La povertà in Europa: analisi comparata ed emergenza italiana · 2015-05-19 · 1.2 Povertà...

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Dipartimento di Scienze Politiche Cattedra di Politica Economica Europea La povertà in Europa: analisi comparata ed emergenza italiana RELATORE Prof. Luciano Monti CANDIDATO Carolina Coradeschi Matr. 066122 ANNO ACCADEMICO 2012-2013

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Dipartimento di Scienze Politiche Cattedra di Politica Economica Europea

La povertà in Europa: analisi comparata ed emergenza italiana

RELATORE

Prof. Luciano Monti

CANDIDATO Carolina Coradeschi Matr. 066122

ANNO ACCADEMICO 2012-2013

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INDICE Introduzione ................................................................................................................................ 2

1 Il problema della definizione.................................................................................................. 2

1.1 Definizioni ampie e ristrette............................................................................................ 3

1.2 Povertà assoluta e relativa .............................................................................................. 3

1.3 Povertà e benessere .......................................................................................................... 5

1.4 Povertà, esclusione e disuguaglianza ............................................................................. 6

1.5 Concezioni di povertà nei paesi europei ........................................................................ 9

2 Indicatori Europa 2020 .......................................................................................................... 10

2.1 Indice del rischio povertà .............................................................................................. 10

2.2 Indice di grave deprivazione materiale ....................................................................... 12

2.3 Bassa intensità lavorativa .............................................................................................. 14

2.4 Persone a rischio povertà o esclusione sociale............................................................. 15

3 La povertà in Italia ................................................................................................................ 19

3.1 Dimensione territoriale del rischio di esclusione sociale: il Mezzogiorno ................ 21

3.2 Disoccupati, neet, precari .............................................................................................. 25

3.3 Immigrati ........................................................................................................................ 29

3.4 Famiglie numerose e con figli minori........................................................................... 30

3.5 Fasce d'età più a rischio: minori e giovani ................................................................... 32

3.6 Le politiche sociali: distorsione e divari regionali ....................................................... 34

Riflessioni conclusive ................................................................................................................ 38

Riferimenti Bibliografici ........................................................................................................... 40

2

Introduzione Nel 2010, la Commissione Europea ha aggiornato gli obiettivi della strategia di Lisbona, stabiliti nel 2000, varando la strategia detta Europa 2020. Uno degli obiettivi di questa nuova strategia è "promuovere l'inclusione sociale, in particolare attraverso la riduzione della povertà, mirando a liberare almeno 20 milioni di persone dal rischio povertà ed esclusione" in Europa.

Il presente lavoro si propone un'analisi della povertà in Europa, nella convinzione che la rilevazione delle dimensioni del fenomeno sia il primo passo verso un intervento mirato e efficace. Il primo capitolo introduce il complesso dibattito sulla definizione di povertà: non è semplice definire se una persona sia povera o meno, specialmente nel complesso sociale variegato dell'Unione Europea. Secondo alcuni studiosi (quelli che preferiscono definizioni assolute), una persona è povera se non ha abbastanza risorse per vivere, secondo altri invece (i teorici di definizioni relative), la povertà dipende dal contesto storico e sociale nel quale si vive. Il resto del capitolo analizza inoltre le connessioni tra la povertà e i concetti più ampi di esclusione, benessere e uguaglianza.

Il capitolo secondo è incentrato sulla povertà in Europa: dopo la descrizione dgli indicatori di povertà scelti dalla Commissione Europea nell'ambito della strategia Europa 2020, viene presentato per ogni indice un grafico aggiornato ai dati più recenti sulla situazione e i progressi di ciascuno stato europeo, in modo da tracciare una mappa dei paesi che si trovano in maggiore difficoltà (l'Italia è purtroppo tra questi).

Il terzo capitolo presenta un'analisi dettagliata della povertà in Italia e di come la situazione sia peggiorata rispetto al 2005, prima cioè dello scoppio della crisi economica. L'analisi a livello regionale mostra come sia distribuita la povertà sul territorio, permettendo di capire quali sono le aree maggiormente in difficoltà. In seguito si individuano le categorie sociali più svantaggiate: quanti sono penalizzati nel mondo del lavoro (disoccupati, neet, precari), gli immigrati, le famiglie con minori e le fasce d'età più giovani. Infine, l'ultimo paragrafo illustra come il welfare state in Italia sia stato finora poco efficiente nella lotta alla povertà: lo sbilanciamento a favore di alcuni gruppi sociali e la complessa ripartizione di competenze tra livello centrale e locale non permettono un'adeguata gestione delle (esigue) risorse.

Si auspica dunque che la strategia Europa 2020 sia un'occasione per dedicare più attenzione all'emergenza povertà, in modo da rispettare l'impegno preso a livello europeo entro il 2020: liberare dal rischio povertà ed esclusione 2 milioni e 200 mila persone.

1 Il problema della definizione Il dibattito su come definire la povertà ha implicazioni cruciali sia in ambito politico che sociale. La definizione è di per sé legata alle cause e quindi alle soluzioni e non può prescindere da giudizi di valore ed elementi culturali, per cui non c’è un’unica definizione “corretta” di povertà.1 Il dibattito su come costruire una definizione è da considerarsi tanto scientifico quanto politico, in quanto solo dopo aver stabilito cosa si intenda per povertà è possibile tracciare le dimensioni del fenomeno e decidere gli

1 R Lister, Poverty, Polity Press, Cambridge, 2004, p.12.

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ambiti di intervento. Nei paragrafi seguenti vengono analizzati alcuni problemi relativi alla definizione di povertà: nel paragrafo 1.1 si illlustra il problema di definire i confini della povertà; nel paragrafo 1.2 si parla della distinzione tra povertà assoluta e relativa; nei paragrafi 1.3 e 1.4 si introduce il dibattito più ampio sul forte legame tra povertà, benessere, uguaglianza ed esclusione sociale.

1.1 Definizioni ampie e ristrette Le definizioni possono essere più o meno ampie. Nel dibattito, quanti sono a favore di definizioni più generali ritengono che ai fini dell’analisi della povertà non si debba tenere conto solo dei fattori materiali, ma anche di altri elementi inerenti alle relazioni sociali. R. Lister, in Poverty, ha notato come le definizioni adottate dalle Nazioni Unite vadano in questo senso, si veda infatti una dichiarazione del Giugno 1998:

“Fondamentalmente, la povertà è la negazione di scelte e opportunità, la violazione della dignità umana, la mancanza dell’elementare capacità di partecipare efficacemente alla società […]”.2

Una definizione del genere è ritenuta ampia in quanto include elementi non materiali come ad esempio la mancanza di partecipazione o la violazione della dignità umana. Altri come Nolan e Whelan3 ritengono invece che definizioni troppo vaste includano condizioni non legate esclusivamente alla povertà e quindi non permettano di identificarla chiaramente. Ad esempio la “violazione della dignità” non è esclusiva della povertà ma può essere legata ad altre situazioni.

Nolan e Whelan forniscono una definizione più restrittiva, considerando la povertà semplicemente come lo stato caratterizzato dall’”impossibilità di partecipare nella società a causa della mancanza di risorse”. 4 In questo modo, la povertà ha una delimitazione ben precisa da ricondurre all’ambito della disponibilità finanziaria.

Si può concludere quindi che la distinzione messa in evidenza da Lister tra definizione ampie e ristrette sia da ricercare nella presenza all’interno della definizione di fattori non strettamente materiali. Questa distinzione introduce il legame tra povertà ed inclusione sociale, approfondito nel paragrafo 1.5.

1.2 Povertà assoluta e relativa Una distinzione fondamentale è quella tra povertà assoluta e povertà relativa. La povertà assoluta riguarda la condizione di uno o più individui indipendentemente dal reddito delle altre persone. L’adozione del criterio di povertà assoluta può aiutare a cogliere i fenomeni di disagio estremo, indipendentemente dalle fluttuazioni del ciclo economico. Alla fine del diciannovesimo secolo Charles Booth e Seebohm Rowntree, pionieri della ricerca moderna sulla povertà, hanno fornito una definizione assoluta considerando la povertà in termini di sopravvivenza: è povero chi non può nutrire sé e la sua famiglia.5 Oggi, la mancanza di cibo può essere considerata il cuore della povertà assoluta, ma vengono ritenuti essenziali anche altri beni e servizi non strettamente

2 Dichiarazione delle Nazioni Unite, Giugno 1998. Definizione ripresa da Lister, op.cit., p.13. 3 R Lister, op. cit., p.13. 4 B Nolan, C T Whelan, Resources, Deprivation and Poverty, Clarendon Press, Oxford, 1996 p.188. Definizione ripresa da Lister, op. cit., p.13. 5 R Lister, op. cit., p. 21.

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necessari alla sopravvivenza. Per fissare la soglia di povertà, vale a dire la linea che divide poveri e non poveri, si può quindi definire un paniere minimo di beni e servizi: chi non ha abbastanza risorse per acquistare tale paniere è considerato povero. Tuttavia, la definizione del paniere porta con sé il problema di identificare i bisogni fondamentali e in particolare di stabilire se questi siano oggettivi o una costruzione sociale. Secondo Townsend, che fornisce una definizione di povertà relativa, tutti i bisogni umani non possono prescindere dal contesto sociale, storico e culturale.6 A conferma di questa tesi si può osservare come uno stesso sondaggio compiuto in anni diversi in merito alla percezioni dei cittadini sui beni essenziali abbia dato risultati differenti: nel 1999 il British Poverty ans Social (PSE) Survey ha rilevato un notevole aumento delle persone che ritengono il computer una necessità rispetto alla tornata del 1990.7 Anche la Commissione Europea si è trovata di fronte al problema di definire una lista di bisogni essenziali da includere in un indicatore di povertà assoluta. A tal fine, è stato condotto nel 2007 un sondaggio dell’Eurobarometro in cui si chiedeva ai cittadini degli Stati membri quanto considerassero necessari alcuni beni per uno standard di vita “accettabile”. 8 Il risultato del sondaggio è poi servito a costruire l’indice di deprivazione materiale, maggiormente approfondito nel paragrafo 2.2. Al contrario della povertà assoluta, la povertà relativa pone maggiore attenzione al rapporto con gli altri membri della società, per cui la soglia di povertà è calcolata in base al reddito medio o mediano della comunità di appartenenza. L’adozione del criterio di povertà relativa rende possibile il confronto internazionale della diffusione della povertà in quanto tiene in considerazione i diversi standard di vita tra paesi: ad esempio, chi è considerato povero in un paese ricco e sviluppato potrebbe non esserlo in un paese in via di sviluppo; l’adozione del criterio di povertà relativa permette di ovviare a questo problema. Un’importante definizione relativa è stata fornita da Townsend in “Poverty in the UK”, nella quale si definiscono poveri quanti

“non dispongono delle risorse necessarie per avere il tipo di dieta, partecipare alle attività e avere il tenore di vita e i servizi che sono usuali, o almeno largamente

incoraggiati o approvati nella società alla quale appartengono”.9

Questo approccio più ampio che considera aspetti sia monetari che non monetari è stato ripreso dall’Unione Europea, quando nel 1985 il Consiglio dei Ministri ha definito povere

“le persone le cui risorse (materiali, culturali e sociali) sono così limitate da escluderli dal tenore di vita minimo accettabile nello Stato Membro al quale

appartengono”. 10

6 R Lister, op. cit., p.24. 7 Ibid. 8 A Guio, A Fusco, E Marlier, ‘A European Union Approach to Material Deprivation using EU-SILC and Eurobarometer data’, IRISS Working Paper Series, Dicembre 2009, p.5. 9 P Townsend, Poverty in the UK, University of California Press, Berkeley e Los Angeles, 1979, p.31. 10A Guio, A Fusco, E Marlier, op.cit., p.2.

