LA PASSIONE VESTE DI ROSSO - harpercollins.it · Asteriades faceva volteggiare la novella sposa...

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LA PASSIONEVESTE DI ROSSO

TESSA RADLEY

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Capitolo 1

COM'ERA POTUTO finire tutto in quel modo? Rebecca Grainger si portò le mani allo stomaco, colpita da un senso di nausea. Se almeno fosse riu-scita a non pensarci, forse anche quel fastidio se ne sarebbe andato. Il matrimonio aveva la priorità su tutto, si disse Rebecca, doveva concentrarsi: era già stata pagata, l'assegno le era stato sbattuto in faccia la sera prima. La sera prima. Quel bacio. No, non doveva pen-sare alla sera prima. Doveva concentrarsi sul matrimonio. Un evento in casa Asteriades. Il soffitto a volte della sala da ballo dell'Hotel San Lorenzo di Auckland era stato addobbato con strisce di stoffa bianca, come un ro-mantico pergolato. Ghirlande di edera e rose bian-che decoravano la sala, profumandola in maniera i-nebriante. Al centro della pista da ballo semivuota Damon Asteriades faceva volteggiare la novella sposa sulle note del melodioso Bel Danubio blu, con la sua fol-ta capigliatura nera accostata a quella biondo chiaro di lei. Lui rappresentava al cento per cento la tipica bellezza greca maschile, dalla punta dei capelli nero

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corvino, fino alle estremità delle dita abbronzate, con la sicurezza impulsiva di ogni uomo greco, convinto di avere sempre ragione. E in questo mo-mento Rebecca sperava che fosse lontano un milio-ne di anni luce. «Mio figlio è uno sciocco.» Al sentire la voce di Soula Asteriades, madre di Damon e vedova del potente Ari Asteriades, Rebec-ca sorrise e disse: «A Damon importa poco». «Per non parlare di te, Rebecca! Mia cara, dovevi proprio indossare un abito scarlatto? Come un pan-no rosso davanti a un toro?» Soula sospirò. «Questo abito malizioso non farà che alimentare le malelin-gue.» Rebecca rise e abbassò lo sguardo sul suo abito stravagante firmato Vera Wong. «Che parlino, non m'importa. Per lo meno non rubo la scena alla spo-sa, indossando un abito bianco.» «Ma avresti dovuto farlo. Saresti stata una sposa perfetta. Se solo Ari fosse stato qui, forse avrebbe fatto ragionare quella testa calda di nostro figlio.» Rebecca squadrò la donna con stupore. «Soula?» «Questo matrimonio è un errore, ma ormai è tar-di. Mio figlio ha preso una decisione e deve rispet-tarla. Non posso più dire niente.» Soula sparì tra la folla. Sconcertata, Rebecca guardò verso la pista. Da-mon scelse quell'attimo per mostrare insolitamente il suo affetto in pubblico, dando un bacio sul capo della sua sposa, la quale sollevò lo sguardo, sorpre-sa. Rebecca desiderò che Damon fosse nello stesso posto in cui era lei al momento... all'inferno. Non riuscì a continuare a guardare e chiuse gli occhi. La testa le doleva per una sorta di tensione

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interiore, per la giornata stressante e per il vino be-vuto la sera prima. Non vedeva l'ora che il matri-monio finisse, per liberarsi di quell'amaro sapore di tradimento. «Vieni. È ora che ci uniamo a loro.» I pensieri dolorosi di Rebecca furono interrotti da una mano posatasi sul suo braccio freddo e si rese subito conto che la musica proveniente dal palco rialzato si stava attenuando. Savvas, il fratello e te-stimone dello sposo, la guardava in attesa di una sua reazione. Lei si sforzò di sorridere. «Scusami, Savvas, ero lontana mille miglia.» Lui le rivolse un ampio sorriso. «Smettila di pre-occuparti, è tutto magnifico: i fiori, il menu, la torta, l'abito. Avrai una fila di ragazze che ti chiederanno di organizzare il loro giorno più bello.» Rebecca rimase sorpresa di fronte all'entusiasmo di Savvas. Organizzare un altro matrimonio per l'al-ta società di Auckland era l'ultima cosa che voleva, però era sollevata dal fatto che Savvas associasse la sua ansietà all'esito della cerimonia. Nessuno sape-va perché era stata agitata tutto il giorno. O perché il ricordo di quelle nozze si sarebbe posato come un velo cupo su ogni matrimonio che avrebbe organiz-zato in futuro. Come aveva potuto essere così stupida la sera prima? «Vieni.» Savvas la tirò a sé con insistenza. Lei non si mosse di un millimetro, puntando i piedi. «Non ballo mai ai matrimoni che organizzo.» Dietro le spalle di Savvas incontrò lo sguardo sprezzante dello sposo e si sentì ferita. «Niente scuse. Stasera non lavori e devi ballare.

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Per tradizione, il testimone e la damigella si unisco-no alle danze dopo gli sposi. Stanno aspettando tut-ti.» Rebecca si guardò attorno e si accorse che era ve-ro: numerose coppie elegantemente vestite si erano avvicinate ai bordi della pista e attendevano un loro segno. Perfino la madre di Damon era lì e la guar-dava con comprensione. Rebecca sollevò il mento e toccò istintivamente il ciondolo di opale che le pen-deva sul petto. Quindi il suo sguardo si scontrò con del blu, un blu freddo come il ghiaccio. Damon Asteriades le lanciò un'occhiata truce; la bocca non nascondeva il suo disappunto, mentre teneva stretta a sé la sposa. La sposa. Fliss. Rebecca inclinò la testa, fece passare la sua mano gelida attorno al braccio che le porgeva Savvas e, fingendo di sorridere, si lasciò condurre in pista, mentre l'abito rosso vivo svolazzava di qua e di là. Avrebbe ballato. Al diavolo Damon Asteriades! E avrebbe anche sorriso. Damon non avrebbe mai saputo quanto le fosse costato organizzare il matri-monio e come si fosse sentita ad accompagnarli al-l'altare. Oh, certo che avrebbe ballato. Sarebbe stata più insolente del solito e nessuno avrebbe colto l'ango-scia che la tormentava. Avrebbero visto quello che vedevano sempre: una Rebecca spudorata e indi-pendente. Non avrebbe più permesso che quel sentimento così vivo e ardente la rendesse ancora vulnerabile. Faceva troppo male. Sorrise con determinazione a Savvas, mentre lui

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le passava un braccio attorno alla vita, e ignorò lo sguardo torvo proveniente dal centro della pista. «Ehi, fratello, ora tocca a me ballare con la spo-sa.» Sorpresa dalle parole di Savvas, Rebecca si ripre-se dal torpore in cui si era rifugiata per non provare dolore o emozioni. L'interruzione la riportò im-provvisamente al presente, alla sala da ballo. Sav-vas si allontanò mentre la musica romantica scema-va. Di fronte a lei c'era la sua punizione, l'uomo a cui sapeva che non sarebbe mai sfuggita. Anche con la luce così fioca i suoi occhi blu scin-tillavano. Solo il profilo del naso, che aveva chia-ramente subito più di una frattura, allontanava il suo viso dalla bellezza classica che la sua bocca carnosa e gli zigomi alti sembravano rappresentare. Al con-trario, gli conferiva un che di pericoloso e al tempo stesso sensuale, da pirata moderno. Lei guardò dall'altra parte, cercando di fermare il suo ballerino. Ma Savvas se ne era già andato e faceva volteg-giare Fliss. Sentendosi terribilmente sola, Rebecca attese, con il cuore che le batteva forte per l'appren-sione, rifiutandosi di guardare Damon. «Ora provi a sedurre mio fratello? Un altro spira-glio verso il patrimonio degli Asteriades, eh?» Lei rimase sbalordita a quelle parole ciniche. C'era qualcosa di cupo e agitato nei suoi occhi. Lui era arrabbiato? E lei? Cosa gli dava il diritto di giudicarla? Non la co-nosceva e non ci aveva neanche mai provato.

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«Vai al diavolo» mormorò lei con un sorriso a-maro, facendo per allontanarsi. «Oh, no, Rebecca.» La prese per il gomito con forza. «Non sarà così facile. Non ti permetterò di fare una sceneggiata e lasciarmi qui da solo in pista. Non ti prenderai gioco di me.» Rebecca cercò di liberarsi, ma la stretta era forte: non aveva speranze di sfuggire a Damon Asteria-des, anche se l'ultima cosa che voleva era essere te-nuta tra le sue braccia e ballare con lui. No. Doveva averlo detto ad alta voce, perché la bocca di lui si era ridotta a una linea dura, mentre la face-va ruotare per guardarla in faccia. «Sì» sibilò lui. I suoi occhi erano diventati due severe fessure color cobalto. «Ballerai con me.» Non appena le note gioiose del valzer successivo iniziarono a suonare, la sua mano destra si posò sul fianco di lei. «Per una volta nella tua vita di egoista farai qualcosa per un'altra persona. Non ti permette-rò di rovinare la giornata a Felicity.» Proprio come lui aveva già distrutto la sua. Rebecca ebbe la tentazione di scoppiare in una risata isterica. Damon non aveva alcuna idea... non sapeva che avrebbe distrutto anche quella di Fliss. La sua cara, amata Fliss, sua sorella, anche se non di sangue, la sua partner in affari. O per lo meno lo era stata fino alla sera precedente, quando, dopo le prove generali del matrimonio, Fliss aveva sotto-scritto il trasferimento delle azioni della Dream Oc-casions a Rebecca. E perché? Perché lo aveva preteso Damon. Il padrone e signore aveva chiarito che voleva

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che tutti i ponti con Rebecca venissero tagliati e Fliss aveva subito ubbidito. Rebecca aveva reagito in maniera impulsiva, ma quella sua ira nascondeva il dolore per essere stata ferita. Sapeva perché Fliss aveva ceduto e sapeva anche perché l'amica aveva un disperato bisogno di sposare un uomo comple-tamente inadatto a lei. Ma Fliss avrebbe dovuto saperlo, non avrebbe mai dovuto accettare di sposarlo. Al tempo stesso come poteva rifiutarsi? Fliss desiderava sicurezza, come era già accaduto anche a Rebecca, e non ve-deva il pericolo che correva. In Damon vedeva solo una grande forza, potenza e ricchezza. Damon era troppo sicuro di sé. L'avrebbe domi-nata. Fliss non sarebbe mai riuscita a tenergli testa. Rebecca temeva che si sarebbe avvizzita. Per questo la sera precedente aveva deciso di prendere in mano la situazione. Un brivido freddo le attraversò la spina dorsale. Rebecca tremò al pensiero di quello che era succes-so in seguito. E ancora dopo... Cielo! Non avrebbe mai dimenticato l'ira di Da-mon, il suo disprezzo o la passione furiosa per tutta la vita. Neanche l'alcol bevuto in seguito aveva smorzato il dolore, la consapevolezza di quello che le era costato quell'ultimo tentativo disperato. «Fliss» sussurrò lei gentilmente, mentre la mano di Damon afferrava la sua, per coinvolgerla in un valzer. Damon la guardò con aria interrogativa. «Le piace essere chiamata Fliss. Non te l'ha anco-ra detto?» Lo sguardo cupo di lui si posò su di lei e Rebecca

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sentì il calore della sua mano sulla vita e il profumo sexy e intenso. «Si chiama Felicity» sottolineò lui duramente. «È un bel nome, allegro. L'altro non ha consistenza.» «Ma lei lo odia. Non ti importa?» Quel nome ricordava a Fliss momenti meno feli-ci, un'infanzia da bambina timida, vittima del bulli-smo dei compagni di scuola, in quanto proveniente da un orfanotrofio, e di genitori adottivi troppo se-veri e distanti. Rebecca lo sapeva, perché anche lei era stata cresciuta dalla stessa coppia. Come poteva spiegarlo a Damon? Rebecca ricordò a se stessa che non era più il bastone a cui Fliss si sarebbe appog-giata. Ora stava a lei comunicare al marito le sue scelte. Per un attimo Damon sembrò colto alla sprovvi-sta, ma il suo viso si fece subito duro. «Non ti ri-guarda come chiamo mia moglie. La sola cosa che ti chiedo è di non rovinare questa giornata.» Mia moglie. Ancora una volta quella durezza la ferì. Rebecca allontanò il dolore, se ne sarebbe occupata più tardi, al termine di questa giornata da dimenticare. «E come potrei?» Sollevò un sopracciglio, fin-gendo una spensieratezza che non provava affatto. «Savvas mi ha detto che è tutto magnifico... Che è un'occasione da sogno. Non è possibile guastarla.» Ogni parola che pronunciava era un colpo al suo cuore già distrutto. «Non essere ottusa. Non dubito delle tue capacità professionali. È la tua inclinazione ai problemi che mi preoccupa.» Se solo fosse riuscita a odiarlo. Damon la disprezzava. E in quel momento nean-

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che a lei piaceva molto lui. A essere onesti, la cosa che più di ogni altra avrebbe desiderato fare sarebbe stato cancellare dalla faccia della terra Damon Aste-riades, magnate dell'economia, milionario e... l'uo-mo più cocciuto e manipolatore che avesse mai co-nosciuto. Un senso di ribellione pervase Rebecca. Forse avrebbe dovuto dargli motivo di preoccuparsi. Pu-nirlo un po'. Gli mostrò il suo sorriso più pacato e sensuale. «Problema? Dicono che sia il mio secondo nome.» «Tu sei il problema.» Le sue labbra si mossero a stento. I suoi occhi erano più duri dei diamanti al collo di Fliss. «Non voglio che parli con Savvas. Lascialo stare. Non lo accalappierai.» Il suo disprezzo per Damon vacillò. La reazione di lui era prevedibile. Prima di incontrarlo aveva sentito molto parlare di lui, dei suoi successi, delle sue idee decise e intelligenti, della sua bellezza sconvolgente. Ma non si sarebbe mai aspettata di provare quell'emozione così forte e pura. Si erano incontrati a un matrimonio organizzato da lei e Fliss per un collega di lui. Aveva dato un'occhiata a quel ragazzo stupendo e magnetico e aveva perso la te-sta. Le era apparso affascinante e premuroso. Finché lui non aveva scoperto che era la scandalosa vedova di Aaron Grainger. E in un attimo era cambiato. Era diventato freddo e distante. Le aveva rivolto uno sguardo di disprezzo, quindi si era congedato e si era allontanato per fare le congratulazioni allo spo-so. Ma ormai era troppo tardi per essere cauti. Si era presa una cotta colossale. Persa nei suoi pensieri, Rebecca si lasciò trasci-

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nare dalla musica. Per un attimo anche lui si mosse a tempo, ma un secondo dopo si irrigidì e si allon-tanò. Era sempre stato così. Dopo quel primo incontro lei lo aveva cercato più volte, spudoratamente, usando le sue conoscenze come vedova di Aaron Grainger per farsi invitare nei luoghi frequentati da lui. Ogni volta che aveva sperato in un po' di dolcezza, di calore umano era stata delusa. Finché non aveva capito che quella at-trazione coinvolgente esisteva solo nella sua mente. Come se Damon non avesse mai provato niente. La scoperta l'aveva annientata. Anche ora, mentre ballavano, il corpo di lui era rigido, tutto d'un pezzo, il suo sguardo fisso su qual-cosa al di sopra delle spalle di lei, totalmente distan-te. Era destino. Nella sua vita niente era mai ri-sultato facile, perché avrebbe dovuto esserlo in-namorarsi? Ma non si sarebbe mai immaginata un destino così crudele: che Damon desse un'occhiata alla bionda dolcezza di Fliss e la volesse tutta per sé. Quanto l'aveva devastata saperlo. E non poteva fare niente per cambiare le cose. La sera precedente ne aveva avuto le prove... Oh, cielo, la sera precedente... Fissò la bocca rigida di lui, ripensò alla pressione forte e bramosa, ricordò come... No, non pensarci. A quel punto Rebecca disse la prima cosa che le passò per la testa. «Tu e Savvas ballate molto bene. Avete fatto un corso?» «Dimenticati di come balla Savvas, piccola pian-tagrane» la frenò lui senza giri di parole. «Voglio

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che tu stia lontana da lui, è troppo giovane.» Piantagrane? E perché no? Cosa aveva da perdere? Rebecca cercò di non sentire la voce sprezzante di lui e, can-ticchiando la melodia del valzer, lasciò che il suo corpo si strusciasse contro quello di lui. «Smettila!» La mano di Damon le lasciò la vita e le si posò sulla spalla, per cercare di tenerla a bada. Lei resistette alla tentazione di sprofondare tra le sue braccia, mentre la disperazione aveva il soprav-vento. Cercò di rimanere dritta e di muoversi dol-cemente, rivolgendogli un sorriso ironico. Lui ri-spose al suo sguardo con qualcosa di più intenso della rabbia. Il suo disgusto, la sua diffidenza la segnarono profondamente. Cosa sto facendo? Si lasciò andare contro di lui, senza più riuscire a lottare. Il corpo di Damon si irrigidì, quindi la allontanò con fermezza, tenendola a una certa distanza. Il do-lore dentro di lei si fece più intenso. Cosa stava cer-cando di provare? Damon aveva ragione. Stava sbagliando. Per quanto lui l'avesse fatta soffrire e meritasse di essere trattato male, il matrimonio di Fliss non era il posto giusto per dimostrarglielo. E non valeva neanche la pena che lei perdesse l'ultima cosa rimastale, il rispetto di sé. Ma non c'era motivo per non punzecchiarlo al-meno un pochino. «Savvas mi ha detto che ha ventisette anni, quin-di tre più di me: una differenza perfetta.» «Ascoltami!» Damon sembrava aver raggiunto il limite. «Mio fratello ha poca esperienza. Non va

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bene per una donna come te. Sono stato chiaro?» Quelle parole lasciarono il segno. «Una donna come me?» La rabbia per quell'ingiustizia l'assalì. Damon Asteriades non aveva alcuna idea di che tipo di donna fosse. Come poteva essere così cieco? Come poteva non riconoscere quello che c'era tra di loro? Non avrebbe dovuto sposare Fliss, o qualun-que altra donna. C'era solo una donna per lui sulla faccia della terra. Lei. Ecco. L'aveva ammesso. Ammesso quello che la faceva soffrire così tanto. Quello che lui si era sempre rifiutato di riconoscere. E ora era troppo tardi. Ora era sposato. Con Fliss. Eppure quella cosa... quella forza ardeva di vita propria e alcune volte, come ora, lei era quasi con-vinta che lui ne fosse consapevole, che quasi la te-messe. Rebecca provò a far scorrere le dita lungo la spalla di lui, sul suo abito da sposo, fino ad arrivare al collo. «Vergognati! Non sai niente di me» sussurrò lei, soffiando delicatamente nell'incavo del collo di lui. «Non hai mai neanche provato a conoscermi.» «Per l'amor del cielo! Cosa c'è da sapere? So an-che troppo.» Damon sprizzava amarezza da ogni poro. «Tu afferri, pretendi, divori e fai piazza puli-ta.» «È una...» «Bugia? Davvero? Ma non c'è niente che smenti-sca quello che ho detto, giusto? Hai sposato Aaron Grainger per i suoi averi e, dopo aver dissipato tut-to, l'hai condotto al suicidio.»

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Lei ansimò. «Sai, nessuno ha mai osato dirmelo in faccia finora.» Scosse la mano che un attimo prima aveva accarezzato il collo di lui con un senso di impotenza. «Avevo sentito i pettegolezzi, ma non avrei mai pensato che una persona come te potesse crederci.» «Be', non si tratta solo di pettegolezzi, giusto? Giusto?» Il viso di lui era vicinissimo a quello di lei ora. Rebecca poteva vedersi rispecchiata nei suoi occhi. «So esattamente che tipo di donna sei. Quella che bacia il migliore amico del suo ragazzo, lo pre-ga di...» «Taci!» Lui la fece roteare, poi la trasse di nuovo a sé per evitare un'altra coppia. «Prometti peccato e desi-derio e offri solo piacere carnale. So che tentazione rappresenti. La notte scorsa...» Lei rimase pietrificata. «Ti ho detto di tacere» sbuffò. «O vuoi che provochi la scenata che temi così tanto? Qui, per il grande giorno di Fliss?» Fer-ma in mezzo alla pista, senza riuscire a muoversi, assistette alla presa di coscienza di lui sulla loro po-sizione, sulla calamità che li aveva quasi coinvolti. «Devo essere impazzito!» esclamò lui, con la vo-ce colma di disgusto e allontanandosi, temendo che lei lo potesse contagiare. La potenza delle sue parole risvegliò Rebecca. Damon era sposato. Intoccabile. Non doveva di-menticarlo. Liberandosi dall'abbraccio di lui, Rebecca si girò dalla parte opposta e se ne andò infuriata. E non osò voltarsi indietro.

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Capitolo 2

Quasi quattro anni dopo IL LUNEDÌ MATTINA iniziò male. Rebecca non sentì la sveglia e quando T.J. riuscì a strapparla dal son-no, pizzicandole una guancia, il sole quasi estivo splendeva già alto nel cielo senza nuvole di Nor-thland. T.J. piagnucolava mentre lei cercava di vestirlo in tutta fretta e il senso di colpa l'assalì. Il mal d'orec-chi che l'aveva tormentato durante il fine settimana non se n'era ancora andato e lei promise a se stessa di prendersi il pomeriggio libero per passarlo con lui. Giunti davanti alla casa di Dorothy, la ragazza che si prendeva cura di T.J., Rebecca si sentì solle-vata. Mentre le lasciava le medicine per il piccolo, Dorothy la tranquillizzò: «Non si preoccupi per questo giovanotto, oggi può concentrarsi su Choco-latique. E non si dimentichi quei deliziosi dolcetti per cui vado matta». Il buonumore di Dorothy accompagnò Rebecca fino a Chocolatique ma, arrivata al negozio, rimase davanti alla soglia, pietrificata.

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Lui. Damon Asteriades era seduto sulla poltrona ac-canto alla porta, mostrando poca cura per l'abito firmato che indossava. Rebecca notò subito le cura-tissime scarpe di cuoio, la giacca elegante e la cra-vatta allentata. Appariva molto diverso dai tipici tu-risti europei in giro per Tohunga. Il suo sguardo ri-salì fino a incontrare gli occhi freddi di lui, che la fecero trasalire. Rebecca attraversò la soglia piena d'apprensione e chiese con voce rauca: «Che cosa ci fai tu qui?». «Se c'era una cosa bella che ricordavo di te, Re-becca, erano le tue buone maniere. Forse vivere quassù, al limite della civilizzazione, ti ha privato anche di quelle? Devo discutere con te di una que-stione.» «Con me?» Il suo cuore ebbe un fremito. Cosa faceva ad Auckland? Era arrivato il giorno della re-sa dei conti, il giorno che aveva temuto per più di tre anni? Damon indicò la sedia vuote di fronte. «Vedi qualcun altro?» Il suo sguardo da pirata era più duro del solito. «Cosa vuoi da me?» E immediatamente desiderò di non aver mai pronunciato quelle parole. Non an-dare nel panico, si disse, e non fargli capire niente. Lui non rispose e si mise a squadrarla da capo a piedi, poi commentò: «Non sei per niente cambia-ta». Anche Rebecca lo osservò, notando che indossa-va un abito italiano, forse di Armani. Sotto la giacca sbottonata la camicia di seta bianca, creata su misu-ra, sottolineava in modo perfetto il suo corpo mu-scoloso.

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Cercando di distogliere lo sguardo, incontrò i suoi freddi occhi blu. «Allora, cosa vuoi?» Certa-mente non lei, non l'aveva mai voluta. Ma T.J... Be', lui era un'altra questione. Rebecca deglutì quel senso di amaro terrore. Chocolatique era suo, pensò tra sé, avvicinando-si. E lui era l'intruso. Nonostante quel profumo familiare di cacao e i colori accoglienti che aveva impiegato giorni a sce-gliere, Chocolatique non allontanò da lei quel timo-re. Si rese conto vagamente dei clienti, ma la loro presenza non la distolse da quell'uomo indesiderato che la guardava come se sperasse che se la desse a gambe. Ignara della tensione, Miranda, la sua assistente, sorrise dall'altra parte del bancone di vetro. «Rebecca...» Quella voce bruscamente vellutata le fece prova-re un brivido. Come faceva? Bastava una parola e lei reagiva come un gatto accarezzato dal padrone. Ma non era un gatto. Era una donna indipendente e Damon Asteriades non aveva più alcun effetto su di lei. Quindi riuscì a rivolgergli un sorriso incuran-te, determinata a mostrare a se stessa, ma soprattut-to a lui, che la sua presenza non la turbava più. «Buongiorno, Damon. Potrei consigliarti...» «Ho finito.» Tagliò corto lui e si sporse in avanti sul tavolino, verso di lei. Non poté fare a meno di notare le sue spalle possenti sotto l'abito perfetto. Quindi lui le sfiorò le dita e lei non riuscì a trat-tenere un leggero sospiro. Prima che potesse allontanare la mano, lui avvi-

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cinò un pezzo di carta rettangolare, che Rebecca prese senza pensarci, quindi abbassò lo sguardo. Un improvviso déja vu. Era un assegno e un'occhiata più accurata le per-mise di notare il numero esagerato di zeri: una cifra molto superiore a... diede un'occhiata alla tazzina di caffè vuota e a quello che rimaneva della torta al formaggio e cioccolata... quello che aveva ordinato. «Mi sembra un po' troppo» commentò sarcastica. «Per la colazione? Forse sì.» «Per qualsiasi cosa» replicò lei. Quel tono sicuro e rilassato la stava facendo innervosire. «Ma non è un pagamento per qualsiasi cosa.» Dalla sua voce sparì ogni forma di ironia. Qual-cosa nel modo in cui la guardava, la sua fermezza assoluta, cominciò a farle battere il cuore all'impaz-zata. «No, l'assegno non è per i servizi prestati. Per lo meno non quelli a cui pensi tu. Le donne avide non mi hanno mai eccitato.» L'umiliazione la rodeva. E la cosa peggiore era sapere che quelle parole nascondevano un fondo di verità e che Damon Asteriades aveva letto nei suoi occhi il desiderio che la pervadeva. Che andasse al diavolo! Non si sarebbe nascosta dietro una poltrona. Non aveva paura di quell'uomo o del suo effetto su di lei. Si trattava solo di desiderio: il cuore era al sicuro. Girando attorno alla poltrona, gli gettò contro l'assegno. «Prendilo e fanne quello che vuoi!» Si disse che sarebbe riuscita a resistere al suo for-te magnetismo. Perché il desiderio senza amore non era niente se non una vuota amarezza. Invece di prendere l'assegno e strapparlo, lui lo

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posò deliberatamente a faccia in su sul tavolino ro-tondo che li separava, con un gesto di sfida. «Ora cominciano le trattative.» Il suo sorriso era duro. «Non dimenticare che so che le donne come te sono sempre in cerca di un ricco benefattore.» Rebecca provò un dolore cocente. «Esci da qui» sussurrò. «Non sono in vendita. Non lo sarò mai.» Lui la fissò negli occhi senza battere ciglio, quin-di aggiunse con molta calma: «La tua reazione è e-sagerata. Cosa ti fa pensare che ti voglia compra-re?». Come aveva potuto amare quell'uomo? E credere che lui avrebbe potuto imparare ad amarla, una vol-ta conosciutala meglio? Rebecca lo guardò sbalor-dita, mentre la rabbia le serrava lo stomaco. Questo era il modo che aveva Damon per morti-ficarla, per sottolineare che, mentre lei lo desidera-va ancora disperatamente, lui la detestava nella ma-niera più assoluta. Rebecca tornò dietro la poltrona, quasi a proteggersi da lui. Risentimento e desiderio si fusero insieme, ma Rebecca si rifiutò di dargli la soddisfazione di ve-derla mentre perdeva la calma. Avrebbe preferito vedere lui perdere il controllo. Ma questo non sa-rebbe successo, perché Damon sapeva come con-trollare se stesso. Nonostante ciò, doveva capire co-sa lo avesse portato lì. E il modo migliore era pro-vocarlo. Ma con cautela. Si girò per guardarlo. «Allora, che cosa ci fai a Tohunga?» Alzò un sopracciglio. «Fai un giro per i bassifondi?» Con una certa soddisfazione, lo sentì sospirare con impazienza. «Ho promesso a mia madre...» «Hai promesso a tua madre cosa?» l'incalzò lei,

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sperando che non dicesse quello che più temeva. Lui la guardò risentito. «Mia madre, per qualche assurda ragione, ha un'ottima opinione di te.» «Anche a me è sempre piaciuta. Soula ha classe, buongusto e pochi pregiudizi, a differenza di altri.» Lui continuò a denti stretti: «Savvas sta per spo-sarsi e mia madre vuole che tu organizzi le nozze». «Mi dispiace, non mi occupo più di matrimoni.» La sua voce riacquistò autorevolezza al sentire quella richiesta esplicita. Per la prima volta da quando lo conosceva si sentiva in una posizione di forza. «No, non organizzi più eventi elaborati. Ora hai il tuo negozietto di dolciumi.» Come a dire che ormai era scesa con i piedi per terra. Rebecca ignorò l'ironia nella sua voce. «Soula ti ha detto che mi ha chiamato un paio di settimane fa per chiedermi di organizzare il matrimonio?» Lui inclinò leggermente la testa. «E che io le ho detto che ho un'attività, un nego-zietto di dolciumi, come l'hai definito tu così pitto-rescamente? Non posso farlo neanche se lo voles-si.» Arricciò le labbra sperando che lui avesse colto il messaggio: non si sarebbe mai più esposta alla presenza di Damon. «Sono sicura che tua madre sa-prà organizzare il matrimonio. È una donna dalle mille risorse.» «Le cose non stanno come ricordi. Mia madre...» Esitò. «Mia madre ha avuto un infarto.» «Quando? Come sta?» Il viso di Damon si incupì. «La tua reazione ti fa onore, anche se arrivi con due anni di ritardo.» «Due anni? Non lo sapevo!» «E perché avresti dovuto? Non ti considero certo

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un'amica intima e se fosse dipeso da me avrei fatto in modo di non vederti mai più. Hai ottenuto quello che volevi. Hai distrutto...» Si interruppe e distolse lo sguardo. L'angoscia travolse Rebecca, che si morse le lab-bra per fermare il fiume di parole che le avrebbe permesso di spiegare tutto. «Damon...» mormorò infine. Lui scrollò le spalle. «Cosa diavolo importa or-mai? Il passato è passato.» La sua voce era calma, perentoria, priva di ogni emozione. «Quello che conta è il presente. Mia madre teme di non riuscire a organizzare il matrimonio, date le sue condizio-ni.» «E la famiglia della futura sposa?» «Demetra è arrivata da poco dalla Grecia. Non ha i contatti né tanto meno la predisposizione per or-ganizzare un matrimonio di queste dimensioni. La sua famiglia vive in Grecia e arriverà solo per le nozze.» Rebecca incontrò il suo sguardo. L'irrequietezza che si nascondeva dietro quegli occhi aveva ancora la capacità di smuoverla. Oh, cielo! Rebecca scosse il capo. «Mi dispiace...» «Risparmia i convenevoli. Non sei per niente di-spiaciuta! Ma sappi che ne varrà la pena, ti pagherò anche di più.» Non erano i soldi a muoverla, qualunque cosa lui pensasse. «Non credo che potrai pagarmi abbastanza da...» «Non hai più bisogno di incassare i miei assegni? Hai trovato un altro riccone così stupido da mante-nerti?»

