenza di sguardo primario e di ri-specchiamento, come si evincerebbe anche dalla sto-ria della paziente, dalle sue cadute depressive in ado-lescenza, e dagli stessi tentativi suicidari di altri mem-bri della famiglia. “La morte sta alle nostre spalle”,suggerisce la paziente attraverso le parole dell’ex-compagno.

L’evento traumatico del lutto del bambino sem-brerebbe pertanto evocare anche un’altra storia trau-matica, quella della paziente stessa, che nel gesto del-la consegna alla terapeuta delle foto del bambino edel padre, appare volgersi alla ricerca di un conteni-tore in grado di accogliere e pensare per lei e con leiangosce e dolori indicibili. Come una madre con lasua bambina, in un cammino che possa condurla adifferenziare sé dall’altro e gli oggetti tra loro, lei cheparrebbe invece ancora totalmente immersa in una

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confusione primitiva.Dall’ottundimento iniziale affiorano infatti grada-

tamente nel gruppo fantasie collegate al rischio sui-cidale, sotteso alla negazione massiccia di emozionied affetti.

Un momento di distensione era stato infatti per-cepito dal gruppo quando la terapeuta aveva raccon-tato il primo sogno della paziente. Un sogno chesembrava prospettare la possibilità di percepire il dis-agio, e dunque un’emozione, nei confronti degli in-setti-aspetti corazzati primitivi, attivata dalla terapiastessa.

Il faticoso recupero della vista, il doloroso risve-glio dallo stato ipnotico, come causato da una sortadi inoculamento di veleno da parte di un insetto (lapaziente, si ricorderà, è una scienziata appassionatadi insetti), sembrano pertanto il percorso che il grup-po si è prestato a compiere, attraverso le differenti ri-sonanze emotive e le diverse fantasie, rivivendo spe-cularmente la difficoltà dell’entrare in contatto conl’esperienza del dolore, la paralisi dell’attivazione diuna funzione di pensiero, stati della mente su cui lacoppia analitica si era trovata ad arenarsi.

Pensiamo che, nello snodarsi di tale processo, siapossibile intravvedere la ricchezza di un pensaregruppale, all’interno del quale la verità non viene adimporsi come un significato unico o ultimo, quantopiuttosto a dipanarsi nella polifonia delle molteplicivoci e delle loro differenti tonalità.

I molti “logoi” e le molte parole, direbbe Gada-mer, prendono corposamente vita dalla “esperienzacoinvolgente” della relazione, in una sorta di sognocollettivo sognato insieme, in cui il fine ultimo del-l’incontro non è più la decodifica del mistero del sin-golo paziente, quanto la messa in opera di un con-certo gruppale di suoni e parole che, nelle loro con-nessioni, creano la relatività relazionale di una verità.

Pensare/sognare la clinica Infanzia e adolescenza

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Rossella Andreoli / Monica CeccarelliInfanzia e adolescenza

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Una favola di Rodari parla di come un pi-rata, Giacomone, giunto in una terra riescaa imporsi come Re e a sovvertire le leggilinguistiche pervertendo la sostanza dellecose: i pirati si chiamano galantuomini, almattino si deve dire buonanotte, la leggerende obbligatoria la bugia, impone, in-somma, la bugia. Il suo potere terminaquando un gatto si rifiuta di abbaiare, ri-prendendo a miagolare, ovvero ristabilen-do l’ordine delle cose vere.

La morale parrebbe essere quella di un’altra favo-la, assai più nota e di più antica data, quella dei vesti-ti nuovi dell’imperatore.

La verità alla fine, dunque, trionfa nel senso che laverità libera, mentre la bugia imprigiona. Ma è sem-pre così?

Soprattutto in un’epoca in cui i confini tra realtàe finzione sono divenuti estremamente labili, tornarea riflettere su verità, realtà, finzione, bugia, falsifica-zione ha un senso di estrema pregnanza, giocando sutermini di fondamentale importanza per la costitu-zione dell’individuo, per la sua formazione e il suosviluppo, per la costruzione della sua identità.

Per questo, però, non vi sono soltanto ragioni diordine generale legate ad una “passione” che gli psi-coanalisti sono restii ad abbandonare — riportare i da-ti dell’esperienza clinica a una sfera più ampia, cer-cando di interrogarsi sul collettivo. Vi è anche unamotivazione strettamente legata a situazioni di con-sultazione, che, suscitando in un primo momentosorpresa, spinge alla ricerca ipotesi esplicative.

Ci riferiamo a situazioni cliniche che includonouna dinamica familiare del tutto specifica, in cui lafalsificazione emerge in primo piano quale elementocaratterizzante non solo la dinamica interattiva tra icomponenti della rete familiare, talora anche il nu-cleo stesso, ma anche e soprattutto la qualità e la na-

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“Gelsominonel paese

dei bugiardi”Patrizia Conti

Alessandra Presti

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tura dello sviluppo dei bambini coinvolti. Falsifica-zione e distorsione della realtà, verità meramentesoggettiva che diviene verità condivisa, ponendosi co-me la sola possibile.

Matteo, un bambino di 7 anni, rannicchiato dietro unadelle poltrone dello studio, quella su cui è seduto il nonnomaterno, si rifiuta di uscire dalla sua posizione adducendocome motivazione la sua grande paura che il padre, sedutonella poltrona opposta, possa fargli del male … proprio co-me alla sua mamma tanto tempo fa … e dire che sono pre-senti altri due adulti, da lui ben conosciuti, uno di questi,la consulente che sa incaricata dal Giudice per trovare unasoluzione al conflitto che vede contrapposti i suoi genitori,gli ha già parlato a lungo in occasioni di incontri prece-denti, rassicurandolo sulla presenza di adulti che avrebberoimpedito al padre di comportarsi in un qualsiasi modoavrebbe potuto nuocergli, o anche solo infastidirlo.

Inutili le rassicurazioni del nonno, persona pacata eunico dei familiari capaci di cogliere un aspetto potenzial-mente dannoso nell’assenza di rapporti del nipotino con ilpadre. A nulla valgono gli incoraggiamenti e le garanzie. Ilbambino non solo non sente ragione, ma mostra un’ango-scia crescente che si condensa in breve in una vera e propriacrisi di tale rapida intensità da portare alla decisone imme-diata di concludere l’incontro.

Matteo aveva affermato nel corso delle sedute dia-gnostiche di essere più che sicuro che il padre fosseun violento, persona di cui non potersi fidare, anzi dicui diffidare, motivando questa convinzione — e rifiu-to a incontrare il padre ormai già da un anno - con ilricordo netto e preciso del padre che picchia la ma-dre, causandole una rovinosa caduta a terra.

Colloca tale ricordo ai suoi 3 anni e non vi è ten-tativo, sempre garbato e delicato, indiretto e media-to, che valga ad avviare anche solo un piccolo dubbionel bambino, che quella “verità” lui proprio non puòaverla raggiunta da solo in seguito ad una sua espe-

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rienza diretta di quanto è convinto di ben ricordare.La costruzione del ricordo appare assolutamente so-lida e intaccabile.

Stante l’approfondita conoscenza della personalitàdella madre, nella narrazione diretta della sua storia edella storia del suo rapporto con il partner padre diMatteo, ma anche nell’osservazione diretta delle di-namiche relazionali, pur conflittuali, con l’ex-partner,è da escludere la presenza di un condizionamento di-retto sul bambino almeno negli ultimi 4 anni.

Un criterio di giudizio per stabilire se una memo-ria infantile è falsa o vera è lo sviluppo del cervello:fino ai 4-5 anni, infatti, non è possibile formare ri-cordi stabili; pertanto, è legittimo diffidare delle me-morie anteriori a questo fase di sviluppo.

Gli psicologi Joseph e Anne-Marie Sandler hannomesso in luce la sostanziale inaccessibilità delle me-morie infantili, in quanto il ricordo che risale all’in-fanzia risulta poco affidabile. Secondo molti esperti,avere un ricordo articolato sotto l’età dei tre anni èun falso ricordo quasi per definizione, in quanto il lo-bo prefrontale inferiore sinistro — necessario per lamemoria a lungo termine — non è ancora sviluppatonei bambini. L’elaborata codificazione richiesta perclassificare e ricordare un evento non può dunqueavvenire nel cervello di un infante, ed è plausibile ri-tenere che presunti ricordi risalenti ai primi anni divita siano poco affidabili e attendibili.

Sorprendente è allora la genesi di una costruzio-ne, quella descritta nel bambino, ormai non solo pre-sente nel suo immaginario, ma anche sostenuta e“agita” di propria iniziativa in una dinamica relazio-nale che ne risulta, pertanto, pesantemente condi-zionata. Ma anche a livello profondo appaiono i se-gni di tale processo: le immagini genitoriali interio-rizzate hanno un carattere di unilateralità del tuttoanomala in un bambino della sua età.

Un altro flash, similmente tratto dalla consultazio-

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ne per l’autorità giudiziaria, sempre di un bambino,questa volta molto più piccolo, ma anch’esso impli-cato in una vicenda di analogo rifiuto a incontrarsicon il padre.

