La mia Sardegna · Per Alberto del-la Marmora1 deriverebbe dalla parola di origine nuragica salàch...

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PARTE PRIMA

LA STORIA

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Siliqua, paese della Sardegna meridionale ricco di storia e di testimonianze archeologiche, sie-de sulla sponda sinistra del Rio Cixerri o Canadonica, quasi a metà strada fra Cagliari e Iglesias.

Varie sono le ipotesi sull’origine del suo nome. Quella più accreditata vuole che derivi dal latino siliqua, ae (baccello), termine col quale si designano le piante di carrubo un tempo molto nu-merose nella zona. Gli influssi spagnoli lo avrebbero trasformato in Silico, Xilico o Terra Senigua.

Un’altra ipotesi vi vede la sopravvivenza, data la presenza anche di altri luoghi con la stessa base etimologica (Siligo, Silanus, Silius, Silì), di un toponimo con radice paleosarda. Per Alberto del-la Marmora1 deriverebbe dalla parola di origine nuragica salàch cioè estensione, pianura.

È stato ipotizzato, inoltre, che il nome derivi al paese dal fatto che nel territorio vi fosse una zecca romana in cui si coniavano le silique, monete corrispondenti a 1/24 del solidus.

Siliqua dalla preistoria alla dominazione cartaginese

Sebbene i primi segni della presenza dell’uomo nell’Isola risalgano al 150.000 a.C., in pieno pa-leolitico, a Siliqua le testimonianze archeologiche più antiche fanno riferimento al neolitico recente-eneolitico (3.240-1.800 a.C.). Sono state rinvenute, infatti, diverse domus de janas e alcuni menhir.

Le domus de janas (letteralmente case delle fate), ipogei artificiali scavati nella roccia, diffusi in tutta l’isola, avevano la funzione sia di tombe sia di templi.

A Siliqua, l’unica pervenutaci in buono stato di conservazione, nota come Sa domu e’ s’Orcu, si trova nelle vicinanze del campo sportivo. L’ingresso, rivolto a sud-sud ovest, in origine a forma rettangolare, introduce in una anticella e, tramite un altro ingresso, alla cella funeraria, entrambe a pianta rettangolare.

I menhir (men, pietra e hir, diritta) sono monumenti megalitici, molto diffusi in Breta-gna. Posti a guardia delle tombe, considerate luoghi sacri, svolgevano una funzione apotro-paica, cioè allontanavano gli influssi malefici.

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I menhir si trovano in Sardegna sia nella forma singola (pietra in fitta o sa perda fitta) sia nella forma complessa (allignement).

Sa perda fitta rinvenuta a Siliqua, conosciuta con i nomi di su Cuaddu ‘e sa mongia o Perda managus o Cuaddu ‘e managus, si trova ad una sessantina di metri dal tronco ferroviario del Sulcis, a circa un chilometro dalla cantoniera Bau solanas, nella piana del Cixerri. Si tratta di una grossa pietra in granito locale, lunga 2 metri e larga, alla base, 1,05 m, al centro, 90 cm, con la sommità assottigliata ed appuntita e le superfici sbozzate. Oggi abbattuta, presenta il lato lungo, opposto a quello che poggia sul terreno, levigato per sfregamento: era infatti meta di pellegrinaggio delle don-ne sterili che vi si recavano per praticare riti di fecondità. A pochi metri dalla prima, è stata rinvenuta un’altra pietra, lunga 1,25 m e larga 55 cm, di forma più tozza e frammentata, che potrebbe essere un altro menhir.

Agli inizi dell’Età del Bronzo (1800 a.C.) fiorì in Sardegna la civiltà nuragica, così chiamata dal simbolo che la rappresenta, il nuraghe (dalla radice nur ossia cumulo di pietre cavo).

Presso quasi tutti i nuraghi sorsero villaggi, fatti di capanne circolari di pietra e col tetto di paglia, nei quali la popolazione, riunita in clan, si raccoglieva, dando vita a comunità chiuse che tendevano all’autoprotezione. Il nuraghe, situato in punti strategici alti, fungeva, infatti, da torre di avvistamento del nemico e svolgeva una funzione di salvaguardia dei beni agricoli, pastorali e, nelle zone metallifere come il Sulcis, anche delle risorse minerarie.

Nei pressi dei villaggi si trovano, inoltre, i monumenti funerari collettivi, chiamati dalla fanta-sia popolare tombe dei giganti, che potevano contenere fino a duecento defunti.

Nel territorio di Siliqua sono tuttora rintracciabili numerosi complessi nuragici, formati da tor-ri, villaggi e tombe dei giganti, tutti appartenenti all’età del bronzo (1.800-800 a.C. circa). La presenza di strutture non solo difensive ma anche residenziali e funerarie fa ritenere che fossero insediamenti stabili.

I maggiori nuraghi si trovano nei pressi di Monte Maiori, Giba Accuzza, Musungionis, Sa Guardia ‘e Gibaterra, Monte Uannena, Monte Accas, Monte Arcedda, Monte Oru, Monte de S’Arcu, Monte Miali, Domus de is Perdas, Sa Mandra, Sa Domu Fotti, Isca su Casteddu.

Le tombe dei giganti sono state rinvenute presso Puadas, S’arresigu, Matta Mala, Genna Olla-stu, Monte Perdosu, Giba Matzani, Sa Terredda e Serra ‘e Masì. Quest’ultima presenta tre ambienti, a pianta rettangolare, scavati nella roccia e comunicanti tra di loro. Nel vano centrale, più grande rispetto agli altri, il soffitto è sostenuto da due colonne simmetriche. La tomba è di particolare im-

portanza in quanto risale all’epoca in cui si sviluppò la cosiddetta cultura di Bonnanaro (1.500-1.300 a.C.), da cui mosse i primi passi la civiltà nuragica.

Intorno al 1.000 a.C. la Sardegna fu raggiunta dai fenici, le cui iniziali sporadiche frequenta-zioni divennero, nel corso dei due secoli successivi, rotte stabili. In un secondo momento, i fenici occuparono, per proteggere i propri scali, una fascia di territorio anche nell’entroterra fino ad una profondità di circa 20 Km. In conseguenza di ciò, i primi insediamenti si trasformarono in vere e proprie città stato indipendenti dalla madrepatria come Caralis, Nora, Bithia, Sulci, Bosa, Olbia e Tharros.

I rapporti inizialmente pacifici tra le popolazioni autoctone e i fenici divennero conflittuali in-torno al 500 a.C. quando i nuragici attaccarono le città fenicie sulla costa che, per difendersi, chiesero aiuto a Cartagine. I punici riuscirono a impadronirsi, sebbene parzialmente, dell’isola sottomettendo sia i fenici sia i nuragici e vi rimasero per più di due secoli.

Fino al 509 a.C., per gran parte dello sviluppo della civiltà nuragica, la Sardegna fu autono-ma ed indipendente: non risulta testimonianza d’alcuna dominazione straniera ma solo di saltuari scambi commerciali che non ne modificarono le tradizioni e le usanze locali.

I cartaginesi, contrariamente ai fenici, considerarono l’isola una vera e propria colonia: i loro funzionari vi instaurarono un sistema amministrativo-giudiziario strettamente dipendente dalla madrepatria. Per duecentosettanta anni, fino all’arrivo dei romani, convissero in Sardegna, anche se non sempre in modo pacifico, le due civiltà, la cartaginese e la nuragica.

Nel territorio di Siliqua, risalgono al periodo punico gli insediamenti di Medau su Casteddu vicino al castello di Acquafredda, di San Pietro, di Santa Maria, di Santa Lucia, di Santa Margherita e di San Giacomo. In località Campanasissa è stata rinvenuta una necropoli.

Gli stanziamenti di Siliqua avevano, probabilmente, uno scopo difensivo. Cartagine, avendo le sue maggiori postazioni lungo la costa meridionale della Sardegna, per proteggerle dalle possibili incursioni dei sardi, aveva creato, nell’entroterra, una linea difensiva formata da vari paesi, tra cui Siliqua. Questi, infatti, si trovavano ai confini dei possedimenti punici in zone considerate pericolo-se. La loro importanza era, quindi, soprattutto militare; raramente venivano utilizzati come stazioni di sosta dai mercanti i quali prediligevano gli spostamenti via mare o lungo la costa.

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Il periodo romano-bizantino

La dominazione cartaginese ebbe fine con la prima guerra punica, quando Roma conquistò, insieme alla Corsica ed altri territori, anche la Sardegna (238 a.C.). Divenuta la seconda provincia romana, l’isola fu governata da un Primo Pretore con poteri civili e militari.

Sotto il governo romano, in Sardegna furono realizzate numerose infrastrutture come acque-dotti, strade, ponti al fine di collegare tra loro i centri di maggiore interesse. Furono ampliate e ab-bellite le città costiere, costruiti templi, terme, teatri; incentivati gli scambi ed i commerci. La lingua e la civiltà latina si diffusero, ovunque, nell’isola.

Siliqua, posta tra il bacino minerario del Sulcis e il porto di Cagliari, godette di questa posizio-ne strategica. Il collegamento tra Carales e Sulci (l’attuale Sant’Antioco) era assicurato, oltre che da una strada costiera, da una interna, che seguiva una pista già esistente in periodo punico, la a Sulcis Karales o a Karalibus Sulcos. Essa attraversava Elmas, Assemini, Decimo, quindi oltrepassava, con un ponte a tredici archi, il rio Mannu e giungeva a Siliqua. Qui superava, con un altro ponte a due archi, detto su ponti Becciu, il rio Cixerri e, passando per Villamassargia, giungeva nei pressi dell’at-tuale Carbonia dove si congiungeva con la litoranea occidentale prima di raggiungere Sulci. Quasi sicuramente a Siliqua era presente una stazione di sosta e per il cambio dei cavalli.

Nei pressi del paese, inoltre, passava l’acquedotto costruito dai romani tra la fine del I sec. e l’inizio del II d.C. Di grande importanza per Carales, forniva alla città l’acqua della fonte di Cabudac-quas che si trova nel territorio di Villamassargia. L’acquedotto, passando per Siliqua, Decimo, Asse-mini, Elmas, entrava a Cagliari dal quartiere di Stampace e, insieme alle cisterne situate nell’odierno orto botanico, garantiva l’approvvigionamento idrico della città. Dell’antico impianto idrico sono oggi visibili i resti del ponte che superava il fiume Cixerri e lo scavo fatto nella roccia, di circa 70 cm di larghezza, nei pressi della chiesa di Santa Maria, quasi completamente diroccata. La costruzione aveva una duplice funzione: permettere il trasporto dell’acqua e la comunicazione stradale.

Di particolare interesse è, inoltre, la villa che si trova nei pressi della chiesa campestre di San Giacomo in località Bau Viana. L’ingresso, la cui soglia è costituita da blocchi squadrati accostati, è ancora visibile. La stanza meglio conservata ha forma quadrangolare con i muri intonacati. In uno di questi si trova un foro, sbocco di una canaletta per l’acqua. L’intonaco impermeabilizzato all’interno e la presenza del-la canaletta fanno pensare ad un ambiente ter-male all’interno di un complesso residenziale. Il rifornimento d’acqua era garantito dal vicino fiume e da alcune strutture di canalizzazione ancora visibili a pochi metri.

Nonostante la presenza di diversi insedia-menti (Campanasissa, Monte Arcedda, Is Iscas), di una necropoli di età imperiale in località Berlin-gheri, il ritrovamento nelle campagne di monete risalenti al periodo repubblicano e imperiale, non si hanno notizie certe sulla posizione di Siliqua in epoca romana.

Il dominio romano nell’isola fu minac-ciato, già prima della caduta dell’Impero, dalla pressione dei popoli germanici, tra cui i vandali d’Africa, che nel 456 d.C. occuparono Carales e altre città costiere.

L’Impero, alla morte dell’imperatore Teo-dosio (395 d.C.), fu diviso in due parti, Impero d’Occidente e Impero d’Oriente con capitale Bisanzio. Dopo aver sconfitto i vandali a Tri-camari nel 534 d.C., i bizantini occuparono la Sardegna.

Divenuta dominio bizantino, l’isola fu inserita nella prefettura d’Africa e divisa in distretti, mereie, governati da uno Judex, che

risiedeva a Cagliari con compiti di controllo sul territorio, potere giudiziario per i reati comuni e per reprimere gli abusi dei funzionari pubblici. Le mereie erano, inoltre, presidiate da un esercito che stava a Forum Traiani (oggi Fordongianus) comandato da un Dux.

Per quanto riguarda il territorio di Siliqua, non si hanno relativamente a questo periodo te-stimonianze certe di insediamenti: “I pochi toponimi da collegare alla presenza greca lascerebbero intendere che in epoca bizantina il territorio fu scarsamente abitato o del tutto abbandonato”2.

Dai giudicati alla dominazione aragonese

Il controllo di Bisanzio sull’isola venne meno a seguito della penetrazione araba nel Mediter-raneo intorno all’ottavo secolo. Le incursioni islamiche resero, infatti, difficili i collegamenti tra la Sardegna e la capitale dell’Impero per cui lo Judex iniziò a governare in modo autonomo esercitando sia i poteri civili sia quelli militari. Per difendere l’isola, nominò quattro luogotenenti dislocandoli nelle mereie di Carales, Torres, Arborea e Gallura.

L’improvvisa indipendenza dei luogotenenti (900 d.C. circa) fu, probabilmente, la causa della formazione in Sardegna dei Giudicati, stati sovrani, perfetti e superindividuali. I giudicati erano go-vernati da un Giudice (Rex), eletto dalla Corona de Logu (sorta di Parlamento), divisi in curadorìas o partes (circoscrizioni o province). Esse, governate da un Curatore nominato dal giudice, compren-devano numerose ville (paesi), amministrate da un Majore de villa.

Nel periodo giudicale il territorio di Siliqua apparteneva alla curatoria del Sigerro, inserita nel giudicato di Carales. Questo era diviso in 17 curatorie e comprendeva tutta l’odierna provincia di Cagliari, l’Ogliastra, parte della Barbagia di Seulo ed il Sarrabus.

La curatoria del Sigerro o Cixerri, con capoluogo prima Cixerri e poi Villamassargia, era formata da 41 ville, tra cui la villa di Siliqua o Xilico (secondo una statistica pisano-aragonese del 1322-1358 e il Registro delle rendite pisane redatto tra il 1256 e il 1260 e datato 1323), comprese negli attuali comuni di Siliqua, Iglesias, Buggerru, Domusnovas, Gonnesa, Musei e Villamassargia.

In Sardegna, le continue incursioni arabe, mai cessate, preoccuparono il papa Benedetto VIII a tal punto che chiese aiuto alle città marinare di Pisa e Genova. Nel 1015 la flotta delle due città sba-ragliò, probabilmente nella zona nord-occidentale dell’isola, quella araba capeggiata da Museto.

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Da questo momento la storia dei Giudicati si intreccia con quella delle due repubbliche in quanto i Giudici concessero numerosi possedimenti nell’isola ad alcune potenti famiglie sia pisane sia genovesi.

La ricostruzione della storia di Siliqua in questo periodo è, data la mancanza di documenti, alquanto difficile. Le sue vicende sono, comunque, legate a quelle del giudicato di Calares e della sua capitale Santa Igia. Il giudicato di Calares era un regno solo di nome. Il giudice viveva isolato nella villa giudicale di Santa Igia; nel Castello (Castellum Castri) stavano i Pisani, tra cui le potenti famiglie dei Visconti e dei Capraia che controllavano anche il porto. Il giudice di Calares, Giovanni Torchitorio V, noto sotto il nome di Chiano, preoccupato del crescente potere di tali famiglie, occupò il Castello e, nella speranza di poterlo mantenere, cercò e ottenne l’alleanza di Genova (1256).

Pisa decise di intervenire militarmente e affidò la conduzione della guerra ai Giudici di Arbo-rea e di Gallura, cittadini pisani. Il conflitto, cui partecipò come alleato dei Pisani anche Gherardo conte di Donoratico, si concluse nel 1258, con la riconquista del Castello, la distruzione di Santa Igia, la fine del giudicato di Calares e la spartizione dei suoi territori tra i vincitori. Ai fratelli Gherardo e Ugolino, conti dei Donoratico della famiglia dei Gherardesca, spettarono le curatorie di Sulcis, Nora, Decimo e di Sigerro (Siliqua compresa).

Nel territorio di Siliqua, risalgono a questo periodo la chiesa di Santa Barbara (della quale non si conosce l’ubicazione) presso la villa di Acquafredda e la chiesa di Santa Maria (oggi allo stato di rudere). Entrambe furono date in donazione da Costantino, giudice di Cagliari, tra il 1089 e il 1090 ai monaci vittorini di Marsiglia. Fu probabilmente la presenza di questi monaci a contribuire al ri-

popolamento del territorio. L’appartenenza della chiesa di Santa Barbara ai vittorini è documentata fino al 1338.

Anche le prime attestazioni sul castello di Acquafredda (Castrum Acque Frigidae) risalgono all’epoca giudicale. Si fa, infatti, riferimento ad esso nella bolla papale del 30 luglio 1238, dove il papa Gregorio IX esortava i giudici di Torres e di Gallura affinché consolidassero le loro fortificazio-ni, così come era già stato fatto per il castello di Acquafredda, nel giudicato di Calari. Il documento rivela che il castello svolgeva, già da prima della dominazione pisana, funzioni militari di una certa importanza.

In questo periodo la storia di Siliqua, del castello di Acquafredda e della villa sorta ai suoi pie-di, è legata alle vicissitudini politiche dei conti della Gherardesca.

Ugolino, signore di Acquafredda e della villa di Siliqua, attestata per la prima volta nel 1272, accusato in patria di tradimento, fu imprigionato nella torre dei Gualaldi dove morì nel 1289. I figli, Guelfo e Lotto, che ereditarono i suoi possedimenti, per vendicare la morte del padre, dichiararono, nel 1289, guerra a Pisa e si arroccarono a Villa di Chiesa (Iglesias). Nel 1294 le truppe pisane, alleate col giudicato di Arborea, la assediarono e fecero prigioniero Guelfo, che fu poi riscattato dal fratello Lotto, in cambio del castello di Acquafredda che rimase proprietà di Pisa fino all’arrivo degli arago-nesi.

Per quanto riguarda Siliqua, sopravvisse alle lotte tra i Gherardesca e Pisa e compare infatti, contrariamente alla villa di Acquafredda, nel censimento fiscale pisano del 1320. Si può ipotizzare che gli abitanti di Acquafredda, che risulta spopolata nel 1476, si siano spostati gradatamente verso Siliqua, in qualche modo meno esposta alle vicende belliche. Questo processo di assimilazione di abitanti dalle ville vicine proseguì per tutto il medioevo, così che Siliqua assunse un ruolo nuovo e strategico nel territorio.

Gli aragonesi giunsero in Sardegna, nel 1297, dietro richiesta del papa Bonifacio VIII che istituì dal nulla, avvalendosi della famosa e falsa donazio-ne di Costantino, il Regnum Sardiniae et Corsicae e lo affidò al re di Aragona, Giacomo II. Questo diven-ne, però, sovrano di fatto solo dopo aver sconfitto definitivamente i pisani, nel 1324, grazie all’alleanza stretta col giudicato di Arborea.

Sotto il dominio aragonese, la Sardegna fu riorganizzata dal punto di vista amministrativo. Nonostante ciò, “le comunità di villaggio conserva-rono la loro autonomia e la loro capacità di contrap-porsi ai feudatari, i majores continuarono ad essere regolarmente eletti tutti gli anni”3.

Siliqua e il castello furono, anche se solo per breve tempo, concessi in feudo alla famiglia della Gherardesca.

In seguito, il paese passò sotto il controllo di Pericono Libià (1327), per il servizio di un cavallo armato per tre mesi all’anno, mentre il castello pas-

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sò sotto il diretto controllo del re e fu affidato, dal 1324 al 1329, a Bort de Montpalau, poi a Pietro Libià (1331) e successivamente ad Amoros de Ribelles.

A questo castellano dobbiamo il primo inventario conosciuto sugli arredamenti e armamenti della fortezza, redatto nel 1338. Redigere gli inventari era prassi comune per i nuovi castellani ma fino a noi ne sono pervenuti ben pochi. Del castello di Acquafredda se ne conservano due, quello su citato e l’altro del 1351 (pervenutoci in copia del 1355) compilato da Ramon de Ampurias, che subentrò nella carica di castellano a Jaume d’Aragò morto nel 1351.

Nel 1348 anche nel territorio del Sigerro arrivò la peste che decimò la popolazione e spopolò molti villaggi determinandone la scomparsa.

In questo periodo, il dominio aragonese in Sardegna fu minacciato dal giudicato di Arborea che nel 1353, rotto il patto di alleanza, ne attaccò i possedimenti. Gli scontri proseguirono per due anni fino alla pace di Sanluri, l’undici luglio 1355. Era, in quell’anno, castellano di Acquafredda Dal-mazzo de Jardi.

Sempre nel 1355, la villa di Siliqua mandò i suoi rappresentanti al Parlamento del Regno di Sardegna, convocato per la prima volta dal sovrano catalano-aragonese Pietro il Cerimonioso.

Il conflitto tra il giudicato di Arborea e la corona di Aragona riprese nel 1365. Collocato in posizione strategica, il castello di Acquafredda svolse un importante ruolo militare. A partire dal 25 aprile 1365, a più riprese i castelli di Acquafredda e Gioiosaguardia furono riforniti di “molte cose loro mancanti, come olio, aceto, fave, carni salate […] bastoni, clave, ferri di varie qualità, balestre, strali, sevo, catrame, canape filate, cavalli ed altre provviste indispensabili al loro mantenimento e difesa”4.

Il castello di Acquafredda, assediato svariate volte, resistette ai numerosi attacchi delle truppe arborensi. Infatti, quando i magazzini erano riforniti e le cisterne ricolme “il piccolo presidio potea con occhio sicuro seguire dalle alte vedette il movimento dell’inimico, bersagliarlo colle sortite, pro-tetto dalle mura inespugnabili far piombare dai merli ben mantellati, grossi macigni, o colare acqua ed olio bollente sugli assalitori, e quando questi riuscissero a superare tante difficoltà, si poteano an-cora validamente difendere gli usci asserragliati, con lance, spade e veruti, cedendo palmo a palmo il terreno, prima nelle opere avanzate e poi nel ridotto centrale, vero carroccio della difesa”; poteva essere preso “solo ricorrendo alle mene abbiette del tradimento”5. Era considerata una rocca sicura persino dal governatore Zatrillas che vi trovò riparo, prima di riprendere la marcia per Cagliari, dopo essere fuggito dal castello di Sanluri, assediato dall’esercito giudicale.

Si combatté anche nei pressi di Siliqua. Le ville si ribellarono agli aragonesi, i quali riuscirono a conservare solo Acquafredda e Gioiosaguardia. I due castelli, pur subendo numerosi danni, non cessarono mai di resistere. Acqua-fredda fu sempre considerato dalla Corona una fortezza chiave per la difesa della valle del Cixerri, per la sua posizione strategica e in quan-to poteva rendere non pochi servizi anche al mantenimento della capi-tale.

La guerra proseguì, con alterne vicende, per quasi cinquant’anni concludendosi, definitiva-mente, nel 1420 quando anche il giudicato di Arborea fu inglobato tra i possedimenti della Corona.

Testimonianza della prima età aragonese a Siliqua è la chiesa di Sant’Anna, la cui esistenza è attestata in un documento del 1481, in cui si fa cenno ai lavori di riedificazione essendo la preesisten-te chiesa in rovina.

Il castello di Acquafredda, nel 1410, Siliqua e il territorio circostante (ormai quasi completa-mente spopolato), nel 1415, furono infeudati a Pietro Otger. La concessione fu confermata dal re nel 1420. Gli Otger tennero il feudo sino al 1458 quando, a causa dei debiti, lo vendettero a Giacomo d’Aragall e Pietro Bellit, che ne divenne l’unico possessore nel 1464.

In seguito al matrimonio tra Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia (1469), nacque nel 1479 il Regno di Spagna. Da questo momento in poi la Sardegna o, meglio, il Regnum Sardiniae (dal titolo scomparve il nome della Corsica in quanto non fu mai conquistata) divenne uno stato unitario, con un ordinamento proprio, sebbene imperfetto in quanto non aveva la facoltà di stipulare trattati internazionali. La Sardegna spagnola assunse lo stemma araldico dei Quattro Mori.

Il castello di Acquafredda fu, nel frattempo, ereditato da Ludovico Bellit Aragall, nipote di Gia-como e Pietro. Il passaggio fu confermato dal re nel 1512. L’anno successivo Niccolò Gessa acquistò castello e territorio con diritto di riscatto che fu esercitato nell’aprile dei 1519. Nell’atto conseguente al riscatto, Siliqua, chiamata Silico, risulta popolata così come il castello di Acquafredda. Nel 1593, il villaggio di Siliqua contava 587 anime, di cui 323 erano uomini e 264 donne.

Estintosi, nel 1597, il ramo principale della famiglia Bellit, iniziò una disputa per il possesso del feudo tra due rami collaterali, Bellit e Gualbes, che si concluse, nel 1600, con la divisione del feudo in due parti: ai Gualbes furono riconosciuti Gioiosaguardia, Palmas, Villaspeciosa e Decimomannu, ai Bellit Monastir, Nuraminis ed Acquafredda.

Nell’ambito della riorganizzazione amministrativa dell’isola in città regie, baronie e incon-trade attuata dagli aragonesi, Acquafredda risulta essere una baronia, cioè un territorio dato “in concessione puramente e strettamente feudale”6 come attestato nella relazione che Martin Carrilo, visitatore generale del regno, inviò al sovrano nel 1611.

Estintosi anche il ramo collaterale dei Bellit, il feudo fu nuovamente riunito, nel 1616, nelle mani di Ludovico Gualbes. Egli nel 1630 ottenne la trasformazione del feudo in allodio, fatto che permetteva, tra l’altro, anche alle donne la possibilità di ereditare i possedimenti paterni.

Morto senza eredi Ludovico Gualbes, il feudo passò alla sorella Elena, moglie di Antonio Bron-do marchese di Villacidro, e da lei al figlio Francesco Lussorio e in seguito al nipote Felice. Questo, morto in giovane età, lasciò erede la figlia Maria Ludovica che rimase proprietaria del patrimonio fino al 1730.

Per capire come fosse Siliqua in questo periodi si possono leggere alcune note, scritte dal parroco Raimondo Aresti nel 1923 sulla base di alcuni documenti in suo possesso: “Il villaggio era composto del vicinato di serra de is Cinus (1684), detto anche de sa turri ove esistono tuttora le tracce d’una fortezza, forse dimora del Barone: Siliqua, infatti, era una Baronia (1621); il vicinato de susu, attraversato dal cammino reale che poi fu detto bia manna e ultimamente stradoni, il quale nel 1847 occupò lo spazio di caseggiati che furono a tal scopo distrutti; il vicinato di mesu idda pure attraver-sato dallo stradone e che aveva da un lato il vicinato di Sant’Antonio (e dietro questo quello di San Giorgio, separato dal vicinato serra de is Cinus per mezzo di quello di Sant’Anna) e dall’altro su bixi-nau de is topis così detto per le persone (1679) di questo cognome che vi abitavano. Lungo il fiume vi era su bixinau de flumini e forse era lo stesso de arriba. Più giù vi era il vicinato de basciu detto

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anche di San Sebastiano. Nel 1761 si parla dell’orto di Zinnigas; nel 1704 vi era una carbonizzazione in bau forru; nel 1768 c’era un forno in tegole impopolato, presso il fiume; e de sa cracchera di Zinni-gas si parla anche nel 1767. Del monte granatico si fa cenno anche nel 1748. Tra gli impiegati d’allora sono da notare l’ufficiale del marchesato di Palmas, delegato in persona di Maurino Pintus (1673):il magnifico Mayor y Jener; il magnifico ufficiale di Baronia (1644); messo e corredore pubblico (1686); sul 1698 si parla anche della curia maggiore del marchesato cui pare fosse stata deferita una causa di molta importanza. Il marchese di Palmas aveva casa in Siliqua (1669) presso Sant’Antonio e non lontano dalla casa comunale che in tempi moderni (1894) fu acquistata e che prima era di Francesco Pasfier. […] pur tuttavia aveva le opere dei suoi illustri scultori Antioco Diana che lavorò anche nel-l’altare di Sant’Anna (1775) e Raimondo Diana che nel 1881 abbellì molte statue”.

Dai Savoia a oggi

La Sardegna, alla morte del re di Spagna Carlo Il, avvenuta nel 1700 senza lasciare eredi diretti, fu coinvolta nella cosiddetta guerra di successione spagnola (1701-1714). Il sovrano aveva, in punto di morte, designato come suo successore Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV di Francia. L’unione delle corone di Francia e Spagna costituiva un grande pericolo per l’Europa. Austria, Prussia, In-ghilterra, Portogallo, Olanda e Ducato di Savoia si allearono per scongiurarla dando inizio ad una guerra che cambiò la geografia dell’Europa.

Terminata con le due paci di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714), la guerra costò alla Spagna la perdita dei possedimenti nei Paesi Bassi e in Italia, compresa la Sardegna, che passarono all’Austria. La Sicilia passò invece ai Savoia.

La dominazione austriaca in Sardegna durò fino al 1718, quando l’isola fu assegnata ai Savoia a condizione che vi mantenessero i privilegi concessi dai governi precedenti e, soprattutto, che non ne modificassero l’assetto politico-istituzionale. La Sardegna, per questo motivo, conservò inalterato l’apparato amministrativo spagnolo fino a quando, nel 1848, fu realizzata la fusione perfetta con gli altri possedimenti dei Savoia.

Con i Savoia il Regnum Sardiniae acquisì la summa potestas cioè il diritto di stipulare trattati internazionali.

Le principali riforme attuate in politica interna che maggiormente incisero sulla storia di Siliqua furono l’abolizione del feudalesimo, l’istituzione del monte frumentario e la creazione dei consigli di comunità.

Siliqua e il suo territorio erano, all’epoca, proprietà di Cristoforo, figlio di Maria Ludovica Brondo-Crespi, al quale successe prima Giuseppe (morto nel 1755, senza eredi) poi il fratello Cristo-foro. Il passaggio fu contestato dal fisco che pretendeva la restituzione dei territori al re. La disputa si concluse quando Vittorio Amedeo III, con diploma datato Moncalieri 29 novembre 1785, riconobbe a Gioacchino Bou Crespi, figlio di Cristoforo, il marchesato di Siliqua compreso il castello di Ac-quafredda. In questo documento, per la prima volta, si fa riferimento al castello indicandolo come distrutto.

Una interessante cartina del 1794 illustra la posizione del paese in quell’epoca.Alla fine del Settecento, Siliqua aveva circa 1300 abitanti. Da un atto amministrativo del 10

marzo 1798 risulta che il centro abitato era sviluppato soprattutto intorno alle chiese di Sant’Anna e Sant’Antonio, ovvero nelle zone più elevate, vista la mancanza di protezione delle zone basse dalle piene del Cixerri.

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Il feudo di Siliqua rimase in possesso degli eredi di Gioacchino fino al 22 ottobre 1838, quando fu riscattato dai Savoia per la somma di 1411 lire.

Riscattare i feudi era parte integrante della politica sabauda di abolizione del feudalesimo voluta da Carlo Alberto e avviata con la Carta reale del 12 maggio 1838. A questo sovrano si deve inoltre l’unificazione, dal punto di vista amministrativo e legislativo, della Sardegna con i Regi Stati di Terraferma avvenuta il 12 maggio 1847. Ciò determinò la fine del Regno di Sardegna e la nascita del primo nucleo del futuro Stato nazionale unitario che si sarebbe costituito nel 1861. L’assetto am-ministrativo della Sardegna fu modificato con il decreto del 12 agosto 1848 in base al quale essa fu ripartita in tre divisioni: Cagliari, Sassari e Nuoro, a loro volta suddivise in province.

Siliqua, come riferisce lo storico Angius, faceva parte della “divisione e provincia di Cagliari, compreso nel mandamento di Villamassargia, sotto il tribunale di prima istanza di Cagliari”7.

Si deve ai Piemontesi la riforma dei Monti granatici, che risalivano al 1650 circa. Istituzione spagnola caduta in disuso, fu ripresa e potenziata nel 1767dai Savoia che la imposero in ogni villa e villaggio quale struttura di soccorso contro la pratica dell’usura. I monti granatici assunsero un ca-rattere cooperativistico poiché i contadini concorrevano alla sua dotazione con le roadie, prestazioni di lavoro gratuire. Essi ebbero una certa prosperità finché il governo cominciò ad utilizzarne i fondi per altri fini. L’edificio del monte granatico di Siliqua risale a quel periodo.

Sicuramente più incisiva fu la riforma deI Consiglio di Comunità. Organo amministrativo isti-tuito dal ministro Bogino con l’editto del 24 settembre 1771 durante il regno di Carlo Emanuele III, aveva lo scopo principale di porre un limite al potere baronale e di meglio rappresentare la comunità nei rapporti con il governo.

L’editto stabiliva che in ogni villa con almeno 40 fuochi, cioè famiglie, si costituisse un Con-siglio di Comunità. I membri, eletti dai capifamiglia, erano i rappresentanti di tutta la popolazione divisa, in base al censo, in tre ordini sociali: primo, mezzano, infimo.

Appartenevano al primo ordine i cosiddetti prinzipales cioè i nobili, i cavalieri, gli ufficiali di giustizia, i ricchi pro-prietari e gli ufficiali delle truppe miliziane. Al secondo appartene-vano i produttori che possedevano almeno un giogo di buoi e coltiva-vano un certo numero di starelli di terra. Al terzo, infine, appartenevano i meno abbienti e i nulla-tenenti. Il Sindaco rima-neva in carica un anno e proveniva, a turno, da ognuna delle tre classi: il primo anno assumeva la carica il più votato del

primo ordine, il secondo anno il consigliere più votato del mezzano, l’ultimo anno il più votato dell’infimo.

“Le competenze del Consiglio erano assai ampie e andavano dalla ripartizione delle imposte alla amministrazione e tutela dei beni comunali, al controllo sulla esecuzione dei comandamenti personali, alla esazione delle quote del donativo, alla esecuzione di opere pubbliche, alla assegnazio-ne dei lotti nelle vidazzoni, alla pubblicazione dei ruoli di imposta, alla tenuta dell’archivio”8.

A Siliqua il Consiglio di Comunità, nonostante la maggior parte dei consiglieri fosse illetterata e rimanessero in vigore fino al 1848 i diritti feudali, più volte riuscì ad arginare le ingerenze dei nobili ed a far valere i diritti della popolazione.

Siliqua nell’ottocento

A Vittorio Angius si deve una dettagliata analisi del paese sotto il profilo sociale ed economico nella seconda metà dell’Ottocento. La popolazione secondo il censimento del 1846 risultava essere composta da “anime 1937, distribuite in famiglie 479 e in case 426. […] La scuola primaria restò chiu-sa alcuni anni perché non si avea maestro, e quando fu aperta appena era frequentata da 15 fanciulli i quali profittavano nulla. In tutto il paese il numero delle persone che san leggere e scrivere forse non oltrepassa i 40. Le donne lavorano ne’ telai, e se ne hanno di questi non meno di 420, ne’ quali si tesse la lana e il lino per servigio delle famiglie.” 9

La maggior parte degli uomini erano impie-gati in attività agricole, circa 560 persone; 170 nella pastorizia; altre 70 svolgevano mestieri vari, mentre 15 erano i commercianti.

La maggior parte dei terreni era concentrata nelle mani di pochi proprietarius, i proprietari, circa 20, alle cui dipendenze lavoravano a giornata 120 famiglie; il resto delle terre era frazionato tra i mes-saius, piccoli proprietari terrieri.

Questi rapporti sociali rimasero di fatto cristal-lizzati sino alla prima metà del novecento. Ad una classe di latifondisti, costituita da poche famiglie, si contrappose sempre una moltitudine di lavoratori a giornata o piccolissimi proprietari. Is proprietarius, accontentandosi di una ricchezza misera, non sfrut-tarono mai adeguatamente il patrimonio che posse-devano, né introdussero nei loro terreni innovazioni tecniche per aumentarne la produttività.

Ulteriori informazioni che consentono di com-pletare il quadro della la vita del paese e dei suoi abitanti provengono dalle delibere del Consiglio di Comunità di Siliqua, conservate nel Fondo della se-greteria di Stato.

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Agricoltori contro pastori

Nel 1847 si verificarono a Siliqua alcuni fatti che, ad un’attenta lettura, permettono di intuire quali fossero i rapporti sociali all’interno della comunità.

Gli abitanti del paese erano dediti prevalentemente all’agricoltura e all’allevamento, attività, allora, in opposizione in quanto sfruttavano gli stessi terreni. Circa la metà del vidazzone, cioè dei terreni più vicini al paese, era annualmente destinata alla coltivazione (principalmente a grano). Le parti restanti, i vacui, chiamati anche paberile (poboribi), erano destinate al riposo (pasiu) o alla coltivazione delle leguminose e del foraggio. In casi particolari il Comune appaltava, previa auto-rizzazione del Governo, i vacui ai pastori. I ricavi ottenuti erano utilizzati per la realizzazione delle opere pubbliche.

L’appalto dei vacui era fonte di continue liti tra agricoltori e pastori perché, immancabilmente, non cogliendo le pecore e le vacche la distinzione tra vacuo e vidazzone, e trovando in quest’ultima buon cibo, distruggevano le coltivazioni.

In tale quadro si innesta la vicenda che ora si racconta. II 12 aprile 1847, l’intendente denunciò che un gruppo di pastori, armati di pertiche, si recò dal

sindaco Melis e dal segretario Basso, per costringerli con la forza a riunire il Consiglio Comunitativo affinché deliberasse l’appalto dei vacui per il pascolo. L’avvocato fiscale chiese, ed ottenne, l’arresto dei rivoltosi, in particolare tale Raffaele Cadeddu, loro presunto capo. Fece rilevare che l’atto d’ap-palto era da considerarsi non valido perché ottenuto con la violenza e per l’assenza dl numero legale dei consiglieri.

Poco tempo dopo, l’ufficiale fiscale, il generale di S.M. Murialdo, chiese clemenza al governo, esponendo che i rivoltosi, non appena il brigadiere dei cavalleggeri lo ordinò, si erano ritirati. Fece, inoltre, rilevare che gli imputati avevano già scontato la pena.

Il 30 aprile 1847 il viceré comunicò il condono. Nella stessa data, il sindaco Melis, il consigliere Giuseppe Matta e il pecoraio Raffaele Cadeddu scrissero al viceré affermando che non vi era stata nessuna rivolta né violenza. Spiegarono che il consiglio comunitativo, in modo non unanime, aveva deciso di non appaltare i vacui, nonostante negli anni precedenti non vi fossero stati danni al semi-nato e che la penuria di terreni da pascolo, e la conseguente diminuzione della produzione del latte, aveva provocato, nel paese, una grave crisi. In quegli anni molti poveri del paese erano stati assunti per la costruzione della strada provinciale Cagliari-lglesias (l’attuale corso Repubblica) , ad eccezio-ne di quelli che per problemi fisici non potevano lavorare. Questi sopravvivevano grazie agli aiuti dei pastori che donavano loro latte e ricotta.

Melis, Matta e Cadeddu affermarono che non appaltare i terreni per il pascolo equivaleva ad affamare la popolazione e che la manifestazione dell’undici aprile era stata fatta dai poveri, “veri e propri scheletri ambulanti, a causa della fame”. Essi sostennero che il segretario Celestino Basso, contrario all’appalto, aveva denunciato la presunta manifestazione per mettere in cattiva luce il sin-daco e comandare al suo posto.

Non si conoscono gli sviluppo ulteriori della situazione.

Rivolte della popolazione

La storia del paese degli ultimi duecento anni ha visto numerose rivolte della popolazione.

Il 12 agosto 1847, il Consiglio di Comunità chiese al viceré l’autorizzazione al taglio delle selve demaniali per poter aiutare i poveri con la vedita del legname non solo ai siliquesi ma anche agli altri paesi del Campidano. La lettera con cui il viceré negava l’autorizzazione, arrivò una settimana dopo: il diniego era motivato con il rischio che il taglio dei boschi poteva provocare la discesa rovi-nosa a valle delle le acque piovane e il dissesto delle montagne. Chiese di essere informato nel caso si verificassero disordini.

E infatti, la popolazione scese immediatamente in strada per protestare contro il diniego al ta-glio dei boschi. La manifestazione fu l’occasione, inoltre, per contestare il chirurgo locale, in quanto impediva agli abitanti di servirsi dei flebotomi per i salassi, e per invocare il diritto a farsi salassare da chi si voleva. La manifestazione fu prontamente sedata.

Altre cause di proteste popolari furono i prezzi della carne in vendita nel piccolo mercato co-munale detto Is pangas che sorgeva a lato dell’attuale sede del Banco di Sardegna. In più occasioni furono contestati, inoltre, gli accordi tra i beccai per tenerne alti i prezzi.

