La funzione conciliatrice del Giudice di Pace penale - diritto.it · 1 MANTOVANI, Manuale di...

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I - Indice-sommario - - Premessa - Ontologica incompatibilità tra la funzione di natura pubblicistica attuativa del ius puniendi e la c.d. “funzione conciliatrice” di matrice privatistica……………………………... 001 CAPITOLO I La genesi 1 La funzione conciliativo-transattiva e l'indisponibilità della giurisdizione ……………. 7 2 - L'asettica trasfusione della “mediazione processuale dal processo civile al processo penale. La prevalenza del ruolo del mediatour su quello del conciliatore ………………………..….. 016 CAPITOLO II Lo spirito ed il modus operandi della riforma

Transcript of La funzione conciliatrice del Giudice di Pace penale - diritto.it · 1 MANTOVANI, Manuale di...

I

- Indice-sommario -

- Premessa - Ontologica incompatibilità tra la

funzione di natura pubblicistica attuativa del ius

puniendi e la c.d. “funzione conciliatrice” di

matrice privatistica……………………………... 001

CAPITOLO I

La genesi

1 – La funzione conciliativo-transattiva e

l'indisponibilità della giurisdizione ……………. 7

2 - L'asettica trasfusione della “mediazione

processuale” dal processo civile al processo

penale. La prevalenza del ruolo del mediatour su

quello del conciliatore ………………………..….. 016

CAPITOLO II

Lo spirito ed il modus operandi della riforma

II

1 – La ratio legis sottesa al d.lgs. n. 274/2000:

esigenze pragmatiche di “accelerazione” della

giustizia, trascendenti il principio della

concentrazione …………………….…………….. 0 20

2 - La competenza ratione materiae del giudice

di pace, in sede penale. I principi e criteri

direttivi di cui alla legge delega: i limiti edittali,

la facilità di accertamento, la rimovibilità delle

conseguenze naturalistiche ..……………………. 025

3 - La surrettizia introduzione della figura del

“reato bagatellare in concreto” e l'elusione de

facto del principio di obbligatorietà dell'azione

penale per effetto della tipizzazione della

condizione di improcedibilità per “particolare

tenuità del fatto”. Dubbi di legittimità

costituzionale dell'art. 34, d.lgs. n. 274/00 .....….. 034

4 - Il tentativo di conciliazione: alternativo al

dibattimento o al giudizio? ………….…....…….. 040

CAPITOLO III La dimensione positiva della c.d. giurisdizione

“conciliatrice”

III

1 – I requisiti necessari per conseguire la nomina

a giudice di pace …..…………………………….. 47 0

2 – Il pre-giudizio del giudice della

conciliazione: l'escamotage legislativo per

aggirare la causa d'incompatibilità non

positivizzata del giudice di pace che ha esperito

il tentativo di conciliazione …..…………….…… 051

3 – Le modalità di esperimento del tentativo di

conciliazione ……….……………………...…….. 54

4 – Insufficienza delle modalità di

verbalizzazione positivamente tipizzate ............. 55

5 - Esiti dell'attività conciliativa. Il dibattimento

quale ipotesi residuale nel processo dinanzi al

giudice di pace …………………………………... 57

6 - La causa di estinzione del reato per condotte

riparatorie e l'improcedibilità per tenuità del

fatto quali elementi in cui la funzione

conciliatrice si ipostatizza. Il ruolo di

“scavalcamento della persona offesa” rivestito

dal giudice di pace ………………………………. 59

7 - Note di diritto processuale penale comparato:

la "mediazione processuale" negli ordinamenti

europei ……………………………………………. 64

8 - Conclusioni: La penalizzazione come

extrema ratio. De iure condendo, una proposta

IV

coerente con l'architettura sistematica del

processo penale ……………………………..…… 67

Bibliografia ……………………………….……… 70

1

La genesi La genesi La genesi La genesi

SOMMARIO: Premessa - Ontologica incompatibilità tra la funzione di natura

pubblicistica attuativa del ius puniendi e la c.d. “funzione conciliatrice” di matrice privatistica. 1 - La funzione conciliativo-transattiva e l’indisponibilità della giurisdizione. 2 – L’asettica trasfusione della “mediazione processuale” dal processo civile al processo penale. La prevalenza del ruolo del mediatour su quello del conciliatore.

