La perla - Diocesi · La perla si genera in fondo al mare, a partire da un granellino di sabbia,...

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STRUMENTO DI INFORMAZIONE MISSIONARIA Maggio 2018 - N. 30 La perla preziosa Poste Italiane s.p.a. - Sped. in Abb. Post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB BL

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strumento di informazione missionaria

Maggio 2018 - N. 30

La perlapreziosa

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NotizieCentro Missionario di Belluno-Feltre

Hanno collaborato a questo numero: Mario Bottegal, don Luigi Canal, don Ezio Del Favero, Josè Soccal, Chiara Zavarise,i nostri missionari e collaboratori

Redazione c/o: Centro Missionario Belluno-FeltrePiazza Piloni, 11 - 32100 Belluno – Tel. 0437 940594centro.missionario@diocesi.itwww.centromissionario.diocesi.it

Direttore di redazione don Luigi CanalResponsabile ai sensi di legge don Lorenzo Dell’AndreaStampa Tipografia Piave Srl - BellunoIscrizione al Tribunale di Belluno n. 1/2009

La perla preziosa

La parola del direttore pag. 1

Testimonianze dal mondo pag. 3

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Notizie - N. 301

LA PAROLA DEL DIRETTORE

Cari amici e amiche,toglietevi i sandali perché state per entrare in una terra sacra… tale è questa raccolta di “perle preziose” nelle quali tanti “poveri cristi” ci testimoniano come nella loro carne si è rivissuta la Passione e la Risurrezione di Gesù Cristo, capofila e fratello maggiore di tutti noi!La perla si genera in fondo al mare, a partire da un granellino di sabbia, intruso nel seno della conchiglia; elaborata in questo ambiente, diventa una bellissima e rara perla preziosa. Questi esempi, briciole di vita evangelica, non ci parlano di santità eroica, ma di quella santità quotidiana che irriga silenziosamente i terreni della storia umana, fertilizzandola. Sono questi che ci aiutano a dare il sapore giusto e l’orizzonte luminoso ai tanti momenti in cui l’esistenza umana ci caccia nei sottofondi della vita, dove si prova l’inganno delle sue trappole, l’amarezza della sconfitta, il buio dei sogni infranti, i contraccolpi della sorte. Sono loro che ci invitano a credere che in fondo al tunnel, anche il più lungo

e il più buio, c’è sempre una Luce.Affacciandoci a questi sepolcri vuoti, facciamo l’esperienza delle donne che la mattina di Pasqua vanno al sepolcro e si sentono dire: “Non cercate fra i morti Colui che è vivo!” Ecco, abbiamo qui tante storie dove al capitolo della sofferenza sopravanza l’esperienza della risurrezione. Nella maggioranza dei casi sono persone che hanno avuto la fortuna di trovare dei “caricatori” come i 4 che hanno portato il paralitico ai piedi di Gesù (Mc. 2,1-12), calandolo dal tetto, perché la folla che assiepava la porta di casa non ha avuto l’attenzione necessaria per farsene carico. Come in questi casi, tanti nella nostra società…Molti portatori ci diranno: il nostro compito era portarli ai piedi di Gesù, poi ci ha pensato Lui a dire a ciascuno: “Alzati e cammina!” L’esempio più chiaro ci è dato da Gregoire, che ha portato ai piedi di Gesù migliaia di malati mentali, liberandoli dalle catene di morte cui li condannava la società, per riportarli ad una vita serena.Presupposto fondamentale è

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crederci. Credere che da tante situazioni di morte, possa risorgere la vita! – Ci hanno creduto Edson,

Dionisio, Oscar, Davids, Luca… che da schiavi della droga e dell’alcool si son ritrovati “tempio di Dio”.

– Ci hanno creduto Ramatou e Bubakar risorti dal mondo islamico.

– Ci hanno creduto Amlan e Marcelle, che sono riuscite a dribblare la trappola della “vita facile”.

– Ci ha creduto Charles dando prova di coraggio nello sconfiggere le streghe.

– Ci ha creduto Modesta che ha messo per tanti anni le sue grandi mani di “partera” al servizio della vita a Tachina.

– Ci ha creduto Teresita che sta dando affetto e dignità a tanti “scarti” della società.

– Ce ne danno testimonianza

Andrea, che si sente benedetta dal Signore anche se muore a 17 anni e Catalina di Maria Misionera a Lima.

– Ci ha creduto Lino, il lebbroso del S. Juliào (Mato Grosso do Sul), che così riassume la sua vittoria: “Non maledirò chi mi ha umiliato o ha avuto pena di me. I miei amici sono la mia forza e la Luce di Dio mi copre di Grazia e mi arricchisce di amore e di fede. Perciò mi sento completo, anche se mi manca tutto!”

..ed altri, di cui potete leggere la testimonianza.Ci aveva mostrato questa strada l’apostolo Pietro: “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare” (1Pt.4,13). Molti ci hanno creduto. E perché non crederci anch’io?

Don Luigi Canal

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Notizie - N. 303

SDalla morte alla vita!

DAVIDSBRASILEUn ricordo di don Luis Canal, in visita a Belo Horizonte, dove opera suor Ester Facchin, missionaria lamonese di Maria Bambina

Siamo a Belo Horizonte, nella missione di Ta-quaril, dove opera suor Ester Facchin, con una comunità di suore di Maria Bambina.

Con suor Ester, in fondo alla sua via, visitiamo Davids, un giovane poco più che ventenne, in sedia a rotelle, risultato di un tiro alla schiena rice-vuto in un confronto violento con i compa-gni di droga. Ci dice-va: «Ho fatto di tutto per rovinare la mia vita e quella dei miei colleghi: ero sulla strada della morte, senza Dio e senza rispetto per nessuno, neppure per me stes-so. Vita è quella che ho adesso! Solo e in sedia a rotelle, ma sere-no con Dio, un paio di veri amici e la visita frequente delle suore. Mia madre vive al piano terra, ma è ancora schiava della droga e non mi dà nessuna assistenza: le augu-

ro che un giorno abbia il dono di cambiare strada e allora ritroverà il senso della vita e riscoprirà la gioia di essere madre di questo figlio».

Grazie Davids: ci stai insegnan-do una bella pagina di vera mise-ricordia! Magari l’avesse scoperta il giovane ricco del Vangelo… e la scoprissero tanti giovani della no-stra società contemporanea.

Vita è quellache ho adesso!

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S

DIONISIO,FABIO e eDMUNDO

Cristo mi aspettava dietro le sbarre…

BRASILEUn ricordo di don Luis Canal dal carcere di S. Antonio di Jesus

Siamo nel carce-re di S. Antonio di Jesus (Bahia).

Dionisio, un gio-vane che abbiamo visitato in carce-re, ci diceva: «È qui dietro queste

sbarre che Cristo mi aspettava: ora l’ho scoperto, e la mia vita ha un altro senso. Quando uscirò di qui, non sarà più per distruggere la mia e l’altrui vita...»

E Fabio, nella sua sedia a rotelle ha scoperto che poteva anche lui, a 23 anni, avere una missione nel-la comunità, e in una settimana ha fatto il giro delle famiglie del

quartiere, raccogliendo ben 1.800 bottiglie di plastica, per farne al-trettante lucerne per la fiaccola-ta dei giovani nella “notte della luce” dell’incontro di Taizé, a S. Antonio di Gesú. Il mese succes-sivo ha continuato la visita distri-buendo il giornalino informativo della Parrocchia... In queste visite ha poi trovato un collega, Edmun-do, anche lui su una sedia a ro-telle. Ora insieme portano avanti questa missione, ed amano dire agli altri giovani: «Noi siamo pa-ralizzati nel corpo, ma non nello spirito...». Ora fanno parte del co-ordinamento della Pastorale gio-vanile.

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Notizie - N. 305

È

MARCeLLe

Da peccatrice che era…

COSTA D’AVORIORacconto di don Ezio Del Favero dalla missione

È terribile pen-sare alla facilità con cui le ragazze di qui si vendono spesso per un solo piatto di banane fritte (300 lire).

In un paese dove vige la poligamia e l’adulterio vie-ne praticato da quasi tutti uomini e donne, la cosiddetta prostitu-

zione diventa uno dei tanti lavori, un modo di “arrangiarsi” come chi vende galline o vino di palma al mercato!

Bisogna dire inoltre che l’intimi-tà della famiglia nucleare, l’amore “poetico”, la fedeltà, l’indissolubi-lità... sono valori lontani anni luce dalle loro abitudini.

Questo per capire la storia di Marcelle, figlia di questa cultura.

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Marcelle si è fatta un nome, ha un ottimo giro di “fedeli” clienti...

“Voglio diventare cristiana e scout!”. È già da un pezzo che me lo dice. Cosa fare?

Devo parlarle: “D’accordo! Mar-celle” - e poi cerco di aggirare l’o-stacolo.

“Quanto tempo libero hai? Se sei veramente decisa, dovresti darti al commercio e cercare di vende-re qualcosa all’incrocio del liceo; così non sarai costretta a lavorare nei campi e potrai trovare il tempo per vivere l’esperien-za scout...”. E lei, con un sorriso, mi rispon-de: “Non vado mica ai campi! E ho molto tempo libero... duran-te il giorno!”.

Allora con rinnovato coraggio torno alla carica: “Insisto! Potresti vendere, non so io, cipolle “al minuto”, olio in sacchettini da 25, 50, 100 franchi. E poi, cara mia, bisognerebbe abbandonare i vec-chi amici... condizione essenziale per entrare nella grande famiglia scout”.

Presa in trappola, questa volta Marcelle è costretta a darmi l’im-pressione di aver capito: “D’accor-do!” mi dice. “Mi do da fare. Com-pro un sacco di cipolle da 25 Kg, cinque litri di olio e un centinaio di sacchetti di plastica”.

Marcelle si lascia formare allo scoutismo, con docilità, con inte-resse, con entusiasmo.

Cinque mesi dopo, insieme a un

gruppo di novizie già cristiane, ri-ceve la camicia scout, segno di fi-ducia da parte dei capi e dell’inizio di preparazione seria all’immedia-ta promessa.

Due settimane più tardi qualcu-no mi dice: “Si tratta di Marcelle. L’ho vista uscire oggi dall’hotel assieme ad un uomo sposato... In-dossava la camicia scout!”.

Tutto da rifare. Chiediamo a Mar-celle di restituire la camicia e di “riflettere” (un modo diplomatico, autenticamente africano, per al-

lontanare qualcuno!).Passano tre mesi.

Marcelle viene a tro-varmi. “Le tue cipolle sono finite...”. Dopo interminabili istanti aggiunge, tra le lacri-me: “Voglio diventare

scout!”Capisco che Marcelle è decisa a

chiudere definitivamente col pas-sato.

Commosso, le restituisco la ca-micia... non sarà più “sporca”.

Quelle lacrime mi ricordano l’adultera del Vangelo... Marcelle diventa ai miei occhi una sorta di “Adultera… color cioccolato”.

Marcelle, oggi capo scout, rice-verà ben presto il battesimo, sug-gello della vita nuova che conduce fedelmente da più di due anni.

Io continuo a chiamarla confi-denzialmente “Cioccolato”; e lei, ogni volta, sorride, anche senza sa-perne proprio il perché...

Marcelle è decisaa chiudere

col passato.

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Notizie - N. 307

I

MODeSTA

Povertà e Amore

ECUADORCi scrive suor Dionella Faoro, terziaria francescana elisabettina

Il nome identifica la persona: Modesta.

Mamma Rosa, provoca-ta dalla violenza del ma-rito, partorisce una figlia, Modesta, e poi muore. Il piccolo e fragile fiore cre-sce in casa di uno zio ma-

terno, poi viene accolta da una zia, non come figlia, ma come serva e schiava.

L’infanzia di Modesta è stata molto dura.

Il gioco per lei non esiste. Mo-desta è costretta al duro lavoro dei campi, a lavare al fiume... su-bisce molte incomprensioni, sof-ferenze, maltrattamento fisico e psicologico. Soffre la fame, che la generosità di un vicino, molte vol-te, soddisfa con un piatto di riso e lenticchie.

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Modesta è intelligente, ma per lei la scuola non esiste. La giovane sogna di essere medico. Nono-stante le difficoltà, non si arrende e continua a lottare per un futuro migliore. Nell’illusione di cambia-

re la sua situazione, si unisce a un uomo, poi ad un altro e un altro ancora, termina con l’essere loro schiava, tutto questo per nutrire e dare un’educazione adeguata ai suoi figli, che diventano undici.

Madre della VitaModesta: un povero Cristo, che

vive la povertà con speranza, digni-tà e confidenza in Dio.

Aiutata da un missionario, parte-cipa a un corso di ostetricia e ben presto diventa la “partera” del pa-ese di Tachina-Esmeraldas e din-torni.

Le sue grandi mani, segno della sua generosità, sono strumenti pre-ziosi di vita e lei diventa Madre della vita, della speranza, e salvezza per le donne incinte e per tanti bambi-ni. A “doña Modesta” accorrono le

mamme con problemi, con dolori di parto e la sua casa di legno, co-struita con le sue fatiche, povera, ma pulita e ordinata, diventa la casa della vita, della salvezza, della gioia,

della solidarietà, del calore umano e affettivo.

Ora è una don-na di quasi cento

anni, anche se nemmeno sua figlia Fanni sa esattamente quanti anni ha. Ora Mamma Modesta è ancora una colonna per Tachina e, anche se quasi cieca, irradia e contagia sere-nità, dolcezza e tanta tenerezza.

Irradia e contagia serenità.““

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Notizie - N. 309

S

PADRe ALDO TReNTO

La carne di Cristo

PARAGUAYUn ricordo di don Luis Canal, in visita alla missione in cui opera padre Aldo Trento, sacerdote missionario di Faller di Sovramonte

Siamo in Para-guay , nella capita-le Assuncion.

Padre Aldo Tren-to, Missionario sovramontino che aveva operato per anni nella Comuni-

tà dei canossiani di Feltre, si trova ad Assunciòn da oltre 25 anni, dove con grande creatività e intrapren-denza ha avviato delle opere mol-to significative al servizio dei più poveri, oggi amministrate da una Fondazione: la clinica S. Rafael, la Casa-famiglia per giova-ni donne, sole, vittime di abusi e violenze, una scuola parrocchiale, una fattoria per la produzio-ne di alimenti e la Par-rocchia attigua ora retta da altri sacerdoti. Padre

Aldo, ora abbastanza debilitato nella salute, diffonde energia e spi-ritualità ad ognuno degli ospiti di queste strutture. Entri nella clinica e dietro la portineria c’è subito la cappella con l’Adorazione per-petua e la frequente presenza di padre Aldo. Visiti i 42 malati della clinica e vedi che per ognuno ha una parola e un gesto di affetto e incoraggiamento, pur sapendo che altro non si può fare che lenire i dolori e prepararli ad una morte di-gnitosa, essendo tutti terminali per aids, tumori, o altre malattie de-

generative. Padre Aldo, come ricordò recente-mente Papa Francesco, afferma sempre che si tratta della “carne di Cri-sto” che solo curandola diventa curatrice della nostra carne!