Manuel ha 5 anni, una fortissima personalità, uno svi-luppo decisamente precoce nell’acquisizione di competenze suogni livello e in ogni ambito. In un linguaggio sorprenden-temente corretto, persino forbito, afferma “il papà è cattivoperché ha dato tante botte alla mamma e anche i calci” e luiper questo non lo vuole più vedere... perché ne ha paura!

Anche in tale caso, la storia così come raccolta daentrambi i genitori pone delle insuperabili difficoltàa ritenere possibile che il bambino abbia assistito ascene quali quelle riferite, ma neppure a litigi. La dia-gnosi delle personalità dei genitori, ma soprattutto ladiagnosi relazionale compiuta sul rapporto coniuga-le, portano a ritenere altamente improbabile, poichéincompatibile con la qualità della relazione di cop-pia, la realtà di episodi di violenza agita, neppure a li-vello verbale tra i coniugi. Cronologia e psicologiaescludono ciò che la mente infantile dà per assoluta-mente “vero”.

Laura e Valentina, bambine alle soglie della preadole-scenza, sostengono con toni e modi estremamente sofferti diaver paura del padre, col quale vivono dopo l’ordinanza delgiudice, sebbene la madre le reclami a gran voce. Sostengo-no di essere vessate dal padre, del quale temono la violenza,a loro dire fatta di sberle, strattoni, urlate. Nei loro raccon-ti riecheggia una analoga accusa rivolta dalla madre al ma-rito riferita agli anni della prima infanzia delle bambine.Ma non si tratta di condizionamento aperto e diretto quelloche in moltissime situazioni di separazione conflittuale èpossibile riscontrare quando si osserva un’assonanza assaiampia dei motivi e una formulazione assolutamente identi-ca tra il genitore e il bambino, definibile come “ripetizione apappagallo”.

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Dal profilo del padre, inoltre, emerge una netta differen-ziazione nella gestione e articolazione relazionali tra ambitodi coppia e ambito genitoriale, che rendono, unitamente adaltri elementi diagnostici, altamente improbabile che abbiamai superato le soglie di un certo rigore educativo con le fi-glie, che invece sembrano esere investite di una proiezioned’anima sufficientemente equilibrata.

Letizia giunge addirittura a scappare, eludendo la sor-veglianza paterna, nello strenuo tentativo di tornare dallamadre alla quale dice di aver paura del padre, di non ri-uscire a stare con lui, poiché teme che la picchi come sempreha fatto da quando, dopo la separazione, ha iniziato a ve-derlo da sola.

E i modi di agire del padre trovano ampia risonanza nel-l’ascolto della madre, portata a dare credito alla sua bambi-na, sulla quale pare con ogni probabilità, stante l’accuratoapprofondimento effettuato, non aver operato alcun condi-zionamento diretto. Ma a colpire è tale ascolto appiattito,“omogeneizzato” e del tutto acritico, che rinnova alla nar-ratrice una fiducia e un credito assoluti, atteggiamento chesi allarga a tutto il contesto familiare materno.

Situazioni come quelle descritte, che sono inpreoccupante aumento, ci hanno spinto a riprende-re e rivedere alcuni punti dello sviluppo della perso-nalità del bambino, che investono anche l’adulto, e ilnostro modo di vivere e sperimentare eventi e pas-saggi dell’esistenza.

L’intento è ragionare sul come e il perché un bam-bino proceda in tal modo e sulle conseguenze per luidel costruirsi una verità — o meglio una rappresenta-zione di quella che lui sente come verità — che si sanon poter corrispondere al vero, cioè a quanto si ipo-tizza sia accaduto con ragionevole approssimazioneal vero storico. Non va dimenticato che la rappresen-tazione mentale non coincide mai con l’oggetto e colfatto concreti, così come il ricordo non coincide maicon l’evento accaduto, ma ne è una ricostruzione in-

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terna tramite rappresentazioni mentali, frutto di ri-elaborazione delle percezioni esperite. Rielaborazio-ne che solitamente nel bambino in crescita si avvaledella collaborazione dei genitori, sia individualmen-te che congiuntamente, in assonanza anche col con-testo familiare e sociale allargato.

L’importanza di una tale ricerca consiste certo nelcapire la genesi di tali “verità”, ma poi anzitutto nelrintracciarne le ripercussioni sull’evoluzione delbambino e sulla qualità delle sue relazioni.

Da ultimo vorremmo porre alcuni spunti di rifles-sione, forse veri e propri interrogativi sulle difficoltà dirielaborazione in ambito terapeutico di tai distorsioni,mettendo in gioco l’efficacia della interpretazioni.

La formazione dei ricordi nel bambino — inten-dendosi per ricordo una rappresentazione mentaleche nasce da una concorrenza di stimoli percettivi incui l’elemento visivo non è necessariamente semprepresente — è un processo dinamico complesso, cheimpegna una serie di funzioni mentali sofisticate an-che in età precoce.

L’elemento verbale appare nella rappresentazio-ne a partire dall’età di acquisizione delle vere e pro-prie competenze linguistiche, riuscendo però a con-densare, dandovi finalmente una forma, anche fram-menti e grappoli di esperienze precedenti, soprattut-to se si rinnovano all’interno di una quotidianità chene vede il ripresentarsi. La percezione visiva, uditiva,olfattiva e tattile sono presenti in misure diverse,spesso prevalendo l’una sulle altre, concorrendo so-vente a rinforzarsi reciprocamente. Il tutto avviene al-l’interno di un’elaborazione, o meglio di una riela-borazione fantasmatica, di quello che nella memoriaviene archiviato come ricordo “Mi ricordo che …”.

La parte del genitore è di non minore importanzadelle competenze via via acquisite dal bambino, agen-do come fattore di decodifica della realtà, da filtrodelle esperienze, da aiuto e da supporto alla decifra-zione di quanto esperito e da orientamento nella in-

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teriorizzazione del senso di quanto vissuto, da con-ferma, infine, della capacità di autorappresentarsi ilmondo in un modo e in una misura complessiva-mente condivisi e condivisibili.

La realtà appare così costituirsi per il bambino co-me esperienza affettiva ancor prima che percettiva,sicuramente lo diviene e lo resta nella sedimentazio-ne delle sue esperienze esistenziali.

Nella formazione dei ricordi del bambino le figu-re di accudimento, in particolare quella materna,giocano un ruolo di importanza indiscutibile. Se neha esperienza diretta quando da genitori proviamo asondare con i figli ormai adolescenti quanto e cosa siricordino della loro prima infanzia.

Ha accompagnato l’infanzia delle figlie di una dinoi il ricordo di un incontro ravvicinato con un coc-codrillo in una pozza vicino alla riva del lago di Co-mabbio, uno dei molti piccoli laghi di cui è attornia-to quello di Varese.

Interrogate in proposito fino alle soglie dell’ado-lescenza, ribadivano entrambe l’assoluta veridicitàdell’episodio, che già da piccole (4 e 5 anni), aveva-no raccontato con grande eccitazione. Avvicinatesi allago col padre (fantasioso narratore di storie) e at-tratte da una pozza al limitare della riva, avevano po-tuto vedere il muso di un coccodrillo spuntare dal-l’acqua e addirittura lambire il piede di una di loro,tanto da lasciare un leggero graffio. Graffio pronta-mente mostrato alla madre in una eccitata narrazio-ne degli eventi, così come confermati dal padre, pre-so ormai dalla propria narrazione e non intenziona-to a raffreddare gli entusiasmi delle figlie. Nella ri-evocazione successiva, in più occasioni presentatesinegli anni seguenti, non vi era modo di modificare ilricordo preciso che dell’avvenimento conservavanoentrambe, in piena assonanza di elementi.

Al tentativo di verificare la possibilità (la capacitànon era certo in questione), di operare un vaglio cri-

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tico del ricordo, per reperirne una diversa spiegazio-ne, la reazione era pronta e vivace la protesta, una di-fesa ferma e decisa della loro certa adesione al ricor-do, fino alla minaccia di mettere a rischio la loro fi-ducia nel genitore, o in chicchessia rimanesse neldubbio su quanto da loro sostenuto. Fine della storia!A distanza di anni, al termine dell’adolescenza, si as-siste alla sorpresa incredulità, da parte della ragazza“ferita” dal coccodrillo, proprio sulla possibilità diavere aderito al ricordo... “Ma come ho fatto a sentire ad-dirittura i denti sul mio piede? Come ho fatto a ricordarmianche i graffi? Stupore corretto, fortunatamente, dal-la spontanea considerazione della capacità di fanta-sticare dei bambini, così conciliando la vecchia con-vinzione e l’analisi critica resa possible da strutture dipensiero più complesse e sviluppate più tardi.

L’influenza operata dal genitore sulla formazionedei ricordi, prima ancora che sulla formazione del-l’immagine propria e dell’altro genitore, al pari diogni altra persona del suo mondo, è di straordinariaampiezza e sorprendente portata, per la costruzionedella personalità del bambino.

Per tornare alle situazioni cliniche in cui è possi-bile osservare le distorsioni cui prima si accennava, vadetto che esiste in alcuni casi un condizionamentoindiretto da parte del genitore che prosegue anchein assenza di una reiterazione di esso, comportandol’acuta percezione da parte del bambino del senti-mento prevalente nutrito dal genitore nei confrontidell’altro; sentimento, che pur non esplicitato, pro-pone l’altro come negativo, spesso anche come vera-mente ‘pericoloso’.