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1.3 Povertà e benessere Nel dibattito sulla povertà, un contributo fondamentale è stato dato negli anni Ottanta da Sen,11 che ha fornito una definizione non più basata sul reddito o sull’impossibilità di partecipare alla società, ma ha spostato l’attenzione sulla capacità (capability) di una persona di condurre il tipo di vita desiderato. 12 In questo senso, la povertà è considerata una privazione di capacità individuali fondamentali. Come evidenzia Lister, Sen e i teorici che seguono quest’approccio non isolano la povertà rispetto ad altri aspetti della qualità della vita, ma la riconducono al concetto più ampio di benessere.

La definizione e la misurazione del benessere aprono un ampio dibattito con profonde implicazioni politiche. Negli anni ’70 uno studio condotto da R. Easterlin ha messo in luce come nei paesi più sviluppati la crescita continua del reddito procapite non abbia portato ad aumenti della felicità media individuale.13 Questo ha portato a mettere in discussione l’efficacia del Prodotto Interno Lordo come indicatore globale esaustivo e nell’ambito del dibattito sono state prese varie iniziative a livello internazionale. Nel 2007, la Commissione Europea ha lanciato il progetto “Beyond GDP”, volto a sviluppare indicatori di facile lettura come il Pil ma che considerino anche altri fattori ambientali e sociali. Nel 2008, il governo francese ha istituito la Commissione Stiglitz–Sen-Fitoussi che ha sottolineato come con la crisi economica sia aumentata l’urgenza di affiancare al PIL altri indicatori frutto di un approccio multidimensionale, che non considerino solo la performance economica di un paese ma anche il benessere delle persone.14 Nel 2010, il Parlamento Europeo ha chiarito in una risoluzione come il PIL non possa costituire una base affidabile per il dibattito politico, in quanto non misura fattori essenziali come l’inclusione sociale, la sostenibilità ambientale, l’uso efficiente delle risorse e la qualità della vita.15

Per quanto riguarda gli indicatori del benessere, sono stati proposti nel corso degli anni vari modelli di misurazione. Kahneman e Krueger hanno adottato un metodo innovativo formulando il “diario elettronico” per la rilevazione della felicità oggettiva, che invita le persone a esprimersi sul proprio benessere in vari momenti. Il diario è stato poi perfezionato con il “metodo giornaliero di ricostruzione”, che misura il grado di piacere di vari eventi.16

Anche in ambito OCSE si sono tenuti importanti incontri per promuovere il dibattito sugli indicatori, a Palermo nel 2004, a Istanbul nel 2007 e a Busan (Corea) nel 2009. Con

11 A K Sen, Commodities and Capabilities, Oxford University Press, Oxford, 1985. 12 R Lister, op.cit., p. 15. 13 R Easterlin, ‘Does Economic Growth Improve the Human Lot?’ in Nations and Households in Economic Growth: Essays in Honor of Moses Abramovitz, P A David e M W Reder (eds), Academic Press, New York, 1974, p.116-124. 14 J Stiglitz, A K Sen, J P Fitoussi, Report of the commission on the measurement of economic performance and social progress, 2009. 15 Parlamento Europeo, Risoluzione n. 2088/2010 ‘Non solo PIL – Misurare il progresso in un mondo in cambiamento’ dell’8 Gugno 2011. 16 D Kahneman, A Krueger, D Schkade, N Schwartz, A Stone, ‘Toward national well-being accounts’, The American Economic Review, vol. 94, 2004, pp.429-434.

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le linee guida proposte nel 2007 si è creato il Better Life Index, che permette un confronto sul benessere tra i diversi paesi.

In Italia, per iniziativa del CNEL e dell’Istat è stato sviluppato il progetto per misurare il benessere equo e sostenibile (BES), che prende in considerazione 12 dimensioni del benessere.17

Una definizione di povertà legata al benessere è la povertà relativa soggettiva, che fa riferimento a quanto la famiglia o l’individuo ritengano necessario per garantire uno standard minimo di benessere. Questa definizione si basa sull’autovalutazione e valorizza l’aspetto “culturale” della povertà, prendendo in considerazione i valori e le aspirazioni personali; tuttavia, la povertà soggettiva è difficile da quantificare per l’eterogeneità delle risposte date sulla soglia minima.18 Per ovviare a questo problema si ricorre a una soglia di povertà pubblica, ovvero vengono previste delle misure pubbliche di assistenza sociale per garantire a tutti l’accesso a determinate prestazioni. In Italia ad esempio, si ricorre all’indicatore ISEE (Indicatore di situazione economica equivalente) per agevolare l’accesso a servizi essenziali.19

1.4 Povertà, esclusione e disuguaglianza Un tema importante legato alla povertà e al benessere è quello di esclusione sociale, che identifica la povertà congiunta all’emarginazione sociale. L’esclusione sociale è un processo multidimensionale di allontanamento di gruppi e individui dalle relazioni sociali e dalle istituzioni. Una serie di privazioni oggettive e insoddisfazioni soggettive impedisce a tali individui la piena partecipazione alla comunità in cui vivono e l’accesso a molti campi importanti dell’attività umana, come istruzione, lavoro retribuito, vita politica, sanità. L’esclusione è associata alla stigmatizzazione sociale, alla vergogna e all’isolamento. L’inclusione sociale è quindi il processo di accrescimento delle opportunità che mira a ridare agli individui accesso al reddito, alle pubbliche istituzioni e alla protezione sociale.20 L’Unione Europea ha posto la lotta alla povertà e all’esclusione sociale come uno dei cinque temi generali della strategia Europa 2020.

L’origine dell’esclusione non è da ricercarsi nella povertà intesa come valore assoluto, ma nella sua accezione relativa, in primo luogo come diseguaglianza tra i redditi: per analizzare la coesione sociale è dunque importante valutare la distribuzione dei redditi. Una misura comunemente usata per rilevare la diseguaglianza nella distribuzione è l’indice di Gini. Tale indice varia tra 0, situazione in cui tutti gli individui hanno lo stesso reddito, e 1, quando la diseguaglianza è massima e un solo individuo detiene tutto il reddito.

La figura 1.1 mostra che la media europea dell’indice di Gini è 0.307. La graduatoria fornita è simile a quella ottenuta per l’incidenza del rischio di povertà (si veda la figura

17 Cnel, Istat, Bes 2013, il benessere equo e sostenibile in Italia, Roma, Marzo 2013. Le dimensioni considerate sono: Salute, Istruzione e formazione, Lavoro e conciliazione tempi di vita, Benessere economico, Relazioni sociali, Politica e istituzioni, Sicurezza, Benessere soggettivo, Paesaggio e patrimonio culturale, Ambiente, Ricerca e innovazione, Qualità dei servizi. 18 L Monti, L’altra Europa, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2005, p.43. 19 Commissione di Indagine sull’Esclusione Sociale (CIES), Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, 2011, p.4. 20 L Monti, op. cit., p.52.

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1.2), per cui i Paesi che presentano una maggiore percentuale di popolazione a rischio povertà, ovvero Bulgaria, Romania, Spagna, Grecia presentano anche un elevato tasso di disuguaglianza. L’Italia ha un valore sopra la media europea, sfiorando lo 0,32.

FIGURA 1.1 - INDICE DI GINI EU-27 ANNO 2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.21

FIGURA 1.2 - COEFFICIENTE DI GINI - ANNI 2005-2011

Fonte: EU SILC, Eurostat.

21 Non sono disponibili i dati per l’Irlanda.

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Indice di Gini - 2011

28,0

29,0

30,0

31,0

32,0

33,0

34,0

2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

UE-15

Nuovi Stati Membri (12 Paesi)

Eurozona (17 Paesi)

Italia

8

Come si vede dal grafico a linea temporale e dalla tabella, negli anni analizzati si osservano due tendenze opposte: i paesi dell’UE-15 hanno visto un aumento delle disuguaglianze nella distribuzione redditi, misurata da un aumento quasi costante dell’indice; al contrario, negli ultimi 12 paesi entrati nell’Unione c’è stato un importante calo della disuguaglianza dei redditi. In Italia, dopo il minimo di 0,310 toccato nel 2008, il valore dell’indice è tornato a 0, 319 nel 2011 (distribuito allo 0,290 nel Nord, 0,300 nel Centro e 0,330 in Sud e Isole).

TABELLA 1: COEFFICENTE DI GINI DAL 1995 AL 2011

GEO/ANNO 1995 2000 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

UE-27 : : 0,306 0,302 0,306 0,308 0,304 0,304 0,307

UE-15 0,31 0,29 0,299 0,295 0,302 0,307 0,304 0,305 0,308

Nuovi Stati Membri (12 Paesi) : : 0,332 0,330 0,318 0,313 0,307 0,303 0,305

Italia 0,33 0,29 0,328 0,321 0,322 0,310 0,315 0,312 0,319

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

La distribuzione dei redditi è stata inoltre studiata dal Centre for the Study of Living Standards canadese all’interno della ricerca più ampia di benessere economico. Resi noti i limiti del PIL come indicatore di benessere (si veda il paragrafo precedente ), il centro studi canadese ha elaborato l’Index of Economic Well Being, che analizza quattro dimensioni del benessere economico: flussi di consumo, stock di capitale, uguaglianza economica e sicurezza economica. 22 Ai fini dell’analisi della povertà, rileva particolarmente la quarta dimensione, dal momento che l’assenza di sicurezza aumenta il rischio di cadere sotto la soglia di povertà. La sicurezza economica si scompone a sua volta in alcune situazioni considerate a rischio, tra cui: disoccupazione, famiglie monogenitoriali, età avanzata. Nel capitolo 3 viene fornita un’analisi di queste categorie a rischio nel contesto italiano.

In Italia inoltre, la Commissione d’Indagine sull’Esclusione Sociale ha approfondito il tema della capacità economica, ovvero la “possibilità di avere uno standard di vita indipendente e sicuro" 23 assieme ad altre cinque dimensioni della povertà (soddisfazione dei bisogni primari; salute; educazione e accesso all’informazione; lavoro; percezione della sicurezza fisica). In particolare, i fattori che mettono a rischio la capacità economica delle famiglie sono: basso reddito, non poter sostenere una spesa imprevista di 1.000 euro, non risparmiare e contrarre debiti, peso di affitto/mutuo superiore al 30% del reddito. In Italia, il sintomo che si presenta più di frequente è l’incapacità di sostenere una spesa imprevista, che nel 2010 riguarda una famiglia su tre (32,6% nel 2010). Come suggerito dall’approccio del centro studi canadese, queste indagini ampliano l’orizzonte di analisi non solo al benessere attuale ma anche a quello futuro, per cui è importante dedicare attenzione anche alle situazioni a rischio.24

22 L Osberg, A Sharpe, ‘Moving from a GDP-based to a Well-being based metric of economic performance and social progress: results from the index of economic well-being for OECD countries, 1980-2009’, CSLS Research Report 2011-12, Settembre 2011, pp. iv-v. 23 CIES, op. cit., p.69. 24 L Osberg, A Sharpe, op. cit., p. v.