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A

ANDReA

“Benedetta dal Signore”

PARAGUAYDalla missione in cui opera padre Aldo Trento

Andrea, una ra-gazza di 17 anni, è morta sabato alle 3 del mattino. Il suo destino buono si è compiuto. Ogni volta che la visita-vo e le domanda-

vo «come stai?», lei mi rispondeva «padre, sono benedetta dal Signo-re». Già nella sua dolorosa malattia era cosciente di essere benedetta, cioè scelta, amata, voluta dal Mi-stero. Ogni volta che riceveva nella sua camera il S. Sacramento Lo ac-coglieva con le mani giunte.

In quel gesto c’è tutta Andrea Alcuni giorni prima di morire,

Andrea dice alla mamma, una don-na sola e poverissima: «Mamma custodisci con tanto amore il mio fratellino e la mia sorellina. Mam-ma, perdonami per-ché la mia malattia ti ha fatto perdere il lavoro con cui ga-rantivi il mangiare e il vestire ai miei fratelli. Per stare al mio fianco adesso non hai più la-voro». Immaginate lo strazio della mamma nell’ascoltare queste pa-role della figlia!

Il saluto per me è stato il momen-to più duro, quando sono dovuto

partire per il Brasile lasciandola già quasi moribonda. Non riuscivo a uscire dalla sua stanza dopo aver celebrato la Messa. Lei mi guarda-va con i suoi occhi neri in modo

intenso come per dirmi “ci vedremo in Paradiso”. Mi sono avvicinato baciandola soave-

mente e dicendole: «Andrea, Gesù ti vuole ben. La Madonna è qui con te. Offriamo tutto». Con gli occhi fissi e un cenno del volto mi dice «Sì». Esco dalla stanza guardando-la, lei non toglie lo sguardo dalla mia povera persona. Che dolore!

“Ci vedremo in Paradiso”““

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Arriva il momento in cui debbo chiudere la porta, la saluto con la mano destra, le mando un bacio. Lei mi risponde nello stesso modo, fissandomi intensamente, chiudo la porta.

In Brasile mi arriva la notizia della sua morte. Me ne vado con questo dolore pieno di pace nel cuore, per-ché lei è già nell’abbraccio di Dio.

Prego per la mamma che mi saluta dicendomi: «Padre, grazie; Andrea mi ha detto di darti la foto del gior-no in cui ha compiuto i 15 anni» che nella nostra cultura è il giorno più importante nella vita di una ragaz-za. Ancora una volta, senza toglie-re niente al dolore in Andrea nella sua morte e nel suo grande dolore, è stata evidente la vittoria di Cristo.

Dal blog di padre Aldo Trento www.tempi.it/tag/padre-aldo-trento

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S

HeNRIQUe PeReGRINO

Il Dio delle strade

BRASILEUn ricordo di don Luis Canal, dalla missione a Salvador in Bahia

Siamo a Salva-dor di Bahia. Que-sta storia viene dal Vangelo, così come è stato commenta-to da un volontario missionario laico

che si dedica ai “senza dimora”, Henrique Peregrino: «Queste per-sone sono come il paralitico del Vangelo che ha avuto bisogno di qualcuno che lo portasse ai piedi di Gesù. Non trovando altre possibili-tà, giacché Gesù era assediato dai suoi ‘devoti’ dentro di casa, hanno aperto un varco nel tetto e lo hanno calato ai piedi di Gesù. Noi siamo i 4 caricatori la cui missione è di de-porli ai piedi di Gesù, sia pure nei modi più strani che la nostra crea-

tività sa inventare. Quando sono là, ci pensa Gesù a fare il resto, ossia a dire: ‘Alzati e cammina’!»

Che lezione di umiltà ed audacia per il collaboratore missionario! E con grande frutto, perché quando ci mettiamo in questa avventura, scopriamo poco a poco che molte paralisi, più che in loro, sono pro-prio in noi, che ci muoviamo a di-sagio o restiamo immobili in questi ambienti!

Qui scopriamo meglio anche il nostro ruolo missionario, che non è di far proseliti per il nostro cul-to o dedicare il nostro tempo alla manutenzione delle strutture già consolidate, ma è proprio quello di fare i ‘caricatori’ di queste barelle improvvisate.

I piccoli gestiOgni giovedì sera, celebriamo

l’Eucaristia nella Chiesa della Santa Trinità, rifugio dei ‘barboni’ (scusa-te… meglio dire “dei senza dimo-

ra”!) di Salvador. Sulla mensa, in-sieme al pane eucaristico c’è anche la loro cena: un minestrone pre-parato con le verdure da loro rac-

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colte nei resti del vicino ‘mercato popolare’ di S. Joaquim ed il pane comprato con i guadagni del loro ‘lavoro’: raccolta di cartoni, lattine, vetri ecc…; alcuni ‘articoli di lusso’ come biscotti, dol-cetti, marmellata, denotavano la so-lidarietà di alcuni

partecipanti delle vicine comunità, solidali con questo gruppo. Chiaro che quello che è fatto ‘profetica-mente’ con piccoli gesti, dovrà poi essere tradotto in progetti politico-

economici… ma per intanto gio-iamo dei “piccoli gesti.”

Insieme al pane eucaristico c’è la loro cena.

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14La perLa preziosa

Ho conosciuto Jeanne alla Missio-ne: cristiana, figlia di un maestro, era la “serva” della sua famiglia. La vedevo tre volte al giorno attingere l’acqua

al nostro pozzo e poi con un re-cipiente immenso in bilico sulla testa: un’immagine da fotografare, tipica dell’Africa. Un giorno pren-do coraggio e le chiedo: “Jeanne, accetteresti di provare con me a far giocare un grup-po di bambine?”. Si spaventa e fugge... a causa della timidez-za, credo. Quel gior-no si sarà sicuramen-te chiesta cosa vorrà mai da lei quel “blòfuè” (“bianco” in lingua locale). Per 3 mesi Jeanne mi sfug-ge. Poi, come un regalo di Pasqua, arriva un giorno in ufficio e mi dice: “Accetto!”. Non so con chi avesse parlato, non so quali santi mi avessero aiutato; fatto sta che

Jeanne era caduta in trappola e che il guidismo (le ragazze scout), grazie a lei, poteva effettivamente rinascere.

Cominciamo a far giocare un gruppo di bambine che chiamia-mo “lupette”. Pochi mesi dopo, Sakassou conterà centocinquanta guide e ottanta lupette, grazie so-prattutto a Jeanne, alla sua dispo-nibilità, alla sua semplicità, alla sua fede scout e all’entusiasmo che sa trasmettere. In poco tempo Jean-ne effettua passaggi “pasquali”

straordinari: da uno stato di miseria, di oscurità, di pover-tà, di servilismo, di ignoranza si ritrova a vivere in uno stato di

dignità, di prestigio, di popolarità, di successo prima impensabile. Un anno dopo Jeanne sarà scelta tra duemila coetanee per rappre-sentare le guide della Costa d’A-vorio ad un campo internazionale in Svizzera! E Sakassou, con lei a capo, pochi mesi dopo sarà eretta

H

JeANNe

“Cenerentola” africana

COSTA D’AVORIORacconto di don Ezio Del Favero dalla missione

Arriva in ufficio e mi dice: “Accetto!”

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Notizie - N. 3015

sede regionale, centro del guidi-smo rurale della Costa d’Avorio.

Oggi Jeanne lavora a tempo pie-no a servizio delle guide. Una vol-ta alla settimana visita una decina di villaggi. Nel tempo libero si for-ma al metodo e incontra un grup-po di ragazze dai venti ai venticin-que anni per iniziarle a diventare capo. Sta frequentando dei corsi di cucito per poi aprire un labora-torio artigianale; oltre che guada-gnarsi da vivere, potrà in seguito insegnare alle coetanee l’arte del taglio e del cucito... Jeanne, con le

sue settecento lupette e guide, oggi è popolare. La chiamano in mezza Costa d’Avorio: a Bouaké

(la seconda città della nazione, a quaranta chilometri da Sakas-sou), a Béoumi (a quarantadue chilometri), a Katiola (ottanta chi-lometri), a Kanawolo (duecento chilometri), a Yamoussoukro (la capitale amministrativa, a settanta chilometri). Ora sta lavorando alla confezione di un manuale per le guide della Costa d’Avorio. Inizial-mente qualcuno ad Abidjan (la ca-pitale) rideva di lei: “Cosa può fare una povera contadina come lei?”... Una sorta di Cenerentola che il destino ha voluto ricompensare, da pozzanghera Jeanne è diven-tata torrente ribollente, speranza luminosa, esperienza pasquale...

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S

MARIA

La capanna di Maria

KEnYAUn ricordo di don Luis Canal, in visita alla missione dove opera mons. Virgilio Pante, missionario della Consolata, di Lamon

Siamo in Ken-ya, nella diocesi di Maralal retta dal vescovo Virgilio Pante.

Nella nostra visi-ta al villaggio di Se-rerit, la domenica

dopo Messa, ci dirigiamo con il ve-scovo verso una capannuccia per portare la comunione ad un’am-malata. Vi troviamo Maria, una signora di mezz’età, sdraia-ta su un lettuccio, attorniata da alcuni bambini (gli adulti non ci stanno e sono all’ingresso della capanna). Maria si trova immobile, perché una not-te il marito ubriaco l’ha picchiata in maniera così brutale da romper-le la spina dorsale: naturalmente dopo è sparito.

Il missionario padre Giuliani, angelo custode del villaggio e tut-to-fare, prende l’iniziativa e le co-struisce la capanna vicino a quella

di una figlia che l’accudisce; le co-struisce anche il lettuccio in forma di barella, di maniera che nelle fe-ste principali possono portarla in chiesa a festeggiare con la comuni-tà. Il vescovo le dà la comunione mentre preghiamo tutti insieme e Maria accompagna bisbigliando. Alla fine Letizia, una volontaria in-fermiera presente nella missione, le cura le piaghe e la figlia le por-

ta il cibo. Ecco come Dio ascolta il grido del povero!Ecco come Dio ascolta

il grido del povero!

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Notizie - N. 3017

P

eDUARDO

L’incontro

PARAGUAYDalla missione in cui opera padre Aldo Trento

«Padre, mi han-no detto che su via Asunción Flores, vicino al Tribuna-le della giustizia elettorale, c’è un uomo coperto di mosche, sdraiato

sul marciapiede. Che facciamo?».«Figlia mia, andiamo subito a

prenderlo e lo portiamo a casa».«Ma padre, è tutto occupato,

dove lo mettiamo?».«Non ti preoccupare. In questo

momento la prima cosa che il Si-gnore ci chiede è quella di portare via dalla strada suo figlio, dopo la Provvidenza ci indicherà dove met-terlo».

Chiamo suor Sonia che mi ac-compagna col camioncino sul po-sto, in compagnia di Irma, la re-sponsabile delle case per anziani, e di un’infermiera. Arrivati sul po-sto lo spettacolo è terribile. Pieno di piaghe, ubriaco, era coperto dai propri escrementi. L’odore era in-sopportabile. Gli abbiamo chiesto

il nome e da dove veniva.«Mi chiamo Eduardo, sono ar-

gentino, ex combattente del con-flitto delle Isole Falkland (l’inutile guerra tra Inghilterra e Argentina degli anni Ottanta)». Non ha sa-puto dirmi nient’altro che queste parole.

Lo abbiamo preso con delicatez-za e molto affetto, come si alza l’O-stia durante la Messa; con grande fatica siamo riusciti a metterlo sul sedile anteriore, di fianco a suor Sonia. L’odore ha riempito l’auto-mobile, un fetore insopportabile. Tuttavia, pensavo tra me e me: que-sto odore è sacro, perché è l’odo-re di Cristo. Il Papa ci ha detto che noi sacerdoti dobbiamo puzzare di

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pecora, tuttavia in questi momenti puzzo di urina e di escrementi… Odori che, senza dubbio, fanno parte anche loro della vita di un prete.

Mentre tornavamo a casa Eduar-do ci ha domandato: «Ma voi per-

ché fate questo per me?». Questa domanda mi ha commosso. E gli ho risposto: «Perché tu sei Gesù croci-fisso e abbandonato». Eduardo ha guardato la croce di legno che ave-vo sul petto, l’ha presa e ha detto: «Gesù, Gesù, Gesù».

Il suo grazieFinalmente, arrivati alla casa, con

l’aiuto di un’altra infermiera lo ab-biamo portato dentro, gli abbia-mo tolto i vestiti sporchi e pieni di escrementi, lavato, tagliato la barba e messo un pigiama. La doccia l’ha svegliato e gli ha permesso di rico-minciare a parlare e camminare. Ci guardava con affetto quando lo ab-biamo messo a tavola per mangiare un ricco brodo di verdure e carne con pane. Chissà da quanti anni non mangiava seduto a un tavolo!

Prima di andare via gli ho bacia-to la testa, salutandolo affettuo-samente. Quando lo abbiamo la-sciato, nel salutarci ci ha detto: «Vi ringrazio per i sorrisi che mi ave-te regalato». Ci siamo guardati in faccia e, con le lacrime agli occhi, siamo ritornati all’ospedale dove ci aspettavano altre persone bi-sognose e abbandonate. Ma nella nostra mente si ripresentava conti-nuamente la sua gratitudine.

La pace del perdonoAlcuni giorni più tardi sono tor-

nato per rivederlo. Ho dovuto chiedere all’infermiera quale, tra le persone raccolte, fosse Eduardo. Sentendo la mia voce mi ha rico-nosciuto, si è alza-to dalla sedia, mi ha dato la mano e sorridendomi, con la sua voce forte da militare, mi ha detto: «Pa-dre, sono io, Eduardo!». Non cre-devo ai miei occhi tanto era cam-biato da quel pomeriggio quando lo abbiamo raccolto dal marciapie-

de. Mi ha abbracciato con tanto affetto e ha voluto che mi sedessi al suo fianco. Ha voluto confessar-si perché aveva un grande bisogno di chiedere perdono al Signore e

di sentire, dopo tanti anni, le pa-role più belle che un uomo potesse ascoltare da un

sacerdote: «Io ti assolvo da tutti i tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Il suo “Amen” è stato un pianto con-vulso. Finalmente ha potuto spe-

«Padre, sono io, Eduardo!»““

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Notizie - N. 3019

rimentare la pace del perdono, la serenità ha finalmente sostituito l’odio che lo tormentava, quell’o-dio contro i generali che avevano inventato una guerra assurda per recuperare alcune isole, contro gli inglesi che avevano ammazzato i suoi fratelli e anche contro la vita per avergli tolto tutto.

Che potenza il sacramento della

confessione! Quasi tutte le perso-ne che abbiamo accompagnato a morire o a ritrovare il gusto della vita, hanno sperimentato il mira-colo della confessione. Finalmente Eduardo è felice. Ora lavora nelle opere, aggiusta qualsiasi cosa che non funziona. È stato veramente restituito alla vita.

«Sono rinato»«Evidentemente dovevo fare

ancora qualcosa sulla terra… Un giorno, un buon samaritano mi ha trovato disteso per strada e mi ha dato da mangiare. E sono rinato.

Ho delle competenze che mol-ti vorrebbero avere. Grazie a Dio capisco qualcosa di idraulica, so come si aggiustano le lavatrici e come funzionano i condizionatori. Ringrazio Dio per que-ste persone che ho tro-vato sulla mia strada. Oggi, dove vivo, non

mi manca nulla, ci si sente come in famiglia, se devo mollare tutto e mettermi ad aiutare, con mol-to piacere faccio la mia parte. Ri-faccio i letti, tolgo tutto ciò che è sporco, ripasso i pavimenti con la candeggina, spolvero i mobili. Ho riparato un aspirapolvere e per-sino i fornelli della cucina: prima aveva un solo fuoco che si accen-

deva, ora funzionano tutti e quattro.

