LA PEDAGOGIA DI SANTA TERESA E IL CONTESTO CULTURALE...

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RVS 67 (2013) 369-382 ARTICOLI C arissimi confratelli, ho accettato di essere presente al vostro incontro, nonostante la difficoltà di ritagliare uno spazio libero in un’agenda fin troppo piena, non tanto perché pensi di avere qual- che cosa di straordinariamente importante o nuovo da dirvi, ma piuttosto perché desideravo vedervi e ascoltarvi. Umilmente faccio mie le parole dell’apostolo Paolo all’inizio della lettera ai Romani: «Ho un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono LA PEDAGOGIA DI SANTA TERESA E IL CONTESTO CULTURALE ATTUALE IN EUROPA Saverio Cannistrà, Preposito Generale ocd INCONTRO DEI FORMATORI EUROPEI AVILA, 29 GENNAIO 2013

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Carissimi confratelli,ho accettato di essere presente al vostro incontro,

nonostante la difficoltà di ritagliare uno spazio libero in un’agenda fin troppo piena, non tanto perché pensi di avere qual-che cosa di straordinariamente importante o nuovo da dirvi, ma piuttosto perché desideravo vedervi e ascoltarvi. Umilmente faccio mie le parole dell’apostolo Paolo all’inizio della lettera ai Romani: «Ho un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono

LA PEDAGOGIA DI SANTA TERESA

E IL CONTESTO CULTURALE ATTUALE

IN EUROPA

S av e r i o C a nni s t r à , P r e p o s i to G e ne r a l e o c d

INCONTRO DEI fORmATORI EUROPEIAvILA, 29 GENNAIO 2013

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spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancar-mi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (Rm 1,11-12). Proprio così: se riuscirò a comunicarvi qualche «dono spirituale», ne ringrazio Dio, ma sono sicuro che comunque ci rinfrancheremo vicendevolmente nella fede, nella vocazione e aggiungerei anche nella missione che abbiamo in comune tra noi.

Se parlo di missione comune tra voi e me, è perché penso che oggi il compito più importante nella vita dell’Ordine sia quello della formazione. Formazione vuol dire “dare (o ridare) forma” a una identità. Nell’accezione in cui lo uso, il termine “forma” equivale grosso modo a “fenomeno”, cioè “dispiega-mento dell’essere” di una realtà in una manifestazione visibile, percepibile. In altri termini, la forma non è il rivestimento ester-no di qualcosa di indipendente e preesistente, ma è la manifesta-zione di una realtà interna, la quale, giungendo a maturazione, fiorisce in una forma esterna, e cioè in un modo caratteristico e organico, di vivere e di pensare, di parlare e di agire. In questo senso, si comprende che la formazione è l’altra faccia della crescita e dell’evoluzione di un essere, potremmo dire che è la crescita stessa vissuta in modo consapevole e attivo. Non ci si lascia vivere, ma si prende in mano la propria vita e il proprio essere e, ascoltandolo, lo si aiuta a “formarsi”, cioè a esprimersi e a manifestarsi storicamente.

Questo è il motivo per cui ho detto che il compito più importante nella vita dell’Ordine è proprio quello della forma-zione. In effetti, non riesco a concepire neppure le funzioni più tecniche di governo o di amministrazione se non all’interno e al servizio di una finalità più ampia e più profonda, quella appunto della formazione. Ciò di cui il nostro Ordine ha urgente bisogno (ma il discorso potrebbe essere facilmente esteso alla vita reli-giosa e, analogicamente, alla vita della Chiesa) è di “prendere forma”, cioè di manifestare la sua identità profonda in modi di essere e di vivere che esprimano la sua maturazione/evoluzione