Rivolta memorabile fu quella del 1896 contro il parroco Giovanni Battista Locci cacciato dal paese sul dorso di un asino con l’accusa di aver sedotto e ingravidato una giovane. La vicenda si concluse con il processo che scagionò il prete e impose il pagamento di una multa agli accusatori.

La sua storia è narrata da Alberto Cocco Ortu nell’articolo pubblicato in L’altro giornale del 2 novembre 1982:

“Un clamoroso processo alla fine del secolo

1896: il parroco di Siliqua scacciato per libertinaggio

Assalito dai compaesani con urla e fischi Il Sindaco disse:”Giudizio, ragazzi: fischiate, gridate ma non trascendete”

La sentenza di condanna per i manifestanti.”

“Novembre 1896, il parroco di Siliqua viene duramente contestato, per la sua poco corretta condotta morale, e costretto a scappare dalla popolazione del paese. Per questi fatti, il 10 Gennaio del 1898, venne celebrato un processo nel Tribunale di Cagliari contro 16 persone che avrebbero usato, nei confronti del prete Locci, violenze e minacce per obbligarlo ad abbandonare il paese, «conse-guendo pienamente l’intento» .

La corte era presieduta dal dottor Lay Martis, il Pubblico Ministero era il dottor Piredda, la parte civile era rappresentata dagli avvocati Sanjust, Carboni Boy e Piga, mentre difensori erano gli avvocati Congiu, Fara, Campus Serra, Cau, Scano e Cardia. I testimoni, a favore sia dell’accusa che della difesa, erano moltissimi.

Si cominciò come consuetudine, con l’interrogatorio degli imputati. La maggior parte di loro affermò di non aver preso parte alla manifestazione contro Locci. Qualcuno, però, vedendo «tutta

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la fiumana della popolazione» che dimostrava con grida e fischi, «ha gridato e fischiato anch’egli, come facevano gli altri». Altri imputati negarono di aver preso parte alla manifestazione, «però non sarebbero stati malcontenti della dimostrazione».

«Tutti i deponenti spiegavano la ragione del rancore della popolazione contro il Locci, moti-vata dalla poca moralità del medesimo». A sua volta, il parroco disse di essere vittima di una con-giura che andava avanti sin dal 1893. Secondo il prete, i compaesani quasi lo assalirono, urlando e fischiando, mentre si recava a celebrare le messe. Anche durante le funzioni non smettevano mai di rumoreggiare. Raccontò che anche il sindaco lo invitò a partire al più presto dal paese. «Tutti gli im-putati, secondo il reverendo, o prima o dopo, avrebbero preso parte alla dimostrazione». Concluse le deposizioni delle parti in causa, venne iniziato l’esame delle testimonianze a carico. Durante una di queste risultò che il sindaco disse: «Deu bollu bogai su preri, poita sa popolazioni non ddu bolit».

Tutti i testimoni raccontarono vari episodi dell’intera dimostrazione. «All’apparire del Locci - avrebbero detto alcuni manifestanti - bisogna fischiare». Una donna affermò di avere sentito con certezza il sindaco che diceva ai dimostranti: «giudizio, ragazzi, fischiate gridate, ma non trascen-dete». Pare addirittura, che alcuni cittadini di Siliqua avessero scritto al Pontefice per ottenere il trasferimento del parroco.

La deposizione del Sindaco di Siliqua, Giuseppe Puxeddu Lay, fu seguita con grande attenzio-ne, perché fu chiamato in causa parecchie volte. Spiegò come il prete non fosse mai stato gradito alla cittadinanza, tant’è vero che, dietro richiesta dello stesso, fu trasferito per qualche anno in un altro paese, ma tornò generando il malcontento di tutti i concittadini.

Per questo Puxeddu Lay si sentì in dovere di avvertirlo. «Badi che il popolo è seccato - gli disse - sia giudice lei stesso». Il primo cittadino di Siliqua concluse dicendo che, per la troppa confusione, non era in grado di dire con certezza chi potesse aver preso parte alla dimostrazione. Tra le testimo-nianze a favore della difesa destò un certo scalpore quella del notaio Francesco Bachis. Disse che cer-tamente la rimostranza contro il prete non fu organizzata ma nacque «spontanea dall’indignazione popolare», quando osò celebrare la messa in quella chiesa, che, «secondo la voce, era stata profanata da lui». Infatti, secondo il notaio, una giovane donna si recò nel suo studio e gli disse che, costretta dal bisogno, aveva ceduto alle voglie del prete. La donna, già madre, era rimasta incinta ma Locci si rifiutò di aiutarla e anzi, inventò un falso fidanzato della ragazza. Sembra che questo fosse un ragazzo che si era trasferito da giovane a Cagliari e non avesse più rimesso piede a Siliqua. Questo fatto insospettì l’incredulo Bachis che volle scoprire se la giovane lo aveva ingannato. Pare che altre persone gli avessero confermato tutta la storia.

Questa deposizione mandò su tutte le furie il prete che non esitò a ribattere tutte le accuse. Altri testimoni, comunque, confermarono la troppa gentilezza di Locci nei confronti di parecchie ragazze del paese. Il 15 gennaio 1898 ebbe termine il processo. «La discussione tanto da parte del-l’accusa Pubblico Ministero Piredda, avvocati Sanjust e Carboni Boy, quanto da parte della difesa brillante, dotta e stringente sostenuta dagli avvocati Cau, Cardia, Campus Serra, Scano e Fara, fu ampia ed esauriente».

Dopo una lunga seduta in camera di consiglio la Corte emise un verdetto contrario alle aspet-tative. Tra i numerosi imputati, Edoardo Piroddi, Francesco Porru, Giovanni Matta, Angelo Bachis Schirru, Giuseppe Loi, Salvator Angelo Casula e Francesco Lai furono condannati a trenta mesi di reclusione e a 250 lire di multa. Per gli altri fu emessa una sentenza assolutoria come, del resto, ci si aspettava per tutti.”

Qualche anno dopo, il 20 giugno 1901, il Locci spedì da Selegas una lettera al Vicario capitolare:

Mons. Vicario Capitolare, ad amanti di poche parole ne dirò pochissime, e sono queste: se un altro dei miei colleghi

fosse stato calunniato al par di me, o contro di lui si fossero scagliati tanti falsi testimoni e si fossero commesse altrettante ingiustizie, a quest’ora, ne stia certo, avrebbero appeso la sottana ad un fico e sarebbero all’ospedale. Io ho sofferto rassegnato tutte quante le disgrazie, ma posso dire che quando risulterà la verità, la diocesi di Cagliari non avrà di me neppure le ossa!

Sicuramente non l’aveva presa bene. Chissà se risale a quei tempi la leggenda della maledizio-ne dei preti, secondo la quale per cento anni nessun siliquese avrebbe preso i voti.

Rapporti con i paesi confinanti

II permanere delle consuetudini feudali e l’incertezza dei confini amministrativi furono causa di continue liti tra Siliqua e i paesi confinanti. Ussana, per esempio, aveva il diritto di legnatico su tutto il territorio di Siliqua, mentre i salti di San Giovanni Saruis e di Sebatzus erano contesi dai pa-stori di Siliqua, Decimomannu, Villaspeciosa e Domusnovas.

A tal proposito il Consiglio di Comunità fece numerosi ricorsi al magistrato, al Reggidore di Villacidro e alla Regia segreteria di Stato di Cagliari.

II decreto del 1829 stabilì quanto segue: Decimo e Villaspeciosa potevano usufruire del Salto di San Giovanni Saruis purché il bestiame non danneggiasse le coltivazioni dei siliquesi. Nel 1832, non essendosi ancora conclusa la disputa, si chiese la nomina di periti che con dovuti sopralluoghi aumentassero all’interno del vidazzone, la parte destinata al pascolo e che stabilissero poi l’ammon-tare del risarcimento per i danni causati ai seminati.

I nuovi confini delle tre comunità furono stabiliti nel 1841: Siliqua perse metà del territorio in questione che fu suddiviso tra gli altri due comuni. La comunità di Siliqua intentò, pertanto, una causa civile accollandosi tutte le spese del procedimento giudiziario.

La planimetria del territorio fu ridisegnata, nel 1843, dall’ingegner Varoni che, nel delimitare il salto di San Giovanni Saruis, ricalcò gli antichi confini tra Siliqua, Villas-peciosa e Decimomannu. La planimetria, accettata in un primo momento, fu rimodificata, nel 1845, dall’ingegner Amoretti.

Siliqua perse più di 700 starelli di terreno agricolo.

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Brigantaggio

Anche a Siliqua si ebbero diverse manifestazioni di brigantaggio e incursioni di bande di fuori-legge. Un caso riportato negli atti dei consigli di comunità è quello dell’undici luglio del 1844, quan-do un gruppo di sfaccendati di Siliqua andò in giro a rubare, sradicare alberi, violare domicili. Nulla poterono i barracelli10, le guardie addette alla tutela della proprietà agricola, disperati per i danni causati. Nessuno, infatti, per paura di ritorsioni li denunciò: a Siliqua, infatti, era molto difficile sta-bilire l’autore di un delitto per l’omertà che vi regnava. Il sindaco chiese la nomina di un delegato del regio consiglio, nella persona di Giuseppe Maria Cara, che si assumesse il compito di ripristinare l’ordine pubblico, essendo la banda costituita da pochi elementi conosciuti.

Famosissimo brigante fu il reverendo Serapio Bachis, parroco di Siliqua che a capo di una banda di criminali, assaliva le diligenze, depredandole e uccidendone i passeggeri. Catturato e pro-cessato, fu prima condannato a morte, poi, dopo l’intervento della curia, la pena gli fu commutata nel carcere a vita.

Egli divenne così famoso per le sue scorribande da essere citato in Il Cinghiale del Diavolo di Emilio Lussu: “Non esistono oggi in Sardegna bande di briganti permanentemente raccolti ed organicamente inquadrati, con un capo e dei gregari, come per anni è stata in Sicilia la banda di Giuliano. Tali bande che hanno con alterne vicende operato per secoli, sono scomparse, prima della fine del secolo scorso. Fra le più meritevoli di speciale ricordo, quella che aveva come capitano il reverendo Bachis, parroco di Siliqua, uomo di cultura e di guerra che si ispirava ai Maccabei, che fra una messa e l’altra, grazie ad un servizio d’informazioni che augurerei al questore di Nuoro, attac-cava le diligenze ad hoc, quelle dei notabili, depredando ed assassinando inesorabilmente, esempio ai suoi, primo sempre ad entrare in combattimento, ultimo ad uscirne. Catturato mentre officiava una messa cantata, i tribunali ecclesiastici di allora si opposero con tutta la loro autorità a che fosse giudicato dalla magistratura ordinaria ed impiccato, e finì i suoi giorni di ben meritata vecchiaia in un convento, dicono i cronisti dell’epoca, in odore di santità.” 11

Una versione della storia senz’altro più attendibile, è quella riportata da Alberto Cossu nella sua Storia militare di Cagliari: “Il sacerdote Serapio Bachis di Siliqua, unitosi ad una squadriglia di malfattori, il 14 aprile 1844 concorse personalmente all’omicidio con depredazione del cagliaritano D. Pietro Misorro, al quale vibrò il primo colpo micidiale. Con tal crimine il prete coprì di vergogna il clero e scandalizzò oltremodo i fedeli. I suoi complici furono giustiziati. Il Bachis fu rinchiuso nella segreta detta di S. Macario delle R. Carceri di S. Pancrazio. Con sentenza 7 gennaio 1846 il Supremo Magistrato della R. Udienza condannò a morte il prete assassino. Tale giudizio fu comunicato al-l’Arcivescovo ma questi ne contestò la validità e si richiamò all’articolo 3° del Concordato 27 marzo 1841. La resistenza del Clero inasprì la pubblica coscienza dell’Isola essendosi visti giustiziati i com-plici del prete ed essendo sorto il sospetto che l’assassino senza altra sentenza verrebbe semplice-mente confinato in terraferma. Per ordine di Carlo Alberto il Bachis fu imbarcato il 24 settembre 1846 nottetempo per impedire che venisse linciato dalla popolazione e trasferito alla più sicura fortezza di Fenestrelle (a pochi chilometri da Torino, tuttora visitabile). Là fu rinchiuso, solo, nella fetente camera detta “Stanza del Diavolo” e tenuto senza colloquio. Si fece luogo alla Commissione di 6 Vescovi, contemplata nell’Art. 3° del suddetto Concordato, per l’esame delle osservazioni fatte dal-l’Arcivescovo di Cagliari sulla condanna capitale: l’8 gennaio 1847 il viceré inviò a Torino il rapporto della Commissione dei Vescovi. Il Sovrano, rilevate, apprezzate e gradite le considerazioni contenu-te nel rapporto, con Regie Patenti 11 marzo 1847 commutò la pena di morte nella detenzione a vita.

L’immunità ecclesiastica era salva!! L’assassino, che già aveva tentato il suicidio, nel 1849 perdette schifosamente la vita in quelle fogne, nelle quali si rinvenne il suo cadavere”.12

La tanca di Berlingheri

La tanca di Berlingheri faceva parte nel XVII secolo del feudo del marchese di Villacidro e Pal-mas. Era un saltus, un terreno in cui le comunità del luogo potevano esercitare i diritti detti di adem-privio, cioè il pascolo, la spigolatura, la raccolta della legna. Tali diritti potevano essere esercitati sui terreni privati dopo il raccolto e rimasero in vigore fino al 1865.

II salto di Berlingheri cessò di essere, nel 1840, una concessione feudale e divenne proprietà del comune di Siliqua. Nel 1873, l’ingegnere inglese Charles Davies lo acquistò insieme ad altri terreni ex ademprivili in località Tanca Aru e Fundali de Frongia. Ma a causa dell’opposizione degli eredi del marchese Pes di San Vittorio, che ne rivendicavano par-te delle proprietà, l’acquisto fu definito solo nel 1886. L’in-gegnere pagò Berlin-gheri 150.000 lire.

Davies ne fece un’azienda model-lo, l’unica nel paese chiusa con muretti a secco, sperimen-tando l’allevamento dei bufali e usando tecniche di irriga-zione che gli valsero un premio nazionale.

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Egli è rimasto nella memoria popolare per i suoi muli molto più grandi rispetto a quelli sardi. Anco-ra oggi, infatti, si usa l’espressione “mannu e tontu che su mullu ‘e Devis” per indicare una persona robusta e poco intelligente.

Nel 1901, a causa dei debiti contratti con le banche, il salto fu sequestrato e rivenduto, per saldare i debiti, all’ingegnere belga Alfonso Warzee per la somma di 140.000 lire. Egli lo tenne, am-pliandolo, fino al 1910, quando lo rivendette per 160.000 lire a due famiglie di Gavoi.

Nel gennaio del 1947 Berlingheri fu teatro di una delle maggiori manifestazioni sindacali della Sardegna meridionale. I 350 operai, provenienti anche dal comune di Vallermosa, inviarono all’al-lora ministro Segni un telegramma di protesta per la mancata concessione di alcune terre che erano state richieste. Chiedevano anche, con la minaccia dell’occupazione dei terreni, che fosse mandato un ispettore ministeriale.

Oggi la tanca di Berlingheri è divisa tra varie aziende agricole.

Opere pubbliche

Il ponte

Fino ai primi anni del ‘900, gli abitanti di Siliqua prelevavano l’acqua potabile da una sorgente, sa Mitza, a sud dell’abitato, oltre il fiume Cixerri. Essa, secondo il Casalis, “somministra abbastanza al bisogno della popolazione, né mancò giammai.”13 Per raggiungerla si adoperava un ponte di pre-

caria fattura e le donne cadevano in acqua nell’attraversarlo. Su ponti ‘e sa Mitza era, inoltre, l’unico che permetteva anche ai fo-restieri di raggiungere l’altra riva del Cixer-ri. Esso crollò e fu riedificato varie volte.

In un documento del 26 agosto 1847, indirizzato alla Segreteria di Stato, il Con-siglio Comunitativo chiese al viceré la ri-costruzione del ponte, caduto nell’inverno precedente. Il consiglio fece fare una stima a muratori locali, che ipotizzarono una spesa di circa 1420 lire. L’intendente non ne accettò il preventivo né affidò loro l’incarico della costruzione. Secondo il suo parere, sa-

rebbe stato opportuno far intervenire un ingegnere tra quelli che lavoravano alla costruzione della strada Cagliari-lglesias.

Il progetto non si realizzò forse perché, a causa del clima umido, malsano e malarico di Siliqua in quel periodo dell’anno, nessun ingegnere era disposto ad accettare l’incarico.

In attesa di un parere favorevole, il Consiglio chiese, per consentire l’attraversamento del fiu-me, di procurare una barca da Serramanna. Il 27 settembre 1847 il viceré negò l’autorizzazione alla spesa per il ponte e ordinò che si provvedesse con la barca da Serramanna. A questa decisione si oppose l’Intendente provinciale Maury: “L’ipotesi della barca non è fattibile perché, vista la grande

corrente sul posto, come constatato, andrebbe a sbattere sulle rocce”. Poiché il ponte era necessario a tutti i paesi del circondario, propose che si costruisse con il concorso degli altri paesi.

L’idea della barca fu abbandonata quando, il 9 dicembre 1847, l’ingegnere Reggente Boccino diede parere favorevole alla costruzione del ponte.

L’autorizzazione definitiva della costruzione fu concessa il 21 dicembre 1847.

Il cimitero

Anticamente il cimitero di Siliqua era situato a fianco alla chiesa parrocchiale. Secondo l’inven-tario delle chiese di Siliqua, redatto nel 1761 per ordine dell’Arcivescovo di Cagliari Tomaso Igna-zio Maria Natta, aveva due ingressi ed era chiuso da un alto muro in pietra, privo di alberi e di fontana, con in mezzo una croce. Fu utilizzato fino al novembre 1867.

Già dal 1850 il Consiglio Comunale pensava di costruirne uno nuovo al di fuori del centro abitato, vicino alla chiesa di San Giuseppe (tra le attuali vie Iglesias e Gior-dano Bruno). Poiché il terreno individuato era roccioso, si decise, infine, di costruirlo nel terreno offerto da tale Giuseppe Matta. Ancora oggi il cimitero è definito dai sili-quesi “sa pratza ‘e Peppi Matta”.

Alla fine dell’ottocento, Gustavo Strafforello, nel suo libro Geografia dell’Italia, affermava che, dopo quello di Cagliari, il camposanto di Siliqua era il migliore della provincia. Tuttavia nel 1902 era in totale stato di abbandono. Per questo motivo, nello stesso anno, fu ristrutturato e, su proposta del consigliere Piroddi, furono piantati i cipressi che ancora lo adornano.

L’acquedotto

La risoluzione del problema della disponibilità d’acqua potabile fu sempre un obiettivo delle amministrazioni comunali nel XIX secolo.

Il 20 giugno 1882 il Consiglio Comunitativo, su proposta del sindaco don Salvatore Cardia, decise di rivolgere istanza al gover-no perché finanziasse un terzo della quota necessaria alla costruzione di un acquedotto comunale. Il sindaco giustificò tale richiesta con l’insuffi-cienza dei mezzi pecuniari. Il Comu-ne, infatti, in quegli anni aveva speso ingenti somme per i locali scolastici, l’ampliamento del Monte Granatico, il selciamento delle strade, il restauro

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dei ponti, l’acquisto di un locale destinato a sede comunale e pretorile, la costruzione “di un bellis-simo, ampio e moderno cimitero, per la distruzione di oltre 8000 ettolitri di cavallette, per domare il fatale morbo asiatico dal quale furono questi Comunisti invasi in modo orribile nel 1867”. L’elenco delle opere compiute continua con la rettifica del catasto dei beni rurali, con l’elenco delle spese per mantenere tre classi di scuole elementari, per il ristauro della chiesa Parrocchiale, che minacciava rovina, per la rinnovazione dell’organo, acquisto di una campana.

II sindaco, inizialmente, diede l’incarico all’ingegnere Charles Davies affinché calcolasse la spesa necessaria. Egli pensò di convogliare l’acqua dal rio Marchioni, a nord dell’abitato che, analiz-zata, era risultata ottima. Dallo studio effettuato risultò una spesa di circa 140.000 lire, che si pensava di effettuare per un quarto con il concorso della Provincia (che aveva gia stanziato i fondi) e per un quarto del Governo.

AI Comune il progetto non piacque sia perché il rio Marchioni d’estate era in secca sia perché l’acquedotto attraversava i terreni che Davies possedeva in Berlingheri. Ciò fece sospettare che la localizzazione della presa dell’acquedotto fosse stata scelta per interesse privato. II progetto non si realizzò e ne nacque una lunga vicenda giudiziaria.

Nel 1897 si diede l’incarico all’ingegner Ravot, ma anche questa volta i lavori non furono at-tuati.

Solo dieci anni dopo, fu approvato il progetto esecutivo, redatto dall’ingegner Torchioni, per un importo di 122.000 lire, finanziate con mutuo della Cassa depositi e prestiti.

I lavori ebbero termine nel 1911, sotto la direzione di Dionigi Scano, con la captazione delle acque della zona Gutturu Launeddas, ai piedi della odierna diga di Medau Zirimilis.

Siliqua nel novecento

L’attività del Consiglio di Comunità non sempre perseguì il bene della popolazione né operò in modo efficiente; fu proprio a causa del malgoverno dell’amministrazione in carica che nel 1902 Siliqua fu commissariata.

Con un decreto datato 1 dicembre 1901, a causa di un caos indescrivibile nelle diverse bran-che dell’amministrazione per cui tutti i pubblici servizi erano tenuti con riprovevole noncuranza, fu sciolta l’amministrazione comunale di Siliqua e al suo posto fu nominato un regio commissario straordinario nella persona del Cavaliere Evaristo Locci.

Le informazioni relative a questo avvenimento sono tratte dalla Relazione sulla amministra-zione comunale di Siliqua, redatta dallo stesso regio commissario, presentata al Consiglio Comunale nell’adunanza del 3 aprile 1902.

Egli denunciò l’incuria degli amministratori precedenti nel gestire gli affari del comune sot-tolineando che erano improntati al più schifoso egoismo. Si trovò a dover riorganizzare quasi ogni aspetto della vita comunale ed a porre rimedio agli errori e alla trascuratezza della precedente ge-stione.

Trovò l’archivio nel più completo disordine; mancavano alcuni registri, come quello della popolazione; altri, come quello sull’abigeato, erano incompleti. Non esistevano gli inventari che accertassero la consistenza del patrimonio comunale ed i documenti catastali che consentissero di indicare i confini della vastissima estensione di foreste per cui il comune si trovò spesso a pagare tasse non dovute. Ad esempio, per 15 anni, aveva corrisposto la somma di 9.000 lire per la tassa sulla ricchezza mobile sui terreni di Zinnigas, Gutturu Maria e Berlingheri, che non gli appartenevano più in quanto erano stati ceduti a privati.

Oltre a ciò si aggiungeva il fatto che non erano sfruttate le fonti di reddito del Comune come la vendita delle ghiande e del sughero. Fattala eseguire, furono ricavate rispettivamente 125 e 18 lire. Inoltre, non erano stati richiesti i rimborsi per le spese mandamentali: “Stante l’abbandono e la trascuratezza della cessata Amministrazione nel non compilare i prospetti di rimborso delle spese Mandamentali”, il regio commissario decise di far redigere i prospetti dal 1894 al 1901 in modo tale che il Comune potesse percepire la non indifferente somma di Lire 5.003,79.

Il Cavalier Locci fu impossibilitato a definire in modo esatto la situazione finanziaria del Co-mune data la mancanza dei documenti e dei dati che avrebbero condotto al-l’accertamento sincero della situazione. Lamentò addirittura la mancanza del registro cassa.

Oltre a riorganizzare la parte am-ministrativa e fiscale, il commissario si occupò anche di migliorare e ristruttu-rare gli edifici pubblici che all’epoca il Comune possedeva: “una casa comu-nale, in cui, oltre agli Uffici, trovasi il Carcere Mandamentale; un fabbricato per le Scuole; un fabbricato per le bec-cherie pubbliche”.

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Per quanto riguarda l’Ufficio Comunale, il Cavaliere, dopo aver sfrattato l’usciere che occu-pava ad uso personale addirittura due stanze dell’edificio, le utilizzò per disporvi la Segreteria e gli Archivi. Fece, inoltre, ampliare e pitturare la sala destinata ad ospitare il Consiglio di Comunità e acquistare i seggi per i consiglieri.

I locali adibiti ad uso scolastico erano in tutto tre: uno ospitava la prima elementare mista, tenuta dalla signorina Grazietta Bidoccu, uno la seconda e terza classe maschile seguita dal maestro Serafino Massa, e l’ultimo la seconda e terza classe femminile, diretta dalla signora Luigia Mignatti. I locali scolastici, tenuti in indecentissimo stato, furono ristrutturati sia dal lato igienico sia sotto ogni altro rapporto e dotati di tutto l’arredamento e materiale scolastico prescritti. Terminati i lavori, l’ispettore Pinna lodò il risultato ottenuto tanto da sostenere che le scuole potevano non soltanto gareggiare ma primeggiare fra le migliori del circondario.

E’ stato possibile individuare dove fossero situati due di questi locali grazie ai ricordi di alcuni abitanti di Siliqua: uno si trovava in via Flavio Gioia 5, l’altro in Corso Repubblica 32.

Questi edifici furono utilizzati fino al 1908 quando fu costruita la prima scuola pubblica, poi denominata “s’asillu becciu”, con una spesa di 40.000 lire.

Nella relazione del regio commissario è menzionato, inoltre, lo stato di abbandono in cui ver-sava il cimitero. “È inumano e non rispondente al culto che si professa ai morti, il permettere che i cadaveri, nella stagione piovosa, nuotino in uno stagno, in cui la parte bassa del cimitero si converte; ed è neppure decente che tanto il porticato che le due camere che vengono appresso siano tenute in uno stato deplorevole, quasi completamente mancanti del tetto. Non esiste camera per le autopsie cadaveriche. La cappella è solo di nome. La polizia del cimitero non si eseguisce mai, giacché il bec-chino [...] è lasciato in balìa di se stesso [...]. Manca un ossario, ed è cosa sconvenientissima vedere le ossa qua e là disperse in quel luogo sacro”.

Dalla relazione del regio commissario, si evince che Siliqua era sede di una Pretura, i cui uffici si trovavano nel Monte Granatico, e di un Carcere Mandamentale.

Anche in questo caso, egli intervenne per riparare agli errori della precedente amministrazio-ne. Licenziò l’addetto, cui era affidato il servizio della fornitura dei viveri per i carcerati, in quanto erano deficienti nella qualità e quantità. Egli fu rimpiazzato cosicché il servizio da allora in poi pro-cedette commendevolmente.

Riguardo allo stato della rete stradale, essa era in completo dissesto: sotto suo suggerimento, il Consiglio deliberò affinché le strade, sia quelle principali sia quelle interne, in modo particolare quella che conduceva alla stazione, fossero liberate dal fango e inghiaiate.

Siliqua era dotata di un servizio sanitario e di un servizio postale proprio, sebbene questi non funzionassero in modo efficiente per svariati motivi.

II servizio sanitario era affidato ad un medico che, essendo malato e anziano, non era in grado di “disimpegnare con quella celerità, molte volte richiesta dalle circostanze che frequentemente si presentano in un centro malarico, come Siliqua [...] le proprie funzioni”. La volontà del commissario di introdurre un armadio farmaceutico non si realizzò sia perché il paese avrebbe voluto una farma-cia, sia perché l’anziano medico non avrebbe potuto distribuire i medicinali in modo appropriato, date le sue condizioni. A tal proposito il commissario fece stanziare, nel bilancio, 600 lire come pre-mio al farmacista che avesse aperto tale esercizio nel comune di Siliqua.

La prima farmacia fu aperta solo nel 1929 dal dottor Ercole Massa.Per quanto riguarda la distribuzione dei medicinali, un trattamento particolare era riservato

ai poveri: il medico rilasciava loro la ricetta con la quale potevano acquistare il medicinale presso le

farmacie dei paesi vicini anticipando la somma necessaria che veniva poi rimborsata dal Comune, dietro presentazione del conto.

Fiore all’occhiello del servizio sanitario era quello ostetrico che procedeva con zelo grazie alla signora Sorga Elisa.

II servizio postale a Siliqua, attivo sin dal 16 agosto 1837, quando fu promulgata la legge che migliorava e ampliava il servizio in tutta la Sardegna sotto il governo di Carlo Alberto, era inefficien-te al massimo. II commissario si fece portavoce al Consiglio di Comunità delle continue lagnanze avanzate dalla popolazione sia sull’inosservanza dell’orario di apertura dell’ufficio, sia per il modo poco riguardoso che il postino aveva, trattando con il pubblico, sia per la nessuna fiducia, fondata o no, nel servizio in generale. Egli stesso poté constatare l’inefficienza del servizio: fu, infatti, smarrita una sua importantissima missiva diretta ad Iglesias. Per tutti questi motivi, egli non riuscì ad istitui-re l’ufficio del telegrafo.

Siliqua aderì il 19 novembre 1903 alla richiesta del comune di Villacidro per il servizio postale automobilistico.

Il Consiglio di Comunità per tutto il periodo precedente la prima guerra mondiale si fece pro-motore della realizzazione di diverse opere di pubblica utilità. Nel 1900 fu realizzata la toponomasti-ca e la numerazione civica; nel 1903 fu istituita la fiera del bestiame e dell’agricoltura, che si teneva

tutte le domeniche nel piazzale del-la chiesa di San Giuseppe; nel 1910, a seguito di apposita delibera per municipalizzare la vendita e la ma-cellazione delle carni, fu costruito il mattatoio comunale che entrò in at-tività nel 1912; nel 1916 fu realizzata la pubblica illuminazione.

A questo periodo risale anche la costruzione della tratta ferroviaria a scartamento ridotto Siliqua-Calasetta. Nel 1911 furono presentati due progetti, uno elabo-rato dalla Ditta Vanini, l’altro dalla

Ditta Cugnasca. Fu approvato il progetto Cugnasca: i lavori ebbero inizio solo nel 1923 a causa della Grande Guerra e della successiva crisi econo-mica e furono completati nel 1926.

La linea comprendeva 18 stazioni, tutte caratterizza-te dalle decorazioni murarie realizzate dal noto pittore

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Stanis Dessì, 55 cantoniere e quattro guardiole. Fu necessario costruire cinque gallerie, venti tra ponti e viadotti, quattordici ponti metallici e svariati ponticelli.

La linea ferroviaria, la cui gestione fu affidata alla Società delle Ferrovie Meridionali della Sar-degna con sede a Roma, fu inaugurata il 23 maggio 1926.

Diversi furono i fattori che portarono alla sua soppressione e sostituzione con l’utilizzo degli autobus: la chiusura delle miniere e conseguente crollo del trasporto ferroviario del carbone, la diffu-sione delle automobili e il dissesto della linea. Il trat-to Siliqua-Narcao fu chiu-so per le cattive condizioni tecniche del binario e per consentire la costruzione della diga di Bau Pressiu (13 luglio 1968) mentre la tratta Monteponi-Iglesias (18 gennaio 1969) fu sop-pressa a causa del crollo di una galleria.

La linea ferroviaria fu definitivamente dismessa il 1 settembre 1974 e sostitui-ta con le autolinee.

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La prima guerra mondiale

Nel 1914, a seguito dell’invasione della Serbia da parte dell’Austria, ebbe inizio il primo conflitto mondiale. L’Italia, inizialmente neutrale, vi prese parte dal 24 maggio 1915 quando, al fianco di In-ghilterra e Francia, dichiarò guerra all’Austria. La guerra si concluse il 4 novembre 1918 con la vittoria del blocco Francia, Inghilterra, Italia e Stati Uniti d’America.

La partecipazione alla Grande Guerra per i sardi fu un’esperienza traumatica ma diede loro l’occasione di confrontarsi con una realtà e cul-tura diversa da quella isolana. Durante il con-flitto a Siliqua furono confinati alcuni opposi-tori della guerra provenienti dal nord Italia, tra cui M. Curtini che al momento del ritorno a casa lasciò un com-movente saluto ai siliquesi che lo avevano accolto con affetto e ospi-talità.

Tra il 1915 e il 1918, su una popolazione di circa 853.000 persone, furono richiamati quasi 100.000 uo-mini nel 151° e 152° reggimento della fanteria della Brigata Sassari, per lo più agricoltori e pastori. Furo-no uccisi 13.602 uomini.

Secondo il censimento del 1911 Siliqua contava 2.609 abitanti. Nel 1915, furono richiamati 202 uomi-ni. Solo 166 di essi tornarono nelle loro case. Furono uccisi 36 soldati e in loro memoria fu eretto nel 1926 il Monumento ai Caduti, su proposta di un comitato promosso dalla signora Teresa Bachis.

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Il fascismo e la seconda guerra mondiale tra storia e ricordi

Gli anni del dopoguerra, segnati da una profonda crisi politica e sociale, videro l’affacciarsi, in Italia e in Sardegna, del movimento fascista. Dopo la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, Mussolini ottenne l’incarico di formare il nuovo governo. In soli due anni, egli instaurò la dittatura e diede avvio ad una serie di modifiche istituzionali.

Nel 1925 fu soppresso l’ordinamento amministrativo basato sui Consigli di Comunità. Il Parla-mento approvò il disegno di legge che prevedeva l’istituzione nei comuni fino a cinquemila abitanti delle consulte comunali e dei podestà. Questi, nominati con decreto reale, assunsero tutti i poteri prima esercitati dal consiglio comunale, dalla giunta e dal sindaco.

A Siliqua, la soppressione del Consiglio di Comunità e sua sostituzione con la figura del Pode-stà si ebbe il 24 luglio 1926, con la nomina del dottor Ercole Massa, già sindaco nel 1925.

In questo periodo, Siliqua, come del resto tutta la Sardegna, usufruì dei finanziamenti previsti dalla cosiddetta legge del miliardo del 6 novembre 1924. Compenso per le perdite subite dall’Isola nella prima guerra mondiale, ma soprattutto tentativo di portare dentro il fascismo i combattenti sardisti, questa legge prevedeva lo stanziamento di mille milioni di lire in un periodo di dieci anni per l’edificazione di opere pubbliche come strade, scuole, ferrovie, fognature e ospedali.

Nel 1925, tra Siliqua e Villacidro fu intrapresa la bonifica idraulica di un territorio di 22.000 ettari. Ciò faceva parte della politica di bonifica integrale voluta dal governo, estesa a tutta la Sarde-gna, concentrata nelle aree considerate più importanti, come ad esempio la pianura del Campidano e la costa, le zone vicino alle riserve d’acqua e ai mercati. Essa aveva un duplice scopo: rendere fertili terreni paludosi o aridi e risanare le aree malariche.

Tra la prima e seconda guerra mondiale una parte del paese poté disporre delle fognature e fu costruito il campo sportivo del littorio. Nel 1928 fu fondata la prima squadra di calcio. Nel 1933 fu inaugurata la scuola elementare di via Mannu.

Divenuto nel 1925 l’unico partito legalmente rico-nosciuto, il fascismo riorganizzò tutti gli aspetti della vita sociale sulla base di un modello fortemente gerarchizzato. Un esempio è dato dall’Opera Nazionale Balilla, fondata il 3 aprile 1926, ente preposto all’assistenza e all’educazione fisica e morale dei giovani di ambo i sessi fino ai diciotto anni. I giovani e le ragazze erano organizzati secondo fasce di età: figli della Lupa, balilla, avanguardisti, giovani italiani, i primi; piccole italiane, giovani italiane, giovani fasciste, le seconde.

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Chi rifiutava di iscriversi al partito non poteva ottenere alcun tipo di impiego pubblico e di-veniva oggetto di possibili ritorsioni e vessazioni. Pochi furono coloro che si opposero al regime e migliaia di oppositori furono incarcerati, confinati o costretti all’esilio. Tra gli oppositori c’erano i sardisti, come la siliquese Prosperina Piras, coraggiosa seguace di Emilio Lussu, che per tutto il ven-tennio riuscì a custodire la bandiera dei Quattro Mori, nonostante i fascisti locali avessero cercato a più riprese di trovarla e distruggerla. Al termine della guerra, Prosperina Piras fu la prima donna a sedere nel consiglio comunale di Siliqua.

Il primo settembre 1939 iniziò la seconda guerra mondiale quando la Germania invase la Polo-nia. L’Italia entrò nel conflitto il 10 giugno 1940, schierandosi al fianco di Hitler. La notizia, ricordano gli abitanti di Siliqua, fu appresa durante il discorso di Mussolini alla nazione trasmesso alla radio, che la popolazione ascoltò riunita in piazza Martiri.

Da questo momento tutta la Sardegna subì le incursioni degli aerei mili-tari franco-inglesi. A Siliqua non ci furono in questa prima fase bombardamenti, anche se fu spesso sorvola-ta. Un intervistato ricorda che un aereo francese pre-cipitò nei pressi del paese: molti accorsero a vederlo vicino a sa cruxi santa dove era stato trascinato.

Le conseguenze della guerra furono avvertite dai siliquesi solo in un secondo momento quando furono imposti il razionamento alimentare e il coprifuoco per cui era vietato usci-re oltre una certa ora e tenere i lumi accesi nelle case.

Particolarmente gravosa fu l’ordinanza di portare tutto il raccolto al Monte Granatico che era pagato a basso prezzo. Un funzionario statale sorvegliava s’incungia del raccolto nelle aie, cioè il

momento in cui il grano veniva pe-sato e immagazzinato. All’agricoltore restava solo ciò che lo Stato riteneva sufficiente a garantire la sussistenza della famiglia e la successiva semina. La quantità era registrata sia nell’ap-posita tessera loro rilasciata quando portavano il grano al Monte Granatico sia sull’elenco, in carta bollata dalla Finanza, che i mugnai avevano con i nomi delle persone autorizzate a pos-sedere grano. Con questa tessera do-vevano presentarsi al mulino elettrico

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per farla macinare una volta alla settimana. Alcuni cercavano di nascondere parte del raccolto per poterlo rivendere ad alto prezzo al mercato nero.

Chi non possedeva grano si recava, sempre con la tessera, in cui era scritto il nome e cognome del capofamiglia e le persone a suo carico, al panificio per farsi consegnare la razione di pane che gli spettava, circa 150 grammi a persona al giorno, cui si aggiungevano per i lavoratori 150 grammi di farina alla settimana. Questa generalmente era conservata dalle donne che, quando raggiungevano la quantità sufficiente, preparavano la pasta o, di nascosto, il pane. Chi non aveva il forno lo cuoceva nel caminetto.

Racconta una delle signore intervistate che il marito, ogni giorno, al rientro dal lavoro, pas-sava di fronte ad un campo di grano e raccoglie-va una spiga, che poi, lei aveva cura di pulire, macinare con il macinino da caffè (dato che era vietato usare la mola sarda) e conservare fino a quando non avesse avuto la quantità sufficiente per fare la pasta.

Anche gli altri alimenti erano razionati; la carne e il pesce quasi del tutto introvabili; era di-stribuita, sempre in quantità limitata, sa pappa, una sorta di semolino a base di farina, di piselli macinati e pepe.

Il latte era dato solo a chi aveva bambini, mezzo litro al giorno per ognuno. Inizialmente, in certi luoghi di lavoro, davano insieme alla paga, ogni dieci giorni, razioni di formaggio, pasta, 150 grammi di zucchero, caffè. Per procurarsi le patate alcuni si recavano addirittura a Cagliari, vicino al Palazzo di Giustizia, sempre naturalmente con la tessera.

Chi aveva un po’ di denaro a disposizione andava a Vallermosa a sa mantininca, il mercato nero, a comprare i legumi, la carne, il pane, l’olio e anche l’abbigliamento. I prezzi erano elevati e, infatti, chi vendeva al mercato nero si arricchì notevolmente.

Stavano meglio coloro che coltivavano l’orto o alle-vavano animali; grazie alla solidarietà e ai rapporti di buon vicinato, un tempo molto più sentiti rispetto ad oggi, spesso dividevano i loro prodotti, come i pomodori o la ricotta per fare i ravioli, con i vicini.

Prezioso era, inoltre, il contributo di ciò che la campagna offriva spontaneamente: cardi, carciofini selva-tici, funghi, asparagi, lumache, fichi d’india, corbezzoli. Il fiume, per chi sapeva pescare, era un’altra fonte di cibo: pisci nou, cioè le tinche, trote e anguille.

Nonostante le privazioni, il consenso al fascismo, almeno tra i siliquesi, era ancora vivo nel 1942, anno del-l’ultima visita in Sardegna del Duce, avvenuta tra il 10 e il 16 maggio. A Siliqua, come si legge ne Il Duce in Sardegna14, Mussolini passò il 15: “Uscito dalla laguna cagliaritana ed

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attraversati Elmas, Assemini, Decimomannu fioriti di vessilli e scossi da un profondo fremito di amore e di fede, la macchina attraversa Siliqua da dove si scorgono, su una roccia a cuspide, i ruderi del castello di Ugolino. Imponente è la manifestazione di Siliqua. Le contadine indossano un corpet-to del colore delle messi e le finestre sono ricoperte di arazzi. […] Siliqua, che il Duce aveva conosciu-to nel mattino, viene di nuovo attraversata sul far della sera tra nuove testimonianze di affetto”.