Per questo ringrazio Dio!».

Ci si sentecome in famiglia.

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SILVIA

Sull’orlo del fallimento

PARAGUAY Dalla missione in cui opera padre Aldo Trento

Silvia è argentina, ma da 25 anni vive in Paraguay. In que-sta intervista, Silvia spiega come, attra-verso la malattia, Dio le ha mostrato il cammino verso

cui voleva condurla. In Paraguay, insieme alla sua famiglia, è stata a capo di una prospera società fin-ché, a causa della crisi economica, si è trovata sull’orlo del fallimento che le ha causato una profonda de-

pressione. A peggiorare la situazio-ne, le era stato diagnosticato un tu-more, che dopo alcuni anni di cure sembrava essere sparito. Alcuni mesi fa ne sono riapparsi i sintomi.

«La notizia è stata una mazzata, ma ho ricevuto un grande aiuto dai parroci, dalla mia famiglia, i miei figli. È stato tutto molto veloce e mi ha assalita un’ansia molto forte, scoppiavo a piangere in ogni mo-mento».

Com’è riuscita a sopportare il dolore? «Ho cominciato a

rendermi conto che non importa il pas-sato, non importa il futuro, perché vi-viamo sempre pen-sando al domani, ma il domani non arriva mai. Quel che conta è il presente. Sto vivendo ogni istante come se fosse l’ultimo, gustandolo e vivendolo con passione e gioia.

Ringrazio tutto ciò che Dio mi regala, commuovendomi per le cose piccole e grandi, assaporan-do le cose come mai

avevo fatto prima, apprezzando la natura, il sole e persino la pioggia. Ci sono cose a cui non avrei presta-to attenzione e che ora invece mi commuovono».

Ci sono cose che ora mi commuovono.

““

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Notizie - N. 3021

Questa esperienza ti ha aiutato a confidare di più in Dio?

«Ho imparato a chiedere e a la-sciare le cose nelle mani di Dio. Una caratteristica di molte donne è che sicuramente cerchiamo di ri-solvere e mitigare tutto, ma ci sono cose che solo Dio può sistemare e spesso questa cosa non ci cor-risponde. Mi sono resa conto che quando ho cominciato a lasciare tutto nelle mani di Dio e quando ho accettato la mia malattia e mi sono messa nelle Sue mani, è av-venuto un cambiamento nella mia vita. Durante i fine settimana, ad esempio, sto a casa e mi sento di-

versa: sto iniziando a gustarmi la lettura, la musica, il dipingere con un’amica, Dio non mi ha fatto man-care nulla. Ero disperata al pensie-ro di come avrei potuto affrontare la malattia con la mia situazione economica, ma grazie a Dio ci sono i miei figli che mi aiutano molto. Dio ti affianca sempre qualcuno che ti può aiutare. I miei figli sono riusciti a farmi sentire come una principessa amata, sono loro il mio grande sostegno. Questo è un mi-racolo».

E adesso come va la tua malattia?«Alcuni giorni fa ho fatto altri esa-

mi da cui è emerso che uno dei tu-mori è scomparso completamente e quello ai polmoni si è ridotto. Per me questo è veramente un miraco-lo, una questione di atteggiamento, di come affrontare la realtà, di porsi nelle mani di Dio e sapere che Lui non ci tradirà mai. Sin-ceramente sono

grata per quello che mi è successo, anche se si tratta di cancro. Ricono-sco che mi ha fatto bene, perché si è reso manifesto il motivo per cui Dio mi ha scelto e ha mobilitato tutta la mia famiglia e la gente intorno a me. Mi sento privilegiata perché mi

ha posto di fronte a questa prova e sen-to che ora ho una missione davanti».

Sento che oraho una missione davanti.

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N

VeRA e JOeMIA

L’incontro tra ricchezza e povertà

BRASILEDalla Comunità missionaria di Villaregia, ci scrive la missionaria bellune-se Daniela Camuffo

Nella nostra mis-sione incontriamo quotidianamen-te molte persone che soffrono e spesso non han-no via d’uscita, ma quando la incon-

trano, trovano la forza di cambia-re anche la vita degli altri.

Questa è la storia di Vera, una signora che vive nella nostra par-rocchia, alla periferia della me-tropoli di S. Paolo, in Brasile, e di Joemia, un’amica recentemente conosciuta, che vive in un quar-tiere ricco della città. Come sap-piamo, una delle caratteristiche del Brasile è di avere al suo inter-no grandi contrasti, da una parte una grande ricchezza e dall’altra una grande povertà, e queste

due realtà, che spesso sono una a fianco all’altra, a volte non s’in-contrano.

Nella nostra parrocchia, la mag-gior parte degli abitanti è in diffi-coltà: la presenza di problemi di droga e alcool distrugge molte famiglie, che per questi motivi conoscono molta violenza e di-sunione. Chi comanda è la delin-quenza, la polizia è spesso corrot-ta, e la gente ha paura ad uscir di casa in certi orari, per rischio di assalto.

La chiesa è spesso quel luogo di pace dove le persone si ritrovano, pregano, ascoltano una parola di conforto e ricevono la forza per andare avanti e la fede per crede-re che con Gesú tutto è possibile, anche cambiare le situazioni più difficili.

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Notizie - N. 3023

Una visita nei quartieri poveriJoemia vive in un quartiere ric-

co che si trova vicino a una favela, ma in questi luoghi è pericoloso entrare da soli, senza conoscere qualcuno, quindi l’incontro con noi missionari è stata un’oppor-tunità per conoscere una realtà per lei nuova.

Quest’anno ha deciso di passa-re alcuni giorni della settimana santa con noi, per prepararsi alla Pasqua in modo diverso. Un gior-no siamo andati con lei a fare una visita ad alcune famiglie partico-larmente povere, perché potesse ascoltare la testimo-nianza di chi vive quoti-dianamente in situazio-ni di disagio e paura.

Vera, una leader della parrocchia, ci accom-pagna. Dietro a casa sua c’é un gruppet-to di case dove alcuni anni fa era molto difficile vivere, e adesso, anche se la situazione economica continua ad essere precaria, almeno si respira un po’ di tranquillità. Visitiamo la casa di Sandra, una signora di circa 45-50 anni: casa piccola, con due stanze disordinate, un letto a castello e un altro materasso che mettono a terra solo di notte, un tavolino, quattro sedie, un fornello e un la-vandino.

Vera racconta che un giorno il marito di Sandra, Edson, che ha

sempre dato preoccupazioni per il vizio dell’alcool e della droga, si era messo nei guai, la polizia lo cercava e i banditi, che non vo-gliono saperne di avere la polizia tra i piedi, volevano ammazzar-lo. Lei, volendolo difendere, ha preso il telefono e ha chiamato il capo, che le ha chiesto, stupito, se sapeva con chi aveva a che fare. La sua risposta è stata: “Sì, lo so, con un figlio di Dio che ha un cuore molto grande!”. Questa parola lo ha bloccato, è andato a parlare con un’altra persona, poi ha detto

che non lo avrebbe uc-ciso, ma che gli avrebbe dato una bella lezione.

Lei ha avvisato i bam-bini: “Quando arriva quel bandito, voi fate qualcosa, distraetelo!” Così è stato, i bambini hanno fatto un po’ di

confusione e Edson è scappato, e così sono riusciti ad evitare il peggio, e da quel giorno li hanno lasciati stare.

Dopo questo fatto, Vera ha pre-so coraggio e ha invitato tutti gli abitanti di quel gruppetto di case a partecipare alla “casa aperta”, un percorso di una serie di in-contri del quale lei è animatrice, per iniziare un cammino di fede, al termine del quale si propone un ritiro kerigmatico, e si avvia le persone alla vita ecclesiale. Vari

C’è chi vive in situazioni di

disagio e paura.

““

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hanno accettato, e ancora oggi, dopo anni, continuano il cammi-no. La situazione è molto cambia-

ta, le famiglie si sono unite, hanno creato lacci di amicizia e si aiuta-no a vicenda.

La decisione di aiutareVedere il coraggio di Vera, la fede

di Sandra, il lavoro che noi missio-nari facciamo per dare una speran-za a questa gente ha commosso Jo-emia, e l’ha spinta a prendere una decisione: farsi prossima, aiutare.

Ha coinvolto un’amica psicologa e insieme hanno deciso di venire una volta alla settimana a lavorare al Centro Infanto, dove accoglia-mo quotidianamente bambini e

adolescenti, offrendo uno spazio di formazione e amicizia dopo la scuola.

Una nuova vita è nata, le famiglie più povere hanno trovato una spe-ranza e chi possiede di più ha sco-perto che può mettersi a disposi-zione e dare il suo contributo. Noi abbiamo fatto da ponte, ed è stata una grande gioia.Questa per noi è stata la Pasqua!

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Notizie - N. 3025

S

ALICe

Una vita nuova!

BRASILEUn ricordo di don Luis Canal, in visita alla missione della Comunità mis-sionaria di Villaregia

Siamo nella peri-feria di S. Paolo, a Embu-Guaçu, dove opera la bellunese Daniela Camuffo con la Comunità Missionaria di Vil-laregia. Con Da-

niela visitiamo alcune delle loro comunità, celebrando la Messa e visitando le famiglie. Un incontro mi ha particolarmente impressio-nato, quello con Alice, una mam-ma venuta all’incontro Caritas per ricevere il pacco di alimenti. Ci rac-contava della sua difficile infanzia: abusata fin da piccola, buttata in una strada in preda alla prostitu-zione, soffrendo fame e infermità di ogni tipo… finché con l’aiuto di Dio e di una buona famiglia si è ri-trovata sulla strada della dignità e della libertà. Ha trovato marito, si è fatta una famiglia: ora ha 3 figli, sono poveri, ma pieni di Fede, di Speranza e voglia di vivere una vita nuova! E mi mostra con ineffabile tenerezza la sua ultima figlioletta

che porta in braccio. Alice ha ca-pito cosa vuol dire essere Figli di Dio!

Si è ritrovatasulla strada della dignità.

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A

AMLAN

“Attenti alle trappole!”

COSTA D’AVORIORacconto di don Ezio Del Favero dalla missione

Amlan è una ra-gazza contadina, povera, estroversa e simpatica. Quel giorno mi si avvi-cina per chieder-mi di assaggiare il suo vino di palma.

Approfitto per scambiare qualche battuta con lei. La invito alla festa delle ragazze scout del villaggio: “Potrai così approfittare per ven-dere il tuo vino!” le dico.

Non sapevo chi fosse.Il giorno della festa, la vedo ar-

rivare, senza vino. Assiste ai gio-chi, alle danze, danza anche lei e poi mi chiede: “Voglio diventare scout!”. Personal-mente soddisfatto, avvicino la responsa-bile scout per darle la buona notizia. Però mi accorgo che la ra-gazza non è ben vista...

Più tardi qualcuno mi dirà che Amlan è una ragazza un po’ trop-po “leggera”.

Alcuni mesi dopo Amlan rice-verà la promessa. Non tradirà la fiducia, diventerà una delle mi-gliori guide (ragazze scout) della “zona” e una delle ragazze più at-tive in seno alla comunità cristia-na. Sino a quel 18 ottobre, la sera in cui il papà verrà a dirmi: “Amlan non c’è più!”. Fino a un mese pri-ma partecipava alle attività con un fervore e un entusiasmo a dir poco contagiosi.

Era poi scomparsa di vista: forse per paura.

Amlan aveva infatti scoperto di essere incinta e non voleva farlo sapere per una questione di im-magine. Dopo aver ricominciato

a vendere il vino di palma contattò una specie di strega, che la convinse ad abor-tire “all’indigena”. La pozione e le torture

le furono letali.Ci ritrovammo numerosi attor-

no a lei. In mezzo al cerchio scout Amlan non poteva più gridare,

È possibile infran-gere i sogni a causa

delle trappole.

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Notizie - N. 3027

danzare, esprimere la gioia di es-sere scout e cristiana. Nella sua corsa verso la felicità, Amlan ave-va trovato una trappola, era stata mortalmente ferita. Dal fondo di quella trappola, Amlan ci stava in-segnando che lo scoutismo può effettivamente diventare sorgente di gioia, che la conversione è sem-pre possibile, che l’uomo è fragile,

che è possibile sognare, ma anche infrangere i sogni a causa delle trappole e della solitudine...

Ci accorgemmo in seguito che anche la sua storia stava dando frutti.

Altre ragazze si erano avvicinate a noi, con lo stesso suo entusiasmo, evitando - al grido di Amlan - di ca-dere nella sua stessa trappola...

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S

SANTIAGO

L’amore che salva

MESSICOCi scrive Padre Basil Royston, raccontandoci le attività svolte dalla Villa Infantil “Guadalupe y San Jose” nella quale lui opera, insieme alla missionaria laica Fidei Do-num Emanuela Mondin

«Santiago arrivò alla Villa Infantil con solo qualche ora di vita, come dissero i medici. Vittima della “Sin-drome Alcoholico

Fetal”, a sole 6 settimane dalla na-scita, pesava solo 2,7 chilogram-mi. Anche i medici pensavano che solo “l’amore” avrebbe potuto sal-varlo. Fu così che le suore idearo-no un piano che consisteva nell’a-marlo per curarlo. Lo sistemarono in una culla delle dimensioni di

una scatola da scarpe e tutti, suo-re, adulti e bambini, andavano da lui a recitare una preghiera, can-tare una canzone, scambiare una parola e prenderlo in braccio.Oggi Santiago è un incredibile bambi-no, di 5 anni, con un sorriso da un milione di denti, però la sua vita non è per niente facile, avendo difficoltà ad esprimersi con gli altri compagni. Inoltre, non è capace di giocare al pallone, per cui spesso piange, e ha difficoltà a mantene-re il passo dei suoi compagni di scuola.

Il gioco diventa realtàGli piace giocare “al prete” e ripe-

te i rituali e le preghiere della San-ta Messa e con addosso un camice bianco di plastica: offre la comunio-ne alle piante, agli alberi e agli ani-mali della proprietà. Chiesi allora a suor Maria Renata che facessero dei vestiti da sacerdote per lui. Per il suo quinto compleanno ricevette un ca-mice ricamato. Non posso descrive-

re con parole la felicità manifestata da questo bambino nel ricevere questi regali. Ora lui mi assiste nella Messa e la parte migliore per lui è il momento dell’offerta della pace, quando si colloca al mio fianco e of-fre una stretta di mano a tutti i pre-senti. La sua emozione è tangibile e anche la risposta dei suoi compagni alla sua passione è confortante.