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1.5 Concezioni di povertà nei paesi europei All’interno dei paesi europei si trovano notevoli differenze nelle concezioni di povertà, spiegata alternativamente o attraverso la responsabilità personale o attraverso quella collettiva. La prima interpretazione tende a attribuire la maggiore responsabilità della povertà ai poveri stessi, mentre la seconda ricerca le spiegazioni della povertà in fattori economici, sociali e politici. L’importanza del dibattito è cruciale in quanto il modo di concepire le cause della povertà in uno Stato ha implicazioni politiche. Infatti, una ricerca condotta nel 1981 e poi replicata successivamente, l’European Values Study, ha rilevato una correlazione tra la percezione dei cittadini sulle cause della povertà e il modello di welfare dello stato a cui appartengono. I modelli caratterizzati da più ampie manovre d’intervento si trovano in quei paesi dove le cause della povertà vengono ricondotte alla responsabilità sociale.25

I paesi che adottano un modello di welfare liberale, esempio tipico è la Gran Bretagna, sono caratterizzati da un intervento pubblico molto limitato. In questo paese si ritiene appunto che la causa primaria di povertà sia dovuta alla responsabilità personale: alla domanda “Perché, secondo lei, ci sono delle persone in stato di povertà? il 33,4% della popolazione ha indicato la pigrizia come causa principale26.

Il modello corporativo invece, adottato nell’area continentale, prevede sistemi di intervento più ampio. Non a caso, in quest’area la povertà viene ricondotta a responsabilità collettiva: la maggior parte della popolazione indica come prima causa della povertà l’ingiustizia sociale (in Francia e Germania circa il 44% della popolazione). Anche nell’area mediterranea, la causa principale rimane l’ingiustizia sociale.27

La consapevolezza che la povertà sia un fenomeno multidimensionale e che esistano concezioni differenti rende problematico l’utilizzo di un solo indicatore. Per questo motivo, nel 2010 l’Unione Europea ha optato per l’adozione congiunta di tre strumenti di misurazione, che vengono poi riassunti in un indice sintetico denominato “rischio di povertà o esclusione sociale”. Nel capitolo seguente viene fornita un'analisi approfondita degli indicatori adottati in ambito Europeo

25 CIES, op. cit., pp. 91-97. 26 La domanda era posta nel modo seguente:“Perché, secondo lei, ci sono delle persone in stato di povertà? Tra le seguenti possibili ragioni, quali considera la più importante: 1. Perché sono persone sfortunate; 2. A causa della loro pigrizia e della loro mancanza di forza di volontà; 3. Perché nella nostra società c’è ingiustizia; 4. È una parte inevitabile del progresso moderno. 27 Ibid.

10

2 Indicatori Europa 2020 L’Unione Europea ha dichiarato il 2010 “Anno europeo di lotta alla povertà e all’esclusione sociale”. La decisione di rinnovare l’impegno nel contrasto alle forme più gravi di esclusione è stata presa nel 2008 28 e ha assunto un’importanza ancora maggiore con lo scoppio della crisi economica. Nel 2010 le persone a rischio di povertà erano 80,7 milioni e da allora, nonostante l’impegno dell’Unione e degli Stati Membri tale numero è aumentato (si rimanda alla figura 2.2). Tuttavia, nel 2010 si è compiuto un passo significativo aggiornando gli obiettivi della Strategia di Lisbona, stabiliti nel 2000, varando la strategia detta Europa 2020. Uno degli obiettivi fondamentali di tale strategia è “promuovere l’inclusione sociale, in particolare attraverso la riduzione della povertà, mirando a liberare almeno 20 milioni di persone dal rischio povertà ed esclusione” in Europa.29 Fino al 2010 si misurava la povertà con un complesso insieme di indicatori deciso dal Consiglio Europeo a Laeken nel 2001 e in continuo aggiornamento. Con la strategia Europa 2020 si è deciso di ripartire gli obiettivi tra gli stati membri e misurare i progressi in maniera comparata, per cui si è semplificata la misurazione concentrandosi su alcuni indicatori, rilevati annualmente dal progetto EU-SILC (Statistics on Income and Living Conditions).30 Tali indagini costituiscono uno dei principali strumenti per produrre statistiche armonizzate su reddito e inclusione sociale a livello europeo.31

Gli indicatori stabiliti nell’ambito di Europa 2020 per misurare il raggiungimento degli obiettivi sono i seguenti:

i) la proporzione di persone a rischio povertà dopo i trasferimenti sociali ii) la proporzione di persone in grave deprivazione materiale iii) la proporzione di persone che vivono in famiglie a intensità lavorativa

molto bassa iv) Da questi deriva un indicatore sintetico: le persone a rischio di povertà o

esclusione, in cui rientra chi sperimenta almeno una delle condizioni descritte dai tre indicatori precedenti (le persone che rientrano in più indicatori vengono contate una sola volta).

2.1 Indice del rischio povertà A rischio povertà sono definite le persone che vivono in famiglie il cui reddito equivalente,32 nonostante i sussidi sociali, è inferiore al 60% del reddito equivalente

28 Parlamento Europeo e Consiglio, Decisione n. 1098/2008 del 22 Ottobre 2008 riguardante le statistiche comunitarie sul reddito e sulle condizioni di vita (EU-SILC). 29 CIES, op. cit., p.4. Gli altri temi affrontati da Europa 2020 sono occupazione, investimenti in

ricerca e sviluppo, istruzione, ambiente. 30 Parlamento europeo, Regolamento n. 1177/2003 del 16 Giugno 2003 riguardante l’anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione (2010). 31 L’Italia, dal 2004, partecipa a tale progetto con la pubblicazione del rapporto annuale “Reddito e Condizioni di vita”. 32 Il reddito equivalente è calcolato dividendo il reddito disponibile per il coefficiente della scala di equivalenza (scala OCSE modificata). Il reddito disponibile per una famiglia è l’insieme delle

11

mediano dello stesso paese. 33 L’utilizzo del reddito mediano presenta l’evidente vantaggio di non essere influenzato dai valori estremi. L’indice del rischio povertà è di tipo relativo, volto cioè a misurare le condizioni di svantaggio di determinati individui o famiglie rispetto agli altri membri della popolazione.

FIGURA 2.1 - PERCENTUALE DI PERSONE A RISCHIO POVERTÀ DOPO I TRASFERIMENTI SOCIALI -

ANNO 2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat

Come si vede dalle figure 2.1 e 2.2, si stima che nel 2011 il 16,9% della popolazione europea, vale a dire 83,5 milioni di persone, fosse a rischio povertà, con un significativo aumento di mezzo punto percentuale (2,8 milioni di persone) rispetto al 2010. I paesi che presentano tassi maggiori sono Bulgaria, Romania e Spagna (tutte al 22%), e Grecia (21%). La quota minore di popolazione a rischio povertà si trova in Repubblica Ceca (10%), Paesi Bassi (11%), Austria, Danimarca e Slovacchia (tutte al 13%).

Il grafico a linea temporale evidenzia un aumento a intervalli sempre minori di persone a rischio povertà tra il 2005 e il 2008, con una lieve diminuzione tra il 2008 e il 2009 (da 80.6 milioni di persone a 80.1). Dal 2009, a causa della crisi economica, si nota un significativo aumento dell’incidenza del rischio povertà, che coinvolge 2.8 milioni

entrate di cui si può disporre dopo la trattenuta o il versamento dei trasferimenti sociali. Per maggiori dettagli: Eurostat, ‘Glossary: Equivalised disposable income’, in Statistics Explained (8/5/2013), http://epp.eurostat.ec.europa.eu/statistics_explained/index.php/Glossary:Equivalised_disposable_income. 33 Per indagine basata su dati campionari, come nel caso dell’indagine EU-Silc, la stima Pp è data da:

. CIES, op. cit., p.17.

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Rischio povertà 2011

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di persone. L’analisi dei dati rende quindi evidente la necessità di misure urgenti e più efficaci.

FIGURA 2.2 – MILIONI DI PERSONE A RISCHIO POVERTÀ - ANNI 2005-2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

2.2 Indice di grave deprivazione materiale Il limite principale dell’indicatore del rischio di povertà è quello di considerare soglie di reddito nazionali, che variano notevolmente da paese a paese. In altre parole, l’indicatore non fornisce un quadro completo delle condizioni generali di vita, ma si limita a rilevare i residenti con reddito inferiore rispetto agli altri.34Ad esempio, non è detto che chi ha un reddito uguale al 60% della mediana in Italia abbia accesso allo stesso numero di beni di chi a un reddito uguale alla soglia in Polonia.35 Un indicatore di povertà relativa da solo non è quindi sufficiente a rappresentare la situazione di esclusione sociale di un paese, ma è necessaria una misurazione più assoluta che non si basi esclusivamente sul reddito ma anche su un paniere definito di beni che nella società attuale vengono considerati normali. L’indice di deprivazione materiale considera materialmente deprivato chi presenta almeno tre dei seguenti sintomi di disagio: 1) non poter sostenere spese impreviste; 2) non potersi permettere una settimana di ferie all’anno lontano da casa;

34 Eurostat, ‘Indicator (definition)’ in Eurostat Quality Profile (2/8/2013), http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/sdi/files/t2020_52_tsdsc280_tsdsc230_tsdsc240_tsdsc_350_People%20at.pdf. 35 Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, ‘Povertà ed esclusione sociale. L’Italia nel

contesto comunitario. Anno 2010’. Quaderni della ricerca sociale, 3, 2010, p. 8. In particolare, secondo Eurostat nel 2008 chi ha un reddito uguale alla soglia in Polonia ha accesso a un quarto dei beni del suo omologo italiano.

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Rischio povertà 2005-2011

EU 27

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3) avere arretrati per il mutuo, l’affitto, le bollette o per altri debiti come per es. gli acquisti a rate; 4) non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni, cioè con proteine della carne o del pesce (o equivalente vegetariano); 5) non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione; 6) non potersi permettere una lavatrice; 7) un televisore a colori; 8) un telefono; 9) un’automobile.

Nel 2011, nell’EU-27 circa il 18% della popolazione risulta materialmente deprivato. L’indicatore mette in evidenza differenze notevoli tra paesi: considerando solo l’area dell’Europa a 15 l’indicatore scende al 14%, mentre la media dei nuovi stati membri (12 Paesi) è del 34%.36 Si è ritenuto che utilizzare tale indice come base per le politiche di lotta alla povertà avrebbe spostato l’onere soprattutto sui paesi in maggiori difficoltà economiche,37 per questo motivo si è deciso nell’ambito della strategia Europa 2020 di adottare l’indice di grave deprivazione materiale: sono considerati gravemente deprivati gli individui che vivono in famiglie che non possono permettersi quattro (invece che tre) beni o attività presenti nell’elenco.38

FIGURA 2.3 - PERCENTUALE DI PERSONE IN GRAVE DEPRIVAZIONE MATERIALE - ANNO 2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

36 Eurostat, ‘Material deprivation and low work intensity statistics’ in Statistics Explained (8/5/2013), http://epp.eurostat.ec.europa.eu/statistics_explained/index.php/Material_deprivation_and_low_work_intensity_statistics. 37 Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, op. cit., p.10. 38 L’indicatore di deprivazione materiale Dp è dato dalla seguente formula

. CIES, op.cit., p. 17.

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Grave deprivazione materiale

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Il grafico mostra che nel 2011 in Europa il 9% della popolazione soffre di grave deprivazione materiale. Tale percentuale varia notevolmente tra gli stati, dall’1% in Lussemburgo e Svezia al 31% in Lettonia e 44% in Bulgaria.

FIGURA 2.4 - GRAVE DEPRIVAZIONE MATERIALE (MILIONI DI PERSONE) - ANNI 2005-2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

La figura 2.4 mostra come dal 2005 al 2011 ci sia stato un notevole cambiamento nella quota di popolazione affetta da grave deprivazione materiale, che ha toccato il minimo nel 2009 passando da 51,7 a 39,8 milioni di persone. Tuttavia, dal 2009 la porzione di popolazione coinvolta a ripreso a crescere, arrivando a 43,5 milioni di persone nel 2011.