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storica. Nessuna identità vivente può manifestarsi in forme fisse. Il divenire storico è la forma dell’identità di un vivente, come ci ha detto molte volte e in molti modi il Concilio Vaticano II. Penso che siamo tutti d’accordo su questo: che la fedeltà non significa restare fermi, ma assecondare il dinamismo di crescita del seme che è stato gettato in noi. In termini biblici, paolini e giovannei, potremmo dire: è la fedeltà dello Spirito, non della Legge. Non a caso mi si chiede spesso, e anche gli organizza-tori di questo incontro lo hanno fatto, di parlare del Carmelo o di santa Teresa o della spiritualità “a confronto con la cultura contemporanea”. Che cosa vuol dire “a confronto”? Il Conci-lio Vaticano II ha pubblicato una costituzione pastorale “sulla Chiesa nel mondo contemporaneo”. Non “sulla chiesa a confronto con il mondo contemporaneo” o addirittura “in contrapposi-zione al mondo contemporaneo”, ma “all’interno del mondo”. Può suonare scandalosa questa immersione nel mondo, ma è solo così che si onora il mistero dell’incarnazione e dell’incon-dizionato amore di Dio per l’umanità. Quindi, permettetemi di parlare del Carmelo che è in questo mondo e per questo mondo di oggi. Ma esiste questo Carmelo e, se sì, come, in quale forma? La nostra “forma” attuale è veramente il Carmelo che è cresciu-to e si esprime in modo adeguato nel mondo contemporaneo? La domanda mi pare almeno legittima.

Dopo il Concilio si è pensato spesso che questa forma potesse essere trovata assumendo dosi massicce di cultura contemporanea, quasi per recuperare il tempo perduto. Si è così passati in un batter d’occhio da una forma sacralizzata della vita religiosa a una forma secolarizzata, dal chiostro all’agorà, dall’im-pegno di santità alla santità dell’impegno, per dirla con un po’ di humour. Veramente la via battuta e indicata dal Concilio era un po’ diversa, meno diretta e più lunga, poiché si trattava – nell’in-tenzione dei padri conciliari – di ritornare alle fonti con una sensibilità nuova per attingere da esse energie e stimoli di rinno-vamento. Semplificando, si potrebbe dire che le nuove doman-

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de del mondo avrebbero dovuto trovare risposte nella rilettura e reinterpretazione delle fonti. Più spesso invece abbiamo preso dal mondo di oggi non solo le domande, ma anche le risposte, perdendo in originalità e in ricchezza. Invece di formare o rifor-mare la nostra identità, l’abbiamo acriticamente con-formata ai modi e alle mode del mondo.

Certamente, non sono mancati, nel nostro Ordine, studi seri su Teresa e su Giovanni, sul carisma teresiano e sulla storia dell’Ordine. Tutta questa ricchezza dottrinale è rimasta, però, più a livello di discorso teorico che di esperienza vissuta. E – come dice il Qoèlet – «le parole si esauriscono», sono come fiumi che vanno verso il mare senza mai riempirlo. Avremmo bisogno di una parola che si fa carne, che si concretizza in una storia, nella quale poter abitare. La produzione di libri, articoli, rivi-ste, documenti è più che abbondante, ma purtroppo i discorsi sembrano lasciare intatta la realtà. Teresa e Giovanni, in effetti, hanno scritto post factum, cioè per raccontare, interpretare, spie-gare l’esperienza fatta. Noi invece teorizziamo sulle esperienze degli altri o su esperienze che non abbiamo ancora fatto, invece di cercare i modi concreti perché una esperienza rinnovata possa realizzarsi. Perfino i testi legislativi e normativi sembrano inci-dere assai poco sulla realtà vissuta. Del resto, è noto che nessun cambiamento sostanziale è mai avvenuto nella storia della Chie-sa a forza di decreti e precetti emanati dalle autorità superio-ri. Solo il cammino quotidiano, umile e nascosto, sotto la guida dello Spirito, conduce a un autentico rinnovamento della vita e a quelle forme nuove di cui sentiamo il bisogno.

È questo il cammino della “formazione”, e cioè del pren-dere forma del nostro essere carmelitani di oggi. In questo senso, voi, i formatori, siete in prima linea e per questo anche i più esposti alla fatica della ricerca, al dubbio sulla direzione da pren-dere, al rischio dell’errore e soprattutto della critica. Si può dire che voi siete confrontati con il problema o la sfida cruciale della nostra famiglia religiosa.