Si impongono a questo punto alcune riflessioni suuna serie di punti critici: quale il grado di condizio-namento? Quale il grado di adesione alla visione pro-posta/imposta? Quale il margine per la possibile mo-dificazione di tale visione nel corso dello sviluppo?Quale la possibilità perché tale modificazione proce-da all’interno di un lavoro di aiuto psicologico? Qua-

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le la possibilità che questa ‘verità’ sia funzionale allasopravvivenza del bambino e in che misura? Come eperché il bambino ‘è stato messo nelle condizioni’ dicrearsi tali ‘verità’ che sono in realtà bugie?

Ci tornano alla mente le parole di Giuseppe Pelliz-zari ascoltate in un seminario con un titolo accattivan-te: L’invenzione della verità tra infanzia e adolescenza.

La verità può essere colta solo attraverso una “fin-zione”, dicono i nostri appunti. La verità si declina alnostro interno attraverso un atto di pensiero, e per-tanto di rappresentazione della realtà, è una qualitàdelle rappresentazioni, efficace raffigurazione dellarealtà senza mai sovrapporsi ad essa. Nel suo esserecosì “costruita” attivamente, l’immaginazione parte-cipa a tale costruzione che si sedimenta nel ricordo.“E’ quindi un’azione, un mettere in relazione, unostabilire dei legami, un rappresentare qualcosa al co-spetto di qualcuno, non un oggetto”. Una rappre-sentazione non sarà mai assolutamente vera, tale cioèda sovrapporsi totalmente alla realtà cui si riferisce inmaniera da assorbirla, occultandola in sé.

È attraverso un pensiero che essa si snoda tra l’a-zione del rappresentare, quale capacità di costruire at-tivamente la realtà, e l’immaginare per poi ricordare.

La realtà, quella percepita e interiorizzata, appa-re allora frutto di un complicato processo di elabo-razione fantasmatica su cui il soggetto fa conto perpoter narrare di sé e del suo mondo, costruendo lapropria stabilità interiore nella formazione di unaidentità “piena” di contenuti, ossia di tracce mnesti-che sapientemente elaborate e pronte per ogni suc-cessiva rielaborazione e integrazione. Insomma: lafinzione è alla base della formazione dell’identitàpersonale!

Che la bugia assolva a importanti compiti colletti-vi, nella costruzione dell’ordine sociale, è noto graziea numerose analisi filosofiche e sociologiche.

Come osserva Bettetini, “una forma di bugia è allabase di ogni diritto, è fondamento di ogni arte”. Wilde so-

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steneva, in forma sicuramente provocatoria, come ilprimo a mentire fosse stato il fondatore della societàcivile.

Ma in tali campi del sapere è lecito ormai doman-darsi: in un mondo virtuale che senso ha parlare dibugie? Che senso ha operare distinzioni precise trarealtà e finzione? Le fiction e i reality sono più veridella realtà, che è divenuta pura finzione?

Ma nel sapere psicologico la distinzione mantieneuna specifica, preziosissima rilevanza.

Interrogarsi su quali dinamismi siano in operanella formazione di una personalità è sempre digrande utilità per meglio cogliere e analizzare ciòche si mostra all’osservazione clinica e nei normaliprocessi di sviluppo. La conoscenza del e sul bambinofavorisce una migliore comprensione anche dell’a-dulto, quindi il porsi domande di rilievo clinico, per-ciò anche teorico e metodologico, ha risvolti impor-tanti anche in ambiti, come quello giudiziario, dovela psicologia clinica fornisce un sapere che può me-glio orientare la decisione.

La costituzione dell’identità nel bambino presup-pone la possibilità di fruire di una costante coerenza,anche a fronte di tutti gli ‘insulti’ cui il susseguirsidelle esperienze esistenziali dà luogo, richiedendo ilripristino di quel filo unitario su cui la percezionedella propria continuità si fonda. Il filo della propriacontinuità si dipana, però, all’interno della relazioned’oggetto, o meglio delle relazioni, che a partire daquella di accudimento primario via via si instaurano,e che decidono della percezione del mondo come diun ambito di vita possibile.

E allora vale la pena, per analizzare la funzionedella bugia nel corso dello sviluppo, di recuperarel’esperienza dell’infanzia, quella dell’epoca di co-struzione dell’identità, quando le bugie sono fon-danti l’identità.

Diciamo recuperare, poiché il mondo adulto, enon solo i genitori, ha un atteggiamento di riprova-

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zione e pertanto di valutazione negativa della bugia.Questo anche se i genitori sono i primi a raccon-

tare bugie, a farvi ricorso come supporto e elementoportante della loro azione educativa. Si pensi allaquantità di metafore e metonimie che i genitori uti-lizzano, perfettamente consone al loro grado adultodi raffinatezza cognitiva, ma non di certo alla portatadel loro piccolo.

Di seguito sono citate quelle “banali”, ovvero in-nocenti, ben diverse dai veri e propri inconsapevolioccultamenti della realtà, che riguardano avveni-menti dolorosi (lutti) o intrisi di un forte sentimentodi colpa (allontanarsi dal bambino per attività nonstrettamente necessarie): “Ti sei sporcato come un por-cellino”, “sei curioso come una scimmietta”, “sei ciccione co-me un piccolo Buddha”, “sei una buona forchetta”, “il bau-bau sta dormendo, me l’ha detto l’uccellino”.

Ciò non è solo nel momento in cui sentono di se-guire il bambino nella sua dimensione fantastica, tor-nando ad adottare punti di vista e strumenti ormaipersi, ma non sepolti, nella loro memoria.

Anche nel farsi carico della responsabilità dellacrescita i genitori ‘mentono’ per precise scelte educa-tive, sapendo che la realtà avrebbe aspetti non com-prensibili — dunque non fruibili — per una mente do-tata di potenzialità capaci di esplicarsi solo in modograduale, e che si sta sviluppando e arricchendo.

La bugia dunque, a differenza della menzogna, hauna funzione essenziale per la costruzione dell’iden-tità, e va collocata nel contesto evolutivo di crescitadell’individuo.

La bugia appartiene al mondo della libera costru-zione della realtà nella possibilità di intervenire acrearla e a modificarla attraverso la fantasia e l’im-maginazione, che sulle capacità rappresentative delbambino fanno leva. Per il piccolo si tratta di un ve-ro e proprio “potere” da esercitare, in una sua perso-nale volontà di poter intervenire attivamente sulmondo che lo circonda. E la sua crescita si snoda at-

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traverso due meccanismi e lungo le linee di due di-namismi opposti ma complementari, quelli di adatta-mento e assimilazione, in cui vi è comunque sempreun intenso intervento attivo sulla realtà.

Jean Piaget, importante psicologo infantile, consi-derato il fondatore dello studio sperimentale dellosviluppo delle strutture e dei processi cognitivi, so-steneva di avere come primo ricordo cronologicoquello di essere stato sequestrato all’età di due anni.Di questo episodio ricordava diversi particolari: si ri-vedeva in carrozzina mentre la sua baby-sitter si di-fendeva contro il delinquente; ricordava i graffi sulviso della donna e il poliziotto che con un bastonebianco aveva inseguito il rapitore. La storia era con-fermata dalla baby-sitter, dalla famiglia e da altri chene erano a conoscenza. Piaget era convinto di ricor-dare l’evento. Nella realtà, il drammatico episodionon era mai avvenuto. Molti anni dopo il presuntotentativo di rapimento, la baby-sitter di Piaget con-fessò di aver inventato l’intera storia, per timore del-le conseguenze del suo ritardo nel rincasare. In se-guito Piaget scrisse: «Devo dunque aver sentito, da bam-bino, il resoconto di questa storia e devo averlo proiettato nelpassato nella forma di una memoria visiva, che è la memo-ria di una memoria, ma è falsa».

Per il bambino inventare le prime bugie vuol direentrare nel mondo del “come se”, in una dimensioneessenziale per lo sviluppo di una identità differenziatae autonoma, che è quella dello spazio transizionale.

E non è forse una continua, ripetuta bugia il gio-care e il disegnare? Si pensi al gioco simbolico come“il far finta di essere”, incarnando personaggi dei car-toni animati o delle favole; i giochi di ruolo messi inopera da soli (scolaro-maestra, mamma-bambino,dottore-bambino) o in gruppo (i cowboy e gli india-ni, i buoni e i cattivi); l’immedesimazione, il raccon-tarsi una storia fantastica facendo agire come mario-nette pupazzi e giochi, anche oggetti comuni; e an-

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cora ascoltare, leggere, ripetere la favola letta e la fia-ba ascoltata e la narrazione mitologica in generale.

La bugia risponde così a un’esigenza conoscitivache si coniuga a una rassicurazione affettiva. La crea-tività narrativa della fiaba (conoscere e ricordare)struttura nel bambino un’attitudine mentale che lorende capace di trovare significati e ragioni ai suoivissuti, creare il filo tra i diversi episodi della sua esi-stenza.

Nella sua funzione mitopoietica, con il mito, la fa-vola, la storia, la bugia riempie il nulla privo di rap-presentazione. Esempio straordinario è il mito delleorigini presente in ogni cultura, nelle più diverse la-titudini e nei più diversi contesti esistenziali, con unafunzione basilare per l’uomo, quella della compren-sione del mondo in cui vive contribuendo a costruir-lo, internamente oltre che esternamente.