Il 1943 fu particolarmente tragico per Siliqua che subì, il 4 luglio, il primo e unico bombarda-mento americano. Bersaglio, secondo gli abitanti, erano le polveriere di Tuvoi e di San Giovanni. Gli americani colpirono, invece, il locale dell’ex cinema Verdi, situato dove oggi si trova la biblioteca comunale, il cui tetto in lamiera, alla luce dei bengala, luccicava nella notte di luna piena.

Era domenica: al suono delle sirene che annunciavano l’arrivo dei bombardieri statunitensi, la gente si riversò nei rifugi, generalmente ricavati nei cortili, dopo aver spento tutte le luci e lasciato aperte le porte e le finestre per evitare le conseguenze degli spostamenti d’aria, che le bombe avreb-bero potuto provocare. Furono sganciati parecchi ordigni, ma le polveriere non furono centrate, al-trimenti, chiariscono i testimoni, di Siliqua e Vallermosa sarebbe rimasto ben poco. Ad essere colpita fu una casa in Pratza ‘e ballusu, dove morirono due donne, la signora Priama Mulas, ritrovata nel suo letto, e la signora Maria Casula.

Una delle intervistate racconta che, terminato il bombardamento, chiese al marito di portarle un bicchiere d’acqua, ma costui al posto della brocca trovò la scheggia rovente di una bomba.

Il giorno successivo, furono rinvenuti due ordigni inesplosi in via Di Vittorio. Gli artificieri, fatta sgombrare la zona, li disinnescarono e poi li fecero brillare in campagna. Fu, a detta di coloro che poterono assistervi, un vero e proprio spettacolo.

Qualche mese dopo, l’8 settembre, venne firmato l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati; il 29 in Sardegna arrivarono gli americani e il 13 ottobre l’Italia dichiarò guerra all’ex alleato tedesco.

Tutto questo non comportò dei miglioramenti nella vita quotidiana, anzi la popolazione, già duramente provata dai bombardamenti e dalle continue restrizioni imposte dalla guerra, reagì con una rivolta all’ulteriore razionamento del cibo.

Quando nel 1944, dietro ordine della prefettura, la razione del latte fu ridotta ad un quarto di litro per bambino, le donne, convinte della malafede del podestà, assaltarono la sede municipale ag-gredendo e percuotendo sia il podestà sia il segretario comunale, accusati di imboscare per proprio profitto le derrate alimentari.

Le protagoniste di questa vicenda raccontano che, il giorno successivo all’annuncio del ra-zionamento della quota del latte, spinte dalla disperazione, “poita tenemusu is pipiusu mottusu de fami”, dal caseificio si recarono direttamente in municipio dove incontrarono il podestà a cavallo. Egli pur avendo promesso loro che le avrebbe ascoltate, si nascose dentro il municipio, protetto dai soldati. Le donne, dopo averli allontanati, riuscirono ad entrare nell’edificio, mettendo sottosopra gli uffici alla ricerca del podestà che, dopo essere stato percosso da alcune di loro, si rifugiò in casa di parenti.

Solo l’intervento del presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Siliqua impedì la distruzione dei locali. L’arrivo del comandante del presidio dei soldati pose fine alla rivolta; il muni-cipio fu chiuso, il C.L.N. di Siliqua comunicò al Comitato di Cagliari la destituzione del podestà e la nomina del commissario, nella persona del dottor Puxeddu, e di una giunta di sei persone.

La guerra in Europa terminò nella primavera del 1945 ma la pace fu firmata solo al termine del conflitto nell’oceano Pacifico, il primo settembre.

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Nell’arco di tempo 1940-1944, quindici furono i siliquesi caduti sui campi di battaglia. I loro nomi sono stati aggiunti a quelli dei soldati uccisi durante la Grande Guerra nel Monumento ai Ca-duti.

Con la fine del regime fascista, si diede avvio al graduale ristabilimento degli organi elettivi dei Comuni e delle Province.

A Siliqua, le prime elezioni democratiche si svolsero nel 1946; fu eletto sindaco Francesco An-tonio Contini.

Siliqua nel secondo dopoguerra

La guerra rese ancora più grave la situazione di miseria del-le popolazioni sarde, anche se gli aiuti provenienti dagli Stati Uniti d’America contribuirono a miti-gare gli effetti della depressione economica e della disoccupazione.

Di particolare importanza fu il piano di eradicazione della ma-laria, finanziato dalla Fondazione Rockfeller, dall’UNRRA e dal-l’ECA e attuato dall’Ente regionale lotta anti anofelica (Erlaas).

La malaria era una delle principali cause della povertà e del sottosviluppo della Sardegna. Con questo piano si prevedeva la suddivisione del territorio re-gionale in zone e l’irrorazione di quelle a rischio con il DDT per eliminare gli insetti responsabili della trasmissione della malattia. La campagna anti anofelica durò dal 1946 al 1950. Nella sola Siliqua furono impiegati un centinaio di operatori che combatterono con impegno una battaglia ricordata ancora oggi con orgoglio da chi vi partecipò.

La struttura economica del paese sino agli anni cinquanta era rimasta pressoché la stessa descritta dall’Angius nella prima metà del XIX secolo: un gran numero di salariati e lavoratori a giornata soggetti in tutto e per tutto al po-

tere di pochi proprietari che, disponendo di manodopera a basso costo, sfruttavano la rendita senza investire né migliorare le aziende.

Unica novità rispetto al secolo precedente fu l’affrancamento dalla terra di numerosi lavoratori impiegati nelle ferrovie e nella polveriera militare di Tuvoi.

I pastori sopravvivevano pagando affitti esosi, il che, nelle brutte annate, significava spesso dover vendere il gregge per pagare i debiti.

La situazione economica ebbe una svolta a partire dai primi anni cinquanta con l’avvio del pia-no di rinascita. La creazione del polo industriale di Macchiareddu e l’ondata migratoria verso il nord Italia portò i giovani siliquesi, compresi i figli dei proprietari, ad abbandonare in massa la campagna per trovare lavoro nelle fabbriche.

Le leggi di riforma agraria fecero calare notevolmente il prezzo dei fitti dei terreni che, pian piano, passarono in mano ai pastori barbaricini, soprattutto desulesi, disponibili a quel lavoro duro e allora poco remunerativo che tanti avevano abbandonato. In pochi anni, con l’abbandono della pratica della transumanza, furono create numerose aziende stanziali moderne. Oggi l’asse portante dell’economia siliquese è costituito da una florida attività di allevamento, con un patrimonio di oltre quarantamila capi ovini, di gran lunga il più grande della provincia. Sul fronte economico, oltre alle attività commerciali ed artigianali già consolidate, muove i primi passi il settore turistico, che basa le sue prospettive di sviluppo su un territorio ricco di beni culturali e ambientali, di cui il castello di Acquafredda è solo il più conosciuto.

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Note

1 Alberto Ferrero Della Marmora è l’autore de Itinerario dell’isola di Sardegna e del Voyage en Sardaigne, che compilò dopo il suo viaggio nell’isola al seguito di Carlo Alberto di Savoia.

2 Stefano Basciu, La Chiesa di S. Giorgio a Siliqua (CA), estratto da Studi Sardi, vol. XXXII, ed. AV, 1999, pag. 341. 3 Francesco Floris, Feudi e feudatari in Sardegna, Vol. II, Edizioni della Torre, pag. 3214 F. Vivanet, Note per la storia del Castello di Acquafredda in Sardegna, Cagliari Litografia Commerciale 1894, pag. 9.5 Ibidem, pag. 22.6 Giancarlo Sorgia, La Sardegna spagnola, Chiarella, Sassari, 1982, pagg. 64-65.7 Vittorio Angius, Goffredo Casalis, Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna,

pag. 146. Angius compilò le voci sarde del Dizionario del Casalis, pubblicato a Torino tra il 1833 e il 1856. Fu tra i 15 de-putati sardi al primo parlamento convocato dopo la proclamazione dello statuto alberino (4 marzo 1848).

8 Carlino Sole, La Sardegna Sabauda nel Settecento, Edizione Chiarella, Sassari, 1984, pagg. 147-148.9 Angius, Casalis op. cit., pagg. 146-150. 10 La compagnia barracellare era costituita dal segretario, o attuario, dal presidente o capitano barracellare, dai consiglieri o

barracelli. Tutti erano muniti di porto d’arma e la loro funzione consisteva nell’effettuare un servizio di vigilanza nelle campagne e nel risolvere le eventuali controversie.

11 Emilio Lussu, Il cinghiale del diavolo, Einaudi, Torino, 1976, pag.10912 Cossu Alberto, Storia militare di Cagliari, 1217 – 1866. Arti grafiche F. D’Agostino Cagliari 1994.13 Angius, Casalis, op. cit., pag. 148.14 Aldo Cesaraccio, Antonello Mattone, Giuseppe Melis Bassu, Il Duce in Sardegna, Edizione speciale dell’agenzia Stefani,

in Mussolini in Sardegna, Gia Editrice, 1983.

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PARTE SECONDA

IL CASTELLO DI ACQUAFREDDA

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Origine

Il castello di Acquafredda1 (Castrum Acquae Frigidae, per i siliquesi su casteddu ‘ecciu) si erge so-litario, poco distante dal paese di Siliqua, sulla cima di un cono vulcanico, a circa 253 metri sul livello del mare; le sue imponenti rovine “si elevano in altezza a prolungamento dell’insolita emergenza rocciosa che domina tutta la piana. Tre lati guardano su strapiombi vertiginosi mentre il quarto di-grada sul ripido pendio settentrionale discendendo verso il paese di Siliqua”.

Collegato a vista ai manieri di Gioiosaguardia a Villamassargia, di Baratuli a Monastir e di San Michele a Cagliari, deve il nome alla sorgente d’acqua freschissima che sgorga dagli anfratti della collina.

La sua struttura, la sua posizione strategica, alcune tracce di costruzioni e documenti quali la citata bolla di papa Gregorio IX del 1238, dimostrano che la sua origine risalga all’epoca giudicale.

Funzione

La funzione dei castelli sardi in epoca giudicale era prettamente militare e difensiva. Dissemi-nati lungo i confini dei quattro regni, nei quali era divisa l’isola, erano costruiti in posizione elevata “a protezione delle rispettive frontiere e a controllo dei più importanti passi o vie di comunicazione del territorio”.

Con la penetrazione pisana e genovese, che portò alla disgregazione tre dei quattro giudicati, i castelli sardi conobbero un differente tipo di sviluppo. Intorno ad essi sorsero numerose ville che potevano usufruire, in questo modo, sia di protezione sia di “migliori sistemi di produzione e di incanalamento sui mercati dei loro prodotti”.

Questo processo fu interrotto con la dominazione aragonese. La guerra tra la corona d’Arago-na e il giudicato d’Arborea impose il ritorno all’antica e pressoché esclusiva funzione militare del castello. Al termine del cinquantennale conflitto con Arborea, la corona non ebbe più la necessità di mantenere in piedi nell’isola “costose strutture fortificate e così la maggior parte dei castelli sardi,

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persa la loro funzione, concluse il proprio ciclo vitale, andando inesorabilmente verso una irrever-sibile decadenza”.

Queste vicende segnarono anche la storia del castello di Acquafredda. Concepito come fortezza militare giudicale, partecipò, tra il XIII ed il XIV secolo, allo slancio

intrapreso in campo economico-sociale dai pisani. Fu poi conquistato dai catalano-aragonesi nel 1324, e divenne, in un primo periodo, una concessione feudale. La castellanìa di Acquafredda, che comprendeva allora, oltre alla fortezza, una piccola rete di ville, divenne “una carica ambita con una presumibile discreta rendita” consistente in uno stipendio di 250 libbre di alfonsini minuti per il soldo di dieci clienti e per le spese di mantenimento della fortezza. Le spettavano, inoltre, tutti i redditi, i profitti, i dazi riscossi a Ville Nove de Serussi (Villanova di Saruis a di Siliqua), a Villa Perutxa (l’attuale Villaperuccio) a Ville de Borro (l’attuale S. Mariedda a Villamassargia), a Ville de Masiu e Golvi (centri non localizzati).

Anche il castello di Acquafredda, agli inizi della guerra tra la corona d’Aragona e il giudicato di Arborea, fu richiamato all’originario ruolo militare per via della posizione chiave occupata al-l’interno del sistema strategico-difensivo del regno. Assunse un ruolo importantissimo e resistette a numerosissimi attacchi, sferrati a più riprese dalle truppe arborensi. A conferma di ciò, a partire dal-l’aprile del 1365, i documenti riguardanti il castello di Acquafredda contengono continue richieste di approvvigionamenti di viveri (aceto, olio, carne salata, fave), del “materiale necessario per affronta-re gli assedi ed armare le macchine da guerra” e di riparazioni agli edifici del borgo e del castello.

Con la fine della guerra il castello perse progressivamente la sua funzione militare in quanto la “sua opera protettiva non era più necessaria”.

Struttura

È possibile ricostruire la struttura della fortezza di Acquafredda utilizzando i rilievi fatti da Foiso Fois, gli inventari del 1338 e del 1351 ed i risultati dei recenti restauri.

Al castello, articolato su tre livelli, che seguono l’andamento del pendio, si accedeva dal lato nord-est, attraverso una porta, difesa da tre imponenti torri a pianta quadrata. Le due estreme sono andate completamente distrutte; quella centrale, la più imponente, detta mayor, tuttora in piedi e recentemente ristrutturata, presentava una struttura a tre piani con solai in legno collegati da scale. Le tre torri, insieme alla cinta muraria che le collegava, costituivano la prima linea difensiva del ca-stello, a quota 154 m s.l.m. circa.

La cinta muraria era ornata di merli di forma guelfa introdotti, secondo Fois, nel XIII secolo. La merlatura indicava il colore politico del Signore del Castello, ossia il suo schieramento a favore del Papa o dell’Imperatore nella lotta per le investiture. La forma quadra dei merli indicava l’appartenenza alla parte guelfa, sostenitrice del Papato; quella a coda di rondine alla parte ghibellina, sostenitrice dell’Impero.

Il conte Ugolino della Gherardesca, dopo un primo periodo di militanza ghibellina, testimo-niato nel castello dallo stemma scolpito sul muro nord del mastio in cui è raffigurata l’aquila impe-riale, divenne, in un secondo momento guelfo.

All’interno delle mura, nel portico, si trovava il borgo, con le case, i magaz-zini, le stalle, le cisterne, i mulini ed i frantoi.

Più in alto, a quota 253 m s.l.m., si ergeva il mastio, cuore del castello e abitazione del castellano, cui si accedeva dal borgo attraverso un ponte levatoio. Oltre questo, una porta immetteva in uno spiazzo su cui erano disposti, probabil-mente a ferro di cavallo, gli ambienti del castello vero e proprio.

Il mastio era articolato in due livel-li e sormontato da una terrazza. “Tra il piano terra ed il primo si distribuivano le stanze, numerose delle quali erano illuminate ed arieggiate da finestre non molto ampie che, come ancora in parte visibile, guardavano sia all’esterno del-la fortezza che all’interno del grande cortile. Nel piano inferiore, superato il portico del cortile interno, è probabile si trovassero la cucina, gli alloggi dei soldati, il magazzino delle corazze, un altro grande magazzino, unitamente ad un’altra stanza con attrezzi e macchine. Forse al piano superiore trovavano inve-ce spazio la stanza del castellano e la sala del castello”.

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Si poteva accedere al mastio da due parti: dal lato nord tramite una scalinata “composta da 32 scalini in pietra lavorata che termina in un pianerottolo posto a 3 m. dal piano terra del Palazzo, nel quale si poteva entrare solo con scale mobili o con un ponte levatoio a scale. […] Da Sud si accedeva, mediante scala in pietra, ad una vasta terrazza-bastione, in parte naturale”2. Delle mura del mastio resistono le facciate rivolte a nord-ovest e sud-est, alte circa 10 metri e anch’esse guarnite di merli guelfi.

A mezza costa, alla quota di 200 m s.l.m., svetta la poderosa struttura muraria della torre cister-na. Essa non è collegata con le altre unità murarie e risulta essere un corpo isolato.

L’acqua era un elemento indispensabile e fondamentale per la vita all’interno del castello. Nel complesso di Acquafredda esistevano quattro grandi cisterne che “distribuite a quote differenti, a partire da una piuttosto notevole, situata nel borgo, fino poi ad arrivare alle altre ricavate sul pendio alle massime quote, consentivano ingenti scorte d’acqua”.

La torre cisterna, a forma quadrangolare, era costituita da tre vasche di diversa capacità, con volta a botte, completamente intonacate. Più in basso, a 163 m s.l.m., vi è la quarta cisterna. Essa, situata vicino al borgo, è considerata una notevole opera di ingegneria: “una camera interrata con le pareti di mattoni alte quattro metri, completamente intonacata, con la volta a botte e circondata lungo il perimetro inferiore da un cunicolo di mattoni in cui l’acqua filtrava attraverso le pareti. L’imbocco della cisterna probabilmente era protetto dall’immissione di materiali grossolani da una griglia di piombo, la brescadura de plom ricordata nel 1338. Al fianco un pozzo, che terminava a gomi-to, consentiva di pescare l’acqua filtrata nel cunicolo”.

Vivere nel castello

La vita quotidiana all’in-terno del castello di Acqua-fredda, in epoca aragonese, è stata ricostruita da Pinuccia Simbula attraverso due inven-tari redatti nel 1338 e 1351, al momento dell’avvicendamen-to dei castellani.

Il primo documento, conservato presso l’archivio della corona d’Aragona, è il più antico inventario che gli archivi ci abbiano restituito. “Il suo contenuto riguarda quanto si trovava all’interno del castello nell’ottobre di quell’anno, al momento della presa di possesso della fortezza da parte del nuovo castellano, il no-bile Amoros de Ribelles. L’elenco, abbastanza dettagliato, offre dati che raramente possediamo per i castelli sardi, e si aggiunge ad un altro già edito, relativo allo stesso castello, redatto circa tredici anni più tardi, nel 1351” da Ramon d’Ampurias, al momento di assumere la carica di castellano di Acquafredda. A noi è giunto in copia del 1355.

Lo scopo di questi documenti era quello di appurare la quantità e lo stato dei beni appartenen-ti alla corona, affidati all’amministrazione del castellano.

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Armi e macchine da guerra

Le informazioni contenute negli inventari miravano, in primo luogo, “a stabilire lo stato del-la fortezza e la sua capacità di difesa”. Le voci più numerose, infatti, riguardano le condizioni e il numero delle armi: sono elencate le balestre e i torni per poterle curvare, i quadrelli per balestra comune (impennati e desempenats), per balestra a cremagliera (il tipo più sofisticato e potente del-l’epoca) e per balestra a staffa, le punte per i dardi e le lance. Vi sono citate, inoltre, le armature: gli elmi di cuoio e le gorgiere ossia “corazze rifinite all’interno in canamaç, una morbida imbottitura di tessuto che aveva lo scopo di rendere più confortevole la rigidità dell’armatura”; gli scudi semplici e gli scudi pisaneschi, che forse erano rimasti nel castello dopo la sconfitta pisana, o che erano stati acquistati per le guarnigioni toscane, che difesero la fortezza nel primo periodo di guerra per conto della corona aragonese.

L’inventario del 1338 riporta un’unica macchina da guerra: il trabucco o trabocco, “con il quale si lanciavano grosse pietre o fuochi all’esterno della fortezza in caso di attacco per dissuadere il nemi-co dagli assalti”. Si tratta di un’antica macchina da guerra “costituita da una grossa trave di misura variabile, imperniata su un asse sul quale ruotava; ad un’estremità veniva applicata la munizione, mentre dall’altro lato un contrappeso. La trave, azionata da una serie di corde e argani, veniva ab-bassata ed una volta caricata lasciata libera in modo che, non più trattenuta dalle corde e spinta dal contrappeso, lanciasse i proiettili”. Essa fu, probabilmente, costruita dai pisani all’interno del castello

di Acquafredda nel 1324.Nell’inventario del

1351 si ritrova lo stesso tipo di armi e armature, anche se in quantità diver-se. Da notare che vi era, oltre al trabucco del pre-cedente inventario, un’al-tra macchina da guerra completa, la briccola cioè “una specie di mangano costituito da una stanga applicata ad un castello di legno e portante da una parte un contrappeso e dall’altra una cucchiaia di legno sulla quale si ponevano i proiettili da lanciare; quando con delle

funi si azionava il contrappeso la stanga rotava lanciando il proiettile con molta più precisione del trabucco”.

L’attività militare non era limitata al mastio, dove le guarnigioni si arroccavano in caso di ne-cessità sollevando il ponte levatoio, ma era effettuata anche sulla cerchia muraria. Qui le sentinelle, appostate sulle torri e sulla terrazza a scrutare l’orizzonte o a vigilare l’ingresso, stavano di guardia al castello, lanciando quando necessario segnali di allarme con le lanterne o con la trompeta.

Dai registri paga dell’amministrazione del Capo di Cagliari, sappiamo che il numero dei ser-vents a presidio di Acquafredda oscillava tra le dieci e le venti unità: un numero inferiore a quello che ci si potrebbe aspettare data l’importante funzione militare del castello, ma evidentemente suffi-ciente a controllarlo e difenderlo.

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Corde, pece, catrame, sego e scale, oltre a tutti gli attrezzi necessari alle riparazioni quotidiane della fortezza, come seghe, picconi, asce, accette, palanche, pale, cunei, trapani, maglio e pialla, lime e chiodi, botti di calce e mole per arrotare le lame, legname da costruzione, sono voci presenti in entrambi gli inventari.

Le armi si trovavano in varie parti del castello, nel portico, nel magazzino e nel borgo, anche se esisteva una stanza appositamente adibita alla loro custodia. Nell’inventario del 1338 si parla, infatti, di una casa de les armes, posta nel mastio o castell alt, mentre nel secondo compare la cambra del magatzem de les cuyraces, nella quale erano custodite le corazze e gli scudi, le gorgiere, le seghe e le asce. Non si sa con esattezza dove fosse situata, ma è certo dovesse trovarsi in un punto ben difeso e facilmente raggiungibile per indossare l’armatura o prendere le armi.

La vita nel borgo

La vocazione militare del castello non impediva ai suoi abitanti di dedicarsi, benché marginal-mente, ad altre attività. Nel borgo, infatti, vi erano le case, i magazzini, le stalle, i mulini e i frantoi.

“Per buona parte del Trecento sono presenti nelle fonti indizi che documentano lavori agricoli e presenza di animali da allevamento. Intorno al castello vi erano alcuni salti coperti dal manto bo-scoso dove il bestiame trovava riparo e pascolo; oltre gli alberi si stendevano i terreni coltivati o col-tivabili. I prodotti ricavati, impossibili da quantificare, garantivano forse limitati introiti finanziari o, più semplicemente, contribuivano all’economia della fortezza”. L’importanza di queste attività e delle terre su cui si svolgevano si intuisce dalle contese “sorte più volte nel medioevo tra i castellani di Acquafredda ed i feudatari dei territori confinanti”.

Nel 1339, ad esem-pio, Pietro IV d’Aragona dovette risolvere la con-troversia sorta tra Amoros de Ribelles, castellano di Acquafredda, e Raimon-det de Libiá, feudatario di Siliqua. I due si conten-devano un salto, con terre coltivabili e pascoli, che si estendeva tra il castello di Acquafredda e Siliqua. “Libiá rivendicava il salto ritenendolo di pertinenza della sua villa ed accusava il Ribelles di averlo inde-bitamente incorporato alle terre del castello”.

L’origine della di-sputa risaliva all’epoca dell’infante Alfonso quan-do Bernardo de Libiá, avo di Raimondet, era sia castellano di Acquafredda sia signore della villa di Siliqua. Bernardo era riuscito inoltre “ad ottenere la concessione personale di una importante parte dei territori circostanti il castello, che aveva incorporato alle altre concessioni feudali, cioè alle perti-nenze della villa di Siliqua”.

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In un primo momento il so-vrano risolse la disputa riconoscen-do i diritti di Raimondet de Libiá. Successivamente, nel 1358, data l’importanza di quei territori “per lo svolgimento delle attività degli uomini che risiedevano” nella for-tezza e su sollecitazione del nuovo castellano Dalmazzo de Jardi, questa concessione fu annullata e il salto fu definitivamente riunito alle pertinen-ze del castello.

Erano utilizzati per la coltiva-zione non solo i vari territori appar-tenenti al castello ma anche quelli all’interno del borgo e alle pendici della fortezza. Il grano e i legumi seminati consentivano dei piccoli margini di autonomia e di guadagno. “Quando la guerra infuriava, il presi-

dio, conoscendo le difficoltà del regolare invio di rifornimenti, seminava il grano dentro la fortifica-zione ricavandone limitate quantità di prodotto che veniva pagato dalle autorità catalano aragonesi a prezzo di mercato o concordato. Fagioli, fave e aglio erano le altre specie più frequentemente col-tivate e largamente consumate”.

A questo proposito i registri dell’amministrazione del Capo di Cagliari riportano alcune in-teressanti notizie. Nel 1387, tra la fine di agosto ed i primi di ottobre, in pieno periodo di guerra, una parte delle scorte per l’inverno di grano, olio, fave, formaggi, aceto fu acquistata sulla piazza di Cagliari; il resto delle provvigioni di grano, aglio e fave erano stati culits en les faldes del dit castell. Questi prodotti, che molto probabilmente erano coltivati nei terreni all’esterno della fortezza, erano acquistati ad un prezzo leggermente inferiore rispetto a quelli di città: due denari in meno a starello per il grano e 2 soldi in meno per lo starello di fave.

Il grano era macinato con le macine e mulini presenti nella fortezza. L’inventario del 1338 descrive due mulini, uno dei quali si azionava con un mulo ed uno con il cavallo, e due macine. Nell’inventario del 1351 troviamo citati quattro mulini sardeschi, due nel mastio e due nel borgo; qui inoltre ve n’era uno azionato da un cavallo.

Un particolare che colpisce è la distinzione tra i mulini semplici e quelli sardeschi. L’aggettivo sardesco indicava un particolare tipo di mulino, diffuso in tutta la Sardegna, di dimensione ridotte, rispetto ai mulini semplici, che poteva essere posto anche all’interno delle case. “È probabile che si trattasse delle antiche macine granarie in uso nell’isola fin dai tempi romani, rimaste immutate nei secoli fin quasi ai nostri giorni […], macchine semplici, poco ingombranti, composte da pochi elementi di pietra azionati dalla forza di un asino; ancor oggi, benché ormai abbandonate, sono fa-cilmente visibili nelle aie delle case contadine della Sardegna”.

La vita privata

Concepito come fortezza, ben organizzato e sicuro, il castello di Acquafredda non era di certo una bella e comoda dimora principesca; viverci non doveva sempre essere piacevole, soprattutto per chi era abituato alle comodità cittadine.

In tempo di pace, oltre ai piccoli lavori di manutenzione, vi si svolgevano le normali attività di ogni giorno: “si mangiava, si giocava, ci si dedicava all’esercizio della caccia, facilmente praticabile intorno, probabilmente anche con i falchi” che, nel medioevo, sembra fossero numerosi nel territo-rio.

Quando i conflitti non coinvolgevano direttamente il castello, la famiglia seguiva il castellano in quanto la carica gli imponeva la residenza. In questi casi la corte ed i servitori del castellano ani-mavano la vita all’interno della fortezza, rendendo più sopportabile la lontananza dalla città.

Gli inventare ci permettono, sebbene in minima parte, di ricostruire gli spazi civili all’interno del castello. Nel mastio, al piano terreno, affacciata sul portico, si trovava la cucina. Vi erano i re-cipienti per impastare il pane, il tavolo per lavorarlo, le sporte per trasportarlo, gli orci per l’olio, recipienti vari di legno, i paioli.

I commensali consumavano i pasti su semplici tavoli, seduti sopra panche oppure, per stare vicino al fuoco, su “grandi travi a mo’ di cavalletto”.

All’interno della cucina vi era inoltre un grande camino usato sia per la cottura dei cibi sia come fonte di calore, “che trasformava questa stanza in un caldo ambiente nel quale trascorrere le fredde giornate al riparo dalle intemperie”.

Alcune donne, appositamente residenti nel castello, preparavano il pane ed i pasti. Alla fine del Trecento “si avvicendarono in questo compito Margherita e Maria. Erano loro ad impastare la farina ottenuta dal grano macinato nei diversi mulini presenti nella fortezza, cuocendolo poi in un nuovo forno costruito proprio in quegli anni dal muratore cagliaritano Pere Ballero, in sostituzione di quell’antico ormai enderrocatt”.

Le provviste alimentari erano conservate nel magazzino: insieme al frumento, vi si trovavano le botti con il sale e con l’aceto, le fave, i fagioli e i prosciutti.

L’alimentazione nel castello non era molto diversa da quella delle città o delle ville: “alla base di alimenti secchi e salati, quali cereali, carni, pesci, legumi e formaggi, garantiti dalla Corona per l’approvvigionamento militare, si aggiungevano le verdure fresche che potevano essere coltivate o acquistate nei centri vicini, la selvaggina e gli animali allevati nelle terre intorno. […] Quando gli assedi impedivano il regolare apporto di vettovaglie, il castello veniva rifornito delle scorte alimen-tari di base e di armi: piccole imbarcazioni salivano il corso del fiume Cixerri o dei carri seguivano sentieri secondari fino a giungere ai piedi della fortezza, ed eludendo durante la notte la sorveglian-za degli assalitori, scaricavano cibi e armi, permettendo alle guarnigioni di resistere evitando che il castello venisse espugnato per fame”.

Oltre alla cucina, nel pian terreno del mastio, vi erano, separati da porte di legno, gli alloggi dei soldati e i magazzini.

I soldati, nella stanza a loro riservata, riposavano alcuni su letti, altri su dei pagliericci siste-mati sopra tavole di legno (forse le vecchie porte). Vi erano cassapanche grandi e piccole, panche, mensole, qualche lume e la sela de privada cioè una sedia per la latrina.

Nei magazzini, come già detto, le armi e gli attrezzi erano riposti su mensole o custoditi dentro cesti, recipienti di legno o nelle cassapanche. Nell’inventario del 1351 ne compare una, chiamata caxa sardescha, chiusa da chiavistelli.

Al piano superiore si trovava la camera del castellano: un letto, con una panca posta forse ai piedi, una perxa ossia un appendiabiti per le vesti e le cinture e un lume per illuminare la stanza, componevano lo spartano arredamento. Come negli altri castelli, è probabile che la camera si affac-ciasse sulla sala dove, in genere, si trovava il camino, vicino al quale il castellano e la sua famiglia si raccoglievano.

Nel borgo vi erano diversi edifici tra cui un portico, un magazzino (composto da almeno tre vani), una sala, una casa.

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La sala era, probabilmente, utilizzata dai soldati per mangiare; vi si trovavano, infatti, i tavoli, numerose panche, diversi sgabelli e sedie.

Gli inventari non citano locali riservati all’igiene personale: “unici indizi sono la citata sela de privada che si trovava nel mastio, probabilmente all’interno della stanza dove dormivano i soldati, ed una tinozza che serviva per lavarsi” che si trovava nel borgo.

I castellani, più volte, si lamentarono per le condizioni di vita che dovevano sopportare al castello: Ramon d’Ampurias perse l’incarico per non risiedervi regolarmente, mentre Dalmazzo de Jardi pagò a caro prezzo la sua dedizione alla corona.

Nominato castellano di Acquafredda nel 1355, vi si trasferì con tutta la famiglia. Tre anni dopo, fu costretto a chiedere al sovrano di poter soggiornare a Cagliari almeno sei mesi all’anno, poiché sia lui sia la moglie si trovavano in pessime condizioni di salute e due dei loro figli erano morti a causa delle condizioni igieniche del castello. “Pietro IV accettò le richieste del fedele castellano conceden-dogli di stemperare la durezza della vita nella fortezza con gli agi della città”.

Solo alla fine della guerra con Arborea furono intrapresi dei lavori di restauro per rendere più accoglienti gli ambienti del castello. Nella primavera del 1400 operai cagliaritani rivestirono i pa-vimenti di alcune stanze con circa 300 piastrelle in cotto e ne imbiancarono le pareti. Le condizioni igieniche, comunque, non dovettero migliorare di molto, tant’è che, nell’agosto del 1407, l’ammini-stratore del regno di Sardegna ordinò cibo e vino greco per i soldati ammalati.

Con la fine della guerra, cessato il tempo in cui Acquafredda svolgeva una importante fun-zione militare, i feudatari preferirono, alla vita nel castello, le comodità della vita cittadina. Questo fatto, unito agli alti costi di manutenzione, all’isolamento e alla scomoda posizione della fortezza, ne determinarono il progressivo abbandono e lasciarono quelle mura all’inclemente erosione del tempo.

Restauri

Il castello è stato oggetto di quattro interventi di restauro3. Il primo, agli inizi degli anni 80, ha interessato la parte superiore (il mastio), con un’opera di consolidamento delle mura rimaste.

Il secondo, quindici anni dopo, sempre compiuto da una ditta privata, ha interessato princi-palmente il mastio.

Il terzo intervento iniziato nel luglio del 1999, tramite cantiere comunale, ha ripristinato il vecchio sentiero che conduce ai primi corpi murari e restaurato la torre sperone, molto danneggia-ta dall’incuria degli anni, e la cortina muraria esterna. Nelle operazioni di scavo sono state messe in evidenza strutture realizzate completamente in mattoni di laterizi, ubicate sopra la cisterna del borgo. Importante, sotto il profilo archeologico, il ritrovamento di un capitello di epoca medievale intatto.

Il quarto intervento iniziato nel settembre 1999, tramite ditta privata, ha interessato il restauro della torre cisterna a quota 200 m s.l.m., ora accessibile anche al suo interno, grazie ad una scaletta predisposta durante la ristrutturazione.

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Note

1 I brani citati, salvo diversa indicazione, sono tratti dallo studio di Pinuccia F. Simbula, Il castello di Acquafredda: appunti sulla vita quotidiana in una fortezza sarda nel trecento pubblicato nel numero 18 dei “Quaderni Bolotanesi”, pagg. 265-298 e dall’articolo La vita quotidiana nel castello di Acquafredda, contenuto ne Il Castello di Acquafredda di Foiso Fois, Gallizzi, Sassari, 1961.

2 Foiso Fois, Il Castello di Acquafredda, Gallizzi, Sassari, 1961, pag. 6. 3 Le notizie sui restauri sono tratte dal sito web.tiscali.it/antarias

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PARTE TERZA

LE CHIESE

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Le chiese del paese

San Giorgio Martire

La parrocchiale di Siliqua, intitolata a San Giorgio martire, si trova nel centro storico del paese, quasi di fronte al Monte Granatico.

Lo studio più completo, dedicato alla chiesa, è quello condotto da Stefano Basciu in La Chiesa di San Giorgio a Siliqua, pubblicato nel XXXII volume della rivista “Studi Sardi” nel 1999, in cui ne viene ricostruita l’evoluzione dal primo impianto romanico fino ai lavori di restauro del 1984.

Le notizie di seguito riportate sono tratte dal suddetto lavoro.Tre sono le date da cui non si può prescindere per la ricostruzione dell’evoluzione architetto-

nica della chiesa: termine ante quem il 1594, anno della prima attestazione documentata nei Quinque Libri; il 1614, in cui furono costruite le cappelle laterali vicino al presbiterio; infine il 1777, data in cui l’edificio risulta già configurato come oggi.

La chiesa, dato il suo impianto romanico, risale al medioevo, sebbene non ci sia pervenuta alcuna fonte documentaria che ne attesti l’esistenza in quel periodo. Non si ha alcuna testimonianza scritta neppure della sua trasfor-mazione in forme tardo gotiche, cioè con un’unica navata, una cappella presbiteriale e quattro cappelle per lato.

“Il prospetto principale si presenta tripartito con tre ingressi architravati privi di decorazione architettonica; solo quello centrale, più ampio rispetto ai due laterali, è inquadrato da un esile modana-tura che segna gli stipiti e l’archi-trave su mensole arrotondate”. Per quanto riguarda gli ingressi laterali, quello a destra esisteva già dal 1727. Nello stipite, infatti, è possibile leggere: 1727 LUIS MUR-RU. Quello a sinistra è posteriore al 1761, stando a quanto si legge nell’inventario delle chiese di Sili-qua redatto in quell’anno per ordi-ne dell’Arcivescovo di Cagliari Tomaso Ignazio Maria Natta. Risulta, infatti, che all’epoca la chiesa avesse due sole porte, una grande al centro della facciata e l’altra piccola dalla parte dell’epistola, ossia a destra del portone centrale.

La parte centrale della facciata “è in forma quadrata a terminale orizzontale segnato da cor-nice, mentre le due ali trapezoidali hanno terminali a spioventi”. Al centro, il rosone dà luce alla chiesa: dal “circolo centrale quadrilobato […] si irradiano dodici raggi che formano otto petali lobati. Alla sinistra si affianca il campanile con base a canna quadrata su cui si imposta la cella campanaria, a sezione ottagonale, forata da monofore in ciascun lato. La torre si conclude con una cupola emisfe-rica su spessa cornice aggettante”.

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L’impianto romanico: la facciata

“La rimozione degli intonaci della parte mediana della facciata, avvenuta nel corso dei lavori di restauro del 1984, ha messo in luce l’antico paramento murario, consentendo l’individuazione di strutture pertinenti al primo impianto dell’edificio.

Si individuano due fasi costruttive: nella prima si delinea una facciata a due spioventi e co-ronata da un campanile a vela a due luci; nella seconda si rileva il sopraelevamento sulle falde del muro, per rendere il prospetto quadrato. Nella prima fase l’opera muraria è in conci squadrati di media pezzatura e di materiali diversi, quali calcare, tufo, trachite e granito, disposti a filari se-condo la tecnica dell’opus quadratum. Nel secondo intervento il materiale utilizzato è di pezzatura maggiore rispetto al precedente e i conci in calcare bianco sono messi in opera sia in orizzontale sia in verticale”.

Dall’analisi della struttura muraria è emersa l’opera policroma dell’impianto romanico sebbene non del tutto apprezzabile a causa dell’erosione dei materiali. “Il basamento è costituito da tre filari

in tufo cui si alternano un filare in trachite rossastra, altri tre in tufo e due in granito. A metà della facciata i conci bianchi, grigi e rossastri si dispongono in modo irregolare sino alla base di un falso timpano spezzato, interamente in pietre grigie. Questa partico-lare attenzione policroma su linee orizzon-tali richiama modelli toscani attestati in Sar-degna nell’area centro-settentrionale […]; per quando riguarda il Meridione dell’Isola questi effetti cromatici, così geometricamen-te definiti, sono sconosciuti. Il campanile a vela, tamponato da materiale litico e late-rizio e forato dal rosone circolare, risulta segnato a metà delle luci da due simmetrici conci grigi”.

Oggi, in seguito ai restauri del 2001, non sono più visibili né le differenze tra le due fasi costruttive né il gioco di colori di cui Basciu parla, poiché la facciata è stata quasi interamente intonacata. Sono state, invece, riportate alla luce le due celle dell’antico campanile a vela, liberate dal pietrame con cui erano state murate.

Analizzando la struttura architetto-nica della facciata, apparentemente inscri-vibile in un quadrato seppure imperfetto, e data la somiglianza con quella della chiesa di San Giorgio a Decimoputzu (fine XI sec.), Basciu avanza l’ipotesi che, in origine, essa

si presentasse con “un portale architravato e forse lunettato e sormontato da una bifora”. Tuttavia a Siliqua, a differenza di Decimoputzu, non si individua la sagoma di un profilo a salienti, tipica di un struttura a tre navate, bensì un prospetto a capanna con campanile a vela a due luci. Da ciò Basciu deduce che la struttura originaria della chiesa fosse a navata unica.

La fase tardogotica

Per la ricostruzione della chiesa tra la fine del XVI e la seconda metà del XVIII secolo, Basciu si è avvalso di materiale d’archivio edito1 e inedito2 che gli ha consentito di effettuare una lettura for-male dell’edificio e di precisare “l’entità di alcuni interventi edilizi di tipologia tardogotica, effettuati in questo arco di tempo”.

“La prima attestazione della parrocchia intitolata a S. Giorgio risale al 15943. In un decreto redatto il 13 maggio del 1604, a seguito della visita pastorale dell’arcivescovo De Esquivel, vengo-no emanate disposizioni sulle funzioni religiose e amministrative della parrocchia.[…] Il 25 agosto del 1614 viene stipulato a Cagliari l’atto per la costruzione, nella chiesa di S. Giorgio in Siliqua, di due cappelle dedicate rispettivamente alla Madonna del Rosario ed al Crocifisso. Nel 1777 l’edificio risulta provvisto di nove altari compreso l’altare maggiore; ne deriva quindi una configurazione iconografica come quella odierna, a navata unica, quattro cappelle per lato e cappella presbiteriale.