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L’ultimo Capitolo Generale, proponendo un cammino di rilettura delle opere di Teresa, ci ha certamente dato un’indica-zione preziosa e provvidenziale. In un certo senso, ci ha rimes-so nel solco tracciato dal Concilio, cinquant’anni dopo la sua apertura. Naturalmente, ogni lettura è in realtà un dialogo, in cui si pongono domande e si ricevono risposte, in cui si cerca e si trova (o non si trova) qualcosa. Intendo dire che la lettura, di cui stiamo parlando, non è semplicemente assimilazione di ciò che troviamo scritto in un libro. Non si tratta di semplice acqui-sizione di informazioni o di conoscenze su santa Teresa. Piutto-sto leggere Teresa nel contesto di un cammino di rinnovamento dell’Ordine e della vita religiosa significa confrontarsi con lei, comprendere i suoi interrogativi e le sue risposte, i suoi proble-mi e le sue soluzioni, al fine di estrarre da questo confronto un “metodo teresiano”, se così posso dire, una maniera di formarsi, che appartiene alla sua vocazione e al suo carisma.

Mi pare che qui iniziamo a toccare un punto molto delica-to e importante. Infatti, in base a quanto detto sopra, se esiste un metodo o un cammino teresiano di formazione, cioè di “prende-re forma”, ciò dovrebbe coincidere con il nocciolo del carisma, la sua quintessenza, la base su cui poggiare tutto l’edificio. Come sapete, esistono tante definizioni del concetto di carisma, nella sua applicazione alla vita consacrata. Alcune sottolineano la dimensione ecclesiologica (il carisma come dono dato per l’edifi-cazione della Chiesa), altre la dimensione cristologica (il carisma come espressione di un tratto particolare del mistero inesauribi-le di Cristo e del Vangelo). A me piacerebbe insistere sulla sua dimensione antropologica, per cui il carisma è un modo caratte-ristico in cui la mia umanità prende forma, non da sola eviden-temente, ma entrando a far parte di una famiglia e di una comu-nità. C’è dunque un modo di essere uomini, di essere-nel-mondo che è plasmato dal carisma. Se ciò è vero, allora dobbiamo guar-darci da ogni definizione troppo restrittiva e semplificante del carisma. Esso deve abbracciare tutta la complessità dell’essere

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umano, proprio perché il carisma non fonda, né plasma sempli-cemente delle opere o delle attività, ma l’essere stesso di persone e di comunità. La domanda fondamentale di Teresa, infatti, non è: che cosa dovremo fare, ma come dovremo essere? (C 4,1).

In questo senso, dire che il carisma carmelitano è la preghiera o la contemplazione o l’unione mistica con Dio, ci lascia in qualche misura insoddisfatti, sia perché non potrem-mo rivendicare per il Carmelo l’esclusiva della preghiera o della contemplazione, sia perché sentiremmo il bisogno di aggiungere a tali dimensioni, sicuramente essenziali, altre che non lo sono meno, come la fraternità e la missione. Se pensiamo a Teresa, non possiamo separare la sua vita di preghiera e di amicizia con Cristo da tutto il resto della sua persona, fatta di amore altru-istico, di passione ecclesiale, di spirito missionario. Per questo Teresa, nel momento in cui sta per rispondere alla richiesta delle sorelle di istruirle nel cammino dell’orazione, sente il bisogno di insistere innanzitutto su tre virtù fondamentali, senza le quali non potrebbero mai diventare delle contemplative e con le quali, pur non ricevendo il dono della contemplazione, si sarebbe comunque molto avanti nel cammino di unione con Dio. A me pare, sinceramente, che in queste pagine sia espresso nel modo più ampio e più diretto ciò che noi oggi chiamiamo il carisma teresiano.