2.3 Bassa intensità lavorativa Dal momento che avere un lavoro è generalmente un modo efficace per sfuggire al rischio povertà, chi è in condizione di disoccupazione di lunga durata o vive in una famiglia in cui nessuno lavora è da considerarsi fortemente a rischio esclusione, anche se al momento ha un reddito superiore alla soglia di povertà e non soffre di deprivazione materiale.39 Per questo motivo, si è scelto nell’ambito della strategia Europa 2020 di servirsi di un terzo indicatore, che fa riferimento alle persone che vivono in famiglie scarsamente occupate. Sono definite famiglie “a bassa intensità lavorativa” quelle in cui i componenti tra i 18 e i 59 anni abbiano lavorato, nell’anno precedente, meno del 20% del loro potenziale lavorativo.40 Tale indicatore serve a monitorare situazioni che possono facilmente ricadere sotto la soglia di povertà. Per esempio, una famiglia composta da una coppia e due figli piccoli è considerata a bassa intensità lavorativa se nell’anno precedente entrambi i genitori non hanno lavorato più di due mesi a testa (oppure quattro un genitore e l’altro sempre disoccupato). Se la famiglia è in questa condizione, tutti i membri, anche i bambini, vengono inclusi nell’ambito dell’incidenza.

39 Ministero del lavoro e delle Politiche sociali, op. cit., p.12. 40 L’intensità di lavoro IL è misurata dal rapporto tra i mesi lavorati dai membri in età lavorativa della famiglia nell’anno precedente l’intervista, e il numero complessivo di mesi che gli stessi

membri avrebbero potuto dedicare al lavoro:

.

CIES, op. cit., p.17.

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Grave deprivazione materiale 2005-2011

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FIGURA 2.5 - PERCENTUALE DI FAMIG LIE CON BASSA INTENS ITÀ LAVORATIVA - ANNO 2011

Fonte: Eu-Silc, Eurostat.

La figura 2.5 mostra che il 10% della popolazione europea ricade nella condizione di bassa intensità lavorativa, con soglie minime comprese tra il 4 e il 7% (Cipro, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Romania, Svezia, Polonia), e un massimo superiore al 12% in Ungheria, Spagna, Lituania, Lettonia e Belgio. La geografia di questo indicatore è diversa da quella degli altri due: Belgio, Gran Bretagna, Danimarca e Germania, che hanno tassi inferiori alla media europea per rischio povertà e deprivazione materiale, si trovano ora al di sopra.

2.4 Persone a rischio povertà o esclusione sociale La proposta di utilizzo congiunto dei tre indicatori è stata avanzata dal Comitato di protezione sociale (SPC) con il supporto del Sottogruppo Indicatori, ed è stata recepita dapprima dal Consiglio EPSCO (che riunisce i Ministri del lavoro e delle politiche sociali) e successivamente dal Consiglio Europeo del 17 giugno 2010, nel quale si sono definiti gli obiettivi della strategia Europa 2020.41 L’indicatore di persone a rischio povertà o esclusione sociale è un indicatore sintetico che include chi presenta almeno uno dei sintomi di disagio dei tre indicatori precedentemente definiti.

Nel 2011, circa 120 milioni di persone, ovvero il 24,2% della popolazione europea è a rischio povertà o esclusione sociale. Questa percentuale, in costante declino nel periodo 2006-2009, ha poi ripreso ad aumentare salendo in due anni di 1,1 punti percentuali (5,7 milioni di persone). I paesi che presentano tassi di esclusione maggiori sono Bulgaria (49%), Romania e Lettonia (entrambe 40%), Lituania (33%), Grecia e Ungheria (entrambe 31%). I paesi con tassi di esclusione più bassi sono Repubblica Ceca, con il 15%, Paesi Bassi e Svezia (16%), Lussemburgo e Austria (17%).

41 CIES, op.cit., p.94.

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Bassa Intensità lavorativa

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FIGURA 2.6 - PRCENTUALE POPOLAZIONE A RISCHIO POVERTÀ O ESCLUSIONE SOCIALE – ANNO

2011

Fonte : EU-Silc, Eurostat.

FIGURA 2.7 - MAPPA DELLA POVERTÀ ED ESCLUSIONE SOCIALE IN EUROPA - ANNO 2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

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Percentuale a rischio povertà o esclusione sociale

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Dalla mappa si vede come le percentuali di povertà ed esclusione sociale più basse (al di sotto del 20%) si trovino nel nord Europa. L’area mediterranea invece presenta un’incidenza più ampia del fenomeno, con Spagna al 27%, Italia al 28,2% e Grecia al 31%. Infine, i Paesi che presentano incidenze più alte si trovano nell’Europa Orientale, con soglie dal 31 al 41% (Bulgaria, Lettonia, Romania, Lituania, Ungheria).

FIGURA 2.8 MILIONI DI PERSONE A RISCHIO POVERTÀ O ESCLUSIONE - ANNO 2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

L’analisi dei dati in milioni di persone evidenzia la concentrazione delle maggiori sacche di povertà in Europa: nel 2011, l’Italia risulta il paese con più persone a rischio povertà o esclusione sociale, oltrepassando i 17 milioni. A seguire, Germania, con 16 milioni, e Gran Bretagna, con 14 milioni.

Dal grafico 2.9 si nota che tra i paesi con maggior numero di persone a rischio solo in Polonia c’è stata a una diminuzione costante della popolazione coinvolta, passando da quasi 13 milioni nel 2007 a 10 nel 2011. In Germania la popolazione a rischio è diminuita fino al 2010, aumentando poi lievemente. In Spagna, e in Francia dal 2008, la popolazione a rischio povertà ha continuato ad aumentare costantemente. In Italia c’è stata una diminuzione fino al 2010 seguita da un notevole aumento, che ha coinvolto 2,3 milioni di persone.

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Rischio povertà ed esclusione - milioni di persone

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FIGURA 2.9 MILIONI DI PERSONE A RISCHIO POVERTÀ O ESCLUSIONE - ANNI 2007-2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

FIGURA 1.10 - PERCENTUALI DI RISCHIO POVERTÀ, GRAVE DEPRIVAZIONE E BASSA INTENSITÀ LAVORATIVA - ANNO 2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

La figura 2.10 mostra che la componente principale dell’indice sintetico è data per il maggior numero dei paesi europei dal rischio povertà. La componente della deprivazione materiale ha un impatto maggiore nei paesi dell’allargamento, costituendo il primo motivo di esclusione in Bulgaria, Lettonia, Romania e Ungheria. Nei paesi a bassa esclusione sociale invece il peso della percentuale di deprivazione materiale è limitato, ad eccezione della Repubblica Ceca.

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A rischio povertà Deprivazione materiale Bassa Intensità di lavoro

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3 La povertà in Italia Confrontando l’Italia con l’Unione Europea e l’Eurozona (grafico 3.1), si nota che l’Italia presenta percentuali maggiori, e quindi più sfavorevoli, in ogni indicatore, con la lieve eccezione della bassa intensità lavorativa. Nel 2011, più di un quarto della popolazione (28,2%) è a rischio povertà o esclusione, vale a dire 17 milioni e 112 mila persone.

FIGURA 2.1 PERCENTUALE DI PERSONE A RISCHIO POVERTÀ O ESCLUSIONE - ANNO 2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

Le persone a rischio povertà in Italia sono 11 milioni 877 mila (19,6%). La stima si riferisce ai redditi disponibili per le famiglie dopo i trasferimenti sociali che, nel nostro paese, si realizzano quasi totalmente nella forma di trasferimenti pensionistici.42 Questa stima è più alta sia del valore dell’Unione dei 27 (16,9%) che dell’Eurozona (16,8%).

L’11,4% dei residenti, ovvero 6 milioni 771 mila persone, vive in famiglie gravemente deprivate. La percentuale italiana è più alta della media europea (8,8%), ed è aumentata considerevolmente dal 2010 (6,9%) al 2011, coinvolgendo 2,5 milioni di persone in più.

L’indicatore di esclusione del mercato del lavoro è invece prossimo alle medie europee: il 10,2% dei residenti con meno di 60 anni vive in famiglie a intensità lavorativa molto bassa (10,2% UE-27 e 10,4% Eurozona).

Il grafico 3.2 mostra che tra 2010 e 2011 la percentuale di persone a rischio povertà o esclusione è aumentata di 3,8 punti, soprattutto a causa dell’aumento della quota di persone che soffrono di grave deprivazione materiale (da 6,9% all’11,1%) e a rischio povertà (da 18,2% a 19,6%). Dopo l’aumento tra il 2009 e il 2010, rimane abbastanza stabile la quota di persone che vivono in famiglie con bassa intensità lavorativa.

42 CIES, op.cit.,p.15.

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Rischio povertà Grave deprivazione materiale

Bassa intensità lavorativa

Rischio povertà o esclusione

Rischio povertà o esclusione - 2011

UE-27 Eurozona Italia

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FIGURA 3.2 PERSONE A RISCHIO POVERTÀ O ESCLUSONE IN ITALIA- ANNI 2005-2011 (VALORI

PERCENTUALI)

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

Secondo l’indagine Istat “Reddito e condizioni di vita”, l’aumento di rischio povertà e deprivazione si spiega in parte con la diminuzione del reddito nominale delle famiglie, che, dopo aver mostrato un leggero aumento nel 2010, ha ripreso a scendere nel 2011. Al calare del reddito, le famiglie hanno sia ridotto la propensione al risparmio sia contenuto la spesa per beni voluttuari, tempo libero, vacanze, ma anche per il riscaldamento. Oltre a ciò, le famiglie hanno aumentato la tendenza ad acquistare in punti di distribuzione con prezzi più contenuti e a ridurre la quantità e/o qualità dei beni acquistati. In particolare, nel 2011 il 35,8% delle famiglie ha dichiarato di aver ridotto la quantità e/o qualità dei prodotti alimentari acquistati rispetto all’anno precedente ed è aumentata la quota di famiglie che acquistano generi alimentari presso l’hard discount, soprattutto nel Mezzogiorno (dall’11,2% al 13,1%)43.

L’indagine “Reddito e condizioni di vita” rileva inoltre una notevole distacco nella distribuzione dei redditi tra le fasce della popolazione più ricche e quelle più povere. Come analizzato nel paragrafo 1.4, il valore dell’indice di Gini per l’Italia, seppur in diminuzione fino al 2008, ha ripreso a crescere allo scoppio della crisi economica, arrivando nel 2011 allo 0,319, contro una media europea del 0,307. Un altro modo per misurare la diseguaglianza è la divisione della popolazione in cinque quinti, dal più ricco al più povero, assegnando ad ogni quinto la quota percentuale di reddito percepito rispetto al reddito totale. Una distribuzione perfettamente equa supporrebbe che ogni quinto percepisse il 20% del reddito. In Italia, il quinto più ricco dei residenti percepisce il 37,4% del reddito totale, mentre il quinto più povero dispone dell’8% del reddito. Le maggiori disparità si trovano nel Mezzogiorno, dove il quinto della popolazione più ricco ha un reddito pari a 6,4 volte quello del quinto più povero (nel Nord, il reddito dei più ricchi è 4,5 volte quello dei più poveri, nel Centro 4,9 volte).44

43 Istat, Reddito e condizioni di vita: anno 2011, Statistiche Report, Roma, 10 Dicembre 2012, pp.1-6. 44Ibid. Il reddito a cui si fa riferimento è il reddito equivalente comprensivo degli affitti imputati, ovvero la cifra che la famiglia spenderebbe se dovesse affittare una casa con caratteristiche equivalenti a quella in cui abita.