Premessa - Ontologica incompatibilità tra la funzione di natura pubblicistica attuativa del ius puniendi e la c.d. “funzione conciliatrice” di matrice privatistica.

La differente reazione sanzionatoria – in termini

quantitativi - dello Stato rispetto alla commissione di un fatto violativo dell’ordine giuridico si atteggia variamente a seconda della dimensione assunta, in un determinato contesto storico-politico, dal binomio Autorità-libertà.

Negli ordinamenti di tipo assolutistico il diritto penale fungeva da strumento dello strapotere del dispotismo regio; in quelli di tipo totalitario il diritto penale, affiancato dal diritto di polizia, costituiva, al contempo, mezzo di difesa della Verità di Stato e strumento di sopraffazione politica, allo scopo di preservare la primazia statuale da qualsivoglia attentato1.

E’ di tutta evidenza come in siffatti sistemi penali, volti essenzialmente a reprimere qualsiasi atteggiamento che potesse anche solo in abstracto arrecare un nocumento all’imperium statuale, il binomio di cui sopra risulti fortemente sperequato in danno della “libertà”.

1 MANTOVANI, Manuale di diritto penale, Cedam, 1988, 6, definisce il

sistema sì connotato come “diritto penale dell’oppressione”.

Capitolo

1

2

La storia del processo penale ha poi assistito ad un progressivo riequilibrio del rapporto Autorità-libertà fino a giungere a quello che, con autorevole dottrina2, definiamo “diritto penale della libertà” che rappresenta “una equilibrata sintesi delle posizioni della vittima e del reo, della difesa sociale e della libertà, da un lato, e della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, degli interessi sociali e diffusi, delle istituzioni democratiche dall’altro…”.

Orbene, la diversa funzione a cui attende un impianto processual-penalistico funzionalizzato (o, se si preferisce, ispirato) al più ampio riconoscimento3 ed alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, non ha tuttavia prodotto uno snaturamento della funzione giurisdizionale, che almeno nei suoi connotati strutturali trova – e conserva - la sua matrice genetica nell’imperium di derivazione statuale.

Al fine di comprendere quanto appena evidenziato, è necessario porre l’attenzione sul rapporto di natura marcatamente pubblicistica intercorrente tra lo Stato – inteso quale unico ed esclusivo titolare del ius puniendi – ed il giudice, soggetto istituzionalmente deputato all’attuazione della pretesa punitiva ove ravvisi gli estremi della commissione di un fatto penalmente rilevante.

Metaforicamente – mutuando la qualificazione dogmatica dalla teoria amministrativistica del rapporto organico – si può individuare un rapporto di immedesimazione intercorrente tra lo Stato e l’organo giudiziario il quale svolge la funzione giudiziaria, che si sostanzia in un potere “esercitato non già nell’interesse di chi ne è titolare ma nell’interesse altrui”4.

Ovviamente se è indubbio che tali considerazioni rivestano valenza generale e che, dunque, valgano con riferimento a tutti i settori del diritto, è altrettanto indubbio che non può tralasciarsi la peculiarità dell’accertamento

2 MANTOVANI, op. cit., 7. 3 L’asserzione di cui al testo evidenzia quale sia la precipua funzione alla quale è deputato il processo penale, stricto sensu, il quale in particolare,

mira alla “difesa individuale” riservando invece unicamente alla fase procedimentale l’assolvimento della funzione della c.d. “difesa sociale”. Ovviamente anche il diritto sostanziale, dal canto suo, attende indirettamente ad una funzione di garanzia dei diritti fondamentali la cui tutela delimita i confini del “penalmente rilevante”. 4 Grande dizionario della lingua italiana, voce Funzione, a cura di S.

Battaglia, UTET, vol. VI, 1991, 467.