Apparentemente differenziata, ma in realtà in-trinsecamente correlata, è la funzione dello spaziotransizionale sul piano relazionale, quello del senso edell’acettazione dell’Altro.

Il fantastico è uno spazio relazionale e come taleassume una dimensione tridimensionale, o forse po-tremmo anche dire quadridimensionale, andandoben oltre le coordinate della fisica tradizionale. Labugia, appartenendo al suo regno, è il frutto dell’im-maginazione, dei sogni e delle illusioni; fa vivere al-l’altezza dei propri sogni.

La bugia ha anche una funzione conoscitiva: soc-corre nel raccontare cose di cui non si conosce la ri-sposta e in cui si crede senza averne le prove.

Le bugie cambiano con l’età del bambino, con idiversi snodi evolutivi.

Possiamo distinguere l’età prescolare da quellascolare. (Discorso a parte, che qui non affrontiamo,è quello sulla bugia nell’adolescenza). In età presco-lare il confine è labile tra vero e falso, tra realtà e fan-tasia. Nel primo differenziarsi fra sé e l’altro è l’inizio

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della capacità rappresentativa, ancora ‘omnicom-prensiva’ e operante con elementi di realtà indiffe-rentemente interna ed esterna, combinati in molte-plici modi e replicati con fantasiosa creatività. Al pa-ri dello scarabocchio e dei primi accenni di ‘omino-testone’, che per il bambino ‘sono’ quell’oggetto equella persona ben specifiche che ha in mente, al dilà del segno grafico tracciato, il bambino si rappre-senta, nel raffigurarla anche all’altro, la realtà cosìcome la percepisce grazie alle sue competenze co-gnitive. Si pensi all’efficacissima esemplificazionedella discrepanza percettiva e rappresentativa trabambino e adulto nel passo de Il Piccolo Principe, incui il primo rinuncia a comunicare all’adulto il suomondo interno, vista l’incapacità di quest’ultimo dicomprendere il contenuto del disegno, scambiandoun fantasiosissimo elefante ingoiato da un boa per unbanalissimo cappello.

Quadridimensionalità… e allora uno scaraboc-chio è (e non rappresenta), un delfino nel mare, un ca-ne che morde, una casa. E guai se il bambino sospet-ta una nostra incredulità (suggerita dalla difficoltà arintracciare la forma rappresentata nella mente del-l’adulto dell’oggetto evocato).

Nell’età scolare compaiono le bugie “vere e pro-prie”, accostando alla funzione ormai nota di dar cor-po al fantastico e all’esigenza creativa quella di veico-lare significati più “evoluti”, giovandosi dell’avvenutacostituzione di un’identità personale separata e diffe-renziata, desiderosa di immettere una particolare in-tenzionalità nelle proprie iniziative. È iniziata l’acutapercezione di un primo, ma forte senso di sé, che, purconsapevole di un grado ancora elevato di dipenden-za dal caregiver, ne anticipa il futuro abbandono e su-peramento, anche nel permettersi di “mentirgli!”

Migliore, nel senso di più ampia, ma anche quali-tativamente diversa, è la percezione dei moti pulsio-nali, accanto a quella delle necessità basilari, dei bi-sogni primari, che assumono ora una veste più com-

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plessa, insieme alla consapevolezza dei modi per sod-disfarne l’urgenza. Ma urgono anche altri bisogni,ora passibili di una ricerca autonoma di soddisfaci-mento: quelli affettivi veicolati e supportati dal desi-derio, e non solo dal bisogno della relazione.

La bugia si presta ottimamente a dare espressionea queste necessità di crescita.

La bugia per discolpa esprime la difficoltà a accet-tare la parte negativa di sé, i propri intensi sentimen-ti di rabbia e al contempo conservare i legami di sti-ma e di considerazione che sono legati all’affetto.Può dare espressione anche alla difficoltà di affron-tare la delusione dei genitori e le loro aspettative nonsoddisfatte.

La bugia consolatoria permette al bambino di rap-presentarsi una condizione migliore di quella temu-ta, stante la propria incapacità di far fronte alle eve-nienze critiche della vita, conservando un’immaginevalida più forte e più capace di sé.

L’origine nel bambino sono sentimenti di dolore,di insicurezza, di perdita; la conseguenza è l’ingan-no, anzitutto di sé medesimo.

Vi sono però anche compiti cognitivi. La bugia‘ideologica’, con cui il bambino fa valere la propriacapacità di contrapporsi e di avere iniziative proprie,di incidere sul mondo e nel mondo ricorrendo allafantasia, segnala l’inizio della separatezza dalla ma-dre, l’affermazione di un’identità che ora è percepi-ta con sufficiente consapevolezza per dare il ‘brivi-do’ della libertà di autodeterminazione, delimitareuno spazio psichico privato. Al contempo permettedi scaricare una quota di aggressività legata alla per-cezione di un grado ancora elevato di dipendenzadall’oggetto.

La bugia è inoltre un modo per confrontare la suapercezione con la realtà che deve conoscere, ricor-rendo alla sfida e alla provocazione per studiare lareazione dell’altro, assumendo in ciò un significatoprettamente relazionale.

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Vi è dunque una doppia funzione: all’interno,l’acquisizione di strategie e abilità sociali e lo svilup-po di un’identità coerente; d’altro lato, mantenere econservare la relazione con l’Altro, salvaguardarnel’affetto, la stima e l’approvazione, quando non sonoancora acquisite le capacità di negoziare e di media-re il conflitto. Qui è difficile distinguere tra il movi-mento interno e il movimento relazionale, tra sferainterna e sfera relazionale, che sembrano dar luogo aun movimento oscillatorio che spesso li comprendeentrambi.

La bugia assolve, allora, a importanti compiti evo-lutivi, che conserva anche nell’esistenza adulta, ri-presentandosi come necessaria alla funzione genito-riale.

Che differenza si pone allora tra queste bugie equelle di cui Matteo, Manuel, Valentina, Laura e Le-tizia sono portatori?

Se nella bugia ‘evolutiva’ — potremmo così definir-la — il rinvio alla realtà si gioca su un limite ondivago,permeabile, fluttuante di un andare e venire, di unentrare e uscire, che, ben lungi dal creare incertezza,consente di vivere contemporaneamente su poli di-versi, talora opposti al reale, facendo salva la ricchez-za semantica di ciascuno di essi, nelle ‘falsificazioni’ —e qui ricadono i casi citati — vien meno lo spazio trans-izionale: la convinzione ha status concretistico, di‘reale’ piatto, monodimensionale, disperatamentepolarizzato, privo di tensione dinamica e creatività. Ibambini coinvolti si trovano esclusi dall’immaginario,dal mitico, dal fantastico, va perduta la funzione pro-pria della bugia di entrare in rapporto con la realtà eaccrescere l’autonomia e l’indipendenza del bambi-no. La falsificazione incide profondamente sulla ca-pacità di raccontarsi, di ricorrere al pensiero magico,di dar forma all’egocentrismo infantile, di vivere il so-gno, di immaginarsi anche prima di essere.

Ma è necessaria un’ulteriore differenziazione: trala bugia ‘sintomatica’ e quella ‘indotta’ o forzata, co-

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me per il momento conviene chiamarla.Se vi è una bugia ‘fisiologica’, ossia evolutiva, stru-

mento essenziale di crescita, esiste altresì una bugiaespressione di disagio, di un malessere, dunque equi-valente ad un sintomo. Sintomo, in specie, di distor-sioni relazionali nel mondo del bambino, in partico-lare con i genitori, di cui è percepita l’inaffidabilità el’inattendibilità. Il bambino è indotto a inventare bu-gie dalla percezione, nei genitori, di paure che essinon riescono fronteggiare, e alla fine proiettano sudi lui. Oppure il genitore può esser percepito comefragile e debole, da proteggere di fronte ad altre fi-gure familiari o da minacce che si percepiscono co-me inaffrontabili. La bugia difende infine dal rischiodella delusione delle aspettative dei genitori, quandoesse superino la quota “fisiologica” prima accennata.E’ il caso di investimenti prioritariamente o esclusi-vamente di qualità narcisistica, ad opera di genitoriche attuano una massiccia proiezione di parti del séa scapito dell’espressione e sviluppo autonomo del sédel bambino. La bugia è allora una difesa patologica,il solo modo di comunicare all’interno di un codiceormai distorto.

E qui ci collochiamo già al limite della falsificazio-ne della realtà.

Ricordo il caso di una bimba di 5 anni allevata dal-la sola madre, lontana dal padre, di cui non aveva pe-raltro un’immagine, né un vissuto negativi … Non neaveva bisogno, come appariva clamorosamente dauna narrazione in un’osservazione congiunta madre-bambina. Si trattava del racconto di come fosse natala bimba, espresso nella forma di una favola, che ave-va come protagonisti la mamma, la bimba e … Gesù,in un’evidente duplice simbolizzazione della figurapaterna, eliminata nel momento in cui veniva “santi-ficata” e divinizzata.