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Rischio povertà o esclusione

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Inoltre, secondo una ricerca della Banca d'Italia, la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza è ancora più pronunciata di quella sul reddito. Nel 2008, ultimo anno per cui si ha il dato definitivo, il 10 per cento delle famiglie più ricche possedeva oltre il 40 per cento dell'intero ammontare di ricchezza netta.45

Una tale disparità e il fatto che più di una persona su quattro presenti almeno una delle situazioni sopra descritte non può non essere materia di riflessione. Nei paragrafi successivi, si cercherà di scomporre il disagio andando a ricercare le regioni più colpite dalla povertà e le categorie che sono evidentemente più a rischio: i disoccupati e gli scarsamente occupati, gli immigrati, le famiglie numerose e le famiglie con figli piccoli.

3.1 Dimensione territoriale del rischio di esclusione sociale: il Mezzogiorno In Italia convivono due realtà molto diverse, con una notevole distanza tra Centro e Nord da una parte e Meridione e Isole dall’altra. Tra le due aree non c’è una discontinuità netta, tuttavia le notevoli differenze tra le economie delle regioni meridionali e delle due isole maggiori e il resto del paese portano al confronto tra le due macro-aree46. Gli indicatori economici rendono evidente il dualismo tra Nord e Sud: nel 2011 il Pil per abitante nel Mezzogiorno è inferiore alla media nazionale del 32%,47 mentre il reddito disponibile è inferiore alla media nazionale del 25,5%.48 Nel primo trimestre 2013, il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni nel Mezzogiorno è oltre quindici punti percentuali inferiore al Centro-Nord (42,3% al Sud, 59,5% al Centro, 64% al Nord) e il tasso di disoccupazione è doppio (8,4 al Nord, 10,7 al Centro, 18,8 al Sud).49

Un’ulteriore confronto può essere effettuato attraverso un’indagine sulla soddisfazione soggettiva della propria situazione economica: nel 2011, le persone che si dichiarano “molto soddisfatte” o “abbastanza soddisfatte” erano il 56,2% nel Nord, 50,9% nel Centro, e il 36,9% nel Mezzogiorno. Nel 2012, questa percentuale è diminuita, arrivando al 50% nel Nord, 44% al Centro, 32% nel Mezzogiorno.

La diseguaglianza economica del Meridione rispetto al Centro-Nord ha ovviamente conseguenze su povertà ed esclusione sociale, come si osserva dalla tabella 3.1.

TABELLA 3.1 PERCENTUALI SU POVER TÀ E ESCLUSIONE PER RIPARTIZIONE GEOGRAFICA - ANNO 2011

Rischio povertà o esclusione

Rischio povertà Grave deprivazione materiale

Bassa intensità lavorativa

Nord 17,3 10,2 6,4 6,3

Centro 23,0 15,1 7,5 8,6

Sud e Isole 46,2 34,5 19,4 17,0

Fonte: Istat, Indagine su reddito e condizioni di vita, 2012.

Nel 2011, il 19,4% delle persone residenti nel Mezzogiorno soffre di grave deprivazione materiale. Questo valore è più che doppio rispetto al Centro (7,5%) e

45 G D'Alessio,'Ricchezza e Disuguaglianza in Italia' in Disuguaglianze Diverse, D Checchi (a cura di), il Mulino, Bologna, 2012, pp. 191-216. 46 CIES, op.cit., p.54.

22

triplo rispetto al Nord (6,4%). Il dato diventa ancora più significativo se si considera che le aree maggiormente in difficoltà sono anche quelle che presentano un maggiore aumento di disagio nel tempo: nel Sud l’8,5% delle persone che non presentava alcun sintomo di deprivazione nel 2010 è diventato gravemente deprivato nel 2011, contro appena l’1,7% nel Nord e il 3% nel Centro.

I grafici 3.3, 3.4, 3.5, 3.6 presentano le percentuali di povertà ed esclusione sociale a livello regionale. Dai dati è immediatamente percepibile il disagio economico di alcune regioni: la Sicilia presenta le percentuali più alte, e quindi peggiori, per ogni indicatore: a seguire, le altre regioni che si trovano sempre negli ultimi posti degli indicatori sono Campania, Calabria, Basilicata e Puglia. Quest’ultima fa parzialmente eccezione nell’indice di bassa intensità lavorativa, trovandosi comunque al di sopra della media nazionale (13,5% contro una media nazionale del 10,4%).

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

47 Istat, Conti Economici Regionali, Statistiche Report , Roma, 23 Novembre 2012 p.1 . Il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato per abitante nel 2011 è pari a 17.689 euro nel Mezzogiorno, mentre la media italiana è di 26.003 euro. 48 Istat, Il reddito disponibile delle famiglie nelle regioni italiane: anni 1995-2011, Statistiche Report, 6 Febbraio 2013, p.1.Il reddito disponibile per abitante è 20.800 euro al Nord, 19.300 nel Centro e 13.400 nel Mezzogiorno. 49 Fonte I.stat.

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Rischio povertà

FIGURA 3.3 PERCENTUALE DI PERSONE A RISCHIO POVERTÀ PER REGIONE - ANNO 2011

23

FIGURA 3.4 PERCENTUALE DI PERSONE IN GRAVE DEPRIVAZIONE MATERIALE PER REGIONE - ANNO 2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

FIGURA 3.5 PERCENTUALE DI PERSONE CHE VIVONO IN FAMIGLIE C ON BASSA INTENSITÀ

LAVORATIVA - ANNO 2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

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FIGURA 3.6 PERCENTUALE DI PERSONE A RISCHIO POVERTÀ O ESCLUSIONE SOC IALE - ANNO

2011

Fonte: EU-Silc, Eurostat.

La percentuale di deprivazione è molto alta in Sicilia e Basilicata, dove una persona su quattro soffre di grave deprivazione materiale (Rispettivamente 25,3% e 24,6%). A seguire, Puglia, Calabria e Campania, dove a essere materialmente deprivata è una persona su cinque (21,5%; 20,2%; 18,4%). Il dato è particolarmente rilevante se si considera che è più che doppio rispetto a quello della media europea (9%).

Dall’indicatore sintetico di povertà ed esclusione si osserva che in Sicilia è a rischio il 54,6% della popolazione. Questa percentuale è superiore a tutti i paesi europei, inoltre, nella classifica del rischio esclusione a livello regionale (NUT2) del 2011, la Sicilia si trova al penultimo posto, superata solo dal Severen Tsentralen in Bulgaria. 50 Percentuali elevate si trovano anche in Campania, Basilicata e Calabria, dove è a rischio quasi una persona su due.

Per un’analisi completa, è però necessario evidenziare i limiti delle misurazioni statistiche: in particolare, i dati sopra riportati sono calcolati a partire dal reddito mediano nazionale e non da quello regionale e senza considerare il lavoro irregolare, l’autoconsumo e il livello dei prezzi.

La soglia di povertà è calcolata a partire dal valore del 60% del reddito mediano nazionale, senza considerare le notevoli differenze regionali. Per questo motivo, la Commissione d’Indagine sull’Esclusione Sociale (CIES) ha svolto un’analisi sui redditi del 2009, calcolando che se si considerasse il reddito per ripartizione territoriale, nell’anno considerato le persone a rischio povertà sarebbero state il 16% nelle regioni centro-settrentrionali (invece che 11,4%) e il 18,6% in quelle meridionali (invece che

50 Per alcune regioni i dati non sono disponibili. Fonte: Eurostat, ‘People at risk of poverty or social exclusion by NUTS 2 regions’, in EU-Silc, (14/6/2013), http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tgs00107&plugin=1.

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31%). Questo divario è chiaramente molto più contenuto che quello presentato dai valori dell’indagine Eu-Silc.51

Un altro limite dell’utilizzo del reddito come indicatore principale è dato dalla mancata considerazione del reddito dal lavoro irregolare o dall’autoconsumo, variabili che assumono un peso rilevante nel Mezzogiorno. Si stima che nel Meridione nel 2009 l’incidenza dei lavoratori irregolari fosse del 18,8%, contro il 9,8% al Centro-Nord. Inoltre, si calcola che il reddito da autoconsumo fosse di 640 euro nel Meridione a fronte dei 470 prodotti in media da una famiglia del Centro-Nord. Infine, occorre considerare la differenza dei livelli dei prezzi che caratterizzano le singole aree. In generale, i prezzi al Sud sono inferiori rispetto a quelli del Centro-Nord, quindi è lecito ipotizzare che un reddito minore non porti necessariamente a un tenore di vita inferiore.

Lo studio della CIES sui redditi del 2009 ha fornito dei dati sulla povertà “corretti” per tasso di irregolarità del lavoro, autoconsumo e parità del potere di acquisto: le persone a rischio povertà sono il 13,1 % nel Centro-Nord (invece che 11%) e 25,8% al Sud (invece che 31%).52

Si può concludere quindi che anche gli indicatori che considerano specificità della situazione italiana mostrano un evidente divario tra Nord e Sud del Paese. Il parziale ridimensionamento del fenomeno dato dalla correzione degli indicatori porta a ipotizzare che una parte della povertà delle regioni del Mezzogiorno derivi dal sottosviluppo economico rispetto al resto del Paese, mentre l’altra parte sia la “povertà strutturale”, ovvero quella che coinvolge le stesse categorie di famiglie a rischio in tutto il Paese (vale a dire quelle monogenitoriali, quelle numerose con figli piccoli, quelle con disoccupati..). Riguardo alle politiche nazionali per combattere la povertà, il rapporto CIES suggerisce quindi un approccio volto da una parte a correggere il ritardo economico della regione, dall’altra a combattere la povertà strutturale, che probabilmente si può stimare efficacemente considerando il reddito delle aree meridionali invece che quello nazionale.53

3.2 Disoccupati, neet, precari C’è un evidente correlazione tra il rischio povertà o esclusione e lo status occupazionale. Nel 2011, in Italia, considerando la fascia d’età tra i 16 e i 64 anni il rischio povertà è del 9,2%, che però sale al 43,5% se si considerano solo i disoccupati. Inoltre, il disagio economico tende ad aumentare nelle famiglie con un basso numero di percettori di reddito: il 46,6% delle famiglie in cui una sola persona percepisce reddito è a rischio povertà o esclusione, mentre se i percettori sono due la quota scende a 20,6% e a 17,5% se sono tre.54

I Disoccupati Come si osserva dal rapporto Istat Occupati e Disoccupati, nel primo trimestre del 2013 il tasso di disoccupazione in Italia si attesta al 12,8%. I disoccupati sono quindi 3 milioni

51 CIES, op.cit., p.56. 52 Ibid. 53 CIES,op.cit., p. 59. 54 Istat, Reddito e condizioni di vita: anno 2011, cit, p.3.

26

276 mila persone, con un aumento di 1,8 punti percentuali rispetto al primo trimestre del 2012. La crescita, che ha coinvolto 475 mila persone, riguarda entrambe le componenti di genere (la disoccupazione maschile si attesta all’11,9% e quella femminile al 13,9%) e si presenta diffusa sull’intero territorio nazionale, anche se colpisce maggiormente il Nord (205.000 persone in più, a fronte di un aumento di 94.000 persone nel Centro e 177.000 nel Mezzogiorno). Tra i disoccupati, il 55,2% lo è da almeno 12 mesi (i cosiddetti disoccupati di lunga durata); questa quota è andata crescendo rispetto all’anno prima (48,9% il primo trimestre del 2012).