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penale volto, nell’ipotesi in cui si acclari la colpevolezza dell’autore, all’applicazione della sanzione penale.

Pertanto, il giudice, attesa la circostanza della derivazione diretta dei propri poteri dallo Stato, rivestendo l’ufficio di gerente della funzione giurisdizionale nell’interesse altrui, mutua dallo Stato medesimo anche i connotati tipici della funzione statuale, primo fra tutti quello della coazione.

La sentenza emessa dall’Autorità giurisdizionale al compimento dell’iter accertativo della responsabilità penale dell’agente costituisce, infatti, il dictum, suscettibile di divenire intangibile, inattaccabile nel momento in cui si forma la res iudicata.

L’autoritarietà della funzione di ius dicere culmina in tale momento, potendo la sentenza medesima, nella sua parte precettiva, essere portata ad esecuzione, per l’appunto, mediante l’esecuzione della sanzione penale ivi comminata, la quale è atta a comprimere o addirittura a privare sine die il condannato della libertà personale.

Da ciò discende che la funzione giurisdizionale esercitata in sede penale – qualificata dalla migliore dottrina come “funzione sovrana”5 - presenta dei connotati sì peculiari da imporre una disamina separata della stessa rispetto alla medesima funzione esercitata in sede civile.

Tali considerazioni sollevano un dubbio non di facile risoluzione.

E’ giuridicamente concepibile nel processo penale - in cui la funzione giurisdizionale appalesa tutta la sua imperatività – una giurisdizione c.d. “conciliatrice”?6

5 MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, aggiornato da Nuvolone-Pisapia, UTET, 1985, Vol. I, 96. 6 A tal’uopo, DENTI, I riti alternativi civili: caratteristiche e potenzialita'. La diffusione delle forme di risoluzione delle controversie diverse dalla giurisdizione ordinaria, Impresa & Stato n°40, pagina web, www.cittadinolex.com, osserva che, “al fine di una adeguata valutazione

della funzione conciliatrice del giudice” occorre considerare “le difficoltà insite nella efficacia delle "pressioni" che il giudice può essere portato ad esercitare al fine di indurre le parti alla conciliazione. Tutto ciò porta a considerare l'opportunità di affidare la funzione conciliatrice in sede non contenziosa, ad organi non giudiziali”. Lo stesso A. sottolinea che recenti riforme, come la legge istitutiva del giudice di pace, si sono proposte la finalità di potenziare quelle funzioni di conciliazione c.d. non contenziosa che già erano affidate al soppresso giudice conciliatore. L'esperienza in materia non è riconducibile a dati validi per tutto il territorio nazionale. In occasione di recenti convegni, infatti, è stato posto in evidenza che in determinate aree geografiche un

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La peculiare natura degli interessi sottesi all’accertamento della responsabilità penale osta o non costituisce ostacolo alcuno alla possibilità di delineare la figura di un “mediatore processuale” nell’ambito del diritto penale?

La figura della conciliazione trova la sua sedes naturalis nel processo civile ed in particolare nel processo del lavoro.

A tal’uopo appaiono doverose alcune considerazioni.

Non può revocarsi in dubbio che, anche nel processo civile, il giudice sia “terzo”7 e pur sempre titolare di una funzione di matrice pubblicistica; ciononostante, questi “scende” tra le parti per promuovere una composizione bonaria della controversia.

Ma non può trascurarsi la particolare posizione rivestita dalle parti in quella sede.