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Notizie - N. 3029

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eSTeRINAe MARIA DI LOURDeS

Due pance gonfie

BRASILEUn ricordo di don Luis Canal, in visita a Belo Horizonte, dove opera suor Ester Facchin, missionaria lamonese di Maria Bambina

Siamo a Belo Horizonte, nella missione di Ta-quaril, dove opera suor Ester Facchin, con una comunità di suore di Maria Bambina. Dopo la

Messa domenicale nel-la comunità S. Vincen-zo, visitiamo la casa di Maria di Lourdes. Mi trovo davanti ad una scena indimenticabile: due pance gonfie! Quella della giovane Este-rina, incinta del suo primo figlio, e quella della “nonna” Maria di Lou-rdes, gonfiata da un grosso tumore. Il confronto mi stupisce: la prima si illumina parlando della sua creatu-ra prossima alla nascita, la seconda si illumina parlando della sua pros-sima nascita al cielo, certa che Dio la sta chiamando entro poco tempo

e contenta di aver portato a termi-ne la sua missione qui sulla terra. Due certezze, accompagnate dalla fede nella Vita, quella sul nascere a questo mondo e quella al tramon-to da questo mondo per nascere alla Vita eterna. Le due situazioni, non prive di trepidazione e soffe-

renza, ma trasformate da un filo misterioso che si chiama Fede!Due certezze...““

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TeReSITA

La sofferenza condivisa

ECUADORUn ricordo di don Luis Canal, in visita alla Comunità del Servo Sofferente

Siamo in Ecua-dor, nella dioce-si di Ibarra, dove ha operato per tanti anni anche don Giuseppe Pe-dandola.

Visitiamo la “Comunità del Ser-vo Sofferente” ideata e gestita da Teresita, una laica consacrata, che ha aperto le porte di casa sua a casi estremi di infermità o disabi-lità non assunti dalle famiglie e ri-fiutati dalla società. Su 15 ospiti, 10 sono muti o cerebrolesi. Il clima che si vive è questo: il rapporto di amore lo leggi negli occhi, il mes-saggio di pace dai loro silenzi e dai loro sorrisi, la sofferenza condivi-sa dalle loro lacrime, la loro pre-ghiera dai tenui mugolii… L’ho vis-suta come la Voce misericordiosa del Signore che si offre ad un’u-manità tesa verso ciò che dà esito e quindi ignara di chi non conta; sommersa dal frastuono e quindi incapace di ascoltare questi “silen-zi”; che cura liturgie sontuose ma che spesso non sa pregare con i gemiti dei poveri. Grazie, Signore, per questo impegno di Teresita e di tanti volontari che con lei colla-borano in quest’opera!

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Notizie - N. 3031

O

CATALINA

Fede, speranza, amore

PERÙCi scrivono i missionari bellunesi Marzia Buzzat e padre Sergio Cassol dalla Comunità Missionaria di Villaregia

“… Ora dunque queste tre cose durano: fede, spe-ranza, amore; ma la più grande di esse è l’amore” (1 Cor 13,13)

Catalina, 72 anni, vive en “el cerro”

(collina di terra e pietre), ha visto nascere la cappella a cui appartie-ne denominata “María Misionera”.

“Catalina de María Misionera”, nella Parrocchia la Trinidad, è un nome e un volto che tutti cono-scono, è un’accoglienza che sem-pre ti raggiunge, un sorriso che ti arriva e che ti permette di alzare lo sguardo ed accorgerti che il sole splende.

Facilmente si incontra cammi-nando in mezzo ai viottoli del cer-

ro. Se c’è un ammalato, una fami-glia in necessità, una persona nel dolore, Catalina si mette in moto, da qualche mese con il suo basto-ne per aver subito l’operazione all’anca, perché “Gesù ci invia a portare la sua speranza, la sua con-solazione, la sua vicinanza…”.

Stupiscono la sua gioia, l’en-tusiasmo e la perseveranza che la caratterizzano, la serenità che trasmette quando guida un rosa-rio all’aria aperta, nella casa di un defunto o di un ammalato, l’umiltà con cui dirige un momento di pre-ghiera nella cappella e se succede che le persone parlano, i bambi-ni fanno confusione, tranquilla si ferma e trova il modo di coinvol-gere proprio chi è distratto senza riprendere o rimproverare.

Tu la guardi, conosci la sua storia e ti commuovi Nata nella Sierra del Perù, aveva

un anno e mezzo quando muore il papà e sette anni quando muore la mamma. Vive in casa di una zia

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per altri sette anni, qui le si ricor-da quotidianamente che è stata ac-colta per pietà: “guadagnati il pane che mangi o vai a dormire in stra-da”. Tutti i giorni si alza prestissi-mo, pulisce tut-ta la casa e poi va a scuola, “ho potuto impara-re a leggere e a scrivere e fare i conti, la matematica mi piaceva tantissimo. È stato un bel regalo de Diocito Lindo” – modo amichevole di nominare Dio.

A quattordici anni riprende il suo pellegrinaggio ospite di vari parenti, non ha una casa sua, e intanto lavora: cucina, cuce, ven-de, in fabbrica…, quando passa davanti ad una chiesa dice fra sé “ora non posso lavorare per te, ma verrà il momento in cui potrò fare qualcosa per te che mi pro-teggi”.

A 18 anni accetta di vivere con un giovane, dopo un anno mezzo si rivela violento, nascono tre figli, la situazione diventa impossibile, lei scappa con i bambini.

In mezzo a questo dolore, la sua consolazione è dialogare con la “Virgencita” (la vergine Maria), di cui le avevano parlato a scuola, e pregare un’Ave Maria.

Questo giovane e la sua fami-glia la raggiungono, lei non ha una casa e non ha una famiglia, un giudice decide che i figli vadano con la famiglia del papà.

Un nuovo dolore. Per anni non

rivede i suoi figli, solo riceve no-tizie per mezzo di una signora e attraverso di lei fa arrivare ai bam-bini qualche dono acquistato ri-nunciando a qualcosa.

Passano gli anni, si sposa, nascono due bambine, la vita diventa più serena. Passati

alcuni anni lo sposo si ammala di tumore, per curarlo devono ven-dere ciò che possiedono, dopo qualche anno muore.

Lei e le figlie vengono a vivere nella periferia di Lima, in mezzo alle colline di sabbia che i pove-ri che vengono nella capitale “in cerca di vita” invadono per poter avere un luogo dove abitare.

“Guadagnati il pane che mangi”“

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Notizie - N. 3033

L’incontro con i missionari e l’evangelizzazionePoco a poco costruisce la sua casa,

le figlie con tanti sacrifici frequen-tano anche la scuola secondaria, conosce i missionari che arrivati da poco “camminavano per “los cer-ros” a piedi per conoscere le perso-ne, avvicinare le famiglie”.

Nel cuore “ho sentito che “papito Dios” mi chiamava ad essere “evan-gelizadora”, a fare la mia parte, il giorno in cui nella mia casa, allora senza tetto, avevo solo qualche pa-rete, si è realizzato un incontro dove abbiamo pregato

l’inno alla carità di San Paolo e io ho capito che solo l’amore dato e rice-vuto rimane.

Così ho cominciato ad andare a visitare chi viveva nella zona, a fre-quentare la Messa e gli incontri dei missionari.

Sono felice perché Dio è stato buono con me, ho potuto anche in-contrare i miei tre primi figli e ogni tanto vengono a visitarmi, ho la mia casa, non mi manca il necessario e

… nessuno ha po-tuto rubarmi l’amo-re de Papito Dios”.Dio è stato buono con me.

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I

AYA

Il fragile involucrodi un seme

COSTA D’AVORIORacconto di don Ezio Del Favero dalla missione

Isidore, capo gruppo di Andofué, mi racconta un giorno la vicenda di Aya. La piccola non si chiamava proprio così, ma tra noi la chiamiamo Aya, essendo nata di venerdì (in questa fetta d’Africa, i nomi ven-

gono dati in base al giorno della nascita). Quel venerdì doveva es-sere un giorno felice. I genitori di Aya avevano iniziato a frequentarsi all’interno del gruppo scout del vil-laggio, una sorta di famiglia felice in quell’ambien-te povero di tut-to, anche di ami-cizia, di affetto, di prospettive...

In caso con-trario, lui, Antoine, sarebbe partito come la maggior parte dei giovani in cerca di fortuna nelle pianta-gioni del sud o nelle grandi città,

avrebbe lasciato figli un po’ ovun-que, sarebbe ritornato al villaggio un paio di volte all’anno con l’aria da cittadino, ma senza il becco di un quattrino e ogni volta si sareb-be sentito ancor più disadattato in quel villaggio così povero. Lei, So-phie, sarebbe rimasta al villaggio a fare la serva ai suoi, aspettando un marito e una caterva di figli, per continuare il suo lavoro di serva; avrebbe forse tentato la sua fortu-na in città, con molte probabilità di vendersi o comunque di lasciarsi

ingannare.Antoine e So-

phie, grazie a Dio, avevano scelto di starse-ne al villaggio.

Il gruppo dei nuovi amici scout cristiani li interessava troppo.

Si parlava di fare una cooperativa agricola per i giovani e un grande

Quel venerdì doveva essereun giorno felice.

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Notizie - N. 3035

campo di arachidi per le ragazze, di far giocare e di educare i più pic-coli, di aprire un corso di alfabetiz-zazione, un laboratorio di cucito...

Antoine volle restare e provare. E lì conobbe Sophie. Quel vener-dì, Aya avrebbe suggellato la loro unione, avrebbe rappresentato, se-condo la tradizione, il matrimonio. Otto giorni dopo, avrebbero pre-sentato Aya alle rispettive famiglie, alla grande famiglia scout, alla co-munità cristiana, alla gente del vil-laggio. Mi avevano promesso che l’avrebbero simbolicamente con-segnata a me, come riconoscenza, ma soprattutto come augurio: “Che sia ancora più felice di noi; te la diamo come un cucciolo di lupo!” (Un lupetto, nel linguaggio scout, è un piccolo scout)... Avrebbero fatto proprio così e tutti aspetta-vano quel giorno. Isidore, quel venerdì, mi racconta del suo triste viaggio in bicicletta, la mattina, con Aya nel paniere per il suo primo e ultimo viaggio sotto il torrido sole della savana. Aya non era riusci-ta a vincere l’ultima battaglia, era rimasta sogno, attesa, speranza... senza riuscire a compiere l’ultimo salto in braccio alla vita. A Sophie e ad Antoine dico: “Grazie, amici! Le vostre lacrime mi fan ben capire che siete buoni, che siete capaci di amare, che aspettavate Aya come un grande dono del Cielo, che sie-te sulla strada giusta. Siate corag-giosi, siate buoni cristiani e buoni scout! Pensate al nostro cucciolo che gioca con Dio e che veglierà

su di voi come un piccolo angelo. Il suo ricordo, la speranza che ben presto Dio ci regali un nuovo lu-petto deve consolarvi... Dio è stato tanto buono con voi, lo sarà ancora di più se gli starete accanto... Dio vi farà felici!” E penso all’ultimo viag-gio di Aya, nel paniere: un seme in attesa di essere gettato, per diven-tare fiore nel giardino di Dio e por-tare frutti nella storia dei suoi cari.

Intorno alla vicenda di Aya si è costruito oggi un focolare cristia-no, nel quale la fede, l’amicizia, la speranza sembrano proporre uno stile di vita nuovo, una specie di nido della gioia, uscito come per miracolo dal fragile involucro di un seme...

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36La perLa preziosa

È

JAVeD

La ricerca di lavoro

PAKISTAnCi scrive suor Agnese Grones, missionaria figlia di San Paolo, di Livinal-longo

È comune che nelle Librerie delle Figlie San Paolo in Pakistan vengano giovani a chiedere aiuto, raccoman-dazioni per avere lavoro. Abbiamo

una lunga lista di richiedenti, ma non capita che vengano datori di lavoro a cercare la-voratori.

Sono tantissimi i giovani disoccupa-ti, anche perché i cristiani non possono conseguire l’educazione e la certificazione per ottenere un lavoro specializzato.

Javed, padre di famiglia, dispera-to, depresso, arrabbiato, è venuto

in libreria a chiedere aiuto: “Aiuta-temi ad avere un lavoro per soste-nere la mia famiglia, non ce la fac-ciamo più!”.

Occasioni di lavoro non ne ave-vamo al momento, né c’era qualco-sa in vista, ma con fede e speranza abbiamo dato a Javed la Bibbia, in-sieme alla raccomandazione di pre-gare assieme a noi, leggendo ogni

giorno passaggi – ben segnalati – che descrivono che Gesù Risorto è con noi e ci ama e ci da

conforto e garanzia di aiuto.Javed, rasserenato, ci disse: “Sarò

fedelissimo a pregare con la mia fa-miglia e crederò nella risurrezione di Cristo, se troveremo lavoro”.

Dopo la grazia, cuore aperto al prossimo in difficoltàAl settimo giorno della nostra fer-

vidissima preghiera e fiducia nella Parola di Dio, è capitato in libreria un industriale (mussulmano) che chiedeva – caso rarissimo – se po-

tevamo suggerirgli un giovane di fiducia da impegnare come “guar-dia” nel suo ufficio.

Javed venne segnalato, scelto e – così – trasformato. La preghiera è

“Non ce la facciamo più!”““

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Notizie - N. 3037

stata la ragione della sua “risurre-zione” e il lavoro retribuito fu per lui l’apertura ad un impegno serio e generoso per aiutare i fratelli senza lavoro e senza documenti come lui.

Javed, nelle ore di riposo, va con i fratelli disoccupati a testimoniare ai datori di lavoro la sua esperienza, invitandoli ad assumerli e fidarsi.

La notizia della bravura di Javed è

circolata e lui percorre strade e ha il coraggio di presentarsi ad uffici importanti; con insistenza e grazia ha già collocato 3 dei suoi compa-gni nella ditta dove lui è guardia notturna.

Il bene ricevuto è stata la perla da condividere ed ha portato e porte-rà fortuna e benedizione ai fratelli bisognosi, perché Javed ha aperto il suo cuore, crede e ama.

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38La perLa preziosa

S

OSCALINA e LINO

Oscalina ringrazia il Signore

BRASILEDa un ricordo di don Luis Canal, in visita al S. Juliào, dove opera suor Silvia Vecellio, missionaria salesiana di Auronzo

Siamo al S. Juliào (antico lebbrosa-rio – oggi “Centro di Salute”) alla pe-riferia di Campo Grande, nel Mato Grosso do Sul – Brasile, dove opera

suor Silvia Vecellio.Con suor Silvia, visitiamo Osca-

lina, una donna di 95 anni che è stata ospite del lebbrosario fin dal

1941 e che ora vive in casa della nuora, amorevolmente assistita da lei e dal figlio: la malattia l’ha resa cieca, sorda, con una gamba e un piede amputati e senza le dita del-le mani.

Non finiva più di ringraziare il Si-gnore per essere ancora viva e per tutte le persone che le hanno fatto del bene. L’abbraccio spontaneo non ci espone al rischio del con-tagio!