Come abbiamo scritto nel documento di Ariccia, Tere-sa non parte dalla preghiera, ma ci arriva. Teresa parte dall’u-manità di colui che vuole entrare nel cammino della preghiera e sa che questa umanità deve formarsi in un certo modo se la preghiera deve diventare ciò che è stato per Teresa, e cioè una intensa relazione di amicizia con l’umanità di Dio. Sono tre – dice Teresa – le cose che più importano per diventare uomini e donne di orazione: «La prima è l’amore che dobbiamo portarci vicendevolmente; la seconda il distacco dalle creature; la terza la vera umiltà, la quale, benché posta per ultimo, è la principale ed abbraccia le altre» (C 4,4). Su queste tre “cose” dobbiamo seria-

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mente riflettere a partire dal nostro modo di essere qui e ora, in Europa, nel 2013.

Per far capire la novità dell’impostazione di Teresa, permettete che vi citi una famosa frase attribuita al Papa Leone XIII, il quale l’avrebbe detta, sul finire del secolo XIX, al Vicario Generale dell’Ordine, p. Dionisio di santa Teresa1: «Diffonda e fomenti nel Carmelo lo spirito di preghiera, il che richiede tre cose: mortificazione, silenzio e ritiro. Senza ciò non vi è preghie-ra e senza preghiera il Carmelo non vale nulla»2. Questa frase, nella sua versione latina, l’ho trovata anche affissa al muro in qualche convento, per esempio in una casa di noviziato in India. Essa tratteggia bene l’immagine classica del Carmelo, che affon-da le sue radici nelle origini eremitiche dell’Ordine (ciò che qual-che volta è stato detto lo spirito “eliano” dell’Ordine). Teresa, pur richiamandosi esplicitamente a tali origini («quei nostri santi padri che nella solitudine e nel disprezzo del mondo coltivarono la perla preziosa della contemplazione»), si muove con la liber-tà e la creatività che le vengono dalla sua personale esperienza di Dio. Ben lungi dal ridire ciò che tutta la tradizione ascetico-monastica aveva detto fino ad allora, e cioè che la preghiera ha bisogno di silenzio, solitudine e mortificazione, Teresa propone tre «cose» diverse. Certo, non esclude le altre, ma le tre condizio-ni che indica sono per lei le più importanti e tali da non poter in nessun caso mancare.

Le tre cose di cui parla Teresa non hanno a che fare con uno stile di vita contemplativo, ritirato dal mondo e dedito alla preghiera, ma piuttosto toccano l’essere dell’uomo nelle sue

1 Denis-Alphonse Steyaert, 1827-1910, belga, divenuto nel 1901 arcivescovo di Damasco.

2 De vita religiosa documenta selecta, a cura di Simeone della S. Famiglia, Roma 1967, n. 846, 361.

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relazioni fondamentali. A chi le chiede di parlare della preghie-ra Teresa risponde nell’unico modo possibile nel contesto della modernità, e cioè allargando il discorso dall’orazione all’orante, dall’imparare a pregare a imparare a essere uomini toccati da Dio e fondati sull’esperienza della sua prossimità. Umiltà, distac-co e amore fraterno sono le manifestazioni di questa umanità riplasmata dal contatto con il Dio fatto carne. In esse e attraverso di esse prende forma l’uomo amico di Dio secondo Teresa.

Teresa, nel proporre un cammino spirituale di rifondazio-ne della persona, dimostra di essere profondamente partecipe delle ansie, degli interrogativi e delle scoperte del suo tempo. Sarebbe assai interessante fare un confronto tra il suo cammino e quello di altri autori del suo tempo, filosofi, pensatori, artisti, tutti uniti dalla stessa ricerca: dare alla persona umana una base sicura, uno spazio interiore in cui essa possa esistere e sviluppar-si e a partire dal quale possa agire liberamente nel mondo (mi vengono in mente filosofi come Cartesio, teologi come Lutero, pensatori come Montaigne o Pascal, letterati come Cervantes e Calderón de la Barca). Ma anche nel Carmelo il cammino di Teresa non è isolato. Giovanni della Croce ne propone un altro, che è al tempo stesso vicinissimo e diversissimo. Penso in particolare al dittico Salita-Notte e alla trasformazione teologale della persona, nelle sue facoltà fondamentali (ragione, volontà, memoria) mediante le virtù teologali. Teresa appartiene a pieno titolo a quella stagione spirituale e culturale in cui sono state poste le basi di ciò che chiamiamo modernità. Oggi quelle basi sono fortemente scosse e vacillano, senza che si sappia dire se questo significa che la modernità è ormai tramontata e albeggia una nuova stagione, di cui ignoriamo ancora le caratteristiche, o più semplicemente che stiamo precipitando passivamente in una crisi del nostro mondo, dalla quale non noi, ma altri (Dio? i barbari?) ci potranno salvare. In ogni caso, non sorprende che nel bel mezzo di questa crisi di senso, di discernimento morale e, in ultima analisi, di libertà, gli insegnamenti di Teresa assu-