È bene precisare da subito che probabilmente l’impostazione planimetrica gotico-catalana del-la chiesa di S. Giorgio in Siliqua, come per numerose chiese sarde sorte tra il XV e il XVI secolo, fu a navata unica, con cappella presbiteriale e senza cappelle ai lati.

L’aula è divisa in quattro campate da tre archi diaframma a sesto acuto che sorreggono una copertura lignea a due falde […]. L’arco di accesso alla cappella presbiteriale, nervato nell’intrados-so, scarica su semicolonne addossate ai robusti pilastri cruciformi. Accettando l’ipotesi di un primo impianto a navata unica senza cappelle laterali, dobbiamo di conseguenza ritenere che in origine gli altri archi diaframma poggiassero su paraste addossate ai contrafforti esterni. I pilastri cruciformi che vediamo oggi sarebbero il risultato funzionale alla successiva apertura delle cappelle laterali” edificate in tempi diversi.

Il presbiterio ha pianta quasi quadrata con volta a crociera e costolonata; “la trama delle nerva-ture disegna una stella a quattro punte con altrettante quattro gemme pendule oltre quella centrale. Ai quattro angoli le costolonature scaricano su esili peducci fitomorfi. Le gemme presentano deco-razioni classicheggianti date da cornici a motivi vegetali che racchiudono la rosetta baccellata; nella gemma principale è inciso il simbolo eucaristico JHS”.

Al centro del presbiterio, sopraelevato rispetto alla navata, originariamente chiuso da una balaustra (oggi nella chiesa di Sant’Anna), è posto l’altare maggiore in marmi policromi datato 1753. Sul bordo della mensa, infatti, si legge: OCULI MEI ERUNT APERTI ET AURES MEAE ERECTAE AD ORATIONEM EIUS QUI IN LOCO ISTO ORAVERIT LIB. II PARALIP. CAP. VII AN. DNI 1753. Secondo l’inventario del 1761 nella nicchia era collocata la statua della Vergine delle Grazie.

“All’angolo del presbiterio si conservano due capitelli sovrapposti, di cui il primo ha base cir-colare, kyma ionico con quattro ovuli per ciascun lato e abaco quadrato; al posto delle quattro volute sono scolpite delle faccine umane. Il secondo capitello è stato scavato all’interno per essere adattato ad acquasantiera”. Il manufatto, probabilmente seicentesco, è in calcare bianco.

Le cappelle laterali più vicine al presbiterio sono dedicate, quella a destra al Crocifisso, quella a sinistra alla Madonna del Rosario, e “sono da identificare con quelle attestate nel già citato docu-mento del 1614”. L’atto con cui fu commissionato il lavoro di edificazione precisa che le due cappelle dovessero avere cinque chiavi di volta e gli altari in pietra. “In una cappella dovevano essere dipinte le immagini della Madonna del Rosario, nell’altra le immagini del Crocifisso. […] La costruzione fu affidata ai picapedrers di Lapola Sebastiano Cau e Giovanni Pintus, i quali risultano chiamati anche per la costruzione della cappella di S. Antioco nella chiesa di S. Pietro in Assemini (31 gennaio 1618), e per i lavori di ampliamento della chiesa parrocchiale di Villasor (4 dicembre 1629)”.

Entrambe le cappelle “sono voltate a crociera e costolonate, con trama stellare a quattro punte e cinque gemme pendule. In quella del Rosario, nella gemma di chiave, è rappresentata la Madon-na col rosario in mano; in quella del Crocifisso sono raffigurati nelle gemme minori i simboli della

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Passione (la scala, la lancia, la freccia, il chiodo, la mano con la palma del martirio e la croce), mentre nella gemma centrale è il Cristo crocifisso […].

La seconda cappella a sinistra partendo dall’altare, dedicata all’Assunta, è voltata a crociera semplice, senza nervature; sono invece voltate a botte se pure con altezze diverse, le altre cappelle: di S. Lucia e del Battistero (rispettivamente la terza e quarta a sinistra), dell’Immacolata, del Sacro Cuore e della Madonna del Carmelo (seconda, terza e quarta a destra)”. Quest’ultima, secondo l’in-ventario del 1761, era dedicata alle anime del purgatorio e, ancora oggi, c’è chi la chiama sa cappella ‘e is animasa (la cappella delle anime). All’interno, stando sempre all’inventario, era esposto un dipinto con l’immagine di Nostra Signora del Carmelo e delle anime del purgatorio dentro le fiamme di cui è rimasta memoria nella popolazione sino ad oggi, essendo stato bruciato intorno al 1960.

Il pulpito in marmo, costruito nel 1956, addossato al pilastro che separa la cappella voltata a vela con quella del Rosario, era in origine in pietra lavorata. Ad esso si accede tramite una piccola scala circolare costruita forando il pilastro e sacrificando la parte finale della costolonatura e il pe-duccio di scarico della volta nella cappella del Rosario.

Le cappelle sono messe in comunicazione tra di loro da basse arcate a tutto sesto; si aprono all’aula, le prime quattro, con archi a sesto acuto modanati nell’intradosso, le altre con archi a tutto sesto privi di modanature.

I rilievi scultorei incorporati nella facciata

Nella facciata sono visibili tre bassorilievi, uno a destra e gli altri due a sinistra rispetto al roso-ne. In quello a destra è scolpito “uno scudo a sei bande, affiancato dal profilo di un colle sulla cima del quale svetta un maniero” collegato ad una torre attraverso una serie di sei arcate; nella parte inferiore del maniero si intravedono “tre torri merlate raccordate da cortine murarie, anch’esse mer-late”. Gli altri due bassorilievi “raffigurano ciascuno uno stemma capovolto”: uno è apparentemente senza incisioni, l’altro presenta “uno scudo con unica fascia spezzata a zig zag e laccetto”.

Il bassorilievo su cui è rappresentato il castello richiama il complesso di Acquafredda così come si ipotizza fosse durante il periodo pisano. Lo scudo, scolpito affianco all’immagine del castel-lo, presenta delle similitudini con altri due stemmi, uno proveniente dalla torre di San Pancrazio e l’altro dal palazzo delle Seziate, entrambi attribuiti ad una famiglia pisana del XIV secolo. Non può essere quindi collegato, secondo Basciu, allo stemma dei Conti di Donoratico della Gherardesca, su

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cui era invece raffigurata l’aquila reale e che è stato rinvenuto nella parete esterna occidentale del castello.

Sulla base di queste osservazioni, Basciu suggerisce che “i rilievi incorporati nella facciata della chiesa di S. Giorgio possano provenire proprio dal castello di Acquafredda4. Non si può esclu-dere tuttavia che questi materiali provengano dai fianchi della stessa chiesa romanica, demolita al momento della ricostruzione dell’edificio tardogotico. È certo invece che lo stemma a sei bande, affiancato al complesso fortificato, serva ad affermare la proprietà del castello. Resta da chiarire se il concio marmoreo (nel caso provenga da Acquafredda) vi fu portato per sottolineare il potere anche sulla villa di Siliqua o se al contrario fu utilizzato come materiale di spoglio, insieme agli altri due scudi, per essere poi intonacati e nascosti al fine di occultare per sempre l’insegna degli sconfitti a vantaggio dei vincitori”.

Conclusioni

“Il primo impianto della chiesa di S. Giorgio muove quindi dalla facciata romanica, costruita in base al sistema modulare quadrato con una suddivisione in sedici quadrati più piccoli.” Tuttavia, dalle misure da lui stesso rilevate, base di m 8,13, altezza sino al campanile a vela di m 8,25, Basciu ritiene più probabile una ripartizione in rettangoli.

L’autore ipotizza, inoltre, che il campanile a vela quasi sicuramente si concludesse con una cuspide e che ci sia stato un innalzamento del lastricato della piazza, per cui è possibile che l’altezza della chiesa in origine fosse di 8,60 metri.

Dividendo questa misura in quattro si ottiene l’unità di misura conosciuta come canna pisana, pari a 2,15 m. Ciò potrebbe costituire una prima “base comparativa per proporre l’origine della chiesa se messa a confronto con ulteriori analisi modulari di altri edifici romanici5 […]. Alla luce di queste esposizioni si può proporre, per la chiesa di S. Giorgio a Siliqua, una cronologia d’impianto che oscilla tra la fine del XII - inizi XIII secolo”.

La chiesa, infatti, presenta una vivacità coloristica di ascendenza prettamente toscana, mentre sono del tutto assenti, almeno nella parte decorativa, quegli elementi stilistici tipici dell’architettura legata alla presenza dei monaci vittorini e alle maestranze pisane, che operarono nel giudicato di Cagliari tra la fine dell’XI e la seconda metà del XII secolo.

“La trasformazione dell’edificio romanico in forme tardogotiche avvenne successivamente all’affermazione degli Aragonesi, consolidatasi nella prima metà del XV secolo. Questo intervento edilizio teso a recuperare strutture preesistenti è anomalo nelle fabbriche delle parrocchiali, in quan-to i nuovi dominatori costruirono i nuovi impianti, sulla scorta del gotico catalano, quasi sempre rispettando le chiese locali.

Se si accetta l’ipotesi proposta dalla tradizione orale che vede, nella chiesa di S. Anna, la prima parrocchiale di Siliqua e della quale abbiamo il documento che ne attesta una sua riedificazione nel 1481, si deve di conseguenza ritenere che prima di quella data l’edificio romanico di S. Giorgio aveva già subito la trasformazione in forme gotiche”.

La chiesa di S. Anna è stata costruita secondo lo schema gotico catalano: navata unica, presbi-terio quadrangolare, tetto in legno a due falde su archi diaframma. “Difficilmente essa ha un’origine romanica, a meno che le strutture del primo impianto non siano andate completamente distrutte”.

Basciu, pur accettando in parte la prima ipotesi, ritiene “più plausibile riconoscere nella chiesa di S. Giorgio la prima parrocchiale di Siliqua in epoca medioevale; successivamente con l’avvento dei catalano-aragonesi si edificò ex novo, nella seconda metà del XIV, la nuova parrocchiale di S. Anna. Per ragioni sconosciute ad assurgere al ruolo di parrocchiale fu la chiesa di S. Giorgio, e questo non poté avvenire che nella prima metà del XV secolo trasformando e ampliando l’edificio romanico”.

Sant’Anna

La chiesa di Sant’Anna è di particolare interesse in quanto testimonianza dell’architettura del-la prima età aragonese in Sardegna. Di essa non si conoscono né la data di fondazione né quella di consacrazione, ma è certo che esistesse già prima del 1481, perché un documento di quell’anno ne attesta i lavori di riedificazione essendo la chiesa preesistente completamente in rovina.

Pur modesta quanto a impegno e risultato edilizio, la chiesa costituisce un episodio architetto-nico tipico della completa assimilazio-ne, da parte di maestranze locali, degli elementi culturali trasmessi da quelle catalane trasferitesi in Sardegna e im-pegnate nel territorio.

È interamente concepita secondo lo schema gotico catalano: in pietra, ha un’unica navata con pianta a croce latina per la successiva apertura di due cappelle contrapposte in prossimità del presbiterio quadrangolare. “La cap-pella presbiteriale originaria è andata distrutta e oggi si individuano solo i conci di base nel retroprospetto; il pre-sbiterio attuale altro non è che l’ultima campata della chiesa”.6

La costruzione è caratterizzata da archi diaframma a sesto acuto che sostengono il tetto di legno ricoperto di tegole. In una trave è riportata l’iscri-zione 1765 Anton Armas.

Le basi degli archi non sono pa-rallele, segno che la chiesa è stata più volte sul punto di crollare. La facciata conserva il prospetto a terminale piatto e merlato sul margine posteriore con un piccolo oculo al di sopra del portale. La chiesa ha due ingressi: uno nella facciata, l’altro, più piccolo, si apre su via Garibaldi.

Secondo l’inventario del 1761, risulta che nell’altare maggiore vi fosse un retablo, in cui erano dipinte scene della vita, della passione, della morte di Cristo e altre immagini degli Apostoli, e tre nicchie. In quella centrale, provvista di vetrata e tendine, vi era la statua di Sant’Anna; nelle nicchie laterali vi erano San Raimondo Nonnato e Santa Rosa da Viterbo.

Oggi, al posto del retablo c’è un altare ligneo che risale al 1765 opera dell’illustre scultore An-tioco Diana. Nella mensa è riportata la seguente scritta: Expenssis. Nob. D. Gajetani Cardia simul.q.r Anton Armas 1766. L’altare è caratterizzato da decorazioni dorate, per lo più floreali, su uno sfondo nero e verde scuro. Nella nicchia centrale vi è la statua di Sant’Anna con la Madonna bambina, in quella di destra quella di San Giacomo Apostolo, in quella di sinistra Sant’Isidoro agricoltore.

Nell’arco sul presbiterio si trova uno stemma raffigurante una mano che stringe delle spighe di grano.

Per quanto concerne le cappelle laterali, voltate a botte, erano dedicate, secondo l’inventario, una a San Paolo Apostolo e l’altra a Santa Chiara. Nella prima si trovavano almeno due nicchie con

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l’immagine di San Giacomo e di San Vito; nell’altra ve ne erano tre con le immagini di Santa Chiara, San-ta Margherita e Santa Lucia.

Oggi, sull’altare della cappella destra sono sistemate quattro statue: la Madonna della difesa, Santa Filomena e altre due Madonne, una delle quale coperta con un velo bianco. Sull’altare della cappella sinistra vi sono le statue di San Giovanni Battista, San Marco, Santa Lucia, l’Addolorata, Gesù Bambino e Santa Maria. Nella cappella è anche siste-mato un cocchio con Sant’Antonio abate. Quasi tutte le statue conservate sono in legno rivestite con abiti in stoffa.

La chiesa ha un campanile ordinario a vela, un tempo con scala esterna portatile e in legno, e una campana (nel 1761 erano due). Vi è, inoltre, una sa-grestia, con tetto in tegole senza assito.

Oggi in ciascuna parete della navata è visibile una nicchia: in quella a destra dell’ingresso è posta la statua di San Daniele francescano, in quella a sinistra si trova la statua di San Salvatore da Horta. Di queste nicchie non si ha notizia nell’inventario che fa, inve-ce, riferimento ad un altare posticcio dedicato a San Francesco d’Assisi, la cui immagine era riposta nella nicchia dentro il muro con vetrata e tendina di seta.

Si ha notizia di alcuni altari in legno nel presbiterio e due in mattoni nell’aula, che furono de-moliti nel 1928 per ordine dell’Arcivescovo.

Secondo la tradizione orale, Sant’Anna fu la prima chiesa ad essere titolata Parrocchia.

Sant’Antonio

La chiesa di Sant’Antonio si trova nelle vicinanze della Parrocchia e risale anch’essa al periodo della do-minazione aragonese; ricorda, infatti, nelle merlature e nel campanile a vela lo stile della chiesa di Sant’Anna. Ha quattro ingressi: il portone principale che si apre sulla piazza, un altro ingresso sul lato sinistro rispetto al portone, e due nella Sagrestia, uno che si affaccia su Via Mannu, l’altro sul cortile.

Nel presbiterio vi sono tre nicchie: in quella sopra l’altare è posta la statua di Sant’Antonio, in quelle la-terali sono esposte le statue del Sacro Cuore e di Santa Cecilia. Alla base dell’altare è incisa una scritta EXPEN-SIS ECLESIAE PRÔRE NOTT. GEORGIO MAGHONY AŃO. DŃI 1768.

Nell’inventario del 1761 è così descritta: “Al cen-tro della Villa vi è anche eretta la chiesa dedicata a S.

Antonio di Padova; è costituita da una navata costruita alla moderna; il suo tetto è in tavole e tegole, con due porte, una grande nella parte anteriore e un’altra piccola dalla parte del Vangelo; il suo cam-panile è ordinario con la sua scala all’esterno, portatile, e due campane piccole. Questa chiesa ha un solo altare con una nicchia al centro provvista di vetrata e velo, dove si trova l’immagine di detto S. Antonio a mezzo busto, e un’altra immagine dello stesso Santo, a corpo intero, al lato dell’altare. Si ignora chi e quando si sia costruita. Non ha dote, tuttavia la sua festa si celebra il 13 giugno a spese della Comunità. Questa chiesa è larga 26 palmi, lunga 63 e alta 20”. Considerando che un palmo corrisponde a circa 25 centimetri, la chiesa era approssimativamente larga 6,50 m., lunga 17,75 m. e alta 5 m.

San Sebastiano

San Sebastiano si trova nella piazza Martiri, di fronte al monumento dei ca-duti. L’edificio, attualmente, presenta una facciata segnata da una cornice a doppia inflessione e muratura a vista. È costituita da un’unica navata, di modeste dimen-sioni, sicuramente secentesca con lesene interne destinate a sostenere archi traversi per la copertura, che sono rimaste interrot-te al livello dei capitelli. Oltre all’ingresso principale sulla piazza, ve ne sono altri due ai lati della chiesa.

Nella parte destra della facciata si trova una placca di ferro posta dall’Istitu-to Geografico Militare che indica la quota altimetrica di Siliqua pari a 66 metri sul livello del mare e la scritta caposaldo di li-vellazione. Istituto Geografico Militare.

In origine la chiesa aveva una strut-tura molto più articolata che può essere ri-costruita tramite l’inventario del 1761. “Ad oriente della Villa vi è la chiesa dedicata a San Sebastiano, la quale è costituita da tre navate di ordinaria fattura con un tetto di tavole e tegole, con due porte, una grande nella parte anteriore e un’altra piccola dal lato dell’epistola. È larga 42, lunga 42 e alta 12 palmi.7 Non ha che un altare con la sua nicchia, vetrata e velo e un retablo; in questo vi sono dipinti un Santo Cristo, San Sebastiano e Santa Giuliana, e nella nicchia vi si trova l’immagine di detto S. Sebastiano; la cui festa si celebra il 20 gennaio, e il terzo martedì di settembre a spese della Comunità. Ha il suo campanile, ordinario, con una campana piccola e una scala portatile dalla parte esterna e una sua tettoia sul da-vanti. Non ha dote, né si sa chi, né quando sia stata fondata, né se sia stata consacrata”.

La tettoia esisteva ancora ai primi del novecento.

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San Giuseppe Calasanzio

Fu edificata, nel 1754, dal sacerdote Giuseppe Serra sotto il diverso titolo del Santissimo nome di Maria e ubicata nell’omonimo rione di San Giuseppe.

Dall’inventario del 1761 la chiesa risultava distan-te mezzo miglio dal paese. Era costituita da una navata larga, pressappoco, 6,50 metri, alta 5 e lunga 12.

Il tetto era in canne e tegole senza assito, escluso il tratto occupato dall’altare ricoperto di tavole. Aveva un unico altare, con una nicchia dove era posta la statua del beato Giuseppe Calasanzio e nella parte più alta il dipinto del Nome di Maria con vetrata e velo.

I due ingressi si aprivano uno sulla facciata e l’altro sul lato destro. Il campanile era ordinario senza campane e senza scala.

La sacrestia, di ordinaria costruzione, aveva una finestrella con rete in legno ma senza vetri. Vi era una cassapanca in castagno, dove si conservava tutto ciò che occorreva allo svolgimento delle funzioni religiose: un camice, due casule con le loro stole e manipoli (una ordinaria l’altra di seta), copricalice e calice (in ottone e in d’argento dorato), patena in argento dorato, una campanella di rame, ampolline di vetro.

Dall’inventario risulta che la chiesa fu benedetta l’anno successivo alla sua fondazione voluta dal curato di Siliqua Giuseppe Serra per concessione, datata 20 agosto 1754, dell’Arcivescovo di Cagliari, Giulio Cesare Gandolfi. In virtù di questo decreto il parroco sottoscrisse l’atto di dote che fu poi precisato nel quinto inventario dal notaio Giuseppe Puxeddu Ciccu di Siliqua il 20 settembre 1754.

Chiese campestri

San Giacomo di Stia Orro

Questa chiesa apparteneva ad un antico centro abitato di epoca medievale. Nelle sue vicinan-ze sono ancora visibili i ruderi di un antico convento costruito probabilmente dai padri vittorini di Marsiglia intorno all’XI secolo.

Esempio di un’architettura minore, probabilmente di origine monastica, la chiesa è formata da un nucleo centrale più antico di forma rettangolare orientata con l’altare verso est. Le murature sono in pietrame, legato con malta di pessima qualità ma, in alcuni tratti, si intravedono conci in pietra da taglio ben lavorata.

La facciata sulla quale si apre una porta ad arco è successiva e risale alla prima metà del 1600. Sovrastano il portale d’ingresso una piccola finestra ottagonale e un campanile a vela. Davanti e sul lato destro si sviluppava un loggiato formato da pilastri quadrangolari uniti da un parapetto; in se-guito la parte destra del loggiato fu inglobata nella chiesa per formare locali di sosta per i fedeli e sul fondo per ricavarne una piccola sagrestia. All’interno della chiesa un’antica acquasantiera reca una scritta non completamente leggibile.

Nei pressi della chiesa si trovano due fonti, sa mitza de santu Iaccu e sa mitza de Danielli.

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Fino al 1930 circa era consuetudine portare in processione, insieme a San Giacomo, il simulacro di Santa Barbara. Entrambi, come testimonia un’antica preghiera, erano invocati contro le tempeste. Di essa esistono due versioni; la prima, riportata in una lettera al Vicario Generale scritta dal par-roco di Siliqua, Eugenio Cossu, il 28 luglio 1933, recita: Sant’ rabara e Santu Iaccu, bosu portais is crais de lampu bosu portais is crais de ceu, ne’ tronu, ne’ lampu, ne’ temporada mai non tochinti a fillu allenu. La seconda versione, tramandata oralmente, è quella più diffusa: Santa Brabara e Santu Iaccu, bosu portais is crais de lampu, bosu portais is crais de ceu, no toccheis a fillu allenu, nè in dommu (bidda) nè in su sattu, Sant’ Brabara e Santu Iaccu.

Santa Margherita

La chiesa di Santa Margherita si trova a poca distanza dal castello di Acquafredda. Secondo l’inventario del 1761, fu ricostruita a spese del nobile don Gaetano Cardia nel 1758.

L’edificio presentava già da allora una navata unica e il tetto in tegole e tavole di legno: “È larga 21 palmi, alta 23, lunga 558; ha una porta nella parte anteriore, e un campanile ordinario senza campana né scala”. All’interno della chiesa vi era un solo altare con una nicchia in cui era esposta l’immagine della Santa.

Oggi, anche dopo il restauro, nel 1947, ad opera dei ferrovieri delle ferrovie meridionali, pre-senta forme gotico catalane con facciata a terminale piano orlato di merlatura che risale probabil-mente al 1600.

Chiese distrutte

San Marco

Della chiesa di San Marco, di cui oggi riman-gono solo pochi ruderi, non si conosce né quando né da chi fu edificata.

Grazie all’inventario è però possibile rico-struirne la struttura. Aveva un’unica navata, il tetto in canne e tegole senza assito. Era larga circa 5 metri, alta 3,50 e lunga circa 9. Aveva due porte, una grande sulla facciata e una piccola dalla parte dell’epistola, un campanile piccolo e ordinario sen-za campana e scala, altare senza retablo.

Era consuetudine conservare la statua del Santo in parrocchia per tutto l’anno e portarla, in processione, nella sua nella chiesa solo per la festa, il 25 aprile. Oggi è conservata nella chiesa di San-t’Anna.

L’uso della chiesa fu interdetto dal Canonico Ignazio Vincy il 24 maggio 1760 poiché il tetto era pericolante. Essa non fu probabilmente ristrutturata e lentamente andò in rovina: infatti, già in un documento del 1777, conservato presso l’Archivio della Curia Arcivescovile di Cagliari, non risulta più citata tra le chiese rurali di Siliqua.

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Santa Maria

I ruderi della chiesa di Santa Maria si trovano a pochi chilometri dal paese nella loca-lità chiamata anticamente salto cabalis e oggi nota col nome di Gibasoli.

Fu edificata, in epoca me-dievale, secondo gli schemi del-l’architettura romanica sopra le rovine di un edificio termale di età romana. Vicino sono visibili i resti del ponte e dell’acquedot-to romano.

Col nome di Santa Maria cabales è citata tra le chiese di Si-liqua nel decreto redatto il 13 maggio del 1604 dopo la visita pastorale dell’arcivescovo De Esquivel; nell’inventario del 1761 risulta, invece, dedicata a Nostra Signora di Monserrato.

Anche per questa chiesa, come per San Marco, è possibile, grazie all’inventario, capire quale fosse la sua struttura architettonica.

Era costituita da un’unica navata con tetto in serradizzos e tegole. Nel 1761 la parte sopra l’al-tare fu coperta con tavole in legno. Larga e alta circa 4 metri, lunga circa 10, aveva due porte, una grande nella facciata e una piccola dalla parte dell’epistola. Non possedeva né campana né scala. Davanti e nella parte del Vangelo, ossia a sinistra rispetto all’altare, aveva una tettoia.

Santa Barbara

Nei pressi del castello di Acquafredda vi era la chiesa dedicata a Santa Barbara, citata in al-cuni antichi documenti risalenti all’epoca giudicale. Da essi risulta che la ecclesiam sanctae Barbarae de Aquafrigida fu donata ai monaci vittorini di Marsiglia nel 1089 da Costantino, giudice di Cagliari. Un documento successivo, datato 22 aprile 1090, riconferma la donazione da parte dell’arcivescovo di Cagliari Ugone, il quale aggiunse alla chiesa di Santa Barbara anche quella di Santa Maria: simili etiam modo dono atque concedo ecclesiam [...] Sanctae Mariae et Sanctae Barbarae de Aqua frigida. Tale do-nazione fu ulteriormente confermata in documenti del 1119, 1120, 1141, 1183 e 1218.

La chiesa di Santa Barbara risulta elencata nell’inventario dei beni dei vittorini ancora nel 1338 e amministrata dal presbitero Raimondo, parroco di Villanova di Saruis.

Diverse sono le ipotesi sull’esatta ubicazione della chiesa. Da alcuni documenti, datati 1215, 1216, 1238, si può dedurre l’esistenza di una cappella sul monte del castello. In alcuni di essi è citato il prebiteru Iohanni Spina capellanu miu de su Monti de Aguafriida, in altri Benitu castellanu de su Monti de Aquafriida (castellanu è probabilmente un errore e va letto cappellanu, secondo Gianni Serreli, Simona Sitzia e Stefano Castello autori di La Curadoria del Sigerro). La cappella ricordata in questi documenti potrebbe essere la chiesa di Santa Barbara.

Un’altra ipotesi, non confermata, la identifica con l’attuale chiesa di Santa Margherita, anche se il ritrovamento di un capitello e di alcuni elementi architettonici all’interno della cinta muraria, durante gli scavi del 1999, introducono una nuova ipotesi di ubicazione della chiesa.

Altre chiese

Nel territorio di Siliqua risulta siano esistite anche le chiese dedicate a San Pietro, a San Gemi-liano, a Sant’Elena e a San Giovanni Saruis.

Quest’ultima chiesa si trovava probabilmente a Villanova Saruis, villaggio medievale attestato per la prima volta intorno al 260 d.C., di cui sono ancora oggi visibili le rovine, in prossimità del lago artificiale di Genna is abis, sul Cixerri.

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Note

1 M. CORDA, Arti e mestieri nella Sardegna spagnola, documenti d’archivio, Cagliari 1987. 2 Archivio della Curia Arcivescovile di Cagliari, A.A.C. 3 A.A.C., Quinque Libri, Siliqua, anni 1591-1612.4 Nota dell’autore: ”Dal castello potrebbe provenire anche il restante materiale tra i quali i laterizi

utilizzati per costruire il rosone”.5 Questa metodologia di studio è stata effettuata in gruppo di chiese lucchesi. Vedi C. BARACCHINI, A.

CALECA, M.T. FILIERI, Architettura e scultura medioevali nella diocesi di Lucca: criteri e metodi, in Romani-co padano, Romanico europeo, Convegno nazionale di studi, Modena-Panna, 26 ottobre-1 novembre 1977, Parma 1992, pp. 289-300.

6 Stefano Basciu, La Chiesa di S. Giorgio a Siliqua (CA), estratto da Studi Sardi, vol. XXXII, ed. AV, 1999, nota 76, pag. 357.

7 In metri: larghezza e lunghezza 10,50 m. altezza 3 m.8 In metri: larga circa 5 m., alte circa 6 m., lunga quasi 14 m.

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PARTE QUARTA

RICORDI E TRADIZIONI

Nascita

La maternità era un evento molto privato: la donna in genere lo teneva nascosto almeno per i primi mesi

e rendeva partecipi dell'evento solo i familiari più stretti.

Non esistendo alcun metodo scientifico per conoscere il sesso del bambino, si ricorreva a quelli degli avi.

Il più comune deduceva il sesso del nascituro dalla forma della pancia della mamma: la pancia larga sui

fianchi indicava che sarebbe nata una femmina, a punta un maschio.

Durante la gravidanza la donna, se desiderava in modo intenso qualcosa da mangiare, evitava di toccarsi

sul corpo perché si credeva che se lo avesse fatto il bambino sarebbe nato cun su disìgiu, ossia con la

voglia dei cibi desiderati sulla pelle.

Per la salute e per la vita della puerpera e del bambino era necessario chi su pipiu ndi pighessit totus is

lunas, che il bambino prendesse tutte le lune, cioè che il periodo della gravidanza ricoprisse nove cicli

lunari. Si credeva, infatti, che se il bambino fosse nato dopo solo otto mesi di gravidanza no si at a essi

bia sa mamma cun su fillu, ossia la madre e il figlio non avrebbero avuto la possibilità di conoscersi, in

quanto l'uno, l'altra o entrambi sarebbero morti prima o durante il parto.

Per scaramanzia la mamma preparava is spoglieddasa, il corredino, solo al termine della gravidanza: sa

camisedda, sa bambinedda, su cambùsciu, is pannitzus, su giponeddu, d'estate di millerighe e d'inverno

di mollettone (la camicina, il vestitino, la cuffietta, i panni, la giacchina). I bambini erano fasciati con

panni triangolari tenuti fermi con le spille da balia e, inoltre, avvolti dalla vita in giù con delle fasce che in

teoria avrebbero dovuto rinforzarne le ossa e impedire che gli venissero le gambe storte.

Il parto avveniva in casa, accanto al focolare: la donna era assistita dalla madre, dalla suocera e de sa

levadora, la levatrice. Si ricorreva al medico solo in casi estremi. Nei tempi più antichi non si chiamava

neppure la levatrice ma si ricorreva all'assistenza de sa maista de partu, una donna, in genere, anziana

che aveva acquisito con l'esperienza le tecniche per aiutare le partorienti.

La levatrice, invece, era un'impiegata comunale, assunta tramite concorso. In un atto del Consiglio di

Comunità di Siliqua del 1882 si ha notizia del bando di concorso indetto dal Comune per la figura,

appunto, di levatrice comunale. In esso se ne stabiliscono, tra l'altro, i doveri secondo l'uso locale:

assistere la partoriente dall'inizio alla fine del parto; lavare e vestire il bambino per i primi otto giorni,

presentarlo al battesimo, lavare la prima camicia della puerpera e accompagnarla in chiesa po s'incresiai,

per ricevere la benedizione dal prete.

Dai ricordi delle persone intervistate, questi doveri erano, in genere, rispettati. Sa levadora si recava a

casa de sa partera, la donna che aveva appena partorito, per circa otto giorni, per lavare e vestire il

bambino. Era consuetudine prepararle il caffè e darle la mancia, altrimenti, si diceva, non avrebbe fatto

gli auguri di buona fortuna al neonato.

Forse non è mai stata messa in pratica oppure si è perduta nel tempo l'usanza che la levatrice

presentasse il bambino al battesimo.

Il rito era celebrato generalmente all'ottavo giorno dalla nascita, pena i rimproveri degli anziani

preoccupati del fatto che il bambino potesse morire senza questo sacramento. Il neonato era portato in

chiesa da una ragazzina, scelta tra i parenti o nel vicinato. Partecipavano al battesimo, in genere, il padre

e i padrini. Questi ultimi erano scelti con cura perché si credeva che su filloru ndi pighessit is donus, cioè

che il figlioccio ne ereditasse le qualità morali. Il padre del bambino si recava appositamente a casa dei

prescelti per chiedere loro sa caridadi de ddu fai cristianu, la carità di farlo cristiano.

Raramente tale richiesta era disattesa. Chi lo faceva era malvisto dalla comunità perché rifiutava di fare,

appunto, un'opera di carità. Un legame speciale, su santuanni, spesso più forte di quello con i parenti, si

instaurava tra i genitori e i padrini che, da quel momento, si davano reciprocamente del voi e si

chiamavano con i nomi di gopai e gomai, compare e comare. Dopo il battesimo, era consuetudine offrire

su cumbidu.

I padrini regalavano ai figliocci la catenina d'oro, oppure is pramixeddas, gli orecchini piccoli e appuntiti

con cui si faceva il buco alle orecchie, e s'aneddu de oru, l'anello d'oro, quest'ultimo soprattutto ai

maschietti.

Era compito esclusivo della madrina tagliare, la prima volta, le unghie al neonato cosicché non diventasse

ladro. Anche la nonna paterna faceva un regalino al nipotino. La prima volta che andava a vederlo era lei

a fasciarlo e in mezzo alle fasce metteva qualcosa, in genere delle monetine.

Al battesimo la mamma non partecipava, perché non poteva uscire di casa prima di quaranta giorni. Era

una precauzione presa per tutelarne la salute. Si diceva, infatti, che sa partera teniat sa fossa oberta

coranta dias, che la donna, che aveva appena partorito, avesse la fossa aperta quaranta giorni.

Dopo cinque giorni dal parto si alzava per la prima volta e, aiutata dalla levatrice, faceva per tre volte il

giro del letto, poi si coricava nuovamente.

Sa prima bessida fiat po s'incresiai, la prima uscita si faceva per andare in chiesa. Il rito de s'incrèsiu ha

origine nella festa della Candelora, che ripropone la cerimonia ebraica della presentazione di Gesù al

Tempio e della purificazione della Madonna avvenuta dopo quaranta giorni dal parto.

La donna era considerata impura finché non si recava in chiesa per la purificazione insieme al bambino.

La accompagnava la levatrice, la madre o la comare. Il prete, avvertito della sua presenza, andava ad

accoglierla e la conduceva fino all'altare. Qui ella accendeva una candela in segno di offerta e

ringraziamento e poi, inginocchiata nel primo banco, riceveva la benedizione dal sacerdote che metteva la

stola sopra la testa del bambino. Ultimo atto era l'offerta po sa candeba, per la candela. Da questo

momento la donna riprendeva la vita di tutti i giorni.

Filastrocche e spauracchi

Le madri erano molto apprensive per la salute dei bambini soprattutto durante il primo anno di vita.

Si credeva, infatti, che superato questo periodo avessero molte più probabilità di sopravvivere.

Esse scrutavano ogni sorriso o pianto dei propri figli, in particolar modo quando dormivano. Si racconta,

infatti, che se il bimbo sorride quando dorme è perché qualcuno gli ha detto che la madre è morta ma lui,

siccome ne ha appena succhiato il latte, sa che non è vero. Se invece piange è perché gli hanno detto che

è morto il padre e lui si dispera perché non può assicurarsi del contrario.

Per intrattenerli cantavano loro filastrocche e canzoncine:

A cuaddu a cuaddu a Sant'Obrai

innui a ora bona eus arribai

eus abasciai in domu de Ningoba

e at a bocì u pegu de moba

e s'at a fai a prandi e a cenai

a cuaddu a cuaddu a Sant'Obrai

A cuaddu a cuaddu a Sant'Arega bai

in domu bona eus abasciai

eus abasciai in domu de ziu Ningoba

eus a bocì unu peghiteddu de moba

e nd'eus a tenni a prandi e a cenai

a cuaddu a cuaddu a Sant'Arega bai

Duddurudù pipia de babbai

sa pipia nosta no si mroxiat mai

A cavallo, a cavallo a Sant'Orbai

all'ora giusta arriveremo

Andremo a casa di Nicola

che ucciderà un asino da mola

e ci basterà per pranzo e per cena

A cavallo, a cavallo a Sant'Orbai.

A cavallo, a cavallo a Santa Greca vai

in una casa buona andremo

andremo a casa di zio Nicola

uccideremo un asinello da mola

e ne avremo per pranzo e per cena

a cavallo, a cavallo a Santa Greca vai.

Duddurudù bimba di papà

la bimba nostra non muoia mai

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mellus chi si mroxiat baca cun vitella

poita sa vitella si dda papaus

e sa pipia nosu dda mandaus

a si comprai su binu po cenai

duddurudù pipia de babbai

Custu pipieddu no si mroxiat mai

mellus chi si mroxiadat una vitelledda

e sa vitelledda ca si dda papaus

e a su pipiu ca ddu cojaus

cun dd-una pipia bella de Samatzai

chi tengiat trigu e tengiat dinai

custu pipieddu no si mroxiat mai

Duddurudù pipia de Casteddu

sa mama da fait unu bistireddu

e nci ddu ponit una busciachedda

po nci dda ghetai su bobboieddu

duddurudù pipia de Casteddu

Duddurudù e dudduruduru

e genti ci bengiat e abarrit puru

e genti ci bengiat de Muristei

e beni ndi tengiast a puntadas de pei

e su dinai totu a pabiadas

e sa domu siat de perda picada

e is primiaxis siant de argentu

e cumois tengiast de pastoris centu

e cumois tengiast de centu pastoris

unu fradixeddu chi sia dotori

una sorrixedda chi sia contissa

a cadira de oru ti potint a crèsia

e is larvas potist chi duas cerexias

e su fronti potist de oru picau

citidì no prangiast coru miu amau.

Duddurudù e dudduruduru

e genti ci bengat e po tui puru

e genti ci bengat de su Muristei

e su bei potist a puntadas de pei

e su dinai totu a pabiadas

e is domus siant de perda picada

is primiaxis de oru e de argentu

no tenga pastori ne cumois centu

no tenga pastori ne centu cumois

unu fradixeddu ddu tengu minori

una sorrixedda dda tengu contissa

a cadira de oru ti potint a missa

a cadira de oru ti potint a crèsia

e is larvas potist chi duas cerexias

su frontixeddu de oru picau

dudduruduru coru miu amau.

meglio che muoia la vacca con la vitella

perché la vitella ce la mangiamo

e la bimba noi la mandiamo

a comprarci il vino per la cena

duddurudù bimba di papà

Questo bambinetto non muoia mai

meglio che muoia una vitellina

la vitellina la mangiamo

e il bimbo lo sposiamo

con una bimba bella di Samatzai

che abbia grano e che abbia soldi

questo bambinetto non muoia mai

Duddurudù bimba di Cagliari

la mamma le fa un vestitino

e ci mette una taschina

per gettarci dentro un dolcetto

duddurudù bimba di Cagliari

Duddurudù e dudduruduru

e gente venga e resti pure

e gente venga da Monastir

e tu abbia tanto bene da prenderlo a calci

e i soldi a palate

la casa sia di pietre scalpellate

e le soglie siano d'argento

tu abbia a mezzadria pastori cento

tu abbia a mezzadria cento pastori

un fratellino che sia dottore

una sorellina che sia contessa

su una sedia d'oro ti portino in chiesa

e le labbra tu abbia come due ciliegie

e la fronte tu abbia d'oro cesellato

zitto non piangere cuore mio amato.

Duddurudù e dudduruduru

e gente venga e anche per te

e gente venga da Monastir

e tu abbia tanto bene da prenderlo a calci

e i soldi a palate

le case siano di pietre scalpellate

e le soglie siano d'oro e d'argento

non abbia pastori né cento mezzadrie

Non abbia pastori né mezzadrie cento

un fratellino ce l'ho minore

una sorellina ce l'ho contessa

su una sedia d'oro ti portino a messa

su una sedia d'oro ti portino in chiesa

e le labbra tu abbia come due ciliegie

e la fronte tu abbia d'oro cesellato

dudduruduru cuore mio amato.

Oppure tenendoli in cou, in grembo, li dondolavano cantando:

Serra, serraddu

centu coraddus

coraddus centu

liras de entu

liras de oru

tzaracu bonu

bonu tzaracu

no siast macu

Chiudi, chiudilo

cento coralli

coralli cento

lire d'argento

lire d'oro

Servo buono

Buon servo

Non essere matto

macu no siast

binu no biast

binu nieddu

tzaracu de Casteddu

Serra, serra

pabas a terra

pabas a muru

muru su topi

totu sa noti

totu sa dì

a nci papai a tì a tì

Matto non essere

Vino non vedere

Vino nero

Servo di Cagliari

Chiudi, chiudi

Spalle a terra

Spalle al muro

Muro il topo

Tutta la notte

Tutto il dì

A mangiare te, te

Alla fine di queste ultime due filastrocche facevano il solletico ai bambini per farli ridere.