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Notizie - N. 3039

ALino, il poeta della speranza

All’ombra di un albero so-stiamo davanti alla tomba di Lino Villachà, l’hanseniano in sedia a rotel-le, ridotto dalla

malattia senza gambe e con una sola mano rattrappita con cui brandiva una matita per scrivere i suoi poemi, lui che ha sorpre-so il mondo con il suo vibrante saluto al Papa Giovanni Paolo II nella visita del 1991. Aveva scel-to anche l’albero sotto il quale voleva essere sepolto per conti-nuare a godere della brezza del vento e del canto degli uccelli, giacché ai “lebbrosi” era impe-dita la sepoltura nei cimiteri co-muni…

I suoi giorni furono segnati dalla lotta contro i dolori, le bar-riere fisiche e anche la sordità che lo colpì nei suoi ultimi anni. Segnò la comunità con l’esem-pio di vita cristiana. Usò la pa-rola

come seme per lodare Dio. Riportiamo uno dei suoi testi,

altre informazioni si trovano al sito www.sjuliao.org/ita/lino.htm

INTEGROLa marea della vita mi ha portato questo mostroinvisibile che mi perseguita,notte e giorno,riducendomiad uno straccio umano.Quando volli allontanarlo,mi schiacciò le mani,quando tentai di scappare,mi falciò le gambe...Mi ha circondato,ma sempre ho trovatouna breccia dove passarecon ciò che mi restae, malgrado io siain questo mare di sofferenzaappena una conchiglia sul fondo,farò di questo doloreuna perla per il mondo.non voglio gridare,non malediròchi mi ha umiliato,o ebbe pena di me.I miei amicisono la mia forzae la luce di Dio mi copre di Grazia,e mi arricchisce di amore e di fede,perciò mi sento completo,anche se mi manca tutto...

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N

RAMATOU

“Andrai all’inferno!”

nigerRacconto di don Augusto Antoniol dalla missione

Non me l’ha det-to proprio così, ma l’effetto è sta-to quello di uno schiaffo, alla mia pelle bianca, alla mia religione, alla mia carità.

A mandarmi al diavolo è stata Mariamà, una vecchia donna nige-rina, povera, ammalata e affamata. Ramatou (Ramatù), sua nipote, mi aveva parlato di lei e subito ero partito con riso, sa-pone e paracetamo-lo per alleviare fame e dolori.

L’ho trovata a casa sua distesa su una stuoia di paglia. Mi ha fatto sedere vicino, mi ha of-ferto dell’acqua e mi ha sbattuto in faccia, in versione islamica, una formula che una volta si imparava anche da noi a catechismo: “Extra Ecclesiam nulla salus”.

È stata tutta colpa di Ramatou. L’avevo incontrata al mattino, io

rientravo da Messa e lei andava al lavoro. Mi aveva raccontato di sua nonna Mariamà, ma in verità era lei ad aver bisogno di qualcuno che l’ascoltasse.

Non gliel’ho chiesto, credo ab-bia tra i venti e i trent’anni. Un velo nero e leggero sulla testa che lascia intravedere delle belle trecce sotti-li e curate. Gli occhi tristi e stanchi di chi è abituato più alle lacrime che al sonno. Non ha più soldi per comprare le medicine, ha vergo-

gna di mendicare davanti alla mo-schea e non vuole vedere il suo corpo.

Il suo francese è corretto. La lascio parlare. Ha fre-

quentato qualche classe di scuola elementare che ha dovuto abban-donare alla morte della mamma per occuparsi della nonna. Ades-so lavora per un doganiere qui a Gaya, fa la “bonne” che qui vuol dire: donna delle pulizie, fattorino, cuoca, bambinaia, giardiniera… il

Abituato più alle lacrime che al sonno.

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tutto per un salario di 10.000 fran-chi al mese, 15 euro al cambio.

Insomma – anche se qui non si può dire – fa la schiava.

ZacharyRamatou mi dice che un vecchio

commerciante dai denti d’oro, Za-chary, l’ha chiesta in sposa, ha già due mogli, ma cerca novità nel suo letto. La religione e la legge qui lo permettono. Zachary vuole mostra-re a tutti che è ancora uomo, che può fare ancora figli e che gli affari vanno bene. E le altre mogli han-no bisogno di un aiuto per i lavori più pesanti e, penso io, di una riva-

le su cui scaricare nervi e gelosie. Il commerciante la corteggia, le fa qualche regalo, insiste. Ramatou dice che forse accetterà, ma non ora che deve occuparsi di sua non-na. Anche se non prova nulla per quell’uomo, almeno avrà qualcuno che la nutrirà e la proteggerà. Alme-no non sarà più indicata per strada come una buona a nulla che non ha trovato nessuno da maritare.

Il suo tesoroMi racconta della nonna. È tutto

quello che ha, il suo tesoro.Non importa se non cammina

più, se puzza di pipì, se perde la memoria, se si lamenta di tutto, se manda all’inferno i cristiani… È il suo tesoro! Vicino a lei si sente figlia e madre, dà e riceve amore,

prende fiato e si ricarica per affron-tare la vita a testa alta.

Ramatou benedice Allah per tut-to questo. Non si lamenta del pa-dre che l’ha abbandonata, della madre morta troppo presto, dei fratelli emigrati chissà dove. Bene-dice e basta!

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Sua nonna invece vuole mandar-mi all’inferno.

Mi avvicino a lei e ai suoi dolori. Non sento più la puzza di prima. Anche l’acqua che mi hanno dato da bere non ha più l’odore del-la plastica al sole e il sapore della sabbia. È buona e disseta. La sof-ferenza di Mariamà ha cancellato tutto ciò che intorno a me sembrava sgradevo-le. Sono io adesso che mi sento sgra-devole e ridicolo, col mio sacchettino in mano. Come una pulce davanti a una montagna di dolore.

Cerco di sorridere, gli metto vici-no il sacchetto della mia magra cari-tà e chiedo perché vuole mandarmi all’inferno così, senza complimenti, e che comunque mi sto allenando bene con i 47° gradi all’ombra di questo maggio nigerino.

Lei ha la risposta pronta, a me-moria, da libro di catechismo. Me lo dice nella sua lingua: “Mi dispia-ce che andrai all’inferno. Mi hanno insegnato che solo noi credenti sottomessi ad Allah abbiamo dirit-to al paradiso”.

Ramatou si vergogna un po’ e non vorrebbe tra-durre, ma io insisto anche se qualcosa ho capito. Allora abbassa gli occhi e parla come una pro-fetessa che mi sta svelando un destino crudele. Ancora non

ha finito di tradurre che la nonna riprende: “Ma forse ci hanno im-brogliato, perché se Allah è giusto e misericordioso non può manda-re all’inferno chi è buono e fa del bene.”

Lo schiaffo violento di prima si è trasformato in una dolcissima ca-rezza.

È sull’amore che saremo giudicatiIl Vangelo me l’hanno insegnato

loro oggi: “è sull’amore che saremo giudicati”.

Ringrazio dell’acqua e della lezio-ne.

Ritorno sui miei passi. Ramatou mi accompagna e mi saluta sulla strada.

Penso che lo Spirito Santo esiste davvero e non conosce frontiere, semina in tutti i campi. Si serve dei

più piccoli e dei più semplici per parlarci.

Mariamà è riuscita a rovesciare la maledizione del catechismo fonda-mentalista imparato a memoria.

Nessuno può ingabbiare la verità, ci sarà sempre un semplice, un sag-gio, un pazzo a liberarla.

È sull’amore che saremo giudicati.Grazie nonna Mariamà.Grazie dolce Ramatou.

Come una pulcedavanti a una montagna

di dolore.

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Notizie - N. 3043

BBussa al porto-

ne che già è buio. Chiede da mangia-re. È un giovane, stanco e sporco di un lungo viaggio. Alto, magro e forte di muscoli da mu-

ratore. Odora di viaggio, di sudo-re, di cipolle e di polvere. Non ha bagagli. Lo faccio entrare e sedere, servo acqua: prima l’acqua, dopo la parola, come si usa in questa parte di Africa.

Si chiama Bubakar e viene dal Mali martoriato dalla guerra civile e occupato a nord da gruppi fonda-mentalisti islamici con nomi che ri-chiamano rapimenti di cooperanti, esecuzioni sommarie, bombe nel-le chiese: Al Queida, Boko-Haram, Ansar-al-din, Mnla.

Bubakar è fuggito da Gao, città non lontana dal confine con il Niger,

è diretto a Cotonou in Benin dalla sorella e la fame lo ha fatto fermare a Gaya. Non ho niente di pronto in casa, solo del pane. Metto l’acqua sul gas, ho spaghetti di riserva in di-spensa e il sugo di aglio olio e pepe-roncino è rapido da preparare.

Beve ancora acqua e comincia a raccontare.

Bubakar è musulmano, ha venti-quattro anni, e conosce bene i cat-tolici. Ha frequentato per qualche anno la scuola dei missionari in Mali e ha capito che nelle Missioni si può trovare ospitalità. Mi dice: “non ti chiedono quale Dio preghi, da quale etnia provieni, se li rispetti ti rispettano e ti aiutano volentieri”. Per questo, arrivato a Gaya, ha chie-sto subito della Missione Cattolica.

Dopo avere svuotato un paio di bicchieri d’acqua , mi guarda negli occhi e parla.

BUBAKARnigerRacconto di don Augusto Antoniol dalla missione

Un lungo viaggio

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Gao“Padre, a Gao c’è l’inferno! Sono

arrivati gli Islamisti. Hanno armi so-fisticate, così potenti che i nostri soldati sono fuggiti. Quelli che si sono arresi sono stati uccisi sulla porta della caserma: un taglio net-to alla gola, come si fa per i mon-toni. Poi è iniziata la caccia ai cri-stiani. I missionari li abbiamo nascosti noi giovani e fatti fuggi-re di notte sulle piste del deserto. La chie-sa è stata bruciata, la missione devastata, la casa nuova delle suore è diventata il quartier generale di Boko-Haram, la setta che vuole eliminare tutto ciò che è occidentale. Non riuscivo a capire più niente: con i cristiani siamo sempre stati amici, noi an-davamo alla messa di mezzanotte e loro digiunavano con noi nel mese del Ramadan. Adesso in nome della religione li vogliono uccidere. Mia sorella è sposata con un cristiano e l’ha seguito in Benin, si amano, si rispettano, hanno un figlio. È li che sto andando per cercare lavo-ro e aspettare che in Mali ritorni la pace.”

L’acqua sul gas comincia a bollire, mi alzo per salarla e buttarci gli spa-ghetti. Bubakar mi chiede di lavar-si, non vuole entrare nella doccia, gli bastano un secchio d’acqua, un pezzo di sapone e un asciugamano. Si ritira in un angolo buio del cor-

tile e si lava. Lava anche i vestiti e li indossa di nuovo ancora bagnati. Gli chiedo se vuole una maglietta e mi ringrazia dicendo che l’indosse-rà a Cotonou, prima di bussare alla porta di sua sorella. Mentre gli spa-ghetti cuociono ricomincia a rac-contare. Adesso però non guarda

me, abbassa gli occhi.“A Gao c’era anche

Aissata. Volevo spo-sarla, facevo il mano-vale e risparmiavo per pagare la dote. Quan-do gli islamisti sono

arrivati hanno preso tutte le ragaz-ze. Alcune sono state violentate, altre obbligate a sposarli. Aissata non l’ho più vista, sono sicuro che è riuscita a scappare, perché è in-telligente e corre forte. So che ci ritroveremo.

Alcuni Islamisti sono venuti a casa mia, qualcuno era molto più giovane di me, quindici, sedici anni. Tutti armati, forse drogati con pillole, fumo e colla. Il loro capo ha detto a mio padre che noi non era-vamo dei buoni musulmani e che dovevamo convertirci, rasarci la testa e farci crescere la barba. I no-stri vestiti erano troppo occiden-tali e mia mamma doveva velarsi completamente. Hanno bruciato i nostri libri sotto l’albero del corti-le. La piccola televisione frutto del magro commercio di mia mamma l’hanno caricata in macchina. Non

È iniziatala caccia ai cristiani.

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Notizie - N. 3045

si può guardare la televisione a Gao.

Ma la cosa peggiore, quella che mi ha fatto fuggire, è arrivata dopo.

Ero andato con i miei amici a gio-care a pallone. Ogni domenica fac-ciamo una partita e per due volte la settimana, all’alba prima del lavo-ro, quando c’è un po’ di fresco, ci alleniamo.

Domenica scorsa, 13 maggio, eravamo sul terreno sabbioso per la partita. Quando gioco a calcio ri-esco a dimenticare tutto, anche le ferite che questa guerra sta provo-cando al mio Paese.

Una grossa auto arriva a tutta velocità sul cam-po rischiando di investirci. Dei ra-gazzi della nostra età, armati e cattivi, scendono dall’au-to e ci dicono che non è bene gioca-re a calcio, la loro “charria” lo vieta e che se conti-nuiamo ci saranno per noi frusta e prigione. Prendono il pallone e lo fanno in due pezzi con un gros-so machete. E ripartono sparan-

do in aria con i loro kalashnikov. Io e i miei amici non ci abbiamo più visto. Ci siamo incontrati la notte con altri giovani della città e abbiamo deciso di fare qualcosa. Una marcia pacifica, senza armi e senza violenza e poi andare tutti insieme a parlare con i capi Islami-sti. In fondo siamo tutti della stessa fede, preghiamo lo stesso Dio. Ma ci sbagliavamo, il loro Dio non è il nostro anche se porta lo stesso nome. Il loro è violento, non per-dona, non vuole che i giovani si di-vertano, usa le donne e ne fa delle schiave, ha paura del progresso, odia le differenze e spara per im-

porsi. E ci hanno sparato!

Lunedì mattina hanno sparato sul-la nostra piccola marcia nonviolen-ta, sulla nostra gio-vinezza e la nostra libertà, sui nostri

ideali. Grazie a Dio non ci sono sta-ti morti, ma Alì ha preso una pal-lottola nella gamba e non potrà più giocare a calcio, altri sono stati pre-si e frustati sulla piazza pubblica.

La speranza del ritornoIo sono riuscito a scappare. Non

ho neanche salutato i miei genitori. Conosco le piste, perché da piccolo portavo le capre a cercare la poca erba ai margini del deserto. Ho passato il confine, sono entrato in Niger e ho visto migliaia di Maliani

che scappavano dalle loro terre. Ho camminato sotto il sole del Sahel, sono salito sui camion di cipolle che scendono verso sud e sono ar-rivato fin qui. Adesso ho fame, par-don mon père, dammi gli spaghetti, non importa se non sono cotti…”.

“Hanno sparatosulla nostra giovinezzae sulla nostra libertà”

““

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46La perLa preziosa

Erano stracotti gli spaghetti, li avevo dimenticati. Bubakar ha preso una baguette di pane, l’ha aperta come per un panino, con le mani ci ha messo dentro gli spaghetti conditi al peperoncino e velocemente ha sbranato tutto. Poi, dopo aver bevuto un altro li-tro di acqua, ha chiesto di partire. Non ha voluto fermarsi a dormire, ci sono occasioni per viaggiare an-che di notte da Gaya per Cotonou. Ha preso la maglietta e un pane e ha accettato i soldi per la corriera.

Prima di salutare mi ringrazia e chiede una benedizione per lui, per Aissata e per chi ha lasciato a

Gao. Comincio il Padre nostro, lo conosce anche lui e lo preghiamo insieme. Poi ci stringiamo la mano e gli dico: “Bubakar, adesso tocca a te di benedirmi”. Lui sorride. È la prima volta che lo vedo sorride-re, neanche davanti agli spaghetti c’era riuscito. Pronuncia qualche parola nella sua lingua guardando il cielo stellato e si tocca la fronte.

Lo accompagno al confine, ci sa-lutiamo con un abbraccio. È notte fonda. Da Gaya a Cotonou sono 800 km, con un po’ di fortuna do-mani vedrà sua sorella. E la spe-ranza del ritorno darà senso alla sua vita.