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La rabbia l'assalì di nuovo. Questa volta, però, Rebecca riuscì a ridere. Damon balzò in piedi e l'afferrò per le spalle. «Dannazione!» I suoi occhi rivelarono tutto il risentimento che provava, mentre tornava a sedersi, lasciando cadere la testa tra le mani. Improvvisamente Rebecca non si sentì più così convinta del suo atteggiamento trionfante e si ada-giò sulla poltrona di fronte a lui. Damon si spostò in avanti, respirando profonda-mente: «Rebecca, mia madre ha bisogno del tuo aiuto. Te lo chiedo per favore...». Damon odiava supplicare la gente, lo notò da come stringeva i pugni. E stranamente Rebecca non godette nel vederlo così. Poi pensò a Soula e alla fatica che doveva aver fatto per chiedere di nuovo aiuto. Quindi la sua mente andò a T.J. e a tutto quello che sarebbe potuto andare storto. Non era possibile. «Damon, non posso.» «Non puoi?» Ora il disprezzo era palpabile. «Non vuoi, piuttosto. Non ricordavo che fossi vendicati-va, Rebecca. Pensavo che fosse la mia arma, non la tua.» «È una minaccia? Perché se è così te ne puoi an-dare.» La sua voce era bassa e la spina dorsale rigi-da come una corda di violino. «E non sbattere la porta. Fuori!» Seguì un attimo di silenzio, lungo e teso. Damon non si mosse. «Oh, Rebecca, so che non potresti mai cacciarmi, anche se volessi... Dovrai imparare a controllarti, uno di questi giorni. I tuoi occhi e le tue guance so-

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no in fiamme. Potresti mordermi da un momento all'altro.» «Mordere?» ribatté. «Ah, ti piacerebbe!» «Non ho proprio idea di cosa possa trovare in te un uomo. Sei una megera, un'arpia.» Per lo meno questa volta le aveva risparmiato i soliti vedova nera, spillaquattrini... «Certo che non sai riconoscere il mio valore. Tu cerchi donne sottomesse, per poterle dominare.» «Lasciamo fuori Felicity da questa faccenda.» La voce era fredda, il sorriso era sparito dalle sue lab-bra. Lei sgranò gli occhi. «E perché dovrei parlare di Fliss ora? Alla fine ha trovato il coraggio di fare quello che voleva... No, sto parlando delle donne che hai frequentato negli ultimi due anni. Tutte bamboline.» «Oh, Rebecca, mi deludi, ti sei messa a leggere i giornali di pettegolezzi. Credimi, non sono bambo-le.» «Hai ragione, non sono bambole, sono manichini. Tutte uguali: bionde, magre e...» «Sei gelosa, Rebecca?» L'angoscia l'assalì. Ritornando in sé, Rebecca si guardò intorno, sperando di non aver attirato l'atten-zione dei clienti: non era stato facile conquistare il rispetto degli abitanti di quella cittadina. Non vole-va perderlo. Facendo una smorfia, si rivolse di nuovo a lui. «Un giorno...» mormorò. Improvvisamente lui si alzò in piedi. «Batti in ri-tirata, Rebecca?» Le afferrò il gomito con decisio-ne. «Siediti.» «No.» Lei scrollò il braccio, per liberarsi.

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«Siediti» ripeté lui. «Non posso.» Lo guardò negli occhi, decisa ad apparire calma. «Devo lavorare.» Non era una bu-gia. Chocolatique era un'attività che andava molto bene, oltre ai turisti di passaggio, riceveva molti or-dini per e-mail o per telefono da clienti di Au-ckland. «Rebecca, anch'io ho i miei affari da condurre. In questo momento dovrei essere ad Auckland a porta-re a termine un accordo molto importante, ma la fe-licità e la salute di mia madre sono più importanti. Ti chiedo per l'ultima volta di pensarci, ne varrà la pena.» La irritava che pensasse che bastava sventolare il libretto degli assegni per farla cedere. «Hai usato troppe volte questo sistema, Damon. Quattro anni fa mi hai offerto dei soldi per stare lontana da Fliss...» «Ma non ce l'hai fatta, vero?» brontolò lui. «Non riuscivi a sopportare che lei avesse trovato la felici-tà con l'uomo che volevi tu.» «No!» Lei si coprì le orecchie. «Non voglio senti-re.» Lui si sollevò dalla poltrona con furia, l'afferrò per i polsi e le liberò le orecchie. «Sì, ammettilo, Rebecca. Le hai concesso sei misere settimane, prima di convincerla a lasciarmi. Eri disperata...» «No» ripeté lei con più forza. «Non è andata co-sì!» Lui si chinò verso di lei fino a coprirle la visuale con i suoi occhi blu. «Mi chiedo come tu abbia po-tuto convincere Fliss a scappare con te!» Forse era arrivato il momento di smettere di pre-occuparsi della sua reazione e di rivelargli la dura, tragica verità. Forse ci voleva questo per fermarlo.

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Rebecca respirò profondamente, per trovare il co-raggio. «È venuta di sua spontanea volontà. Non l'ho costretta. Le ho detto del mio la...» «Basta! Non voglio sentire le tue bugie.» Damon respirava a fatica, con gli occhi colmi di rabbia. «Se non fosse stato per te, mia moglie sarebbe ancora viva.» La lasciò andare con forza e lei comprese che, qualunque cosa avesse detto, lui non le avrebbe creduto. Chiuse la bocca, sfregandosi i polsi. «Fammi vedere.» Lei rimase lì, in silenzio, men-tre lui le massaggiava i polsi. «Mi dispiace» ag-giunse lui. «Non è niente, non c'è neanche un segno.» «Non è vero che non è niente. Ti ho fatto male.» Rebecca trattenne una risata isterica. Le aveva fatto molto più male in passato, rifiutandosi di cre-dere alla sua integrità. Abbassando le braccia, sorri-se tristemente. «No. E non importa. Davvero.» I suoi occhi erano di un blu brillante e insondabi-le. «Allora, Rebecca, che ne dici di organizzare il matrimonio di Savvas e di lasciarci il passato alle spalle?» Lei gli lanciò un'occhiata incredula. Se Damon era pronto a cancellare ogni cattivo sentimento, forse avrebbero potuto raggiungere una tregua. E magari un giorno sarebbe stata capace di dirgli di T.J. Poi c'era l'altra tentazione... Se avesse dato una mano con il matrimonio, non per i soldi, ma per ottenere una tregua, forse Damon l'avrebbe conosciuta meglio e avrebbe perfino potu-to scoprire che il loro legame era troppo forte per essere ignorato. Ma... I dubbi l'assalirono.

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Damon era un uomo potente e molto ricco. E se avesse scoperto la verità su T.J.? Non poteva mette-re a rischio la sicurezza del bambino per uno stupi-do sogno che avrebbe forse, ma solo forse, fatto cambiare la pessima opinione che Damon aveva di lei. Sospirò. «Ascolta, te l'ho detto, non mi occupo più di matrimoni. Neanche per una tale quantità di denaro.» «Ma mia madre...» «Tua madre sa che non posso. Gliel'ho già detto.» Soula sembrava aver accettato di buongrado la sua decisione due settimane prima e l'infarto l'aveva a-vuto due anni prima. Si trattava solo di un piano di Damon: nel suo mondo il fine giustificava sempre i mezzi. «Se vuoi, la posso chiamare per ridirglielo.» Damon apparve allarmato. «Non voglio che tu...» «Parli con tua madre. Lo so, lo so!» Perché non voleva che scoprisse che aveva mentito sulla sua sa-lute? O perché non voleva che Rebecca Grainger, una donna che disprezzava profondamente, avesse a che fare con la sua cara mamma? Lui cercò di dire qualcosa, ma Rebecca alzò una mano, ferita all'idea della bassa opinione che aveva di lei. «Allora dille di non chiamarmi più. E tu fai altrettanto. La mia risposta la sai.» Sì, ormai era ora che accettasse che niente avreb-be mutato l'opinione di Damon su di lei. «E dato che dici di essere così impegnato, penso che sia meglio per te rientrare subito ad Auckland. Addio.» Rebecca non attese la sua risposta. Lo guardò un'ultima volta in modo riprovevole, quindi si girò e andò a rifugiarsi nel suo piccolo ufficio sul retro,

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profondamente scossa da quell'incontro così spiacevole. Alcune ore dopo il loro scontro, Damon uscì a grandi passi dal motel da cui si era appena congeda-to, mentre le lunghe ombre gli ricordavano che la sera stava calando. Se avesse ascoltato le parole che Rebecca gli a-veva detto quella mattina, sarebbe già stato di ritor-no ad Auckland. Invece era ancora lì a pensare a come convincerla. E ad allontanare l'impressione di averla ferita. Impossibile. Quella donna mangiava uomini a co-lazione. Damon aveva un vago ricordo di Aaron Grainger. Un brav'uomo. Uno scaltro banchiere che gli a-veva concesso un prestito sostanzioso nel difficile periodo che era seguito la morte di suo padre. Que-sto gli aveva permesso di difendersi dagli sciacalli e di salvare la Stellar International e il proprio orgo-glio. Certo non meritava di morire senza un quattrino. Damon aveva sentito di come Rebecca si fosse fatta soddisfare ogni capriccio. E poi c'era stata la storia di quel suo amante bello e dannato: si diceva che Aaron avesse pagato tutti i suoi debiti pur di to-glierselo di torno. Damon strinse i denti e, mentre riponeva il baga-glio in macchina, pensò che si sarebbe dovuto in-tromettere, prima che Rebecca portasse Aaron alla morte. Sbatté la portiera della macchina con molta forza e sentì squillare il cellulare. «Sì?» rispose. «Lo farà?» chiese Savvas.

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Damon lo ragguagliò e chiese della madre. «Ha sempre quei capogiri. Il dottore dice che de-ve rilassarsi un po' e non pensare troppo. Altrimenti rischia un altro infarto e stavolta...» La sua voce si affievolì. «Sai, penso che non avrei dovuto chiedere a Demetra di sposarmi. Maledette nozze...» «È questo che devo sentire dall'uomo che predica l'amore vero?» Damon tagliò corto, più irritato che preoccupato dal fatto che il fratello potesse avere dei ripensamenti. «No, non voglio dire che mi pento di essermi in-namorato di lei: è la cosa più bella che mi sia capi-tata. Ma forse sarebbe solo dovuta venire a vivere con me.» «La famiglia non l'avrebbe mai accettato.» «Però con te fanno finta di niente, nonostante le donne con cui esci.» Quella frase rimbombò all'in-terno della Mercedes. «È diverso, io sono vedovo. E comunque fre-quento donne più navigate, non fanciulle con la pa-rola matrimonio scritta in fronte, come la tua Deme-tra» rispose al fratello, guardando fuori dal finestri-no. Felicity era stata l'ultimo tentativo di rispettabi-lità... «Forse sarebbe stato meglio sposarci solo civil-mente, ma ormai è troppo tardi: il sontuoso matri-monio greco è in preparazione. Damon, temo che la mamma non reggerà lo stress.» «Savvas, mamma desidera disperatamente queste nozze. Vuoi togliergliele?» Soula aveva sempre chiesto poco. Ma aveva dato loro tantissimo. Invece di rinchiudersi a piangere, dopo la morte improvvisa e devastante del marito, si era battuta al fianco di Damon per portare avanti

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la Stellar International. Ora meritava un po' di feli-cità. «La mamma ha detto che vorrebbe avere un nipo-te tra le braccia prima di morire.» Aggiunse Savvas. «Demetra vuole provare a mettere su famiglia non appena finita la luna di miele, ma prima dobbiamo sposarci.» Già, la famiglia. Il vero amore di sua madre. Tut-to quello che Soula chiedeva era di vedere Savvas sposato. E Rebecca se ne sarebbe dovuta occupare. Damon non era un uomo abituato ai no. Rebecca avrebbe aiutato sua madre a organizzare il matri-monio di Savvas. Assorto nei pensieri, Damon mise la retromarcia. «Non deve essere facile per te chiedere il suo aiu-to. La odi e non ti biasimo.» Savvas sospirò. «A-scolta, c'è una cosa che devo dirti. Dopo le nozze l'ho vista un paio di volte e mi è sembrata normale, non la donna crudele di cui parlano...» «Aspetta un attimo, mi stai dicendo che sei uscito con Rebecca?» Damon si sentì ribollire. Maledizio-ne! Le aveva detto di stare alla larga da Savvas. Savvas sembrò imbarazzato. «È una bella don-na.» «Bella?» sbuffò Damon. «Se ti piacciono le ve-dove nere. È pericolosa come il peccato.» «Ma, Damon, non era per niente così! Per lo me-no con me. Ci siamo divertiti.» Divertiti? Non gli piacque sentirlo. E non volle neanche pensare alle possibili implicazioni. «No, certo che non era così con te. È il suo giochetto: lei tende la tela e la vittima ci casca dentro.» «Be', è acqua passata.» Savvas sospirò. «Dopo quello che ha fatto, non l'ho più contattata. Sei mio

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fratello, come avrei potuto? Se tornasse ad Au-ckland, il prezzo da pagare...» Damon lo interruppe. «Lo farò per la mamma, a qualunque costo.» Spense il telefono e attraversò con la sua Merce-des il centro di Tohunga. Stavolta avrebbe usato l'arma che avrebbe dovuto estrarre dal primo mo-mento, il suo charme. Qualche gesto da cascamorto e un paio di assegni sostanziosi e l'avrebbe avuta in pugno. Entrando nel negozio di Rebecca si aggiustò la cravatta e sfoggiò il suo sorriso più smagliante. Purtroppo lei non c'era, si era presa il pomeriggio libero. Cinque minuti più tardi, impaziente e senza più il suo bel sorriso, Damon imboccò la strada di Rebec-ca, intenzionato a uscirne con lei seduta accanto, che ne fosse felice o meno. A qualunque costo.

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Capitolo 3

REBECCA ENTRÒ CON il suo camioncino giallo nel vialetto privato davanti alla casa prefabbricata in cui aveva abitato per quasi quattro anni, da quando aveva venduto Dream Occasions e si era trasferita al nord. Nel piccolo giardino di fronte le giunchiglie era-no in fiore e le petunie e le calendule che lei e T.J. avevano piantato stavano iniziando a germogliare. Rebecca spense il motore e, girandosi, vide che T.J. si era addormentato sul sedile posteriore. Al vederlo provò un senso di profonda tenerezza. Gli voleva così bene! Erano una famiglia. No, più di una famiglia. In poco tempo era diventato tutto il suo mondo. Lo a-dorava come una feroce leonessa: era suo, solo suo. Per una volta nella vita aveva qualcuno che niente o nessuno le avrebbe portato via. Quel giorno era riu-scita a mantenere la promessa fatta a se stessa e a-veva sbrigato velocemente gli affari a Chocolatique per passare il pomeriggio con il bimbo. Con il piccolo T.J. ancora addormentato in brac-cio, Rebecca si avviò verso la porta. Giunta sulla soglia vide un uomo avvicinarsi dal pergolato.

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«Hai un bambino!» La voce di Damon era accu-satoria e il suo viso scioccato. Istintivamente strinse T.J. a sé. «Sì» rispose bru-scamente, con uno sguardo di sfida. Il viso di Damon assunse un'espressione sconvol-ta. Lei aggrottò le sopracciglia. Se lui avesse sospet-tato... No. Non era possibile. Era stata così cauta. Damon uscì dall'ombra. «Non lo sapevo.» «E perché avresti dovuto? Non ti considero un a-mico intimo.» Damon scattò indietro al sentirsi rispondere con le sue stesse parole e Rebecca lo guardò trionfante, mentre le pupille di lui si dilatavano. Bene! Che provi anche lui quello che ho provato io. Rebecca gettò uno sguardo alla strada. «Non ve-do la tua macchina.» «Ho parcheggiato sul retro.» «Eh?» Era una trappola? Sapeva di T.J.? E per-ché avrebbe finto di essere sorpreso, se sapeva? «T.J. non è stato bene, ha bisogno di riposare. Scusaci.» Rebecca cercò di avvicinarsi alla porta. «Aspetta un attimo.» Lui le bloccò il passo. «Co-sa ha che non va? E che nome è T.J.?» «Quello che ha T.J. non ti riguarda.» Ignorando la seconda domanda, Rebecca salì al piano superiore, cercando di lasciarsi dietro Damon, ma lui la seguì. Lei si fermò sulla soglia della camera di T.J. «Non c'è bisogno che entri, puoi aspettare di sotto.» Lui la ignorò e le passò accanto. La stanza si fece improvvisamente più piccola per la presenza di Damon, e Rebecca si sentì quasi

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mancare il respiro. Perché non era rimasto di sotto? E perché il suo corpo reagiva ancora così irrazio-nalmente alla sua presenza? «Ascolta, T.J. ha bisogno di dormire. E l'ultima cosa che voglio è che si svegli e trovi un estraneo nella sua stanza.» «Non è abituato a trovare estranei in casa quando si sveglia? Questo mi stupisce, Rebecca.» Si sentì mancare il fiato. «Ora ascoltami» sbuffò. «Non me ne frega un c... cavolo di quello che pensi di me. Ma in casa mia, quando c'è mio figlio, devi rivolgerti a me con rispetto. Ora sono stanca e T.J. non sta bene.» In un istante, la tensione divenne insopportabile. Si morse il labbro e guardò dall'altra parte, in preda alla furia, cercando di trattenere le lacrime . «Mi dispiace.» Per qualche strano motivo quelle scuse inaspetta-te furono la goccia che fece traboccare il vaso. De-glutì e lo guardò con aria disperata. «Ti prego...» «Vattene?» finì lui, rivolgendole un sorriso stra-no, mentre abbassava il lenzuolo del lettino. «Non è la prima volta che me lo sento dire oggi.» «Allora scusami se ti annoio» aggiunse lei con una voce diversa dal suo solito tono secco. «Annoiarmi?» Damon rimase a bocca aperta, i suoi occhi risplendevano di una luce che lei non ri-conobbe. «Penso che la noia sia una colpa di cui non ti potresti mai macchiare, Rebecca. Forza, dammi il bambino.» Lei si allontanò di scatto sentendosi sfiorare dalle dita di lui. Damon ritrasse le braccia e mostrò i palmi delle mani. «Va bene, ho capito. Aspetterò giù.» La

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guardò con un violento bagliore negli occhi. «Mai abbassare la guardia, mai mostrare alcuna debolez-za, eh?» Rebecca abbassò il capo per non guardare i suoi occhi furenti e per non rivelare quanto quel fugge-vole contatto l'avesse turbata. Un istante dopo sentì i passi di Damon che si allontanavano e per un bre-ve attimo provò un improvviso senso di vuoto. Per calmarsi strinse a sé T.J. e respirò il suo profumo di bambino. Quindi lo posò sul letto e rimase a guardare il suo viso addormentato per un minuto, provando quasi dolore misto a tenerezza. T.J. T.J. era la sua priorità ora. Non il suo lavoro. Non Damon. Ora la cosa più importante della sua vita era T.J. e il piccolo la ri-pagava della sua devozione con un amore incondi-zionato, che non avrebbe mai barattato con la pas-sione feroce e distruttiva che un tempo provava per Damon. «Il bambino dorme?» «Sì» rispose lei, ferma davanti alla porta, più tur-bata dal suo sguardo pieno di domande di quanto non volesse ammettere. «Mi dispiace che non stia bene. È una cosa se-ria?» Quegli occhi sinceramente preoccupati la costrin-sero a rispondere: «Una semplice otite». Lui aggrottò le sopracciglia. «Non va sottovaluta-ta però, perché potrebbe portare alla perdita dell'u-dito.» Damon stava dando voce al dubbio che lei aveva

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espresso con il medico proprio il giorno prima, ma rispose con aria indifferente: «Il dottore mi ha assi-curato che gli antibiotici faranno passare tutto». «E il padre del bambino dov'è?» La sua domanda ingenua frenò ogni tentativo da parte di Rebecca di apparire tranquilla. «Non fa più parte della mia vita» rispose lei in-tenzionalmente vaga, cercando di sfuggire ai suoi occhi blu, che avrebbero mostrato senz'altro disap-punto. «Ma almeno sai chi è il padre?» Rebecca sollevò la testa per guardarlo dritto negli occhi, troppo arrabbiata per preoccuparsi di quello che le sarebbe potuto sfuggire. «Che razza di do-manda è? Certo che so chi è il padre di T.J.» Cercò di calmarsi e rimanere impassibile. «Que-sta è casa mia e ti pregherei di tenere le tue... osser-vazioni per te. Ora dimmi, cosa posso fare per te?» «Non ti chiedo altro se non di organizzare il ma-trimonio di Savvas. Sai che sono un uomo molto ricco» rispose lui con la stessa compostezza. «Te l'ho già detto, non posso! E non accetterò nessuna cifra. Hai già provato a corrompermi.» «Va bene!» esclamò allargando le braccia. «Qua-lunque cosa tu mi chieda per organizzare questo matrimonio la farò. Almeno potrò tornarmene ad Auckland a tranquillizzare mia madre.» Rebecca rimase senza parole per quella resa in-condizionata. Damon non era uno disposto a nego-ziare. «Pensaci, potresti usare i soldi per la tua attività, per il bambino.» Rebecca lo squadrò attonita. Tornare ad Au-ckland avrebbe riaperto vecchie ferite. Ma per un

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lungo attimo aveva considerato la possibilità di ac-cettare l'assegno. E ora che lui parlava di resa senza condizioni... Non poteva accettare dei soldi per organizzare il matrimonio di Savvas. Non le sembrava giusto. Ma una vocina dentro di lei le ricordò T.J. Chocolatique permetteva loro di vivere abbastan-za bene e aveva già messo via una certa somma di denaro, che T.J. avrebbe ereditato all'età di venti-cinque anni. Ma quello che le offriva Damon a-vrebbe eliminato ogni preoccupazione per lungo tempo. No! Rebecca allontanò quella tentazione. «Il mio posto è qui» affermò convinta Rebecca. «Devo occuparmi di T.J.» Damon apparve sconcertato: non aveva calcolato il bambino. Ma ribatté: «Non c'è problema. Portalo con te». Rebecca rise, ma dentro di sé sentì una stretta al cuore. Quella era l'ultima cosa che voleva fare! «Sii realistico. Cosa potrebbe fare un bambino in casa tua? Distruggere i pezzi d'antiquariato?» «A Demetra piacciono i bambini. Ti darà una mano, se glielo chiedi con le buone maniere.» Demetra? La sua chiara passione per Demetra andò a colpire un nervo scoperto. «E chi sarebbe?» «Te l'ho detto.» Damon sembrò spazientito. «La fidanzata di Savvas. È perfetta per lui. È gentile, ri-spettabile ed educata...» Tutto quello che non era lei. Ogni parola la tra-fisse come una freccia. «È al corrente di ciò che sta per affrontare sposando un Asteriades?» si lasciò sfuggire. «Almeno è abbastanza intelligente da ca-

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pire che bigotto sei e quanto Savvas sia più piace-vole.» «Ah, e tu lo sai, vero?» La fissò amareggiato. «Savvas mi ha detto che siete usciti insieme dopo il matrimonio. «Quanto... piacevole sei stata tu per mio fratello, eh?» Sorrise con disprezzo. Lei ricambiò il sorriso per nascondere i sentimen-ti che le ribollivano dentro. Rabbia. Eccitazione. E quel brivido di pericolo che portava ogni di-scussione con Damon. «Mi avevi avvertito di stare lontana, ma è stato lui a chiamarmi. Al tuo fratellino sono piaciuta per quella che sono. E dopo il modo in cui mi avevi trattato è stato... piacevole.» La sua voce era dolce, ma provocatoria. Gli occhi di lui sembrarono incendiarsi. «Piccola sgualdrina...» Fece improvvisamente un passo avan-ti. «Hai dormito con mio fratello per vendicarti di me. Perché ho sposato Felicity!» Il dolore crebbe in lei, ma Rebecca non si lasciò intimidire. «Forse ti credi un po' troppo importante. Savvas non ha la tua arroganza, altro motivo per cui vale mille volte più di te.» «Perdi veleno dalla bocca.» Le si avvicinò, i suoi occhi brillavano come non mai. «Ci penserò io.» L'aria era diventata elettrica, pulsante. Dopo un attimo brulicante di risentimento, attrazione latente e miriadi di sentimenti non rivelati, Damon andò a buttarsi sul divano. Rebecca lo fissò per un lungo momento e si sentì tremare... e bruciare. «Scordatelo. Non verrò» disse con determinazio-ne e quando ritrovò la calma capì di aver preso la

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decisione giusta. Si girò per allontanare ogni senso di colpa che Damon era in grado di farle provare. «Ascolta... mi dispiace.» Rebecca sobbalzò quando lo sentì parlare dietro di lei. Non si era accorta che lui si era alzato e si ri-girò bruscamente. Il senso di colpa l'assalì. «Non so che cosa mi abbia preso. Non volevo farmi condizionare da ciò che è successo in passa-to.» Le lanciò un sorriso che avrebbe potuto essere definito irresistibile, se non fosse che era indirizzato a lei. Rebecca cominciò a capire. «Vuoi dire che vole-vi...» le mancò il fiato, «essere piacevole con me.» Gli occhi di lui brillarono e le sue guance diven-nero improvvisamente rosse. Tombola! La rabbia l'assalì. «Fino a che punto saresti arrivato, dannazione a te?» «Aspetta.» Sospirò profondamente. «Al momento mia madre è la mia unica preoccupazione. Ha biso-gno...» Lei tagliò corto, prima che Damon potesse difen-dersi usando delle scuse intelligenti. «Quindi avresti fatto di tutto?» chiese con voce amareggiata. «An-che usare il tuo fascino per sedurre la sciocca Re-becca?» «No!» esplose lui. «Non sarei arrivato fin a quel punto.» Certo che no. Dormire con lei non era concepibi-le per il potente e perfetto Damon Asteriades. «Be', fortunatamente per te non dovrai arrivare a questi estremi. Sono sicura che le sorelle che hanno rileva-to la Dream Occasions saranno felicissime di...» «No!» Il suo sguardo rivelò piena frustrazione. «Ho provato in tutti i modi, ma mia madre vuole te

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e la sua salute è troppo a rischio per discutere con lei.» Rebecca sentì la trappola stringerlesi attorno. «Ti prego, aiuta mia madre. Il bambino non sarà un problema» la tranquillizzò, «troveremo la solu-zione.» Sembrava disperato. Per quanto gli volesse dare una lezione, Rebecca si sentiva sempre più in colpa per il suo rifiuto. Ma come avrebbe potuto aiutarlo? Lei e T.J. venivano prima di ogni altra cosa. Ha visto T.J., le suggerì una vocina malefica, e non ha fatto due più due. Poteva permettersi di correre quel rischio? «Non si tratta solo di T.J. Chi si occuperà degli affari?» Damon si accorse che stava cedendo. «Immagino che il tuo negozio potrà fare a meno di te per un paio di settimane, giusto? Più avanti, molti prepara-tivi potranno essere fatti da qui.» «Non lo so...» Per un attimo vacillò, poi tutti i dubbi riaffiorano. Cosa sarebbe successo se la verità fosse venuta a galla? «Ascolta. Ti offro il doppio di quello che ti ho of-ferto...» Il cellulare di Damon interruppe la frase. Quella pausa capitava nel momento giusto. Cosa aveva per la testa? Era da pazzi anche solo prendere in considerazione la cosa. C'era quasi. L'aveva quasi convinta! Damon imprecò in greco mentre controllava chi lo stava chiamando e, vedendo il numero, la sua schiena fu attraversata da un brivido e si interruppe. Quindi si alzò, vistosamente teso, e si allontanò da Rebecca.