“Noi eravamo due sorelle in cielo e Gesù era nostro pa-dre. Giocavamo a pallavolo, ma un giorno la palla è an-

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data sulla testa di Gesù. Poi la palla è caduta e anche noi,ma Serena voleva ritornare in cielo. Poi da piccola ho vistouna strega che era la mia nonna e un diavolo che era il miopapà. Poi la mamma è rimasta incinta e, poi, esultando, ènata Serena”.

Torniamo alle situazioni, citate sopra, di bambiniosservati nelle consultazioni per l’autorità giudiziaria.

Se vi è un ambito in cui la verità è in primo piano,e assume un’importanza essenziale, è appunto quel-lo giudiziario. Non approfondiamo qui altri temiconnessi, quali verità fattuale e verità processuale, af-fidabilità del ricordo e attendibilità della testimo-nianza, argomenti senz’altro di grande interesse malontani dal focus di questo lavoro. E’ invece impor-tante, prima di procedere nell’analisi della dimensio-ne patologica della bugia, fare un rapido cenno alladistorsione operata dal bambino in un contesto di in-dagine e a fronte della richiesta di rievocare fatti edeventi.

L’attenzione alle dinamiche discorsive della testi-monianza si è di recente intensificata in relazione al-la segnalazione sempre più frequente di abusi, o co-munque di situazioni in cui la testimonianza di unbambino è essenziale alla determinazione del fatto eall’attribuzione della responsabilità. Ne è seguito unfiorire di studi, in particolare statunitensi, sull’atten-dibilità del bambino e sulla sua suggestionabilità.

E in particolare a questo concetto ci interessa ac-cennare, in quanto sembra avere attinenze con quan-to si vedrà circa la bugia e la falsificazione della real-tà ad opera di meccanismi psicologici in un contestorelazionale familiare.

Gli studi in materia mettono in rilievo la tendenzadella psiche, adulta o infantile che sia, a operare dis-torsioni in modo ‘fisiologico’, per dare coerenza al ri-cordo, specie se esso sia lacunoso o frammentario,colmandone i vuoti. Va ricordato che la memorizza-zione nel bambino segue strade diverse da quella del-

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l’adulto, soffermandosi il primo su aspetti particolaridell’evento o dell’oggetto, mentre il secondo privile-gia una visione d’insieme. Questo si declina, ovvia-mente, in base alle differenti tipologie personologi-che, elemento ben rilevabile nell’adulto, più sfumatonel soggetto in età evolutiva, il cui sviluppo segue per-corsi più omogenei.

Un altro meccanismo riguarda la suggestionabili-tà, fenomeno presente negli adulti, ma molto di piùnei bambini, collegandosi (e ciò è rilevante per il no-stro discorso) con la tendenza del bambino a soddi-sfare le aspettative dell’adulto, tanto più se percepitocome autorevole, fonte comunque di valutazione egiudizio. Più precisamente il bambino tende a incor-porare nel proprio ricordo ogni informazione ag-giuntiva gli giunga da parte dell’adulto che sul ricor-do stesso lo interroghi o gli rivolga semplicementedomande. In genere l’adulto agli occhi di un bambi-no è persona competente, credibile e attendibile, enel dargli una opzione di fiducia ampia, talora totale,asseconda un desiderio di compiacere che è natura-le, considerate la suaa posizione di dipendenza, sem-pre percepita dal bambino, anche in tenerissima età.

La percezione della dipendenza dall’adulto, fontedi sopravvivenza affettiva, psichica ed esistenziale,gioca un ruolo di primaria importanza nelle situazio-ni di distorsione relazionale, in tutte le loro forme.Ancora gli studi sulla suggestionabilità offrono unospunto di riflessione, rilevando il forte potere di sug-gestione delle tecniche di rinforzo e influenza dell’a-dulto verso il bambino, quali premi, elogi, lodi, maanche punizioni, disapprovazioni e riprovazioni.

Vorremmo escludere da questa analisi la bugia le-gata all’abuso vero e proprio, che porterebbe ad am-pliare troppo la trattazione, facendo spazio alle diffe-renze tra diverse componenti, modalità, eziologie emanifestazioni dell’abuso. Questo anche se, come sivedrà in seguito, pure le situazioni in esame realizza-no abusi, solo psicologici, ma sempre tali.

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Per tornare alla bugia “da alienazione parentale”e all’opera di falsificazione della realtà ad essa sotto-stante, è opportuno accennare a situazioni limitrofe,ovvero a quelle che possono preludere ad essa, muo-vendo da un uguale contesto relazionale, ma mante-nendosi in una dimensione ancora fisiologicamenteconnessa a una fase di transizione della vita familiare,o comunque reversibile

A parte situazioni transitorie, del tutto fisiologichenella vita di un bambino, quali la nascita di un fratel-lo, un trasferimento di abitazione, un cambio di in-segnante, un lutto in famiglia, vi sono ancora condi-zioni particolari che, pur possibili nel normale ciclofamiliare, comportano un forte rischio di distorsionedelle dinamiche relazionali e dello sviluppo indivi-duale del bambino. Ci riferiamo alle situazioni di cri-si separativa dei genitori e di rottura del nucleo ori-ginario, che espongono i bambini a dosi elevate distress, per il prodursi di stati di incertezza e insicu-rezza esistenziale, di crisi di affidabilità nei genitori,che sembrano venir meno al ruolo di garanti dellastabilità esistenziale, della certezza e della fiducia delbambino e della permanenza degli affetti, a fronte dicambiamenti rispetto a cui anche gli adulti sembranoora fragili e deboli. La bugia qui offre al bambinouna speranza di ripristinare la sua stabilità e sicurez-za, mantenendo punti di aggancio concreti in un’esi-stenza incerta.

Nelle separazioni il più delle volte vi è un genitore‘forte’ e uno ‘debole’, che coincidono in genere conil partner che ha voluto e ricercato, talora anche for-zato e imposto, la separazione e quello che l’ha sub-ita. La bugia è allora il modo di preservare l’immagi-ne positiva del genitore ‘debole’, per non farsi delu-dere da lui, per proteggerlo dalla sua fragilità. Ma an-che verso il genitore ‘forte’ può darsi la bugia, perconservarne l’approvazione e l’accettazione, (pernon subire un identico allontanamento) o anche per

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approvarne le scelte e confermarne la stima (per nonincorrere in un’analoga svalutazione). O infine percondividerne l’atteggiamento nei confronti del geni-tore allontanato (con cui il bambino non vive in pre-valenza e non è pertanto fonte della garanzia di con-tinuità della quotidianità). La bugia esprime, allora,l’immagine negativa che il genitore convivente ha del-l’altro, con la doppia funzione, pur paradossale, dipreservare entrambi gli affetti; ma senza la percezio-ne che così facendo non controlla (come vorrebbe)ma accresce la conflittualità parentale.

Filippo, un bambino di cinque anni vispo e spiritoso, pro-fondamente legato a entrambi i genitori, racconta spesso alpapà che la mamma lo porta in “discoteca” la sera col nuo-vo compagno, generando le ire e l’ansia del padre, ancoraprofondamente invischiato nel conflitto coniugale. Il padreaccoglie per vero quanto detto dal bambino con una difficol-tà a operarne, nel necessario salto al simbolico, una letturainterpretativa che ne sappia afferrare il reale messaggio sot-tostante e, pertanto, anche la reale motivazione del figlio.

La consuetudine ad essere esposto in misura eccessivaalle attenzioni dei genitori, lo porta a ricercarle attivamen-te e intensamente, anche in ragione di una normale quotadi narcisismo e del suo essere figlio unico. Infatti, il climarelazionale conflittuale sollecita la messa in scena di rea-zioni ‘capricciose’ del bambino ovvero verbalizzazioni fan-tasiose che generano animosità e contrasto tra i genitori. So-prattutto il papà, ‘parte lesa’ nella separazione e quindipercepito come ‘più debole’, da tutelare e compiacere, non èin grado di soppesare e cogliere le motivazioni reali delle af-fermazioni del figlio e cade nell’ovvia provocazione eviden-te che esse veicolano.

Nel bambino si avvia sempre un ‘conflitto di leal-tà’, almeno nelle prime fasi del processo separativo.Ma se questo si protrae, dando luogo a un inaspri-mento della conflittualità, allora il conflitto di lealtà,che oscilla dolorosamente tra l’uno e l’altro genitore,

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può decidersi a favore di uno dei due. Più spesso ilbambino sceglierà il genitore presso cui è collocato,dal quale dipende praticamente per la vita quotidia-na. Sentire di dover essere ‘fedele’ ad uno dei geni-tori spinge il bambino, anche senza la sollecitazionedell’altro, a dire bugie, in modo da ‘salvare’ quel ge-nitore dagli attacchi dell’altro. Tale ‘scelta di campo’lo mette spesso nelle condizioni di camuffare o dis-torcere anche i suoi sentimenti, assumendo atteggia-menti e ruoli consoni al genitore, ma disfunzionalialla sua sana e autonoma crescita.

A ciò contribuiscono ambedue i genitori, sia quelloche tende a trasferirgli la propria realtà, sia l’altroquando non riesce a decodificare tale dinamica e aattribuire correttamente le responsabilità: finendocosì per addossare ogni colpa all’altro genitore e da-re un credito assoluto al bambino, il quale si trova co-sì confermato nella sua personale distorsione dellarealtà.