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Notizie - N. 3047

S

BRIGIDO

La benedizione

PARAGUAYUn ricordo di don Luis Canal, in visita alla missione dove opera padre natale Fabris, missionario guanelliano di Canale d’Agordo

Siamo in Para-guay, nella missio-ne dove opera pa-dre Natale Fabris in Assuncion.

Brigido è un an-ziano, papà e non-no, di 79 anni. Due

figlie, una madre di due figli, ab-bandonata dal marito; l’altra, ada-giata in una barella sotto un albe-ro, con forti dolori, arriva da una chemio per un tumore alla testa. La prima ha lasciato il lavoro per dare

assistenza alla sorella malata. L’uni-co a guadagnare qualche spicciolo è Brigido, che raccoglie e vende bottiglie di plastica abbandonate per le strade o nei cofanetti delle spazzature. Il Governo non passa nessun medicinale ed allora deve provvedere lui, insieme alla solida-rietà del vicinato. Brigido dice: “La mia felicità è la salute e la benedi-zione della Madonna!”. Per questo chiede a padre Natale, per sé e per la famiglia, una benedizione, che il missionario impartisce di cuore!

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48La perLa preziosa

C

CHARLeS

Il coraggiodi sconfiggere le streghe

COSTA D’AVORIORacconto di don Ezio Del Favero dalla missione

Charles viene a chiedermi, per l’ennesima volta, di partire a Ka-nawolo con lui. Vorrebbe che an-dassimo nel suo villaggio natale, al

nord, in una regione più arida e più povera della nostra, per farmi conoscere i “suoi” centosettanta-cinque scouts.

Un giorno Charles mi chiede il permesso di fondare un gruppo di scout cattolici nel suo villaggio. Mi dice: “Sai, con voi a Sakassou ho fatto l’esperienza del gruppo, ho gustato la gioia e l’armonia, ho visto l’impegno nel lavoro e nello spirito di servizio, nei gesti e nei

progetti dei “tuoi” scout, ho sco-perto uno scoutismo veramente bello e grande, una vera e propria famiglia; direi che il Signore mi ha fatto arrivare alle sorgenti dello scoutismo ivoriano per indicarmi il cammino del successo! Da sem-pre avrei voluto diventare scout: da piccolo per “giocare a far il sol-datino”; a sedici anni per fondare un gruppo scout a Kanawolo, ma senza cognizione di causa... Oggi, con i miei vent’anni, lo scoutismo è diventato realtà, un sogno in par-

te realizzato, un bene più impor-tante del mio stes-so “io”, una realtà magnifica, parte integrante di me

stesso. So solo che se non fossi scout e cristiano non sarei cosi a mio agio... ovunque, anche quan-

“Il cammino del successo!”“

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Notizie - N. 3049

do ho fame. La mia storia è cam-biata in meglio... Adesso mi sento riempito di fede, ho una grande voglia di scoprire, di lottare, di vi-vere... e grazie a voi, riesco final-mente a superare difficoltà prima insormontabili perché mi impon-go di farcela.

Mia nonna è la strega del villag-gio... Quando abitavo con lei, ho visto ogni genere di stregoneria: la stregoneria incute paura, abitua alla falsità, rende schiavi.

Penso spesso ai giovani rimasti al villaggio, vittime dell’ignoranza, della miseria, dei feticci e della stre-goneria. E così mi metto a sognare. Vorrei che quei giovani vivessero liberi, che ritrovassero la dignità e la possibilità di uscire dalla miseria e dalle paure: che fossero felici! Mi sono allora chiesto: che cosa posso fare io? Ho cercato possibi-

li soluzioni, oggi penso proprio di averne trovata una, più forte della magia e delle paure: lo scoutismo, quello che avvicina al Dio che sal-va...” Lo scoutismo potrebbe infatti sconfiggere l’ignoranza, con i suoi corsi di alfabetizzazione e le aper-ture senza frontiere; potrebbe de-bellare i feticci, sinonimi di falsità e di ignoranza, proponendo il Dio buono dei cristiani; potrebbe aiu-tare ad uscire dalla melma del sot-tosviluppo e della miseria, con le sue proposte concrete di sviluppo socio-sanitario; potrebbe sconfig-gere le paure attraverso il coraggio esplosivo del camminare insieme.

Charles, per l’ennesima volta mi supplica di partire a Kanawolo per-ché i suoi ragazzi scout mi aspet-tano per ripetermi dal vivo quella splendida frase scrittami a Natale: “Grazie, figlio del Dio buono...”.

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50La perLa preziosa

S

DUe GeMeLLe

Le due gemelle siamesi

TAnZAnIAUn ricordo di don Luis Canal in visita alla missione in cui opera suor Giu-lia Saviane, missionaria della Consolata

Siamo in Tanza-nia, a Iringa, dove ha sede la Casa Provincializia delle Missionarie del-la Consolata fra le quali c’è anche suor Giulia Saviane.

Durante la Messa che ho la gra-zia di celebrare nella comunità di Ilamba, mi ha richiamato l’attenzio-ne una carrozzella nella quale giace-vano due gemelle siamesi, vivacissi-me, intelligenti, 19 anni di età (la loro sopravvivenza è già un miracolo…). Erano nate nell’ospedale di Ikonda e rimaste in consegna alle Missio-narie della Consolata per sottrarle ad una brutta fine che probabil-mente le avrebbe aspettate, perché in quella cultura la famiglia tende a disfarsi di casi come questi, ritenuti “maledizione” di Dio.

Qui nella missione sono accudite e coccolate da tutti.

Ora Maria e Consolata (così le hanno chiamate al Battesimo), han-no finito come prime della classe i corsi della Secondaria e si appre-stano ad entrare all’Università, con una gran voglia di diventare inse-gnanti.

Ho inviato la loro foto ad amici in Italia, era il 5 febbraio, Giornata del Movimento per la Vita ed ho avuto una bellissima risposta: “Questo è

stato il più bel mes-saggio per la Gior-nata della Vita!”La famiglia tende a disfarsi

di casi come questi.

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G

FRÉDÉRIC

Soli come nel mezzodi un deserto

COSTA D’AVORIOUno scritto tratto dal libro su Grégoire Ahongbonon (“Grégoire – Quando la fede spezza le catene” – di Rodolfo Casadei)

Gli occhi sus-sultano, la voce sussulta, le mani e le braccia accom-pagnano le parole con gesti appro-priati: «La mia vita per strada era pe-

nosa, era difficile, perché non ave-vo più i genitori. Mia madre e mio padre sono morti. Ero sempre spor-co come un maiale, dav-vero. Come un maiale, lo giuro!»

Frédéric è uno dei tanti malati – qualche miglia-io – che Grégoire e i vo-lontari della San Camillo in tutti questi anni hanno portato via dalle strade delle città africane e hanno ospitato nei centri di ac-coglienza. «Siamo l’unica struttura sanitaria al mondo che va in giro a cercarsi i malati!», scherza ogni

tanto Grégoire. […]Portare via i malati mentali dalla

strada è come raccogliere funghi in un bosco: basta tornare dopo pochi giorni e se ne trovano ancora nello stesso posto o poco più in là. Espul-si dai villaggi, cacciati dalle famiglie, evitati da tutti. Continua Frédéric: «Chi si occupava di me? Nessuno! Avevo dei conoscenti e amici pri-ma di ammalarmi. Ma dopo, non

veniva più nessuno. A tutti dicevano: “Non av-vicinarti a lui! È malato, ti farà del male!”. Alcuni si avvicinavano per aggre-dirmi, per tirarmi delle pietre, soprattutto bam-

bini. Prima di tirare i sassi dicevano: “Guardate, c’è un matto!”. A volte andavo a rovistare nella spazzatura delle case dei bianchi. E cercavo, cercavo: a pensarci adesso viene da ridere, mi sembra incredibile. Il

“Guardate,c’è un matto!”

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fatto è che non c’era nessuno che mi desse qualcosa da mangiare. Ero solo come se fossi nel mezzo di un deserto. Un giorno è arrivato que-sto signore. Mi ha detto: “Ti porte-rò in un posto dove puoi riposarti, e vedrai che tutto si sistema”. Lui si era avvicinato e io l’ho respinto. Se n’è andato. Il giorno dopo è torna-to, e la seconda volta non è stato un brutto incontro. La fiducia è nata dal modo in cui mi ha parlato. Non lo fanno tutti: era la prima persona, da quando vivevo per strada, che mi ispirava fiducia. Ormai non ave-vo più speranze di tornare a vivere

normalmente. Credevo che la mia vita fosse finita, che si sarebbe con-clusa là, in quell’incrocio stradale. Al centro della San Camillo ho pre-so molte medicine, che mi hanno fatto stare meglio. Tutte le voci che sentivo prima, adesso non le sento più».

Frédéric racconta la sua storia all’interno di un bellissimo docu-mentario, di produzione spagnola (Aigua Films), che s’intitola Grégoi-re Ahongbonon, testigo del evan-gelio, forse la cosa più poetica e commovente che sia stata girata su di lui.

Malati che curano malatiNei centri, a prendersi cura dei

malati, sono soprattutto altri ma-lati: malati guariti o stabilizzati, al-cuni dei quali diventano infermieri e poi vengono assunti. Dunque ci sono tre livelli di “malati che aiu-tano altri malati”: il semplice aiuto fra compagni di stanza, dove quel-lo in migliori condizioni aiuta quel-lo più in difficoltà; i malati guariti o stabilizzati che svolgono mansio-ni non qualificate all’interno dei centri e ricevono qualche forma di compenso: i malati diventati in-fermieri o operatori specializzati, assunti, messi in regola e retribuiti.

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Notizie - N. 3053

V

eMILe

Il miracolo della Rinascita

COSTA D’AVORIORacconto di don Ezio Del Favero dalla missione

“Voglio rispar-miare i soldi dei polli per il giorno del mio battesimo, per comprarmi un paio di pantaloni e una camicia...”

Avevo un vestito “giacca-pantaloni” col quale ero arrivato dall’Italia nel giugno del 1990. “Prendi, Emile... vai via prima che mi penta!”.

Ero proprio fiero di lui... Contento di poter dare a quel giovane così caro un regalo impor-tante per il giorno più significativo della sua vita.

Prima che Emile se ne vada, gli chiedo di raccontarmi ancora una volta la sua storia... Emile si mette a raccontare: “Ero uno dei tanti. Pie-no di sogni e una grande voglia di tentare la fortuna. Dopo la scuola, ho provato l’ebbrezza della città, lì ho imparato a fare il male e ho sperimentato momenti di grande

delusione. Gli anni passavano ed io rimbambivo, ero sempre più po-vero, senza lavoro, senza neanche più sogni e prospettive. Rimasi or-fano.

Decisi un giorno di ritornare al villaggio. La vita là era dura: lavoro sui campi, qualche partita di calcio la domenica, qualche festa popola-

re. Io mi sentivo pro-fondamente scon-tento. Un giorno, “per caso”, Koffì mi parla della sua espe-rienza scout. Koffì,

l’avevo conosciuto al mercato. Era-vamo diventati amici per un pic-

Decisi un giornodi ritornare al villaggio.

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cione. La zia con cui abitavo non mi dava quasi nulla da mangiare ed io ero obbligato ad allevare piccioni e porcellini d’India per tacitare lo stomaco. Quel giorno avevo portato un paio di piccio-ni al mercato per venderli. Koffì, scherzando, mi aveva chiesto di arrostirli sul posto. Così feci; quel giorno diventammo amici e Koffì mi trasmise il virus contagioso di nome “scoutismo”... Due giorni dopo sono venuto da voi...”.

Insisto con Emile, che continui la storia... E lui, senza farsi prega-re, racconta: “Ho avuto quasi su-bito dei posti di responsabilità nel vostro scoutismo, fino a diventa-re, un anno dopo, responsabile di zona per la branca esploratori. Ho cominciato, nello stesso momen-to, il catecumenato per diventare cristiano... E pensare che ero riu-scito per quasi trent’anni a sfuggi-re ai preti e ai missionari!

Poi, grazie a un pollaio, costru-ito insieme a un gruppo di scout francesi, ho potuto trovare un po’ di lavoro alla Missione. Ho abbandonato la vita amorfa del villaggio, con le sue abitudini a volte selvagge, i suoi ritmi lenti sino a diventare insignificanti, le stagioni con i loro magri raccol-ti, l’assenza d’interessi e di pro-spettive… per dedicarmi a tempo pieno allo scoutismo. Ho aperto nuovi gruppi scout: Awe Kansin,

N’guessan Pokoukro, Appiakro, Kpangbassou, Mandeké, Assrikro; ho cominciato a seguire, almeno una volta alla settimana, gli scout di Andofué Bonou, Alloko Djekro, Andobo, Sakassou... e ad insegna-re il catechismo... In quel periodo avevo completamente cambiato le mie abitudini: mi sforzavo di mettere in pratica i valori dello scoutismo e di vivere i dieci co-mandamenti (... tutti e dieci!) e ho imparato ad accontentarmi, a condividere, a rispettare le ragaz-ze, a controllarmi, a rendermi di-sponibile. Per la prima volta in vita mia, mi sono sentito felice...

Poi ho conosciuto una ragaz-za, una “vostra” guida, diversa da quelle di prima... Se Dio lo vuole, proveremo ad amarci in modo cri-stiano...

Emile ancora non sa che sto per proporgli la direzione della nuo-va base scout di Yablassou, un centro di formazione capi e un laboratorio di formazione profes-sionale per insegnare a lavorare il

legno, il ferro, il cuoio...

Sto per bat-tezzare chef Emile... Il vesti-to e la cravatta

parlano di dignità conquistata, gli occhi lucidi dicono gioia, la ragaz-za lì accanto e i responsabili scout presenti aspettano solo di abbrac-ciare e di far festa al loro caro Emi-le, rinato a 33 anni per una sorta di miracolo...

Sto per battezzare chef Emile...“

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Notizie - N. 3055

M

BeNJAMIN

«Per me è ubriaco!»

LondraRacconto di Mario Bottegal

Mi è giunta, i n a s p e t t a t a , una lettera di Benjamin da Londra. È un invito a parte-cipare ad un avvenimento

straordinario. Vi voglio racconta-re di lui.

Una quindicina d’anni fa mia fi-glia, con altre due ragazze, aveva preso in affitto un appartamento a Londra, dove aveva cominciato a lavorare e, quello accanto, era af-fittato ad un uomo sui 35 anni. Non c’era quasi mai e, quando ritornava, usciva raramente. Le ragazze erano curiose e perciò cominciarono ad andare a suo-nargli il campanello con la scusa di chiedere in prestito zucchero o latte. Qualche volta, ma non sem-pre, lui apriva e si dimostrava sì di-sponibile ma anche un po’ strano.

«Per me è ubriaco!» sentenziò So-fia che era la più perspicace delle tre. Una volta che andai a Londra, ospite della mia figliola, mi dissero che anche Benjamin era tornato e mandarono me a fargli visita con qualcuna delle solite scuse. Al ter-zo tentativo mi aprì la porta e credo sia rimasto male vedendo me anzi-ché una delle ragazze ma mi fece entrare. Il caos regnava sovrano e…Sofia aveva ragione, era ubria-co. Per farla breve, questo non fu il nostro unico incontro. Nonostante tutto una certa simpatia si instau-

rò tra noi e comin-ciammo a vederci. Parlammo molto, sebbene lui, spes-so, non fosse com-pletamente lucido. Venni a sapere che

faceva il reporter per la BBC e le sue destinazioni erano sempre nei posti più sconvolgenti del mondo. Era stato in Vietnam, in Cambogia e in molti altri luoghi dove c’era in corso una guerra; in Nicaragua

Era costretto ad ubriacarsi per dimenticare.