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mano un rilievo e una significatività straordinari. È come se ella ci richiamasse a ciò che rischiamo di dimenticare o di ignorare, distratti da altre e assai meno importanti cure.

Qual è allora il cammino che possiamo individuare attra-verso le tre «cose» enumerate da Teresa come condizioni per una vita di orazione? Ciò che posso proporre è semplicemente un abbozzo di un lavoro che non ho il tempo di svolgere. Ci sareb-be bisogno di svolgere ricerche approfondite, ma soprattutto di fermarsi e pensare, ciò che oggi sembra divenuto quasi impos-sibile, non solo perché manca il tempo, ma ancor più perché nessuno sembra sentirne il bisogno. Ci contentiamo di ripetere ciò che già sappiamo e di eseguire ricami retorici su un tessuto che è sempre lo stesso. Dovremmo preoccuparci di questo più che di ogni altra cosa, invece per noi la preoccupazione maggio-re è che l’istituzione scricchioli, il sistema mostri segni di cedi-mento e che pertanto prima o poi saremo costretti a cambiare vita. Ringraziamo Dio di tutto questo. La storia guidata dal suo Spirito ha le sue risorse per rimettere in moto ciò che si è fermato o perduto in una deriva entropica.

Parto dall’umiltà, perché – come dice Teresa – benché la citi per ultima è la principale e abbraccia tutte le altre. Umiltà – come del resto distacco e amore fraterno – ha un significa-to molto più profondo e pregnante di quello che comunemen-te attribuiamo a questa parola. Teniamo conto che queste tre «cose» sono in realtà tre definizioni dell’io, del soggetto umano. Non sono semplicemente “virtù”, ma – come dicevo prima – forme, fenomeni, manifestazioni dell’essere personale dell’uomo. La domanda allora non è tanto: che cosa fa o come si comporta l’uomo umile? ma piuttosto: che cosa è l’umiltà dell’essere uomo? Umiltà è riceversi da un altro. È la condizione, prima ancora che l’attitudine, della creatura e del figlio. Nel momento in cui l’uomo prova la vertigine della sua potenza (scientifica, tecnica, economica, militare), Teresa ritorna a questa verità fondamenta-le. Parlo di “vertigine”, perché se da un lato l’uomo sperimenta

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che la sua azione ottiene risultati di cambiamento del mondo, e ciò è naturalmente esaltante, dall’altro l’uomo non è capace di gestire tutto il processo, e cioè le conseguenze dell’azione e del cambiamento, tanto sull’oggetto, quanto sul soggetto. L’attività dell’uomo si sovrappone alla sua passività fondamentale, senza ovviamente poterla annullare. Essa resta, ma come non perce-pita e non voluta e rischia di ripresentarsi come contraccolpo di un’attività non controllata, di una reazione a catena imprevedi-bile.