Analogamente a Filippo, Alessandro, intelligentissimobambino di quattro anni, nel percepire del tutto inconsape-volmente l’intensa ansietà della madre quando lo consegnaal padre (della cui inaffidabilità e immaturità è convinta) alrientro racconta alla mamma di essere stato portato in moto,o in gita a Gardaland, o di aver compiuto lunghi e impe-gnativi viaggi in treno o in macchina, accrescendo così ladiffidenza materna e intensificando il conflitto tra i genitori.

Ci avviciniamo alla falsificazione, poiché vi è il ri-schio che nel ricordo si cristallizzino frammenti direaltà nella sua forma falsificata, accanto ad un’inte-riorizzazione della rappresentazione mediata dall’in-tervento del genitore condizionante.

Questa la strada per l’alienazione della fiducia neigenitori: in quello che induce la bugia, ma anche inquello cui è diretta.

Da qui all’alienazione di un genitore il passo èbreve.

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È possibile che il passaggio si compia quando vi èun’ampia e profonda intolleranza dell’ambivalenzae quando siano all’opera importanti meccanismiscissionali. In queste situazioni si crea una dramma-tica assonanza con le dinamiche verità/bugia tipichedell’abuso vero e proprio. Ovvero l’essere indotti adaccettare una bugia finendo per credere che sia l’u-nica verità.

Come riporta Dusty Miller nel suo Donne che si fan-no male, il silenzio, inteso qui come accettazione di uninganno, nei casi di abuso familiare può essere lega-to a un meccanismo chiamato “negazione difensiva”,che al suo estremo può giungere proprio alla nega-zione della stessa violenza, poiché si è “imparato a can-cellare ciò che non si può sopportare di ammettere”.

Nelle situazioni di alienazione parentale, però,ben difficilmente si è verificato l’abuso (spesso) de-nunciato dalle madri, finendo per essere queste ulti-me agenti di un abuso psicologico sul figlio. Di que-sta dinamica fa parte l’esercizio del potere sulla men-te altrui, quella del bambino e quella degli altri, il so-ciale e l’istituzione (giudicante), chiamata a confer-mare la ‘verità’ e a perseguire il genitore presuntoabusante.

Qui le madri sono le prime vittime del meccani-smo, le prime a credere a quanto trasmettono al bam-bino come verità intorno al padre.

Talora non si tratta del marito-padre, bensì deicongiunti, più spesso i nonni, in uno “spostamento”inconsapevole, ma non per questo meno pericoloso,delle fantasie dirette originariamente al partner co-me figura che torna a rappresentare nell’immagina-rio e nel vissuto la figura genitoriale “abusante” o ca-renziante.

Vi sono madri che si sentono perseguitate dalle at-tenzioni del marito-padre, che interpretano filtran-dole coi vissuti sedimentati delle loro esperienze in-fantili. Non vi è misura, né pace per attenzioni da unlato reclamate come risarcimento dovuto, da un altro

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temute come prevaricanti, ma in ogni caso deforma-te da un non riconosciuto e tuttora conflittualizzatodesiderio di riconoscimento Si tratta in fin dei contidi madri con uno scarso grado di individuazione, ta-lora visibilmente affette da un vero e proprio arrestodel processo di individuazione che comprende (manon vi si esaurisce) una mancata o scarsa separazionedi una identità individuale. Dall’altro lato ci sonospesso padri fragili, incastrati nella e dalla loro svalu-tazione e incertezza del proprio ruolo, caratterizzatida un sé poco coeso, povero di declinazione nei variassi dell’espressione della sua personalità.

Vi è, allora, una manipolazione intenzionale dellarealtà e una pratica della bugia, con l’induzione nelbambino della formazione di un falso Sé, esito pro-gnosticamente assai frequente, quando non già pre-sente come quadro patologico ormai assestato nellavalutazione diagnostica. Ne deriva una costante dis-torsione dei dati di realtà nell’induzione di unaparallela, perdurante falsificazione dei relativi vissuti.Ancor più grave se questi meccanismi, avviati dallamadre, si estendono anche al contesto più esteso,nonni, zii, parentela allargata.

Per il bambino si pone il problema della costanza,ossia dal mantenimento dell’affetto del solo oggettod’amore disponibile, condizione, pertanto, della suasopravvivenza psichica.

Così Matteo (citato all’inizio), sollecitato a disegnare ac-cetta con entusiasmo e si appresta a fare un disegno che di-ce di aver fatto anche altre volte a casa. Il disegno è divisoin due parti nette e ben separate. Dalla parte destra, in unazzurro tenue, è rappresentata la mamma con un fiore inmano e l’aureola sulla testa, mentre nella parte sinistra, inun rosso sgargiante, il papà con le corna, la coda e il forco-ne in mano. Verbalizza che sono la mamma angelo e il pa-pà diavolo, raccontando spontaneamente episodi in cui ilpadre si è comportato in modo violento con lui e con lamamma. Il disegno è davvero inquietante e ben evidenzia il

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vissuto del bambino in riferimento alle immagini materna epaterna.

Alla richiesta di disegnare una famiglia, Matteo rappre-senta se stesso e la mamma su una strada in salita. Le duefigure sono poco differenziate e le proporzioni non sono ri-spettate. Il bambino, infatti, è più grande e più alto dellamamma come ad esprimere un senso di protezione nei con-fronti di questa, vissuta come fragile. Mancano anche glielementi del viso di entrambi (occhi, naso, bocca), eviden-ziando una difficoltà di comunicazione tra i due.

Al test di Rorschach si evidenziano spunti di ansia per-secutoria che interferiscono nella relazione con l’altro, ali-mentando l’ambivalenza tra bisogno di contatto e di dipen-denza (da cui l’importanza della relazione) e il tentativo dimantenere una distanza. I contenuti esprimono il vissutodelle figure genitoriali, ad esempio Matteo in tav. IV del testvede “un orco”, in tav. VII, prima “una collana” poi “unmorto”. Al Blacky Pictures Test in tavola VII emergeun’aggressività di fronte all’oggetto vissuto come incapace dirapportarsi adeguatamente (“faceva finta di sgridare il gio-cattolo”) e quindi non sentito come parte di sé integrabile (“seBlacky fosse il cane giocattolo vorrebbe metterlo in castigo pernon andare fuori a mangiare nel ristorante di cani”).

Matteo, inoltre, fa scegliere al protagonista di assomi-gliare alla mamma.

O ancora Manuel (pure già citato) che si presenta in stu-dio tenendosi ben stretto alla gamba della mamma. Una vol-ta entrato nella stanza, un po’ buia, dice alla mamma che“lui le farà luce”. Per tutto il tempo si comporta come se do-vesse essere il bambino “perfetto”, come pensa che la madredesidera che lui sia. La madre spiega che il figlio non si la-menta mai; difficilmente chiede aiuto quando sta male, an-che perché è solita dirgli: “se stai tanto male ti devo portareall’ospedale, vuoi andare all’ospedale?”. A tal proposito rac-conta che “può essere sul punto di morte, ma non vuole maichiamare il dottore”. Soltanto una volta si è vista costrettaa portarlo al pronto soccorso.

Il bambino disegna la mamma e la rappresenta senza oc-

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chi; solo con la bocca, senza pancia e “se proprio vuoi solocon un occhio”. Allora la madre interviene e dice: “anchecon un occhio vedo lo stesso quello che combini!” Rappre-senta se stesso senza arti, solo con la testa, vuota, gli occhi e“una puzza che esce” e si rifiuta di aggiungere al disegnoqualsiasi altra persona.

La qualità della relazione imposta dalla madre è quellasimbiotica, ma su un versante narcisistico: il bambino èun’estensione del sé, investito quale prova e convalida dellapropria identità personale, quale conferma di una dimen-sione materna, che in realtà è vuota di contenuti autentici.Al bambino non viene riconosciuta alcuna reale autonomiapsichica e anche la sfera dell’ autonomia concreta — quellache può trovare espressione nei movimenti, nelle manifesta-zioni, nelle iniziative di gioco e nell’occuparsi di sé — è for-temente limitata da troppo solleciti interventi materni, chene consentono l’incipit, ma ne impediscono lo sviluppo.

I disegni di Laura sono estremamente poveri, i perso-naggi non in relazione. Nel disegno della famiglia reale ipersonaggi sono tutti senza mani, come a indicare le diffi-coltà relazionali. Disegna se stessa con una bocca grandeche voleva rappresentare un sorriso, ma buca il foglio e ilsorriso è più un ghigno rabbioso. Madre e padre sono sullosfondo, minuscoli, prima cancellati e poi ridisegnati, senzamani né piedi, come se avessero perso il contatto con il suo-lo, con la realtà. I vissuti nei confronti del padre sono am-bivalenti: sembra poter essere una figura di identificazione,ma non è sempre disponibile, preso dall’ amore/conflitto conla madre. Il padre, tuttavia, non appare in nessun momen-to come la figura paurosa descritta dalla madre. E Valenti-na (la sorella) nella tav. X del Blacky Pictures Test affer-ma “Blacky pensa a sua mamma come se fosse nera. (?) èpiù bella la mamma del sogno”, mentre alla tav. XI “Blackysogna il papà tutto nero. (?) è più bello il papà vero”.