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ai tempi del dittatore Somoza; poi, ultimamente nei Balcani, in Bosnia. Mi disse che ogni volta che torna-va era costretto ad ubriacarsi per dimenticare le atrocità alle quali aveva assistito. A supporto di ciò mi mostrò varie foto da lui scattate. Anch’io gli raccontai del mio impe-gno nel campo missionario; lui si dimostrò molto interessato e, l’ul-tima volta che ci incontrammo, mi

chiese se potevo farlo parlare con un sacerdote. Lo presentai al par-roco della chiesa cattolica, lì vicino, che anch’io frequentavo.

Le ragazze cambiarono casa e non l’ho più visto. Ogni tanto una cartolina dal mondo come altret-tanto facevo io.

Oggi questa lettera inaspettata. Benjamin sabato prossimo prende-rà i voti e mi invita. Ci sarò!

Qualche anno dopo: sacerdote e missionarioFu una sorpresa e da quel giorno

rimanemmo in contatto epistolare abbastanza frequentemente. L’ul-tima volta che ci incontrammo, sempre a Londra, mi disse che era missionario in Siria. Non potei esi-mermi dall’ironizzare sul fatto che non poteva stare lontano dai luo-ghi pericolosi.

Qualche settimana fa, mi trova-vo a Londra per l’ennesima volta e, inaspettatamente ricevetti una sua telefonata. Anche lui si trova-va in città, convalescente da una malattia, per cui decidemmo di vederci. Fu un incontro veramen-te bello. Chiacchierammo a lungo toccando tutti gli argomenti di no-stro interesse. Seppi così che da un po’ di mesi si trovava in Ciad ed era appunto qui che, purtrop-po, si era beccato una malattia tropicale, fortunatamente in via di guarigione. Ho riscontrato in lui una grande voglia di ritornare dalla “sua gente”, come mi disse. Mi ha mostrato una carica immen-

sa verso quello che stava facendo e ciò mi ha dato un grande pia-cere. Non ho potuto non fare un parallelismo tra quando lo conob-bi, ubriaco, e ora. È proprio vero, come diceva don Sergio Buzzatti: “La missione tempra lo spirito e fortifica i caratteri!”

Fu con dispiacere per entrambi che venne il momento di salutar-ci. Il giorno dopo sarei ritornato in Italia.

Dio ti assista e ti benedica Padre Benjamin!

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Notizie - N. 3057

O

OSCAR

Il clown… di Dio finalmente!

COSTA D’AVORIORacconto di don Ezio Del Favero dalla missione

Oscar è un ragaz-zo “artista”, sensi-bile, irrequieto e difficile.

Ballerino alla “Don Lurio”, ca-pobanda alla “Tom Sawyer”, recalci-

trante, Oscar si presenta un giorno da me chiedendomi di diventa-re scout e cristiano. “Perché?” gli chiedo... “Perché mi piace creare un ambiente allegro, cantare, per-ché sono stufo di poltrire, perché voglio diventare “qualcuno”, per-ché ho sentito spesso parlare di voi...”. Messo alla prova, Oscar risulta essere una “frana” su tutti i fronti: ner-voso, attaccabrighe, provocatore, violen-to, trascinatore... nel male, clown anche nei momenti seri, arrivista. Mi sforzo di essere paziente con lui e di aspettare la sua conversione... A lungo andare, però, Oscar crea parecchi proble-

mi: crea una sorta di “banda scout” provocatoria e ribelle...

Mi sforzo di rimanere calmo... anche quando Oscar, ubriaco, straccia la sua carta d’identità scout davanti al Commissario scout e al viceprefetto e viene messo in pri-gione per due giorni. Anche quan-do, durante un’uscita, prende a botte un ragazzo di un villaggio, fe-rendolo ad un occhio e rischiando il linciaggio.

Il giorno in cui ho l’impressione che Oscar cerchi di ingannarmi in una questione di soldi... solo allora “scoppio”. E lui si mette a piangere:

“Sai, non mi interes-sa di convincerti che mi stai giudicando male; sappi solo che ti voglio un sacco di bene, non ho mai amato una persona

come amo te”. Gli chiedo di star-sene quaranta giorni lontano dal gruppo. Ma lui non ce la fa. Non può rimanere a Sakassou, senza incontrare il mondo nel quale pa-

Lupo ammansitoo leopardo in agguato?

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droneggia... Decide allora di andar-sene per quaranta giorni.

Un anno dopo, Oscar mi viene a trovare. Pensavo che non l’a-vrei più rivisto e l’idea mi allietava poiché in sua assenza i “ribelli” si erano nel frattempo lasciati addo-mesticare. Oscar mi dice: “Sono cambiato! La punizione mi ha fatto soffrire troppo... Non pensare che ti stia mentendo... Mettimi alla pro-va!”

Comincio a sgridarlo, a urlargli addosso tutta la rabbia che mi ave-va fatto accumulare un anno prima, lo svergogno davanti ai suoi amici, dò loro un avvertimento: “Chi par-la con lui sarà automaticamente escluso dal gruppo!”.

Oscar il temerario, lui che un anno prima mi sarebbe saltato ad-dosso, adesso tace!

Lupo ammansito o leopardo in agguato? Gli chiedo di aspettare ancora quaranta giorni... Quaranta giorni dopo i suoi amici vengono a trovarmi: “Oscar è cambiato sul se-rio, chiede di parlare con te!”.

Sei mesi dopo, qualcuno pro-porrà di dare ad Oscar il “Gilwell ‘94”, il fazzolettone dato al migliore scout dell’anno, scelto tra i due-mila scout della zona di Sakassou. Vedremo! Sta di fatto che Oscar si era convertito e stava trascinando i suoi vecchi amici, talvolta stanchi, scoraggiati o nervosi, sulla via del bene.

Ha cominciato a frequentare la chiesa, fa parte del coro, ha crea-to una compagnia teatrale scout,

ha fondato insieme ad un altro ex-recalcitrante un gruppo scout in un villaggio prima “impermeabi-le”, refrattario a ogni proposta “da bianchi”, ancorato alle credenze animiste; è richiesto qua e là per entusiasmare con i suoi “numeri” i gruppi scout stanchi, ha organiz-zato una lotteria per aiutare i suoi amici poveri a partecipare al cam-po estivo; ha lavorato con impegno per la costruzione di una chiesetta nel “suo” villaggio adottivo, quello refrattario; ha smesso di impor-tunare gli altri, ascolta i capi e mi chiede con insistenza di poter aiu-tare amici scout di altri villaggi...

Tra le canzoni composte in que-sta nuova fase, alla “Bob Dylan”, Oscar canta: “Diamoci la mano... insieme... Noi, scout di Sakassou, dobbiamo amare il nostro Dio... Sei il tempio di Dio, non distrug-gerti, fratello! Mano nella mano, basta con la guerra... figlio di Dio!”

E gli altri lo acclamano cantando quelle melodie... grati del suo mi-racoloso, quanto meno inaspettato esempio...

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Notizie - N. 3059

M

MONS. MUNZIHIRWA

Il prezzo della fedeltà

R.D.DEL COnGOUno scritto di don Luis Canal, in seguito alla visita nelle missioni nella R.D.del Congo

Mons. Mun-zihirwa, ve-scovo di Buka-vu (R.D.del Congo) è chiamato l’O-scar Romero dell’Africa!

E a ragione, perché, come questi, è stato ucciso vigliaccamente pro-prio perché, come Buon Pastore, cercava di difendere il suo popolo, assieme alla folla disperata di povere famiglie ruandesi hutu che, dal 1994 erano fug-gite ai massacri e alle vendette della guerra ci-vile di Ruanda e si erano ammassa-te nella regione del Kivu, lungo le frontiere Est del Congo, trascinan-do con sé odio, vendette e violenze a non finire.

In questa fedeltà all’uomo e a Dio, il 29 ottobre 1996, Munzihirwa andò incontro alla morte, capofila di un’immensa schiera di vittime (6-7 milioni…) massacrati in quella

regione in 20 anni di guerre e guer-riglie: una moltitudine di martiri per la fede o per la carità come dir si vo-glia!

Il suo ultimo messaggio ai suoi preti, alla vigilia della morte: “Caris-simi fratelli, continuiamo a restare dove ci troviamo! Restiamo con il nostro popolo; non scappate via!” E al suo popolo: “Restiamo saldi nella fede. Noi abbiamo la speranza

che Dio non ci abbando-nerà, e che da qualche parte del mondo sorgerà per noi un piccolo ba-gliore di speranza. Dio non ci abbandonerà, se ci impegneremo a rispet-

tare la vita dei nostri vicini, a qua-lunque etnia appartengano. Affidia-moci alla B. Vergine del S. Rosario”.

Nell’anniversario del suo sacer-dozio (17.8.1983) aveva fatta sua questa Parola:

“Nella misura in cui partecipa-te alle sofferenze di Cristo, ralle-gratevi perché anche nella rive-lazione della sua gloria possiate

“Restiamo saldi nella fede”

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rallegrarvi ed esultare” (1Pt 4,13). “Prima della mia ordinazione ho desiderato che questa parola illu-mini i miei sentieri. Da tanto tempo supplico Cristo di darmi la grazia di conservare nel mio cuore que-sto messaggio. Che il ricordo della Sua croce resti nel più profondo del mio essere, affinché io lo segua con coraggio come un vero compagno di strada, e senza più allontanarmi da Lui, fino al momento in cui la

mia corsa terrestre arriverà alla fine. Che giungendo al Cristo io mi ripo-si in Lui, vero riposo”.

Ora questa grazia è giunta al suo pieno compimento!

“Ora vedo il baobab, l’albero for-te del martire Munzihirwa – ha det-to una donna. Hanno ucciso il suo corpo, ma non il suo spirito.” Ricor-dava che lui aveva detto: “Il Signore faccia di me un vecchio sempre de-buttante.”

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Notizie - N. 3061

I

SHAHBAZ BHATTIPAKISTAnTestamento spirituale di Shahbaz Bhatti

“Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, inse-gnante in pensio-ne, e mia madre, casalinga, mi han-

no educato secondo i valori cristia-ni e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia in-fanzia.

Fin da bambino ero solito an-dare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaven-tose condizioni in cui versavano i cristiani del Paki-stan mi sconvol-sero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai

di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islami-co.

Mi sono state proposte alte cari-che al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stes-sa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».

Questa devozione mi rende fe-lice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio

solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carat-tere, le mie azioni

parlino per me e dicano che sto se-guendo Gesù Cristo. Tale deside-rio è così forte in me che mi con-sidererei privilegiato qualora – in questo mio sforzo e in questa mia

Vivere e morire per Cristo

Sto seguendo Gesù Cristo.““

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battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese.

Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di imprigio-narmi; mi hanno minacciato, per-seguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estre-misti, qualche anno fa, hanno persino chiesto ai miei ge-nitori, a mia madre e mio padre, di dis-suadermi dal con-tinuare la mia mis-sione in aiuto dei cristiani e dei biso-gnosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio padre mi ha sempre incorag-giato. Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bi-sognosi, i poveri.

Voglio dirvi che trovo molta ispi-razione nella Sacra Bibbia e nel-la vita di Gesù Cristo. Più leggo il

Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario.

Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi». I passi che più amo della Bibbia recita-no: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero fore-stiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, mala-to e mi avete visita-to, carcerato e siete

venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.

Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.

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Notizie - N. 3063

P

PADRe ADRIeN

Più forte dell’odio,più forte del sangue!

COSTA D’AVORIORacconto di don Ezio Del Favero dalla missione

Pére Adrien, mis-sionario francese, ucciso nella mis-sione accanto alla nostra, la sera del 14 febbraio 1993 a scopo “sacrificale”. Quel sangue, ruba-

to da selvaggi per compiere sacrifici “diabolici”, ha generato e innaffiato un grande e meraviglio-so giardino “scout”.

Un paio di mesi prima ero andato a trovare pa-dre Adrien per aprire un gruppo di scout cattoli-ci nella sua parrocchia di Béoumi. Lui aveva accettato di buon cuore l’idea, dando la sua piena disponi-bilità.

In seguito, i futuri scout lo con-quisteranno, ottenendone l’appog-gio. Il padre era entusiasta di quei

giovani che si sentivano incoraggia-ti da lui.

Durante i funerali conoscemmo altre qualità di Père Adrien dalla voce di un confratello: “Adrien era una potenza d’accoglienza ecce-zionale. Chi veniva non era mai ri-gettato. Una persona arriva con la sua tristezza... Adrien la consola; uno arriva con i suoi problemi...

Adrien lo consiglia; uno arriva semplicemente per restare un pochi-no con lui, per gustare la sua amicizia, la sua fraternità... che riman-

ga qualche ora, qualche giorno! Adrien viveva volentieri nei nostri villaggi, condividendone la vita quotidiana, dormendo là dove voi dormite, mangiando quello che voi mangiate: amava vivere nei vostri villaggi, essere vicino a tutti, vec-

Vedrai il segno delle ferite.

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chi, giovani, bambini. Elastico, facil-mente adattabile, a suo agio ovun-que, Adrien era un uomo libero e indipendente, l’esatto contrario del bigotto e del lecca-piedi. Non ama-va le costrizioni, lui stesso non im-poneva, non decretava: proponeva ed ascoltava... È proprio quel prete di qualità che ci hanno strappato, quell’uomo di bene, quell’uomo di Dio, assassinato di notte allo stesso modo di come fate qui con le be-stie selvagge della savana. Dio Pa-dre, ecco tuo figlio che arriva: viene da Te come Gesù; guarda: è vestito di bianco... ma se guardi bene, sul suo corpo vedrai il segno delle fe-rite. Chiama Tommaso, che guardi, che tocchi! Adrien ha piantato, ha lavorato, ha seminato la Parola di Dio, annaffiandola col suo sudore. Quella Parola è germinata, ha por-

tato dei frutti. E da qualche giorno, annaffiata di sangue, è destinata a crescere ancora di più... Assassini! Non vale la pena che vi affanniate ancora... Quando uccidete dei pre-ti, uccidete il Cristo... e lui è più for-te della morte, è più forte dell’odio. Credete di uccidere la Chiesa? E proprio grazie al sangue che pianta radici e poi cresce e poi porta frutti: grazie al sangue...”.

Un grande e meraviglioso giardino quello di Béoumi, fatto oggi di oltre duecento giovani scout cattolici. Fi-gli di Dio, nati dall’esempio e sboc-ciati dal sangue di Pére Adrien quei duecento germogli testimoniano, con la loro presenza, il loro impegno e le loro scelte, la forza e la fragilità del fragile involucro del seme, de-stinato, una volta caduto in terra, a portare molti frutti... davvero!