3.7 TASSO DI DISOCCUPAZIONE PER FASCE D'ETÀ - ANNI 2005-2013

Fonte: I.stat.

Il tasso di disoccupazione aggregato racchiude percentuali molto differenti a seconda delle fasce d’età. Considerando solo i giovani tra i 15 e i 24 anni raggiunge il 41,9% nel 2013 (era il 35,9% l’anno precedente). Questo valore tocca il 51,9% nel Mezzogiorno, mentre si attesta al 42,8% nel Centro e al 33,7% nel Nord. Complessivamente, nella classe tra 15 e 24 anni, il numero delle persone in cerca di occupazione raggiunge 696.000 unità (65.000 in più rispetto a un anno prima), pari all’11,5% della popolazione di questa fascia di età.

Osservando la serie storica si vede come dal 2007 sia aumentato il tasso di disoccupazione in ogni fascia d'età. Tuttavia, la fascia maggiormente penalizzata è quelle dei giovani tra i 15 e i 24 anni, con un aumento di 21 punti percentuali rispetto al 2007. Molto più ridotto l’incremento per chi ha almeno 35 anni (3,7 punti).

Come approfondito nel rapporto “Global Employment Trends for Youth”, recentemente pubblicato dall’International Labour Organization (ILO), la disoccupazione giovanile è un problema tanto a livello europeo quanto globale, aggravatosi in particolar modo

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con lo scoppio della crisi economica. 55 Il rapporto mette infatti in evidenza come l’Eurozona abbia registrato nel 2012 il più alto tasso di disoccupazione giovanile degli ultimi dieci anni; 56 tuttavia, mentre alcuni paesi come Austria, Germania e Paesi Bassi hanno saputo contenere la disoccupazione delle fasce più giovani, altri, come Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, hanno visto un aumento esponenziale tra 2008 e 2012. Appare comunque opportuno sottolineare che secondo le proiezioni ILO i tassi di disoccupazione giovanile hanno raggiunto il picco nel 2012, per cui inizieranno a calare, seppur molto lentamente, a partire dal 2013. Il rapporto conclude auspicando sia misure macroeconomiche per rilanciare l’occupazione a livello generale, sia politiche specifiche per i giovani, come potenziamento dell’imprenditoria giovanile e servizi di impiego57.

Neet In termini assoluti, l’Italia è il paese europeo con il più alto numero di NEET, ovvero giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano né studiano (Not in Education, Employment and Training) e sono quindi esposti a un rischio più elevato di emarginazione politica e sociale. In termini percentuali, l’Italia è superata nell’Europa dei 27 solo da Grecia e Bulgaria. Nel 2012, i NEET di 15-29 anni sono 2 milioni e 250 mila, con un aumento di 95 mila unità rispetto al 2011 (23,9% nel 2012 contro il 22,7% del 2011). Dal 2008 l’incremento è stato del 21,1 per cento (391 mila giovani). Nonostante la crescita dei NEET sia stata più marcata negli ultimi anni al Centro-Nord, la situazione nel Mezzogiorno rimane quella più critica: in questa area è NEET un giovane su tre (contro uno su sei nel Nord e uno su cinque nel Centro).58

Secondo una ricerca dell’Eurofound del 2012, i giovani che hanno la probabilità più elevata di essere NEET in Italia sono: donne (il tasso per le donne in età 15-29 sale al 25,4% nel 2011, contro il 20% degli uomini), giovani qualificati, giovani senza esperienza di lavoro e inattivi, vale a dire scoraggiati nella ricerca di un lavoro.59

La condizione dei NEET comporta gravi conseguenze sia per l’individuo (mancanza di prospettive, disaffezione, criminalità giovanile..) sia per la società e l’economia, si stima infatti che nell’Unione Europea nel 2011 la perdita economica dovuta al distacco dei giovani dal mercato del lavoro sia stata pari a 153 milioni di euro, ovvero 1,2% del Pil europeo. L’Italia, uno dei paesi che ha pagato il conto più salato, ha perso nel 2011 27 miliardi, pari all’1,7% del suo Pil.60

Per fare fronte all’emergenza NEET, la Commissione ha messo a punto l’iniziativa “Youth on the move” nell’ambito della strategia Europa 2020, e l’iniziativa “Opportunità

55 International Labour Organization (ILO), Global Employment Trends for Youth 2013: A generation at risk, Ginevra, 2013. 56 ILO, op.cit., p.80. 57 ILO, op.cit., p.70. 58 Istat, Rapporto annuale 2013: la situazione del Paese, Roma, 2013, p.14. 59 Eurofound, Young people and NEEts infographic, (22/10/2012) <http://www.eurofound.europa.eu/emcc/labourmarket/youthinfographic.htm> 60 Eurofound, NEETs. Young people not in employment, education or training: Characteristics, costs

and policy responses in Europe, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2012.

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per i giovani”, per favorire il ritorno all’istruzione e alla formazione e favorire i contatti con il mondo del lavoro.

3.8 PERCENTUALE NEET NEI PAESI UE - ANNO 2011

Fonte: Eurostat.

Precari Il termine “precario” per descrivere un lavoratore ha una definizione tutt’altro che univoca. Solitamente, si riferisce alle persone che lavorano con un contratto atipico, considerando il contratto tipico quello a tempo indeterminato e a tempo pieno. Mancano delle statistiche ufficiali che collegano precari e povertà, ma è facile immaginare che le persone in questa condizione abbiano una vita lavorativa difficoltosa e una protezione sociale più limitata.61

La variazione del mercato del lavoro, dovuta in gran parte alla crisi economica, manifesta due tendenze: da una parte l’uscita dallo stato di occupazione colpisce maggiormente i lavoratori temporanei, che tenderebbero così a diminuire, ma allo stesso tempo, tra gli occupati aumentano i lavoratori con contratto atipico. Infatti, tra l’inizio del 2008 e l’inizio del 2011 il flusso in uscita dallo stato di occupazione è stato pari al 16,7% per i lavoratori temporanei, contro il 2,7% dei lavoratori a tempo indeterminato.62 Allo stesso tempo, nel contesto generale del calo di occupazione, diminuiscono gli occupati a tempo pieno e aumentano gli occupati a tempo parziale.

Nel primo trimestre del 2013, l’81,9% degli occupati lo è a tempo pieno, mentre il 18,1% a tempo parziale. Rispetto al primo trimestre del 2012, gli occupati a tempo pieno sono calati di 3,4 punti percentuali (640 mila unità), mentre sono aumentati considerevolmente i lavoratori a tempo parziale: 6,2%, ovvero 235 mila unità. Questa crescita riguarda esclusivamente il part-time involontario, ossia i lavori accettati in mancanza di occasioni di impiego a tempo pieno. In particolare, l’incidenza del part-

61 CIES, op.cit.,p.23. 62 CIES, op.cit., p.23.

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time involontario sul totale dei lavoratori a tempo parziale è salita dal 55,3% del primo trimestre 2012 al 60,5%.

Tra i lavoratori precari si possono poi considerare anche quelli impiegati nell’economia sommersa, i quali, per via dell’assenza di costi di licenziamento per il datore, hanno un maggiore rischio di perdere il lavoro, non possono accedere agli ammortizzatori sociali né godere alla fine della vita lavorativa dei trattamenti pensionistici. Il fenomeno dell’economia sommersa assume dimensioni rilevanti in Italia: si stima che nel 2010 i lavoratori non regolari siano stati 2,5 milioni, circa il 10,3% del totale dei lavoratori.63 Un’indagine della Banca d’Italia del 2010 stima che, a parità di condizioni, la probabilità di lavorare nell’economia sommersa è maggiore per le donne, per i meno istruiti, per gli addetti all’edilizia e al terziario.64

3.3 Immigrati In generale, i dati raccolti dall’Istat mostrano che a parità di altre condizioni le famiglie straniere sono più esposte al rischio povertà ed esclusione di quelle italiane.

Secondo i dati del 15° Censimento Generale, nel 2011 la popolazione straniera residente in Italia comprende 4.029.145 individui. Questo numero è triplicato rispetto al 2001, passando dal 2,3% della popolazione totale al 6,8%. Due stranieri su tre risiedono nel Nord (35,4% nell’Italia Nord-Occidentale e 27,1% nel Nord -Est), il 24,0% nel Centro e solo il 13,5% vive nel Mezzogiorno65.

Occupazione

Il rapporto annuale Istat 2013, riferito ai dati dell’anno prima, mostra che dallo scoppio della crisi al 2012 il tasso di occupazione degli stranieri è diminuito in misura maggiore per gli stranieri che per gli italiani. Dal 2008 al 2012 il tasso di occupazione degli stranieri ha perso 6,5 punti percentuali (dal 67,1% al 60,6%) contro 1,8 punti degli italiani (dal 58,1% al 56,4%). In particolare, gli uomini stranieri hanno perso 10,3 punti percentuali contro i 3,5 punti degli italiani. Inoltre, tra il 2008 e il 2012 il tasso di disoccupazione degli immigrati è cresciuto di quasi 2 punti in più (dall’8,5% al 14,1%) rispetto a quello degli italiani (dal 6,6% al 10,3%).

Gli stranieri tendono inoltre a svolgere professioni poco qualificate: tra queste, un occupato su tre è straniero. Questo dato riflette la forte presenza di sovraistruiti tra gli stranieri, più che doppia rispetto a quella degli italiani (41,2% contro 19,5%); inoltre, solo il 9,8%, di diplomati e laureati stranieri svolge un lavoro qualificato.66

63 Istat, La misura dell’occupazione non regolare nelle stime della contabilità nazionale (21/09/2011), http://www.istat.it/it/archivio/39522. 64 R. Cappariello, R. Zizza, ‘Dropping the books and working off the books’, Labour, vol. 24, pp. 139-162. 65 Istat, il censimento della popolazione straniera, 15° censimento generale della popolazione e delle abitazioni, Roma, 19 Dicembre 2012, p.1. 66 Istat, Rapporto annuale 2013: la situazione del Paese, cit., p.108.

30

Povertà ed esclusione

Gli ultimi dati relativi alla povertà degli stranieri sono stati pubblicati dall’Istat nel 2011, a seguito dell’indagine Reddito e condizioni di vita delle famiglie con stranieri. L’indagine, finanziata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, è stata condotta nel 2009 ricalcando nei contenuti e negli aspetti metodologici essenziali l’indagine EU-Silc. Il grafico 3.9 confronta la situazione di famiglie composte da italiani e da stranieri relativamente agli indicatori Europa 2020.

3.9 INDICATORI EUROPA 2020 PER FAMIGLIE ITALIANE E STRANIERE - ANNI 2008-2009

Fonte: Istat, Reddito e condizioni di vita degli stranieri, 2011.