Anche all’osservazione diretta della relazione tra figlie epadre non emerge alcun elemento che possa far pensare aqualche forma di timore, tanto meno paura, nutrita daqueste nei suoi confronti. Si è potuta anzi osservare la sciol-

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tezza, accompagnata da confidenza e intimità, nella rela-zione di Laura e Valentina col padre, del quale apprezzanola capacità di divertire, muovendosi su un piano di giocoe scherzo, accanto alla severità nell’imposizione di alcune(ma solo alcune!) regole di comportamento. Inevitabile, afronte di tali considerazioni, pensare al ruolo dell’intensaproiettività della madre. Cioè considerare l’influenza chehanno inevitabilmente alcuni messaggi materni, cioè dellafigura dominante sul piano emotivo-affettivo per le figlie,nonostante i riscontri positivi provenienti nella relazionediretta col padre.

Questi bambini preferiscono affrontare la frustra-zione di un affetto assente, trasformando il padre inoggetto persecutorio conformemente alle indicazio-ni della madre, amplificate dal contesto familiare, unoggetto pesantemente fantasmatizzato come negati-vo che va a potenziare l’aspetto arcaico dell’imagopaterna. Ecco formatosi il padre — orco — mostro!

Si crea uno squilibrio tra le componenti arcaichedella figura parentale. Nel conscio del bambino si cri-stallizza una immagine totalmente negativa, che, co-me si ritrova poi agli approfondimenti testali, stimolala formazione a livello inconscio di una immagine pe-santemente idealizzata. Il padre è l’eroe, grande, po-tente, invincibile, ardentemente desiderato, quantopiù lontano e irraggiungibile. Ma tale dimensionenon può avere accesso nella sua vita, pena la perditaimmediata della madre quale punto di riferimento eoggetto di amore.

Un amore — quello della madre — che sazia senzanutrire veramente.

Più grave è se questo avviene nelle fasi precoci del-lo sviluppo, quando il bambino non ha sviluppato pie-namente le strutture verbali per raccontare quanto gli acca-de intorno e dar parole alle sue esperienze.

La distorsione cognitiva più profonda, con laframmentazione dei ricordi, rende sempre più diffi-cile proseguire un normale accrescersi delle cono-

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scenze in relazione a esperienze diversificate e nondel tutto uniformi. I riconoscimenti unicamente pos-sibili diventano allora via via quelli di una realtà cheva adattandosi e uniformandosi alla ricostruzione ealla ideazione altrui, la madre, lasciando al bambinoben poco margine per le sue percezioni e le sue sen-sazioni, ovvero le sue esperienze così come iscrittenella sua mente dai suoi sensi e rielaborate dalle suestrutture cognitive.

Grave è una identificazione assoluta, decisamenteeccessiva, poiché forzata, con il genitore portatoredella unica possibilità di sopravvivenza psichica, poi-ché unica fonte d’amore e rassicurazione fruibile, es-sendo negata quella dell’altro. Di conseguenza si os-serva la negazione di una parte di sé, quella che ilbambino sa derivare inevitabilmente dall’altro geni-tore, essendo lui originato dai due genitori, ossia dadue parti divenute inconciliabili, in un drammaticosovvertimento del dato biologico, che a quello psico-logico deve assoggettarsi.

A parte l’età, i problemi sono più gravi per il bam-bino dello stesso sesso del genitore escluso, in speciequando si tratti di bambini maschi costretti ad unaidentificazione forzata con la madre e la sua figura.Le cose, però, non vanno bene neanche per le fem-mine, ridotte all’identificazione con un femminiledebole, soverchiato, vessato, (falsamente) abusato,impossibilitate a sviluppare un’immagine di sé comeoggetti di desiderio maschile, poiché non desideratese non da un ‘mostro’. La distorsione che così si pro-duce intossica la vita del bambino, minando il suosenso di interezza e di coesione.

Impossibile l’essere in sintonia con se stessi se si èprivati della possibilità di contatto con la totalità deipropri bisogni, sapendo riconoscerli e imparando adaccoglierli e a reclamarne il soddisfacimento o a ri-cercare come ottenerlo.

Il bambino rischia così di apprendere, interioriz-zandoli, schemi relazionali sia verso di sé che nell’in-

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terazione con gli altri — tra cui le figure affettivamen-te più significative — che ripercorrono in modo dram-maticamente adesivo quelli del genitore condizionan-te. E di ripetere la storia, rinnovando continuamentelo schema appreso e la qualità relazionale fatta pro-pria senza averne la minima consapevolezza e senzarendersi conto della sua origine. Vi è inoltre anche unaspetto “tragico”, quello di un avallo e di una confer-ma, in fin dei conti un rafforzamento, della ‘storia’così come ormai si è costruita da parte di un nucleofamiliare allargato, che va a formare una vera e pro-pria ‘mentalità’ familiare e a provocare una trasmis-sione transgenerazionale non solo ripetitiva, ma am-plificata e dilatata. Si tratta allora del ripetersi di inca-pacità a percepire i bisogni dell’altro poiché non per-cepiti nei propri confronti nel corso dell’infanzia, del-l’impossibilità a sciogliere il legame interiorizzato per-ché mai pienamente giocato nella relazione.

I casi citati sono solo alcuni fra decine di situazio-ni incontrate in questi ultimi anni in un crescendoveramente preoccupante. Ma che fare una volta ef-fettuata la diagnosi, valutata la condizione psicologi-ca del bambino e individuati i rischi?

Inevitabile una prescrizione di intervento psicote-rapeutico per il bambino in primis, e poi anche di unlavoro psicologico per i genitori come inevitabile in-dicazione clinica. Ma nel contesto di un procedi-mento giudiziario, quando in questione sono la po-testà genitoriale, la collocazione del bambino, la fre-quentazione con ciascuno dei genitori, diventa piùcomplicato limitarsi alla stretta indicazione clinica,senza considerare il problema nella sua più ampiacomplessità.

Come può collocarsi una psicoterapia in un con-testo relazionale di tal natura, così pesantemente in-vestito di valenze simboliche? Che efficacia può ave-re la prescrizione di un intervento psicoterapeutico“coatto”, imposto autoritariamente? Interrogativiquesti, che investono importanti questioni della cli-

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nica, della teoria della tecnica della pratica psicote-rapeutica.

Vi sono poi altri problemi connessi a particolaridifficoltà nella terapia: affrontare la falsificazione ra-dicata significa sfidare il terrore per la possibile, te-mutissima perdita del genitore ‘mentitore’. Vanno te-nuti in conto il senso di colpa per l’eliminazione delpadre, la vergogna conseguente, la percezione dellanatura estremamente vincolante del legame al geni-tore dominante, il sentimento di inefficacia e inade-guatezza, oltre che di vuoto, nell’oscillazione conti-nua tra i poli dell’onnipotenza e dell’impotenza, e l’i-dentificazione parziale e parcellizzata con i genitori,che non può mai essere integrata e coerente, e per-mane impossibile, a livello cosciente, sia con il geni-tore escludente, prevaricante e dominante, sia con ilgenitore escluso.

L’obiettivo dovrebbe essere il riequilibrio delleimmagini interiorizzate, avviando cambiamenti radi-cali nei processi identificativi con uno e l’altro geni-tore. Con l’obbligo di pensare e formulare con estre-ma attenzione le interpretazioni, essendo in tali casi,ancor più che in altri quadri clinici, di vitale impor-tanza per il bambino mantenere un assetto stabiledelle sue relazioni, che intuisce impossibilitate a mo-dificarsi anche in tempi relativamente contenuti. E itempi, nella maggior parte delle situazioni che per-vengono alla consultazione peritale, dipendono ne-cessariamente non tanto da fattori psicodiagnostica-mente individuabili, quanto da vincoli procedurali,ampiamente condizionanti.

Nell’attività clinica non strettamente terapeutica,come appunto quella di valutazione per l’autorità giu-diziaria, pur non ponendosi un quesito terapeutico,v’è pur sempre un imperativo di etica psicologica, ov-vero di rispetto della “verità” relazionale, che obbligaa un’attenzione particolare nell’evitare ogni collusio-ne con la distorsione cognitiva/relazionale tanto piùa tutela di un bambino. Tutela offerta con l’indicare

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al Giudice le misure necessarie e col non assumere at-teggiamenti collusivi con i comportamenti e i dati psi-chici di chi del minore non sa farsi carico.

Tale mandato pone in un conflitto etico, di deon-tologia professionale, in particolare quando il consu-lente è un clinico. Ovviamente la netta differenzia-zione dal contesto terapeutico non pone neppure ilproblema di attivare movimenti rielaborativi, attra-verso le opportune interpretazioni. Ma come affron-tare il problema della falsificazione della realtà e del-la distorsione con il genitore, e poi anche con il bam-bino? Come non dare a quest’ultimo almeno la pos-sibilità di una rappresentazione diversa di sé e dellasua storia, e al primo un avviso dei rischi che corronosia il figlio che lui medesimo nella relazione col suobambino?