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«Mamma, cosa c'è?» «Damon, ho dei dolori al petto, Savvas e Deme-tra mi stanno portando in ospedale. Il dottore ha detto che dovrò stare in osservazione. Cosa devo fare, figliolo?» «Riposati!» Damon rispose brevemente, guar-dando fuori dalla finestra nel buio della notte. «Ma come facciamo con il matrimonio? Cosa...» «Non pensarci più. Ho tutto sotto controllo.» Da sopra le spalle lanciò uno sguardo infuocato alla donna testarda dall'altra parte della stanza. «Se ne occuperà Rebecca? Oh, ma è magnifico! Ora mi sento più sollevata. Portala in ospedale, de-vo spiegarle quello che ho già preparato.» Non poteva ammettere con la madre che aveva fallito. Per il suo bene le doveva mentire. Poi, arri-vato ad Auckland, avrebbe pensato a come gestire la situazione. Damon si chiese per l'ennesima volta perché la madre volesse Rebecca. In fondo aveva distrutto il suo matrimonio, anche se la madre era convinta che non avesse colpe ri-guardo alla sparizione di Fliss. Damon questo non lo poteva accettare, ma come poteva confutarlo? Non aveva mai detto a nessuno, tanto meno alla madre, cos'era successo la sera precedente il matri-monio... Tutto quello che poteva fare ora era mormorare: «Te la porterò, calmati, ti prego. Mi occuperò io di tutto». Rebecca rimase col fiato sospeso, mentre ascol-tava quella mezza conversazione. «Mamma? Mamma... Mi senti?» Damon si passò una mano tremante tra i capelli, mentre gridava:

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«Vai subito all'ospedale. Ci vediamo là». Terminata la conversazione si girò verso Rebecca con uno sguardo cupo. «Devo tornare ad Auckland. Mia madre...» Si spostò di colpo, portandosi un pugno alla tempia. Rebecca si sentì in colpa. Lui non aveva mentito riguardo le condizioni si Soula. Piena di rimorsi gli si avvicinò toccandogli un braccio. «Damon, vengo con te. Organizzerò il ma-trimonio di Savvas.» Per un attimo pensò che, se Soula fosse morta, non ci sarebbe stato nessun matrimonio, per lo me-no non finché il periodo di lutto fosse terminato. Ti prego, scongiurò Rebecca, lascia che Soula arrivi a festeggiare queste nozze. La casa degli Asteriades non era per niente cam-biata, notò Rebecca mentre Damon entrava nel via-letto con la macchina, quattro ore più tardi. Durante il viaggio Damon aveva continuato a chiamare il fratello, per controllare le condizioni della madre, ma, nonostante Savvas l'avesse tran-quillizzato, i suoi occhi rivelavano una profonda ap-prensione. Ora, mentre si avvicinavano alla facciata in stile georgiano che risaltava nel buio della notte, Rebec-ca tremò, non solo per l'aria fresca di Auckland, ma per i ricordi, che voleva disperatamente allontanare. Per un breve periodo Fliss aveva vissuto lì con Da-mon. «Da questa parte.» Rebecca si girò al sentire la voce di lui. T.J. era appoggiato sulle sue spalle, mezzo addormentato. Lei si avvicinò. «Lo prendo io, tu vai in ospedale.»

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Ma Damon lo portò su per la scalinata illuminata da lampade in ottone che conduceva all'ingresso. «Non preoccuparti, mamma orsa, il tuo cucciolo è in buone mani. Vi mostro le stanze e poi vado. Sav-vas ha detto che mamma dorme ora.» Damon entrò e fece per salire al piano di sopra. «Demetra starà nell'appartamento di mamma fino alle nozze.» Il cuore di Rebecca sobbalzò. «E io e T.J.?» «Voi starete nel mio appartamento. Io e Savvas abbiamo fatto ristrutturare e allargare la vecchia suite di mia madre, ma ora Savvas si è trasferito nella casa in cui vivrà con Demetra, quindi l'appar-tamento è tutto mio.» Mentre procedevano lungo il corridoio Damon colse lo sguardo di lei rapito dalla superficie della piscina. «Ho sostituito la vecchia vasca. È più prati-ca.» «Fai ancora le tue vasche?» «Ogni mattina.» Rebecca rammentò a se stessa di tenersi lontana a quell'ora. Quindi pensò alla passione di T.J. per l'ac-qua e chiese: «La piscina è recintata?». «Darò istruzioni alla servitù perché controllino costantemente il cancello dalla parte del giardino.» «Grazie.» «Questa è la tua stanza.» Aprì la porta di una ca-mera color crema. Alla parete era appesa una ripro-duzione del quadro di Monet con le ninfee, che da-va alla stanza un senso di calma. «E T.J. dove dormirà?» «In quest'altra stanza.» Era più piccola e si vedeva che il letto era appena stato aggiunto, insieme a dei giocattoli nuovi.

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«Ce n'erano di più grandi, ma ho immaginato che lo volessi accanto a te.» «Grazie.» Quel pensiero premuroso la stupì. Il suo sguardo si posò sulla fila di giocattoli. «Non a-vresti dovuto preoccuparti, o spendere così tanto.» «Qualche giocattolo permetterà a tuo figlio di a-dattarsi meglio.» Dopo aver aggiustato le coperte, Rebecca si rad-drizzò, desiderosa di uscire da quella stanza angusta in cui si sentiva quasi intrappolata con Damon, e si avvicinò alle finestre dell'altra camera, per guardare il giardino. «Devo andare in ospedale. Mettetevi a vostro a-gio.» La voce di Damon sembrò secca. «Grazie.» Ma non sentì i passi che si allontanavano. Incuriosita, si girò. Lui la stava guardando, con un'espressione indecifrabile su quel viso da pirata. Gli intensi occhi blu erano pieni di ombre. Lei tornò a guardare fuori dalla finestra, per al-lontanare la tensione che l'aveva travolta. Sperava che se ne andasse, prima che lei potesse rendersi ridicola davanti ai suoi occhi. «Hai sempre avuto buongusto» ammise, senten-dosi irrigidire. I vecchi ricordi le riportarono alla mente il vestito di Fliss, che aveva voluto scegliere lui. «Mi onora constatare che mi riconosci qualche qualità.» La sua voce risuonò ironica. Rebecca non rispose. «Scusami. Non dovevo.» Un forte sospiro giunse da dietro le spalle di lei. «Hai accettato di venire per aiutare mia madre. Il minimo che potessi fare era accoglierti secondo i canoni dell'ospitalità greca.»

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«Va bene così, Damon.» Parlò con l'immagine di lui riflessa nello specchio. «Non mi aspetto niente da te. I tuoi sentimenti per me sono sempre stati chiari.» Di quello era sicura. Damon non si era mai in-teressato a lei, a ciò che pensava. E ora non voleva che lui fingesse un'amicizia fasulla, obbligata. Il profumo dei fiori d'arancio si fece più intenso, come la presenza di lui dietro le sue spalle. Rebecca non poté più resistere e si girò. Damon era più vicino di quanto pensasse. E i suoi occhi erano attraversati da qualcosa che ri-conobbe. Il cuore cominciò a batterle all'impazzata. L'aria divenne elettrica. Voleva buttargli le brac-cia al collo e sentire le labbra di lui contro le sue, ma cercò di ricordare perché fosse una cattiva idea. Lui la odiava. Ed era stato il migliore amico di suo marito. Sarebbe stato pericoloso per T.J. A chi voleva darla a bere? Sarebbe stato pericoloso per lei. Nes-suna speranza di un lieto epilogo, solo un cuore spezzato. Ma questo sembrava non avere alcuna importan-za in quel momento. Se solo lui l'avesse toccata. Baciata... E quando si mosse, lei chiuse lo spazio tra di lo-ro. Sussurrando il suo nome, ne incontrò lo sguardo e ne colse le emozioni, sentì la sua reazione. Quindi, come allungò la mano e toccò i saldi mu-scoli delle braccia di lui, Damon imprecò ad alta voce, e si allontanò barcollando. Ma non prima che lei potesse cogliere la confusione allarmata nei suoi occhi.

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Un'incertezza profonda e tormentata. Rebecca trattenne il respiro mentre lui andava a sbattere contro la porta e non lo rilasciò finché la porta non si chiuse rumorosamente dietro le spalle di Damon, con il fragore degno di un tuono.

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Capitolo 4

DANNAZIONE A LEI! Damon salì sul bordo della piscina e si tuffò. Era tardi, ma era troppo nervoso per dormire. Rebecca. Il bambino. E il timore di parlare con i medici di sua madre. Prima, quando Rebecca aveva inclinato il capo e sussurrato il suo nome, era quasi caduto sotto l'in-cantesimo della sua bellezza. Poi l'aveva toccato... Una strega bella e seducente come il peccato. E pure del tipo più avaro. Dopo tutti i discorsi sul fatto che non avrebbe più organizzato matrimoni, alla fine aveva ceduto. Lui sbuffò con disgusto. Ora era disposto a pagare il doppio del previsto, ma che importava? Il sollievo che si era dipinto sul volto della madre quando aveva appreso che Re-becca era ad Auckland lo ripagava dell'amarezza. Nonostante ciò non avrebbe dovuto farla tornare. Rebecca portava solo guai. Anni prima, quando gli occhi di lei si erano posa-ti su di lui, si era sentito in trappola. Quando aveva scoperto che era la vedova di Aaron, aveva capito quale maledizione fosse. E allora aveva seguito i suggerimenti del cervel-

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lo, preferendo alla affascinante ma pericolosa Re-becca la pacata e tranquilla Felicity. Damon si girò di scatto e nuotò velocemente, chiedendosi cosa avesse risvegliato la sua attrazione per Rebecca. Il bambino? La prima volta che l'ave-va vista cullarlo si era sentito eccitato, teso e... tra-dito. Santo cielo! Rebecca non avrebbe mai dovuto scoprire che aveva abbattuto le sue difese. Respirò e si immerse, fino a toccare il fondo della piscina. Attraverso la finestra Rebecca guardava l'acqua scura, con l'immagine di Damon svestito stampata nella sua mente. Chiuse gli occhi per allontanare quei pensieri, ma era tutto inutile. Il desiderio si era impossessato di lei. Nessun altro uomo le aveva mai fatto quell'effet-to. Neppure Aaron, che le aveva dato la forza e il coraggio di vivere i suoi sogni e il sostegno per av-viare la Dream Occasions e poi Chocolatique. Solo Damon. Oh, cielo. La cosa sconcertante, di cui si accorgeva solo o-ra, era che anche lui aveva dato segno di provare la stessa passione divorante che provava lei. L'aveva colta nel suo sguardo, nel respiro affrettato. Era sta-ta questione di un momento, ma non si era sbaglia-ta. In un attimo il futuro era stato illuminato dalla speranza. Poi però lui se n'era andato, lasciandola intrappolata in quel desiderio. Rebecca dormì male e quando lei e T.J. scesero a far colazione la mattina dopo, Damon stava già mangiando, concentrato sui giornali. In quell'ele-

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gante abito di Armani sembrava il potente miliarda-rio che Rebecca aveva visto sulle varie riviste. Non rimaneva neanche un segno dell'uomo nudo e primitivo della sera precedente. Si affrettò a scusarsi. «Mi dispiace, non ci siamo svegliati. Siamo molto in ritardo?» «No. Ho detto a Johnny di aspettare che arrivaste, perché la vostra colazione non si raffreddasse.» Lo sguardo di Damon era imperscrutabile, ma non mancò di sorridere brevemente a T.J., prima di tor-nare al giornale. Rebecca non ebbe nemmeno il tempo di rompere il silenzio, che la porta si spalancò e apparve una brunetta in jeans. «Tu devi essere... Rebecca?» Un po' sorpresa, Rebecca capì che quella doveva essere Demetra. Si era aspettata una persona più marcatamente greca di quella ragazzina. «E chi è questo bel giovanotto?» «Mio figlio, T.J.» Rebecca attese le inevitabili domande. Nessuno, però, chiese niente. Al contrario, De-metra gli si andò a sedere accanto. «Cos'è che ti piace di più?» «Giocare con il trenino» rispose il piccolo. «Oh, allora mi insegnerai. Vado a vedere se la colazione è pronta.» Quindi si alzò per uscire. Rebecca sbatté le palpebre. Quella creatura viva-ce e vitale era Demetra? Poteva capire benissimo perché Savvas avesse perso la testa per lei. Sorrise a Damon, il primo vero sorriso da quando lui era ri-comparso nella sua vita. «Demetra sembra molto piacevole.» «Piacevole?» Damon sollevò un sopracciglio.

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«Questa parola ti va proprio a genio, eh?» Rebecca arrossì, ma decise di ignorarlo, rima-nendo in silenzio fino al ritorno di Demetra, carica di piatti, per sé, Rebecca e T.J. La futura sposa le confidò di non essere molto convinta di volere un matrimonio in grande. «Mi metto nelle tue mani, Rebecca. L'unica cosa che ti chiedo è di aiutarmi a scegliere la torta e l'abi-to nuziale. Per il resto lascio tutto a te. Quello che voglio è Savvas, perché lo amo!» La sincerità tra-spariva dai suoi occhi e Rebecca desiderò di aver vissuto lo stesso tipo di amore che Demetra condi-videva con Savvas. «Va bene! Basta parlare di que-ste nozze. Faccio un salto giù in palestra a fare qualche esercizio.» Come lei se ne andò, il silenzio calò sulla sala. Damon guardò T.J. con sguardo malinconico e disse: «Il bambino può andare, se vuole». «T.J. Si chiama T.J.» ribatté Rebecca impaziente. «È un nome ridicolo, per l'amor del cielo!» «È il suo nome» continuò lei, con tono di rim-provero. «E potrà allontanarsi quando avrà finito di mangiare.» Scrollò le spalle. «È un individuo con un nome, non il bambino.» Rebecca rimase di stucco quando T.J., dopo aver mangiato uno spicchio d'arancia, si avvicinò a Da-mon, per cercare di mettergli in bocca l'ultimo ri-masto, rischiando di macchiargli il vestito costoso. Era consapevole che Damon non era abituato ai bambini di tre anni e alle loro mani appiccicose. Ma la reazione di Damon la stupì. Dopo aver preso lo spicchio spiaccicato, se lo mi-se in bocca e rivolse a T.J. un sorriso smagliante. «Delizioso, grazie, T.J.»

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T.J. gridò dalla gioia: «Delizioso, delizioso!», picchiando le mani appiccicose sui pantaloni di Damon. Rebecca lo prese in braccio, prima che potesse fare altri danni, e chiese scusa a Damon per le mac-chie rimaste sui suoi pantaloni. Lui scrollò le spalle. «Non importa, lo farò pu-lire.» Stava ancora sorridendo a T.J. e Rebecca rimase lì a guardarlo. Quando lui girò la testa, lei distolse velocemente lo sguardo e si congedò, afferrando un tovagliolo di carta dal tavolo senza attendere rispo-sta. «Ti passo a chiamare verso mezzogiorno, per an-dare da mia madre. Fatti trovare pronta.» L'ordine di Damon li seguì fuori dalla stanza. Mentre attraversava l'entrata, T.J. si sporse sopra le sue spalle per salutare il padrone di casa e poi le sussurrò in un orecchio: «A T.J. piace Damon». Fu uno shock vedere Soula distesa su un letto d'ospedale, così fragile e passiva. Rebecca non osò guardare Damon. Non che questo avrebbe aiutato. Durante il tragitto fino all'ospedale lui aveva conti-nuato a rimanere in silenzio, come a colazione. Quando la porta della stanza si chiuse, Soula aprì gli occhi. «Rebecca, che bello vederti! Damon, sei tornato!» Cercò di alzarsi a sedere, prestando poca attenzione alla flebo fissata alla sua mano. «Mamma!» Damon si avvicinò. «Non ti muove-re!» «Non essere stupido, non sono ancora morta. Spegni la TV. E alza lo schienale del letto.» Mentre Damon aggiustava il letto, Rebecca si av-

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vicinò, turbata dall'aspetto della donna. Solo gli oc-chi scuri e indomabili le ricordavano la persona che aveva conosciuto. «Devo essere in uno stato terribile, eh?» Rebecca cercò di sorridere, consapevole che Sou-la doveva aver colto lo shock nei suoi occhi, ma in-capace di formulare niente che potesse sembrare sincero. «Cosa? Non rispondi, Rebecca? Preferisco sen-z'altro il silenzio alle bugie che mi propina il resto della famiglia, ma devo ammettere che non è male come sembra. Il bianco è un colore terribile. Guarda qui» disse sollevando un braccio. «Camicia da notte bianca, lenzuola bianche, coperte bianche: non van-no bene con la carnagione di una donna della mia età.» L'affetto per quella donna battagliera la travolse, facendola avvicinare per schioccare un bacio su quella guancia un po' più rugosa di come la ricorda-va. «Sciocchezze» le sussurrò all'orecchio. «La bel-lezza viene da dentro. Non gliel'ha mai detto nessu-no?» Si scambiarono un lungo sguardo, poi Soula pas-sò il braccio attorno al collo di Rebecca e la avvici-nò a sé. «È bello rivederti. Stavo iniziando a dispe-rare.» La nota di vera preoccupazione nella voce di Soula e il calore inaspettato del suo abbraccio scos-sero profondamente Rebecca, che strinse a sé la donna con forza. Guardando i macchinari sopra il letto, Rebecca commentò con voce strozzata: «De-vo dire che non mi piace vederla legata così. Quan-do potrà uscire?». «Uscire? Mia madre ha bisogno...»

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«Presto!» Soula interruppe il figlio. «Non rimarrò in questo posto più di quanto non debba. Ho biso-gno di un'estetista, di...» continuò mostrando le un-ghie. «Avresti dovuto dirlo, ti avrei mandato qualcu-no.» «Come posso sperare che tu e Savvas capiate? Siete uomini. E guarda qui, indosso una camicia da notte durante il giorno. E so di antisettico.» Si fer-mò per inspirare. «Non posso sopportare questo o-dore.» «Neanch'io» ribatté Rebecca con fervore. Il ri-cordo di suo fratello James continuamente fuori e dentro l'ospedale prima di morire la tormentava an-cora. Soula le lanciò uno sguardo tagliente. «Solo le esperienze dei vecchi e dei malati portano a questo disprezzo.» «Forse.» Rebecca rimase sul vago, conscia di a-ver già detto fin troppo, soprattutto con Damon vi-cino. Soula le diede un buffetto sulla mano. «Un gior-no potrai capirmi meglio, mia cara.» Rebecca guardò altrove. Stava troppo male. Ogni persona a cui aveva voluto bene le era stata tolta. I suoi parenti. James. Aaron. Fliss. E con Damon non era neanche riuscita a comin-ciare, che tutto le era crollato addosso. Quello che le restava era T.J., che amava più della sua stessa vita. «Rebecca cara, non volevo rattristarti. Vieni, fi-gliola, parliamo d'altro.» Soula lanciò uno sguardo significativo al figlio silenzioso. «Damon, smettila di avere quello sguardo torvo e renditi utile. Vai a

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prendere un caffè per te e per Rebecca.» Non appena le due donne furono sole, Soula die-de una pacca sul letto in segno di invito. «Kathiste, siediti qui. Dimmi cosa pensi di questo matrimonio che mi ha ridotto così.» Sollevando un sopracciglio in maniera sospetto-sa, Rebecca si sedette. «E mentre parliamo mi oc-cuperò di alcune di queste cose che le danno noia. Dov'è il suo beauty case?» Venti minuti più tardi Damon rientrò nella stanza in silenzio. Sua madre e Rebecca stavano chiacchie-rando sottovoce, troppo piano perché lui potesse sentire, mentre Rebecca dava lo smalto a Soula. I suoi capelli erano stati pettinati e le guance avevano acquistato un po' di colore. Improvvisamente sem-brò notevolmente migliorata. Sua madre si sarebbe ripresa, non sarebbe morta. E doveva ringraziare Rebecca per questa trasforma-zione. Venne avanti e con il piede si chiuse la porta alle spalle, richiamando l'attenzione delle due don-ne. Rebecca apparve subito guardinga, mentre Soula sorrise radiosamente. «Bene, il caffè. Mettilo sul carrello, così Rebecca può prenderlo.» «Due cucchiaini di zucchero, vero?» chiese lui, non potendo fare a meno di notare il bel rapporto tra sua madre e Rebecca. Come mai non l'aveva mai notato prima, cogliendo invece le differenze tra le due? Non aveva mai focalizzato ciò che le univa e cioè la forza di volontà e la determinazione. Entrambe lo guardavano ora, in attesa di un suo commento a qualcosa che non aveva sentito. Guar-dò prima l'una, poi l'altra. «Come?» chiese con aria

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distaccata, sperando che le due donne non si accor-gessero che era appena sceso dal mondo dei sogni. «Commentavo solo il fatto che ricordavi quanto zucchero mette Rebecca nel caffè.» Damon corrugò la fronte. «Deve avermelo det-to.» Ma sapeva che non era vero. «No, non te l'ha detto» ribatté la madre soddisfat-ta. «Te lo sei ricordato dopo tutti questi anni.» Messo alle strette, dovette ammetterlo a denti stretti. «Forse sì.» Con sua grande sorpresa, fu Rebecca ad accorrere in aiuto. «Be', quante donne mettono due cucchiaini di zucchero nel caffè? Non è una cosa comune, a volte penso che dovrei essere più attenta con lo zucchero.» «Non credo» ribatté Damon senza pensarci. «Ti puoi permettere di mangiare tutto quello che vuoi.» Fortunatamente sua madre non fece alcun com-mento. Anzi, tornò a parlare del matrimonio di De-metra e Savvas e Damon iniziò a rilassarsi. «Non posso smettere di preoccuparmi per Deme-tra. Mi chiedo se riuscirà a gestire un matrimonio così importante. È molto...» «Vivace?» Rebecca si inserì sorridendo. «Ma Soula, questo fa parte del suo fascino. E non si pre-occupi, quello che importa è che Savvas la ami.» «Spero che tu abbia ragione.» Nonostante la sua titubanza, Soula sembrava più felice. «Ma non le interessa per niente l'organizzazione. L'unica cosa che le interessa è la casa che ha comprato Savvas... e il giardino ancora di più della casa.» «Lei ha altre priorità. È una progettista di giardi-ni» aggiunse Damon. «Giusto. E ci sa anche molto fare con i bambini.»

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Gli occhi di Soula si illuminarono. «Non vedo l'ora di prendere in braccio il mio primo nipote. Damon non ha fatto il suo dovere.» Damon fu sul punto di rispondere, ma si morse la lingua e guardò Rebecca. Come poteva sua madre tirare fuori un argomento del genere? Da parte sua, Rebecca si mostrò alquanto a disagio. «Parlando di figli» Rebecca si alzò in piedi, «de-vo tornare a casa, T.J. mi starà cercando.» «Non vedo l'ora di conoscerlo. Ti somiglia?» Rebecca apparve agitata. «Non proprio, anche se qualcosa della famiglia c'è. I suoi occhi sono pro-prio come...» Si interruppe, in preda all'angoscia. Damon ebbe compassione di lei. «Ha i tuoi capel-li scuri.» «Cosa?» Rebecca sbiancò per l'emozione e, quando tornò in sé, ribatté: «Ah, sì, sì, certo, hai ra-gione». Damon raggelò all'angoscia pura che vide negli occhi di Rebecca, occhi così diversi da quelli di T.J., che si convinse che il bambino dovesse asso-migliare più al padre. Quegli occhi azzurri... Per un attimo si ritrovò a immaginare chi potesse essere. Quindi cercò di togliersi dalla testa quel pensiero. Erano cose che non lo riguardavano. Eppure c'era qualcosa nei tratti di quel bambino che gli sembrava straordinariamente familiare, an-che se non riusciva a capire cosa. Rebecca stava cercando di recuperare la giacca e la borsa. Qualcosa aveva riaperto in lei vecchie feri-te, a giudicare dalla fretta che aveva. «Non vedo l'ora di conoscere il piccolo.» «Presto» promise Rebecca e, sulla porta, fece un cenno di saluto con la mano e fuggì via.

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«Dovrai aspettare di essere a casa.» Damon baciò la madre sulla guancia e si avviò dietro Rebecca. «Forza, forza.» Spostandosi da un piede all'altro, Rebecca conti-nuò a picchiare sul pulsante dell'ascensore con im-pazienza. Sentendo i passi di Damon dietro di sé, si mise le mani in tasca e si strinse nella giacca. «Cos'è tutta questa fretta?» La sua voce cupa e fluida le provocò dei brividi di cui non aveva biso-gno lungo la schiena. «Devo tornare da T.J., normalmente non lo lascio da solo così a lungo.» Ma più che altro sarebbe vo-luta scappare da quelle domande, da Damon e dal-l'ospedale, che le ricordava la sua impotenza. La vista di un paziente sopravvissuto a un inci-dente stradale la fece sentire male. «Ho bisogno di andarmene da qui. Odio questi posti.» «Grazie per essere rimasta... e per aver aiutato mia madre. È cambiata radicalmente.» «Non ho fatto niente.» «Non è vero. È spaventata, ma non lo vuole am-mettere.» La guardò cercando i suoi occhi. «È stato difficile il parto di T.J.?» Lei deglutì con forza, sconcertata dall'improvviso cambiamento di argomento. «Tutti i parti sono dif-ficili, ma la ricompensa è immensa. T.J. è una be-nedizione.» «È un bambino di cui essere fieri. L'hai tirato su bene da sola.» «Grazie.» Sentì un sapore amaro in bocca. Se solo avesse immaginato... «Sei tornata in ospedale dopo...» «Dopo la morte di Fliss. Una notte.» Le porte

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dell'ascensore si aprirono e Rebecca si sbrigò a u-scire. Damon la seguì. «È lì che hai iniziato a detestare gli ospedali?» «Quello non ha aiutato, ma la mia fobia c'era già.» Non riusciva a smettere di pensare a James. Le visite in ospedale, gli esami, la fine improvvisa e brutale. Vedere Soula così debole, ammalata e invecchia-ta l'aveva scossa. E le aveva fatto pensare alla sua stessa morte. Cosa sarebbe successo a T.J.? Si sentì tremendamente disorientata e si appoggiò alla pare-te. «Ehi, tutto bene?» Improvvisamente si rese conto che Damon aveva posato le mani sulle sue spalle, per scuoterla gen-tilmente. Per un attimo fu tentata di sporgersi in a-vanti e posare la testa sul petto di lui, lasciandosi andare alle lacrime che aveva tenuto dentro così a lungo. Ma non voleva mostrargli nessuna debolezza. Quindi sollevò la testa e gli sorrise leggermente. «Sto bene. O almeno mi sentirò così non appena u-scirò da qui.» «Andiamo fuori allora.» Ma non si mosse. L'espressione sul volto di Rebecca scosse Da-mon. Una tristezza che non aveva mai visto detur-pava i lineamenti squisiti. O forse non aveva mai voluto coglierla prima di allora? Con una spontaneità a lui estranea, si sporse in avanti per darle un breve bacio rassicurante. Ma,

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appena le loro labbra si sfiorarono, fu assalito da un desiderio primitivo di coinvolgerla in un bacio ap-passionato. No! Ne aveva già passate abbastanza. Ci volle tutta la sua forza di volontà per non farsi governare dalla passione che gli era esplosa dentro. Quel giorno aveva visto una Rebecca diversa dal-la donna egoista che conosceva. Una Rebecca pa-ziente con il figlio e abile e forte con sua madre. Passò le dita lungo il profilo di lei, tastandone la pelle delicata. Erano stati gli improvvisi lampi di altruismo ad attirare Savvas? Per non parlare del suo corpo. For-se il fratello era stato catturato dai suoi baci? Pro-prio come accadeva a lui. Damon rimuginò su quei pensieri e allontanò la mano dal volto di lei. «Ce la fai a stare in piedi?» domandò secco, pen-tendosi subito di quel tono aspro. Lei annuì, facendo fatica a ricomporsi. Damon fece un passo indietro, mentre la mente cercava di tenere a bada il corpo e il desiderio di stringerla tra le braccia e farla sua. Al diavolo! La sua mancanza di giudizio lo stupì. Si girò ve-locemente dall'altra parte, disgustato da quel folle desiderio di possesso per una donna che era già sta-ta di così tanti uomini: suo fratello, Aaron Grainger e altri che parlavano di lei come un invitante boc-concino e un fenomeno tra le lenzuola. «Andiamo» tagliò corto lui. «T.J. sta aspettan-do.» Quindi si intimò di darsi una regolata. Che cosa si aspettava? Poche donne dell'età di Rebecca ave-vano avuto un solo uomo. Desiderare di averla non

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significava certo desiderare di sposarla. E lui l'avrebbe avuta. Presto. Damon lo promise a se stesso, mentre attraversavano il parcheggio. Era ora di smettere di lottare contro quella tremenda at-trazione che lei provava per lui. E, dopo essersene liberato, se ne sarebbe andato, lasciandosi Rebecca e il passato alle spalle. Non ci sarebbe stata nessuna perdita di controllo, nessuna emozione. Solo passione.

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Capitolo 5

AL SENTIRE IL lamento del motore della sua auto Rebecca gemette, trattenendosi dal picchiare la testa sul volante. Proprio un bel modo per iniziare un venerdì! Per quasi due giorni era riuscita a evitare Damon, usan-do il matrimonio come una scusa per stare lontana, e sfruttando la simpatia nata tra T.J. e Demetra. In realtà, il matrimonio la impegnava comunque molto. Era tornata all'ospedale per controllare la li-sta degli invitati con Soula e aveva visitato varie ti-pografie, per ottenere dei preventivi per le parteci-pazioni. Per quel giorno aveva in programma vari appun-tamenti per decidere quale fosse il luogo migliore per la celebrazione. Ma ora la batteria del piccolo veicolo che Damon le aveva procurato per muoversi era a terra. Uscì dall'auto e considerò brevemente varie op-zioni. «Hai qualche problema?» Quella voce cupa e vellutata la fece irrigidire. Damon. L'avrebbe avuto, naturalmente. Dopo averlo evi-

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tato in tutti i modi, se lo ritrovava accanto alla mac-china in panne. Con il cuore in gola, si girò verso di lui. Era stu-pendo in quell'abito scuro ed elegante, con la tipica camicia bianca e la classica cravatta stretta. Rebec-ca respirò profondamente e cercò di apparire più composta delle emozioni che le ribollivano dentro. Se gli avesse detto di cosa si trattava, forse lui le a-vrebbe prestato un'altra auto. Magari perfino quella di Soula. Guardando velocemente l'orologio pensò che, se fosse partita subito, sarebbe comunque arrivata in tempo all'appuntamento. Quindi glielo disse, atten-dendosi un tipico commento derisorio maschile. «Ti porto io» disse lui inaspettatamente. «No, no, non ce n'è bisogno.» «Vieni, o farai tardi.» Damon aveva già il cellula-re in mano, per spostare i suoi appuntamenti e man-dare qualcuno a riavviare la batteria. Quando le chiese dov'era diretta, rispose con vo-ce incerta. Rebecca immaginò che l'avrebbe lasciata davanti all'entrata dell'Hotel San Lorenzo, ma Da-mon la accompagnò fin nella hall. André, un francese snello, nato apposta per orga-nizzare eventi, salutò Rebecca come una vecchia a-mica. E, non appena riconobbe l'accompagnatore, si profuse in un saluto eccessivamente affettato. Il suo atteggiamento divenne ancora più insop-portabile quando raggiunsero le stanze da cerimo-nia. A quel punto Rebecca volle quasi gridare. E il fatto che l'ultima volta che era stata lì fosse stato per il matrimonio di Damon non l'aiutava di certo. Chissà quante volte c'era già tornato Damon. Molte, immaginò. A lui cosa importava? Certo

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non condivideva con lei quei ricordi disperati. Per lui era solo il posto in cui aveva sposato Fliss. «Non stai seriamente considerando questo posto, vero?» le sussurrò Damon tra i denti, mentre André era andato a recuperare alcune liste di vini. Le bastò guardare quegli occhi tormentati per ca-pire che Damon non aveva dimenticato un solo at-timo di quella sera. Rebecca si fermò proprio nel punto in cui lei e Damon si erano separati. Anche ora, una vita dopo, sentiva il dolore cocente che l'a-veva pervasa. Ma, mantenendo un tono di voce neutro, ribatté: «Questo è il luogo migliore di Auckland, la sala da ballo può ospitare fino a mille ospiti». «No.» «No?» Rebecca sollevò un sopracciglio in rea-zione al suo improvviso rifiuto. «Assolutamente no. Per gli ospiti potrà essere il posto migliore, ma non per me.» Un muscolo della mascella guizzò, mentre gli occhi rivelarono soffe-renza. Forse il ricordo di Fliss, della felicità che aveva-no condiviso quella sera era troppo doloroso da sopportare? Un pensiero terribile l'attraversò. Si era sbagliata in tutti quegli anni? Damon aveva amato Fliss? Pazzamente? Profondamente? Eternamente? «Penso tu abbia ragione» ammise Rebecca, o-diando quello sguardo sofferente e se stessa per a-verlo provocato. «Potrebbe essere troppo per Deme-tra. Mi ha detto che non vuole niente di eccessiva-mente sontuoso.»