In generale, le condizioni economiche delle persone che vivono nelle famiglie di stranieri risultano peggiori di quelle cha hanno solo membri italiani. L’indicatore sintetico di rischio povertà o esclusione sociale raggiunge nelle famiglie composte da stranieri il 56,8% (contro il 23,4% di quelle italiane). Tra le famiglie straniere inoltre, quasi una su cinque è gravemente deprivata, e quasi una su due a rischio povertà. La maggiore partecipazione al mercato del lavoro da parte degli stranieri, confermata dall’indicatore di intensità lavorativa, non compensa il divario dei redditi tra italiani e stranieri, che causa l’elevata diffusione di rischio povertà. L’indagine Istat rivela infatti che il reddito da lavoro degli stranieri è di poco superiore ai due terzi di quello guadagnato dagli italiani (rispettivamente il 68,4% e il 70,6% dei livelli medio e mediano), a riprova di una collocazione degli stranieri in posizioni scarsamente qualificate e remunerative.67

3.4 Famiglie numerose e con figli minori La presenza di familiari a carico, in particolare di minori, è generalmente associata ad una maggiore frequenza di problemi economici. Dall’Indagine Istat Reddito e condizioni di vita si rileva che la tipologia familiare meno esposta a disagi è quella delle coppie senza figli, mentre le famiglie più vulnerabili sono quelle con tre o più figli e quelle con un solo genitore. Inoltre, come mostra il grafico 3.10, le tipologie familiari che già nel 2010 presentavano percentuali più alte di disagio, sono anche quelle in cui la componente a rischio povertà ed esclusione è aumentata in misura maggiore. Tra le famiglie senza figli, la percentuale di quelle a rischio è aumentata di

67 Istat, I redditi delle famiglie con stranieri, Statistiche Report, 22 Dicembre 2011, pp. 1-4.

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Rischio povertà o esclusione

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3,6 punti, mentre tra le famiglie con almeno tre figli è aumentata di 4,5 e di 4,8 tra le famiglie con un solo genitore. 3.10 PERCENTUALE DI FAMIGLIE A RISCHIO POVERTÀ O ESCLUSIONE -ANNI 2010-2011

Fonte: Istat, Reddito e Condizioni di vita, 2012. Il 41,7% delle famiglie con tre o più figli è a rischio povertà ed esclusione. La grave deprivazione materiale presenta in questa categoria valori particolarmente alti: quasi un quinto (il 17,9%) è deprivato in maniera severa (il valore sale al 20% se in famiglia vi sono tre o più minori). Scomponendo l’indice di deprivazione, si nota inoltre un preoccupante aumento delle famiglie con tre o più figli che dichiarano di non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni: dal 9,4% del 2010 al 16,9% del 2011. Inoltre, un quarto (il 25,1%) dichiara di non riuscire a riscaldare adeguatamente l’abitazione e oltre la metà (55,5%) di non potersi permettere, nell’anno, almeno una settimana di ferie lontano da casa.68 Riguardo l’indice di rischio povertà, si nota che tra le famiglie con due figli, una su cinque è a rischio povertà, mentre se i figli sono tre la percentuale sale al 33%. Significativo è anche il dato sulle famiglie in cui vi è un solo genitore: tra queste, è a rischio povertà circa una su quattro (26%). TABELLA 3.2 INDICATORI DI POVERTÀ O ESCLUSIONE PER CARATTERISTICHE DELLE FAMIGLIA -

ANNI 2010-201, PER 100 INDIVIDUI CON LE STESSE CAR ATTERISTICHE

Rischio povertà o esclusione sociale - 2010

Rischio povertà o esclusione sociale - 2011

Rischio di povertà

Severa deprivazione

Bassa intensità lavorativa

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Un figlio 18,9 22,5 13,9 8,7 6,0

Due figli 22,3 26,0 20,2 8,8 9,0

68 Istat, Reddito e condizioni di vita: anno 2011, cit., p.4.

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Rischio povertà o esclusione

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Tre o più figli 37,2 41,7 33,0 17,9 21,5

Monogenitori 35,7 40,5 26,0 16,4 14,6 Fonte: Istat, Reddito e Condizioni di vita, 2012.

Le famiglie numerose presentano indicatori di povertà ancora più elevati se i figli sono minori. L’indagine Reddito e Condizioni di vita mostra che nel 2011, il 46% delle famiglie con minori è a rischio povertà ed esclusione. Le famiglie con uno o due minori presentano valori abbastanza simili, ma il disagio economico cresce notevolmente se i minori sono tre o più. TABELLA 3.3 INDICATORI DI POVERTÀ O ESCLUSIONE PER C ARATTERISTICHE DELLA FAMIGLIA - ANNO 2011, PER CENTO INDIVIDUI CON LE STESSE CARATTERISTICHE

Rischio di povertà o esclusione

sociale

Rischio di povertà

Severa deprivazione

Bassa intensità lavorativa

Un minore 29,0 22,3 11,3 6,7

Due minori 30,6 25,7 10,8 6,1

Tre o più minori 46,0 38,7 20,0 11,0

Fonte: Istat, reddito e condizioni di vita, 2012.

3.5 Fasce d'età più a rischio: minori e giovani Nell’Unione Europea, la fascia d’età 0-17 anni è quella maggiormente a rischio povertà o esclusione: nel 2011, era a rischio il 27% dei minori di 17 anni, contro il 24,3% degli adulti (18-64 anni) e il 20,5% dei più anziani (65 anni e più). In Italia, i valori relativi ai più giovani sono ancora più alti, con più di un minore su tre a rischio povertà ed esclusione (32,3% in età 0-17; 28,4% in età 18-64 e 24,2% per 64 anni e più). La gravità della situazione è stata sottolineata dal Comitato per la Protezione Sociale in un documento del 2012, nel quale si legge:

I bambini che crescono in situazioni di povertà ed esclusione sociale hanno meno probabilità di andare bene a scuola, godere di buona salute e realizzare pienamente il loro potenziale nella vita, ma saranno invece più esposti al rischio di diventare disoccupati e poveri e socialmente esclusi.69

Eurostat ha inoltre analizzato la percentuale di minori a rischio povertà in differenti tipologie familiari, ricercando quelle più a rischio. In Italia, tra le tipologie più svantaggiate si trovano le famiglie monogenitoriali, le famiglie numerose (la percentuale di rischio povertà per famiglie con due adulti e tre o più figli è del 42%), famiglie a bassa intensità lavorativa (57,4%), famiglie in cui i genitori hanno un basso livello d’educazione (46,3% se i genitori non hanno più di un diploma di scuola

69 Social Protection Committee, Advisory report to the EC on tackling and preventing child poverty,

promoting child well being, Brussels, 27 Giugno 2012, p.42.

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secondaria inferiore), famiglie in cui almeno un genitore è immigrato (circa il 32% dei bambini con almeno un genitore straniero è a rischio povertà).70

Oltre ai minori di 18 anni, anche la fascia d'età successiva (coloro che hanno meno di 30 anni) presenta evidenti sintomi di disagio, come si vede dal 3.11 che mostra come è ripartita la percentuale di povertà nelle varie fasce d’età. In generale, i valori più alti si riscontrano nella parte della popolazione più giovane, mentre le percentuali più basse nella componente più anziana.

3.11 PERCENTUALE POPOLAZIONE A RISCHIO POVERTÀ O ESCLUSIONE PER FASCE D'ETÀ – ITALIA - ANNO 2011

Fonte: Eurostat.

Secondo uno studio di G. D’Alessio, condotto all’interno del progetto di ricerca GINI (Growing Inequalities Impact), la peggiore condizione delle fasce più giovani riflette una generale redistribuzione della ricchezza avvenuta nel corso del tempo a favore delle famiglie composte da anziani e a sfavore di quelle composte da giovani.71 Nel 1987, primo anno per cui si hanno dati disponibili, le famiglie con percentuali di ricchezza più basse erano quelle con persone di riferimento costituite da pensionati e operai, con livelli di ricchezza netta familiare pari a circa il 60% del valore medio. Le famiglie più ricche erano invece quelle di liberi professionisti, imprenditori, lavoratori autonomi e dirigenti. Confrontando i dati con quelli del 2008 si nota un notevole cambiamento: le famiglie di operai hanno registrato una forte caduta nel loro livello di ricchezza (che ha raggiunto il 45% del livello medio generale), di pari passo si registra un calo nella ricchezza di liberi professionisti, imprenditori e lavoratori autonomi. Per contro, la categoria che ha visto un notevole miglioramento nel livello medio di

70 C Lòpez Vilaplana, Children were the age group at the highest risk of poverty or social exclusion in 2011, Eurostat statistics in focus, Aprile 2013, p.3-6. 71 G D'Alessio, op.cit.,p.8. Il progetto Gini è sostenuto dalla Commissione Europea nell'ambito del Settimo Programma Quadro di Ricerca, e coordinato in Italia dal prof. Daniele Checchi (Università degli studi di Milano). L’insieme dei contributi è pubblicato nel volume “Disuguaglianze Diverse” edito da il Mulino.

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ricchezza è quella dei pensionati, che passa da un indice del 61,6% al 97,8% della media dell'intera popolazione. Come si osserva dal grafico 3.12, il miglioramento della condizione degli anziani ha accompagnato il peggioramento delle famiglie più giovani, che da livelli non lontani da quelli dell'intera popolazione risultano la nuova fascia più svantaggiata nel 2008. Le classi di età intermedia hanno seguito la tendenza delle classi più estreme, anche se in misura meno marcata: le famiglie con persona di riferimento tra i 50 e i 65 anni hanno migliorato le proprie condizioni, mentre quelle tra i 30 e i 50 le hanno peggiorate.72

FIGURA 3.12 - RICCHEZZA MEDIA PER ETÀ, ANNI 1987-2008 (MEDIA DI ANNO= 100)

Fonte: G D’Alessio, Disuguaglianze Diverse, 2012.

La disuguaglianza in termini di ricchezza e povertà che vede i giovani particolarmente svantaggiati trae origine dalla situazione del mercato del lavoro, (analizzata nel paragrafo 3.2) e nelle politiche di welfare (analizzate nel paragrafo 3.6). Il continuo peggioramento delle condizioni delle fasce d'età più giovani non può quindi che essere arginato con interventi in questi settori. Il paragrafo successivo, analizza le politiche sociali in Italia e le disuguagianze nelle politiche di welfare, che vedono uno sbilanciamento della spesa a favore della protezione della vecchiaia.73

3.6 Le politiche sociali: distorsione e divari regionali Le politiche di welfare sono generalmente considerate uno strumento redistributivo per ridurre le disuguaglianze sociali e nel mercato del lavoro, favorendo un passaggio di risorse dai gruppi privilegiati a quelli svantaggiati. In realtà, vari studi mostrano diverse problemaiche relative al welfare state italiano: uno sbilanciamento a favore

72 G D’Alessio, 'Ricchezza e Disuguaglianza in Italia' in Disuguaglianze Diverse, D Checchi (a cura di), il Mulino, Bologna, 2012, p. 203 73 D Benassi, 'Disuguaglianze nell'accesso al welfare' in Disuguaglianze Diverse, D Checchi (a cura di), il Mulino, Bologna, 2012, p. 282.

0

20

40

60

80

100

120

140

Fino a 30 Da 31 a 40 Da 41 a 50 Da 51 a 65 Oltre 65

1987

2008

35

delle classi di età più anziane e una complessa ripartizione di competenze a livello territoriale che non assicura gli stessi diritti a tutti i cittadini.74

FIGURA 3.13 RIDUZIONE DELLA POVERTÀ DOPO I TRASFERIM ENTI E SPESA SOCIALE COME

PERCENTUALE DI PIL

Fonte: D Benassi, Disuguaglianze Diverse, 2012.75

La figura 3.13 mostra l'efficacia della spesa pubblica (misurata in percentuale del PIL) nella riduzione del rischio povertà in alcuni paesi europei. In generale, una spesa sociale maggiore corrisponde a una maggiore capacità di ridurre la povertà; tuttavia, due paesi si allontanano da questa relazione: la Gran Bretagna e l'Italia. Questi due paesi mostrano, a fronte di una spesa simile (circa il 28% del Pil), notevoli differenze nella riduzione del rischio povertà: mentre i trasferimenti sociali riducono la povertà di circa il 44% in Gran Bretagna, la riduzione è solo del 20,7% in Italia. Ciò dimostra che il welfare italiano è scarsamente efficace nel ridurre la povertà: pur impiegando una spesa simile alla media UE-15, ha effetti sulla popolazione molto limitati (la Spagna raggiunge gli stessi risultati dell'Italia spendendo quattro punti di Pil in meno). Le ragioni di questa relazione sono dovute a una distorsione specifica della situazione italiana, tale per cui la copertura dei rischi sociali è fortemente sbilanciata verso il rischio di vecchiaia,76 nonostante, come mostrato nei paragrafi precedente, gli anziani presentino tassi di povertà inferiori alla media.