Si tratta di interrogativi aperti, che costantemente,ad ogni ripresentarsi delle situazioni descritte, si rin-novano, rendendo necessario ogni volta ripensare erivedere, riflettendovi attentamente, principi e as-sunti di teoria e di tecnica innanzitutto psicodiagno-stica, ma anche psicoterapeutica. In attesa che unamigliore e più articolata comprensione delle dinami-che psicologiche e relazionali sottese possa apportarecontributi preziosi.

La confusione iniziale creata dalle disposizioni di ReGiacomone fu enorme, ma poi la gente si abituò e si confor-mò. Nessuno pronunciava più le cose col proprio nome, néosava più dire la verità. La prospettiva terribile della pri-gione o del manicomio tratteneva ogni abitante dal contra-stare l’assetto imposto. Gelsomino non riusciva proprio adabituarsi ad una simile realtà: non resistette al pensiero dicome intervenire per far comprendere agli abitanti di quelpaese il valore della verità. Riuscì così, grazie alla sua in-ventiva, a forzare e demolire il sistema su cui si reggeva iltirannico re: utilizzando la sua potente voce, riuscì a pro-durre una tale onda d’urto da abbattere il manicomio, fa-cendo riguadagnare la libertà alle persone ivi rinchiuse.

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Raccontare bugie non è davvero un bell’affare, Gelsominoavverte fin da subito che il Paese dei Bugiardi è il luogo piùtriste della terra, ma anche Giacomone, alla fine, troveràuna nuova vocazione.

Bibliografia

Andersen H. C., I vestiti nuovi dell’imperatore, Mondadori, Milano1998.

Bettetini M., Breve storia della bugia, Raffaello Cortina, Milano2009.

Canestrari R., Godino A., La psicologia scientifica. Nuovo trattato dipsicologia, Clueb, Bologna ISBN, 2007.

Gardner R. A., “Differentiating between the parental alienationsyndrome and bona fide abuse/neglect”, in American Journal ofFamily Therapy, 27(2), 1999, pp. 97-107.

Miller D., Donne che si fanno male, Universale economica Feltri-nelli, Milano 2007.

Papagno C., Come funziona la memoria, Edizioni Laterza, 2003.Pellizzari G., tratto dal seminario L’invenzione della verità tra in-

fanzia e adolescenza”, tenutosi all’A.I.P.P.I (Associazione Italianadi Psicoterapia Psicoanalitica Infantile) a Milano il 22 novem-bre 2008. Intervento parte di un lavoro in fase di pubblicazio-ne.

Rodari G., Gelsomino nel paese dei bugiardi, Editori Riuniti, 1974.Saint Exupèry A., Il Piccolo Principe, Collana tascabili Bompiani,

Milano 2008.Sandler J., Fonagy P., Il recupero dei ricordi di abuso. Ricordi veri o fal-

si?, Edizioni Franco Angeli, Milano 2002.Winnicott D., “La distorsione dell’Io in rapporto al vero e al fal-

so Sé”, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 1965.

Patrizia Conti, Alessandra PrestiInfanzia e adolescenza

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Rossella Andreoli. Socio analista con funzioni ditraining, docente della Scuola di Psicoterapia del CI-PA, Istituto di Milano.

Anna Benvenuti. Past President, Socio analista confunzioni di training, docente della Scuola di Psicote-rapia del CIPA, Istituto di Milano.

Monica Ceccarelli. Socio analista con funzioni diTraining, docente della Scuola di psicoterapia del CI-PA, Istituto di Milano.

Patrizia Conti. Socio analista con funzioni di trai-ning, docente della Scuola di Psicoterapia del CIPA,Istituto di Milano.

Elena Cristiani. Socio analista con funzioni di trai-ning, docente della Scuola di Psicoterapia del CIPA,Istituto di Milano

Enrico Ferrari. Socio analista, CIPA, Istituto di Mi-lano.

Nadia Fina. Socio analista con funzioni di trai-ning, docente della Scuola di Psicoterapia del CIPA,Istituto di Milano.

Alda Marini. Socio analista, CIPA, Istituto di Milano

Maria Ilena Marozza. Socio analista con funzionidi training, docente della Scuola di Psicoterapia delCIPA, Istituto di Roma.

Alessandra Presti. Psicologa Psicoterapeuta, Milano.

Giuseppe Vadalà. Socio analista, supervisore e do-cente della Scuola di Psicoterapia del CIPA, Istitutodi Milano.

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Autori

La Pratica Analitica

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Inoltre:

Elena Greco. Psicoterapeuta, allieva del Corso For-mazione Analisti Cipa, Istituto di Milano.

Emiliano Kersevan. Psicologo, allievo della Scuoladi Specializzazione del Cipa, Istituto di Milano.

Cosimo Sgobba. Psicologo, allievo della Scuola diSpecializzazione del Cipa, Istituto di Milano.

Cristina Trivelli. Psicoterapeuta, allieva del CorsoFormazione Analisti CIPA, Istituto di Milano.

Paola Zucca. Psicologa, allieva della Scuola di Spe-cializzazione del CIPA, Istituto di Milano.

AutoriLa Pratica Analitica204

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Appunti

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Appunti

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Norme per gli autori

Gli articoli, corredati di note e bibliografia, vanno inviati alla redazione su carta e su dischetto (floppy disk),preferibilmente PC compatibile, applicando le seguenti regole:– programma di scrittura Word, carattere suggerito: Times New Roman;– testo in corpo 11, allineato a sinistra, senza sillabazione;– non usare alcun automatismo per le note; numerare le note nel testo in apicale e, qualora ci sia, dopo il segnodi punteggiatura, come nell’esempio;1

– le citazioni vanno poste tra “virgolette”; (il segno di punteggiatura, qualora ci sia, dopo le virgolette di chiusura);le parti mancanti di una citazione devono essere segnalate da tre puntini posti tra parentesi tonde, come nell’e-sempio: (...); un eventuale intervento estraneo alla citazione da parte dell’estensore dell’articolo deve essere pos-to tra parentesi quadre [intervento dell’autore]; il testo della citazione va esattamente riprodotto come è statoscritto (tondo normale o corsivo) dall’autore citato, a meno che non gli si voglia dare una particolare enfasi; inquesto caso la non fedeltà al testo originale va segnalata tra parentesi quadre, come ad esempio: [corsivo dell’au-tore];– le note vanno poste a fine articolo: a) i numeri delle note sono di grandezza normale, seguiti da un punto e dauno spazio bianco, come nell’esempio: 1. b) Nome e Cognome dell’autore vanno scritti in M/m (Maiuscolo/mi-nuscolo); c) i titoli dei libri, dei film, e i nomi di giornali e riviste vanno scritti in corsivo; d) il titolo di un articoloall’interno di una rivista, o il titolo del capitolo scritto da un autore all’interno di un libro di autori vari vanno scrit-ti in carattere normale tra “virgolette”; e) in una nota che cita lo stesso volume della nota immediatamente prece-dente deve scriversi ibidem in corsivo; in una nota che cita lo stesso volume di una nota non immediatamenteprecedente deve scriversi op. cit. in corsivo; f) , a cura di, è scritto tra due virgole e non tra parentesi; g) un nu-mero di pagina p.; più numeri di pagine pp.; h) volume vol.; più volumi voll. i) nota n.; più note nn.

Esempi:1. C. G. Jung (1926), “Spirito e vita”, Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 353.2. J. Laplanche, J. B. Pontalis (1967), Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 536-538.3. Ibidem, p. 302.4. D. Rosenfeld (1992), “Psychic changes in the paternal image”, Int. J. Psychoanal., 73: 757-771.5. P. Fonagy (1995), “Comprendere il paziente violento: uso del corpo e ruolo del padre”, in P. Fonagy, M. Tar-get (2001), a cura di, Attaccamento e funzione riflessiva, Cortina, Milano p. 265.6. Franco Livorsi, Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffrè Editore, Milano2000, pp. 54-60.7. H. Blumenberg (1981), Le realtà in cui viviamo, Feltrinelli, Milano 1987, p. 85.8. Ibidem.9. Livorsi, op. cit., p. 83.

– nella bibliografia gli autori vanno posti in ordine alfabetico: a) prima il Cognome in M/m (Maiuscolo/minusco-lo) e poi l’iniziale maiuscola puntata del Nome; b) per il resto valgono le stesse regole delle note.

Esempi:Balint M., L’amore primario, Raffaello Cortina, Milano 1981.Bolen S., Le dee dentro la donna, Astrolabio, Roma 1991.Borgna E., I conflitti del conoscere, Feltrinelli, Milano 1989.—., L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2001.Cacciari M., L’angelo necessario, Adelphi, Milano 1992.Galimberti U., Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano 1987.Hillman J., Revisione della psicologia, Adelphi, Milano 1983.—., Anima, Adelphi, Milano 1989.—., “Dioniso nelle opere di Jung”, in Pezzella M., a cura di, Lo spirito e l’ombra, Moretti & Vitali, Bergamo 1996.Kerényi K., Dioniso, Adelphi, Milano 1992.Jung C. G., Realtà dell’anima, Bollati Boringhieri, Torino 1983.Schwartz-Salant N., Narcisismo e trasformazione del carattere, La biblioteca di Vivarium, Milano 1996.

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Finito di stampare nel febbraio 2010da Àncora Arti Grafiche, Milano - Italiaper conto di La biblioteca di Vivarium

via Caprera 4, Milano

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