Nel processo civile le parti dialetticamente contrapposte – attore e convenuto – adiscono l’autorità giurisdizionale allo scopo di comporre una controversia in atto tra loro, vertente su diritti di cui hanno piena disponibilità.

giudice strettamente collegato con la popolazione, come il conciliatore, svolgeva una rilevante funzione di composizione delle controversie, soprattutto se si trattava di un soggetto dotato di autorità morale. Molto probabilmente, in questo come in altri casi, l'adozione di un modello uniforme per tutto il territorio nazionale rappresenta una soluzione non idonea, a dare una efficiente risposta al bisogno di giustizia. La istituzione del giudice di pace, anche sotto il profilo della competenza territoriale, non ha tenuto conto delle differenze, legate alla dislocazione delle sedi di pretura e, quindi, risalenti ad una situazione in gran parte legata agli ordinamenti pre-unitari, non adeguata alla evoluzione del paese. Si deve lamentare la insufficienza dei lavori preparatori delle riforme in materia di ordinamento giudiziario; riforme che in altri pesi europei sono preparate da approfondite ricerche e inchieste sul campo, oltre a essere precedute, talvolta, da fasi di sperimentazione in sedi scelte come campione. Più volte ho avuto occasione di far presente, nell'ambito delle commissioni ministeriali di riforma, questa fondamentale esigenza, purtroppo senza esito alcuno. 7 TARUFFO, pagina web, www.cittadinolex.com., con riferimento alle

recenti innovazioni in tema di conciliazione in ambito processual-civilistico, ha formulato la previsione secondo cui anche in tale settore continueranno a "dominare le concezioni tradizionali, secondo le quali nel tentativo di conciliazione il giudice dovrebbe essere essenzialmente passivo, per evitare di influire sulla volontà delle parti, e di cadere in qualche pericolosa anticipazione di giudizio".

5

E’ di tutta evidenza come la titolarità di una situazione giuridica soggettiva implichi anche la sua azionabilità in sede processuale, sempre che si tratti di situazioni di cui il soggetto agente possa effettivamente disporre.

Orbene, in ciò è la abissale differenza con quanto accade in sede penale.

Pur volendo ammettere che il giudice – nonostante sia portatore dell’ interesse statuale all’azionabilità della pretesa punitiva – possa “affiancarsi” alle parti nell’esperimento di un tentativo di composizione bonaria della “controversia”, pare sinceramente difficile ipotizzare una disponibilità degli interessi in gioco, tale da consentire una “conciliazione”.

E’ la stessa etimologia del termine che ci conduce a sollevare dubbi di compatibilità dell’attività conciliativa con la funzione giurisdizionale, esercitata in sede penale.

Non è un caso, infatti, che la “conciliazione” per antonomasia consista nella “composizione del dissidio tra Stato italiano ed il Papato realizzatosi l’ 11 febbraio 1929, con la stipulazione dei Patti Lateranensi” 8.

Ciò costituisce la riprova della circostanza che il termine “conciliazione” presupponga una pariteticità di posizioni tra i soggetti “in lite”, oltre che una disponibilità – che, in buona sostanza, costituisce una conseguenza logico-giuridica della prima condizione – degli interessi in gioco.

La l. 21 novembre 1991, n. 374 – istitutiva del giudice di pace penale -, la l. 24 novembre 1999, n. 468 –recante modifiche alla l. n. 374/91 - ed, infine, il d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 contenente “disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della l. n. 468/99” - costituiscono il dato positivo atto a sollevare i dubbi supra evidenziati.

La presente indagine, muovendo da tali premesse che appaiono imprescindibili, si prefigge di evidenziare gli elementi della riforma strutturalmente incompatibili con l’attuale assetto normativo penale ed, attraverso una puntuale disamina delle disposizioni presupponenti la c.d. “giurisdizione conciliativa” del giudice penale, mira a fornire una soluzione che probabilmente si presenta maggiormente

8 Dizionario Enciclopedico del Diritto, voce Conciliazione, EDIPEM, 1979,

vol. I, 312.

6

conferente con l’impianto normativo, complessivamente considerato.

Appare, inoltre, necessario rimarcare che quanto espresso nel presente lavoro costituisce manifestazione di pensiero assolutamente personale dello scrivente – come tale opinabile – che, pertanto, non pretende di fornire soluzioni valide in senso assoluto, ma che si limita ad esporre le ragioni del proprio atteggiamento critico nei confronti di una riforma che preoccupa tanto gli studiosi “puri” della procedura penale quanto gli operatori del diritto.

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1 - La funzione conciliativo-transattiva e l’indisponibilità della giurisdizione.