Simulando la camminata, con due dita della mano, lungo il braccio del bimbo, cantavano:

Baballoti, baballoti Insetto, insetto

su chi andat a su noti Quello che va di notte

su chi andat a de dì Quello che va di giorno

a nci papai a ti a ti A mangiare te te

La passeggiata finiva sul pancino; la mamma gli faceva, anche in questo caso, il solletico come se

l'insetto glielo stesse mordicchiando.

Qualche volta, col pretesto di farlo giocare, gli insegnavano le buone maniere. Tenendogli la mano e

toccandogli le dita ad una ad una, ad esempio, per fargli capire che non bisognava raccontare ciò che

accadeva in casa, recitavano:

Custu est su procu Questo è il maiale (il pollice)

custu ddu at motu Questo l'ha ucciso (l'indice)

custu ddu at scroxiau (abruschiau) Questo l'ha scuoiato (affumicato) (il medio)

custu si ddu at papau Questo l'ha mangiato (l'anulare)

a custu non di ddu ant donau A questo non gliene hanno dato (il mignolo)

poita at scoviau Perché ha fatto la spia

Oppure, per far capire che bisognava tornare a casa ad una certa ora:

Pira cota e pira crua Pera cotta e pera cruda

dogn'unu a domu sua Ognuno a casa sua

pira crua e pira cota pera cruda e pera cotta

dogn'unu a domu nostra ognuno a casa propria

Ai bambini più grandi, affinché non si cacciassero nei guai o non si mettessero in situazioni pericolose, le

mamme raccontavano di personaggi immaginari come momoti, l'uomo nero che porta via i bambini

cattivi, oppure come sa mamma de su sobi, la mamma del sole, che cuoce il cervello di chi sta fuori a

giocare nelle ore più calde delle giornate estive, o ancora Maria lentzoru, Maria lenzuolo, che trascina nel

pozzo quelli che vi si affacciano.

Per sfuggire a s'amutadori , l'incubo che nel sonno toglieva il respiro e la voce, le mamme insegnavano

una preghiera:

Su letu miu est de cuatru cantus Il mio letto ha quattro angoli

e ddui crocat cuatru Santus dove si coricano quattro Santi

duus a peis e duus a conca. due a piedi e due a testa.

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Nostra Signora siat innoi pronta Nostra Signora sia qui pronta

e narendi filla diciada e dicendo figlia fortunata

Nostra Signora mia coronada. Nostra Signora mia incoronata.

S'amutadori era percepito nella fantasia popolare come qualcosa di indefinito che provocava in tutti le

medesime sensazioni, un senso di peso, di oppressione che assaliva durante la notte e non lascia

riposare. Non veniva considerato una malattia e non gli si attribuivano poteri mortali tuttavia era

fastidioso e temuto.

Altro spauracchio era su carru de nannai, letteralmente il carro di nonno, qualcosa, quindi, che non

doveva far paura anzi incoraggiare perché significava che il nonno tornava a casa. Il rumore de su carru

de nannai venne, però, associato ai tuoni, per cui questa figura fu utilizzata per far star dentro casa i

bambini durante i temporali.

In queste occasioni si insegnava loro una preghiera, Is paraulas de Santu Matì, Le parole di San Martino,

per scongiurare i pericoli del temporale. È un dialogo tra San Martino e il diavolo, con cui il Santo, dopo

aver risposto a tutte le domande teologali, scaccia il demonio: chi recitava questa preghiera poteva

allontanare i fulmini dalla propria casa.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai una,

una esti prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai duas,

duas funt is taulas de Mosè

*anca est andau Gesù Cristu a pei

a su campu chi Gesus at fatu (o puru in terra de

Gerusaleme)

in su nomini de su Babu, de su Fillu e de su Spiritu

Santu*,

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai tres,

tre funt is tres Marias

duas funt is taulas de Mosè *[…]*

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì paraulas bonas

ndi as a nai cuatru,

cuatru funt is cuatru evangelistas

tre funt is tres Marias

duas funt is taulas de Mosè*[…]*

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai cincu,

cincu funt is cincu liagas

cuatru funt is cuatru evangelistas

tres funt is tres Marias

duas funt is taulas de Mosè*[…]*

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai sesi,

sesi funt i sesi cereus

chi ant allutu in Galilea po sa moti e passioni de

Gesù Cristu

cincu funt is cincu liagas

cuatru funt is cuatru evangelistas

tres funt is tres Marias

duas funt is taulas de Mosè*[…]*

Se sei Martino di parole buone

ne dirai una,

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai due,

due sono le tavole di Mosè

dove è andato Gesù Cristo a piedi

nel campo che Gesù ha fatto (oppure in terra di

Gerusalemme)

nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai tre,

tre sono le tre Marie

due sono le tavole di Mosè*[…]*

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai quattro,

quattro sono i quattro evangelisti

tre sono le tre Marie

due sono le tavole di Mosè *[…]*

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai cinque,

cinque sono le cinque piaghe

quattro sono i quattro evangelisti

tre sono le tre Marie

due sono le tavole di Mosè *[…]*

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai sei,

sei sono i sei ceri

che hanno acceso in Galilea per la morte e

passione di Gesù Cristo (solo in alcune versioni)

cinque sono le cinque piaghe

quattro sono i quattro evangelisti

tre sono le tre Marie

due sono le tavole di Mosè*[…]*

una il sole è più importante della luna.

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai seti,

seti funt is seti donus

sesi funt is sesi cereus

cincu funt is cincu liagas

cuatru funt is cuatru evangelistas

tres funt is tres Marias

duas funt is taulas de Mosè*[…]*

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai otu,

otu funt is otu corus

seti funt is seti donus

sesi funt is sesi cereus

cincu funt is cincu liagas

cuatru funt is cuattru evangelistas

tres funt is tres Marias

duas funt is taulas de Mosè*[…]*

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai noi,

noi funt is noi paramentus

otu funt is otu corus

seti funt is seti donus

sesi funt is sesi cereus

cincu funt is cincu liagas

cuatru funt is cuatru evangelistas

tres funt is tres Marias

duas funt is taulas de Mosè*[…]*

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai dexi,

dexi funt is dexi cumandamentus

noi funt is noi paramentus

otu funt is otu corus

seti funt is seti donus

sesi funt is sesi cereus

cincu funt is cincu liagas

cuatru funt is cuatru evangelistas

tres funt is tres Marias

duas funt is taulas de Mosè*[…]*

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai undixi,

undixi funt is undiximila virginis

dexi funt is dexi cumandamentus

noi funt is noi paramentus

otu funt is otu corus

seti funt is seti donus

sesi funt si sesi cereus

cincu funt is cincu liagas

cuatru funt is cuatru evangelistas

tres funt is tres Marias

duas funt is taulas de Mosè*[…]*

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai doxi,

doxi funti is doxi apostulus

Se sei Martino di parole buone ne dirai sette,

sette sono i sette doni

sei sono i sei ceri

cinque sono le cinque piaghe

quattro sono i quattro evangelisti

tre sono le tre Marie

due sono le tavole di Mosè*[…]*

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai otto,

otto sono gli otto cuori

sette sono i sette doni

sei sono i sei ceri

cinque sono le cinque piaghe

quattro sono i quattro evangelisti

tre sono le tre Marie

due sono le tavole di Mosè*[…]*

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai nove

nove sono i nove paramenti

otto sono gli otto cuori

sette sono i sette doni

sei sono i sei ceri

cinque sono le cinque piaghe

quattro sono i quattro evangelisti

tre sono le tre Marie

due sono le tavole di Mosè*[…]*

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai dieci

dieci sono i dieci comandamenti

nove sono i nove paramenti

otto sono gli otto cuori

sette sono i sette doni

sei sono i sei ceri

cinque sono le cinque piaghe

quattro sono i quattro evangelisti

tre sono le tre Marie

due sono le tavole di Mosè*[…]*

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai undici

undici sono le undicimila vergini

dieci sono i dieci comandamenti

nove sono i nove paramenti

otto sono gli otto cuori

sette sono i sette doni

sei sono i sei ceri

cinque sono le cinque piaghe

quattro sono i quattro evangelisti

tre sono le tre Marie

due sono le tavole di Mosè*[…]*

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai dodici,

dodici sono I dodici apostoli

undici sono le undicimila vergini

dieci sono i dieci comandamenti

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undixi funt is undiximila virginis

dexi funt is dexi cumandamentus

noi funt is noi paramentus

otu funt is otu corus

seti funt is seti donus

sesi funt is sesi cereus

cincu funt is cincu liagas

cuatru funt is cuatru evangelistas

tres funt is tres Marias

duas funt is taulas de Mosè*[…]*

una est prus su sobi chi no sa luna.

Chi ses Matì de paraulas bonas

ndi as a nai trexi,

no est lecitu e no est lei

Otantamila passus

fatzat fora de mei in ddu mari profundu

po no torrai a passai mai prus in su mundu.

nove sono i nove paramenti

otto sono gli otto cuori

sette sono i sette doni

sei sono i sei ceri

cinque sono le cinque piaghe

quattro sono i quattro evangelisti

tre sono le tre Marie

due sono le tavole di Mosè*[…]*

una il sole è più importante della luna.

Se sei Martino di parole buone

ne dirai tredici,

non è lecito e non è legge

Ottantamila passi

faccia fuori da me, in un mare profondo per non

ripassare mai più sulla terra.

* La parte tra gli asterischi si ripete ogni volta che si arriva nella preghiera alla seconda strofa. Per

comodità è stata omessa dopo la prima volta.

Un'altra versione, con sole sette strofe, termina in questo modo:Chi ses Matì de paraulas bonas ndi as a

nai seti, seti funt is seti donus, donus de su Spiridu, torrat de innui ses beniu e de su Spiritu Santu, bai

tui in su campu a bendi a unu allenu, e Luca cun Mateu e Marcu cun Giuanni, no ndi imbuchit ingannu,

Isaccu e Giacobbe, no ti tochit e tochit, e tochit cun abueu, chi est unu solu Deus, est Deus chi ti tenit e

in su mundu mantenit.

(Se sei Martino di parole buone ne dirai sette, sette sono i sette doni, doni dello Spirito, torna da dove sei

venuto, e dello Spirito Santo, vai tu nel campo a vendere a uno straniero, e Luca con Matteo, e Marco con

Giovanni, e non tragga in inganno, Isacco e Giacobbe, non ti tocchi e tocchi e tocchi con l'erba curativa,

c'è un solo Dio, è Dio che ti tiene e ti mantiene in vita).

I bambini e i loro giochi

La maggior parte della giornata era dedicata al lavoro. Anche i bambini, sia prima di entrare sia all'uscita

da scuola, quando avevano la possibilità di frequentarla, dovevano svolgere il loro dovere in casa,

all'orto, in campagna, col bestiame. Eppure il tempo per giocare si trovava sempre. I giocattoli erano

pochissimi e, in genere, costruiti dagli stessi bambini magari con l'aiuto dei nonni che avevano più tempo

da dedicargli.

Le bambine, ad esempio, si costruivano i bambulleddas o pipieddas de zapu, le bambole o bambinette di

stracci: un pezzo di stoffa arrotolato, piegato in due e legato per fare la testa, un pezzo più piccolo per le

braccia. Occhi, naso, bocca disegnati, i vestiti fatti con altri avanzi di tessuto. Giocavano a mamma e filla,

a mamma e figlia; si costruivano le case usando i sassi per delimitare le stanze e altri per indicare i

mobili; facevano finta di ricevere le amiche e offrivano loro acqua come se fosse liquore.

Quando le bambine trovavano una coccinella, la prendevano in mano e per incoraggiarla a riprendere il

volo, soffiavano su di lei, cantando:

Babbaioba, babbaioba Coccinella, coccinella

piga su libru e bai a scola prendi il libro e vai a scuola

piga su libru e bai a Casteddu prendi il libro e vai a Cagliari

Pottamì unu bellu aneddu Portami un bell'anello

unu bellu aneddu po mi cojai un bell'anello per sposarmi

Babbaioba pesadì a bobai (oppure acoita a

torrai)

Coccinella alzati in volo (oppure fai in

fretta a tornare)

I bambini, con gli stracci messi dentro una vecchia calza, si fabbricavano il pallone e con le canne, i fucili,

i cui proiettili erano fatti con pezzetti de cardilloni sicau, asfodelo secco, in cui erano conficcate delle

spine di fico d'india, per la cattura di lucertole e rane; con le foglie del fico d'india costruivano su

carrixeddu de carruciu, una specie di carrettino; con lo spago e un pezzetto di pelle sa frunza, la fionda;

con un bastoncino di legno e gomma su tiru a ellasticu, un altro tipo di fionda; cun su truncu de sa scova,

col bastone della scopa, andavano a cavallo.

Maschi e femmine assieme giocavano a mammacua, a nascondino, a conca e crastus, a testa o croce con

le monete, a funi, a fune, a conillu, a rincorrersi a zig zag come i conigli, a pisuncheddu, a saltare, come

nella piazza ma non necessariamente con i quadrati disegnati per terra, cun sa bardunfa, a trottola, a

bicus, a pietre, a su giogu de su sadatzeddu, il gioco del setaccio.

Per giocare a bicus occorrevano cinque pietre. Inizialmente, poste sul palmo della mano, si lanciavano in

aria e si cercava di riprenderle col dorso. Quelle che cadevano in terra dovevano essere recuperate: si

lanciava in aria una pietra e nel frattempo si raccoglievano, ad una ad una, quelle cadute. Bisognava farlo

in fretta perché si doveva anche riacchiappare quella che era stata lanciata. Poi le pietre si buttavano a

terra e, lanciandone in aria una, bisognava riprenderle le altre prima una alla volta, poi due alla volta, poi

tre insieme e una da sola, poi quattro tutte assieme. Per fare il cinque si procedeva così: si tenevano

quattro pietre in mano che, mentre si lanciava la quinta in aria, dovevano essere messe a terra

velocemente in modo da riacchiappare quella lanciata. Poi le quattro dovevano essere riprese. Si

eseguivano anche altre figure fino ad arrivare a dieci. Una era su pramu, il palmo: le pietre dovevano

essere sistemate sulla punta delle dita della mano poggiata in terra e raccolte una per volta. Era un gioco

di destrezza perché si doveva fare tutto con una mano sola.

Per giocare a su giogu de su sadatzeddu ci si metteva in cerchio. Un bambino stava in mezzo e chiedeva

a caso ad uno dei compagni: at nau mamma a mi donai su sadatzeddu (ha detto mamma di darmi il

setaccio). Lui rispondeva: bai anch'esti… e pigasindeddu (vai da …, faceva il nome di un altro, e

prendiglielo). I due dovevano correre per scambiarsi il posto, facendo il più velocemente possibile in

modo che chi stava al centro non arrivasse prima. Chi restava senza posto nel cerchio si metteva in

mezzo e il gioco ricominciava.

Un altro gioco, simile, era quello de sa matta, della pianta. A tutti i partecipanti, disposti in cerchio,

corrispondeva un numero, mai superiore a quello complessivo dei giocatori. Al centro stava chi svolgeva il

ruolo de sa mata, il cui compito era quello di dare inizio al gioco dicendo: In sa mata mia ci funt cincu

arangius (nella mia pianta ci sono cinque arance). Il giocatore numero cinque interveniva

immediatamente e chiedeva: poita cincu? (perché cinque?). Sa mata rispondeva: ellus cantu (E allora

quanto?); il numero cinque allora doveva indicare un altro numero e il gioco proseguiva finché qualcuno,

distratto, non sbagliava. Per ogni errore si depiat pagai prenna, pagare pegno, ossia fare una penitenza

scelta dal gruppo.

Per Natale si giocava a pitzu, cù o costedda, punta, sedere o di lato, a ciùciu, non si tocca, a cavalieri in

porta, cavaliere alla porta. Erano tutti giochi che si facevano con le mandorle.

Nel primo bisognava indovinare la posizione di una mandorla nascosta tra le mani: de pitzu cioè con la

punta in avanti, de cù dalla parte che stava attaccata alla pianta, o de costedda cioè di lato.

Nel secondo, le mandorle erano posizionate per terra. Un giocatore ne contrassegnava, mentalmente,

una. Gli altri, a turno, raccoglievano le mandorle da terra, ad una ad una, e potevano tenerle per sé,

finché non toccavano quella segnata. Quando un giocatore toccava la mandorla segnata, il primo diceva

ciùciu, non si tocca. Da quel momento nessuno poteva più raccoglierne e le restanti rimanevano a lui.

Nel terzo un giocatore nascondeva nel pugno un certo numero di mandorle e, rivolto ad un compagno,

diceva: Cavalieri in porta (cavaliere alla porta); rispondeva il secondo: lassamì intrai, (lasciami entrare).

Continuava il primo: cantu ci ndi iant essi? (quante ce ne saranno?). Rispondeva l'altro: Ci ndi iant essi…

(ce ne saranno…) e diceva un numero. Se indovinava il numero delle mandorle vinceva.

Si giocava anche cun su baddarincu, una specie di trottolina, in genere di metallo, sui cui quattro lati

erano incise le lettere T (totu, tutto), M (mesu, metà) N (nudda, nulla), P (poni, metti). Su baddarincu si

faceva girare e, a seconda della lettera che usciva, il premio in palio, in genere mandorle o castagne,

poteva essere preso tutto, a metà, oppure per nulla o addirittura bisognava aggiungere del proprio.

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Gli adulti, ma anche i ragazzini, giocavano spesso a strumpas, letteralmente a buttarsi giù. Era una sorta

di lotta libera in cui i due contendenti dovevano, afferrandosi alla vita o alle braccia, cercare di buttarsi

per terra sia con la forza sia con l'astuzia. Si creavano vere e proprie squadre di giovani che si sfidavano

tra di loro e spesso andavano anche in trasferta nei paesi vicini, soprattutto Vallermosa e Domusnovas.

Si racconta che due campioni abbiano continuato a lottare per una notte intera senza riuscire a buttarsi

giù. In genere era un gioco pacifico ma poteva capitare che si arrivasse veramente alle mani.

Su fastigiamentu

Su fastigiamentu, il corteggiamento, seguiva regole completamente diverse da quelle odierne. Mentre

oggi i ragazzi hanno tantissime occasioni per incontrarsi e quasi nessun divieto da parte dei propri

genitori, nel periodo in cui erano giovani le persone intervistate, le opportunità erano decisamente minori.

La sorveglianza, soprattutto nei confronti delle ragazze, era stretta poiché una semplice chiacchiera

poteva comprometterne la reputazione. Si usa dire, infatti, che sa genti chi no si scit fai su fatu su, fait su

fatu allenu, le persone che non sanno badare ai fatti propri, badano a quelli degli altri.

I luoghi d'incontro erano pochi e sempre gli stessi: in chiesa durante le funzioni o fuori nel piazzale, a

casa di amici o del proprio datore di lavoro, alle sagre e feste paesane, ai matrimoni e ai funerali o, per

caso, in strada.

Il primo approccio fiant is castiadas, tra i due giovani vi era un gioco di sguardi. Chi si praxiant, se si

piacevano, iniziava il corteggiamento vero e proprio.

Generalmente a prendere l'iniziativa era l'uomo che, se sapeva scrivere, dichiarava il proprio amore

tramite una lettera non, naturalmente, spedita per posta ma consegnata all'interessata di propria mano o

tramite persone che la conoscevano.

Se non sapeva scrivere il giovane si affidava a amici comuni o, addirittura, ai propri genitori, per

manifestare all'amata la serietà delle proprie intenzioni. Spesso le giovani, per timidezza o per paura dei

genitori o delle malelingue, non davano una risposta immediata ma aspettavano il benestare della propria

famiglia e chiedevano che la domanda fosse rivolta a mamai, a mamma. Per questo motivo il permesso di

corteggiare una ragazza spesso era chiesto direttamente ai genitori: Zia,d du potzu mandai a babu a dda

chistionai poita deu seu cuntentu meda de sa filla? (Signora, posso mandare mio padre a parlarle perché

io sono molto contento di sua figlia?).

L'ultima parola spettava alla ragazza. La madre, dicendo deu mi seu coiada a prexeri miu, cussa at a

pigai a prexeri d‘e cussa (io mi sono sposata con chi mi piaceva, lei prenderà chi le piace), dava al

ragazzo il permesso di fare la proposta direttamente all'amata.

Se il pretendente fiat stràngiu, era forestiero, non di Siliqua, i genitori prima di dare il loro consenso

chiedevano informazioni su di lui e sulla sua famiglia.

Gli innamorati potevano incontrarsi solo dopo chi si fadiant a sposus, dopo che si fidanzavano, quando su

babbu de su sposu, il padre dello sposo, si recava a casa della ragazza a dda domandai, cioè per

chiederne la mano.

Fino al giorno in cui brintaiat in domu, entrava in casa, il giovane cercava di sfruttare tutte le occasioni

per poter vedere la ragazza, come ad esempio aspettare, appoggiato ai muretti del piazzale di chiesa, che

passasse per andare a sentire la messa. Spesso su fastigiamentu consisteva unicamente in uno scambio

epistolare.

Sa dì chi bessiant a craru, il giorno del fidanzamento, si festeggiava come un matrimonio vero e proprio. I

due giovani, per la prima volta, uscivano insieme per andare a sentire la messa. Dopo la funzione

religiosa, i genitori de su sposu erano invitati a pranzo a casa de sa sposa. In quell'occasione, i due

fidanzati, poiché da quel momento avrebbero condiviso ogni cosa, mangiavano dallo stesso piatto. Di

sera, a parenti e amici, si offriva su cumbidu.

Generalmente i fidanzati si scambiavano is arregallus, i regali, s'aneddu, l'anello, cui il ragazzo, certe

volte e a seconda delle sue possibilità economiche, poteva aggiungere sa cannaca , la catenina, is lorigas,

gli orecchini, su butoni, la spilla o un braccialetto. Spesso la suocera faceva un ulteriore presente alla

nuora: il rosario, un altro anello o un monile.

Se per caso sus sposus si storraiant, cioè si lasciavano, il fatto non restava privato, ma coinvolgeva le

famiglie che spesso litigavano per non fare mai più la pace.

Per la donna era un vero e proprio dramma. Sa picioca storrada, la ragazza lasciata era e soprattutto si

sentiva, messa da parte all'interno della sua stessa famiglia e molto difficilmente trovava un nuovo

fidanzato, perché gli altri uomini non volevano s'arrefudu de is àterus, ciò che era stato rifiutato dagli

altri.

Il fidanzamento poteva durare pochi mesi o anche anni a seconda delle possibilità economiche dell'uomo.

Anche se capitava che qualche coppia andasse ad abitare in domu de afitu, in casa in affitto, i più

cercavano di costruirsela. Questo richiedeva parecchio tempo, perché era generalmente frutto esclusivo

del proprio lavoro.

Fino a qualche decennio fa la casa era costruita, spesso con l'aiuto degli amici, con i soli materiali locali:

l'argilla cruda per i mattoni e cotta per le tegole, la paglia, le canne, i giunchi e le pietre del fiume. Per

fare i mattoni di lardiri (o ladiri) si procedeva in questo modo: l'argilla, proveniente da sa forara de su

lardiri , era mischiata a su cannaioni de su trigu o palla de cannaioni, alla paglia grossa del grano, che

veniva procurata nelle aie quando si ventilava il grano; l'impasto, pigiato in su sestu, uno stampo in

legno, una volta fatto asciugare al sole, diventava un mattone dalle grandi qualità costruttive.

Il soffitto era fatto con is cannas, canne, sorrette da is bigas, grosse travi di legno di arridebi o di

sinnibiri, lillatro e ginepro, che poggiavano sulle pareti laterali delle stanze.

Il centro storico del paese, soprattutto nelle stradine tra il corso Repubblica e la chiesa di Sant'Anna,

conserva ancora oggi testimonianze dell'architettura popolare in lardiri.

Mentre l'uomo era impegnato nel costruire la casa, la donna preparava sa pannamenta, il corredo. Nelle

famiglie benestanti, in genere, era la madre che si preoccupava di confezionarlo per le proprie figlie sin

da quando erano bambine. Altrimenti erano le giovani stesse che lo preparavano con le loro mani

tessendolo in su trobaxiu, nel telaio, oppure acquistandolo con il danaro guadagnato lavorando in

campagna o a servizio.

Sa pannamenta, in genere, consisteva in lentzorus e coscineras , mantas e tiàllas ,asciugamanus,

pannixeddus de coxina e sa roba de bistì (lenzuola e federe, coperte e tovaglie, asciugamani, strofinaci

da cucina e il vestiario tra cui la biancheria intima).

I meno abbienti preparavano servizi de sesi, da sei, i benestanti de doxi, da dodici. Una volta pronto, il

corredo era conservato in sa cascia , la cassapanca, che faceva anch'essa parte del corredo, incisa con

motivi geometrici, floreali e animali.

Alla donna spettava, inoltre, provvedere agli oggetti per la casa: pratus e tassas, tiànus e pingiadas,

cicaras, cicareddas e cicorera, sa cafetera, su molinetu, su ferru po prenciai, cullèras, frochitas, goteddus,

cocenius, turras, cocenois (piatti e bicchieri, tegami e pentole, tazze, tazzine e zuccheriera, la caffettiera,

il macinacaffè, il ferro da stiro, cucchiai, forchette, coltelli, cucchiaini, mestoli in legno o in alluminio).

Oltre a ciò, portava su strexu de feu cioè is pobinas e is canisteddus, su strexu de terra cioè sa scifedda e

is marigas (i recipienti di fieno cioè i cestini e i canestri e i recipienti di terracotta cioè i catini e le

brocche) e gli alari, is trebinis, sa palita, is pizziris, s'achicaju, su suadori (i treppiedi, la paletta, le molle,

l'attizzatoio, il soffietto). Se la famiglia della donna ne aveva le possibilità, portava anche sa mobilia, i

mobili; altrimenti i futuri sposi li compravano a mesu de pari, a metà, insieme.

L'uomo, oltre alla casa, portava la sua biancheria personale.

Nei giorni precedenti il matrimonio, le madri, le zie e le sorelle degli sposi pulivano e

cuncordaiant,addobbavano, la casa per accogliere i novelli sposi e per mostrare agli invitati il corredo, i

mobili e i regali ricevuti. Vi è chi non ha mai cambiato la disposizione dei mobili nella propria casa dal

modo in cui erano stati sistemati prima del matrimonio.

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Una cura particolare era riservata al letto matrimoniale; in genere era la madre dello sposo ad

occuparsene; metteva tra le lenzuola su sabi, s'arrosu e su trigu, il sale, il riso e il grano, simboli di

sapienza, fertilità e ricchezza.

Ecco cosa voleva la sposa per il giorno delle sue nozze: un pizzico di vanità e la benedizione della

Madonna e di Gesù.

Mamma sa dì chi sposu Mamma il giorno che mi sposo

ghetimiddu su velu a sa moda de Cabu de susu. sistematemi il velo come fanno in Barbagia.

Mamma sa dì chi sposu Mamma il giorno che mi sposo

ndi gabit de su celu Maria cun Gesus scendano dal cielo Maria con Gesù

po fai sa cruxi a nosu. per farci la croce.

Ghetimiddu su velu po fai sa cruxi a nosu Sistematemi il velo, per farci la croce

Maria cun Gesus ndi gabit de su celu, Maria con Gesù scendano dal cielo

a sa moda de Cabu de susu. come fanno in Barbagia.

ndi gabit de su celu Maria cun Gesus Scendano dal cielo Maria con Gesù

po fai sa cruxi a nosu. per farci la croce.

Sa dì de su sposòriu

Sa dì de su sposòriu, il giorno del matrimonio, sus sposus, inginocchiati sull'uscio della propria casa,

prima di recarsi in chiesa, ricevevano la benedizione dalle madri: sa cruxi, la croce, fatta con un bicchiere

pieno d'acqua, che era poi, in parte, versata in terra.

La futura sposa attendeva che lo sposo venisse a ndi dda pigai po andai a crèsia, a prenderla per andare

in chiesa. Vi si andava a piedi, sa sposa ananti, su sposu avatu, la fidanzata davanti e il fidanzato dietro,

accompagnati dai rispettivi padri e seguiti dagli invitati.

Le madri non partecipavano alla cerimonia religiosa, no ci intraiant po nudda, non intervenivano per

nulla; in quanto meris de domu, padrone di casa, attendevano ai preparativi per il pranzo.

In genere il matrimonio era celebrato su sabudu, il sabato. Chi era in lutto e/o non voleva farlo sapere in

giro si sposava al mattino molto presto o al pomeriggio. Mai, comunque, de matis e de cenàbara, di

martedì o di venerdì, perché era di cattivo auspicio; anche su lunis, il lunedì, era un giorno sconsigliato,

perché fiat fui fuis, era fuggi, fuggi, si credeva che s'òmini o sa fèmina, l'uomo o la donna, potessero

scappare.

Dopo il matrimonio i novelli sposi, ingenugaus in su coscinu in su primiaxi de s'enna de sa domu noba,

inginocchiati su un cuscino sull'uscio della casa nuova, ricevevano sa gratzia, la grazia, dalla madre dello

sposo. Ella, per prima cosa, ripeteva il rito della benedizione con il bicchiere d'acqua; poi, per tre volte,

faceva il segno della croce con un piatto pieno di sale, grano, riso, confetti, fiori e monetine. Il piatto

doveva essere gettato in terra dietro gli sposi, in modo che si rompesse, poiché se si frantumava era

segno di buon auspicio, in caso contrario presagio di sfortuna. Era un momento atteso soprattutto da is

piciocheddus, dai ragazzini, che si sistemavano dietro gli sposi per raccogliere i dolci e le monetine. Due

di queste ultime dovevano prenderle gli sposi che poi se le scambiavano in segno di reciproca fiducia.

Terminata la cerimonia, la madre dello sposo donava alla nuora una bomboniera, in genere un portadolci,

in cui erano riposte is crais de domu, dinai e drucis, le chiavi di casa, soldi e dolci.

I festeggiamenti avevano inizio offrendo agli invitati e al nuovo vicinato su cafei cun is pistocus finis, il

caffè con i biscotti fini, preparato in genere dalla madre della sposa. Due persone tra gli invitati lo

portavano anche ai precedenti vicini di casa degli sposi, andando in giro cun sa cafetera manna e is

cicareddas in sa safata, con la caffettiera grande e le tazzine nel vassoio.

La festa proseguiva immancabilmente cun su pràngiu in sa domu noba, con il pranzo nella casa nuova.

Il numero degli invitati, delle portate e la varietà di queste dipendevano dalle possibilità economiche delle

famiglie. Sulle tavole non mancavano mai is macarronis e su brodu de pudda, su proceddu, s'angioni e su

satitzu arrustu, la pastasciutta e il brodo di pollo, il maialetto, l'agnello e la salsiccia arrosto. Faceva bella

mostra ovunque su pani de sus sposus, is cocoieddus pintaus, il pane degli sposi, i “coccoietti disegnati”,

la cui lavorazione richiedeva tempo e mani esperte. In genere, era preparato alla vigilia delle nozze dai

vicini e dai parenti che si riunivano appositamente in casa della sposa. Prepararlo diventava una festa: si

chiedeva l'aiuto alle donne che sapevano fare is cocoieddus e vi andavano tutte le ragazze. Era

importante farlo bene perché tutti gli invitati lo avrebbero visto e mangiato e quindi si obiat fai bella

figura, si voleva fare bella figura.

Lo stesso valeva per i dolci; chi non li sapeva fare li commissionava ad una donna esperta: pistocus e

pistocheddus de capa, amaretus, guefus, pirichitus, bianchinus (biscotti e biscotti con la glassa, amaretti,

guelfi, zuccherini e meringhe). I dolci variavano a seconda del periodo dell'anno in cui erano celebrate le

nozze: a Pasqua si potevano trovare is parduas, le formaggelle, mentre a Carnevale sas tzipuas, le

zippole.

I regali agli sposi venivano dati sia prima del matrimonio sia durante il ricevimento o anche nei giorni

successivi, quando ricevevano le visite di parenti e amici. Spesso veniva regalata una pudda infrochitada,

una gallina infiocchettata, perché gli sposi si dovevano fare su tallu de is puddas, il branco delle galline.

Regali classici erano sa tialledda de iscacu, la tovaglietta a scacchi lavorata in su tròbaxiu, su peribangu

cioè il tappeto con cui ricoprire sa càscia, oppure servizi di piatti, bicchieri, tovaglie, i tappeti sardi per la

camera da letto.

Un dono particolare era quello dei testimoni degli sposi, in genere un uomo e una donna per ciascuno,

che si sentivano in dovere di regalare qualcosa di più impegnativo rispetto ad un semplice invitato.

I giorni successivi alle nozze erano molto faticosi per gli sposi: ricevevano in casa gli amici, i parenti e i

nuovi vicini, cui poi dovevano restituire la visita. Sa prima bessida fiat a crèsia, la prima uscita era in

chiesa, di solito il giorno dopo le nozze. Era, inoltre, consuetudine andare a pranzo a casa dei genitori

dello sposo la prima domenica dopo il matrimonio e quella successiva a casa dei genitori della sposa.

Il lavoro della donna

La casa

Le faccende domestiche che la donna svolgeva non erano molto diverse da quelle di oggi. Tutti i giorni si

mundaiat sa bia e sa domu, si scopava la strada e la casa, e si spruinaiant, si spolveravano, i pochi mobili

che componevano l'arredamento della casa: la credenza, il tavolo e le sedie che, generalmente, erano

poste intorno ai muri. Non in tutte le case era possibile lavare per terra perché alcune avevano su

pomentu, il pavimento, in terra battuta.

Per Pasqua, le pulizie erano fatte in modo più approfondito: si metteva su peribangu bellu in sa càscia e

sa fànuga bella in su letu, il tappeto buono nella cassa e il copriletto buono nel letto, perché il sacerdote

passava a benedire le case e le donne ci tenevano a mostrarle in ordine e pulite.

Terminate le pulizie, si iniziava a cucinare. Nelle famiglie contadine il pasto più importante era la

cena,candu torraiat s'òmini de su satu, quando rientrava l'uomo dalla campagna. A pranzo, si

mangiavano gli avanzi del giorno prima, oppure pane, formaggio e salsiccia.

Nelle famiglie più povere a pranzo, anziché sedersi attorno alla tavola, si utilizzava come base d'appoggio

su scannu, uno sgabello rovesciato, su cui era posta una tialledda, una tovaglietta, dove si sistemavano il

pane, le olive e il formaggio. A cena, invece, si apparecchiava il tavolo della cucina.

Compito giornaliero della donna era quello di portare l'acqua necessaria per cucinare e per bere. Esse si

recavano cun sa màriga, con la brocca, alle numerose fontanelle sparse per tutto il paese a fare la

provvista quotidiana.

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I rubinetti prendevano il nome del luogo dove erano posti come quello in Pratza de ballus, in sa Cruxi

Santa, in Santu Srebestianu, a Sant'Anna, a Sant'Antoni, in sa Pica; altri avevano il nome delle persone

che ci vivevano vicino come su grifoni de Zedda, su grifoni de Giovanni Pittau, su grifoni de Piroddi, su

grifoni de donna Marianna. Al ritorno, le donne mettevano la brocca colma d'acqua sopra la testa, su cui

era poggiato un panno arrotolato a forma di chiocciola, su tidibi.

Spettava alla donna anche allevare gli animali da cortile e il maiale, che contribuivano a soddisfare i

bisogni alimentari della famiglia: puddas, anadis, cocas, conillus, piccionis, piocus detto anche dindu

(polli, anatre, oche, conigli, piccioni, tacchini).

Infine, aveva l'ingrato compito di pulire il gabinetto, in genere posto in un angolo appartato del cortile,

chiuso con una tenda. Non esistendo gli attuali servizi igienici, né tanto meno le fognature e l'acqua

corrente ed essendo rari anche i pozzi neri, le donne dovevano pulire l'angolo adibito a gabinetto,

raccogliendo cun sa pàbia, con la pala, i resti, misti alla terra che veniva usata per ricoprirli e buttare

tutto in su muntrunàxiu, all'immondezzaio.

Il bucato

Alcuni lavori si facevano una sola volta alla settimana, in quanto richiedevano parecchio tempo ed erano

molto faticosi. I principali erano sciacuai sa roba e fai su pani, lavare la roba e fare il pane.

Fino a che nelle case non vi era l'acqua corrente, le donne lavavano i panni in s'arriu, nel fiume. Il giorno

dedicato a questo lavoro, in genere sempre lo stesso, si alzavano presto al mattino e andavano, cariche

dei panni sporchi messi in sa scifedda o, in su cardaxu, nel calderone, nel luogo in cui, in quel periodo

dell'anno, l'acqua scorreva limpida e veloce. Quando andavano lontano, ad esempio sino a Perduìli, vicino

a San Giovanni, trascorrevano lì tutta la giornata.

Il primo compito era cercare una pietra adatta, un po' ruvida per poter sfregare meglio la roba. Spesso, si

prendeva la pietra direttamente dal fiume e la si sistemava in un posto preciso, fermandola e rialzandola

da terra con altre pietre in modo tale da non doversi inchinare troppo. In genere, ogni donna aveva la

sua pietra, anche se chi s'acudiat, meri si fadiat, la prima che arrivava diventava la padrona della pietra,

ossia poteva scegliere quella che più le piaceva.

I panni venivano insaponati con sapone fatto in casa, a base di grasso di maiale, sfregati sulla pietra e

battuti cun sa spatula, con la spatola. Per una pulizia più profonda si fadiat sa lissia, si preparava la

lisciva. Le donne dovevano, per prima cosa, procurarsi la legna per accendere il fuoco su cui scaldare

l'acqua in su cardàxiu. Quando bolliva, aggiungevano un sacchetto pieno de cinìxiu, di cenere, legato a sa

pètia, ad un bastone. Infine, vi si immergevano i panni e si lasciavano bollire per un po' di tempo.

Terminata la bollitura, i panni venivano risciacquati. Mentre la roba colorata era messa ad asciugare, si

asuletaiat sa roba bianca, i panni bianchi venivano cioè immersi in una soluzione di acqua e azzurrino,

che conferiva loro una sfumatura celestina. Infine, anch'essi erano stesi al sole, sui cespugli de sèssini,

murdegu e modditzi (cipero, cisto e lentisco). Quando arrivava il fresco le donne tornavano a casa con la

roba asciutta.

Oltre a Perduili, si soleva lavare i panni a Perda Piscina, a is Cannas, a s'arriu de mesu, a sa Mitza, a

Perdu Pisu.

I benestanti facevano fare questi lavori alle domestiche oppure a delle donne che lavavano i panni altrui

per mestiere.

In genere, si stirava solo la roba che si indossava, con il ferro di ghisa riscaldato dalle braci poste al suo

interno. Era un lavoro molto delicato perché poteva capitare che pezzetti di carbone incandescente

fuoriuscissero dai forellini laterali, che decoravano il ferro e che servivano ad arieggiare le braci,

bruciando i vestiti. Era anche faticoso perché, per ottenere un buon risultato, occorreva premere il ferro

sui panni con molta forza. S'arrestu de sa roba s'allisciaiat cun is manus, il resto della roba si lisciava con

le mani.

Il pane

Una volta alla settimana, il sabato, nelle primissime ore del giorno, si fadiat su pani, si faceva il pane. I

preparativi avevano, però, inizio dal lunedì: il grano, separato dalle impurità con su cibiru in ferro, il

crivello, veniva lavato in su sadatzu po sciacuai su trigu, nel setaccio per lavare il grano, e posto ad

asciugare al sole in su canisteddu, nel canestro. Infine si macinava.

Fino alla fine degli anni '40 ognuno macinava il grano in casa propria utilizzando la mola sarda, azionata

da un asinello bendato e pungolato da un bambino, in modo che non si fermasse.

Pochissimi erano i mulini azionati con l'acqua del Cixerri; di uno di essi è rimasto il ricordo nel nome della

strada, via su Molinu, che si doveva percorrere per arrivarci.

Fino ai primi del ‘900, chi non possedeva la mola in casa ricorreva ai mulini di zia Paulica Figau, nota

mugnaia del paese, proprietaria di molti asinelli e mole asinarie, situate dove ora sono le ex scuole

elementari di via Mannu. Con la diffusione dei mulini elettrici, diminuì il lavoro per la signora Paulica, che

dovette prima eliminare il lavoro notturno e poi ridurre l'attività a due soli mulini: “Così per gli abitanti di

Siliqua cessò lo spettacolo quotidiano che si manifestava nelle strade del centro, a ore fisse, e più volte

nella stessa giornata, quando passavano i folti branchi di asinelli, che i figli di zia Paulica, giovani e

puntuali mobentràxius, conducevano in un continuo andirivieni dagli impianti molitori vicino alla

parrocchia fino alla chiesetta campestre di Santu Giuseppi”.

Nella seconda metà degli anni venti, entrò in funzione il mulino elettrico in via Duca degli Abruzzi, che in

poco tempo sostituì le mole tradizionali. Il processo fu accelerato dalla seconda guerra mondiale poiché il

regime fascista impose ai contadini di versare al Monte Granatico quasi tutto il raccolto e vietò a tutti di

macinare in casa.

Il grano, una volta macinato, era setacciato con su sadatzu grussu, col setaccio grosso, posto soprasu

scedatzadori, il cernitoio, per separarlo da su poddi, la crusca.