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«Allora andiamocene» concluse Damon. Il secondo luogo che aveva preso in considera-zione Rebecca era un famoso yatch club di fronte al porto di Waitemata. Era molto meno imponente, con una sala da ballo più raccolta e una vista moz-zafiato su Auckland. Mentre il manager del club li guidava attraverso i locali, Damon iniziò lentamen-te a rilassarsi. Era rimasto sconvolto dai sentimenti che l'aveva-no assalito al San Lorenzo. La sua ira tremenda nei confronti di Rebecca durante la sera del matrimonio era tornata improvvisamente, più viva che mai, uno spiacevole ricordo dell'attrito che c'era stato tra loro due. Perché? Perché erano sempre stati in conflitto? Perché lei aveva sempre cercato di sfidarlo? Dicendogli che non poteva sposare Fliss? Provocandolo, facendosi baciare... E perché non era stato in grado di rifiutare le sue sfide? Ricordava di aver desiderato che Rebecca si com-portasse come Felicity, timida e in soggezione nei suoi confronti: una sposa adorabile. Ma anche quel ricordo era stato macchiato. In qualche modo aveva respinto Felicity. Forse lei aveva scoperto che l'aveva tradita la sera prima di pronunciare quella promessa di matrimonio? Si aspettava che Rebecca avrebbe insistito perché il matrimonio fosse celebrato al San Lorenzo. E in-vece aveva accettato la sua decisione senza quasi battere ciglio. Per questo le era grato, silenziosa-mente grato. Come poteva lui, Damon Asteriades, confessare che non poteva sopportare di celebrare il

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matrimonio del fratello dove il suo stesso matrimo-nio era stato suggellato? Damon disse a se stesso che accompagnava Rebecca per essere sicuro che seguisse le direttive di sua madre, ma sapeva che dietro c'era di più. Il desiderio di possederla stava diventando sem-pre più forte. E quando l'aveva vista alle prese con la macchina, l'opportunità si era rivelata troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Aveva visto la Re-becca proprietaria del negozio di cioccolatini, la Rebecca madre adorabile e la Rebecca amica amo-revole di una signora anziana e malata, ma voleva vedere tutte le facce di quella donna enigmatica che suscitava in lui reazioni così forti. Mentre la seguiva nella sua ricerca della sala a-datta, Damon dovette ammettere che Rebecca era davvero brava in quel lavoro. Lui non avrebbe mai pensato di porre neanche un decimo delle domande che poneva lei. Chiedeva, chiedeva ancora e sorri-deva. E ogni suo sorriso faceva aumentare in Da-mon il desiderio di assaggiare quelle labbra carnose. Le sue. Allontanò quel pensiero malato e la guardò mentre prendeva alcuni appunti. Era concentrata, professionale e con la situazione completamente sotto controllo. La promessa che aveva fatto a se stesso nel par-cheggio dell'ospedale riaffiorò nella sua mente. La voleva. Voleva tutto di lei e non avrebbe permesso che niente gli impedisse di realizzare il suo deside-rio. Rebecca terminò, prendendo un appuntamento per tornare a parlare con lo chef addetto al catering e Damon allungò le mani nelle tasche per afferrare le chiavi.

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«Bene, per il momento è tutto» annunciò al manager. «La prossima volta verrò con la sposa, per confermare che il club sia di suo gradimento.» Rebecca era immersa nei propri pensieri quando tornarono alla Mercedes. C'era qualcosa che non le andava dello yatch club, ma non capiva cosa. «È ora di pranzo, credo.» La voce di Damon la richiamò alla realtà. «Oh, non posso tenerti impegnato ancora.» «Dobbiamo mangiare entrambi. E c'è una cosa che voglio chiederti da un po'. Non è stato facile trovarti in questi due giorni, Rebecca. Viene quasi di pensare che tu abbia cercato di evitarmi.» «Evitarti?» Il suo tono era acuto. «E perché?» «Se lo sapessi non ti avrei seguito tutto il giorno per riuscire a rimanere un po' da solo con te.» Quindi il suo era un piano! Il cuore di Rebecca cominciò a palpitare forte. «Non penso...» «No.» Damon alzò una mano. «Non pensare. Vieni semplicemente a pranzo con me. Qui vicino c'è uno dei miei ristoranti preferiti. Puoi ascoltarmi e goderti un buon pasto.» Rebecca temette che si sarebbe trattato di più di un semplice monologo da parte di Damon. Al tem-po stesso era curiosa di conoscere uno dei suoi luo-ghi preferiti. Anche se sapeva che era rischioso. Ogni minuto che passavano insieme faceva aumen-tare l'attrazione che provava per lui. Lentamente Rebecca assentì. Qui vicino si rivelò essere in mezzo alla campa-gna, a una distanza di venti minuti. Attraverso gli alberi Rebecca intravide una grande casa di campa-

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gna e un vasto specchio d'acqua argentata che bril-lava dietro di essa. L'insegna intagliata nel legno di-ceva: Lakeland Lodge. Rebecca rimase senza respiro. «Che bella» mormorò. «E che giardini magnifici.» Damon sorrise. «Sapevo che ti sarebbe piaciuta.» Dopo un istante accettò il braccio che lui le por-geva e si diressero al ristorante, dove Damon venne salutato con entusiasmo. «Come hai scoperto questo posto?» chiese Re-becca, dopo aver studiato il menu. «Non lo cono-scevo.» «Questo sì che è un complimento. Non credevo che ci fosse un posto ad Auckland che tu non cono-scessi.» E accennò un leggero sorriso. Prima che Rebecca potesse replicare arrivarono gli antipasti a base di pesce e tra di loro scese un silenzio d'intesa. «L'antipasto era divino.» Rebecca posò la for-chetta e, dopo un profondo sospiro, decise di inda-gare sul motivo della loro visita in quel luogo. «Di cosa mi volevi parlare?» Gli occhi di Damon si fecero seri e le sue labbra divennero sottili. Rebecca fu travolta dall'appren-sione. Sperò che non si trattasse di quello che teme-va. Forse sospettava...? Aveva capito qualcosa? No, non poteva essere. Altrimenti avrebbe dato qualche segno. Ma la serie-tà della sua espressione preoccupava Rebecca ogni secondo di più. Solo quando i nervi di lei stavano per crollare, Damon sospirò. «È qualcosa che non voglio ammettere. Qualcosa contro cui ho lottato per troppo tempo.» Il pallore sul suo viso la spaventò.

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«Di che cosa si tratta?» chiese lei in fretta. «For-za, sputa il rospo. Non può essere così grave... Sei malato?» «No, no, niente di grave. Ti voglio, Rebecca.» Pronunciò quelle parole senza riflettere e le sue guance si tinsero di rosso. Rebecca si sentì tremare le ginocchia al vedere la pura emozione che infiammava gli occhi di lui. Ma fu solo una frazione di secondo e Damon tornò a indossare la sua maschera. «Cosa hai detto?» sussurrò lei, mentre il silenzio diventava sempre più insopportabile. «Voglio fare l'amore con te.» La sua voce era piatta, come se parlasse di qualcosa di poca impor-tanza. Eppure lei aveva visto quel lampo d'emozione nei suoi occhi e sulle guance. Rimase sbalordita. «Non puoi.» «Io sono un uomo e tu sei una donna. Perché no?» Allargando le braccia, lei scosse il capo disperata. «Non possiamo.» «Perché?» la sfidò lui. E non credere di riuscire a trovare un motivo a cui io non abbia già pensato. «Ma...» Cosa avrebbe dovuto dire? L'aveva colta così alla sprovvista. «Non ti piaccio neanche.» Lui la guardò dritto negli occhi. «Hai ragione, pensavo che fosse così.» Lei esitò. La sua onestà la punse sul vivo. «E al-lora come puoi anche solo pensare di venire a letto con me?» Che confusione! Eppure, da qualche par-te, giù nel profondo, sentiva nascere una sorta di eccitazione. Damon la desiderava.

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«Sto cominciando ad accettare che ci deve essere qualcosa di te che mi piace, se ti desidero.» Un leg-gero sorriso illuminò i suoi occhi. Il senso dell'oltraggio sostituì l'euforia. «Be', allo-ra dovrai tenerti il tuo desiderio, perché tra di noi non succederà proprio niente. Non può.» Era davve-ro convinto che lei fosse così disperata? Probabilmente sì. E aveva ragione. Perché non aveva nessun orgo-glio quando si trattava di Damon Asteriades. Basta-va che lui schioccasse le dita e lei accorreva. Un e-sempio era la sua presenza ad Auckland. E al risto-rante. Sapeva che era una pessima idea passare del tempo con lui, ma questo l'aveva fermata dall'accet-tare l'invito? No, naturalmente no. «Rebecca, smetti di opporre resistenza. Ti voglio e ti avrò... prima lo accetti, meglio è.» Quanto era arrogante! «Non credo. Sono già stata all'inferno a causa tua e non ho voglia di tornarci.» Lui sbuffò. «Ti stai sbagliando, koukla. Sei tu che mi hai quasi mandato tra i dannati. Hai fatto tutto quello che hai potuto per portare scompiglio nella mia vita. Non significavo niente per te, solo una sfida.» Tu significavi tutto per me. Eri il mio mondo, il mio universo e non ti importava niente di me! Ma non lo disse ad alta voce. Invece scrollò il capo e rise incredula. «Non ho intenzione di cascarci.» Cosa avrebbe dovuto dire o pensare? L'uomo che risvegliava in lei le emozioni più profonde la vole-va. Ma ne era tremendamente infastidito. Avrebbe dovuto essere stupida per accettare le sue condizioni.

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La tentazione, però, era forte. Dannazione! Rifiutarlo sarebbe stata la cosa più difficile che avesse mai fatto. Si guardò attorno, cercando le pa-role che lo avrebbero allontanato per sempre. Lui si allungò sul tavolo e posò la sua mano su quella di Rebecca. «Servirebbe a qualcosa se ti di-cessi che negli ultimi due giorni la mia ammirazio-ne per te è aumentata immensamente? Che ho visto una parte di te così premurosa che non sapevo esi-stesse? Che sto cominciando a pensare di averti giudicato troppo duramente a volte e che questo mi dispiace?» Gli occhi di Damon mostrarono un calore che non aveva mai visto prima. La sua mano racchiusa in quella di lui le sembrava al sicuro, protetta. Oh, Signore! «Stai cominciando a piacermi parecchio, davve-ro. E vorrei conoscerti meglio, molto meglio.» Una timida gioia l'assalì. Rebecca girò la mano verso l'alto e intrecciò le sue dita con quelle di lui. «Sì» disse lentamente. «Penso che potrebbe.» Si sentì per metà sollevata e per metà frustrata quando la cameriera interruppe quel momento con i primi piatti. Passarono il resto del pranzo a parlare degli inte-ressi comuni, senza alludere alla bomba lanciata da Damon, ma con quella consapevolezza sottintesa dietro a ogni sguardo, a ogni scambio. Lui la faceva sentire come un'adolescente al pri-mo appuntamento e lei doveva fermarlo al più pre-sto. Rebecca posò la forchetta facendola tintinnare,

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guardandosi attorno per evitare gli occhi di Damon. Le finestre erano coperte da pesanti tende blu con fiori stampati, che si sposavano perfettamente con il giardino. In un angolo c'era un pianoforte e alle pa-reti erano appesi dipinti di scene campestri. Il soffit-to alto conferiva un senso di leggerezza e ariosità al posto. «Sai» esordì lei improvvisamente, «questo posto sarebbe perfetto per il matrimonio.» Damon si guardò attorno e poi posò di nuovo gli occhi su Rebecca. «Forse hai ragione.» Cercò di ignorare l'attrazione esercitata da lui. «Niente forse. È perfetto!» Rebecca si convinse sempre di più. «Significherebbe avere meno invitati di quelli che ha in mente tua madre, ma potrebbe funzionare. Demetra ne sarebbe estasiata.» Si girò verso Damon. Nell'attimo in cui i loro sguardi si incrociarono, la loro consapevolezza re-ciproca aumentò. Lui sorrise lentamente, facendole battere il cuore a mille. «Ora capisco perché eri così brava nel tuo lavoro. Sei un asso quando si tratta di associare le persone ai posti. Tu dove vorresti spo-sarti?» «Questo posto non lo conoscevo, devo ringrazia-re te.» «Ho barato. È aperto solo da un paio d'anni, pri-ma era una villa privata. Ora raccontami del tuo ma-trimonio ideale. Hai sempre organizzato perfetta-mente quelli degli altri. Per te cosa sogni?» Rebecca rise. «Ho perso l'occasione. Io e Aaron ci siamo sposati civilmente, niente di speciale.» Aa-ron l'aveva voluta sposare subito, appena aveva det-to sì. «Va bene, allora usa la fantasia. Dimmi cosa a-

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vresti voluto per le tue nozze se avessi potuto sce-gliere.» «Il mio matrimonio ideale... Be', per cominciare non vorrei tutto questo.» Indicò i finestroni alti e i ricchi decori della tenuta di campagna. «Vorrei qualcosa di semplice, una cerimonia raccolta e poi un po' di tempo da passare con l'uomo che ho sposato, l'uomo che amo.» Lo guardò velocemente. «Troppo spesso i matrimoni sono occasioni di stress per la sposa. Io vorrei un po' di tempo da trascorrere con mio marito, per riflettere sull'importanza delle promesse fatte, promesse che vorrei che durassero in eterno.» Si accorse di averlo sorpreso con il suo discorso accorato. Lui la guardava sbigottito. Per alleggerire l'atmosfera, lei rise scrollando le spalle. «È solo una fantasia, io non mi risposerò mai.» «Perché no?» Aggrottò le sopracciglia. «Sono già stata sposata.» «È un buon motivo per non sposarsi più?» Non aveva voglia di parlare del suo matrimonio. Non con Damon. Scosse ancora le spalle. «Allora, che altro motivo c'è? I figli, immagino. Io ho già T.J.» «Non è l'unico motivo per cui la gente si sposa. Ci sono altre cose come la compagnia, la compren-sione, l'amore...» «Oh, non dirmi che credi a tutte quelle favole, Damon!» l'interruppe Rebecca con un sorriso ta-gliente. «Questo è il motivo per cui Savvas e Demetra si sposano.» Si accomodò contro lo schienale della sedia, mescolando il caffè. «Sì, ma non sono come noi. Noi siamo realisti.

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Sappiamo come si sta al mondo. Il matrimonio è un accordo finanziario, lo scambio di benessere con fedeltà, la promessa dei figli, non credi?» La feriva fare l'avvocato del diavolo, ma era ciò in cui Damon credeva. «Perbacco, come sei cinica.» Lui la squadrò. «Ma anche se è questo che pensi, c'è ancora il sesso. Questo è un altro motivo per cui persone come me e te si sposano.» «Il sesso?» Bastò quella parola per farle battere il cuore all'impazzata e farle rallentare il respiro. «Sì, il sesso più sfrenato. Un corpo che sfrega un altro corpo...» «Ah, quel tipo di sesso» interruppe lei con un ge-sto sdegnoso della mano. «Ma, Damon, non c'è bi-sogno che mi sposi per questo, mi basta avere un amante.» Damon si irrigidì. «E ci sono stati molti amanti nella tua vita?» Se solo avesse saputo! Rebecca batté le ciglia. «Non parlo mai delle mie storie.» «No, certo che non lo fai!» Pronunciò quelle pa-role con scetticismo. «Ma ne hai avute?» «Oh, sì che ne ho avute» rispose lei senza fiato. Improvvisamente lui le andò accanto e si sporse per schioccarle un bacio sulle labbra. E lei si sentì andare in fiamme. Non fu un bacio delicato, ma un bacio che ardeva di rabbia, disperazione e bisogno. Quando infine Damon si staccò, aggiunse: «Oh, sì, devi averne avuti di amanti. E forse sarebbe ora di averne un altro». «Forse» ribatté lei, sostenendo coraggiosamente

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il suo sguardo. «Devo cominciare a guardarmi at-torno.» «Oh, no!» Damon scrollò la testa, con un sorriso predatorio. «No, koukla, non guarderai più in là di me. Il tuo amante sarò io.»

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Capitolo 6

ALCUNE ORE PIÙ tardi Rebecca non poteva ancora credere di non aver mandato Damon al diavolo. Sulla via del ritorno era sprofondata nel sedile in pelle e aveva chiuso gli occhi. Ogni tanto sentiva lo sguardo di Damon posato su di sé, ma lui non par-lava. Una consapevolezza opprimente riempiva la Mercedes. Non appena la macchina entrò nel vialetto della tenuta degli Asteriades, Rebecca si rialzò sul sedile, sussurrò un grazie e, prima che si fossero fermati, scese frettolosamente dall'auto. Raggiunta veloce-mente la sua stanza, passò le due ore successive, fi-no all'arrivo di Demetra e T.J., a fare elenchi di cosa sarebbe servito per il matrimonio, telefonate per i vestiti degli sposi, per i fiori, per il ricevimento: qualsiasi cosa che non la facesse pensare alla pro-posta oltraggiosa di Damon e la tenesse lontana da lui il più possibile. Il tuo amante sarò io. Quell'affermazione arrogante le ronzò nelle orec-chie fino a sera, mentre aiutava T.J. a fare il bagno. Era quasi delusa che Damon non l'avesse seguita, per scoprire dove si era nascosta tutto il pomerig-

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gio. Si stava prendendo gioco di lei? Perché non l'a-veva cercata? E perché aveva fatto quella dichiara-zione appassionata? Lui la odiava. Ma aveva detto che i suoi senti-menti per lei stavano cambiando. Rebecca chiuse gli occhi per allontanare la con-fusione che le vorticava in testa. Senza fine. Quan-do li riaprì, T.J. la fissava con in mano una spugna insaponata. Lei l'afferrò e cominciò a lavarlo. «Mamma.» La vocina di T.J. interruppe i suoi pensieri. «Demetra prenderà un pesce grosso grosso con la pelle liscia liscia a T.J.» «Con le squame.» Rebecca lo corresse senza pen-sarci. T.J. era tornato dalla giornata passata con Demetra felice, stanco e coperto di fango. E non aveva sentito per niente la sua mancanza. Dopo un attimo la sua mente tornò a quel labirin-to da cui non riusciva a districarsi. Damon aveva detto che voleva essere il suo a-mante. Perché? Certo, i brividi che le increspavano la pelle glielo rivelavano. Chimica. Questa cosa tra di loro che non si sarebbe mai placata a patto che non venisse soddisfatta. Trovarla interessante, volerla conoscere meglio erano solo parole. Parole per riuscire a portarsela a letto. In qualche modo lui aveva compreso quello che lei desiderava più di ogni altra cosa al mondo: il suo rispetto, la sua ammirazione... piacergli. Patetico. Cosa diavolo avrebbe fatto? «Abbiamo dato da mangiare alle anatre nel parco. Avevano tanta fame.» Erano bastati un paio di giorni per far sentire a

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suo agio il bambino all'interno della famiglia di Da-mon. Sarebbe stato difficile riportarlo a casa. «Mamma, facciamo un laghetto in giardino? E compriamo tanti pesci? E le anatre? Ti preeego!» «Vedremo.» Rebecca cercò di sorridere. Forse un laghetto l'avrebbe aiutato a staccarsi da lì. T.J. era nell'età in cui l'acqua rappresenta un fascino parti-colare. Entro un paio d'anni avrebbe desiderato una canna da pesca. E un padre che lo portasse a pesca-re. Rebecca sospirò e appese l'asciugamano. Quan-do si girò vide T.J. col pigiama al contrario e si av-vicinò per aiutarlo. «No, faccio io, mamma» ribatté T.J. con la de-terminazione dei suoi tre anni. Lei scosse il capo. Il suo bambino stava crescen-do, troppo velocemente e senza una figura paterna che lo guidasse. Ma aveva lei e non aveva bisogno di nessun altro. E, come aveva detto a Damon, lei non aveva nessun motivo per sposarsi. Specialmen-te non per il sesso. E non sarebbe diventata l'amante di Damon. Il fine settimana passò molto velocemente. Il sa-bato Rebecca accompagnò T.J. in sala da pranzo e notò che Damon aveva abbandonato gli abiti ele-ganti e indossava un paio di jeans e una maglietta di Ralph Lauren bianca, sotto un sorriso smagliante tutto per lei. Il suo stomaco cominciò ad andare in subbuglio. «Lunedì devo andare a Los Angeles per lavoro e ho pensato che oggi potremmo fare un picnic. Jane ha già preparato un sacco di squisitezze.» «T.J. l'adorerà» ribatté Rebecca, chiedendosi per-ché Damon lo facesse.

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«Picnic, picnic» canticchiò T.J., saltando su e giù. Passarono la giornata a Goat Island, una riserva marina a un'ora di macchina da Auckland. «È incredibile pensare che la città sia così vicina» commentò Rebecca, mentre l'acqua del mare le ba-gnava i piedi e T.J. giocava con le onde. A mezzogiorno mangiarono il cibo delizioso pre-parato da Jane, dopodiché Rebecca si stese su un asciugamano, a guardare Damon e T.J. che faceva-no i castelli di sabbia. T.J. sprizzava gioia, mentre Damon... le toglieva il respiro. Da dietro gli occhiali scuri poteva ammirare i suoi pettorali e non poté negare che quella visione aveva un effetto dirom-pente su di lei. Alla fine dovette ammettere la verità: lo voleva. Spostò lo sguardo sulle onde e cercò di ricordare a se stessa quanto Damon fosse dannatamente perico-loso. Aveva già ceduto alla sua attrazione una volta, perché adesso avrebbe dovuto essere diverso? Quella sera, dopo aver messo a letto T.J., passa-rono a trovare Soula, lasciando il piccolo alle cure di Savvas e Demetra. Soula notò l'eleganza di Re-becca e chiese: «State uscendo?». «Abbiamo una prenotazione allo Shipwrecks. Ho promesso a Rebecca una cena di pesce stasera...» «Oggi abbiamo portato T.J. a Goat Island» preci-sò in fretta Rebecca, prima che Soula potesse frain-tendere. «Io mi sono lamentata del fatto che non fosse possibile pescare nella riserva, allora Damon ha insistito per portarmi fuori a cena.» «Capisco.» Soula fece un sorriso enigmatico. La cena finì fin troppo in fretta. Damon si rivelò

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un'ottima compagnia e Rebecca dovette ricordare a se stessa più volte che non aveva alcuna intenzione di lasciarsi incantare da lui. Nonostante ciò voleva che quella sera non finisse mai. Ma sapeva che non sarebbe stato così e sospettava di sapere come lui avrebbe voluto che terminasse. Per questo rimase un po' sconcertata quando lui le diede la buonanotte davanti alla sua stanza, senza neanche accarezzarle la guancia con un bacio. La domenica mattina era ancora lì ad attenderli, questa volta per una visita allo zoo. T.J. era fuori di sé per l'eccitazione: con gli occhi spalancati ammi-rava i leoni, gli elefanti, i rinoceronti. Rebecca in-vece passò la giornata a cercare di togliere gli occhi di dosso da Damon. Lui sembrò non rendersi conto dell'agitazione che stava aumentando in lei, mentre scherzava con T.J. Quella sera, dopo che il bambino si fu addormen-tato, stanco e cotto dal sole, Rebecca non poté fare a meno di chiedersi come si sarebbe evoluta la cosa... e cosa fosse successo alla dichiarazione di Damon di diventare il suo amante. Dopo un frenetico lunedì passato a scortare De-metra da uno stilista all'altro, Rebecca si stupì di trovare Damon a cena la sera. Demetra stava facen-do a Savvas e Damon un resoconto sulla giornata. «È tutta colpa tua» l'accusò Demetra, con gli oc-chi scintillanti. «Ammettilo... Ti sei divertita.» Rebecca si sedet-te tra Savvas e Damon. T.J. era già a letto. «Più di quanto non avrei mai creduto» ammise lei. «Sapevi cosa mi sarebbe piaciuto.» «È il mio lavoro.» Quindi, rivolta a Damon, ag-

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giunse: «Pensavo che dovessi partire». E abbassò lo sguardo, come a farla sembrare una domanda disin-teressata. «Doveva andare negli Stati Uniti» rispose Sav-vas. «Ma ha rimandato. Non riesco a capire cosa ci sia di così importante ad Auckland da trattenerti qui.» «La settimana prossima.» Damon tagliò corto. «Andrò la settimana prossima. Non ti preoccupare.» Rebecca lo guardò disinvolta e si sentì gelare. Lui la stava fissando con gli occhi in fiamme. Si sentì mancare il respiro e il cuore iniziò a battere forte. Aveva capito. Era lei il motivo per cui aveva rimandato il viag-gio. Ma allora perché non aveva fatto nessuna mossa nei suoi confronti? Perché quelle gite con T.J. per tutto il fine settimana, se quello che voleva era solo sesso? Anche con il passare dei giorni, tuttavia, le inten-zioni di Damon non divennero più chiare. Ogni sera tornava a casa, giocava un po' con lei, T.J. e Deme-tra, dopodiché la portava fuori. Era premuroso, di-vertente e affascinante, tutta un'altra cosa rispetto all'uomo critico e ostile del passato. Rebecca stava scoprendo un lato di lui che non conosceva. Era questo quello che aveva sempre desiderato: piacere a Damon. Per se stessa. Così gli avrebbe potuto dire la verità e lui avreb-be capito che lei aveva fatto quello che aveva fatto con le migliori intenzioni. Ma l'uomo che la fissava irradiava fiducia in se stesso, forza e troppo, troppo sex appeal. Quegli occhi azzurri la scottavano den-tro. Ancora pochi giorni, si disse, e glielo avrebbe

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detto. Pochi giorni preziosi in cui fare tesoro di quell'affinità tra di loro. Perché sapeva che non sarebbe durata. Venerdì sera Rebecca era pronta a crollare. Era stata una settimana molto impegnativa ed era riusci-ta a organizzare buona parte del matrimonio. Ma quello che l'agitava non erano le nozze, quanto Da-mon. Al di là di qualche tocco casuale, non l'aveva mai sfiorata intenzionalmente né baciata e ciò la stava facendo impazzire. Era confusa. E sospettava che lui lo avesse capito. Si sarebbero trovati alle sette in terrazza per un drink. Lei aveva dimenticato di chiedergli cosa a-vrebbero fatto quella sera. E anche di chiedere a Demetra e Savvas se si sarebbero potuti prendere cura di T.J. Ma naturalmente Damon aveva tutto sotto controllo. Come il resto nella sua vita, lei compresa. Rebecca tuttavia non era sicura di poter tollerare un'altra uscita con l'accompagnatore ideale... e la-sciare dietro di sé tutte le incertezze e i desideri. Alle sette in punto Rebecca salì in terrazza. Damon sentì una stretta dentro di sé quando la vide fermarsi sulla soglia, prima di procedere. Un paio di pantaloni neri di un tessuto leggero avvol-gevano le sue gambe e i sandali dal tacco alto la fa-cevano sembrare slanciata, snella e incredibilmente sexy. Lo sguardo di lui si alzò ad ammirare la cami-cia attillata color pavone, sbottonata sul davanti, dove un ciondolo di opale blu incastonato in oro pendeva sulla sua pelle chiara. Le sopracciglia di lui

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si contrassero alla vista di quel ciondolo costoso. Presto sarebbe stata sua. E avrebbe indossato solo gioielli comprati da lui e non fronzoli ricevuti da altri uomini. Allontanò quel primo segnale di gelosia e tornò a guardarla in faccia. «Una donna puntuale» notò lui. «Una perla senza prezzo.» Lei si sentì scombussolata. Quindi sfoggiò il suo lento sorriso sexy e Damon si sentì ribollire e di-menticò l'opale e l'uomo che l'aveva acquistato per lei. «Le vecchie abitudini sono dure a morire» ribatté lei, sedendosi e prendendo il bicchiere di vino dalle mani di lui con un sorriso di ringraziamento. «Sì, ora mi ricordo. Hai sempre avuto la reputa-zione di una professionista impeccabile negli affa-ri.» Damon aggrottò le sopracciglia. La sua reputa-zione per quanto riguardava la vita privata era ben diversa. Un'ombra cadde sul viso di lei. «A cosa stai pensando?» Lui non riusciva a libe-rarsi dalla tentazione di frugare tra i suoi pensieri. «Niente» rispose lei, toccando l'opale. «Dimmi.» Lei sospirò. «È stato Aaron a inculcare in me l'importanza di essere puntuali. Il tuo commento mi ha fatto pensare a quante cose lui mi abbia insegna-to.» Damon cercò di non guardare il ciondolo. Non voleva pensare né al marito di lei, né a Felicity. Non voleva che il passato interferisse con il presente. Voleva solo godersi la serata e quella donna affa-scinante. La sua donna. Da quella sera.