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Notizie - N. 3065

(Ts’ehayi). È una parola amari-ca. L’ho imparata ad Addis vener-dì sera. (Ts’ehayi) ovvero Sole. L’ho imparata tra mille suoni di clacson

e mentre una tempesta di pioggia e di vento si abbatteva sulla città. Sole era seduta per terra, rannic-chiata, con le braccia strette intor-no alle gambe magre, dimentica di tutto, delle macchi-ne, del freddo, di sé e del mondo che cor-reva in tutte le dire-zioni per cercare un riparo. Sole ha nome di luce, ma occhi spenti e un sonno antico che sfibra ogni muscolo del suo corpo e riempie di pieghe il suo viso. Sole è una matta, di quel-

le che parlano per ore con un palo della luce e spaventano la luna e i randagi con lo strazio del loro do-lore. Sole è uno scarto, un’ombra nera nel buio di una lunga notte nera. I nostri occhi l’avevano attra-versata, come se non avesse consi-stenza e il nostro cervello non era riuscito a registrare la sua presen-za. È stata Teghnesh a costringere i nostri occhi a vedere e riconoscere in quell’ammasso di stracci bagna-ti la presenza di Sole. Ma Sole non

voleva salire sulla nostra macchina. Lei che a guardarla avrà pesato si è no 50 kg sembrava pesante come una montagna

di piombo. Cinque uomini e non si riusciva a sollevarla di un centime-tro: a credere che, a furia di resta-re accovacciata nello stesso posto,

Un altrove dove le domande non possano arrivare

SOLeETIOPIAPadre Amedeo Cristino racconta il suo incontro con Sole

TSole ha nome di luce,

ma occhi spenti.

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radici fossero spuntate da lei e che ormai fosse ancorata saldamente a quel piccolo pezzo di marciapiede. Una volta alzata abbiamo capito il perché del suo attaccamento alla terra: Sole era seduta su un sacco di monetine. 40/50 kg di monetine. Una vita intera di elemosine rice-vute, covate, accarezzate, scaldate col suo corpo. Cosa rappresentano per te quelle monete mai spese? Perché le conservi? Per trattenere e custodire i sorrisi che le accom-pagnavano, gli sguardi che per una volta si erano attardati sul tuo vol-to, per sentire sul tuo corpo la con-sistenza di un atto di generosità che placa per un attimo il caos che rimbomba nella tua testa? Quante domande dentro di me e nessuno a cui rivolgerle perché Sole è lonta-na, in un altrove dove non arrivano le domande e le risposte non sono più necessarie. La portiamo a casa e Sole passa tutta la notte seduta sul suo sacco di monete, rannic-chiata in un angolo della stanza, con le braccia strette intorno alle gambe magre, dimentica del letto e delle coperte, del tè caldo e del profumo dello shirò e dimentica di noi che davanti a lei misuriamo la velleità della nostra carità. Dove sei Sole? In quale cielo risplendi? Chi o che cosa ti ha portato così lontano? Il giorno di sabato avrem-mo dovuto tornare a Kofale, ma l’abbiamo passato in macchina con Sole dietro al cassone seduta sul suo sacco di monete, a fare la spola tra stazioni di polizia, ospe-

dale psichiatrico, varie case di ac-coglienza e le suore di Madre Tere-sa. Nessuno ha voluto Sole: troppo pazza per alcuni troppo poco per altri, non abbastanza pericolosa per alcuni e troppo invece per altri. Abbiamo riportato Sole a casa no-stra ad Addis e domenica mattina presto siamo partiti per rientrare a Kofale. Sole è sempre seduta in un angolo della stanza sul suo te-soro di elemosine. Teghnesh pro-va ad occuparsi di lei e domenica sera senza opporre resistenza Sole si è staccata per la prima volta dal suo sacco e si è lasciata lavare il corpo e tagliare i capelli. Che fine farà Sole? Troveremo qualcuno che potrà accoglierla? Sparirà mai tutta quella sua stanchezza sul suo viso? Quante domande. Troppe. Ora è tardi e anch’io vorrei abitare in un altrove dove le domande non possano arrivare e le risposte non siano più necessarie.

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Notizie - N. 3067

H

LUCA

“Tutto quell’affettoche non avevo ricevuto”

ITALIATestimonianza di Luca Conti – nuovi Orizzonti

Ho iniziato a 12 anni a fare uso di droghe leggere con degli amici più grandi che mi da-vano tutte quelle attenzioni, tutto quell’affetto che

non avevo ricevuto dai miei geni-tori: probabilmente loro non erano neanche in grado di darmeli. Poi a causa di un tradimento ho iniziato a bere. Andavo la mattina a scuola già ubriaco.

A 14 anni ho co-nosciuto l’eroina, sempre con questi amici. C’è stato il primo buco e non l’ho fatto senza la speranza che fos-se il primo e l’ultimo… però non è stato così, perché all’inizio mi pia-ceva, mi permetteva di relazionarmi

con gli altri, mi permetteva di supe-rare e accettare il tradimento che avevo patito. Ben presto però mi sono ritrovato solo: dei miei amici chi è morto di overdose, chi per in-cidente, uno è finito addirittura in psichiatria.

A 18 anni poi ho subìto un duro colpo: mi hanno accusato ingiusta-mente di omicidio colposo per la morte di un amico mio. Mi è crolla-to il mondo addosso e ho iniziato a

rubare e spacciare. All’età di 20 anni

sono stato arresta-to, ma anche dopo aver provato il car-cere, ho continua-

to a fare la stessa vita fino all’età di 29 anni quando c’è stato il secondo arresto. A quel punto sono tornato a casa e ho cominciato la fase dell’a-stinenza: stavo male e sono stato

“Se Dio veramente esiste, che mi ascolti!”

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per tre settimane a letto con dolori atroci.

“Se Dio veramente esiste, che mi ascolti!”

Mia madre mi faceva i massaggi per calmarmi gli spasmi. In un mo-mento di lucidità ho pensato dentro di me: “se Dio veramente esiste, che mi ascolti!” e ho iniziato a pregare. Fortunatamente Gesù mi ha ascol-tato e, mentre pregavo, ho ricevu-to una chiamata di una ragazza di Nuovi Orizzonti che mi ha lascito il contatto della Comunità di prima Accoglienza di Roma. Ho avuto la forza e il coraggio di alzarmi dal let-to e chiamare subito a quel numero e sono entrato.

Il primo periodo in Comunità è stata un po’ dura, ma piano piano ve-devo che la parola di Dio, che tutte le mattine leggevo con la meditazio-ne del Vangelo, stava facendo strada nel mio cuore: questo è stato il mio primo incontro con Gesù. Il cammi-

no è stato lungo e faticoso, con ca-dute e risalite, ma finalmente la luce è comparsa in fondo al tunnel.

“Sono un miracolo”Da ormai alcuni anni, cammino

secondo lo stile e la novità di vita di Nuovi Orizzonti e, nonostante le mie povertà, il Signore mi ha fatto dei regali incredibili: in modo del tutto insperato ha fatto rinascere in me la speranza, ormai chiusa da anni, di un progetto d’amore per sempre da costruire con una splen-dida donna con cui ho detto il mio SI nel sacramento del matrimonio l’anno scorso.

Certo, io sono un caso impossibi-le, ma posso anche dire che sono un miracolo. Ero un morto che cammi-nava e nessuno scommetteva più su di me, invece eccomi qua a raccon-tare la mia vita.

Altre testimonianze al sito:www.nuoviorizzonti.org

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Notizie - N. 3069

S

SILVANO

Risorgere prima di morire

ITALIAAldo Bertelle ci presenta Silvano, storia di risurrezione dalla vicina Co-munità di Villa San Francesco a Facen di Pedavena

Sono sempre più convinto che si possa risorge-re anche prima di morire.

Me lo insegna con l’esempio e la fatica la cattedra

del dolore, come quella della spe-ranza, alla quale chiedo ogni gior-no un pezzo di pane all’ora della merenda, per nutrirmi e aiutare a nutrire.

Poi se la cattedra è all’altezza della terra e salgono maestri di pochi anni, ragazzi e giovani in credito di qualche attenzio-ne e rassicurazione per scendere con-vinti nelle strade del mondo, al-lora la cosa si fa più impegnativa. Ne ho incrociate tante di risurre-zioni, forse Dio ha pensato così per me, un allenamento significativo e costoso, propedeutico tuttavia per quello chiamato e atteso all’Eterno.

Ieri sera all’ora del desco comu-

nitario ho raccontato ad uno che vive anche in Comunità da 30 anni, che Chiara dell’Ufficio Missionario della diocesi di Belluno-Feltre mi aveva mandato pochi giorni fa una richiesta di scrivere poche righe di un povero cristo risorto.

“Avrei pensato a te”, ho detto, “proverei a girarci intorno a questa risurrezione, depistando il più pos-sibile e rendendola anonima”.

“Il mio nome è Silvano”, questa la risposta, “scrivilo senza proble-mi e racconta la verità”, questa l’ag-giunta.

Ho preso il buio della notte per mano, ho chiesto alla voce del silenzio della mia memoria di

fare la sua parte.Silvano, quello che vedo ogni

giorno anche in un dipinto di suor Elisa Galardi, monaca agostiniana e artista, mandata quassù a Facen di Pedavena, in Casa Emmaus e Casa degli Affreschi diretta da Vico Ca-labrò, ad imparare a fare l’affresco,

Ne ho incrociate tante di risurrezioni.

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da padre Marko Ivan Rupnik, uno che di arte e teologia se ne inten-de. Lo dipinse di un giallo da incan-to e pure bendato, un Lazzaro da

sbendare mi sono sempre detto, un Lazzaro che si sbenderà da solo con l’aiuto di Gesù di Nazareth, ho sempre sognato.

Cercatore di sensoBussò una sera alla porta della

mia camera neanche dodicenne, il giorno dopo essere arrivato in Co-munità e aver mangiato molto, ve-ramente molto. Stette subito bene assieme ad altri 50 ragazzi prove-nienti dalle nostre vallate. Entrò con un pigiama rosso, con la bocca spesso aperta dalla maniglia dello stupore, dal bisogno di amore, cer-catore di senso già allora.

Ricordo che stava parlando alla televisione il gene-rale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e quel che disse rimase inciso nella mia mente: “Io ho il massimo rispetto delle Istitu-zioni e guardo a queste come un cattolico guarda all’Altare”. Mi tro-vai la mano destra presa dalla sua mano, chiamata a fare un gesto che mai prima e neanche dopo ho più fatto, e si accarezzò il viso pren-dendo in prestito, anzi in comoda-to e per sempre, qualche grammo del mio cuore. Questo gesto inat-teso spaccò tuttavia il mio cuore.

Giocava bene a calcio, gioca bene anche ora, sognava e sogna il gioco plurale, dove i più bravi non scappano, ma attendono che i meno dotati lavorino molto sui

fondamentali dei piedi, come in quelli della vita, per imparare bene ad essere anche ausiliari senza in-vidie e tornaconti, nelle imprese sportive.

Un venerdì sera si “fracassò” il ginocchio e continuò a credere im-pastando la vita anche con le lacri-me, quelle copiose, non rumorose e che lasciano il segno sul viso e non solo. Tornò a giocare e in que-sto fu cirenea la dott.ssa Benedetta

Giovanardi Agnolin, una donna e medico di poche parole, nel-lo stesso tempo par-lante con l’esempio e la competenza.

Promisi di andare a Lourdes per ringraziare, feci il solito voto maria-no e me ne dimenticai. Non se lo scordò Maria di Nazareth e per due anni consecutivi alla prima partita di campionato Silvano fu costretto, urlante dai dolori prodotti da altri due gravi infortuni, ad uscire dal campo di gioco e rimanere fermo per due anni. “Saldammo” il conto assieme a Gianfranco e Celso, fu contento e quella sera lo ricordo rapito dalla Luce nascosta, dalle luci delle fiammelle portate da tut-ti, dal canto davanti a quella Grotta.

Volle diventare socio della Co-

Questo gesto inattesospaccò il mio cuore.

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Notizie - N. 3071

operativa Arcobaleno ‘86 a Feltre, lavorare e guidare altri ragazzi e ragazze con le loro difficoltà. Ope-ratore capace, intuitivo, autorevo-le, conoscitore delle fatiche segre-te, di tanti perché da non narrare neanche a se stessi, perché è su

questo che spesso devono curvarsi quelli che lasciano le loro case su disposizioni non mediate di Au-torità chiamate ad intervenire per il loro bene, ed andare a vivere in Comunità.

Gli occhi della ProvvidenzaSi è sposato e si è fatta festa, tutti

in giacca e cravatta, con un poco di fatica anche per chi scrive. Ho in-crociato quel giorno lo sguardo dei genitori e degli altri fratelli, convin-to sempre di più che l’educazione è fatta più di attese che di pretese e che non si può mettere mai fretta a quello che cresce dentro la storia di ogni persona. Ho accarezzato con i miei occhi, spesso stanchi, mai tristi, quelli della Provvidenza, convin-to e provato che questa “non to-glie mai una gioia ai suoi figli se non per darne una più certa e più grande”, come racconta da par suo Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi.

E arrivò la notizia che bisognava

prepararsi a diventare dopo marito anche padre. Fu gioia senza con-fini, arrivò a dirmelo piangente e tremante.

Anni fa, quando frequentavo l’Università Pontificia Salesiana a Roma, prendendo dalla stazione Termini il mitico bus 36 nero, lessi

su un muro questa scritta: “Non urlar troppo la tua gioia perché la tristezza ha il sonno legge-ro”. Me la ricordai

quando chiese un mio braccio per piangere ed appoggiarsi su questo. Il primo responso fu difficile da ca-pire, come da accettare, e ai geni-tori fu prospettato subito ed altro.

Quel che in quei mesi ci siamo detti rimarrà sepolto nel mio cuore per sempre.

Abitare il mondoVirginia smentì le previsioni e

venne, anche lei sognata da Dio per abitare il mondo, e quando la vedo in braccio a mamma e papà, leggo il suo sguardo profondo, che ho già capito essere con qual-

che anno in più, fra pochi anni. I genitori vorrebbero battezzarla al Frutteto Biblico e dei Pensieri all’Arcobaleno, dove sono messe a dimora le 26 piante e fiori citati nei 4 Vangeli, e dove i volontari hanno

Fu gioia senza confini.““

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costruito con l’aiuto di una moto-sega anche il Cenacolo, con l’av-vio quel giovedì di un tradimento, quello a 30 denari e senza sconti, e uno strano battistero, “una ca-scata d’acqua” commentava Titti, un bambino di 5 anni, in visita al Museo dei Sogni e della Memoria qualche settimana fa.

E chissà quale passo del Vange-lo sarà giusto per portare questo fiore della Vita, mentre fatico ad avere dubbi per ricordare, almeno a me, che il bisogno di una casa l’aveva anche il Figlio dell’Uomo, quando commentò che “anche gli

uccelli del cielo hanno il loro nido, come le volpi la loro tana”, men-tre Lui non sapeva dove “posare il capo”.

Sono sicuro che mamma e papà racconteranno alla sera la storia di questo bambino diventato uomo, un poco anche della Stella, il cane pastore della Comunità, mai di-menticando di chiedere a Gesù che accarezzi questa piccola bam-bina, e assieme a lei accarezzi tutti i bambini che nascono ogni giorno in ogni angolo di mondo, chiama-ti a vivere e produrre storia per il bene comune di tutti.

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È possibile aiutare i nostri missionari attraverso il

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