Cun su sadatzu fini, col setaccio fine, poi, si separava su sceti, il fior di farina, raccolto in su canisteddu,

da sa simbua e da su poddieddu, la semola e il cruschello.

Per separare su poddieddu da sa sìmbua si utilizzava sa pobina. Grazie a movimenti circolari, su

poddieddu si raccoglieva al centro de sa pobina e veniva, poi, tolto con un cucchiaio; infine, per separare

sa sìmbua grussa da sa fini, si utilizzava su cibiru fini, il crivello fine in genere in giunco.

La semola grossa era utilizzata per cucinare sa sìmbua frita, sa sìmbua cun tamàtiga e sa simbuedda, la

semola fritta, la semola col pomodoro e il semolino, e per preparare sa fregua, un tipo di pasta. Con la

semola fine e la farina si preparava il pane e la pasta.

La crusca, da sola, era il cibo delle galline; impastata grossolanamente con acqua e sale e cotta al forno,

diventava su cucu de is canis, una pagnottella che a pezzi era data, insieme agli avanzi, ai cani.

Con il fior di farina si preparava su civraxu, detto anche spongiu; con la semola si preparava il pane di

pasta dura, su cocoi o pani lìmpiu. Con il cruschello, in cui rimaneva anche parte della semola, veniva

preparata sa spoddiadura, il pane integrale.

Oltre al pane si preparava anche la pasta: cruxionis, tzapueddus e malloreddus, ravioli, straccetti e

gnocchetti sardi.

La lavorazione vera e propria del pane iniziava il venerdì sera, candu si ndi fadiat pesai su fromentu,

quando si faceva rinvenire il lievito: in un recipiente pieno d'acqua tiepida veniva sciolta la pasta lievitata

conservata dalla settimana precedente che, nelle prime ore del giorno, si impastava con la farina, la

semola, l'acqua e il sale.

Ogni pane richiedeva un tipo di lavorazione diverso: per ottenere su spòngiu, la pasta veniva inizialmente

lavorata sul tavolo e poi spongiada in sa scifedda, ossia lavorata con i pugni nel catino in terracotta. È da

questo particolare movimento, sa spongiadura, fatto per rendere soffice la pasta, che prende il nome su

spòngiu.

Su cocoi, la pasta dura, fiat ciuèxiu cun su figau de sa manu totu in sa mesa, era lavorato spingendolo in

avanti con la parte iniziale del palmo della mano interamente sul tavolo.

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Quando il pane iniziava a axedai, a lievitare, si accendeva il forno. Si utilizzavano due o tre fascine di

moditzi, mudegu, obioni, ollastu, qualche volta anche de sarmentu (lentisco, cisto, corbezzolo, olivastro,

vite). Una volta che il fuoco era attecchito si murigaiat po ddu fai pasiai, si spargeva la brace su tutto il

forno in modo tale che il calore si diffondesse uniformemente. Infine, si aggiungevano altre due fascine

per ravvivarlo. Si scopava il fondo per rimuovere la brace cun sa scova de forru, una scopa fatta con la

stessa legna delle fascine. Se era troppo caldo, la scopa veniva passata bagnata. Quando il tetto e il

piano del forno erano rossi per il calore, si poteva infornare prima su civràxiu poi su cocoi.

Per mantenere costante il calore all'interno, le braci erano sistemate in sa buca de su forru, nella bocca

del forno, che era, poi, chiuso con uno sportello di ferro o di ghisa. Per controllare la cottura del pane,

ogni tanto si apriva lo sportello e si sollevavano le forme con una pàbia, una pala, per scrutarne il fondo.

Quando questo era ben colorato si sfornava il pane che era poi conservato in sa scifedda, in modo tale

che si mantenesse soffice per tutta la settimana. Chi non aveva forno andaiat a inforrai in forru allenu,

andava a infornare nel forno di altri.

Già dai primi del ‘900, si cominciò ad acquistare il pane nelle botteghe o direttamente nei panifici; erano

soprattutto gli uomini che vivevano da soli, i boscaioli che lavoravano nei monti e gli operai. Durante la

seconda guerra mondiale, continuò a fare il pane in casa solo chi coltivava il grano o qualcuno che

riusciva a procurarsi la farina a scusi (all'insaputa delle autorità); gli altri erano costretti a prenderlo in

panificio poiché era razionato.

I materassi

Un lavoro domestico particolare, che si faceva una sola volta all'anno, in genere d'estate, era la

preparazione dei mantalafus. I materassi venivano aperti e su prenimentu, il contenuto, era rovesciato

sul pavimento. Una parte andava persa durante l'anno perché, essendo fatta di foglie o erba secca, si

sbriciolava e veniva sostituita con su prenimentu nou, fatto di crinu, foglie di palma sfilacciate, oppure di

altre fibre vegetali.

Su crinu era acquistato in grosse trecce. Queste erano cramiaras, ossia dipanate e lavorate con le mani

per renderle morbide e flessuose. Molti, al posto de su crinu, troppo costoso, utilizzavano altre piante che

raccoglievano in campagna, lungo il corso dei fiumi, e che venivano seccate al sole.

Con su prenimentu si riempiva la fodera del materasso, poggiato sopra un tavolo: era necessario colmare

ogni spazio, in modo tale che esso acquistasse la giusta consistenza. La fodera, una volta ricucita, veniva

tesa ai bordi; si afferravano insieme la tela e una parte de su prenimentu che, cuciti assieme con lo

spago e s'agu sachera, un ago arcuato, formavano su curdoni, una specie di bordura, in entrambi i lati

del materasso.

L'ultima fase era l'impuntura: dei fiocchetti di tela erano appuntati da una parte all'altra del materasso

con lo spago e lunghi aghi, in modo tale da fissare ulteriormente su prenimentu. Spesso po sciusciai is

mantalafus, fai su curdoni e apuntai, per disfare i materassi, cucire la bordura e fare l'impuntura, si

ricorreva a mani esperte, ossia a delle donne che facevano i mantalafàias, le materassaie, per mestiere.

A Siliqua, c'è ancora chi si ricorda di zia Onorata e zia Marietta.

Il maiale

Altro lavoro annuale, tipicamente femminile, era la lavorazione della carne del maiale. Il giorno della

macellazione, prerogativa del capofamiglia oppure di una persona che godeva di una certa autorità, era

una vera festa. Avveniva in genere tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre e vi partecipavano i parenti

e i vicini di casa che ricevevano poi una porzione di carne, sa mandada, la mandata.

Prima cosa da fare era raccogliere il sangue in una bacinella e aver cura di mescolarlo continuamente in

modo tale che non coagulasse. Con esso, le donne preparavano su sanguànciu, il sanguinaccio. Il sangue

era insaporito con la cannella, la saporita, l'uva passa e lo zucchero e poi raccolto all'interno de is mocas,

l'intestino crasso, precedentemente lavato e legato alle estremità. Il sanguinaccio si faceva bollire per

circa mezz'ora e si consumava come un insaccato.

Dopo la macellazione, la carne era separata dalle ossa che, non completamente spolpate, si mettevano

prima in salamoia per circa una settimana, poi si appendevano in un luogo fresco e arieggiato per

asciugare in modo che si conservassero a lungo. In inverno si facevano bollire e se ne mangiava la carne.

La polpa era tagliata a pezzi e conservata nell'aceto, insieme ad aglio e semi di finocchio selvatico, per

essere consumata arrosto. Dalle parti di carne molto grasse, tagliate a pezzetti e poste sul fuoco per far

sciogliere il grasso, si otteneva sa gerda che si conservava in pentole di coccio ed era consumata come

companatico, per condire le pietanze e per fare un particolare tipo di pane, su pani cun gerda. Dal grasso

rassodato, si ricavava lo strutto che era conservato in contenitori di vetro o terracotta ed utilizzato al

posto dell'olio.

Con is intzuddas, le setole, si fabbricavano pennelli o spazzole. Alcuni ciabattini le utilizzavano come

spago per cucire le scarpe.

Il lardo tagliato a strisce insieme alla cotenna veniva salato e conservato in un luogo fresco. Si usava

come companatico o come condimento. Anche la cotenna era utilizzata, soprattutto per aromatizzare le

minestre di legumi. Le zampette si conservavano in salamoia e poi in un luogo fresco, come le ossa.

Su satitzu, la salsiccia, richiedeva una lavorazione particolare. La polpa e il lardo, tagliati a pezzi

piccolissimi, erano mescolati con le mani insieme ad aceto, sale, pepe e, volendo, spezie e matafaua

(semi di finocchio selvatico). Era necessario rimestare e aggiungere aceto alla carne così aromatizzata più

volte al giorno. L'impasto, dopo alcuni giorni, si metteva dentro l'intestino tenue che nel frattempo era

stato conservato in una bacinella con del sale, pressato in modo tale che non vi restassero bolle d'aria.

Legate le estremità dell'intestino, le salsicce erano appese a delle pertiche e poste ad asciugare in solaio

o in cantina. Si consumavano dopo un mese.

Il giorno dopo la macellazione, le donne lavoravano le cosce per fare il prosciutto. Facendo attenzione a

non rompere l'osso, dopo averle salate, le sistemavano tra due assi sopra cui erano poste, per circa 4-5

giorni, delle pietre in modo tale che fuoriuscissero tutte le sostanze liquide. Le cosce venivano, poi,

sciacquate con aceto e aromatizzate con pepe, semi di anice e aglio. Infine, si appendevano in un luogo

fresco, possibilmente esposto al vento di tramontana, affinché essiccassero più in fretta e potessero, così,

conservarsi a lungo. Alcune, prima di appenderle, le essiccavano al fumo di erbe aromatiche soprattutto

del cisto. Il prosciutto era pronto dopo alcuni mesi.

Conserve e marmellate

Compito esclusivo delle donne, essenziale per il bilancio familiare, era la conservazione de su lori, i cereali

e i legumi, sia di quelli destinati alla semina sia di quelli per uso alimentare: orxu, trigu, fà,cixiri, prisuci,

fasou e gentilla (orzo, grano, fave, ceci, piselli, fagioli e lenticchie).

I primi erano riposti in ambienti asciutti, sui pavimenti in legno dei solai, protetti dai parassiti con i

rametti di assenzio e rigirati spesso. Quelli non destinati alla semina venivano posti per circa 15 minuti

nel forno ancora tiepido, dopo la cottura del pane, in modo che non germogliassero e si conservassero

meglio.

L'orzo e i ceci torrefatti cun su turradori (contenitore metallico di forma cilindrica) erano utilizzati al posto

del caffè.

Ogni estate, nel periodo più caldo, in genere tra la fine di giugno e la prima metà di agosto, si

preparavano is tamàtigas sicadas, cioè i pomodori secchi. Si utilizzavano tutti i tipi di pomodori, sia su

tundu sia su bruculitu, sia il tondo sia il lungo.

Si procedeva in questo modo: is tamàtigas si sperraiant in duus, si poniant in dd-una cascita de linna; poi

si ghetaiat su sabi apitzus e si poniant a sicai in su sobi po otu, dexi dias (si tagliavano in due, si

mettevano sulle cassette di legno, si cospargevano di sale e si mettevano a seccare al sole per otto, dieci

giorni). Di notte venivano ritirati in modo tale che l'umidità non li danneggiasse. Di quando in quando si

aggiungeva, se necessario, altro sale. Una volta pronti, si riponevano all'interno di barattoli di vetro cun

follas de lau e de afràbica, con foglie di alloro e di basilico.

I pomodori secchi, preparati in questo modo ancora oggi, sono utilizzati per sostituire il pomodoro fresco

e per insaporire piatti particolari, sia di carne sia di pesce. Si mangiano anche con il pane abbrustolito

condito con olio.

Dai pomodori si ricavava, inoltre, il concentrato. Il sugo dei pomodori, macinati per eliminare bucce e

semi, era versato su un telo a trama fitta, che veniva legato e appeso all'esterno, in modo tale che

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perdesse la parte acquosa e fosse ridotto ad una poltiglia. Il prodotto ottenuto, infornato per circa 10-15

minuti e unto con un leggero strato di olio di oliva, era riposto in pentole di coccio, ricoperto di foglie di

alloro. Un cucchiaino da caffè era sufficiente a condire il pasto di un'intera famiglia.

I carciofi, i peperoni, gli asparagi si preparavano sott'olio o sott'aceto.

Si conservava, naturalmente, anche la frutta. Interessante è la preparazione de sa figu sicada, i fichi

secchi. Dopo essere stati essiccati al sole per circa dieci giorni, venivano infornati per alcuni minuti e

riposti nei recipienti con alcune foglie di alloro. Erano usati anche per preparare sciroppi contro la tosse.

S'axia, l'uva, poteva essere conservata con procedure e metodi diversi: al naturale, sciroppata, sotto

spirito. Al naturale, gli acini, cosparsi di zucchero, erano posti in contenitori di vetro che venivano

sterilizzati. Per preparare l'uva sciroppata si faceva bollire un litro d'acqua con 400 grammi di zucchero;

allo sciroppo, una volta freddo, si aggiungevano gli acini. Il prodotto posto nei vasi di vetro si faceva

sterilizzare per mezz'ora. Per fare l'uva sotto spirito, gli acini, cui era stato lasciato un pezzo di picciolo,

erano coperti di alcol a 90 gradi oppure di àcua ardenti stagionata.

Ottenere sa pabassa, l'uva passa, era più complesso. Si faceva bollire a lungo dell'acqua con foglie di

alloro e un po' di cenere in un sacchetto di tela. L'acqua era poi filtrata e portata nuovamente ad

ebollizione. A questo punto si immergevano per pochi secondi i grappoli d'uva che poi erano appesi

all'aperto per appassire. Infine, erano infornati per 10-15 minuti.

Dall'uva si otteneva anche sa saba, un specie di marmellata che veniva consumata spalmata sul pane o

usata nella preparazione di dolci come su pani de saba, is pabassinas, is caschetas. Per ottenerla si

faceva bollire a lungo il mosto prima che fosse iniziata la fermentazione fino ad ottenere un prodotto

fluido.

Vi era chi preparava anche la marmellata de arangiu, de cerexia, de figuera, de pira, de prèssiu e de

meba piròngia (d'arance, di ciliegie, di fichi, di pere, pesche e di mela cotogna).

Vari erano i modi di conservare sa figu morisca, i fichi d'india. I frutti erano raccolti cun sa cannùga, con

una canna, e liberati dalle spine con una scopa fatta de modditzi o de tramatzu (di lentisco o di

tamerice). Se non venivano consumati appena colti, erano utilizzati per preparare is pibarduas, i fichi

sbucciati, essiccati al sole e infornati.

Per fare la marmellata, i fichi d'india, sbucciati, erano messi a bollire finché non diventavano una purea.

Questa, passata al setaccio per eliminare i semi, era rimessa a bollire con su croxu de arangiu sicau, la

scorza d'arancia essiccata, fino alla completa raffinatura.

Dalle bacche de sa muta, del mirto, invece, si preparava su licori de muta, il liquore di mirto, oggi diffuso

in tutta Italia.

Le olive erano utilizzate sia per fare l'olio sia come companatico. Il modo più semplice per conservarle era

in sa mùrgia, in salamoia, ossia in abbondante acqua salata, possibilmente di pozzo o di sorgente,

aromatizzata cun su fenugheddu, col finocchio selvatico. Pronte dopo quaranta giorni, erano chiamate

obia cunfittada.

Se si desiderava consumarle subito, si pestavano, si facevano bollire per cinque minuti e poi erano messe

in salamoia.

Il formaggio

Nelle famiglie dei pastori, la massaia si dedicava anche alla preparazione dei latticini.

Is casadas e su casu axedu richiedevano una lavorazione abbastanza semplice ma si potevano conservare

solo per breve tempo, un giorno o poco più.

Is casadas si ottenevano facendo bollire, fino alla coagulazione, il colostro delle pecore con zucchero e

scorza di limone. Su casu axedu si preparava unendo mezzo quarto di siero, un litro di latte e una piccola

quantità di caglio. Si copriva e si metteva in un luogo tiepido affinché fermentasse. Si consumava dopo

circa 10-12 ore. Caratteristico era il recipiente per prepararlo, fatto di sughero, su casiddu. Dopo la prima

volta, su casu axedu si poteva preparare anche senza aggiungere il caglio, lasciando in su casiddu un po'

del prodotto precedente.

Il formaggio, sia il pecorino sia su casu martzu, il formaggio marcio, a fronte di una preparazione più

elaborata, si conservava molto più a lungo.

Fare il formaggio era compito degli uomini. Si doveva avere a disposizione su callu, il caglio, cioè lo

stomaco essiccato degli agnellini o dei capretti nutriti solo con il latte materno. Un pezzetto di caglio si

faceva sciogliere, avvolto nella tela, nel latte tiepido, possibilmente appena munto, che dopo circa 30-40

minuti si addensava. Il composto, diviso a pezzi, si metteva nei discus de casu, forme di legno o di

alluminio, forate nel fondo e rigirate spesso, per permettere la fuoriuscita del siero.

Per ottenere un formaggio di buona qualità era fondamentale saperlo lavorare con le mani. Con il siero,

ancora caldo, si acotiàiat su casu, cioè si bagnava più volte il formaggio che nei giorni successivi, tolto

dalle forme, era posto in salamoia per uno o due giorni e, infine, esposto all'aria per la stagionatura.

Dal siero rimesso a bollire si otteneva s'arrescotu, la ricotta, usata sia come companatico sia per la

preparazione di minestre, di dolci, di ravioli e del pane con ricotta.

Infine, vi era su casu martzu. Il formaggio fresco veniva spalmato d'olio d'oliva in modo tale che l'umidità

non potesse evaporare e marcisse, divenendo piccante al punto giusto.

I formaggi tipici prodotti a Siliqua erano il pecorino e il caprino.

I frutti delle campagne

Completava l'alimentazione tutto ciò che la campagna offriva spontaneamente, frutta e verdure. La loro

raccolta era un compito svolto da tutti i membri della famiglia: le donne quando andavano a lavare i

panni, i bambini dopo la scuola o quando andavano a fare il bagno al fiume, gli uomini quando andavano

a caccia o appositamente in cerca di funghi o asparagi.

Raccoglievamo s'obioni, sa pira butidu, sa pira camusina, sa pira matza niedda e sa prunixedda (il

corbezzolo, le pere e le prugne selvatiche).

Importante era la raccolta de su cordobinu, dei funghi. Armati de goteddu, i cercatori tagliavano i funghi

de su tanaxi, dal gambo, e li riponevano in su canisteddu. Il tipo più facile da trovare è sempre stato su

bulletu, il prataiolo, che cresce praticamente su tutti i terreni non adibiti a colture.

Il più prelibato ma anche il più difficile da trovare è su cordobinu de petza, il cardarello, che cresce solo in

alcune zone caratterizzate da cespugli molto bassi.

Altri tipi di funghi assai ricercati sono su cordobinu de mudegu e (boleto del cisto) e sa tuvara (una

varietà di agarico). Alcuni, sebbene mangerecci, non erano colti o perché ritenuti a torto dannosi, o

perché non erano considerati abbastanza prelibati. Raramente i ricercatori coglievano s'ovulu, su

cordobinu de padenti, su cordobinu de cabefrori, su tabacu de mraxiani, su cordobinu de mata, su

cordobinu de ilixi e cordobinu de linnarbu (l'ovulo, la clitocibe geotropa, la ditola gialla, il tabacco di volpe

o vescia buona, il pleutrotus ostreatus, il leccino e il boleto del pioppo).

In campagna si raccoglieva, inoltre, su gureu, il cardo selvatico, del quale si mangiavano is costallas, le

foglie, crude o bollite, sa cugutzua, su sparau, su camingioni e su matutzu (i carciofini selvatici, gli

asparagi, la cicoria e il crescione).

Brintai cuantri

Diversi erano i mestieri che la donna svolgeva all'epoca: alcune andavano nelle campagne a spigolare,

altre lavavano i panni per le famiglie benestanti; vi era chi rifaceva i materassi, chi girava di paese in

paese a vendere lo zafferano, sa zafaranàia.

Una delle occupazioni più diffuse, a Siliqua, tra le donne, era quella di domestica. Il contratto po brintai

cuantri, per lavorare a servizio, era in genere stipulato il 15 agosto insieme a quelli per is srebidoris che

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lavoravano in su sartu. Le domestiche avevano due settimane per decidere e per terminare i preparativi.

Il primo settembre iniziava il lavoro che durava all'incirca un anno.

I contratti si stipulavano ad agosto perché a settembre avevano inizio i lavori agricoli. Non a caso il nome

in sardo di settembre è cabudanni, cioè primo mese dell'anno. È, probabilmente, un retaggio del

calendario bizantino che faceva cominciare l'anno, anche liturgico, in questo mese.

Le donne iniziavano a lavorare da bambine, qualcuna addirittura all'età di sei anni, e continuavano in

genere fino a quando si sposavano. Percepivano una paga annuale e un pezzo di stoffa per farsi la

camicia e alloggiavano quasi sempre in domu de is meris, in casa dei padroni.

Esse svolgevano tutti i lavori domestici, ad eccezione della preparazione dei pasti che era prerogativa

esclusiva de sa meri. Alcune serbidoras, erano assunte per svolgere particolari lavori, come ad esempio

po castiai is pipius, per badare ai bambini; sa srebidoredda pitica, la serva bambina,poteva essere

assunta anche solo per uno specifico lavoro, come quello di tocai su bastiou, cioè pungolare l'asinello che

girava la macina; per questo compito riceveva come paga sa fita de su pani, una fetta di pane; in questo

modo ella non pesava sulla famiglia di origine in quanto vi era una bocca in meno da sfamare.

Il lavoro dell’uomo

La campagna

Nel territorio di Siliqua, sin dai tempi antichi, le attività più diffuse erano quelle dell'agricoltura e della

pastorizia. Agricoltori e pastori si contendevano l'utilizzo delle terre, concentrate nelle mani di pochi

proprietari. Difficilmente essi possedevano vaste aree accentrate in un'unica zona; in genere l'estensione

degli appezzamenti variava dai trenta ai quaranta ettari, sparsi in varie parti. L'azienda più estesa era

quella di Berlingheri che contava circa duemila ettari.

Solo una minima parte dei terreni era recintata, is cungiaus, circa mille ettari, con siepi di fichi d'india,

per proteggere le terre coltivate dal bestiame; il resto erano tancas, ossia terreni non chiusi.

Il territorio, inoltre, era distinto in base alla qualità della terra e alla posizione. Si chiamavano isca i

terreni, di origine alluvionale, molto fertili adatti alla coltivazione di ortaggi; pranu o pianura, i terreni che

si prestavano agevolmente alle colture; costera, il pendio montuoso soggetto all'azione dilavante delle

acque; bacu, le valli comprese tra is costeras e i pranus. In base alla posizione, invece, si distinguevano

in benatzus, terreni acquitrinosi, adatti solo per le colture intensive; arenastu, terreno sabbioso, ideale

per le colture viticole; gragori, terreno pietroso adatto per frutteti; sabonastu, terreno argilloso, poco

adatto a qualsiasi tipo di coltura, che si indurisce e si spacca d'estate e si raggruma con le piogge

invernali; arrocraxa, terreno roccioso; coboviu, terra scura e umida, adatta per la coltura de is loris, i

cereali.

Il terreno era poco produttivo, a causa della scarsa piovosità che determinò lunghi periodi di siccità,

aggravata dalla mancanza di ogni forma di irrigazione sino alla seconda metà del XX secolo.

Molto più redditizio dell'agricoltura era l'allevamento del bestiame che, assai sviluppato fin dalla prima

metà del ‘900, era controllato da pochi grandi proprietari, in genere latifondisti. Prevaleva l'allevamento

degli ovini, dei caprini dei bovini radunati in grosse mandrie allo stato brado. I bovini, considerati di

ottima qualità, venivano esportati in Francia. Si allevavano inoltre asini e cavalli, che con i buoi erano

utilizzati forza lavoro.

I rapporti di lavoro

Le terre coltivate erano concentrate per lo più nelle mani di pochi messaius, proprietari terrieri. Questi

erano suddivisi in messaius mannus, messaieddus, messaieddus a giù de carru.

I messaius mannus erano proprietari di grossi appezzamenti di terreno che venivano dati in parte in

affitto o a mezzadria oppure coltivati da lavoratori assunti con contratto annuale, stagionale o giornaliero.

I messaieddus avevano un'azienda a conduzione familiare. I messaieddus a giù de carru non avevano

terre ma possedevano gli strumenti e gli animali da lavoro e in genere prendevano in affitto o a

mezzadria terreni di altri.

Su messaiu mannu, chiamato anche su meri, si occupava di amministrare la sua tenuta. Raramente

svolgeva lavori manuali: interveniva solo in alcuni momenti simbolicamente importanti, come quando

tracciava il primo solco, spargeva la prima manciata di grano o caricava l'ultimo covone sul carro.

Al suo servizio erano is srebidoris, i lavoratori assunti con contratto annuale. Essi ricevevano, al momento

dell'assunzione, un paio di scarponi chiodati, e, giornalmente, su civraxiu; a fine contratto, la paga, parte

in denaro e parte in natura (grano, fave, legna).

Tra is srebidoris esisteva una gerarchia basata sull'esperienza e sull'età: su sotzu, su bastanti mannu, su

bastanteddu, su boinargiu e su boinargeddu (il socio, il bastante, il bastante giovane, il vaccaro e il

vaccaro giovane). Su sotzu, in genere un uomo anziano e con diversi anni di esperienza, coordinava e

sorvegliava il lavoro. Gli altri srebidoris svolgevano, oltre al lavoro vero e proprio della campagna, tutte

quelle attività collaterali, ad essa legate, tra cui la cura degli animali da lavoro. Oltre la paga, tutti

avevano vitto e alloggio nella casa padronale.

In certi periodi dell'anno, ad esempio prima della vendemmia, della raccolta delle olive o della mietitura,

si assumevano lavoratori stagionali come guardiani delle colture intensive (castiadoris) o mietitori.

Quando la manodopera assunta non era sufficiente al disbrigo dei lavori della campagna si ricorreva ai

giorronaderis, i lavoratori giornalieri che potevano essere uomini, donne e anche bambini.

La loro giornata lavorativa andava dall'alba al tramonto, compreso il tempo necessario per recarsi sul

luogo di lavoro e rientrare a casa. Generalmente il loro salario era in denaro; le donne erano pagate metà

degli uomini e i bambini ancora meno.

Come si svolgeva il lavoro

I lavori agricoli avevano inizio il 29 settembre, giorno di San Michele, e variavano a seconda delle

stagioni. A Siliqua vigeva il sistema della rotazione biennale delle terre, per cui esse erano coltivate per

alcuni anni e poi lasciate a riposo, adibite al pascolo.

In atòngiu, in autunno, si svolgevano i lavori di preparazione del terreno lasciato a maggese: si

cominciava col ripulirlo dai cespugli ed erbe nocive, su pitzianti, s'allu de carroga, su cannaiòni,

s'ambuatza (l'ortica, l'aglio selvatico, la gramigna, il rafano). Inoltre si aravano i terreni già coltivati

l'anno precedente, si spargeva il letame e, infine, si seminava.

A settembre si vendemmiava, tradizionalmente poco prima della festa di Santa Margherita, la terza

domenica del mese.

In s'ierru, in inverno, i contadini si dedicavano al diserbamento, alla lavorazione delle zolle, alla semina

dei cereali e di alcuni legumi. Se la pioggia in autunno era stata scarsa, in dicembre si portava a termine

la semina del grano.

In benau, in primavera, si mieteva l'orzo e l'avena da usare come foraggio e si eliminavano le erbe

infestanti dai campi di grano. Si procedeva poi all'aratura delle terre non coltivate e, dalla fine di maggio

fino a metà giugno, a ndi tirai su lori, ad estirpare le leguminose, soprattutto le fave, dopo la festa di San

Giacomo.

In s'istadi, d'estate, si ultimavano i lavori: la mietitura dell'orzo, dell'avena e del grano, la trebbiatura e

l'immagazzinamento nelle aie.

Un momento particolare era sa messadura de su trigu, la mietitura del grano, cui partecipavano tutti gli

agricoltori e gli operai.

Fino agli anni ‘50 si mieteva a mano. Si assumevano lavoratori stagionali, pagati a sciarada, cottimo, in

denaro. Parte di questi proveniva dai paesi della Trexenta e giungeva a Siliqua in bicicletta. Ciascuno si

portava dietro solo lo stretto necessario: la falce, la coperta e un ombrello per ripararsi dal sole nei

momenti di sosta. In paese si radunavano in piazza in attesa di essere scelti dai vari proprietari.

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Una volta assunti restavano in paese per tutta la durata del lavoro: dormivano all'aperto e mangiavano in

campagna il pane e il formaggio distribuito dai padroni. Il lavoro in sé era semplice ma ripetitivo e

faticoso: con la mano sinistra si afferrava un mazzo di culmi e con la destra, che impugnava la falce, lo si

tagliava a 40 centimetri circa dal suolo. Si procedeva in questo modo fino a quando con la mano sinistra

non si poteva contenere altri culmi. Si formava in tal modo su manugu, un grosso mazzo che era

composto da tanti mazzetti legati insieme con un culmo. Sei mazzi formavano sa màniga, un covone. I

covoni erano disposti con le spighe rivolte verso l'alto, in attesa di essere caricati sul carro e portati alle

aie.

La mietitura era un lavoro prettamente maschile; la donna era assunta solo per portare acqua e cibo ai

lavoratori, raccogliere i covoni e aiutare a caricarli sul carro.

Una figura particolare era quella della spigolatrice: ogni mietitore del luogo aveva diritto a portarne una

con sé. Se questa non era una parente stretta, essere scelta da un mietitore particolarmente bravo era

motivo d'orgoglio e anche di rivalità con le altre donne. Talora is messadoris dovevano far fronte alle

pretese del padrone che pretendeva, spesso senza riuscirci, di inserire nel gruppo spigolatrici scelte da

lui.

Le spigolatrici procedevano dietro i mietitori e raccoglievano il grano rimasto al suolo. Mettevano le

spighe, senza gambo, dentro una sacca legata in vita. Quando questa era piena, il contenuto veniva

versato in un sacco di juta. Ognuna aveva diritto a tenere tutte le spighe raccolte. A lavoro terminato,

regalava al mietitore che l'aveva scelta una camicia. Di questa antica tradizione non si conosce l'origine.

L'ultimo carro carico di covoni, ornato di immagini sacre, croci di spighe e frasche, era festeggiato con del

buon vino, offerto dal padrone e distribuito dalle spigolatrici.

Alle aie si procedeva a sa treba, alla trebbiatura. Fino agli anni cinquanta, ci si avvaleva dei buoi e dei

cavalli. I contadini, una volta ripulita l'aia, spargevano il raccolto per terra a forma di ciambella in modo

tale da formare s'axroba. Su di essa era fatto passare il giogo dei buoi o dei cavalli che calpestavano le

spighe. Terminata questa operazione i cereali erano ammucchiati in modo da formare s'arega, cumulo a

base rettangolare, che veniva bentuada, cioè ventilata per separare il grano dalla paglia.

Il grano era, infine, ammucchiato in modo da formare sa massa, un ammasso di forma conica su cui il

proprietario tracciava, con la pala, dei disegni che avevano il duplice scopo di allontanare il malocchio e di

segnalare eventuali furti. In questo caso, infatti, se qualcuno avesse portato via del grano, i disegni

sarebbero risultati alterati.

L'ultima fase consisteva in s'incùngia, l'immagazzinamento e la misurazione del raccolto. Questa attività

si svolgeva in un clima di gioia e di festa accompagnata da canti tradizionali e scherzi. Non di rado era

seguita dall'invito, a pranzo o a cena, a casa del padrone.

La fine dei lavori agricoli rappresentava l'unico momento in cui il contadino poteva incassare e quindi

saldare i debiti. Si diceva, infatti, mesi de argrobas debitori, austu pagadori (luglio debitore, agosto

pagatore): il messàiu pagava is srebidoris, su sotzu, su ferreri, su maistu de linna, su maistu de carru, su

butaiu, is butegheris, su brabieri e il veterinario (i domestici, il socio, il fabbro, il falegname, il fabbricante

dei carri, il bottaio, i negozianti, il barbiere).

Tutti i contadini, anche quelli meno abbienti, facevano una donazione per finanziare la festa religiosa più

importante dell'anno, Santa Margherita.

Pronostici sul tempo

Siccome il buon esito dell'annata dipendeva, in buona parte, dalle condizioni climatiche, i contadini

cercavano di prevederle utilizzando metodi antichi, basati sull'esperienza e tramandati di generazione in

generazione sotto forma di dicius, di proverbi e sentenze.

Al di là della fondatezza o meno dei metodi di previsione, l'arte del presagio deduce gli eventi climatici

dall'azione dei venti, dalla posizione delle stelle, dalla forma delle nuvole e dal comportamento degli

animali.

Le previsioni a lungo termine davano informazioni sull'andamento del tempo per tutto l'anno. Si basavano

sull'osservazione di alcuni fenomeni in particolari giorni o periodi dell'anno considerati importanti per le

fasi del lavoro.

Si riteneva, ad esempio, che i primi dodici giorni del mese di gennaio rispecchiassero il tempo dei dodici

mesi dell'anno; su mengianu, il mattino, corrispondeva alla prima metà del mese, su merì, la sera, alla

seconda metà. In alcune zone della Sardegna al posto di gennaio si usava settembre.

Le condizioni climatiche di alcuni mesi permettevano di capire come sarebbe stato il raccolto. Si diceva,

ad esempio, gennarxu sicu, messaiu arricu (gennaio secco, contadino ricco) oppure che se le rane

avessero gracidato già alla fine di questo mese, ci sarebbe stata una primavera anticipata e un buon

raccolto. Se a febbraio avesse piovuto abbastanza valeva su diciu: marzu, cun s'arrosu miu mi fatzu

(letteralmente, marzo con la mia rugiada mi faccio), cioè a marzo sarebbe bastata la rugiada a irrigare il

terreno.

Vi erano, inoltre, dei giorni precisi per fare previsioni sul tempo e sul raccolto: il due di febbraio, festa

della Candelora, la notte del ventiquattro giugno, vigilia di San Giovanni Battista, e il due di dicembre,

giorno di Santa Bibiana.

Nel primo caso, se la candela della Madonna, durante la processione, fosse rimasta accesa si avrebbe

avuto un raccolto abbondante ma se si fosse spenta sarebbe stato scarso.

La vigilia di San Giovanni si osservava il comportamento degli animali: se le pecore o le capre avessero

dormito raggruppate, l'annata sarebbe stata mediocre, in caso contrario il raccolto sarebbe stato

abbondante e il tempo mite.

Il due di dicembre dava auspici sulla pioggia; se avesse piovuto in questo giorno, la pioggia sarebbe

continuata per i successivi quaranta: chi proit po Santa Bibiana proit unu mesi e una cida (Se piove per

Santa Bibiana, piove un mese e una settimana).

Sempre sotto forma di proverbio si sintetizzavano le caratteristiche di ciascun mese. Per febbraio si

soleva ripetere: friaxiu, dogna pilloni preit a scraxu (a febbraio ogni uccello si riempie lo stomaco) oppure

friaxiu facis a facis: candu est intruau est cun sa pobidda, candu c'est sobi bellu est cun sa fancedda

(febbraio ha due facce: quando è rannuvolato è con la moglie, quando c'è un bel sole è con l'amante) ad

indicare l'incostanza del tempo in questo mese.

Il freddo del mese di marzo era così temuto che si riteneva che marzu sperra peis, bocit bois e scroxat

brebeis (marzo spacca i piedi, uccide i buoi e scuoia le pecore).

Ad aprile, caratterizzato dal ritorno del freddo dopo l'arrivo dei primi tepori della primavera, soleva dirsi:

abrili torrat su lèpiri a cuibi (ad aprile la lepre torna nella tana).

Di maggio si diceva longu che su mesi de maju (lungo come il mese di maggio), in quanto vi erano più

ore di luce rispetto ai mesi invernali e i contadini dovevano lavorare di più, dato che iniziavano dal

sorgere del sole fino al tramonto.

Le previsioni a breve termine si basavano su eventi quotidiani: il nervosismo delle pecore al momento

della mungitura o l'agitazione dei buoi, che si rincorrevano e saltavano, indicavano la vicinanza della

pioggia. L'aria limpida, la brezza leggera e il cielo stellato erano segni di bel tempo.

Anche il comparire dell'arcobaleno aveva un preciso significato: circhiolla a mengianu signallat tempu

mau, circhiolla a merì signallat bona dì (arcobaleno di mattina indica cattivo tempo, arcobaleno di sera

indica una buona giornata).

La forma delle nuvole era, a sua volta, indicativa del mal tempo: mata bianca o conca de cabi e is brebeis

(albero bianco o testa di cavolo sono i cumuli; le pecore, i cirri) annunciavano pioggia in giornata; sa nui

niedda (la nuvola nera ossia i nembi) indicavano l'imminenza del temporale. Il temporale poteva essere

previsto anche dal riacutizzarsi dei dolori reumatici o dal volo basso degli uccelli o da su bentu de Pula, il

vento che spira dalla parte dei monti di Pula, lo scirocco.

Una notte invernale serena e sa tremuntà, il vento di tramontana, indicavano gelu e cibixia, gelo e brina.

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L'alone rosso del sole al tramonto preannunciava bentu estu, il maestrale, adatto e atteso quando si

bentuaiat su trigu, si spagliava il grano.

Su bentu de sobi, letteralmente il vento del sole, il levante, se spirava a settembre portava pioggia.

Nessuna di queste previsioni era valida per il sabato, in quanto si riteneva che sabudu chenza de sobi e

fèmina chenza de amori no podit essi mai (sabato senza sole e femmina senza amore non può esistere

mai); in questo giorno gli agricoltori uscivano sempre per andare a lavoro, anche se stava piovendo,

perché si era sicuri che prima o poi sarebbe spuntato il sole.

Caccia e pesca

Lavoro prettamente maschile era la cattura degli animali. Si trattava di un'attività ritenuta molto rischiosa

e che richiedeva una notevole forza fisica.

Sribonis, conillus arestis, lèpiris, pillonis e talvolta crebus (cinghiali, conigli, lepri, uccelli e cervi), per la

cui cattura si ricorreva talvolta all'uso di trappole, erano le prede favorite dai cacciatori.

Secondo i cacciatori di Siliqua esistono due varietà di cinghiali, su sriboni e su sriboni fromigàiu, il

cinghiale comune e il cinghiale formichiere, caratterizzato dal collo allungato, dal bacino stretto e da una

maggiore ferocia.

Tra gli uccelli erano molto ricercati su trudu, sa perdixi, sa meurra (tordi, pernici e merli) che bolliti e

aromatizzati con il mirto costituivano un piatto molto prelibato, sa taccula.

Attività, un tempo molto diffusa, era la pesca, svolta nel periodo in cui i vari corsi d'acqua erano in piena.

Il fiume più ricco era il Cixerri. Poiché la pesca non era così redditizia da garantire un introito sufficiente

per vivere, i pescatori in genere svolgevano anche altri lavori.

Gli strumenti per la pesca comunemente utilizzati erano sa frùscia, fiocina, la canna da pesca e la rete a

bilancia. Con questi sistemi si pescavano anguiddas, pisci nou, trincas e trotas (anguille, carpe, tinche,

trote).

Un sistema di pesca complesso era su nazraxiu. Esso consisteva nel costruire, nel letto del fiume, uno

sbarramento con pietre e pertiche e nell'utilizzo di una rete particolare in spago per la cattura dei pesci.

Alcuni usavano s'obiga o pardavellu, il bertavello, un tipo di rete di forma quasi conica con un cerchio

nell'imboccatura o su petiabi, una rete in spago di forma rettangolare; altri le nasse, contenitori in vimini

o di spago di forma tronco conica, cui sono legate nella parte interna altre reti in spago che impediscono

la fuoriuscita del pesce.

Certi pescatori, per la pesca delle trote, facevano affidamento sulla propria astuzia e sulla abilità delle

proprie mani. Immersi nell'acqua fino alla cintola, la smuovevano con lunghe pertiche per renderla

torbida in modo tale da spingere i pesci verso la riva dove l'acqua era più limpida. Questi, disorientati dal

rumore, erano spinti dai pescatori verso qualche anfratto, dove si mimetizzavano tra le erbe e i sassi. A

questo punto, il pescatore poteva agevolmente catturare il pesce inserendo le dita nelle branchie.

Infine, vi era chi utilizzava particolari erbe col potere di stordire o far perdere il senso d'orientamento ai

pesci come, ad esempio, su truiscu (la dafne), su modditzi (lentischio) e sa lua (l'euforbia) che però

risulta essere tossica anche per l'uomo.

Le lumache

Dopo le prime piogge, uomini, donne e bambini andavano a cicai sitzigorrus, a cercare le lumache.