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Finché non si fosse stancato di lei. E sapeva che sarebbe successo. Non poteva anda-re diversamente. Accostò la sedia e cambiò argomento. «Cosa ne pensi del vino?» Rebecca si portò il bicchiere alle labbra. «Mmh... Burroso... come dovrebbe essere un buon Chardon-nay.» Tenne il bicchiere alzato, contro gli ultimi raggi di sole della sera. «Ha anche un bel colore.» Ne bevve un altro sorso. «Rinfrescante. C'è un ac-cenno di qualcos'altro... qualcosa di leggermente dolce.» «Melone? Ananas?» Damon si divertì a schernir-la. Lei lo guardò facendo una smorfia. «Miele, cre-do.» «Miele?» Il miele ricordò a Damon quel bacio troppo velo-ce che si erano scambiati a pranzo qualche giorno prima. Rebecca sapeva di miele: dolce e invitante. Sentì gli occhi diventare cupi e il corpo illanguidire, mentre ricordava il desiderio che l'aveva attraversa-to. Rebecca si era ammutolita, conquistata dallo stesso incanto che aveva intrappolato lui. Improvvi-samente provò un brivido. «Hai freddo?» chiese lui dolcemente. Ma sapeva che non era il freddo ad averle fatto venire la pelle d'oca, bensì l'eccitazione, proprio come era capitato a lui. Lei scosse il capo. «Rebecca...» «Dov'è Demetra?» l'interruppe lei. «E Savvas?» Lui si adagiò sulla sedia, sforzandosi di rilassarsi,

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di andarci piano. «Demetra voleva vedere le luccio-le, allora Savvas l'ha portata a Waitorno. Non sa-ranno di ritorno fino a domenica pomeriggio alme-no.» Sorrise lui maliziosamente. «Non dobbiamo aspettarli.» «E Johnny?» «Johnny è a cena dalla figlia. Tornerà domani.» Damon attese. Gli occhi di lei si spalancarono. «Ciò significa...» La sua voce divenne secca, smorzata. «Che siamo soli.» Lo fissò senza parole, con gli enormi occhi scuri. Lui mise una mano sopra quella di lei. Aveva le dita ghiacciate. «L'unico è T.J.» «Sta... dormendo» balbettò lei. «Allora, sì, siamo soli.» Lei rabbrividì. Lui le accarezzò le dita delicatamente, il polso e il braccio e poi su, fino al collo. Quindi le mise l'in-dice sotto il mento e lo sollevò. Gli occhi di lei erano diffidenti, ma sotto quell'in-certezza era celata una fiamma ardente. «Sai cosa ho intenzione di fare, vero?» Un sussurro. «Sì.» Ma a Damon bastò. Lui si chinò in avanti fino a lasciare uno spazio impercettibile tra loro. «Ho in-tenzione di baciarti.» Poi le sfiorò le labbra. Delicatamente. Quando Rebecca sospirò, aprendo la bocca, Da-mon non riuscì a resistere oltre. Con un gemito bra-moso prese possesso delle labbra di lei. Dimenticò di andarci piano, di essere paziente, di farle la corte. La sua lingua si fece strada per assaggiarne la dol-

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cezza. Come il miele, selvatico e dorato. Dimenticò tutto, mentre la furia violenta della passione lo tra-volgeva. La tirò a sé, sulle ginocchia. Il corpo di Rebecca era morbido, aggraziato. Da-mon la sentì gemere e quel gemito lo stimolò anco-ra di più. E dopo un po', non seppe quanto, sollevò il capo. Le sue mani tremavano, faticò a sbottonarle la ca-micetta e quando ci riuscì infilò una mano e le af-ferrò un seno. Il respiro di lei si fece più affannoso. Lui le coprì la bocca con le labbra, le loro lingue si incontrarono, selvagge e giocose, e i corpi si cer-carono, tesi l'uno contro l'altro. Il respiro di lui divenne irregolare, mentre cerca-va di allontanarsi da lei. Incredibile. Il desiderio che l'aveva assalito lo fa-ceva sentire un ragazzino. Frettoloso. Impulsivo. Fuori controllo. «Vieni.» Lui si alzò e la prese per mano, per con-durla verso la porta scorrevole. «Dove?» «Dentro fa più caldo. Sta salendo la brezza.» «Cosa...?» Gli occhi di lei erano selvaggi, accecati dalla pas-sione. «Stanotte... diventerò il tuo amante.» Lei rimase a guardarlo a bocca aperta. «Il tuo amante, Rebecca.» «Sì.» Ecco cosa aveva atteso tanto a lungo. La sua resa. La sua capitolazione totale. Voleva che lei lo desi-derasse, perché le avrebbe fatto perdere ogni forma di controllo. Voleva vedere la donna sotto la ma-

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schera. La donna che nessuno degli altri suoi amanti aveva mai visto. «La tua pelle è così morbida.» Il suo tocco fu par-ticolarmente dolce, mentre finiva di sbottonarle la camicetta e le passava un dito sul petto. Rebecca era distesa sul suo letto, vestita. Niente l'aveva preparata a questo... Il suo tocco. Come il fuoco. Si morse il labbro, lottando contro la selvaggia sensazione che l'aveva travolta. «Dimmi cosa ti piace, cosa ti eccita. Voglio sape-re tutto di te.» Le sue mani scivolarono sotto il reg-giseno di Rebecca e le accarezzarono i capezzoli. Lei smise di respirare. «Ti piace?» Il suo sguardo fu attraversato da qualcosa di simile al senso di trionfo. Lei si trattenne dall'assentire con la testa, speran-do che i suoi occhi non rivelassero che quello che le stava facendo era quello che aveva sempre deside-rato. Ma il suo corpo la tradì. Damon le sfilò la camicetta e le mise una mano dietro la schiena, per liberarle i seni. «Belli, così ro-tondi, così morbidi.» La schiena di Rebecca si inarcò contro il suo vo-lere, spingendo i seni nelle mani di lui. Damon l'ammirò come trafitto, quindi la sua testa si abbas-sò e la bocca si chiuse attorno a uno dei capezzoli. Rebecca provò una sensazione che non aveva mai provato prima. Sentì un fremito all'addome, tra le gambe, quasi come se stesse andando a fuoco. Lui sollevò la testa e l'espressione sul suo viso le

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fece seccare la bocca. Il desiderio gli trasformò i li-neamenti in una maschera pagana. I suoi occhi luc-cicarono e la sua bocca si addolcì per la passione. Tutta la sua attenzione era dedicata a lei. Solo a lei. Quello era l'uomo che aveva sempre desiderato. Ruotò le anche e lui sembrò capire esattamente cosa volesse, perché si spostò fino a esserle sopra, con tutta la sua forza e il suo erotismo. Lei si sporse in avanti, baciandogli avidamente una guancia, seguendo la linea della mascella fino a strofinare il naso dietro il suo orecchio. Lo sentì gemere e aprì le labbra contro il suo collo. Aveva un sapore salato, maschile. Lo leccò, desiderando assaggiare di più. Il corpo forte e possente di lui si muoveva a tratti contro quello di lei. In un attimo i pantaloni di entrambi sparirono e le loro gambe si ritrovarono attorcigliate. «Mi ecciti da morire!» Lei non parlò. E oscillò semplicemente il bacino contro di lui, per cercare di avvicinarsi sempre di più. «Mi vuoi, non è vero?» Quel tono insistente la fece tornare brevemente alla realtà. Aprendo gli occhi vide il viso di lui pro-prio sopra il suo, con gli occhi blu che la fissavano. «Dimmelo, Rebecca! Dimmi che mi vuoi.» «Ti voglio...» «Di più. Dimmi di più.» Di più? Rebecca si scosse. Cosa voleva? Il viso di lui era teso, il sudore gli scendeva sugli zigomi. Non c'era nessun segno di dolcezza. Niente! Damon non aspettava altro che lei gli dicesse che

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lo amava. Era così? Poteva esporsi così tanto con lui? «Dio, che effetto che hai su di me! Perché, dan-nazione? Perché tu?» gridò lui in preda all'estasi e all'agonia. E mostrò una vulnerabilità che non le aveva mai mostrato prima. Una vulnerabilità che lei sapeva che si sarebbe pentito di aver mostrato. Improvvisamente Rebecca capì cosa voleva. Pas-sandogli il braccio sotto il collo, lo trasse a sé. «An-ch'io ti voglio, Damon, più di quanto abbia mai de-siderato qualcuno» sussurrò. «Di più?» «Molto, molto di più» confermò lei, stringendolo forte a sé. Lui sospirò e la penetrò. Rebecca emise un grido. Disse a se stessa che era interessato a lei. Non si sarebbe comportato così altrimenti. Non sarebbe stato così importante per lui possederla se non aves-se tenuto a lei. Damon iniziò a muoversi. Lei lo assecondò, cer-cando di diventare un tutt'uno con lui. Lui abbassò il torso, sfiorandole i seni fino a farla gridare ancora. Rebecca si morse con forza il labbro inferiore, consapevole dell'eccitazione che aumenta-va in lei. La pressione nel punto in cui i loro corpi si uni-vano crebbe sempre di più e insieme a questa il ca-lore. Lei non riuscì più a resistere. Si aggrappò a lui, sentendolo ansimare e tremare. «Non riesco a trattenermi» esclamò Damon senza fiato. «Vieni» sussurrò lei. «Vieni con me. Con me. Sempre.»

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Lui aprì gli occhi e Rebecca vi lesse confusione. Si mosse, lenta e sinuosa, e la confusione svanì. C'era passione e calore in quel blu profondo... e qualcosa di insondabile. Ma a quel punto tutti i pensieri razionali svaniro-no e gli spasmi dell'orgasmo la squassarono, rega-landole un momento di piacere così puro da fare quasi male. Alla fine si appisolarono l'uno avvinghiato all'al-tro. Quando lei si svegliò, la sveglia digitale sul comodino di Damon indicava oltre la mezzanotte. «T.J.» Rebecca saltò oltre le coperte. Damon le afferrò la mano. «Dorme ancora, ho controllato. Rimani qui.» Il calore nei suoi occhi e la voce roca le rivelaro-no le sue intenzioni. «Non posso.» Guardò lontano, sentendosi inde-bolita, divorata dal senso di colpa. «Rebecca, ti desidero.» La sua ammissione la fece sciogliere. Si girò ver-so di lui. Non c'era bisogno di parlare. Prima ancora che si fosse coricata, lui le fu sopra. Questa volta fecero l'amore in maniera selvaggia, incontrollata. Senza barriere tra di loro. Né passato né futuro. So-lo il presente. Tuttavia lei sapeva che presto sarebbe spuntato un nuovo giorno. Domani, l'indomani avrebbero parlato. Non poteva rimandare ancora, doveva dirgli la verità. Quando i primi pallidi raggi di sole filtrarono nel-la stanza, Rebecca si alzò e si vestì. Damon dormi-va. In piedi accanto a lui, resistette alla tentazione

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di baciarlo e accarezzargli la curva perfetta delle spalle. Preso il ciondolo dal comodino, si avviò ver-so la porta con i sandali in mano e la chiuse lenta-mente dietro di sé. Arrivata in camera andò da T.J., che dormiva tut-to scoperto con il viso rivolto verso la porta. Si chi-nò e gli diede un bacio leggero sulla fronte, rimboc-candogli le coperte e sussurrando: «Ti voglio bene». Non andò subito a letto, ma rimase alla finestra della sua stanza a guardare le prime luci dell'alba, con in mano il ciondolo di opale. Qualcosa negli occhi di Damon le aveva fatto capire che quel mo-nile non gli piaceva. Non lo avrebbe più indossato. Era arrivato il momento di dire addio ad Aaron e pensare al futuro. E a Damon. La notte precedente aveva vissuto l'esperienza più dolce, più passionale, più incredibile della sua vita. Si era lasciata andare tra le braccia di Damon e temeva di aver rivelato troppo dei propri sentimenti. Come avrebbe reagito al loro prossimo incontro? Oh, Signore. Come avrebbe fatto a dirgli quello che doveva dirgli? L'avrebbe odiata. Dopo la notte ap-pena trascorsa non poteva tornare a quella vita insi-gnificante in cui lui la disprezzava. Si allontanò dalla finestra. Ripose il ciondolo con cura nel portagioie e lo chiuse. Quindi si baciò la punta delle dita e le posò per un attimo sul coper-chio. Dopo una breve pausa in bagno, Rebecca si mise la camicia da notte e sentì qualche dolorino in parti insolite del corpo. Erano dolori piacevoli, che le ri-cordarono Damon. Riusciva a malapena a credere a

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tutto quello che era successo tra di loro. La passione. La frenesia. Però non era mancata la gentilezza. Si infilò tra le lenzuola di cotone egiziano e si abbandonò ai ricor-di. Il suo tocco era stato così premuroso, così dolce e così diverso dal passato. Sarebbe stato ancora così dopo avergli parlato? Aveva paura anche solo a pensarci. L'indomani sarebbe arrivato fin troppo in fretta.

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Capitolo 7

UN URLO SVEGLIÒ Rebecca. Stridule grida infantili, seguite da un silenzio ag-ghiacciante. La porta della stanza di T.J. era spalan-cata e quella che dava sul corridoio era socchiusa. Balzò subito in piedi, completamente sveglia. «T.J.?» Nessuno rispose. In preda alla paura si precipitò subito nella sua stanza, ma T.J. non c'era. Rebecca corse in corridoio, terrorizzata e incu-rante della camicia da notte che indossava. «T.J.!» Rebecca gridava, con la voce rauca e spa-ventata. Corse giù per le scale e si fermò un attimo. Sentì delle grida provenire da fuori. Questa volta si trattava di un adulto. Sembrava... Johnny. Guardò l'orologio e notò che mancava poco alle sette. Riprese a correre. Una figura maschile con indosso solo un paio di boxer le passò accanto a gran velocità e sparì. Damon. Rebecca ricordò brevemente i tendoni rigonfi, le porte scorrevoli e fu colta da profondo terrore. «Ti prego, no. Oh, Signore! T.J.» Giunse in ter-razza giusto in tempo per vedere Damon che spari-

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va sott'acqua. Si guardò attorno con terrore. Dov'era T.J.? Anche Johnny era in acqua, con indosso la giacca nera fradicia e la cravatta allentata. E T.J.? Rebecca si avvicinò in fretta al bordo della pisci-na. «Aspetti» gridò Johnny. «Non si butti. Chiami l'ambulanza e il dottor Campbell. Il padrone tirerà fuori il ragazzino.» Terrorizzata, Rebecca corse nell'ingresso, afferrò il telefono portatile e digitò il numero del pronto in-tervento con dita incerte. «Presto, presto» implorò lei, dando indicazioni in tutta fretta. Quindi chiamò il dottor Campbell e la segretaria promise che sa-rebbe arrivato immediatamente. Rebecca tornò di corsa in terrazza, lasciando ca-dere il telefono alla vista di Damon che usciva dal-l'acqua con T.J. che si dimenava tra le braccia. T.J. Il suo bambino era vivo! La vista le si offu-scò. Raggiunse il punto in cui Damon stava ada-giando il piccolo sulle mattonelle color terracotta. «Sono qui, tesoro.» Rebecca si inginocchiò. Una lacrima segnò la guancia pallida di T.J. «Grazie, Si-gnore.» «Oh, T.J., mi dispiace così tanto.» Il dottor Campbell e l'ambulanza se n'erano anda-ti. T.J. era disteso sul divano, esausto per lo spaven-to e per il pianto. Rebecca stava china sul figlio, con la schiena tesa e ancora tremante. Ogni tanto lo ac-carezzava, quasi ad assicurarsi che fosse ancora vi-vo. Damon decise di avvicinarsi a lei e, senza darle la

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possibilità di opporre resistenza, la prese tra le braccia. «Il dottor Campbell ha detto che sta bene.» «Lo so, ma quando penso...» Tenendola sulle ginocchia, la cullò un po'. «Non pensare. Non serve a niente.» «Non capisci, l'ho quasi perso.» Lui capiva, ma come poteva spiegarglielo? Odia-va sentirsi così impotente. Niente che potesse dire o fare avrebbe alleviato quella sofferenza. Lei tirò su col naso. «È colpa mia.» «No, è mia. Avrei dovuto pensare a quella porta.» Damon fissò sconfortato in lontananza. La notte precedente era stato così concentrato a cercare di sedurla che aveva dimenticato le porte scorrevoli. Dopo averle promesso che sarebbero state sempre chiuse, l'aveva delusa. Il bambino aveva pagato per la sua negligenza. Quasi con la vita. «Non sarebbe mai dovuto succedere» aggiunse lei con voce strozzata. «Voglio dire, non sarebbe successo, se fossi stata una madre migliore.» Lui le sfiorò le sopracciglia con le labbra. «Sono una madre terribile, un completo fallimen-to. L'ho sempre saputo...» singhiozzò. «Rebecca.» Lui la scrollò. «Ascoltami! Nessuno può mettere in dubbio la tua dedizione verso T.J. Sei paziente, amorevole. Cosa potrebbe volere di più? Sai, se quattro anni fa mi avessi chiesto che ti-po di madre avresti potuto essere, avrei risposto ter-ribile. Egoista. Ma ti ho visto con T.J. Mi hai lascia-to stupefatto. Anche nei momenti difficili, fai sem-pre la cosa giusta.» «Non capisci! Ci sono cose... cose che non ti ho

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detto. E che avresti dovuto sapere prima... prima di fare l'amore con me.» «Ssh. Non preoccuparti ora.» «Devo. Ignorarle non le farà sparire. Ho paura...» La tirò a sé, così vicino da sentire il suo respiro. «Smettila ora o ti ammalerai!» Il rimorso attraversò il viso di lei, facendola ap-parire ancora più infelice. «E questo non farà bene neanche a T.J., vero?» «Cos'è questa autocommiserazione? Datti forza.» Lei sorrise debolmente. «Vuoi dire fatti forza.» Lui alzò le spalle. «Quel che è.» «Quel che è? Hai una proprietà di linguaggio così perfetta che a volte dimentico che sei arrivato in Nuova Zelanda solo quando avevi... otto, nove an-ni?» «Dieci» la corresse lui, sorpreso dal cambiamento di argomento. «Mio padre era convinto che la Nuo-va Zelanda potesse offrire ottime possibilità. Quan-do arrivammo, né io né Savvas sapevamo una paro-la di inglese. Dov'eri tu a dieci anni, Rebecca?» «Con gli Austins, una delle famiglie affidatarie migliori che abbia avuto.» Era stato in quel frangen-te però che era stata separata da James. Gli Austins avevano due figlie e non volevano un ragazzo. Però avevano accolto un'altra ragazza, Fliss, che aveva appena perso i genitori in un terribile incidente in nave. Separata da James per la prima volta nella sua vita, Rebecca aveva condiviso con Fliss quel suo senso di abbandono. Era naturale che le due ragazze si fossero aggrappate l'una all'altra. «In quante famiglie affidatarie sei stata?» «In tutto? Quattro» rispose lei con aria cupa. Lui la tirò di nuovo a sé. «Sai? T.J. è davvero for-

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tunato ad avere una madre come te. Ti ho guardato mentre ti occupi di lui. Non pensare mai di essere una mamma inadatta.» Lo stupore illuminò gli occhi di lei. «Grazie, Da-mon. Questo significa molto per me, perché mia madre ha abbandonato me e James e non abbiamo mai saputo chi fosse nostro padre.» «Tu non sei tua madre. Hai fatto miracoli. T.J. è un figlio di cui essere fieri.» La baciò sulla fronte. Ogni parola che aveva detto era sincera. Lei lo ave-va stupito. All'inizio si era convinto che l'essere madre per lei fosse solo una farsa, ma pian piano aveva visto la profondità del suo amore per T.J. e in un certo qual modo il legame tra loro due aveva messo in luce il vuoto della sua stessa vita. Si era divertito in gita con loro. Con sua grande sorpresa, Damon si era trovato a desiderare di essere parte di quel legame indistruttibile. Rebecca rimase accanto a T.J. tutto il giorno. Damon l'aveva portato di sopra, in camera sua, e il bambino dormì oltre mezzogiorno. Quando si ri-svegliò, scoppiò in lacrime e disse convinto a Re-becca che non avrebbe mai più nuotato. Rebecca lo abbracciò, sperando che fosse solo lo spavento, e poi si misero a giocare con il trenino. Alcune ore più tardi, un leggero colpo alla porta fece alzare le teste di entrambi. La porta si aprì e Damon rimase lì un attimo, stranamente esitante. «Ha appena chiamato il dottor Campbell, domattina mia madre potrà lasciare l'o-spedale. Voleva anche sapere di T.J. e gli ho detto che aveva mangiato e che tu eri con lui. Puoi chia-marlo più tardi, se vuoi parlargli.» Lo sguardo di

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Damon si posò su T.J. «Posso entrare?» «Vuoi giocare col trenino?» T.J. lo invitò, inge-nuamente ignaro della tensione che stava crescendo. «Posso?» T.J. annuì entusiasta. «Il treno verde è Henry. La locomotiva nera è Diesel, oggi è stata cattiva.» Damon si accovacciò a terra. «Cosa ha combina-to?» Rebecca attese, con il cuore in gola. T.J. non alzò lo sguardo. «È caduta nel laghetto.» Damon sbiancò. «T.J...» «L'ha fatto apposta, perché voleva nuotare.» Rebecca respirò cautamente. «Forse Diesel ha bi-sogno di qualche lezione di nuoto.» «No.» T.J. fu categorico. «Diesel non vuole più nuotare. Diesel ha paura.» Damon spinse il drago cinese lungo le rotaie. «È normale avere paura ogni tanto.» «Tu no... tu sei un uomo. Un uomo grande. Tu non hai paura.» T.J. rispose con logica infantile. «Anch'io» ribatté Damon, «ho avuto paura, per-ché la mia mamma era ammalata. E anche stamatti-na.» «Anch'io ho avuto paura stamattina» aggiunse T.J. fissando l'uomo accanto a lui con i suoi occhio-ni spalancati. «Non c'è niente di male, figliolo.» Rebecca si rilassò. La tranquillità con cui Damon aveva gestito la faccenda la sollevò. Provò gratitu-dine per lui... e anche qualcos'altro. Cielo, se amava quell'uomo! L'emozione che avvertiva ora era molto più forte di quattro anni prima. Allora era caduta vittima del desiderio. E pensava che fosse amore, finché non

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era diventato sofferenza, una sofferenza che l'aveva distrutta. Non era la stessa cosa che provava ora. Durante le ultime settimane aveva imparato a conoscerlo. Non solo il sexy e carismatico greco di cui si era tremendamente invaghita qualche anno prima, ma l'uomo vero, sotto la maschera del magnate miliar-dario. Aveva imparato ad apprezzarne l'ardente leal-tà, l'amore protettivo nei confronti dei suoi cari. Quella mattina aveva fatto tutto il possibile per sal-vare T.J. T.J. era sotto il suo tetto e lui si sentiva responsa-bile per quello che era successo e non l'aveva rim-proverata neanche un attimo per aver lasciato le porte aperte. E ora, mentre lo guardava giocare con T.J., con le loro teste scure l'una accanto all'altra, riconobbe l'essenza della sua forza e la sua capacità di mostra-re attenzione e dolcezza al bambino di una donna per cui aveva mostrato poco rispetto in passato. Una donna che ora era la sua amante. La donna che lo amava con un'ardente intensità. E questa volta non si trattava solo di passione. Damon era l'uomo per lei. Forte, attento, gentile. L'uomo che ogni donna avrebbe voluto al proprio fianco per il resto della vita. Non ci sarebbe mai sta-to nessun altro per lei. Non c'era mai stato. Quella sera, dopo che T.J. si fu addormentato, Damon insistette perché Rebecca scendesse al piano di sotto per fare una pausa. Damon aveva dato la serata libera a Johnny per concedere a Rebecca un po' di privacy in modo che

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si riprendesse più in fretta dal trauma della mattina. Savvas e Demetra sarebbero rientrati solo il giorno successivo e Damon aveva deciso di non informarli della disavventura capitata. Ora, mentre Rebecca si rannicchiava sul divano di fronte al suo, Damon notò che i suoi occhi erano segnati dalla stanchezza. Fu tentato di sedersi ac-canto a lei e prenderla tra le braccia, ma resistette perché non voleva che lei pensasse che fosse spinto dal desiderio. L'ultima cosa di cui aveva bisogno in questo momento Rebecca era il sesso. «Stai bene?» Lei alzò gli occhi verso di lui e annuì. Quella giornata lunga e travagliata l'aveva segnata. Damon avrebbe voluto allontanare da lei quella stanchezza con un bacio. La donna che un tempo considerava vanitosa ed egoista era una madre de-vota. Ed era premurosa anche con Soula. In realtà, se ripensava al passato, gli tornavano in mente mo-menti in cui era stata estremamente protettiva con Felicity. Fino al punto da confrontarsi con lui e supplicarlo di non sposarla. Era arrivato perfino a pensare che lo facesse per ottenere qualcosa in cambio: lui. Ma ora non era così sicuro che si fosse trattato solo di quello. Forse... «Damon...» Rebecca interruppe i suoi pensieri. «Sì?» «Non importa.» Lei distolse lo sguardo, improv-visamente rossa in volto. «Cosa c'è?» «Ti va di stringermi?» Le parole uscirono veloci e gli occhi di lei rivelarono incertezza. «Certo!» Si spostò a sedere accanto a lei. Passan-dole un braccio attorno alle spalle, la tirò a sé. Lei

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appoggiò la testa contro il suo petto. Damon sentì un desiderio improvviso di sollevarle il volto e ba-ciarla fino a toglierle il respiro, ma si frenò bacian-dole delicatamente la testa. I suoi pensieri tornarono al passato. Perché Re-becca era stata così contraria al suo matrimonio? Perché Felicity se n'era andata? Rebecca sapeva qualcosa che lui non sapeva? Di certo su una cosa aveva avuto ragione: Felicity non era stata contenta di sposarlo. Aveva cercato di nasconderlo, ma non c'era riuscita. Ciò l'aveva innervosito. L'aveva riempita di rega-li, che lei aveva accettato, ma lui percepiva una tri-stezza interiore in lei. Le aveva dato tutte le atten-zioni possibili; l'aveva accompagnata a teatro, por-tata nei migliori ristoranti, tutte cose che una donna cresciuta nella povertà avrebbe adorato. Eccetto il suo amore. Era lui la causa della sua infelicità? A quel tempo non aveva considerato questa possibilità. Se n'era andata troppo in fretta. E lui si era sentito troppo fu-rioso e umiliato. Aveva accusato Rebecca e l'aveva odiata per quella pubblica umiliazione. Aveva pensato di andarla a cercare, ma la madre gli aveva consigliato di aspettare, per poter vedere le cose in prospettiva. Soula era convinta che la fu-ga di Felicity non fosse stata opera di Rebecca. Lui non aveva avuto il coraggio di dissentire, ma il ri-sentimento nei confronti di Rebecca era cresciuto in lui come un cancro... e poi Felicity era morta. La bara di Felicity. Coperta di fiori bianchi. Non aveva parlato con nessuno eccetto che con la madre al funerale. E non si era trattenuto dopo la cerimonia, per non avventarsi contro Rebecca.

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Il giorno successivo era riuscito a calmarsi e lei se n'era andata. Sparita. Prima che lui potesse pa-reggiare i conti. Sarebbe stato facile farla rintraccia-re dagli uomini della sicurezza, ma aveva deciso di lasciar perdere. Perché sapeva che la sua reazione gli sarebbe costata più di quanto era disposto a met-tere a rischio: la perdita dell'autocontrollo. Lui scrollò il capo furiosamente, per allontanare quei ricordi legati al passato. Ormai erano sepolti, proprio come Felicity. Era arrivato il momento di guardare avanti. E davanti a lui c'era Rebecca, il cui corpo caldo e morbido trovava riposo nella curva delle sue braccia. Damon posò la guancia non rasata sulla sua testa e la sfregò avanti e indietro. «Damon, vorresti fare l'amore con me?» «Ora?» Il suo corpo ebbe un fremito, nonostante l'incredulità. «Se non ti dispiace.» «Dispiacermi? Certo che no.» Cosa avrebbe dato per vedere il viso di lei. «Sei sicura che è quello che vuoi?» «È stato il giorno peggiore della mia vita. Voglio fare qualcosa che... mi aiuti a dimenticarlo. È così terribile cercare l'oblio nel tuo corpo?» «No...» rispose con voce rauca, quindi deglutì e ritrovò la voce. «No, non è per niente terribile.» Mettendosela sulle ginocchia le chiese: «Dimmi co-sa posso fare per scacciare questa sofferenza che ti tormenta». «Amami e basta.» Rebecca sembrava così disperata che lui gemette e abbassò il capo per baciarla. Quella notte l'avreb-be aiutata a dimenticare. Avrebbe rimosso le ombre

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dai suoi occhi e sostituito il dolore con la passione. T.J. teneva stretta la mano di Rebecca mentre en-travano in casa domenica prima di pranzo. Lei non poteva smettere di chiedersi se il suo nervosismo, al pensiero di rivedere Damon, avesse contagiato T.J. L'incontro della sera prima era stato lento, delica-to e immensamente soddisfacente. Alla fine si era addormentata tra le braccia di Damon. Quando T.J. era andato a svegliarla la mattina, Damon non era più accanto a lei e lo aveva sentito nuotare in pisci-na. Rebecca aveva indossato velocemente un paio di pantaloncini bianchi, una canotta rossa e le scar-pe da tennis ed era scesa a colazione con i capelli sciolti sulle spalle. Damon era entrato in sala da pranzo con i capelli ancora bagnati. Il suo bacio de-licato e pieno d'affetto le aveva fatto contorcere lo stomaco. Dopo colazione lei e T.J. erano andati al parco vicino a casa, mentre Damon si era recato al-l'ospedale a prendere Soula. «Stai tranquillo.» Rebecca rassicurò T.J. mentre attraversavano l'atrio. «Non andiamo in terrazza o vicino alla piscina.» T.J. rallentò il passo all'idea della piscina. Rebecca si affrettò a cercare di di-strarlo. «Ricordi che ti ho parlato della mamma di Damon?» T.J. annuì. «Ora potrai conoscerla. Sento la sua voce, è tor-nata a casa dall'ospedale.» Rebecca esitò. «Puoi chiamarla Kyria Soula. O anche solo Kyria.» T.J. titubò un istante quindi seguì Rebecca in sa-lotto. Damon era seduto alla destra della madre e parlava velocemente in greco. Il suo profilo deciso risaltava contro l'arredamento pacato della stanza.