74 M Ferrera, Alle radici del welfare all'italiana. Origini e futuro di un modello sociale squilibrato, Marsilio, 2012 e D Benassi, op.cit., pp.255-286. 75 Il rischio povertà è calcolato secondo il paramentro del 60% del reddito mediano equivalente. 76 D Benassi, op.cit., p.259

36

La tabella 3.4 mostra la peculiarità italiana del profilo di spesa sociale, che vede la prevalenza della spesa per vecchiaia (64%) e scarse risorse residue per gli altri rischi sociali. TABELLA 3.4 PERCENTUALE DELLA SPESA SOCIALE PRO-CAPITE PER FUNZIONE IN PPS A PREZZI

CORRENTI (ESCLUSA LA SANITÀ) - ANNO 2007

Vecchiaia Superstiti Famiglia Politiche attive del lavoro

Disoccu-pazione

Disabili Altro Tot

Danimarca 37,2 0,0 16,8 6,7 9,8 22,2 7,3 100 Francia 52,9 8,4 14,3 4,3 6,5 8,4 5,3 100 Germania 50,0 11,9 10,6 4,2 8,0 10,9 4,5 100 Gran Bretagna

42,1 1,0 23,7 2,3 1,5 17,8 11,6 100

Italia 64,5 13,2 7,7 2,5 2,4 9,5 0,3 100 Olanda 37,2 1,8 14,1 7,6 8,1 20,8 10,5 100 Spagna 42,1 12,4 7,9 4,7 13,7 16,3 2,9 100 Svezia 43,3 2,6 16,2 5,3 3,2 24,2 5,1 100

Fonte: D Benassi, Disuguaglianze diverse, 2012.

Un altro aspetto problematico del welfare state in Italia è dato dalla frattura istituzionale tra centro e periferia, per cui le prestazioni sono gestite a vari livelli (nazionale, regionale e locale) senza una visione unitaria di protezione sociale. Per chiarire la ripartizione delle competenze è innanzitutto necessario distinguere tra prestazioni di natura previdenziale e quelle di natura assistenziale. Le prime prevedono un collegamento tra finanziamento della prestazione e possibilità di accedere alla prestazione stessa; tra queste, rientrano ad esempio le pensioni di anzianità o vecchiaia, i sussidi di disoccupazione o la cassa integrazione ordinaria, che sono finanziate con contributi a carico del lavoratore o del datore di lavoro e indennizzano il lavoratore in proporzione dei contributi versati. Per definizione quindi, la previdenza sociale non ha una vocazione redistributiva volta a ridurre povertà ed esclusione. Queste prestazioni configurano una protezione sociale certa e uniforme sul territorio nazionale, in quanto in presenza di determinati requisiti (età, anzianità contributiva), si ottiene il diritto a ottenere la prestazione.

Le prestazioni di natura assitenziale, al contrario, hanno un chiaro effetto redistributivo in quanto sono generalmente finanziate tramite la fiscalità generale e sono destinate esclusivamente a chi presenta determinati requisiti di necessità (ad esempio determinate soglie di reddito); per definizione, non vi è proporzionalità tra prestazione e contributi versati. Le politiche di contrasto alla povertà, che prevedono un trasferimento di risorse da chi ha maggiori capacità economiche a chi ne ha meno, rientrano generalmente in questo settore. Nel 2001, la riforma del titolo V ha attribuito allo stato competenza esclusiva in materia di previdenza sociale (art. 117, lett. o), mentre l'assistenza sociale, non essendo citata, rientra nella competenza delle regioni. Tuttavia, per mantenere l'uniformità dei diritti sociali a livello nazionale, al governo nazionale rimane il compito di definire i livelli essenziali di prestazioni (art. 117, lett. m).

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La ripartizione delle competenze presenta però due ordini di problemi: la distinzione tra prestazioni previdenziali e assistenziali non è sempre chiara, per cui numerose prestazioni a carattere redistributivo (e quindi assistenziale) sono garantite dallo stato. Le voci di spesa più significative sono le integrazioni al minimo delle pensioni, gli assegni sociali per gli ultrasessantacinquenni, le pensioni e le prestazioni per gli invalidi civili (inclusa l'indennità di accompagnamento), gli assegni famigliari e gli assegni al nucleo famigliare, l'assegno di maternità e la carta acquisti. I trasferimenti evidenziati sono le sole prestazioni assistenziali valide a carattere nazionale e beneficiano in modo largamente predominante gli anziani:77 nel 2010, l'integrazione al minimo e l'assegno sociale hanno superato i 17 miliardi di euro.78

Altro aspetto problematico è che, nonostante si sia riservato al governo il compito di definire i livelli essenziali di prestazioni, D. Benassi sottolinea chiaramente che, ad oggi,

"non esiste un elenco di prestazioni di base che gli enti territoriali (regioni, province, comuni) sono obbligati a garantire ai loro cittadini, determinando di fatto un'assenza di regolamentazione nazionale minima della materia: ogni regione regola in completa autonomia la propria offerta di prestazioni socio-assistenziali".79

Dal momento che non ci sono delle prestazioni minime garantite, per accedere a determinati servizi non basta dunque possedere il requisito richiesto dalla norma ma anche che il proprio ente territoriale abbia stanziato una copertura di bilancio sufficiente e che le risorse non siano già esaurite.

Negli anni, le competenze in materia di contrasto alla povertà sono state demandate sempre più ai governi locali,80 ma la mancanza di regolamentazione comune ha creato una mappa del welfare estremamente frammentata. La spesa sociale dei comuni presenta valori molto diversi nelle regioni: come mostra il grafico, i valori pro-capite di spesa sociale spaziano dai 304 euro della provincia di Trento ai 26 euro della Calabria.

77 D Benassi, op.cit., p.266. 78 CIES, op.cit.,p.107. 79 Benassi, op.cit., p.270. 80 CIES, op.cit., p.107.

FIGURA 3.14 SPESA PER INTERVENTI E SERVIZI SOCIALI DEI COMUNI SINGOLI E ASSOCIATI - ANNO 2010

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Fonte: Istat, Gli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati, 2013.

Ancora una volta, si confermano i differenziali tra centro-nord da un lato e Mezzogiorno dall'altro: sono infatti le regioni meridionali a presentare i valori di spesa più bassi.

I grafico 3.15, mostra come è divisa la spesa sociale nelle sette aree di intervento rilevate dall'Istat. Nel 2010, i Comuni italiani hanno destinato agli interventi e ai servizi sociali 7 miliardi e 127 milioni di euro, ovvero lo 0,46% del Pil nazionale. I principali destinatari della spesa sociale sono famiglie, disabili e anziani: su queste tre aree si concentra 82,9% delle risorse impegnate. Bisogna però sottolineare come, alla luce dei paragrafi predenti, la spesa per il contrasto alla povertà appaia del tutto sottodimensionata, assorbendo meno dell'8% della spesa sociale dei comuni. In valori assoluti, la spesa per la lotta alla povertà è di 566 milioni di euro, che equivalgono a una spesa pro capite di soli 15 euro a livello nazionale.81

FIGURA 3.15 SPESA PER INTERVENTI E SERVIZI SOCIALI DEI COMUNI PER AREA DI UTENZA -

ANNO 2010, VALORI PERCENTUALI

Fonte: Istat, Gli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati, 2013.

Riflessioni conclusive Nonostante il 2010 sia stato proclamato anno europeo della lotta alla povertà e sia stata messa in atto la strategia Europa 2020, il numero dei poveri nel 2011 è aumentato ulteriormente, arrivando a coinvolgere 120 milioni di persone (un europeo su quattro).

Tuttavia, il 2010 è stato indubbiamente un anno importante: per la prima volta si è definito un obiettivo comune nel contrasto alla povertà e all'esclusione e sono stati

81 Istat, Gli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati, Statistiche Report, Roma, 31 Maggio 2013.

39,6

22,4 20,9

7,9 6

2,6 0,6

Famiglia e minori

Disabili Anziani Povertà, disagio adulti e senza fissa

dimora

Multiutenza Immigrati e nomadi

Dipendenze

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stabiliti degli indicatori condivisi da tutti gli stati, in modo da misurare successi e insuccessi delle varie politiche in maniera comparata.

Come visto nel primo capitolo, non è semplice definire e misurare la povertà, ed è ancora più complesso stabilire il suo legame con il benessere. La questione centrale è la domanda seguente: cos'è che garantisce a un individuo uno standard minimo di benessere? Probabilmente il metodo migliore per stabilirlo è sia considerare l'opinione dei cittadini attraverso sondaggi (così come fatto dall'UE tramite l'Eurobarometro), sia tramite l'adozione di une prospettiva multidimensionale, che consideri vari elementi della vita della persone.

Gli indicatori scelti nell'ambito della strategia Europa 2020, approfonditi nel secondo capitolo, prendono in considerazione la già citata possibilità di acquistare beni essenziali (l'indice di grave deprivazione materiale), le disparità di reddito (l'indice di povertà relativa) e il mercato del lavoro (indice di bassa intensità lavorativa). L'analisi fatta attraverso questi indicatori mostra una mappa dell'Europa divisa in tre aree: il nord con bassi livelli di disagio, la zona mediterranea con percentuali di povertà più alte e la parte orientale (i paesi dell'allargamento) con livelli di malessere critici.

Una volta vista la situazione dei paesi europei a confronto, si è approfondito il contesto italiano. L'Italia presenta percentuali di povertà più alte, e quindi più sfavorevoli, della media europea: nel nostro paese le persone a rischio sono quasi una su tre, per un totale che supera i 17 milioni di persone. L'analisi temporale sembra mostrare inoltre come la crisi economica abbia colpito in particolare quei gruppi sociali che già si trovavano in difficoltà; dall'analisi dei dati su povertà, ricchezza, lavoro, caratteristiche sociali eccetera, sembra che in Italia siano notevolmente aumentate le distanze: tra ricchi e poveri, nord e sud, giovani e anziani, coppie con figli e non, italiani e stranieri e così via. L'indice di Gini sui redditi italiani sembra riassumere la situazione in poche parole: i poveri sono sempre più poveri e i ricchi, se non più ricchi, sicuramente hanno opposto maggiore resistenza alle recenti difficoltà economiche del Paese.

L'ultimo paragrafo presenta una breve analisi delle politiche del welfare, in particolare si analizzano due problemi di fondo: in primo luogo, uno sbilanciamento del trattamento che sembra privilegiare le classi di età più anziane, che hanno visto nel tempo una crescita della loro ricchezza e prensentano ora i livelli più bassi di povertà; in secondo luogo, l'onere della lotta alla povertà è affidato ai comuni, che vi fanno fronte a seconda del proprio bilancio; non sorprendentemente, gli italiani residenti nel Mezzogiorno sono i più penalizzati. Le politiche del welfare dovrebbero in questo caso mostrare il loro carattere anticiclico, e essere quindi dotate di maggiori risorse nei momenti di particolare bisogno. In sede UE l'Italia si è impegnata a diminuire il numero dei poveri di 2 millioni e 200 mila persone, appare quindi opportuno dedicare maggiore attenzione e soprattutto risorse a quest'obiettivo.

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