L’umiltà di cui parla Teresa non è in alcun modo “conten-tarsi di piccole cose”, pensare bassamente di sé, direi che è addirittura il contrario. L’umiltà ha uno spessore ontologico e l’umile è colui che corrisponde all’oggettiva umiltà del suo essere, assecondandola. Assecondare l’umiltà del proprio esse-re significa vivere a partire dall’origine, da quella terra da cui siamo stati tratti e di cui siamo fatti, ma anche da quel soffio e da quella parola che è stata pronunciata su ciascuno di noi: tu sei mio figlio, oggi ti ho generato. Questo sì detto alla nostra carne trova corrispondenza nel sì obbediente col quale accoglia-mo il nostro essere come dono e come vocazione da compiere. Abbiamo un bisogno disperato di credere in noi stessi, di pensare altamente alla nostra umanità, ma non c’è altra via possibile se non quella dell’umiltà, per quanto ciò possa apparire parados-sale. Il problema dell’uomo di oggi, nella crisi della modernità, è l’avvitamento su se stesso. Il porsi sempre nuovi traguardi da raggiungere lo allontana da sé fino a un punto di non ritorno e allora invece di ingrandire o sviluppare se stesso attraverso nuove conquiste, l’uomo lavora contro se stesso, combattendo contro quei limiti che sono invece la sua verità. Allora invece di raffor-zarsi si indebolisce, invece di liberarsi, si asservisce, invece di amarsi, si disprezza. Se ci pensiamo bene, il problema spirituale più profondo oggi, almeno in Europa o nell’Occidente, non è la superbia, che suppone una esagerata fiducia nelle proprie forze e nel proprio valore. Al contrario, ci troviamo di fronte a uomini

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che hanno perso la speranza e vivono un nichilismo quotidiano fatto di piccoli intrattenimenti. Dalla negazione del limite siamo passati alla creazione di limiti immaginari, frutto di paure, scon-fitte e soprattutto di una mancanza di prospettiva. Infatti, il reci-dere il legame da ciò da cui si proviene porta inevitabilmente ad annullare la tensione verso un fine da raggiungere, un senso a cui orientare il movimento, e così si gira in tondo intorno al proprio io, divenuto il limite assoluto e supremo.

Credo che non sia necessario aggiungere molte parole per comprendere come l’esperienza (non la semplice nozione) dell’umiltà sia davvero fondamentale e come da essa dipenda ogni possibile sviluppo o crescita spirituale. Abbiamo bisogno di riascoltare la benedizione di Dio su di noi, del Dio che chiama all’esistenza e constata che ciò che è scaturito dalla sua chiamata «era cosa molto buona». È questa l’umiltà: il riconoscere che ciò che non era niente è divenuto buono perché il bene si è donato a lui ed è venuto ad abitarlo.

Ce la faremo ad assumere questa forma dell’essere, la forma che si esprime nell’atteggiamento del figlio che china il capo per ricevere la benedizione del Padre e con quella benedi-zione si mette in cammino con coraggio e speranza? Teresa l’ha fatto e ci ha insegnato a farlo, con la preghiera certamente, ma soprattutto con la vita scaturita da quella preghiera.

Teresa aggiunge che l’umiltà è strettamente connessa con il distacco. Sono – lei dice – come due sorelle inseparabili (C 10,3). Credo sinceramente che se c’è una cosa che dobbiamo riscoprire è proprio il distacco. Teresa parla del distacco dai parenti o dalla mentalità dell’onore propria della società spagnola del tempo. Per noi si tratta di qualcosa di diverso e ancora più profondo. Oggi i legami che ci uniscono alla famiglia e al contesto sociale da cui proveniamo si sono per molti versi indeboliti, ma anche infittiti. È il paradosso della società liquida, tante volte descritto sulla scia del sociologo polacco Bauman. Più che di famiglia e di parenti, oggi dovremmo parlare di “gruppo”, di “contatti”, con i

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quali manteniamo relazioni affettivamente tiepide (e per questo interscambiabili), ma al tempo stesso irrinunciabili. Mai come oggi è vero “guai a chi è solo”. La solitudine è oggi sinonimo di inesistenza, poiché esiste solo ciò che può essere visto, cono-sciuto e approvato (o disapprovato) dagli altri partecipanti del gruppo. Dietro tutto ciò sembra evidente che si nasconda una incapacità o addirittura una angoscia del confronto con se stessi. Non siamo semplicemente attaccati a qualcosa o a qualcuno, a motivo di una storia comune o di un interesse o di una attivi-tà. Il rapporto con gli altri si inserisce all’interno del rapporto con me stesso, addirittura lo sostituisce. La coscienza è versata all’esterno: ci guardiamo attraverso lo sguardo degli altri, uno sguardo che inevitabilmente ci riduce e ci semplifica e soprat-tutto ci obbliga a adattare il nostro modo di essere alle aspetta-tive degli altri, dall’aspetto fisico al modo di vestire o di gestire il tempo libero fino al modo di pensare e di giudicare. Invece di fondarci su noi stessi ci fondiamo su un altro, che ha mille volti e nessun volto preciso. Questo è il contrario dell’autonomia e della libertà, parole d’ordine del mondo moderno, fattori potenti di cambiamento e di emancipazione a livello pubblico, ma oggi vistosamente in crisi nell’ambito della persona e della sua vita morale e spirituale.