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Un pirata in mezzo ai civili. Il suo amante. Rossa in volto, Rebecca accompagnò T.J. dentro la stanza. Damon si interruppe e si alzò. Il sorriso che le rivolse fu estremamente dolce. T.J. venne a-vanti lentamente da dietro le sue gambe. «Vieni.» Damon sorrise affettuosamente a T.J. Nonostante il terrore del giorno precedente, qual-cosa di simile alla felicità travolse Rebecca. Strin-gendo delicatamente la mano di T.J., si fece avanti. «Soula, no, non si alzi.» Rebecca lasciò la mano di T.J. e indicò alla donna il divano. Poi guardò la teiera e le tazze vuote sul tavolino. «Posso versarle un po' di tè? Come sta?» «Basta tè per me. Molto meglio ora che sono a casa, tesoro. Ne ho abbastanza di stare distesa, devo muovermi.» La donna si alzò e abbracciò Rebecca. Rebecca respirò l'elegante profumo fruttato di Soula. Femminile, di classe, un po' demodé. Dopo un attimo Soula fece un passo indietro per guardare dietro Rebecca. «Dov'è il tuo giovanotto?» Con un senso di inevitabilità, Rebecca assistette alla reazione di Soula. «Mio Dio, quegli occhi! È l'immagine sputata di...» Il suo sguardo scioccato incontrò quello di Rebecca. Rebecca la guardò fissa, sperando, pregando che Soula tenesse per sé quello che aveva appena visto. Soula lanciò una breve occhiata a Damon, poi os-servò Rebecca con sguardo calcolatore, quindi si girò verso il figlio. «Avresti dovuto dirmelo.» Damon appariva completamente perso. «Dirti co-sa, mamma?» «Che tu e Rebecca avete un figlio!»

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Lo shock di Rebecca fu niente al confronto di quello di Damon. «Un figlio? Di cosa stai parlando, mamma?» Soula si mise una mano sulla bocca. «Non lo sai?» «Cosa dovrei sapere?» Ma il suo sguardo stava già vagando tra T.J., Rebecca e Soula. «No.» Rebecca fece un passo avanti. «No, ha ca...» «Sono così contenta!» Soula baciò Damon sulla guancia e lo abbracciò. «Questo è quello che ho sempre desiderato, un nipote. Rebecca, vieni qui.» Fece un gesto con il braccio e la tirò a sé, per inclu-derla nell'abbraccio. «Mi avete reso così felice. Ho pregato per anni perché voi due capiste che la terri-bile tensione che c'era tra voi due non era odio.» Rebecca non osò guardare Damon. «Il bambino è battezzato?» si informò subito Soula. Rebecca annuì con il capo, cercando di ignorare l'inquietudine che emanava dal corpo di Damon. «Ma non secondo il credo greco ortodosso» af-fermò Soula. «Dobbiamo occuparcene. E voi due dovrete sposarvi. Non posso permettere che Ifigenia e il resto della famiglia sparlino di voi.» Le parole di Soula scioccarono Rebecca. Sposar-si? Con Damon? Per il bene di T.J.? Mai! Si sciolse bruscamente da quell'abbraccio di famiglia, con il cuore che le batteva all'impazzata. «No, io e Damon non ci sposeremo. T.J. non è figlio suo e non do-vremmo parlare di questo davanti a lui.» Soula annuì, ma i suoi occhi neri non nascosero la curiosità. «Mamma, posso avere un biscotto?» Per fortuna

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T.J. non sembrava prestare ascolto ai loro delicati discorsi. «Sì, certo, tesoro. Aspetta che ti prendo un tova-gliolo.» Rebecca si avvicinò alla credenza con le mani tremanti. Damon arrivò prima di lei. «Cosa intende mia madre?» mormorò lui, dando le spalle a Soula. «Di chi sarebbe la copia sputata?» «Be', di certo non la tua» ritorse lei a corto di fia-to. «No, a meno che non sia nato dall'immacolata concezione.» Il tono era pungente. Un'idea gli bale-nò in testa. «Allora di chi sarebbe? Di mio fratel-lo?» Rebecca si girò dall'altra parte. Dentro di lei il dolore aumentava e aumentava. Con una voce così bassa che solo lei poté sentire, Damon disse: «Mia madre vuole un nipote». «Smettete di bisbigliare, voi due» li interruppe Soula. «Rebecca ha ragione, ora non è il momento. Rebecca cara, ti ho versato un po' di tè, vieni a se-derti qui accanto a me. Damon, ne vuoi una tazza anche tu?» Rebecca guardò Damon disperata. Il viso di lui era pallido sotto l'abbronzatura. «Io no, grazie» rispose lui amaramente. Ci sono cose... che non ti ho detto. Cose che a-vresti dovuto sapere... prima che facessimo l'amore. Quelle parole rimbombavano nella testa di Da-mon, facendolo impazzire. Era da solo a bordo pi-scina. Dietro di sé sentiva la voce della madre che offriva a T.J. un biscotto di pasta frolla e quella di Rebecca che, fredda e composta, gli diceva che

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quello sarebbe stato l'ultimo. Con uno scatto, Da-mon andò a chiudere le porte scorrevoli per allonta-nare ogni suono di quella donna. Ma dentro la sua testa continuarono a rimbomba-re le parole di lei. Ci sono cose... che non ti ho det-to. Cosa aveva voluto intendere Rebecca? Era pos-sibile che...? Certo che era possibile, dannazione! Il bambino poteva davvero essere di Savvas. Suo fratello. È una donna molto bella. È stata gentile con me. Ci siamo divertiti. Savvas stesso aveva ammesso di essere stato at-tratto da Rebecca. Chi non lo sarebbe stato? Suo fratello avrebbe tranquillamente potuto essere il pa-dre di T.J. Sua madre aveva notato subito la somi-glianza. Vedendone gli occhi aveva capito che era un Asteriades. Come aveva potuto non accorgersene? Strinse i pugni e sentì il sangue salirgli alla testa. Stava per perdere il controllo, ma doveva contenersi. E poi il controllo l'aveva già perso in un momen-to di passione. Gli tornò alla mente un'immagine di Rebecca stesa sotto di lui e la rabbia aumentò. Rebecca e... Savvas. Cielo! Quando era successo? Un'altra immagine, questa volta il ricordo di Savvas e Rebecca che ballavano al suo matrimonio. Era successo la sera del suo ma-trimonio? Durante la luna di miele? Mentre lui cer-cava di essere dolce con quegli occhi di porcellana blu, nonostante lottasse per dimenticare la strega dagli occhi a mandorla neri? La maledizione di Re-becca... l'effetto devastante sugli uomini della fami-glia Asteriades.

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Il suo stomaco si contrasse. Era per questo che aveva accettato di tornare ad Auckland? Aveva sperato di ottenere una fortuna, un sostegno economico per il bambino da parte del-la famiglia di Savvas? No. Quei soldi le spettavano per legge, eppure in quegli anni non aveva chiesto neanche un centesimo a suo fratello. Perché? Si sforzò di respirare profondamente. Non era fa-cile pensare razionalmente, dopo quella bomba che gli era esplosa in faccia. Sì, era infuriato con Re-becca, perché non gli aveva detto la verità. Anche se, a essere onesti, lui non gliene aveva mai dato la possibilità. Ci sono cose... che non ti ho detto. Quel ritornello gli ronzava in testa. Le aveva mai concesso un po' di calma, per parlare di ciò che lei voleva dirgli? Si passò le dita tra i capelli. T.J. era adorabile. Nonostante ce l'avesse con Rebecca, non poteva es-sere in collera per la sua esistenza. Se solo... Dan-nazione, non voleva pensarci. T.J. non era figlio suo. Ma anche se T.J. era il figlio di suo fratello, non si sarebbe lasciato scappare Rebecca in nessun mo-do. Doveva rimanere nel suo letto. Si girò di scatto e raggiunse la maniglia della porta scorrevole. At-traverso il vetro vide T.J. seduto accanto a sua ma-dre, con una tazza in mano. Rebecca era dietro a en-trambi. E se Savvas avesse rotto con Demetra una volta scoperto di T.J.? Se avesse deciso di volere Rebecca e suo figlio? Lui non avrebbe potuto permetterlo. Non appena le porte a vetri si aprirono, Rebecca alzò lo sguardo e provò timore vedendo l'espressio-

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ne di Damon. Dopo aver mormorato qualcosa a Soula, sparì attraverso l'altra porta. La rabbia travolse ancora Damon. Stava correndo via. Ma questa volta non sarebbe fuggita. Rebecca era sua. Poco importava di chi fosse il bambino.

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Capitolo 8

«HO RAGIONE, VERO?» Con il respiro affannato, Damon raggiunse Rebecca davanti alla porta della sua stanza. «T.J. è figlio di Savvas. Mia madre ha colto la somiglianza, giusto?» Rebecca cercò di chiudere la porta davanti a quel viso in collera, ma Damon mise un piede in mezzo e riuscì a riaprirla. Lei strinse i pugni e lo guardò in volto, pensando a qualcosa di secco e pungente da dire, ma non le venne in mente niente. Dannazione. Questo era il motivo per cui si era rifugiata in camera, congedandosi da Soula con una scusa. Aveva bisogno di una tregua, per pensare a come difendersi. Quello che era successo di sotto l'aveva scossa. Damon pensava veramente che lei fosse stata a letto con Savvas e questo non poteva sopportarlo. «Non è così?» ripeté lui, avvicinandosi. «Rispon-dimi, accidenti a te!» «Vuoi smetterla di chiedermi chi è il padre di T.J.? Non ha niente, niente a che fare con te.» Lui la seguì in camera. «Certo che ce l'ha. È Sav-vas. Mio fratello è il padre di T.J.» Si fece indietro finché non venne frenata dal bor-

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do del letto. Sentendosi in trappola, lo fissò. «Sav-vas non è il padre di T.J.» «Quando è nato il bambino?» Ora voleva le prove? Benissimo. La pressione del letto contro il retro delle sua ginocchia aumentava. Resistette alla tentazione di sedersi. «T.J.» Fece una pausa eloquente. «Si chiama T.J., ricordi?» «Va bene. Quando è nato T.J.?» A quel punto glielo comunicò, con il cuore in go-la. E poi disse a se stessa che non importava. Non poteva fare nessun calcolo, perché T.J. era nato un paio di settimane prima, anche se il ginecologo a-veva detto che non c'era niente di cui preoccuparsi, scherzando sul fatto che, se non l'avesse saputo, a-vrebbe giurato che T.J. fosse già oltre il termine. «Non prendermi in giro. So fare due più due e tutto sembra combaciare. Sei uscita con mio fratello dopo il mio matrimonio, hai avuto il suo bambino e glielo hai tenuto nascosto. Che razza di donna sei?» Rebecca voleva gridare e prenderlo a pugni. Co-me poteva pensare una cosa del genere? Invece con-tò fino a cinque, quindi parlò lentamente, nel modo in cui parlava T.J. quando era particolarmente con-trariato. «Stai saltando a delle conclusioni...» «Che altro c'è da sapere? Che sei stata con al-tri...» «No!» Si coprì le orecchie e chinò il capo. Damon le afferrò le mani e le allontanò dalla fac-cia, per guardarla negli occhi. «Ascoltami.» Questa volta Rebecca l'avrebbe a-scoltato, non l'avrebbe chiuso fuori. Adesso era così vicino che poteva sentire il suo respiro delicato e il suo profumo dolcemente esotico e femminile.

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I polsi di lei si perdevano nei suoi. Improvvisamente si rese conto della sua fragilità e di quanto lui fosse più forte. L'ultima volta che si era trovato così vicino a lei, la notte precedente, era stato travolto da sentimenti proibiti e l'aveva amata. «No.» Con un movimento brusco lei si liberò. Era davvero infuriata, si rese conto Damon respi-rando profondamente per calmarsi. «Rebecca, non posso permettere che mia madre scopra la verità. Nel suo stato potrebbe avere un attacco di cuore. Potrebbe addirittura rischiare di morire.» «La verità?» Lei rise, una risata dura e piena di rabbia. «Non riconosceresti la verità neanche se ti colpisse in testa in una rissa da bar.» «Preferisco non azzuffarmi nei bar» ribatté lui con una calma che non provava assolutamente. Rebecca era furibonda. Non era rimasto nessun segno di fragilità in lei. Con le mani chiuse a pugno, il mento spinto in avanti e i capelli sciolti, appariva davvero bella. Il desiderio lo ghermì. Lei sospirò e si passò una mano tra i capelli. «Co-me vorrei non essere mai tornata e non essermi mai legata a te. So di non avere nessuna colpa.» Si inter-ruppe, sembrando stranamente esitante dopo quello scatto d'ira. «Ascolta, ti devo una...» «Parla» tagliò corto lui, inspiegabilmente ferito dalle parole che lei gli aveva gettato in faccia. «Co-sa dirai a Savvas? Che reazione pensi che avrà De-metra?» «Demetra mi piace, dannazione!» «Dicevi di amare Felicity, eppure hai fatto di tut-to per farci separare.» «Perché sapevo che non eravate fatti l'uno per l'altro. Perché pensavo che lei fosse...»

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Lui sbuffò. «Sbagliata? Pensavi di essere tu quel-la giusta?» «No! Sì, oh...» «Vedi? Non sai neanche rispondere onestamente a una domanda così semplice. Dopo la notte scorsa dovrei cadere vittima dei tuoi trucchetti? Una di-chiarazione d'amore eterno, come a Grainger...» «Lascia Aaron fuori da questa storia! Tu non sai niente...» «Questo è quello che continui a ripetermi... che non so niente. Niente di Felicity. Niente di Grain-ger. Niente di te. Ma dimentichi che io so molto di te.» Spinse il proprio corpo contro quello di lei, consapevole del letto pronto ad accoglierli. Sentiva il profumo fresco e incredibilmente sexy di Rebecca e i suoi seni morbidi contro di sé. Inspirò profon-damente e si avvicinò. Era infastidito da lei, ma an-che eccitato. «Smettila, dannazione!» «Prova a fermarmi.» Lui infilò una gamba tra quelle di lei, consapevole che indossava solo dei calzoncini. «Non mi farai più girare come un burat-tino...» Lei si lasciò scappare una risata. «Tu? Un burat-tino?» «Sì» mormorò lui, catturato dal suo incantesimo. «È quello che fai, non è vero? Non è vero?» Pre-mette il bacino contro quello di lei. Lei cadde sul letto gettando un grido. Lui le crollò accanto. Voleva baciarla. Un bacio violento. Come puni-zione per aver fatto sì che la desiderasse così tanto, per averlo confuso, per avergli sconvolto la vita. Ma poi notò la forte perplessità negli occhi di lei,

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che sembrarono trapanarlo fino a raggiungere il cuore. Quella vista annientò ogni suo desiderio. Al contrario, si sentì stanco e incerto. Nonostante la confusione, però, voleva dispera-tamente salvare qualcosa. Non voleva perderla una altra volta. Dopo averla appena ritrovata. «E ora cosa succede?» chiese. «Santo cielo!» La sua voce era irritata. «Che ba-stardo che sei.» Lui cercò di sorridere. «Non dirlo a mia madre.» «Non c'è niente da ridere, dannazione a te.» «No, hai ragione.» In un attimo tutto gli tornò chiaro. Rebecca. Savvas. T.J. Si mise a sedere, al-lungando le gambe oltre il bordo del letto e lascian-do cadere la testa tra le mani. «Che pasticcio!» Si sentì soffocare dalla frustrazione. Diede un pugno sul comodino accanto al letto, facendo tre-mare la lampada e cadere il portafogli di Rebecca. Dietro di sé sentì il respiro affannato di lei. Si girò. Rebecca lo guardava con occhi spalanca-ti. Il rimorso lo travolse. «Rebecca, non ti farei mai del male...» «Lo so» sospirò lei. «Il rumore mi ha spaventa-ta.» Sapeva che non era solo quello. Era nervosa. Sta-va perdendo il controllo e quella consapevolezza la spaventava. E spaventava anche lui. «Mi dispiace.» «È tutto a posto.» Gli occhi di lei ridiventarono vellutati. L'aveva perdonato. Si guardarono intensamente. Lei estrasse la punta della lingua. Era rosa, provocatoria. La passò sul labbro inferiore e il cuore di lui iniziò a battere più forte. Senza pensarci si chinò verso di

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lei. Rebecca non lo avrebbe rifiutato, come forse avrebbe dovuto. Quindi i suoi occhi guardarono altrove e la lingua scomparve. «Damon, non è una buona idea. Dob-biamo parlare.» Aveva ragione. Dovevano parlare. E lui doveva ricomporsi: era troppo vittima del suo incantesimo per i suoi gusti. Damon si tirò indietro e si chinò a terra per raccogliere il portafogli, che si era aperto cadendo. Mentre lo afferrava notò la foto di un bel-l'uomo dagli occhi scuri che lo fissava. Aveva un sorriso incosciente e gli occhi spiritati. «E questo chi sarebbe?» Le porse il portafogli. «Un altro amante?» «Smettila!» «Perché? Sappiamo benissimo entrambi quanto sei irresistibile per il sesso forte.» Rebecca apparve chiaramente confusa. «Oh, ti prego.» Era possibile che non fosse al corrente dell'effetto che aveva sugli uomini? Forse sì. «Magari non li attiri intenzionalmente, magari è solo l'insolito mix di bellezza e senso di sfida che emani.» «Quindi non sono più una sgualdrina calcolatri-ce?» Lui si interruppe, accorgendosi di averla ferita. Non l'aveva mai chiamata così. O forse sì? Inclinò il capo, per cercare di ricordare. «Diciamo semplice-mente che sai sfruttare le qualità che la natura ti ha donato.» Lei lo fissò dal letto. «Ma non hai risposto alla mia domanda. Chi dia-volo è questo?» La curiosità lo stava divorando. Damon voleva trovare quello sconosciuto e disinte-

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grarlo. Come si permetteva di portare con sé la foto di un altro uomo, dopo aver fatto l'amore con lui in quel modo? «Come si chiama?» «James.» «E dov'è ora?» non poté fare a meno di chiedere. «È morto.» La risposta lo fece sobbalzare. Rebecca non lo stava più guardando. Il suo viso aveva un'espressione assente, lontana, e i suoi occhi erano spenti, senza vita. Voleva scuoterla, baciarla, dirle di concentrarsi su di lui, che era più vivo che mai. «Mi dispiace.» Ma non era per niente dispiaciuto del fatto che l'uomo che le interessava fosse morto. Non aveva bisogno di quel tipo di avversari. D'im-provviso si rese conto di quello che aveva pensato... Avversari. Si avvicinò in fretta alla finestra e si mise a fissare nel vuoto. Da quando era diventata una gara? Da quando era diventato così essenziale che l'attenzione di Rebecca fosse dedicata solo a lui? E perché gli importava degli altri? Ora era sua. Cosa contavano James, Aaron o Savvas? C'era solo lui. E si sarebbe assicurato che non lo dimenticasse. «Scordati di James.» Si girò e con due lunghi passi si ritrovò di nuovo sul letto, accanto a lei. La spinse giù, andandole sopra, e la baciò con passio-ne. Lei cercò di ritirarsi mentre lui prendeva posses-so delle sue labbra. La bocca di lui le sembrò im-provvisamente morbidissima. E a quel punto tutto cambiò: lei gemette, rispondendo a quel bacio. Ce l'aveva fatta! Damon si sentì travolgere dal senso di vittoria. Si tirò su e guardò quel viso eccitato. «James ti bacia-

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va così? Ti sentivi così coinvolta anche con lui?» «Alzati da qui!» «Ammetti che ti è piaciuto.» Si sporse in avanti, per baciarla ancora e lei lo prese a pugni sul petto. «Alzati.» Lui la lasciò libera e si mise a sedere. «Oh, per l'amor del cielo!» La sua maglietta rossa si era sol-levata, lasciando intravedere la pelle chiara dell'ad-dome. Si sforzò di guardare altrove prima che i suoi pensieri venissero nuovamente sconvolti. «Non può aver significato niente per te...» «Perché? Perché divoro gli uomini come una ve-dova nera? Perché sono implacabile in amore?» «Al diavolo.» Non riuscì a incontrare quel ripro-vevole sguardo di sfida negli occhi di lei. Sentì una fitta dentro di sé al pensiero che lei potesse amare ancora James. Non voleva che amasse nessuno... eccetto lui. Voleva che conservasse tutta quella pas-sione, quell'ardore per lui... e solo per lui. Nessun uomo avrebbe dovuto significare niente per lei, non mentre faceva l'amore con lui con quella dolcezza. Era geloso. Ma prima di riuscire a capire come ciò fosse suc-cesso, vide le guance di lei bagnate di lacrime. E provò una stretta al cuore. Sì, aveva amato quell'uomo, quel James. Il rendersene conto lo devastò. Si girò dall'altra parte, per cercare di capire come avrebbe potuto af-frontare quell'ultima scoperta. «Mi dispiace» ripeté lui. Stavolta era sincero. Non voleva vederla soffrire. «Per che cosa? Perché ho amato qualcuno? O ti dispiace per James? Magari pensi che abbia spinto anche lui al suicidio, eh? È questo che credi?»

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Lui trasalì a sentir quelle parole così dure. «Be', lascia che ti dica una cosa. Non si è suicida-to. James era gravemente ammalato. Ma la cosa as-surda è che morto in un incidente. Una misericor-diosa liberazione dissero. Ma questo non rende le cose più facili, a me manca lo stesso.» Rebecca ri-cominciò a singhiozzare con una tale violenza da strappargli il cuore. «Ssh.» Damon le si avvicinò. Prendendola tra le braccia, si appoggiò alla testiera del letto. «Aaron, James... sono morti entrambi.» Sembrava terribilmente afflitta. «Ssh» ripeté lui, non sapendo come gestire la si-tuazione. Com'era possibile che un uomo così ricco, responsabile del lavoro di migliaia di persone, un uomo ammirato come manager e come negoziatore non sapesse consolare la donna che aveva tra le braccia? «Aaron, James e anche Fliss. Tutti quelli che amo muoiono.» Singhiozzò, facendo vibrare tutto il cor-po. «Ieri è quasi morto anche T.J.» Voleva fargli credere di aver amato Aaron? E James? Forse a modo suo li aveva amati. E Savvas allora? Forse non era il tipo di donna in grado di avere un solo grande amore, come sua madre. Cercò di ripetersi che non gli importava, ma non era così. Gli importava eccome. La desiderava pre-potentemente, anche se questo significava dover al-lontanare le ombre di un'intera orda di fantasmi del passato. Rebecca era diventata ciò che era anche grazie a quelle relazioni. Relazioni con altri uomini, che erano diventati in qualche modo parte di lei. Se voleva tenersela accanto, avrebbe dovuto accettare anche loro, altrimenti non avrebbe mai avuto pace.

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Sarebbe stato uno strazio ogni volta che l'avesse te-nuta tra le braccia. Rebecca stava ancora piangendo sommessamen-te. La strinse forte a sé. Cercò di pensare a qualcosa da dirle che potesse aiutarla a sopportare la perdita di James e del marito. Improvvisamente la trovò. «Quando morì mio padre ero furioso con lui per avermi lasciato senza preavviso. Stavo così male... Non sapevo cosa fosse peggio: il dolore o la rabbia.» Era vero, si era senti-to abbandonato dal padre, un padre che era stato un vero esempio per lui, così invincibile, anche contro la morte. Damon accarezzò i capelli di Rebecca. «Ma poi il dolore passa. E passerà anche per te. Sei una donna forte, la più forte che abbia mai cono-sciuto.» Questa volta fu Rebecca ad allontanarsi. Lui cer-cò di tenerla accanto a sé, ma lei si agitò per stac-carsi un po' e guardarlo negli occhi. «James non era il mio partner, era... mio fratel-lo.» Quella rivelazione fu come una bastonata. Im-provvisamente gli mancò il fiato. «Non sapevo che avessi un fratello.» Ma subito la pressione che ave-va sentito crescere dentro di sé diminuì. James non era il suo compagno. «Quando avevo dieci anni ci separarono e ci as-segnarono a due famiglie diverse, ma rimanemmo in contatto. James divenne un vero ribelle e si in-camminò su una cattiva strada. Poi arrivò una ra-gazza...» «Ce n'è sempre una» commentò lui con una punta di sarcasmo. «Si innamorarono, ma lei aveva paura del suo

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spirito ribelle e lo lasciò. James era distrutto e cercò di tornare sulla retta via. Quando si ritrovarono lui si ammalò, era sempre stanco. Pensammo a un'in-fluenza.» Rebecca rimase un attimo in silenzio e lo guardò in maniera strana. «Gli diagnosticarono un tumore.» «Vieni qui. Lascia che ti abbracci.» Lei gli si rannicchiò accanto. «È così strano. Per tutta la vita sono sempre stata quella forte. La roccia a cui si aggrappava Fliss, la persona che lottava per ottenere aiuto per James, quella che li stringeva quando piangevano, che li abbracciava quando si sentivano soli. Ma non c'era nessuno ad abbracciare me.» «Neanche Felicity?» Lei si strinse nelle spalle. «Fliss era la prima ad avere bisogno di conforto. Comunque preferisco non dire altro. Io volevo bene a lei e lei voleva bene a me. Punto.» «Ma era estenuante» aggiunse lui lentamente. «Sì.» «E James? Non si prese cura di te?» Lei sospirò. «Te l'ho detto, eravamo separati. E lui cominciò a frequentare le compagnie sbagliate. Finì in mezzo alla droga e venne trascinato sempre più giù.» «E quindi anche lui aveva bisogno di aiuto.» «Sì, ma i suoi genitori affidatari avevano un fi-glio minorenne e non volevano che venisse influen-zato da James.» «E allora?» l'incalzò lui. «Convinsi la famiglia a cercare di farlo aiutare. Ci vollero due lunghi anni e molti soldi, alcuni dei quali dovetti sborsarli io, e alla fine ne uscì. In quel

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momento io lavoravo già per Aaron.» Lei guardò lontano con gli occhi persi nel vuoto dei ricordi. Damon sentì un nodo in gola e le diede un bacio in fronte per cercare di consolarla. «Ed è così che vi siete incontrati.» Lei annuì. «Lui mi chiese di uscire e io dissi di no. Dopotutto cosa poteva volere un uomo delle sue condizioni economiche? Ero giovane, ma non stu-pida.» Damon non poteva credere che lei si sminuisse così. Ma, pensando alle sue origini, immaginò come la sua autostima potesse essere finita sotto le scarpe. «Aaron Grainger era una persona saggia.» Molto più di quanto non fosse stato lui. «E in te vide una donna intelligente, divertente e brillante.» Lei lo guardò dubbiosa. «Lo credi davvero?» «Sono sicuro.» Lui deglutì. «Dimmi di Grain-ger.» «Aaron non volle accettare un no come risposta e continuò a chiedermi di uscire.» Era naturale... era bella e giovane. «Quanti anni avevi?» «Diciotto.» Buon Dio! Diciotto. Grainger meritava di essere messo al muro: aveva almeno quindici anni di più. «E poi?» «Fliss voleva diventare chef. Aveva fatto un paio di corsi in alcune scuole di cucina locali, ma voleva andare a imparare in Francia. E James era di nuovo nei guai. Questo avvenne prima che uscisse comple-tamente dalla droga.» Damon chiuse gli occhi, temendo di sapere cosa avrebbe sentito. Ricordava il talento della moglie, ma non sapeva in che modo fosse stato alimentato.