Molto ricercate, ancora oggi, sono is tapadas, letteralmente tappate, perché quando vengono catturate,

essendo in letargo, hanno l'apertura del guscio chiusa da una sottile membrana bianca. I ricercatori, per

prenderle, scavano nel terreno con piccoli picconi. Di solito si cucinano arrosto con poco olio. Se sono

catturate quando fuoriescono dal terreno, di solito in autunno con le prime piogge per deporre le uova, si

cucinano col sugo.

Molto diffusi sono i sitzigorreddus de santuanni, cioè le lumachine di San Giovanni, dalle dimensioni molto

piccole con il guscio grigio chiaro e i sitzigorrus boveris, molto grandi, dal guscio striato di marrone e

giallo. Si mangiano cucinate in umido oppure con il sugo, dopo essere state conservate per alcuni giorni

dentro un recipiente coperto po matiri (smaltire tutto il cibo ingerito).

Le feste

Gli abitanti di Siliqua, come quelli degli altri paesi, lavoravano per tutto l'anno. I momenti di riposo e di

svago erano legati alle feste che scandivano il trascorrere del tempo e le fasi del lavoro agricolo e

pastorale tant'è che ogni mese aveva il suo Santo da celebrare. Molte hanno radici in culti pagani legati

alla fertilità della terra che, successivamente, la Chiesa ha rivestito di significato religioso.

Oggi non solo si è perso il significato originario delle feste ed il loro legame con le fasi del lavoro, ma

molte di esse non si celebrano più come, ad esempio, San Giovanni, Sant'Isidoro e San Marco.

Atòngiu

L'anno iniziava a cabudanni, settembre, in corrispondenza con la prima fase del lavoro agricolo. In questo

mese si celebravano e si celebrano tuttora la festa di Santa Margherita, la terza o la quarta domenica di

settembre, e la seconda festa di San Sebastiano.

La festa in onore di Santa Margherita è stata ripristinata dopo la seconda guerra mondiale, nel 1947,

quando i ferrovieri delle Ferrovie meridionali ristrutturarono la chiesetta campestre a lei dedicata. Non è

dato sapere quando e per quale motivo fosse stata soppressa.

È sicuramente la festa più sentita del paese; i festeggiamenti, ancora oggi, durano quattro giorni e, negli

ultimi anni, ha assunto una certa importanza anche nel circondario. Questo è dovuto, soprattutto,

all'attività de su comitau, il comitato, che si occupa dell'organizzazione dei festeggiamenti. Esso si

rinnova di anno in anno e ha il compito de fai sa circa, ossia di raccogliere le offerte di casa in casa per

finanziare la festa, cui ultimamente, contribuisce anche il Comune.

Le tappe della festa religiosa sono la messa in parrocchia la sera del sabato, dove la statua della santa è

conservata tutto l'anno, cui segue la processione per le vie del paese. Per l'occasione, le strade sono

cuncordadas con le bandierine e con petali sparsi per terra, i davanzali delle finestre con vasi di fiori; sui

balconi fanno bella mostra tappeti, arazzi e lenzuola ricamate. Il passaggio della Santa era accompagnato

dal lancio di petali, coriandoli e bigliettini con scritte varie a lei inneggianti.

Anticamente la statua era trasportata in sa traca, il carro trainato dai buoi riccamente addobbato cun is

peribangus e is froris.

Durante la processione i brani suonati dalla banda musicale si alternano alla recita del rosario in sardo.

Divisi in due cori, uomini e donne, all'invocazione del sacerdote “Allabau sèmpiri siat, su nòmini de Gesus

e de Maria, su nòmini de Gesus e de Maria” (Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria), rispondono

“Allabeus a prus a prus, su nòmini de Maria e de Gesus” (Lodiamo sempre più il nome di Maria e di

Gesù).

Poi si inizia il Padre nostro:

Babu nostru chi ses in celu

santificau su nòmini Tuu

bengiat a nosu su regnu Tuu

siat fata sa volontadi Tua

cumenti in su celu, aici in sa terra.

Su pani nostru dogna dì

Donaisì oi e perdonaisì

is pecaus nostrus, cumenti nosu àterus

Perdonaus is depitoris nostrus.

Non si lasseis arrui in tentatzioni

ma liberaisì de dogna mali

Padre nostro che sei nei cieli

sia santificato il nome Suo

venga a noi il Suo regno

sia fatta la Sua volontà

come in cielo così in terra.

Il pane nostro ogni giorno

donaci oggi e perdonaci

i peccati nostri, come noi altri

perdoniamo ai nostri debitori.

Non lasciateci cadere in tentazione

ma liberateci da ogni male.

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Amen – Aici siat Amen – Così sia

Segue l'Ave Maria:

Avi Maria prena de grazia (chi nou Deus ti salvi

Maria prena de grazia)

su Segnori es cun tegus.

Benedita ses tui tra totu is fèminas

beneditu es su frutu de is intragnas tuas, Gesus.

Santa Maria, mamma de Deus,

pregai po nosu àterus pecadoris

imui e in s’ora de sa morti nostra.

Amen, Gesus

Ave Maria piena di grazia (oppure

Dio ti salvi Maria, piena di grazia)

il Signore è con te.

Benedetta sei tu tra tutte le donne

e benedetto il frutto del tuo grembo, Gesù.

Santa Maria, mamma di Dio,

prega per noi altri peccatori

adesso e nell'ora della morte nostra.

Amen, Gesù

Prendono parte al corteo il gruppo folcloristico del paese che porta il nome della Santa e i suonatori di

launeddas.

La processione in paese termina nella piazza della Madonnina; poi la Santa viene accompagnata da una

parte dei fedeli nella chiesetta in campagna dove, la domenica e il lunedì mattina, è celebrata la messa.

Un tempo, i fedeli vi si recavano a piedi, in bicicletta o sul carro, tradizione che, in parte, si è mantenuta

fino ad oggi.

Dopo la messa domenicale, di solito, si trascorre in campagna tutta la giornata. Fino ad alcuni anni fa, su

comitau, per l'occasione, offriva a tutti la pecora bollita e organizzava, per la gioia e lo svago dei

partecipanti, sa cursa de is sacus, le corse con i sacchi, le corse a cavallo ad ostacoli e l'albero della

cuccagna. Oggi questi intrattenimenti sono stati sostituiti da una grande lotteria in cui sono messi in palio

premi offerti dai negozianti di Siliqua.

Il lunedì sera la Santa torraiat a bidda, rientra in paese, sempre accompagnata dai fedeli, e all'altezza

della piazza della Madonnina riprende la processione, che ripercorre, al contrario, il tragitto del sabato

sera, fermandosi varie volte. Le tappe sono contrassegnate da una pioggia di fuochi artificiali: presso la

Madonnina, all'incrocio tra via Roma e corso Repubblica, all'incrocio tra questo e via Flavio Gioia, in via

Garibaldi, a Sant'Anna e poi in parrocchia.

I festeggiamenti civili iniziano ancor oggi il sabato sera e proseguono fino al martedì. Un tempo si

svolgevano nel piazzale della parrocchia, dove erano sistemate is paradas, le bancarelle, e nel cortile

delle scuole elementari di via Mannu; si ballava il liscio sulle note della fisarmonica e, ad intervalli

regolari, il ballo sardo cui partecipavano soprattutto gli anziani. Spettacolo atteso erano i mutetus de is

cantadoris, gli stornelli campidanesi. I fuochi d'artificio, martedì sera, concludevano i festeggiamenti me

is arxobas, nelle aie.

In tempi successivi, balli e canti si svolgevano nel piazzale della chiesetta campestre; oggi all'anfiteatro

del campo sportivo.

Il martedì, inoltre, si festeggia anche San Sebastiano estivo, già celebrato il 20 di gennaio, nel suo

giorno. Un tempo, oltre alla messa, si organizzavano is cantadas e i balli. Non si conosce il motivo di

questa duplice celebrazione, di cui si ha notizia addirittura nell'inventario delle chiese del 1761. Secondo

alcuni degli intervistati ciò era dovuto al fatto che, essendo gennaio un mese molto freddo, non era

possibile festeggiare San Sebastiano in modo appropriato.

Su mesi de làdamini, ottobre, così chiamato perché era il periodo in cui si concimava il terreno prima di

ararlo, è tradizionalmente il mese del rosario.

Dall'inventario del 1761 risulta che, a Siliqua, esisteva la confraternita del S.S. Rosario che si occupava di

tutti i preparativi per la festa. Il documento ne descrive la struttura organizzativa e riporta i nomi de is

cunfraras in quell'anno: priore era Francesco Sessini, procuratore Battista Bachis, guardiani Sisinnio

Uccheddu e Giuseppe Egizioso Bachis, obrieri Nicola Murru e Francesco Pilloni, i cursori Giovanni Caria

Manis e Priamo Baquis, collettori Giovanni Antonio Cabras e Giuseppe Arba, prioressa Maddalena Baquis.

Gli obrieri avevano il compito di fare la questua nel paese, ogni settimana, e in Chiesa, i giorni di festa, a

beneficio della Confraternita.

I cursori avevano l'incarico di avvisare i confratelli per le riunioni e per le funzioni e di provvedere agli

accompagnamenti dei defunti della confraternita.

Il compito dei collettori era esigere tre soldi da ciascun confratello e consorella a beneficio della

confraternita.

La prioressa aveva il compito di vestire e adornare la Vergine per le sue festività, lavarne la biancheria e

fare una raccolta generale otto giorni prima della festa di ottobre.

Tutti gli incarichi erano affidati attraverso un voto pubblico della confraternita; il governo era affidato al

Venerabile Rettore che, in genere, era uno dei curati. Per quanto riguarda i beni e i redditi ne aveva

mansione il priore, il quale presentava tutti gli anni i conti al procuratore, che aveva il compito di

controllare tutte le entrate della confraternita. A questo scopo era predisposto un apposito registro

conservato in una cassaforte insieme al denaro. Essa aveva tre chiavi, una in mano al rettore, una al

priore e una al procuratore.

Oggi si è persa ogni traccia della confraternita; rimane solo la figura della prioressa che ha il compito di

adornare la Madonna e le Sante per le loro feste.

Donniasantu, novembre, è così chiamato per la ricorrenza religiosa con cui si apre. Il primo del mese,

infatti, si celebra la festività di Tutti i Santi. Per l'occasione si preparano su pani de saba e is pabassinas,

dolcetti a base di farina, saba, pabassa, noci mandorle e limoni.

Più caratteristica è la celebrazione del due novembre in memoria dei defunti, oggetto di particolare

venerazione in Sardegna, retaggio di un più lontano culto degli antenati.

In vista della messa che si officia in cimitero, le tombe vengono pulite e adornate con fiori e làntias,

lumicini. Fino alla seconda guerra mondiale, ci si riuniva in parrocchia dove era esposto un catafalco tutto

nero con i teschi disegnati e le campane addopiaiant, suonavano a morto, per tutto il giorno.

La notte tra il primo e il due di novembre, prima di andare a dormire, si usava apparecchiare il tavolo con

la tovaglia, un bicchiere, unu civràxiu e su binu, perché si credeva che le anime dei defunti della famiglia

in quella notte avrebbero visitato la casa. Rito antichissimo affonda le radici nell'usanza di stendere sulle

tombe una tovaglia su cui venivano posti pane, vino e due candele di cera accese.

Il quattro di novembre si commemorano nella chiesa di San Sebastiano i caduti in guerra. Questo evento,

di significato strettamente civile nonostante venga celebrata una messa in suffragio, è organizzato

dall'associazione ex combattenti e dal Comune.

Ai piedi del Monumento ai Caduti viene deposta una corona di alloro e, mentre la tromba della banda

musicale “Giuseppe Verdi” intona il Silenzio, si fa l'appello di tutti i caduti in guerra. La celebrazione si

conclude con le note dell' Inno nazionale, della Leggenda del Piave e di altre musiche patriottiche.

Ierru

Mesi de idas, dicembre, deriva il suo nome dal latino idus che nel calendario romano corrispondeva al

giorno che divideva il mese in due. È chiamato anche mesi de iras che in sardo significa temporale,

burrasca.

Questo era, per eccellenza, il mese delle feste tant'è che un proverbio recita: tra festas e dì nodias nci

passat mesi de idas (tra feste e giorni solenni, trascorre il mese di dicembre).

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La festività più importante è Paschixedda, Natale. Il Natale era vissuto e sentito come una festa della

famiglia. Sia la vigilia sia il venticinque venivano trascorsi insieme ai parenti ed ai vicini, con i quali i

rapporti erano decisamente più stretti di quanto non lo siano ai giorni nostri.

Fino a tempi recenti era usanza digiunare la vigilia. Infatti, sa noti de cena, il 24, si consumava una cena

frugale la cui pietanza principale era sa tratabia, la coratella. La carne era conservata per il pranzo del

giorno successivo.

Dopocena si aspettava, con trepidazione, il momento di andare a sa missa de puddu, alla messa di

mezzanotte, così detta per l'ora tarda in cui veniva officiata, prossima quasi al canto del gallo.

Si condivideva l'attesa cun is bixinus giocando a carte, a bicus, a baddarincu, a pitzu cù e costedda,

mangiando mandorle e castagne e bevendo vino.

Restare alzati fino a tarda ora era un'occasione speciale soprattutto per i più piccini. Per intrattenerli gli

adulti raccontavano loro delle storie. Una delle signore intervistate ricorda con piacere e nostalgia un

anziano vicino di casa, che soleva narrare a lei e agli altri bambini le favole di Le Mille e una notte.

Giunta l'ora, ci si recava in chiesa per ascoltare la messa. Mentre nelle case non si aveva l'abitudine di

preparare il presepio, in chiesa, sull'altare maggiore, venivano sistemate le statue della Madonna, di san

Giuseppe e del bambin Gesù. Questo restava coperto con un lenzuolino bianco fino allo scoccare della

mezzanotte, quando le campane suonavano il Gloria.

Uno spettacolo, soprattutto per i bambini, era il dipinto realizzato da una suora, in cui era riprodotto lo

scenario di Nazareth, con le palme, il cielo stellato, le casette, posto sopra l'altare, dietro le statue.

Il momento più atteso della messa era quando il sacerdote percorreva tutto l'altare per consentire ai

fedeli, inginocchiati sugli scalini, de basai su Bambineddu, di baciare il Bambinello. Era obbligatorio per le

giovani donne in attesa partecipare a questa messa, perché si credeva che in tal modo su pipiu no si ndi

sciuscessit, per scongiurare l'eventualità di un aborto.

Molto atteso era il pranzo del giorno successivo; anche le famiglie più povere, a costo di notevoli sacrifici

economici, non rinunciavano al tradizionale banchetto natalizio. Il menù consisteva in un primo a base de

pillus, malloreddus e cruxonis (tagliatelle, gnocchetti e ravioli); due secondi piatti generalmente a base di

carne, agnello o maialetto. Concludevano il pranzo la frutta di stagione e secca e su pani de saba come

dessert.

A Natale non ci si scambiava i regali, ma si aspettava la Befana, in linea con la tradizione religiosa

dell'arrivo dei Re Magi. Considerando che le possibilità economiche erano piuttosto scarse, i regali,

quando c'erano, erano cose utili: calze, scarpe, mutande, berretti, quasi mai giocattoli. Nella calza appesa

al caminetto si potevano trovare caramelle, dolcetti, mandarini, mandorle, qualche monetina e il carbone.

A gennarxiu, gennaio, si festeggiava, oltre che l'Epifania, Sant'Antonio Abate, detto anche Sant'Antoni de

su fogu, e San Sebastiano invernale.

Il primo era celebrato il 17 cun su fogadoni, un grande falò che veniva acceso, in origine, nel piazzale

della chiesa a lui dedicata e, in seguito, nelle aie. Alcuni giorni prima della festa, i giovani avevano il

compito di raccogliere la legna necessaria e accatastarla per formare una pira. La sera, dopo la messa, si

accendeva il falò, intorno al quale la popolazione ballava e cantava fino a notte inoltrata.

Questa tradizione affonda le radici nella leggenda secondo cui fu Sant'Antonio ad insegnare ai sardi come

accendere il fuoco, rubandolo addirittura dall'inferno. Dio, infatti, quando creò la Sardegna, se n'era

completamente dimenticato.

Il 20 gennaio si celebra la festa invernale di San Sebastiano che, secondo la tradizione, era pecoraio

come Sant'Antonio. Anche per questa festività si accendeva su fogadoni, nella piazza della chiesa eretta

in suo onore, quando ancora tutta l'area circostante si trovava in aperta campagna. Oggi, l'usanza di

accendere il falò in onore dei santi è andata perduta.

Friaxiu, febbraio, è il mese de sa Candebera e de su Carnevali.

Il 2 di febbraio, quaranta giorni dopo Natale, ricorre la purificazione della Madonna e la presentazione di

Gesù al tempio. Preparare la festa, adornare la statua della Madonna con Gesù Bambino e abbellire la

chiesa è compito della prioressa. Sceglie anche due bambine, che nell'anno precedente abbiano fatto la

prima comunione, il cui compito è presentare simbolicamente le offerte della Madonna al tempio, in

genere una torta e una coppia di colombe.

Durante la messa e la processione che si svolge attorno al piazzale di chiesa, tutti i fedeli reggono in

mano una candela accesa. La tradizione vuole che la torta sia consumata dalle bambine, dal sacerdote e

dai chierichetti, e che le colombe siano liberate.

Su Carnevali

Lo spirito del Carnevale, anticamente, si iniziava a sentire già subito dopo l'epifania e durava per tutto il

mese di febbraio. Infatti, già da allora le donne cumentzaiant a friri, letteralmente incominciavano a

friggere, ossia a preparare i dolci tipici di questa festa, sas zippuas, le zippole.

La ricetta è rimasta invariata: si impasta la farina con il lievito sciolto nel latte, lo zafferano, il succo

d'arancia e l'acqua vite. Si lavorano a lungo, prima sul tavolo e poi in sa scifedda. Si fanno lievitare per

un paio d'ore e poi si friggono in abbondante olio caldo.

Non tutti usavano s'ollu armau, olio di oliva, ma s'ollu de stincu, fatto con le bacche di lentisco, mischiato

con s'ollu de procu, lo strutto. Le zippole, una volta fritte, si mangiano cosparse di zucchero.

Altri dolci tipici del Carnevale sono is cruxionis fritus e is maraviglias o cruxionis de bentu (i ravioli fritti e

le chiacchiere).

I giorni effettivi dedicati al Carnevale sono su giobia perdaiò, su matis de cò e su domingu de cò o su

domigu de segai is pingiadas (il giovedì grasso, il martedì grasso e il giorno della pentolaccia).

In questi giorni, raccontano le persone intervistate, si soleva mascherarsi a mustaioni, cioè gli uomini da

donna e le donne da uomo, con il volto coperto in modo da essere irriconoscibili. Così vestiti andavano

insieme in giro per il paese a fare scherzi, a rubare le zippole, a bussare alle porte chiedendo: si ndi

donant zipueddas? (ce ne date zippole?). La sera, di solito, ci si riuniva al Monte Granatico o in casa di

amici e parenti per ballare.

La pentolaccia, con cui si conclude il Carnevale, si festeggia la domenica dopo il Mercoledì delle Ceneri,

giorno in cui inizia la quaresima. Era consuetudine appendere, in Pratza de ballus, is pingiadas, pentole di

terracotta, piene di dolci ma anche di gatti, topi, terra, sassi, carta. Alcuni uomini a cavallo, vestiti in

costume, bendati e armati di lunghi bastoni, dovevano rompere le pentole il cui contenuto ricadeva su di

loro e sulla gente che assisteva allo spettacolo. Vi era chi predisponeva l'occorrente per la pentolaccia

anche in casa propria.

Dal dopoguerra in poi e soprattutto negli ultimi anni, il giorno della pentolaccia si organizza la sfilata dei

carri e delle maschere.

I canti e le musiche moderne hanno preso il posto dei tradizionali gocius de Carnevali. In origine canti

esclusivamente religiosi, col tempo furono usati anche in occasioni profane per satireggiare usi e

personaggi che erano per qualche motivo diventati ridicoli.

Per Carnevale i gocius erano trascritti in fogli che poi venivano distribuiti ai partecipanti alla sfilata e

cantati durante il tragitto.

I gocius più famosi di Carnevale, cantati ancora nel 1990 a Siliqua, furono composti intorno al 1930:

Carnevali de piticheddu

cafelati non ddi obiat,

e sa mamma pesau ddu iat

totu a forza de binu nieddu,

ma imui chi est matucheddu

Carnevale da bambino

caffelatte non ne voleva

e la mamma l'aveva allevato

tutto a forza di vino nero

ma adesso che è cresciuto

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No ddu abastat nisciuna cosa.

Andira: Carnevali clamat agiudu in cust’ora

necessitosa.

Amigu est de is cuponis

cubeddas e crocorigas.

Portat obertas is origas

e provistu est de nasoni.

Ddu praxit sa petza de angioni

binu nieddu cun gatzosa.

(Andira)

Parit poburu fiudu

e de continu est prangendu.

Curiosu est bufendu

bufat su binu a imbudu

e po chi ddu biais brabudu

sa vida si passat gioiosa.

(Andira)

Cun proceddus cotus arrustu

Macarronis cun salamu

issu puru fillu de Adamu

a si spassiai pigat gustu

e ddu praxit fintzas su mustu

cun sa tacula chi est gustosa.

(Andira)

Carnevali est meda gulosu

de friteddas e meraviglias.

Oi visitat is famiglias

andendi ca est fedosu

e poita non est bregungiosu

Aberit buca vistosa.

(Andira)

Carnevali cun bravura

ddu prascint is cosas bellas,

Ciuculatis e caramellas

Amaretus e confetura.

A scrocai non tenit paura

Ca sa faci no est bregungiosa.

(Andira)

Imoi fatzu una proposta

e ollu a m’ascutai:

aiò totus a baddai

su ballu a sa moda nostra

e giai chi fadeus sosta

cumbidai cancuna cosa.

(Andira)

Non gli basta nessuna cosa

Ritornello: Carnevale chiede aiuto in

quest'ora di necessità

È amico dei tini

Delle botti e delle zucche.

Ha le orecchie aperte

ed è provvisto di un nasone.

Gli piace la carne di agnello

il vino nero con la gassosa.

rit.

Sembra un povero vedovo

e piange di continuo.

È curioso quando beve

beve il vino con l'imbuto

e benché lo vediate barbuto

trascorre la vita gioiosamente.

rit.

Con i maiali cotti arrosto

i maccheroni col salame

anche lui figlio di Adamo

a divertirsi ci prende gusto

e gli piace persino il mosto

con la taccola che è gustosa.

rit.

Carnevale è molto goloso

di frittelle e di chiacchiere.

Oggi visita le famiglie

gironzola tutto malandato

e poiché non è vergognoso

apre una gran bocca.

rit.

Carnevale intrepido

gli piacciono le cose belle

cioccolati e caramelle

amaretti e marmellate.

Non ha paura di scroccare

perché non è vergognoso.

rit.

Adesso faccio una proposta

e voglio che mi ascoltiate:

andiamo tutti a ballare

un ballo alla moda nostra

e visto che facciamo una sosta

offrite qualcosa.

rit.

Al termine della sfilata il fantoccio che simboleggia il Carnevale viene bruciato sul rogo. Fino a non molto

tempo fa, la sua morte era preceduta da un processo vero e proprio. Il testo seguiva un canovaccio che,

di anno in anno, era arricchito sulla base degli avvenimenti della vita politica e sociale locale.

Il Carnevale presenta forti analogie con i Saturnali dell'antica Roma, la festa di Saturno, dio del grano,

anch'esso messo a morte alla fine dei festeggiamenti in suo onore. Carnevale e Saturnali hanno entrambi

il connotato di festa campestre e, poiché si svolgono alla fine dell'inverno, preannunciano la primavera e

la rinascita della natura.

Questa ipotesi trova ulteriore conferma nell'altro nome con cui è conosciuto il Carnevale nella Sardegna

meridionale, Canciofali. Il termine che ricorda il nome sardo dei carciofi, canciofa, evidenzia, ancora una

volta, il carattere agreste della festa.

Benau

Tra marzu e abrili, marzo e aprile, si svolgono tutt'oggi le celebrazioni de sa Pasca manna, di Pasqua.

Come già detto, sa caresima, la quaresima, ha inizio su Mercuis de cinìxiu, il Mercoledì delle ceneri,

cosiddetto perché durante la messa il prete utilizza le ceneri de su pàssiu, la palma del sacerdote

benedetta l'anno precedente, per fare il segno della croce sulla fronte dei fedeli che partecipano al rito.

Questo gesto, ma soprattutto la formula antica che lo accompagnava, “Ricordati, uomo, che sei polvere e

polvere ritornerai”, aveva lo scopo di ricordare il fatto che ogni uomo è mortale. In questo giorno i

credenti praticano il digiuno e l'astinenza dalla carne.

Un tempo, in attesa de sa Cida Santa, la settimana santa, nelle famiglie si preparava su nènniri, il grano

lasciato germogliare, sotto il letto, al buio, dentro dei vasetti con acqua e cotone, in modo tale che

assumesse un colore giallo. Secondo alcuni studiosi rappresenterebbe i primi cristiani che si riunivano

nelle catacombe, al buio, a pregare.

Sa Giòbia santa, il Giovedì santo, su nènniri, abbellito cun is fiobas, le violacciocche, adornava la cappella

che fungeva da sepolcro di Gesù.

A Siliqua per tradizione, il venerdì precedente la settimana santa, la via crucis si svolge per le strade del

paese. Le stazioni, preparate i lati delle porte, sempre nelle stesse case, sono contrassegnate da una

croce sotto cui le famiglie del vicinato allestiscono un altare con fiori e un cuscino o un tappeto a mo' di

inginocchiatoio.

A metà della quaresima, si svolgono is coranta oras, le quarantore: per tre giorni il sacerdote e altri

prelati giunti dai paesi circostanti sono a disposizione della comunità per le confessioni e per incontri di

preghiera e adorazione.

In tempi più antichi, si facevano i quaresimali, prediche su un argomento specifico svolte da sacerdoti,

frati o missionari, in casa di un fedele una volta alla settimana. L'affluenza a questi incontri, specialmente

dei giovani, dipendeva dal carisma del predicatore. A Siliqua se ne ricorda uno in particolare, dott. Floris.

In vista de su Domingu de Prama, la Domenica delle palme, si preparano le palme. Innanzitutto occorre

avvolgere le foglie giovani in quelle vecchie in modo tale che, crescendo al buio, assumano un colore

giallo. Dopodiché vengono tagliate e intrecciate.

Una cura particolare è riservata a su pàssiu, la palma del sacerdote, la cui preparazione è affidata alla

persona considerata la più abile che la decora con le fresie, le violacciocche, la carta colorata e i rametti

d'ulivo. Sa prama de populu, quella che viene distribuita ai fedeli, è intrecciata in maniera più semplice e

veloce.

Su Domingu de prama, le palme e i rami d'ulivo vengono benedetti nella chiesa di Sant'Anna, poi i fedeli

si recano in processione in parrocchia per prender parte alla messa. Le palme vengono appese nelle case;

un tempo si mettevano nella testa del letto, nelle culle, attaccate al giogo dei buoi e nei luoghi di lavoro.

I riti della Settimana Santa iniziano il giovedì, con la preparazione del sepolcro allestito, per tradizione,

nella cappella dell'Immacolata. Qui durante la funzione serale si trasporta l'ostia consacrata e si fa

l'adorazione. L'altare maggiore viene spogliato di qualunque ornamento, comprese le candele e le

tovaglie, e il tabernacolo, ormai vuoto, è lasciato aperto.

A partire da questo giorno, le campane cessano di suonare, in segno di lutto. Anticamente, per

annunciare le funzioni al loro posto, i chierichetti giravano per le strade cun su scrociarrana, un antico

strumento musicale sardo il cui suono ricorda il gracidare delle grane, e is matracas, delle tavolette di

legno con maniglie di ferro che quando vengono scosse producono un suono particolare.

Sa Cenàbara santa, il Venerdì santo, è il giorno in cui si depone Gesù dalla croce, il cui corpo, riposto in

sa latera, una lettiga ricoperta con un velo di tulle trasparente, è portato in processione in tutte le strade

del paese insieme alla Madonna addolorata.

L'unica traccia del rito tradizionale de su scravamentu, a Siliqua, è data dalla presenza, all'adorazione

della croce e nella processione di Gesù morto, di due bambini che impersonano la Maddalena e san

Giovanni apostolo e che portano dentro due cestini i segni della passione, la corona di spine e i chiodi.

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Su Sàbudu santu, il Sabato santo, si celebra la messa di resurrezione, annunciata dalle campane che

suonano “a gloria ”. Fino ai primi anni sessanta veniva officiata al mattino, alle dieci. Non appena le

campane iniziavano a suonare, nelle case, le donne e i bambini battevano sulle porte e sui muri con il

bastone della scopa per scacciare il demonio.

Appena terminata la messa il prete usciva a benedire le case iniziando dal rione di san Giorgio e

proseguendo in quello di sant'Antonio.

Su Domingu de Pasca, la Domenica di Pasqua, si svolge s'incontru, cioè l'incontro di Gesù risorto e la

Madonna. Dal piazzale della parrocchia partono due cortei che, dopo aver fatto percorsi differenti, si

ricongiungono in Pratza de ballus (piazza Costituzione). Il primo accompagna la Madonna ed è composto

per lo più da donne, da sa priorissa e dai bambini vestiti da Maddalena e san Giovanni apostolo; il

secondo, guidato dal prete e formato da uomini, accompagna Gesù risorto. Quando Madre e Figlio si

incontrano, si inginocchiano e la prioressa toglie il velo nero con cui era stata precedentemente ricoperta

la Madonna.

La festa prosegue con il pranzo pasquale il cui menù, un tempo, non variava di molto rispetto a quello

natalizio e dei giorni di festa, se non per i dolci. Per l'occasione si preparavano is parduas, le formaggelle,

un particolare tipo di dolce a base di ricotta o di formaggio, e su cocoi cun s'ou, il pane di pasta dura con

l'uovo sodo.

Il 23 aprile, Siliqua celebra san Giorgio, il suo patrono, la cui festa è sempre stata soltanto religiosa: la

messa e la processione cui partecipano anche i gruppi folcloristici e la banda musicale. In tempi più

antichi, il carro su cui era trasportata la statua del Santo era preceduto da cavalli riccamente adornati e

da buoi cuncordaus con campanelle, una collana di fiori intorno al collo e un'arancia su ogni corno. Al

termine della processione, gli animali, posti in cerchio nel piazzale della parrocchia, venivano benedetti

dal prete prima che il Santo entrasse in chiesa.

Due giorni dopo san Giorgio, i siliquesi erano nuovamente in festa, questa volta per celebrare san Marco.

Molto particolare era il tragitto della processione: alle sei del mattino, i fedeli percorrevano strade che

allora erano in aperta campagna. Il corteo partiva dalla chiesa di Sant'Anna, dove era, ed è, conservata la

statua del Santo, e percorreva via Garibaldi, via Cixerri, viale Marconi, via Grazia Deledda e via San

Giorgio, per far ritorno al punto di partenza. Nella mano del Santo si metteva un mazzetto di spighe che

cominciavano a ingranì, ossia a maturare i primi chicchi di grano.

Candu fadiat annada maba, racconta un intervistato, timiant, sa genti, e segaiant una spiga, e andaiant

po dda benedixi (quando l'annata si preannunciava cattiva, la gente impaurita tagliava una spiga e la

portava dal Santo per farla benedire).

Questo rito ha origine della leggenda secondo cui, alla vigilia della sua festa, san Marco attraversava a

cavallo le campagne per benedire i campi coltivati e i loro frutti. Di questa tradizione non si ha più alcuna

traccia se non nelle memorie della popolazione di Siliqua.

La terza domenica de su mesi de maju, il mese di maggio, si festeggia san Giacomo. La sua effigie è

conservata nella chiesa di sant'Anna, dove il sabato sera si celebra la messa e da cui parte la processione

che attraversa tutto il paese fino alla piazza della Madonnina. Lì, il sacerdote si ferma mentre molti fedeli

accompagnano a piedi il Santo fino alla chiesa campestre. La domenica prima della messa, il Santo è

portato in processione attorno alla chiesa. Il rientro in paese avviene la domenica sera. Anche in questo

caso c'è chi percorre a piedi tutto il tragitto ma la processione ufficiale inizia nella piazza della Madonnina.

Fino alla seconda guerra mondiale, la processione di ritorno faceva tappa in s'ortu de Drefina, a circa

metà strada. Lì si sistemavano is paradas, le bancarelle, si ballava e si assisteva alle corse dei cavalli.

Oggi i festeggiamenti durano tre giorni, dal sabato al lunedì. Il comitato, con il denaro ricavato cun sa

circa, organizza gli intrattenimenti serali: balli, concerti, fuochi d'artificio. Gli spettacoli si tenevano prima

in Pratza de ballus poi nella chiesa campestre. Ultimamente nell'anfiteatro comunale.

È l'unica festa che si è conservata inalterata, senza interruzioni nel tempo, sia nel suo aspetto religioso

sia in quello civile.

Un tempo molto sentita era anche la festa in onore di sant'Isidoro, protettore degli agricoltori, festeggiato

il 15 del mese, quando il grano incominciava ad imbiondire nei campi.

La statua conservata nella chiesa di sant'Anna sintetizza la leggenda della sua vita: Isidoro, prima di

andare a lavoro nei campi, si recava in chiesa a pregare e a sentire la messa tutti i giorni mentre la sera

si dedicava ai poveri e ai bisognosi. Per premiare la sua devozione e consentirgli di continuare a svolgere

le sue opere di carità, un giorno fu inviato un angelo che prese il suo posto nel lavoro in campagna, alla

guida dei buoi.

I festeggiamenti consistevano nella celebrazione della messa nella chiesa di sant'Anna e nella processione

cui partecipavano i carri trainati da buoi. Oggi in suo onore si officia la messa a Sant'Anna durante la

quale viene benedetto il grano e le spighe che poi i fedeli portano a casa.

Istadi

Làmpadas, giugno, deriva il suo nome dal latino lampas, lampada, fiaccola, ma anche splendore del sole.

Secondo il linguista Wagner, l'origine è da ricercarsi nell'usanza pagana di accendere grandi falò in onore

della dea Cerere, il giorno del solstizio d'estate. Con l'avvento del Cristianesimo, il rito fu trasferito alla

celebrazione in onore di San Giovanni. Con dies lampadarum, giorno delle lampade, si indicò, infatti,

prima il giorno proprio della festa del Santo e, in seguito, tutto il mese di giugno.

Il 13 del mese, si officia, nella chiesetta a lui dedicata, la messa per sant'Antonio da Padova. È tradizione,

a Siliqua, preparare il pane che, dopo essere stato benedetto, è distribuito alle persone che prendono

parte al rito.

Un tempo la festa prevedeva anche i fuochi d'artificio che tutto il paese accorreva a vedere. Nello

stradone si allestivano is paradas dove si potevano comprare il torrone e sa carapigna, la granita.

Sono andate completamente perdute le tradizioni legate alla festa di san Giovanni che si svolgeva il 24.

Oltre la messa e la processione, si allestiva, me is axrobas, su fogadoni intorno al quale si danzava e si

cantava.

Ricorda una signora intervistata che is piciocheddas, po spàssiu, cun su fenu de is manigas, le ragazzine,

per divertimento, con il fieno dei covoni, facevano dei piccoli falò, sette o otto tutti in fila che poi si

divertivano a saltare.

Durante questa festa i giovani sceglievano un compagno o una compagna po fai su santuanni, cioè una di

promessa di amicizia. Tra i due si instaurava un vero e proprio rapporto di comparatico, con l'obbligo di

darsi del voi e di chiamarsi, per le ragazze, gomai, e per i ragazzi gopai. Per distinguerlo dal comparatico

dovuto ad un battesimo o una cresima, questo veniva chiamato santuanni de froris, san Giovanni dei

fiori. Il rito era accompagnato da una particolare filastrocca che occorreva recitare insieme tenendosi per

mano:

Gomai gomai (gopai gopai) Comare comare (compare compare)

filla (fillu) de Sant'Giuanni, figlia (figlio) di San Giovanni

filla (fillu) de Deus figlia (figlio) di Dio

gomais (gopais) abarreus comari (compari) rimarremo

po cantu biveus per quanto vivremo

La notte della vigilia era considerata particolarmente adatta ai vaticini. Le previsioni riguardavano il

tempo e il raccolto, forse perché si avvicinava il momento della mietitura per cui era facile fare una stima

delle messi, ma anche il futuro in generale, in particolare quello amoroso.

A Siliqua, ad esempio, le ragazze in cerca di marito fadenta s'auspìciu de sa fa, facevano l'auspicio delle

fave. Prima di coricarsi, mettevano sotto il cuscino tre fave, una spollinca, una bistida e una mesu

spollinca e mesu bistida (una completamente sbucciata, una con la buccia e una sbucciata a metà). Al

mattino, infilavano la mano sotto il cuscino e, a caso, ne acchiappavano una: se prendevano quella

sbucciata, avrebbero sposato un uomo povero, quella con la buccia, un uomo ricco, quella sbucciata a

metà un uomo né povero né ricco. Qualche volta si arrivava persino ad associare ad ogni fava il nome di

un ragazzo del paese.

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Un altro tipo di pronostico consentiva di stabilire se il futuro sposo sarebbe stato celibe o vedovo. Si

raccoglieva una cugutzua che, dopo essere stata abruschiada, abbrustolita, era posta sul davanzale tutta

la notte. L'indomani mattina, se il carciofino selvatico si fosse rinvigorito, il futuro sposo sarebbe stato

celibe, se si fosse seccato, vedovo.

La notte, inoltre, is piciocus andaiant a cantai is bagadias; si frimaiant ananti de sa porta e cantaiant

mutetus (andavano a fare le serenate alle ragazze non sposate e cantavano degli stornelli composti

appositamente per ciascuna di loro).

Su mesi de axrobas, luglio, era dedicato alla trebbiatura. Il suo nome deriva dal luogo in cui essa si

svolgeva, is axrobas, le aie.

Due sono le feste importanti di questo mese, la Madonna del Carmelo e sant'Anna, celebrate

rispettivamente il 16 e il 26.

Per la Madonna del Carmelo, oltre alla messa, qualche volta seguita dalla processione, si officia il triduo,

una particolare funzione religiosa che consiste nel recitare il rosario e le orazioni alla Madonna nei tre

giorni precedenti la festa.

Un tempo, il giorno del Carmelo era vietato trebbiare. Questa usanza risale alla leggenda secondo cui, in

questo giorno, in s'axroba de funtana, una zona vicino al Cixerri, un uomo, incurante dei festeggiamenti

in onore della Madonna, continuò a trebbiare con il suo giogo di buoi. La sua irriverenza fu così punita: la

terrà si aprì e il contadino fu ingoiato insieme al giogo di buoi.

In onore di sant'Anna, fino alla seconda guerra mondiale si fadiat festa manna, si facevano dei grandi

festeggiamenti. Oltre alla cerimonia religiosa, officiata nella chiesa a lei dedicata, si organizzava la

sartiglia me is cungiaus, la corsa con i cavalli nei terreni vicino alla chiesa. Nel piazzale della chiesa erano

disposte le bancarelle in cui era possibile acquistare dolci, frutta secca, granite.

Di questa festa oggi resta solo il rito religioso ma si continua la tradizione di adornare la statua, oltre che

con i fiori e i gioielli, anche con s'afrabica fini, il basilico a foglie piccole.

In austu, agosto, si celebra, oltre alla festa della Madonna Assunta, san Giuseppe Calasanzio, il 29.

Ultimamente si svolge solo la festa religiosa, interamente nel rione di San Giuseppe. Molto più ricchi

erano i festeggiamenti fino ad una ventina di anni fa. Dopo la funzione religiosa, infatti, su comitau

invitava is cantadoris, i gruppi folk e i complessi musicali che si esibivano sul palco allestito nel piazzale

della chiesa. Organizzava, inoltre, l'albero della cuccagna, su fogadoni e i fuochi artificiali. Uno degli

intervistati ricorda ancora i primi fuochi artificiali, candu fiat bessiu su cuadru de Santu Giusepi puru!

(quando era stato lanciato un fuoco artificiale che raffigurava anche la faccia di San Giuseppe!).

Me is paradas, chi lo desiderava poteva acquistare i dolci tradizionali e la frutta secca; me is barracas,

baracche, mangiare la carne, i muggini o le anguille cucinati arrosto.

Sa mexina sarda

Fino all'ultimo dopoguerra, a Siliqua, in caso di malattia si ricorreva, più che al medico, alle pratiche de sa

mexina sarda, la medicina sarda, esercitata dai guaritori e, soprattutto, dalle guaritrici, cussus chi faint sa

mexina sarda, in genere persone anziane.

I metodi, custoditi gelosamente, erano tramandati non necessariamente di genitore in figlio ma a chi si

pensava possedesse il dono della guarigione e volesse imparare. Gli insegnamenti non erano, però,

efficaci finché l'insegnante non fosse morto. Si curavano gli ammalati sempre gratuitamente ma per

tradizione si ripagava il favore con doni in natura: uova, zucchero e caffè, una bottiglia d'olio d'oliva.