Quali sono le condizioni di possibilità di un autentico distacco, secondo l’insegnamento di Teresa? A mio parere, si possono ridurre a due. La prima è la capacità di relativizzare il mondo a cui siamo attaccati. Se esso è il tutto, l’unico scena-rio in cui la nostra vita si colloca, sarà impossibile distaccarsi da esso. Ma se esso viene messo a confronto e relativizzato da un altro scenario, quello del Regno di Dio o quello della patria esca-tologica, allora un distanziamento è possibile. Questa tensione escatologica, intrinseca alla nostra fede, e ancor più alla scelta di vita religiosa, appare oggi terribilmente affievolita. Ci attacchia-mo come tutti all’esistente, a un presente di cui pure scorgiamo le insufficienze e le contraddizioni. Preferiamo non soffermarci

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troppo su questo pensiero ed evitiamo di affrontare il problema. Ciò è vero un po’ a tutti i livelli, personale, comunitario, nazio-nale, internazionale. La conclusione inevitabile è che ci sentiamo impotenti, prigionieri di una rete, dalla quale abbiamo paura di uscire.

La seconda condizione è la costituzione di una comunità di persone, che si offra come reale alternativa al mondo. Tale condizione si collega alla prima delle tre «cose» necessarie per il cammino di orazione, e cioè l’amore fraterno, o – per meglio dire – una comunità in cui tutti i membri si conoscono e sono amici (cf C 4,7). Questa comunità di amici/amiche è la forma compiuta dell’essere umano. Non si tratta di una utopia e tanto meno di un idillio. Su questo dobbiamo essere assolutamente chiari. Teresa ha fondato il nostro Ordine perché questo fine potesse essere realizzato. Come abbiamo scritto nel documento del Definitorio Straordinario di Ariccia:

Se ciò non succede e le comunità sono solo “luoghi di transito” nel percorso personale di ciascuno, che ha altrove il suo centro di gravità, non è possibile considerare questo un male inevitabile, né è possibile accettarlo come una carenza che viene compensa-ta da altre ricchezze sul piano pastorale, sociale, intellettuale. È questo l’articulus stantis vel cadentis Carmeli, ossia da questo dipen-de se il Carmelo resta ciò che Teresa ha pensato e realizzato o diventa un’altra cosa.

La comunità teresiana non è il paradiso sulla terra (anche se Teresa qualche volta ne ha parlato in questi termini, il cielo sulla terra). È ciò per cui noi siamo chiamati a impegnarci, a lavorare, a donarci «con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze». È un luogo di libertà, ma non necessariamente di “benessere”; di pace, ma non di riposo; di amore, ma non di consolazione sentimentale. È una comunità che richiede, per essere costruita, una buona dose di solitudine, un saper stare da soli a soli con Dio e con se stessi. In questo senso, non vi è alcuna

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contraddizione tra la comunità teresiana e le cautele di Giovanni della Croce («La prima è che tu abbia uguale amore e uguale dimenticanza circa tutte le persone»). In questo luogo la persona umana svela il suo volto, che è immagine del volto di Dio.

Vedete allora quale cammino di formazione attende non soltanto i nostri giovani formandi, ma tutti noi, formatori e formandi al tempo stesso? Di questa forma siamo responsabili di fronte alla Chiesa e al mondo di oggi e nessuna opera, nessuna attività, nessun servizio potranno sostituirla.