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E ricordava anche di aver detto a Rebecca di impa-rare da Fliss e cercare di apprendere una professio-ne, come lei. Cielo, com'era stato arrogante! Se solo si fosse potuto rimangiare ogni commen-to crudele uscito dalla sua bocca. Rebecca non aveva aperto bocca per difendersi. Non aveva sottolineato che era lei che faceva fun-zionare le cose e che le persone attorno a lei conta-vano tutte sul suo supporto. Chissà cos'altro non gli aveva detto. «Ah, quindi tu chiedesti ad Aaron i soldi per si-stemare i tuoi cari e lui in cambio ti chiese di spo-sarlo» disse lui in modo deciso, tenendola stretta tra le braccia. «No, no. Chiesi ad Aaron un prestito per pagare il volo e il corso di Fliss e trovai un ottimo specialista per James. Aaron fu stupendo e si rifiutò di accetta-re gli interessi sul prestito, quindi iniziai a lavorare fino a tardi per ripagarlo. Un paio di volte insistette per portarmi fuori a cena e scoprii che mi piaceva la sua compagnia.» «Posso immaginare.» Damon ricordava quanto fosse attraente Grainger e si trovò a disprezzare il modo in cui aveva manipolato quella diciottenne in cerca di attenzioni. «Era bello avere qualcuno su cui contare. Gli par-lai del mio desiderio di mettere su un'attività per conto mio e lui mi incoraggiò, offrendomi un presti-to.» «Anche questa volta senza interessi?» Damon non riuscì a nascondere il nervosismo nella sua vo-ce. «No, questa volta il prestito fu fatto attraverso la

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banca. Ma lui riuscì a farmi ottenere un buon accor-do, con interessi molto bassi. Il giorno in cui lasciai la sua ditta per iniziare con Dream Occasions mi portò fuori a cena, ordinò dello champagne e disse di aver già parlato di me con molti amici e colle-ghi.» Sorrise al ricordo. «La cosa mi preoccupò un po'. Quindi disse di amarmi e mi chiese di sposar-lo.» Chiaramente lei si era sentita costretta! Lui l'ave-va raggirata. «Non dovevi sposarlo.» «Lo so. Ma allora avevo diciannove anni. Cosa puoi sapere della vita quando hai diciannove anni? Avevo sempre desiderato un po' di sicurezza e Aa-ron me la stava offrendo. Pensavo che il mio sogno si stesse realizzando. Tutto avvenne così veloce-mente.» «Circolavano delle voci» aggiunse lui lentamen-te. «Sul mio amante? Il drogato? Era James.» Tutto quadrava. «E gli altri?» «Gli altri?» «Gli altri amori?» Lei lo fissò, con i suoi occhi scuri e insondabili. «Cosa vuoi sapere?» «Parlami di loro.» Sentì una fitta al petto mentre glielo chiedeva. «Ti ho già detto una volta che non amo parlare delle mie storie.» «Neanche di mio fratello?» La fitta si fece più acuta. «Credo di avere il diritto di sapere almeno di lui.» Si liberò dal suo abbraccio. «Te l'ho detto, con lui

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non c'è mai stato niente.» Rebecca si sedette sul bordo del letto, con la schiena rivolta verso di lui e le braccia che penzolavano tra le sue ginocchia. Dannazione, perché era così lontana? La voleva ancora tra le sue braccia. «Quando me l'avresti det-to, scusa?» Lei si girò per guardarlo in faccia. «Quando insi-stevi che era il padre di T.J.» «No» ribatté lui lentamente, cercando di ricordare esattamente le parole che lei aveva usato. «Tu hai negato che fosse il padre di T.J. Ma non di essere stata a letto con lui.» «Oh.» Lui capì che ci stava riflettendo, il suo viso era attraversato da miriadi di pensieri. «Be', non ci sono mai stata» concluse Rebecca. Poteva crederle? Il suo cuore desiderava farlo. Raddrizzandosi, Damon le prese il mento tra le mani e guardò i suoi occhi. Lei lo fissò senza abbassare lo sguardo. Alla fine lui la lasciò andare. «Mi credi?» Sì, le credeva. O forse no. Era troppo confuso e non sapeva più cosa pensare. C'era anche la questione del ragazzino. «E il pa-dre di T.J. chi è allora?» «È importante?» I suoi segreti lo stavano divorando. Voleva sape-re tutto di lei. Certo che era importante! «Non vo-glio entrare in una stanza, un giorno, e trovarmi faccia a faccia con il padre di tuo figlio. Non senza preavviso.» «Fidati di me» lo rassicurò Rebecca. «Non suc-cederà mai.»

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Fidarsi di lei. Fidarsi di lei? Così, semplicemente? Damon avrebbe tanto voluto farlo. Non chiedeva di meglio. Sarebbe stato incredibilmente liberatorio poterle credere.

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Capitolo 9

«VA BENE.» REBECCA respirò profondamente. «A-scolta, forse è arrivato il momento che ti racconti qualche altra cosa su T.J. Qualcosa che avrei dovuto dirti già da tempo, ma avevo paura...» Si interruppe. «Paura?» Damon la incalzò, avvicinandosi. Rebecca si sforzò di continuare, anche se avrebbe preferito scappare lontano. «Non molto tempo fa hai detto che sono la donna più forte che tu abbia mai conosciuto. Ma sono anche la più paurosa.» Lui le scostò una ciocca di capelli dal viso. «For-za, dimmi» la sollecitò. «Di cosa hai paura?» Damon era così forte, così sicuro di sé. Perché aveva pensato che la verità che gli aveva tenuto na-scosta così a lungo l'avrebbe potuto ferire? «Be', di molte cose. Di perdere le persone che amo. Lo sai.» Lo sguardo di lui si addolcì. Senza parlare posò la sua mano su quella di lei, dandole un senso di ca-lore e di conforto, insieme al coraggio per continua-re a parlare. «Ho paura di ferire le persone e soprattutto di fe-rire te.» «Non ti preoccupare, non potresti mai ferirmi, sono forte.» Ma i suoi occhi si fecero più scuri per

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l'incertezza. «Su, sputa questo dannato rospo.» «Va bene.» Lei strizzò gli occhi, sussurrò una preghiera e afferrò la mano di lui come un'ancora di salvataggio. «T.J. è figlio di Fliss, non mio. Io l'ho adottato.» Il silenzio divenne totale. Niente si mosse, ma la mano di Damon si fece più rigida. Rebecca aprì gli occhi. Damon lasciò cadere la mano di lei e si alzò len-tamente in piedi, pallido in volto. Alla fine le sue labbra si mossero. «T.J. è mio figlio?» «No.» «Ti ho sentito, Rebecca» l'accusò. «Hai detto che è figlio di Fliss. E me l'hai tenuto nascosto?» «Io...» «Tu cosa?» «Volevo dirtelo.» «Quando?» «Ho cercato di dirtelo... Volevo dirtelo prima...» Prima di fare l'amore. Ma non poteva parlare d'a-more. Non mentre lui era lì davanti a lei, così pal-lido e arrabbiato. Rebecca chiuse gli occhi irritata.

«Tu...» Si interruppe. Lei si tirò indietro e aprì gli occhi, in attesa dell'invettiva. «Mi hai privato di mio figlio.» «Smettila!» gridò lei. «T.J. non è tuo figlio.» «Cosa? Cosa vuoi dire?» Lui si sentiva perso, cercava le parole. «Ma... hai appena detto che era il figlio di Fliss.» L'immensa fiducia in se stesso era visibilmente diminuita ora. Appariva turbato. «Non avrei mai voluto dirtelo.» «Dirmi cosa?» «Fliss...» La sua voce si smorzò.

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«Cosa? Felicity cosa? Parla, dannazione.» «Fliss era innamorata di mio fratello. Lui le chie-se di sposarlo.» «James.» La sua voce era monocorde. «Tuo fra-tello. E perché non l'ha sposato se era tutto così per-fetto?» «Perché era insicura. Cerca di capire. Fliss perse i genitori quando aveva nove anni. Desiderava stabi-lità. Il tumore di James la distrusse. Non riusciva ad accettarlo. A quel punto incontrò te.» Lui incrociò le braccia, allontanandosi da lei. «Mi stai dicendo che le interessava solo il mio portafo-gli?» «No, no! La cosa non si fermava ai soldi. Tu sei molto di più di un semplice miliardario.» Riusciva a fargli capire quello che intendeva? O stava solo perdendo tempo? «Tu sei forte, sicuro di te, ri-spettato. Fliss aveva un disperato bisogno di tutto questo. Sapeva che con te le cose non sarebbero an-date storte.» «Invece è successo. Mi ha lasciato dopo sei set-timane. Se n'è venuta via con te senza spiegazioni.» Rebecca si accorse che la cosa gli pesava ancora. Damon doveva aver pensato di essere considerato lo zimbello della città. Ora la guardava negli occhi. «Chissà come avrete riso tu e Fliss leggendo i giornali... Si chiedevano tutti in che mostro mi trasformassi una volta sceso il buio.» «Non lo sapevo. Non leggemmo nessun giornale. James... il cancro si stava diffondendo. Il ma-trimonio di Fliss l'aveva scosso. Aveva deciso di provare a fare la radioterapia. Io ero venuta per dir-lo a Fliss. L'unico motivo per cui fuggì era che Ja-

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mes voleva vederla prima di iniziare la cura. Era spaventato dal trattamento. Penso che Fliss crebbe molto velocemente in quel momento. Capì che non poteva nascondere la testa sotto la sabbia. Lui l'a-mava e aveva bisogno di lei.» Damon le apparve improvvisamente sfocato. E anche la stanza. Rebecca batté le palpebre e una calda lacrima le attraversò la guancia, ma l'asciugò bruscamente. «E così ti seguì?» «Sì. Volevo che venisse solo per un giorno. Ja-mes era qui ad Auckland per un consulto prima di iniziare la terapia. Ma non appena lei lo vide...» Rebecca si interruppe. Come poteva spiegare come si era sentita Fliss? Il senso di colpa per aver abbandonato James l'a-veva travolta. Aveva capito che non poteva più scappare e che voleva passare il tempo che restava loro al fianco di James, sperando nella minima pos-sibilità che ce la potesse fare. Questa volta aveva deciso di tradire Damon e le sue promesse di ma-trimonio. «Nei giorni che precedettero il trattamento lei ri-mase con James nel mio appartamento. Dopo la ra-dioterapia...» Rebecca deglutì, «scoprirono che Fliss era incinta. Sembrò un miracolo.» «Ma era ancora mia moglie» brontolò Damon. «Quella era l'unica cosa che metteva un freno alla loro felicità. Avrebbero dovuto aspettare due anni per ottenere il divorzio. James temeva di non riusci-re ad arrivarci. Per questo decisero di vivere ogni giorno al massimo. Ma sei mesi dopo il tumore ri-comparve e questa volta i medici non furono più così ottimisti. James e Fliss non vollero accettarlo.

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Erano convinti che lui ce l'avrebbe fatta.» E invece erano morti entrambi. James stava abba-stanza bene. Il bambino sarebbe nato presto e lui aveva accettato di partecipare a una festa per la sua ripresa e l'imminente nascita. Fliss era rifiorita e James desiderava così tanto vivere. Per Fliss. Per il bambino. Nessuno avrebbe mai pensato a un incidente. Ja-mes era morto all'istante, mentre Fliss era riuscita a parlare ancora con Rebecca e a firmare un te-stamento e una richiesta di certificato di nascita, perché lei adottasse il bambino e lo facesse chiama-re Taylor James. Damon mise le mani sulle spalle di Rebecca. «E mentre inseguiva la sua felicità con tuo fratel-lo, non pensò mai di darmi una spiegazione.» Lei scrollò via le sue mani e rimase ferma. «Te-meva che fossi arrabbiato. Voleva dirtelo.» «Non credo» disse lui strascicando le parole. «Immagino che sperasse che mi avresti raccontato tutto quando mi fossi presentato. Ma non lo feci.» «No, invece le presentasti un atto di separazione e te ne lavasti le mani.» «E le diedi un'eccellente liquidazione. Cosa ne è stato di quei soldi?» Rebecca sollevò il mento, attraversata da un moto di rabbia. «Erano di proprietà di Fliss. Li ho investi-ti per T.J. Potrà ottenerli quando avrà compiuto venticinque anni. A quel punto potrai intentare una causa contro di lui.» «Non farei mai una cosa del genere. E poi non ho bisogno di quei soldi. Quello che davvero mi inte-ressa capire è come Fliss abbia potuto pensare di sposare me, nonostante amasse un altro.»

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Rebecca sospirò. «Me lo sono chiesto spesso an-ch'io. Pensava che tra lei e James non avrebbe fun-zionato. Mio fratello non voleva neanche parlare del tumore, rifiutava la terapia e fingeva di non avere niente. Fliss era terrorizzata all'idea di rimanere so-la, credo. Sono convinta che in cuor suo sperasse di imparare ad amarti.» Rebecca si era aggrappata a quella speranza. Che il matrimonio tra Damon e Fliss funzionasse. Solo quello avrebbe dato un sen-so alla sua sofferenza. «E tu?» Era curioso. «Cosa pensavi dell'intera faccenda?» Lei guardò lontano. «Non era una decisione che dovevo prendere io.» «Ma non approvavi.» Era un'affermazione, non una domanda. Sorpresa, lei lo fissò. Lui aveva anticipato la sua reazione. «No. Le dissi che non ti doveva sposare.» «Lo dicesti anche a me. Cos'altro le dicesti?» «Che non era giusto nei tuoi confronti, che ti sta-va tradendo. Ma questo non te lo potei dire. La sua relazione con mio fratello non era un mio segreto. Allora cercai di convincerla che entrambi avreste sofferto.» Le credeva ora? Era difficile dirlo. «Peccato che nessuno di noi due abbia seguito il tuo consiglio. Arrogante com'ero, ero convinto che tu mi volessi per te. Che presuntuoso! Mi sarei do-vuto accorgere che, non appena iniziai a corteggiare Felicity, tu smettesti di flirtare con me.» «Non è proprio così.» Lei sorrise tristemente. «Ricordi le prove, la sera prima del matrimonio?» «Quando mi pregasti di non sposare Fliss, dicen-do che se ne sarebbe pentita? E quando, rifiutando-mi di ascoltarti, ti buttasti su di me e iniziasti a ba-

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ciarmi? Come potrei dimenticarlo, Rebecca?» Era stato un momento decisivo. Aveva detto a Damon che non poteva sposare Fliss. Lui l'aveva fissata senza degnarsi di rispondere, guardandola come se dicesse delle sciocchezze. Dentro di lei era scattato qualcosa. Improvvisamente gli aveva getta-to le braccia al collo e l'aveva baciato, con tutta la passione che aveva. Aveva messo tutto quello che provava per lui in quel bacio. «Anche tu mi hai baciata» aggiunse lei alla fine. «Oh, Signore, come potevo non farlo? Eri la per-sonificazione del peccato, piacere allo stato puro. Non riuscii a trattenermi. Avrei dovuto aprire gli occhi in quel momento. Invece pensai di essere im-pazzito, tentato da una donna...» «Che detestavi.» «Sì» ribatté lui con molta calma. «Ma mentivo a me stesso. Per autoconservazione. Mi terrorizzavi.» «Allora mi mandasti via e mi intimasti di non av-vicinarmi più a Fliss dopo il matrimonio.» «Ti dissi delle cose ignobili. Parte di quella rab-bia era rivolta a me stesso. Non potevo credere di averti baciato e di aver tradito Fliss. Avevo sempre pensato di essere un uomo con dei principi.» Per una frazione di secondo Rebecca si chiese se sarebbe stato in grado di perdonarsi per quell'affronto all'onore. Capì che aveva odiato la passione che lei aveva risvegliato in lui e quella debolezza di carattere. Quel bacio sconsiderato di quasi quattro anni prima si sarebbe messo tra loro due, allontanandoli? «Tu eri arrogante. Lei era la mia famiglia, insie-me a James, e sapevo che avrebbe fatto qualunque cosa tu avessi voluto. Mi sentivo tradita da entram-

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bi. Mi avevi spezzato il cuore, per questo flirtai con te senza alcuna vergogna il giorno dopo sulla pista da ballo.» Il volto di lui divenne scuro. «Ti avevo ferito e offeso. Meritavo di essere trattato male. Ma la mia domanda resta. A parte quelle due occasioni, non flirtasti più con me dopo che io e Fliss avevamo ini-ziato a uscire. E non eri neanche ostile con lei.» Fe-ce una pausa. «Perché?» «Non posso dire di non aver sperato che Fliss tornasse in sé e ripensasse a James. Fliss era mia so-rella, anche se non di sangue, le volevo bene. E an-che mio fratello le voleva bene. Come potevo odiar-la o fare la civetta con l'uomo che era interessato a lei?» «Nonostante ti avesse portato via l'uomo che de-sideravi? Lo aveva fatto con l'inganno e tu conti-nuasti ad amarla lo stesso?» «Sì, l'amavo.» Rebecca incontrò il suo sguardo corrucciato. «Nonostante la sua decisione di sposar-ti, quando avrebbe dovuto pensarci due volte.» «Ammiro la tua fedeltà. È un peccato che Felicity non sia stata altrettanto corretta con te.» «Non credo che si sia mai resa conto... di quello che provavo per te.» Faceva male ammetterlo. Damon la guardò sorpreso. Rebecca diventò rossa in volto. «Era lampante, vero? Chissà come ti sarai divertito. Ma non avevo mai provato le stesse cose per un altro uomo. Dopo Aaron pensavo che non mi sarei mai più sposata. Poi... puff.» Schioccò le dita. «Questa cosa incon-trollabile.» La sua voce tremò. «Tu e io. Pensavo che fosse destino.» «Mi spiace.» Le sfiorò la guancia. «Fui crudele.»

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«Sì.» «Tu non cercasti di proteggerti.» «Se fosse stato destino, non avrei avuto alcun bi-sogno di difendermi.» Un silenzio seguì le sue parole. Lui era impallidito di nuovo sotto l'abbronzatura. «Me lo meritavo. Avevo ascoltato i pettegolezzi che circolavano, dando retta solo a quello che volevo...» Si interruppe. «Non ero preparata a piegarmi per respingere le dicerie. Alcuni ci provarono con me...» «E tu li mandasti al diavolo?» «Più o meno.» «Per questo distrussero la tua reputazione.» «Più che altro non volevano che gli altri pensas-sero che erano stati gli unici a non avere avuto for-tuna.» Rebecca storse la bocca. «Le storie sui miei... successi crebbero sempre di più.» «Oh, Signore!» Lui si passò una mano tra i capel-li, per mandarli indietro. «Sono successe molte cose negli ultimi due giorni. E c'è molto su cui devo ri-flettere. Ho bisogno di tempo.» Lei si morse il labbro. Eccolo, il colpo mortale. Aveva immaginato che quello che c'era ora tra loro non avrebbe retto il confronto con il passato. «Vuoi che io e T.J. ce ne andiamo?» «No.» I suoi occhi blu sembravano stanchi. «No, questo mai. Ma ho bisogno di tempo per pensarci su. Ho scoperto che molto di ciò in cui credevo è falso. Ho appreso su me stesso cose che non mi hanno fatto molto piacere. Devo cercare di accettar-lo.» Questo a causa del suo forte senso dell'onore. Non poteva perdonarsi di averla baciata, quando

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aveva promesso amore eterno a un'altra. E non po-teva perdonarsi per il male che le aveva fatto. Tutte le volte che la guardava gli tornavano in mente i suoi errori. E che senso avrebbe avuto discutere? Diceva che voleva tempo, ma Rebecca temeva che volesse libe-rarsi di una situazione che non aveva futuro. Che futuro avrebbe potuto avere con una donna che tutti i giorni della sua vita gli avrebbe ricordato quel passato umiliante? Non aveva senso illudersi che l'avrebbe amata nel modo in cui lei desiderava esse-re amata. Rebecca sollevò il capo. «Capisco.» «Non credo.» Lui la guardò con sguardo frustra-to. «Ascolta, ho un volo...» «Rebecca, siamo a casa.» La voce di Demetra ri-suonò tra le pareti. Damon imprecò. Un attimo dopo la porta si spalancò. «Oops, scu-sate.» Demetra si portò la mano alla bocca. Damon esclamò qualcosa in greco, saltò giù dal letto e uscì di corsa, lasciando Demetra a bocca a-perta. «Wow! Ho interrotto qualcosa? Cosa mi sono persa? Raccontami tutto!» Rebecca aveva appena messo a dormire T.J., quando sentì bussare alla porta della camera da let-to. Si affrettò ad aprire, prima che il rumore potesse svegliare il bambino. Damon era lì in piedi, con fare guardingo. «Sono venuto per salutarti.» Per un attimo il cuore di Rebecca si fermò. Lui sembrò notare il suo sconforto e si portò le

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mani alla testa. «Domani vado a Los Angeles, ri-cordi? Per due settimane.» Il viaggio di lavoro. Certo. Perché era così scon-volta? Forse perché temeva un addio più di ogni al-tra cosa? Perché Damon aveva detto che aveva bi-sogno di tempo e lei temeva che ciò significasse che era finita? «Entra.» Rebecca si fece da parte. Qualcosa, forse il desiderio, illuminò gli occhi di Damon. Ma lui non si mosse. «No, non posso entra-re. Volevo solo darti un assegno.» Rebecca aggrottò le sopracciglia. «Un assegno? Per cosa?» «Per quello che hai fatto finora per il matrimonio. Un acconto per darti una mano fino al mio ritorno.» «Non posso accettarlo.» Lei si spostò indietro, per allontanarsi dall'assegno che le stava porgendo. «Non essere ridicola. È tuo. È per questo che sei tornata ad Auckland. Prendilo.» «Non è per questo che sono tornata ad Au-ckland.» Si sentì spezzare il cuore e perse la calma. «Sei così cieco!» Lui tirò indietro la testa. «Va bene, allora perché hai accettato di organizzare il matrimonio?» Rebecca guardò da un'altra parte. «Perché tua madre era ammalata. E tu eri preoccupato per lei» disse con voce flebile. «Lasciamo perdere, ora non ho tempo di parlare.» Le mise in mano l'assegno e fece per andarsene. Senza neanche guardare la somma, Rebecca lo strappò. «Non posso accettarlo. Violerei una clauso-la del mio contratto.» L'affermazione lo fece fermare e tornare indietro. «Che contratto?» «Il contratto per la vendita di Dream Occasions.

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C'è una clausola che prevede che non contatti i miei vecchi clienti per almeno cinque anni. E non sono ancora passati.» «Mia madre non è mai stata tua cliente.» «Ma tu sì.» Ed entrambi pensarono alla notte prima del ma-trimonio con Fliss, quando lui le aveva gettato in faccia l'assegno, dicendole di prenderlo come pa-gamento per il lavoro che aveva fatto per lui e per la moglie. Lei lo aveva accettato con aria di sfida, so-stenendo quello sguardo pieno di disprezzo. All'ini-zio l'aveva tenuto per ricordarsi di quanto fosse sta-ta stupida a innamorarsi di un uomo che la odiava. E più tardi, quando lui aveva liquidato Fliss dopo le nozze, l'aveva girato all'amica. Ora quei soldi sa-rebbero spettati a T.J., una volta raggiunti i venti-cinque anni. «Quindi, mi spiace, ma non posso accettare il pa-gamento» concluse, sostenendo il suo sguardo. «Perché?» Lei fece finta di non aver capito. «Te l'ho detto... il contratto.» «No.» Lui fece un gesto in segno di impazienza. «Perché hai accettato di dare una mano con il ma-trimonio?» Sbuffò leggermente spazientita. «Ma non mi a-scolti quando ti parlo? Te l'ho già detto. Perché tua madre stava male. E tu eri preoccupato per lei. Co-me avrei potuto girarvi le spalle? Quando tua madre rischiava di morire?» Lui esitò. «Capisco, dopo tutte le persone che a-vevi perso, non potevi permettere che mia madre rischiasse di morire. E io che non me ne sono nean-che mai accorto. Che idiota!» Si picchiò il palmo

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della mano contro la fronte. «Però avresti comun-que dovuto dirmi che non potevi accettare soldi.» «L'ho fatto. Ho continuato a ripetertelo, ma non volevi ascoltare.» «Pensavo che avessi accettato di occuparti del matrimonio perché avevo raddoppiato l'offerta. Credevo che fosse un problema di soldi. E quando mi dicesti che tua madre aveva abbandonato te e James, e che non sapevi chi fosse tuo padre, ho co-minciato a capire i tuoi tentativi di essere autosuffi-ciente. Ho capito perché i soldi sono così importanti per te e ho finalmente smesso di pensare di averti pagato una vera fortuna per riaverti qui ad Au-ckland. Ma, come al solito, mi sbagliavo.» I suoi occhi erano diventati di un blu scuro, sofferente. «Non capisco niente di quello che succede in quella tua bella testolina, eh? Signore, che confusione!» Si coprì la faccia con le mani e, quando risollevò la te-sta, apparve stanco e tirato. «Le cose non cambiano mai, vero?» «Non importa, davvero» replicò lei. Damon la guardò con un'espressione che lei non riuscì a interpretare. Il silenzio era snervante. Alla fine sospirò e aggiunse in modo deciso: «Sì, che importa». Quindi si girò e se ne andò. La consapevolezza che Damon era partito per Los Angeles le fece provare un vuoto immenso. Il lunedì mattina fece fatica a fare le telefonate che aveva previsto di fare. Niente riempiva il vuoto che sentiva dentro di sé. Alla fine prese una decisione: sarebbe tornata a Tohunga per alcuni giorni, magari una settimana. Ma solo dopo aver portato a termine alcuni impegni che si era prefissata per la settimana.

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E la prima cosa era definire la disposizione dei ta-voli con Soula, dato che Demetra non ne voleva sentir parlare. Trovò Soula in salotto. «Rebecca, tesoro, non stare sulla porta. Vieni a sederti. Volevo proprio parlarti, figliola.» Soula ap-poggiò l'arazzo a cui stava lavorando. «T.J. è andato con Demetra?» Rebecca annuì. «Adora aiutare Demetra. Penso che sia soprattutto perché ama paciugare con il fan-go. Ma oggi è un giorno speciale, perché i giardi-nieri trapianteranno delle palme enormi nel giardino di Demetra e lui non vede l'ora di vedere la gru.» «Dobbiamo ringraziare il cielo che si sia ripreso così bene da quella brutta esperienza.» Rebecca attraversò la stanza e si sedette accanto a Soula. «Il dottor Campbell mi ha detto che ci vorrà un po' prima che si riprenda completamente.» Re-becca esitò. «Soula, c'è una cosa di cui devo parlar-le.» Oh, da cosa doveva cominciare? Rebecca gioche-rellò nervosamente con le dita. «Cosa c'è, tesoro?» Gli occhi di Soula erano cupi. «Ah, non dirmi che non puoi continuare a organiz-zare il matrimonio di Savvas e Demetra e che te ne vai.» Come faceva a saperlo? Rebecca alzò lo sguardo. «Ho bisogno di staccare per alcuni giorni. Voglio andare a Tohunga e con-trollare che sia tutto a posto. Ma non si preoccupi, tornerò per finire di organizzare il matrimonio.» «Bah.» Soula agitò un braccio. «Non sono preoc-cupata del matrimonio, ma del fatto che, una volta partita, potresti non tornare più.»

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«Tornerò» promise Rebecca. «Quando andrai?» «Pensavo di partire venerdì verso l'ora di pranzo, per essere a Tohunga verso sera.» Soula la guardò di traverso. «Damon sa della tua decisione?» Lei scrollò il capo. «Ma starà via per due setti-mane, sarò qui al suo ritorno.» Soula sbuffò un po' spazientita. «Be', cosa posso dire? Se devi controllare i tuoi affari, non posso trattenerti, cara. Ora dimmi di T.J.» «T.J.?» Rebecca si sentì gelare il sangue. «Cosa vuole sapere?» «Quando pensavi di dirmi che non è tuo figlio?» indagò la donna. «È così ovvio?» Visibilmente scossa, fissò la madre di Damon. «Come ha fatto a capirlo?» «Oh, Rebecca, Rebecca.» Soula scosse tristemen-te il capo. «A parte i capelli scuri e gli occhi, è l'im-magine sputata di Fliss. I riccioli, il viso a forma di cuore e le fossette sono suoi.» Aveva già discusso di questo con Damon. Era un sollievo potersi confidare liberamente. Era troppo stanca di mentire. «Allora perché ieri ha finto di credere che fosse mio figlio? Mio e di Damon?» «Volevo spingere mio figlio nella direzione che avrebbe già dovuto prendere da tempo.» Soula le rivolse un sorriso debole, ma malizioso. «In questo modo tutto andrebbe a posto. Tu potresti tenere T.J., che chiaramente adori, e il bambino avrebbe l'amore di una madre e del padre naturale.» «No, un attimo.» Non sarebbe stato facile, ma si era ripromessa di essere onesta e non c'era altra via.

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Rebecca pronunciò quelle parole con molta cura. «Soula, T.J. non è figlio di Damon.» «Certo che lo è. Ha gli occhi degli Asteriades.» «No, quelli sono gli occhi di Fliss...» «Sì, sono blu e hanno la stessa forma di quelli della madre, ma il blu è quello degli Asteriades. Mio marito aveva gli stessi occhi.» Rebecca scrollò il capo. «No, si sbaglia.» Si av-vicinò e prese le mani di Soula tra le sue. «Ascolti, so che questo sarà uno shock, ma Fliss non amava Damon. Amava un'altra persona...» «Oh, so tutto.» Soula fece un cenno sdegnoso con la mano. «Lo sa?» Rebecca la fissò. «Ma come?» «Sono una madre. Sapevo che Fliss non amava mio figlio. Ma neanche lui amava lei. Entrambi a-vevano i loro motivi per sposarsi... e no, non si è trattato d'amore. Ero molto delusa della scelta di mio figlio.» «T.J. è figlio di...» «Ssh... Non dire niente di cui potresti pentirti. T.J. è figlio di Damon e quando vi sposerete sarà tutto risolto.» «No, non ci sposeremo.» Rebecca scosse il capo di fronte all'ostinazione di Soula, ma non poté non sentirsi lusingata del fatto che Soula la volesse nella sua famiglia. «Grazie, Soula. Ma non funzionereb-be.» Soula si abbandonò sul divano. Le sue rughe sembrarono accentuarsi, fino a mostrare ognuno dei suoi anni. «Lo sai, ho detto a quel testone di mio fi-glio di non tornare ad Auckland senza di te. Per una volta nella vita ha fatto quello che gli ho chiesto. Penso che temesse che sarei morta. Volevo che ti

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rivedesse e si innamorasse di nuovo di te. Desidero così tanto dei nipoti.» Quindi Soula aveva tramato alle loro spalle. Non era stata bene, ma aveva visto nella malattia un'op-portunità di manipolazione. Una vera Asteriades. Il fine giustificava sempre i mezzi. Ma Rebecca non poté sentirsi in collera con lei. Al contrario, le sorrise timidamente. «Lei è una donna davvero bizzarra. Ma come vorrei che non si fosse intromessa!» «Non stavo bene. Non ho mentito su questo.» Soula cercò di apparire nel giusto, ma poi si tradì guardando Rebecca con sguardo colpevole. «C'è una altra cosa che non avrei dovuto fare, ma non te ne parlerò neanche, perché potrebbe peggiorare an-cora di più le cose. Avrei dovuto lasciare tutto co-m'era, non avrei mai dovuto cercare di farvi tornare di nuovo insieme.» «Ma così non sarei più riuscita a vederla.» «Oh, Rebecca cara.» Gli occhi di Soula si riempi-rono di lacrime. «Sei la figlia che ho sempre deside-rato.» Rebecca sentì un groppo in gola. «Lo sa, non ri-cordo mia madre, ma nei miei sogni assomiglia a lei. Il fatto è che possiamo insistere quanto voglia-mo per far funzionare le cose, ma se non è desti-no...» Si chinò e diede un bacio a Soula sulla fronte. «Tra me e Damon c'è senz'altro qualcosa, ma ab-biamo deciso di concederci un po' di tempo e di spazio. Mi mancherà mentre sarò a Tohunga, Soula, ma tornerò e deve promettermi di non mettersi più in mezzo. È una questione che dobbiamo chiarire io e Damon, non la bacchetta magica di una fatina buona.»