Le cure consistevano generalmente nel recitare is brebus (preghiere, segni di croce, formule propiziatorie

che variavano a seconda della malattia) accompagnati, alcune volte, dall'utilizzo di decotti, infusi e

impacchi a base di erbe medicinali.

Ancora oggi, molte persone si recano a si fai nai is brebus, soprattutto per i dolori reumatici, la sciatica, il

malocchio, i porri.

Le cure sono efficaci solo se si ha fede in Dio perché, i guaritori sono solo un tramite. È essenziale, infatti,

che le persone malate che si rivolgono loro chiedano s'agiudu de Gesus, l'aiuto di Gesù.

Preghiere e pratiche contro le malattie

Per curare la sciatica bisognava raccogliere, durante la fase di luna calante, una petiedda de figuera

cràbia, un rametto di fico selvatico, che veniva appoggiato al corpo del malato, cominciando dall'anca fino

al calcagno. Ogni volta che il rametto arrivava a toccare una delle giunture si recitavano queste

preghiere: tres Credu, seti Babu nostu, seti Gloriapatri a Gesus Crocefissu, cincu Babu nostu e cincu

Gloriapatri a Gesus Sacramentau, tres Babu nostu e tres Gloriapatri a sant'Anna e a sant'Agata (tre

Credo, sette Padre nostro e sette Gloria al Padre a Gesù crocifisso, cinque Padre nostro e cinque Gloria al

Padre a Gesù sacramentato, tre Padre nostro e tre Gloria al Padre a s ant'Anna e a sant'Agata).

Infine, sempre per tre volte si recitava:

Santa Susanna mama de sant’Anna

Sant’Anna mama de Maria

Maria mama de Gesus

Custu dolori non si ddu intendat prus.

Santu Srabadori spraxi sa ferida e spraxi su

dobori.

Santa Margherida spraxi su dobori e spraxi sa

ferida.

Santu Srabadori spraxi sa ferida e spraxi su dolori.

Santa Susanna mamma di Sant'Anna

Sant'Anna mamma di Maria

Maria mamma di Gesù

questo dolore non se lo senta più.

San Salvatore spazzi via la ferita e spazzi via il

dolore.

Santa Margherita spazzi il dolore e spazzi la ferita.

San Salvatore spazzi via la ferita e spazzi via il

dolore.

La terapia, per essere efficace, doveva essere ripetuta a cadenze regolari.

Per curare sa piedita, la mastite, si invocava san Simone recitando il Credo dopo l'invocazione:

Santu Simoni mannu chi de sa braba mia non

s’arrieis

Piedita si cabit e ndi saneis,

ma chi de sa braba mia s’arrieis

Piedita si cabit e non ddi saneis.

San Simone maggiore se della mia barba non

ridete

mastite vi colga e guaritene,

ma se della mia barba ridete

mastite vi colga e non ne guariate.

Contro sa carri segada, il mal di schiena, si iniziava recitando per tre volte il Credo e poi si aggiungeva:

Sant’Anna e santa Marta tessiant e fibaiant

Fibaiant e tessiant e fiu non ddi aciungiant

su fiu s’annuaiat,

s’annuat custa carri segada

chi siat batiada e cunfrimada.

Sant'Anna e santa Marta tessevano e filavano

filavano e tessevano e filo non ne aggiungevano

il filo si annodava,

s'annodi questo mal di schiena

che sia battezzata e cresimata.

Anche per le malattie degli occhi si recitava tre volte il Credo intervallato da:

Santa Susanna mama de sant’Anna

Sant’Anna mama de Maria

Maria mama de Gesus

Custu dolori non si ddu intenda prus.

Santu Srabadori spraxi sa ferida e spraxi su

dobori.

Santa Margherida spraxi su dobori e spraxi sa

ferida.

Santu Srabadori spraxi sa ferida e spraxi su dolori.

Santa Susanna mamma di sant'Anna

Sant'Anna mamma di Maria

Maria mamma di Gesù

questo dolore non se lo senta più.

San Salvatore spazzi via la ferita e spazzi via il

dolore.

Santa Margherita spazzi via il dolore e spazzi via la

ferita.

San Salvatore spazzi via la ferita e spazzi via il

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dolore.

Una particolare malattia degli occhi fiat ghettada de sa lanzana, era cioè causata dal pizzico della

lanzana, un insetto simile alla formica con le ali che vive nel tronco secco dei rovi e che provocava una

pustola bianca. Per curarla si schiacciava l'insetto e se ne spalmavano gli umori sulla pustola mentre si

recitava questa preghiera:

Lanzà, lanzà pungit de maba gà

de maba gà pungit

Nostra Signora assungiri

a Deus e santa Crara

chi spraxant sa lanzana

a Santa Margherita chi spraxat sa ferida

a Santu Srabadori chi spraxat su dolori

in nomini de su Babu de su Fillu e de su Spiritu

Santu. Amen

Lanzana, lanzana punge contro voglia

contro voglia punge

Nostra Signora chiami

Dio e santa Chiara

che spazzino via la lanzana

Santa Margherita che spazzi via la ferita

Santo Salvatore che spazzi via il dolore

nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo.

Amen

I brebus erano usati anche per far sparire le verruche. Si passava un chicco di riso o una lenticchia su

ogni verruca e si recitava tre volte il Credo alla morte e passione di Gesù Cristo.

Il grano e le lenticchie erano, poi, sotterrate in un luogo dove si riteneva che la persona non sarebbe mai

passata (pena la ricrescita) e man mano che lenticchie e riso marcivano, scomparivano i porri.

Altri metodi usati erano: annuai su porru cun dd-una soga de filu, annodare il porro con un filo, oppure

pungerlo con sa sinniga, una specie di giunco.

Molto temuto, soprattutto da coloro che lavoravano in campagna, era su spitzu de s'àrgia, il pizzico

dell'àrgia.

S'àrgia era nota in tutta la Sardegna, anche se ogni paese la identificava con un insetto diverso, per cui

non è possibile individuare con esattezza a quale specie appartenga. A Siliqua, per esempio, si pensava

che fosse una tarantola.

In alcune zone si conosceva solo l'àrgia femmina, in altre anche maschio. In quest'ultimo caso, si

riteneva non esistesse alcun rimedio al suo pizzico, a meno che l'insetto non fosse ucciso mentre

pizzicava e il suo succo spalmato sulla ferita.

Tutti concordavano nel distinguere la femmina in base al suo stato civile, a seconda chi fessit bagadia,

cojada o fiuda, che fosse nubile, sposata o vedova. La distinzione dipendeva dal colore del corpetto e

della gonna che indossava, esattamente come la donna: la nubile era variopinta, la sposata era colorata

ma non in maniera così vistosa come sa bagadia, la vedova era nera.

A Siliqua, per curare il malato, in preda a fortissimi dolori, si ricorreva alla guaritrice che, per prima cosa,

radunava un gruppo di nubili, vedove e sposate. Queste, a turno, dovevano ballare e cantare.

Iniziava la guaritrice che recitava:

Salludi gomai àrgia

e ita novas teneis?

De innoi si ndi andeis,

de cust’anima batiada.

Salludi gomai àrgia

e ita novas teneis?

Bagadia, fiuda o cojada seis?

De innoi si ndi andeis,

de custa anima batiada.

Seis bagadia, fiuda o cojada?

As puntu in traìtoria,

cumenti a Deus at fatu Giuda,

ses cojada, bagadia o fiuda?

Salute comare argia

che novità mi raccontate?

Andatevene da qui,

da quest'anima battezzata.

Salute comare argia

che novità mi raccontate?

Siete nubile, vedova o sposata?

Andatevene da qui,

da quest'anima battezzata.

Siete nubile, vedova o sposata?

Avete punto a tradimento,

come Giuda con Dio

siete sposata, nubile o vedova?

Salludi gomai àrgia

e ita novas teneis?

Bagadia, fiuda o cojada seis?

E de innoi si ndi andeis

de custa anima batiada.

Seis fiuda, bagadia o cojada?

Salludi gomai àrgia

e ita novas teneis?

Cojada, fiuda o bagadia seis?

E de innoi si ndi andeis

de custa anima batiada.

Seis fiuda, bagadia o cojada?

Salute comare argia

che novità mi raccontate?

Siete nubile, vedova o sposata?

Andatevene da qui,

da quest'anima battezzata.

Siete nubile, vedova o sposata?

Salute comare argia

che novità mi raccontate?

Siete sposata, vedova o nubile?

Andatevene da qui,

da quest'anima battezzata.

Siete vedova, nubile o sposata?

Dopo di che, se ad intervenire erano le nubili, cantavano: Te bella sa bagadia fadendu su balletu (che

bella la nubile, facendo il balletto).

Se anche s'àrgia che aveva punto il malato era bagadia, il dolore cessava e il malato si citiat, stava zitto.

Se cantava il gruppo sbagliato, cuddu tzerriaiat prus de prima, quello, cioè il malato, gridava più di

prima.

Allora danzavano le donne sposate che ripetevano la stessa filastrocca pronunciando coiada al posto di

bagadia. Se non funzionava, intervenivano le vedove che, al posto di bagadia o cojada, dicevano fiuda.

Candu cantaint is giustas de su stadu chi fiat s'àrgia, intzandus ddu naraiant is brebus e cussu sanaiat

(quando cantavano quelle che avevano lo stesso stato civile del ragno, si recitavano i brebus, e il malato

guariva).

In altri paesi i rituali prevedevano, per il pizzico de s'àrgia bagadia, che il malato, insieme a parenti,

amici, vicini, ballasse, in casa o in strada, fino a quando il dolore cessava. Il ballo poteva protrarsi per ore

e, a volte, anche per giorni. Se si trattava di un'àrgia sposata, i dolori si calmavano quando il malato

teneva in braccio un bamboccio di stracci. Nel terzo caso, i rimedi erano due: atitai la vittima, cioè

recitare le lamentazioni funebri, oppure metterla dentro il forno caldo.

Preghiere e pratiche contro il malocchio

Is brebus sono ancora oggi considerati molto efficaci contro sa pigada de ogu, il malocchio. Si possono

praticare anche a distanza e in assenza della persona interessata. In questo caso è necessario portare

alla guaritrice qualcosa che appartenga al malato; ad esempio, su pannitzu o sa camisedda, se si tratta di

un bambino.

Sa mexina de s'ogu si fait puru po telefunu, la medicina contro il malocchio si fa anche per telefono,

basta che le preghiere siano recitate rivolgendosi nella direzione in cui vive la persona.

Per capire se una persona est feria, cioè colpita dal malocchio, si prende un bicchiere d'acqua in cui si

mette una manciata de granus de trigu, di chicchi di grano. Dopo aver chiesto il nome della persona la

guaritrice recita il credo. Se questa è stata effettivamente presa d'occhio, il chicco di grano si ndi pèsada,

si solleva verticalmente, si formano delle bollicine sulla sua superficie e si mette a girare. Se il malocchio

è molto forte le bollicine tzacant, scoppiano.

Terminate le pratiche, la guaritrice chiede de dda torrai sa sceda sia in beni sia in mabi, ossia di essere

informata sullo stato della persona malata sia che sia guarita sia che non lo sia. In quest'ultimo caso,

dovuto al fatto che il malocchio è troppo forte o di vecchia data, è necessario ripetere il rito.

Le persone chi pigant de ogu, ossia che hanno il potere di lanciare il malocchio su un'altra persona, si

possono riconoscere perché hanno sa pipia de s'ogu, la pupilla, più grande del normale, detta s'ogu de

crabu, l'occhio di caprone. Si tratta di persone che nutrono forti sentimenti di invidia e gelosia nei

confronti del bene e della buona sorte altrui.

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Il malocchio può essere esercitato anche sugli animali, sulle piante, sulla frutta, sugli ortaggi, su tutto ciò

che è vivo; in questi casi spesso ciò che è colpito si scorat, ossia perde qualunque forza e muore. Alcuni

ritengono addirittura che il malocchio possa colpire il cibo nel senso che la sua preparazione può andare a

male: torte o pane che non lievitano, crema che impazzisce, conserve che ammuffiscono…

Preghiere e pratiche contro le malattie dei bambini

In passato diverse erano le precauzioni che le madri adottavano per proteggere i propri bambini dal

malocchio. La pratica più diffusa era quella di appuntare alla loro maglia un fiocchetto verde e la

medaglietta della Madonna Immacolata. Il fiocchetto verde si legava anche al polso. Brofetosa est sa

manixedda cun is corrus, si riteneva, cioè, molto efficace la manina con le corna. Alcune mamme

facevano indossare ai propri figli le mutandine al contrario. Altre preparavano sus scritus, amuleti

benedetti fatti con pezzetti di stoffa in cui si racchiudevano preghiere o immagini sacre e che avevano il

potere di assorbire il malocchio. Si racconta che una volta il ciondolo fosse esploso tanto il malocchio era

forte ma che al bambino non fosse capitato nulla.

Sempre con lo scopo di salvaguardarne la salute, le madri impedivano che i bambini al di sotto dell'anno

di vita si guardassero allo specchio o toccassero altri neonati.

Anche l'ittero, sa pisciada de sa stria, letteralmente la pipì del barbagianni, si curava ricorrendo a i

brebus.

Per prevenire le convulsioni, quando i bambini avevano la febbre alta, si ponevano sul petto oggetti

benedetti, ad esempio la fede nuziale.

Non esisteva alcuna pratica per curare i malefici de is cogas, le streghe che secondo la fantasia popolare

avevano il potere di succhiare il sangue dei bambini, soprattutto quelli non ancora battezzati, delle

gestanti e, generalmente, delle persone per le quali provavano invidia, causandone irrimediabilmente la

morte.

Era possibile soltanto cercare di tenerle lontane dalla propria casa o dalla stanza del bambino, sistemando

dietro le porte una scopa a testa in su, un ferro di cavallo, un treppiedi, rami di arancio oppure tappando i

buchi delle serrature con della cera.

Le leggenda vuole che siano cogas tutte le bambine nate nella mezzanotte del 24 dicembre e le settime

figlie femmine. Segni distintivi per riconoscerle sono una piccola croce pelosa sulla schiena o una piccola

coda. Hanno sembianze perfettamente normali, tranne quando si trasformano in gatti, mosche, gomitoli

di lana o fumo.

Qualunque donna può diventare coga da adulta compiendo un macabro rito.

Erbe e animali come medicine

Per guarire le malattie comuni, si ricorreva all'utilizzo di decotti o impacchi, a base di erbe o piante che si

riteneva avessero proprietà terapeutiche.

Contro il mal di testa, si consigliava l'applicazione sulle tempie e sulla fronte di fave secche bagnate con

la saliva del malato, oppure impacchi di foglie fresche de capeddu de muru, ombelico di Venere, o de folla

de àxia, foglie di vite o, ancora, di farina di grano duro e aceto.

Per curare is ogus maus, le infezioni agli occhi, si suggeriva di masticare finocchio ma senza ingoiarlo.

I guronis, i foruncoli, erano eliminati con il liquido ricavato dalla spremitura de is aberigùngias, porcellini

di sant'Antonio, insetti che si trovano sotto le pietre in luoghi umidi e che, se toccati, si chiudono a

pallottolina; oppure si utilizzavano impacchi con foglie di lobaxi, oleandro, o di narbedda, malva, bollite a

lungo e poi mischiate con olio di oliva.

Contro sa buca maba, le infezioni della bocca, si masticavano, senza ingoiarle, tre foglie di rovo tagliate

prima dell'alba; era importante, durante la cura, la recitazione delle preghiere.

Contro su dobori de denti, il mal di denti, si sciacquava la bocca con l'aceto in cui era stato

precedentemente bollito dell'aglio.

Per combattere sa scata de conca, la forfora, si risciacquavano i capelli con un decotto di radici d'ortica.

I dolori, sia muscolari sia scheletrici, erano genericamente chiamati reumatismu o sciàtica ed erano curati

con is brebus. Se i dolori erano però accompagnati da cropus, contusioni, si ricorreva a impacchi di farina

e aceto.

Ne is segaduras, nelle ferite, si applicavano foglie di edera o di vite, oppure la sostanza polverosa che si

forma all'interno del fungo detto tabacu de mraxiani. Per le piccole ferite si applicava un po' di cenere

raccolta al mattino nel caminetto.

Contro su dobori de brenti, il mal di stomaco, si beveva una tazza di caffè caldo nel quale erano stati

immersi, per tre volte, tre rametti de sentzu, assenzio. Si ricorreva anche a is follas de opus, alle foglie

del giusquiamo, o a quelle de su perdusèmini, di prezzemolo, fritte in olio di oliva e poi sfregate calde

sulla parte dolorante. Si consigliava, inoltre, di mangiare unu limoni buddiu, un limone bollito.

Il decotto de s'erba de bentu, la parietaria, bevuto a digiuno, curava su dobori de figau, il mal di fegato.

Per alleviare i dolori causati dall'ernia si utilizzava il cataplasma ottenuto con foglie de menta de arriu,

menta selvatica.

S'enna de s'anima arruta, letteralmente la porta dell'anima caduta, provocava un forte dolore alla bocca

dello stomaco che era considerato la porta dell'anima, il luogo da cui entrava o usciva lo spirito.

Per alleviare il dolore, si spalmava olio caldo sullo stomaco su cui era, poi, sistemata una stearichedda

alluta, una candela accesa. Sopra si acovecaiat una tassa de imbirdu, si copriva con un bicchiere di vetro.

Man mano che la candela consumava l'aria, si aveva l'impressione che lo stomaco, assieme al dolore,

fosse risucchiato all'interno del bicchiere.

Contro su dobori de arrigus, il mal di reni, solitamente si beveva più volte al giorno un infuso de piseddu,

di cicerchia.

Decotti per la tosse erano ottenuti dalle foglie de ocallitu, eucalipto, dai fichi secchi, dai frutti de su

sinnibiri, del ginepro, e dalle foglie de lau, d'alloro. Per la pertosse si faceva uso di una tisana di malva

mista a latte.

Contro il raffreddore erano consigliati is afumentus, i suffumigi. Nel braciere acceso si gettava una

manciata di zucchero, di caffè e alcune foglie di mirto. Il malato, con il capo coperto, respirava a fondo il

fumo.

Per curare su pitziri, letteralmente qualcosa che pizzica, cioè la spaccatura dei polpastrelli, in genere del

dito indice, si facevano impiastrus de farra e tzucuru; impacchi di farina e zucchero. Simile a su pitziri,

anche nella cura, era su didu sui sui, cioè il dito succhia succhia.

Per is abruxoris, le vampate di calore, si beveva al mattino una tazza di acqua zuccherata in cui erano

state sciolte tre mandorle pestate ridotte in poltiglia.

Sa spetzia lègia, i malesseri che si manifestavano con stanchezza, capogiri e inappetenza, si riteneva

causata da su componimentu de su sàngui, dalla debolezza del sangue; la cura mirava a depurarlo.

Esistevano per questo scopo vari metodi: il decotto di radice e ceppo di corbezzolo, o di foglie di olivo,

oppure di cicoria o, ancora, di orzo tostato. Tutti dovevano essere bevuti a digiuno per alcuni giorni.

A chi soffriva de pressioni arta, di ipertensione, era praticato il salasso che consisteva nel tirai su sàngui

mau, togliere il sangue cattivo. Il malato, sdraiato immobile sul letto, era ricoperto de sanguineras, di

sanguisughe, che succhiavano il sangue e si staccavano solo candu fiant prenas, quando erano piene.

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Le terapie a base di erbe erano usate anche per curare gli animali. Come vermifugo, mexina po is bremis,

i contadini piegavano dei piccoli rami di tamerice o de uvara, erica, recitando delle preghiere.

L'operazione avrebbe dovuto guarire l'animale senza che esso ricevesse direttamente alcun

medicamento.

La morte

Nascita e morte, anticamente, avvenivano davanti al focolare. Per questo motivo e soprattutto per il fatto

che le famiglie di un tempo erano allargate e comprendevano spesso i nonni o comunque parenti anziani,

la morte era un evento familiare, faceva parte ed era sperimentata nella vita di ogni giorno.

Anche in questo caso vi era una serie di consuetudini e di rituali che fino a non molto tempo fa erano

rigidamente rispettati.

Quando i parenti si rendevano conto che il malato era in punto di morte, chiamavano il prete po donai

s'ollu santu, affinché desse l'olio santo, cioè l'unzione degli infermi.

Al defunto, per prima cosa, si lavava il viso che poi era coperto con un fazzoletto affinché eventuali

movimenti degli occhi e della bocca non spaventassero chi si occupava di vestirlo per il funerale. In

genere si metteva l'abito delle nozze o, in caso non l'avesse più o non si fosse mai sposato, su bistiri

bellu, il vestito della festa.

Era spogliato di ogni oggetto d'oro o d'argento, come la fede, l'orologio, la catenina. Alla donna si

toglievano anche gli orecchini: spesso era lei stessa che sceglieva, quando ancora era in vita, la persona

che glieli avrebbe tolti, perché questa ne sarebbe divenuta la proprietaria. In genere, era la prima figlia

femmina oppure la nipote più grande.

Al defunto facevano indossare, inoltre, gli oggetti rappresentativi delle eventuali confraternite o

associazioni religiose o civili, di cui, in vita, era stato membro; per esempio, lo scapolare della Madonna

del Carmelo, la medaglia e il nastro rosso del Sacro Cuore.

A tutti indistintamente era intrecciato il rosario nelle mani, preferibilmente con i grani in legno perché

anch'esso doveva ritornare polvere.

Contemporaneamente vi era chi si preoccupava di coprire tutti gli specchi e chiudere tutte le finestre della

casa. Poiché non si cucinava, erano i vicini che provvedevano a portare il necessario per i pasti principali,

in genere brodo e carne bollita; la mattina, c'era sempre chi portava il caffè.

A questo punto iniziava la veglia: uomini e donne, a turno, non lasciavano mai solo il morto fino al

seppellimento, anche durante la notte. Alle donne spettava il compito de atitai su mortu, cioè di fare le

lamentazioni funebri che consistevano nell'elogiare le virtù de sa bonanima, della buonanima. Nelle

famiglie ricche spesso veniva chiamata s'atitadora, una prefica di professione che arrivava addirittura a

strapparsi i capelli e a graffiarsi il volto.

Il paese era messo al corrente del decesso dai rintocchi delle campane chi addopiaiant subito dopo la

morte e poi a mengianu, a mesu dì e a merì (di mattina, a mezzogiorno e di sera) e durante tutta la

processione funebre.

Durante il funerale, poiché la bara era trasportata per tutto il tragitto a spalla, ci si fermava di tanto in

tanto per consentire ai portatori de si pasiai, di riposarsi o di darsi il turno.

Anche di fronte alla morte le differenze di ceto si facevano sentire: per il funerale dei poveri il prete

portava la croce di legno, per i ricchi la croce in argento. La banda suonava solo per i suoi membri o per

le famiglie abbienti che potevano ripagare il servizio.

Al funerale partecipavano tutti i parenti tranne il più stretto, ad esempio la vedova o il vedovo, la figlia

maggiore per la morte della madre o la mamma per il figlio. Questi aspettavano a casa le visite di

condoglianza.

I giorni successivi le donne tingevano di nero tutti i loro vestiti in segno di lutto; gli uomini invece lo

esternavano con un bottone nero sulla giacca o la fascia nera sul braccio.

La donna portava il lutto tutta la vita sia nel caso in cui a morire fosse il marito o solo il fidanzato, a meno

che non si risposasse. S’òmini acoitaiat a si ndi tirai sa fascia, l'uomo invece faceva in fretta a togliersi la

fascia. Il lutto per un figlio, per un fratello o per i genitori durava due anni.

Ad un mese dalla morte, dopo la messa in suffragio, chi poteva distribuiva su beni po s'anima, il bene per

l'anima, ossia del pane che doveva essere mangiato recitando una preghiera affinché l'anima del defunto

dimorasse meno tempo in Purgatorio.

Antichi rituali

Nei tempi antichi, quando l'agonia del moribondo si protraeva per troppo tempo e cussu no podiat morri

(non riusciva a morire), si ricorreva a delle pratiche magiche per porre fine alla sua sofferenza.

Si riteneva che alcune azioni compiute in vita impedissero al malato di morire; solo se vi si poneva

rimedio terminava la sofferenza e sopravveniva la morte.

Se, per caso, la persona aveva bruciato uno scanno, un giogo di buoi, una scopa, un forcone, si credeva

che non sarebbe potuta morire fino a quando non si fosse messo, sotto il suo letto o sotto il cuscino, lo

stesso oggetto, una parte di esso o una sua riproduzione in miniatura.

Altro impedimento poteva essere la posizione del letto. Di norma, esso non era mai rivolto verso la porta

perché questa, nell'uso degli antichi romani, era la posizione in cui erano posti i defunti pronti per

intraprendere il viaggio verso l'aldilà. Si posizionava il letto peis a genna, con i piedi rivolti verso la porta,

solo quando l'agonia si protraeva per molto tempo e si voleva porre termine alle sofferenze del malato.

Altro metodo usato era quello di variarne la posizione a seconda di come erano sistemate la travi del

tetto. Se il letto era posizionato a crabiobas deretas, ossia parallelo ai travicelli, veniva posto a crabiobas

trotas, cioè in posizione ad essi perpendicolare e viceversa.

Quando tutte le pratiche adottate non sortivano l'effetto desiderato, si ricorreva a s'acabadora,

letteralmente colei che pone fine, che uccide il morente.

Figura diffusa forse in tutta la Sardegna, divenuta col tempo leggendaria, si dice che uccidesse gli anziani

che rappresentavano inutili bocche da sfamare soprattutto durante le carestie.

Col tempo il suo compito divenne quello di porre fine alle sofferenze dei moribondi. Quando veniva

chiamata, dietro suo espresso ordine, si toglievano dalla stanza del morente tutti gli oggetti sacri,

crocefissi o medagliette benedette, perché si credeva che trattenessero l'anima dentro il corpo. Ella, poi,

pronunciava formule misteriose (si riteneva, infatti, che possedesse dei poteri occulti) o poneva il giogo

dei buoi al collo del malato.

Quando anche queste pratiche si rivelavano inutili, s'acabadora ricorreva all'uccisione vera e propria o per

soffocamento o, solo in casi estremi con un colpo de matzoca, bastone ricurvo di legno di olivastro.

S'acabadora era in genere una donna molto povera il cui servizio era ripagato con zucchero, caffè, farina,

olio e pasta. Nella società questa forma di eutanasia era tacitamente tollerata e si aveva anzi un profondo

rispetto per s'acabadora, perché prendeva sulle sue spalle la pena di alleviare le sofferenze del moribondo

e della sua famiglia. L'arrivo della modernità ha segnato la fine di s'acabadora per il venir meno delle

condizioni sociali: l'ultima segnalazione risale al 1952 a Orgosolo.

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I testi sono tratti dal volume “Siliqua: storia, cultura, tradizioni”, ed. Nuove Grafiche Puddu,

2003 e rielaborati, per quanto riguarda la scrittura dei termini in lingua sarda, nell’anno 2012.

Copyright © 2003 Comune di Siliqua, Italy.

E’ vietata la riproduzione anche parziale dei testi, con qualsiasi mezzo effettuata, senza

l’autorizzazione del Comune di Siliqua.

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PARTE QUINTA

L’AMBIENTE NATURALE UN ITINERARIO

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Il grande poeta Salvatore Quasimodo colse la bellezza del paesaggio di Siliqua, tan-to che gli dedicò una lirica dal titolo “Sardegna”. Le ricchezze ambientali del territorio nell’ot-tocento sono evidenziate nel “Di-zionario geografico-storico-stati-stico...” di Angius-Casalis: “sono frequentissime macchie ed alberi di varie specie; nelle montagne abbondano i ghiandiferi […] il selvaggiume è moltiplicato assai nelle stesse regioni silvestri. Le specie sono cervi, daini, cinghiali, volpi […] l’uccellame è abbondante […] Ne’ suddetti rivi si trovano anguille e trote”.

Il paese ha sempre vissuto in simbiosi con il Cixerri, che forniva cibo, acqua, materiali da costruzione, anche se talvolta diveniva un nemico che invadeva e distruggeva le case con la sua furia. A seguito dei lavori di bonifica degli anni ottanta del secolo scorso, il fiume è oggi sdoppiato. Il vecchio ramo s’arriu de s’areni, che fiancheggia il centro abitato a meridione, futuro parco fluviale, conserva caratteristiche ambientali uniche e bellissimi angoli di natura incontaminata, dove il frassi-no, il pioppo bianco e i salici dominano tra le specie vegetali ed è possibile osservare tartarughe di fiume (emys orbicularis) che fanno capolino tra le ninfee di Perda Piscina. L’avifauna è ricchissima anche nel corso del fiume bonificato, dove tra la vegetazione ripariale è facilissimo scorgere gli aironi cinerino, rosso, guardabuoi, la garzetta, il martin pescatore e, sollevando gli occhi, il volo del falco di palude. La strada di Bau Solanas collega il rione san Giuseppe con la località “Is bingias”, dove tantissimi siliquesi possiedono un piccolo vigneto, adatto per le necessità familiari e per trascorrere il tempo libero. A poche centinaia di metri a sud di Perda Piscina, in località Serra Masì, vicino al sito archeologico omonimo, costituito da alcune tombe appartenenti alla cultura di Bonnanaro, si tro-va l’ultimo lembo compatto di foresta planiziaria che un tempo ricopriva gran parte della valle del Cixerri. Il bosco, dell’estensione di circa cinque ettari, è costituito da maestosi esemplari di frassino (fraxinus oxyphillus) con un sottobosco ricchissimo di specie vegetali. Il sito è stato definito molto importante e meritevole di tutela dall’Istituto di botanica dell’Università di Cagliari.

Continuando l’itinerario verso sud, tra campi coltivati e greggi al pascolo, si arriva in località san Giacomo. La piccola chiesa omonima fronteggia colline punteggiate da perastri e olivastri seco-lari. Dietro la chiesetta si trovano invece alcuni esemplari di lentischio di dimensioni eccezionali. La località è ricca di testimonianze storiche e archeologiche, soprattutto di epoca medievale. Nelle vicinanze si trovano un’azienda agrituristica biologica dove è possibile soggiornare e gustare le specialità locali, un bed&breakfast e un campo di volo che offre escursioni aeree per vedere il terri-torio da un’angolatura insolita. Se si prende la strada provinciale in direzione est, si arriva in pochi minuti in località Zinnigas, nota per la sorgente (Sa mitza de Migheli) che alimenta uno stabilimento per l’imbottigliamento di acque minerali. Qui fino agli anni sessanta esisteva l’orto Zinnigas, de-scritto da G. Strafforello, “…i cui aranci sono reputati i migliori della Sardegna e non la cedono per squisitezza a questi della Sicilia…” . L’orto era di proprietà comunitaria di numerose famiglie che vi

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possedevano anche solo pochi alberi. Vicino allo stabilimento c’è un piazzale con alcune fon-tanelle utilizzate dalla popola-zione per fare scorta dell’otti-ma acqua oligominerale. Dal piazzale parte un sentiero che porta al bosco di Nanni Lai-Narbonis aresus, costituita da lecci, sughere e macchia alta e percorsa da numerose mulat-tiere una volta utilizzate dai carbonai. La zona è contigua al cantiere forestale di Cam-panasissa e al Monte Orri (723 metri), la cima più alta della

parte occidentale dei monti del Sulcis. Da Narbonis aresus parte una strada molto panoramica dalla quale si gode una visione d’insieme dei monti del Sulcis e di una vastissima foresta di eucalipti di proprietà comunale. Dopo alcuni chilometri, passando sotto il viadotto della ex ferrovia Siliqua-Calasetta in località Bacu de Moi, la strada si immette sulla strada statale 293.

Procedendo in direzione Giba si arriva in poco tempo alla diga di Bau Pressiu, presso la quale corre il confine comunale. Un poco prima troviamo il rettilineo di Campanasissa. A sinistra, presso i ruderi della vecchia stazione delle FMS, parte una carrareccia che dopo alcuni chilometri porta in località Truba Manna, in una zona ricca di boschi e di siti di archeologia mineraria. A destra, fian-cheggiando la cantoniera ANAS, si arriva al cantiere forestale di Campanasissa, su una strada in parte carrabile che porta al Monte Orri e quindi alle zone di archeologia mineraria di Orbai (Villa-massargia) e di monte Rosas (Narcao). Dalla stessa statale 293, percorsa in direzione Siliqua, svoltan-do a destra in una strada sterrata in discesa, si entra nel bosco di eucalipti ex Boscosarda. Il bosco, il cui impianto risale ai primi anni sessanta del ventesimo secolo, si estende per circa mille ettari ed è probabilmente il più grande euca-lipteto della Sardegna. Percorren-do la strada non possiamo fare a meno di notare che pian piano la vegetazione mediterranea, sradi-cata quarant’anni fa per far posto all’eucalipto, sta riprendendo il suo posto. Filliree, lecci, corbezzo-li, eriche e ginepri formano ormai una macchia sempre più fitta. Giunti in località Camboneddu, dove ha inizio l’invaso della diga di Medau Zirimilis, abbiamo due opzioni. La prima è risalire il cor-so del rio Camboni. Lo facciamo

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volentieri, visto che il sentiero che percorre la stretta gola è bellissimo. In mezzo a una vegetazione fittissima di carrubi, oleandri, filliree e mirti, si attraversa più volte il corso del torrente, sino ad ar-rivare alla casa Camboni. La costruzione in pietra su due piani e un sotterraneo, risale alla seconda metà del 19° secolo e fino a qualche anno fa sulla facciata recava lo stemma nobiliare del conte Grot-tanelli, già proprietario di gran parte dei boschi circostanti. Nonostante sia abbandonata da anni, conserva intatto il suo fascino e gli interni in legno. Siamo appena entrati nel regno del cervo sardo, che non è difficile incontrare. Si osserva inoltre un’insolita foresta di acacie che ha colonizzato il cor-so del torrente. I primi esemplari di questa essenza furono portati dai carbonai toscani e in vasti tratti essa ha prevalso sulla vegetazione autoctona. Uno sparviero in volo tra gli alberi ci distrae mentre ammiriamo le fioriture di eriche, tra cui la rara erica terminalis. Tornando alla località Camboneddu, la seconda opzione è continuare sulla strada, percorribile solo con mezzi fuoristrada, che dopo un breve tragitto arriva a un bivio che porta a sinistra in località Nanni Uras, dove è possibile ristorarsi presso la sorgente che sgorga in mezzo al bosco di lecci. Sulla destra proseguiamo verso la valle di Gutturu sa nai. Inizia un percorso nel quale è difficile scorgere il cielo, tanto fitta è la lecceta, dopo vari guadi del fiume, arriviamo sullo spiazzo antistante la dispensa Tonietti, dove è possibile, tal-volta, ammirare gli ultimi carbonai al lavoro su quelli che a prima vista sembrano solo dei cumuli di terra a forma semisferica. La lavorazione è quella antica: la legna viene disposta perfettamente a strati, ricoperta da fogliame e quindi dalla terra. Dopo alcune settimane in cui il fumo continua a fuoriuscire dalla sommità, il cumulo viene aperto e il carbone è pronto. Guardando la facciata della dispensa, un sentiero a sinistra porta sulla sommità di monte Arcosu, attraverso il bosco di lecci e la macchia alta. L’ascesa non è particolarmente difficile, anche se è richiesta una buona forma fisica.

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Una volta saliti ai 948 metri della cima, il panorama è unico: a est il Golfo di Cagliari, a nord il Campidano, a nord-est il massiccio dei Settefratelli, a sud i monti del Sulcis, ricoperti dalla foresta di lecci più vasta del Mediterraneo. Seduti all’ombra delle querce, osservia-mo il volo di un’aquila. Tornati al punto di partenza (magari dopo una giornata di riposo...) si prende la strada a destra della dispensa. Dopo alcune centinaia di metri, giungiamo a un bivio che a destra porta verso Marrocu e quindi alla valle di Gutturu Mannu (Uta-Assemini); a sinistra la strada comincia a inerpicarsi e a farsi sempre più ripida, fino al valico di Sa gruxitta. Da qui, di fronte a noi, lo sguardo corre alla massiccia mole di monte Arcosu nella sua maestosità e bellezza. Iniziamo la discesa che al termine ci riporterebbe verso Camboni.

Noi proseguiamo invece verso sud. L’ambiente è splendido e la foresta di lecci sembra non avere fine. Nel torrente che ci accompagna costantemente notia-mo alcuni esemplari di trota sarda, considerata quasi estinta ma che qui ha trovato un ambiente incontami-nato ideale per la sua sopravvivenza. Dopo alcuni chi-lometri arriviamo all’ampio spiazzo erboso di Barracca sassa, nel quale sorge una bella costruzione in pietra di proprietà del WWF. Il luogo è ideale per fermarsi. Poco distante sgorga la “mitza de maurreddu” e il bosco circostante, se la stagione è propizia, è ricco di funghi. Il percorso continua in direzione sud, seguendo il cor-so del rio Is fenugus, in una gola stretta e accidentata. Gli oleandri e i gigli di montagna colorano il sentiero,

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in un susseguirsi di cascatelle, fino ad arrivare alla bellissima cascata di “Su spistiddadroxiu”, che nei due salti ha un’altezza di oltre trenta metri. Tornati sulla carrareccia, continuiamo il percorso dal quale partono i sentieri per monte Is caravius (m. 1113) e per monte Lattias (m. 1086). Quest’ultimo ospita un ambiente veramente incontaminato, con notevoli lembi di foresta primaria. Tra le guglie granitiche sopravvivono giganteschi esemplari di quercia e, nel canalone di Su longu fresu, una colonia di tassi, rarissima a queste latitudini. Abbandonate le cime più alte, riprendiamo la statale 293 in di-rezione Siliqua. La pianura, che i geologi chiamano la fossa del Cixerri, “… è ritenuta unica in Italia per le testimonianze delle più antiche fasi continentali del Paleozoico”. Essa è caratterizzata dall’emersione di formazioni rocciose di chiara origine vul-canica, derivate dalla fuoriuscita di materiali eruttivi solidificatisi in breve tempo. La più spettaco-lare di queste è il domo lavico andesitico di Acquafredda, noto soprattutto per i ruderi del castello omonimo. Il domo che è composto soprattutto di andesite con cristalli di anfibolo, nel 1993 è stato dichiarato monumento naturale con decreto dell’Assessore regionale alla Difesa dell’Ambiente, in quanto “geotopo che presenta caratteristiche geologiche … ha valore scientifico, biologico, estetico,

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paesaggistico, storico-culturale, di rappresentatività, di specificità…”. Oltre all’aspetto storico, il colle costituisce un ambiente ricco di specie vegetali, dove spiccano maestosi esemplari di alaterno e vivono numerose specie animali, dai corvi alle taccole al falco grillaio.

Nelle vicinanze del colle sorge la chiesetta campestre di santa Margherita. Da qui riprendiamo la strada del paese, dove meritano senz’altro una visita le chiese di S.Giorgio e S.Anna e il Monte-granatico recentemente restaurato. Nei vicoli del centro, antiche case di lardiri, nella loro armoniosà semplicità di linee e di colori sono le ultime testimonianze di una civiltà contadina che vive ormai solo nei ricordi.

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Ringraziamenti

Il libro non si sarebbe potuto realizzare senza il prezioso contributo del-la popolazione di Siliqua e di alcuni studiosi che hanno, gentilmente, posto a disposizione il loro lavori su alcune delle problematiche affrontate.

La parte riguardante i ricordi di guerra e le tradizioni popolari è stata interamente ricostruita grazie all’aiuto delle persone che hanno accettato di essere intervistate e che hanno fornito preziosi suggerimenti durante la ste-sura dei testi.

Un particolare ringraziamento va ad Antonia Sunis e al marito Isidoro Bachis, a Francesca Corda, Teresa Serra, Bonaria Pittau, Cesario Bachis, Gina Cuccu, Rosaria Casula, Ines Soddu, Ignazio Mancosu, Guerino Argiolas, Bernardino Floris.

Le notizie desunte dalle interviste sono state arricchite, nei paragrafi riguardanti il lavoro dell’uomo, con le informazioni tratte dalla tesi di laurea messa a disposizione da Anna Rosa Pusceddu.

Per quanto riguarda i capitoli dedicati alla storia di Siliqua, del castello di Acquafredda e delle chiese si ringraziano tutti i partecipanti al concorso “Siliqua: storia, cultura, tradizioni” e i soci della cooperativa Antarias di Siliqua. Si ringraziano, inoltre: la prof. Pinuccia F. Simbula dell’Università di Sassari, dal cui studio sulla vita quotidiana nel Castello di Acquafredda si sono attinte molte notizie, Stefano Basciu per il suo studio sulla chiesa di San Giorgio e Isabella Pistis per la sua tesi di laurea sui consigli di comunità. Si ringraziano inoltre: La tana del volo, l’Associazione PAN, Mariano Secci, Mariella Bachis, Marcello Matta e l’ex assessore alla cultura Helga Bachis, sostenitrice di questo progetto sin dagli inizi.

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