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«Non ci metterò più il naso, lo prometto. Ma quel testone di mio figlio è molto caparbio e qualche volta ha bisogno di una bella sculacciata, proprio come un bambino.» Nonostante si sentisse affranta, Rebecca non poté trattenersi dal ridere. A Los Angeles era venerdì pomeriggio, mentre ad Auckland sabato. Invece di programmare la set-timana successiva, com'era solito fare, Damon era seduto sul balcone della suite dell'albergo che si af-facciava sulla baia di Santa Monica. Il rombo co-stante degli aerei ammaliava Damon. T.J. li avrebbe adorati. Guardò a ovest, oltre quell'oceano senza fi-ne c'era la Nuova Zelanda... e Rebecca. Chissà cosa stavano facendo in quel momento Rebecca e T.J.? Non poteva smettere di pensare a lei. La paura che aveva attraversato i suoi occhi quando l'aveva salutata lo tormentava. Aveva temu-to che se ne andasse per sempre, che le stesse di-cendo che era finita. Era quello che si aspettava? Pensava davvero che avrebbe potuto fare l'amore con lei con così tanta passione per poi andarsene al-la prima occasione? Forse sì. Quando mai le aveva dato motivo di pensare di-versamente? Cosa aveva fatto per meritare la sua fiducia? Quattro anni prima aveva commesso un tremendo errore. Aveva scelto la donna che il suo cervello gli suggeriva di sposare. Nella sua arroganza si era ri-fiutato di vedere la vera Rebecca. Anche sua madre l'aveva capito. E aveva peggiorato l'errore commesso nel giudi-

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carla, lasciandosela scappare dalle mani. Non per-ché lei fosse inadatta, scandalosa o manipolatrice, ma perché aveva paura. Lo terrorizzava, perché con lei temeva di perdere il controllo di sé e di mettere il suo cuore e la sua anima in mano a una donna di cui non riusciva a fi-darsi. Per questo era scappato e aveva sposato Felicity, per poter dare alla madre i nipoti che tanto deside-rava. Aveva sposato la donna sbagliata, per le ra-gioni più sbagliate. E anche Fliss aveva sposato lui per le ragioni più sbagliate. Entrambi avevano fatto a Rebecca un terribile torto. Al funerale di Fliss aveva fissato Rebecca, dal-l'altra parte della bara, con l'umiliazione che lo de-vastava. Alla fine, nonostante il furore lo divorasse, aveva provato un certo sollievo. Il suo matrimonio era stato un errore. La morte di Fliss l'aveva liberato. Ma era troppo presto perché lui ammettesse l'e-normità del suo errore. Aveva permesso alla madre di convincerlo a lasciar andare Rebecca, senza ven-dicarsi. Perché in fondo in fondo sapeva di essere stato lui a rovinare tutto. Non Rebecca. E avrebbe dovuto farsene una ragione. Ora c'era riuscito. Gli c'era voluta una settimana per capire quanto coraggio ci volesse per superare la paura. La paura più grande di Rebecca era perde-re una persona cara. Era una paura reale. Damon serrò i pugni. Rebecca aveva perso i genitori. E il padre non lo aveva neanche mai conosciuto. Allungò due dita e le fissò. Suo fratello e Fliss. Ne allungò altre due.

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Aaron Grainger si era suicidato. Guardò le cinque dita della mano destra aperta. Cinque persone. Le cinque più vicine a lei. E quella paura le aveva impedito di amare T.J.? No di certo. Lo amava. Sconsideratamente. Teneramente. Senza restrizioni o paure, Rebecca aveva cresciu-to il figlio di un'altra donna. Il figlio di colei che l'aveva tradita. Non aveva fatto altro che dare e dare e nessuno le aveva mai restituito qualcosa. Era così forte. Il vigliacco era lui. Non le aveva mai neanche spiegato come lo facesse sentire. Le aveva detto che aveva bisogno di tempo. Damon allungò l'indice della mano sinistra e si guardò le mani. Sì, Rebecca credeva di aver perso anche lui. Se voleva far parte della sua vita, parte della famiglia che Rebecca a-veva creato, avrebbe dovuto agire e superare le sue paure. Damon si voltò improvvisamente ed entrò in ca-mera. Il suo cellulare era sul tavolo. Ma Rebecca non era a casa. Demetra gli disse che era andata a To-hunga per controllare gli affari e non sapeva quando sarebbe tornata. Damon spense il cellulare e guardò l'ora. Rebecca doveva essere a Chocolatique in quel momento. Sarebbe stato meglio dirle faccia a faccia quello che c'era da dire. La stampata dei suoi impegni era sul tavolino. Da quel prospetto, il mese successivo sarebbe stato in-fernale. Aggrottò le sopracciglia. Avrebbe dovuto superare la settimana successiva a Los Angeles, ma poi...

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Presa in mano una penna d'oro, tracciò una riga sugli impegni della seconda parte del mese. Tutto avrebbe dovuto essere posticipato, perché si sarebbe preso due settimane di ferie per investire nel suo fu-turo. La mossa successiva spettava a lui.

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Capitolo 10

ERA LUNEDÌ MATTINA, undici giorni dopo. Rebecca stava entrando con la macchina nell'elegante vialet-to davanti alla casa degli Asteriades. Per l'ultima volta, promise a se stessa. T.J. non stava nella pelle dall'emozione, incon-sapevole del terrore di Rebecca. C'erano voluti due giorni interi perché Rebecca si riprendesse dopo la telefonata ricevuta da Soula ve-nerdì sera. Faceva ancora fatica a credere a quello che le aveva detto, però l'aveva comunque pregata di lasciare che fosse lei a dare la notizia a Damon. Lo meritava. Il giorno precedente era stato molto difficile. A-veva portato T.J. alla loro piscinetta preferita tra le rocce. Il bambino aveva sguazzato nell'acqua, allon-tanando lentamente le sue paure e lei aveva fatto centinaia di foto, come se non potessero mai basta-re. Nel pomeriggio si erano seduti nel giardino di fronte a casa, sotto una pianta di pohutukawa. Re-becca sapeva che, al momento della fioritura, il Na-tale successivo, lei non sarebbe riuscita a sedersi lì, a guardare quei caratteristici fiori rosso fuoco, e a-

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vrebbe fatto molta fatica a rimettere insieme i fram-menti della sua vita. Era arrivato il momento di vendere quella casa. Ne avrebbe comprata un'altra e avrebbe ricomincia-to da capo. Magari più vicino ad Auckland. E a-vrebbe ceduto anche Chocolatique. Miranda e sua sorella erano sembrate interessate ad acquistare l'at-tività. Lei avrebbe cominciato a pensare a qualco-s'altro da fare. Soula aprì la porta d'ingresso, interrompendo quelle fantasie. Il viso della donna era segnato da rughe profonde. Anche Soula aveva compreso che questa era la fine. Senza dire niente, Rebecca le si buttò tra le braccia e le due donne si tennero strette. Dopo qualche attimo, Rebecca si fece indietro. «Damon è qui?» «Il suo aereo è atterrato un'ora fa. Dovrebbe esse-re a casa presto. Vieni in camera mia, ti darò il re-ferto.» «Si può occupare di T.J., mentre parlo con Da-mon?» Soula annuì, i suoi occhi erano gonfi di lacrime. Quando Damon entrò in salotto, Rebecca era lì ad attenderlo, esteriormente calma, ma interiormente turbata. Si era già tolto la giacca e sfilato la cravatta e stava per sbottonarsi la camicia, quando la vide. Il suo viso fu attraversato da un'enorme varietà di e-mozioni. «Pensavo che fossi a Tohunga.» Rebecca si alzò in piedi tremante. «Sono tornata per riportarti tuo figlio.» «Mio figlio?» Sulla sua fronte apparve una ruga. «Cosa intendi?»

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«T.J. è tuo figlio. Tua madre ha fatto fare un test del DNA. Ha mandato alcuni capelli tuoi e di T.J. a un laboratorio in Australia, qualche tempo fa, senza che lo sapessi. I risultati sono alquanto convincenti. Ecco la relazione.» Gliela passò sbrigativamente. «È tuo figlio. Tuo e di Fliss.» Gli occhi di Rebecca erano colmi di lacrime. San-to cielo, perché non riusciva a smettere di singhioz-zare? «Damon, ti giuro che io non l'ho mai saputo.» Si interruppe e deglutì. «Nella busta c'è anche il cer-tificato di nascita di T.J. Prima di morire, Fliss fir-mò il modulo di richiesta, dichiarando che il padre era James.» Damon estrasse il documento. «Tyler James. Mio figlio si chiama Tyler James. Fliss diceva di voler chiamare nostro figlio Tyler.» I suoi occhi erano vi-trei. Rebecca si sentì rodere dal rimorso. «Mi dispia-ce. Posso immaginare come tu ti possa sentire. Mi sento così colpevole. Il giorno dopo la sua nascita ho firmato un modulo, confermando che era figlio di James. Ne ero convinta. E anche lui. Ma non posso perdonarmi, perché per questo tu sei stato lontano da lui per lungo tempo, tempo che non po-trai recuperare.» Lui non rispose. Stava ancora fissando i fogli che aveva in mano. A cosa stava pensando? Mio Dio, come doveva odiarla. Mille domande le giravano in testa. Fliss era davvero convinta che James fosse il padre di suo figlio? O aveva scoperto già di essere incinta e che quello era il figlio di Damon? Rebecca ricordava che il dottore aveva dichiarato che per lui il bambino era nato a termine e non qualche setti-mana prima. Ma lei non ci volle neanche pensare.

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Non l'avrebbe mai davvero saputo comunque. «Sono sicura che potrai far cambiare il secondo nome di T.J. e anche il cognome.» Rebecca era molto agitata. «Sarà facile ottenere un'ingiunzione del tribunale con questo esame del DNA.» Quale sarebbe stato il nome del suo bambino? Certamente non T.J., e Damon l'avrebbe fatto cam-biare. Non sapeva cos'altro fare per rimediare al suo torto. «Firmerò tutti i documenti che vorrai per ri-nunciare ai miei diritti su Tyler.» «Rinunciare ai tuoi diritti su Tyler?» La fissò sor-preso, i suoi occhi blu risaltavano più del solito. «Di cosa stai parlando?» «Sto parlando del fatto che l'ho adottato. Imma-gino che vorrai cambiare entrambi i nomi sul certi-ficato di nascita.» Dentro di lei il cuore le doleva in maniera indicibile. «Farò tutto il possibile per si-stemare le cose, anche se non posso ridarti gli anni che hai perso.» Con le dita tremanti allontanò alcu-ne lacrime dagli occhi. «Tutta la sua roba è di sopra, nella stanza in cui ero io. Avrà bisogno di te. All'i-nizio sarà difficile.» Quindi aggiunse: «Vorrei ve-derlo qualche volta». «Cosa diavolo stai dicendo?» Poteva capire che Damon non la volesse più ve-dere davanti a sé e nella vita di T.J., ma lei non po-teva permettere che le fosse tolto completamente. Respirò profondamente. «Venderò casa mia a To-hunga. E anche Chocolatique. Cercherò qualcosa ad Auckland, per essere più vicina...» A te e T.J. «... a T.J.» «Puoi stare qui.» Rebecca si calmò. «Non posso. È tuo figlio.»

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Lui scosse il capo, visibilmente sorpreso. «Ma tu sei sua madre.» «No, non è vero. Fliss era sua madre.» «Ma sei tu che gli hai fatto da madre in questi anni ed è questo che conta.» Il dolore era così forte da farla quasi svenire. «Però il suo vero padre sei tu. Il suo posto è qui con te.» Lei avrebbe portato per sempre con sé il ricordo di T.J. bambino e dei momenti d'amore passati con Damon. Lui fece un passo esitante verso di lei. «Faresti questo? Saresti disposta a lasciare a me la persona che ami più della tua stessa vita?» «Appartenete l'uno all'altro.» «Anche tu.» Il cuore di Rebecca sussultò. «Cosa intendi?» «T.J. è tuo figlio.» Si avvicinò velocemente, per stringerla a sé. «Non ti permetterò di andartene. Ti amo» le sussurrò. «Farò ciò che avrei dovuto fare quattro anni fa, se non fossi stato cieco, e ti spose-rò.» Lei iniziò a tremare. «Mi ami? E vuoi sposarmi?» «Sì.» Lui la strinse ancora di più a sé. Il suo collo era molto liscio e abbronzato e lei guardò il pomo d'Adamo che si muoveva in maniera agitata. «Non sai neppure se io ti amo» mormorò lei. «Certo che mi ami. Me ne hai appena dato prova: eri pronta a lasciare T.J. con me e ad andartene. Ma io non te lo permetterò. Mai più.» «Hai ragione, ti amo.» Rebecca premette le lab-bra contro la gola di lui e sussurrò: «Cosa farai o-ra?». Si strapparono di dosso i vestiti e si buttarono

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sull'ampio letto di Damon. Lui tirò Rebecca su di sé, gemendo mentre la pelle di lei sfregava contro il suo petto. Lei posò le sue labbra su quelle di lui, soffocan-done i gemiti. Il sapore salato delle sue lacrime sul-la pelle di Damon le fece passare una mano sul vi-so, per allontanarne ogni segno. «Lascia che faccia io» sussurrò lui, con un tono profondo, che risuonò nella stanza vuota. I suoi pol-lici le accarezzarono gli occhi, chiudendoglieli. Quando Rebecca li riaprì, guardò in quelli di lui e chiese: «Mi perdoni?». «Per cosa?» Il suo sguardo rivelava confusione. «Per aver tenuto tuo figlio lontano da te.» Lui rimase in silenzio per alcuni istanti. «Non sa-pevi che fosse mio figlio. E l'hai cresciuto con infi-nito amore, senza mai tirarti indietro. Come potrei avercela con te?» «Grazie al cielo!» Rebecca si sentì sollevata. «Quando Soula mi ha chiamato, avevo paura...» «No.» Lui la tirò a sé. «Non voglio che tu abbia mai più paura. Ci sono così tante cose di cui dob-biamo essere grati. Devo aver fatto qualcosa di buono nella mia vita per avere ottenuto... te.» Lei emise un suono a metà tra una risata e un colpo di tosse. «Sono tutto fuorché perfetta, lo sai.» «Per me sei perfetta.» La mano di lui le accarez-zò il fianco. Lei mormorò qualcosa di incomprensi-bile, mentre le dita di lui seguivano la sua spina dorsale. Le sue mani si infilarono tra i capelli di lei. Poi la spinse giù e posò le labbra sulle sue, baciandola con voracità. Rebecca chiuse le sue gambe attorno a quelle di

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lui, quindi le allargò, lasciandole scivolare ai lati, per poi premere il suo corpo contro quello di lui. Damon provò come una scossa. La sua stretta si sciolse e lui cadde indietro, sui cuscini. «Rebecca. Oh, Rebecca!» esclamò con voce rau-ca. «Non lasciarmi, mai.» «Mai! Ti terrò accanto a me. Per sempre.» Lo guardò con un accenno di sorriso, poi mosse leg-germente la parte bassa del corpo e colse tutta l'evi-denza della sua eccitazione. Quindi si spostò. «Cosa stai combinando?» Lo sapeva benissimo. Il suo viso risplendeva. Lei lo guardò e colse pas-sione e desiderio nei suoi occhi, ma non solo. Quel-lo che vide era amore, puro e senza vergogna. Per lei. E questo la fece fremere. Rebecca sollevò i fianchi lentamente, consapevo-le della presenza di lui sotto di sé. Il suo corpo era già al colmo dell'eccitazione. La mano di lui si mos-se verso il basso. «No.» Lui si bloccò all'udire quel comando. «Stai fermo. Guardami. Dimmi che mi ami.» Gli occhi di lui non si staccarono da quelli di lei. «Ti amo più di quanto abbia mai amato qualsiasi altra donna. Amo tutto di te. Non cambierei niente di come sei e di quello che mi fai provare. Non mi ero mai sentito così prima.» Rebecca fissò quegli occhi di un blu profondo, striato di nero, come rocce pericolose in una tempe-sta di mare. «Ti credo.» Lei si fermò per un istante. Quindi si abbassò con un movimento deciso, av-

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volgendolo con il suo calore. Ci fu un attimo di pu-ra passione... e una calda sensazione di completa-mento. Lui strinse le sue braccia attorno a lei, per farla abbassare accanto a sé. Un attimo dopo iniziò a muovere il bacino, lentamente, molto lentamente, facendole provare un piacere infinito. Quando finalmente si resero conto dell'ora, Da-mon e Rebecca scesero per annunciare che si sareb-bero sposati. Tutti si rallegrarono e Soula versò qualche lacrima di gioia. Una volta sedutisi per cenare, Rebecca si guardò attorno: Soula, Demetra, Savvas, T.J. La sua fami-glia. Gli occhi le si riempirono di lacrime per la fe-licità. Così tante persone, così tanto amore. Quando il suo sguardo incontrò quello dell'uomo seduto ac-canto a lei, lui le rivolse un sorriso lento e sod-disfatto. «Allora, chi organizzerà il tuo matrimonio, Re-becca?» ruppe il ghiaccio Demetra. «Me ne occuperò io» affermò Damon. «Credo di sapere quali sono i desideri della sposa.» Sotto il ta-volo, la mano di lui tracciò dei piccoli cerchi sulla gamba di Rebecca. Lei lo guardò incerta. Demetra iniziò a ridere. «Be', questo è un matri-monio di cui nessuno si deve preoccupare. Voi due siete così in sintonia da far quasi paura.» «Era ora che se ne accorgessero» commentò Sou-la. «Se mamma sposa papà, potrò avere le paperel-le?» chiese T.J., tirando Damon per la manica. «Tutto quello che vuoi...» «Ci penseremo.» Rebecca interruppe Damon.

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«Papere nella piscina olimpionica? Vedo che hai intenzione di sfruttare al meglio la situazione, si-gnorino.» T.J. sorrise maliziosamente. «Ma non ho mai a-vuto un papà.» Damon spalancò gli occhi per l'emozione. «E io non ho mai avuto un figlio. E presto avrò anche una moglie. Cosa potrebbe volere di più un uomo?» Più tardi, nel letto di Damon, con i loro corpi nu-di aggrovigliati sotto le coperte, lui mormorò: «Quello che ho detto è tutto vero». Rebecca si rannicchiò più vicino. Damon le acca-rezzò una spalla, quindi sparì sotto le lenzuola per accarezzarle la schiena morbida. Rebecca sentì il calore salire al contatto con le sue dita e si girò. La mano di Damon si fermò. «Potrai mai perdo-narmi?» Lei sollevò il capo e lo guardò. «Perdonarti per cosa?» «T.J. avrebbe dovuto essere tuo figlio.» Rebecca spostò il ricciolo che gli era caduto sulla fronte. «Lui è mio figlio. Io gli ho fatto da madre in questi anni ed è questo che conta.» Lo baciò su una guancia. «E come potrei non perdonarti? Tu mi hai perdonato per averlo tenuto lontano da te.» «Eri all'oscuro di tutto.» «Mi credi?» Lui la guardo con sguardo soddisfatto e fiducio-so. «Certo che ti credo.» Lei si stese accanto a lui. «Non puoi immaginare cosa significhi la tua fiducia per me.» «Perché significa così tanto?» «Ho sempre l'impressione di lottare contro ciò

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che pensa la gente.» S'interruppe. «Non era vero, sai?» Lui le passò un braccio attorno alla vita. «Cosa?» «Che Aaron mi aveva lasciato una fortuna e che io l'avessi dilapidata. Aaron si è suicidato perché era stato beccato con le mani nel sacco. Aveva fro-dato la banca per una cifra di vari milioni di dollari. Chiaramente la banca non voleva che la notizia tra-pelasse... Sarebbe stata cattiva pubblicità: l'impatto sulle azioni e tutto il resto. Non disse neppure a me cosa aveva fatto. Sapevo che qualcosa non andava, ma non avrei mai pensato che si trattasse di quello.» Damon l'abbracciò stretta. Come aveva fatto Grainger ha mandare tutto a rotoli? Quell'uomo a-veva tutto: soldi, successo e, soprattutto, Rebecca. Damon volle essere clemente. «Era un brav'uomo. Ma la sua posizione deve avergli presentato delle tentazioni a cui era difficile resistere. E una volta scoperto, non avrebbe mai voluto che tu lo vedessi in mezzo ai problemi.» Damon immaginava che Aaron Grainger si fosse abituato a uno standard economico molto alto e che avrebbe fatto molta fatica a farne a meno. Inoltre non avrebbe potuto sopportare le critiche, una volta uscito di prigione. «Dopo la sua morte...» Rebecca si interruppe ed ebbe un brivido. «Sono stati mesi infernali. Aaron aveva aperto un'infinità di conti offshore e aveva dirottato i suoi fondi all'estero. Ho cercato di aiutare la banca il più possibile: si ripresero tutti i beni im-mobili, per saldare i debiti. Avrebbe dovuto dirme-lo. Io gli sarei stata accanto.» Damon scosse la testa, passandole lentamente le dita lungo la schiena. Non dubitava che Rebecca sa-

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rebbe stata al fianco del marito. Aaron Grainger a-veva lasciato la giovane moglie ad affrontare le conseguenze e se n'era andato in maniera vigliacca. E nonostante ciò lei non lo biasimava. Che razza di donna era? Una santa? Damon provò vergogna. Aveva sentito un sacco di storie, a cui aveva voluto credere. Ma ora aveva scoperto la verità. Rebecca non aveva dilapidato le fortune mal acquisite di Aaron, non lo aveva portato al suicidio. Lei aveva rispettato la memoria del ma-rito e non l'aveva mai criticato con nessuno. La baciò sulla testa. «Come ti ho già detto, Aaron sapeva quanto valessi. Così preziosa.» Lei sollevò il capo e gli rivolse un sorriso ricono-scente. «Grazie. Aaron è stato molto buono con me.» Non si sarebbe messo a discutere. L'uomo era morto, quindi non rappresentava una minaccia per quello che stavano condividendo. E non avrebbe mai dimenticato che Aaron Grainger era stato colui che gli aveva offerto una possibilità e l'aveva aiuta-to quando la Stellar International navigava in catti-ve acque. Aaron aveva avuto un ruolo importante in entrambe le loro vite. Meritava di essere ricordato. Damon fissò quegli occhi scuri e a mandorla che avevano un effetto pericoloso sul suo equilibrio, quindi deglutì. «Dovresti indossare il ciondolo che ti ha regalato. Ti dona molto.» Il viso di lei si illuminò per la sorpresa. «Non ti dispiace?» Lui esitò, quindi disse fermamente. «Certo che no.» «So che non è niente di speciale, ma devo dirti che... è il mio gioiello preferito.»

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Dannazione, avrebbe pensato ogni giorno ad Aa-ron Grainger se lei lo avesse indossato. Ma allonta-nò in fretta quei piccoli e inopportuni accenni di ri-sentimento. Rebecca era la donna che era diventata grazie al suo passato. Poco prima le aveva detto che amava tutto di lei, che non avrebbe cambiato niente della sua vita. Ogni parola era vera. Era complicata, amo-revole e molto più di quanto lui desiderasse. Se quel ciondolo la rendeva felice, lui non si sarebbe mai opposto. «Ti sta bene. Grainger aveva buongusto» disse con voce aspra. «Prima lo portavo molto.» «Mi ricordo.» «All'inizio lo portavo per ricordarmi di Aaron.» Per un attimo apparve un po' in apprensione. Quindi disse in fretta. «Dopo che ho incontrato te, ho deci-so di portarlo perché il colore mi ricordava i tuoi occhi.» Cielo. Non smetteva mai di sorprenderlo. Ma era felice di averle detto quanto l'amasse, prima che questo ultimo baluardo crollasse. Lei gli strinse le braccia attorno al collo e lo tirò a sé. Il bacio che lui le posò sulle labbra fu lungo e tenace. Lei aprì le labbra e lui continuò a baciarla, più profondamente. Dopo alcuni minuti lui sollevò la testa e mormorò con voce roca: «Io non merito il tuo amore. Non ho diritto a una seconda possibilità». «Fai attenzione, stai parlando dell'uomo che a-mo.» Alzò la testa e si appoggiò sul gomito. «La prima volta che ci siamo incontrati, ti ho vi-sto e ti volevo, ma... sono stato un vigliacco. Ho in-tuito tutta la tua passione, l'intensità e sono corso via, invece di accettare la sfida. Avrei ottenuto ric-

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chezze dal valore inestimabile, invece mi sono tira-to indietro, facendo sfoggio di Felicity come model-lo di donna. Tu dici che sono cieco, ma in realtà so-no stupido.» «Non sei stupido. Fliss era adorabile.» «Fedele fino alla fine, vero?» Le allontanò i ca-pelli dalla fronte. «L'ho sposata per le ragioni più sbagliate. Perché mia madre voleva dei nipoti. Per-ché era docile. Perché era così diversa da te... Lei non aveva sconvolto i miei pensieri, o il mio cuore. Ma dopo un po' ho desiderato che avesse un po' del-la tua tempra.» Mentre ammetteva la verità, la ver-gogna iniziava a svanire. «Fliss era una persona debole. Ma non era colpa sua, non completamente. Aveva avuto molte diffi-coltà» «Ma aveva te. E, nonostante questo, ha sposato l'uomo che amavi, lasciandoti a occuparti dell'uomo che amava... e tu continui a difenderla» commentò Damon. «Devo farlo. Le volevo bene. E mi ha lasciato T.J.» «Nostro figlio.» «Sì, nostro figlio. Ora ho te. E tu mi ami. Cosa potrei volere di più?» Lei gli rivolse un sorriso, len-to, felice e colmo di promesse. Damon si sporse in avanti e le diede un bacio de-licato, grato di averla ritrovata. La donna che lo amava più di quanto lui non meritasse. La donna che l'aveva stregato. La donna che aveva il suo cuo-re in pugno. Due settimane dopo, lontano dal trambusto di Auckland, una coppia sola attendeva su una larga

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striscia di sabbia dorata. La donna era a piedi nudi e indossava un semplice abito bianco. Un ciondolo di opale blu appeso a una catena d'oro rifletteva i raggi del pomeriggio inoltrato. Portava un nuovo paio di orecchini e un bracciale coordinati con il ciondolo, che le aveva regalato il suo futuro sposo, come do-no di nozze. Lo sposo indossava un abito di colore chiaro, adatto all'umidità dell'isola, mentre il pag-getto indossava un paio di pantaloncini a fiori e una camicia grigia. Non c'erano né damigelle né ospiti. Solo una spo-sa, uno sposo e il loro bambino. Non appena il cele-brante venne verso di loro, con due donne che ave-vano accettato di fare da testimoni, lo sposo si ab-bassò. «Un'isola nel Pacifico si avvicina abbastanza ai tuoi desideri?» La sposa alzò la testa. «Non ho bisogno di niente altro oltre a te... e a nostro figlio.» «Sei sicura di non essere delusa, senza una vera cerimonia, ospiti o regali?» Rebecca rise. «Credimi, ci saranno montagne di regali da aprire quando saremo a casa. Tra tua ma-dre e Demetra posso solo immaginare... Ma i regali migliori li ho già ricevuti: tu, vedere T.J. nuotare e vederlo ridere mentre lo faceva.» Lo sposo le prese il viso tra le mani e la guardò con gli occhi che gli rilucevano di felicità. Il suo tocco era caldo e delicato. Lei girò la testa e gli die-de un bacio sulla mano. Non era mai stata così pie-na di gioia. «Ti amo» le disse Damon, con voce intensa. «Te l'ho già detto oggi?» «Mi pare di sì, ma non mi stancherò mai di sen-tirtelo ripetere.»

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«E io non mi stancherò mai di pensare al miraco-lo di aver trovato te e mio figlio.» Si piegò per baciarla. I piedi di Rebecca si sollevarono sulle punte sulla sabbia morbida. Quella familiare sensazione di de-siderio la travolse. Il celebrante diede un colpo di tosse. Per un atti-mo Rebecca pensò che Damon avrebbe ignorato l'uomo, ma poi mormorò: «Più tardi». Quel largo sorriso piratesco che le rivolse racchiudeva una promessa che la fece fremere. «Miei cari fratelli» iniziò il celebrante, «siamo qui riuniti oggi per celebrare un matrimonio, l'amo-re di due persone...» Soula Asteriades aveva un sorriso che andava da un orecchio all'altro, mentre raggiungeva la terrazza da cui proveniva il frastuono allegro dei festeggia-menti. La sua sorella più anziana, Ifigenia, aveva preso posto sua una poltrona molto comoda, con tanti cu-scini che la sostenevano. La più giovane, Athina, stava giocando a tavli con Johnny. I tre fratelli di Soula, con le mogli, i figli e i nipoti erano sparsi per la terrazza. Alcuni dei più piccoli giocavano nella piscina stretta e lunga che aveva costruito suo fi-glio. Savvas e la sua futura moglie condividevano una poltrona: le loro teste erano l'una accanto all'al-tra, come una coppia di piccioncini. «Guardate, una foto» annunciò Soula trionfante, alzando in aria un cellulare per mostrarlo a tutti. «La prima foto del mio figlio maggiore, della sua nuova moglie in un magnifico abito bianco, e di lo-ro figlio, il mio primo nipote. Questo è un miracolo

per cui io non ho alcuna responsabilità.» All'avvicinarsi della famiglia si sentì travolgere dalla felicità, allora inclinò il capo verso il cielo, sapendo che da qualche parte lassù il suo amato Ari la stava guardando con benevolenza e partecipando ai festeggiamenti con lei.