Le ventilate perplessità relative alla concepibilità

giuridica di una “giurisdizione conciliatrice” radicata in capo all’Autorità Giudicante, in sede penale, vengono ulteriormente alimentate da una aggiuntiva circostanza che impedirebbe di addivenire ad una soluzione positiva della questione prospettata.

Risulta difficilmente ipotizzabile una funzione – sia pure latamente - conciliatrice che prescinda oltre che dalla pariteticità di posizione dei soggetti del rapporto – per così dire – conciliativo, anche dalla disponibilità – come cennato – degli interessi in gioco.

Difatti, pur volendo ritenere ammissibile che il giudice, da soggetto “terzo”– utilizzando tale locuzione nella sua accezione più ampia e rigorosa – dismetta le vesti di arbitro supremo, “approssimandosi” alle parti, al fine di favorire una composizione bonaria della controversia, pare difficilmente sostenibile che, in sede penale, le parti medesime siano effettivamente legittimate a disporre dei diritti intorno ai quali si controverte.

Per incidens, si noti che la condizione necessaria affinché il giudice possa fruttuosamente esperire un tentativo di conciliazione – o quantomeno favorirlo – consiste in ciò: che il medesimo, in primo luogo, disponga di tutti i dati conoscitivi di natura sia storica che processuale (e – come si dirà diffusamente nel prosieguo della trattazione – in relazione a tale punto, la riforma non pare fornire una soddisfacente soluzione ) al fine di poter efficacemente interloquire circa la possibilità di una composizione alternativa della “lite”.

Tale specificazione è sintomatica dell’impossibilità della conservazione da parte dell’Autorità Giudicante della sua istituzionale posizione di organo super partes.

Ciò puntualizzato, ci accingiamo ora ad analizzare quello che, a detta di chi scrive, costituisce l’ostacolo difficilmente valicabile al riconoscimento di una funzione conciliatrice, in sede penale, che risulti conferente con i principi informatori del nostro processo penale.

8

Orbene, non può prescindersi, a tale fine, dalla individuazione delle parti necessarie del processo, che si pongono fisiologicamente in una reciproca contrapposizione dialettica, in quanto portatrici – si badi bene, almeno in abstracto 9– di interessi dicotomici.

Da un lato, abbiamo il Magistrato del Pubblico Ministero – organo istituzionalmente deputato all’attuazione del ius puniendi statuale - e, dall’altro, l’imputato, titolare di una situazione giuridica processuale complessa, qualificata, in primis, dal diritto di difesa, incondizionatamente riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico.

Accanto – rectius, al di sopra – di esse si colloca il Giudice, “terzo” ed imparziale, che forma il suo convincimento in maniera progressiva, nel corso di un processo strutturato in modo da consentire, senza alcuna interposizione diaframmatica, contatti con le fonti di prova ed in modo da giungere alla formazione del dictum, senza che alcun pre-giudizio condizioni la genuinità della decisione medesima.

Attese, dunque, le peculiarità dell’accertamento penale, è possibile individuare un’effettiva titolarità “esclusiva” degli interessi di cui sono portatori le due parti dialetticamente contrapposte e, conseguentemente, è concepibile il riconoscimento di una disponibilità degli interessi medesimi?

Per quanto concerne la posizione dell’ imputato, tale questione non sembra sollevare difficoltà di sorta, atteso che – sia pure con qualche forzatura – è ipotizzabile una natura latamente privata dell’interesse di cui il medesimo è portatore.

“Privata”, ovviamente, non “privatistica”, in quanto non intendiamo riferirci alla posizione di diritto processuale di cui è titolare l’imputato, bensì ci riferiamo a quella posizione sostanziale che, con autorevole dottrina, definiamo di “interesse a commettere l’illecito”10.

La questione diventa, invece, più complessa con riferimento alla posizione del Magistrato del Pubblico Ministero.

9 “Contrapposizione dialettica”, infatti, non è sinonimo di “contraddizione”; le parti in contraddittorio, in concreto, possono anche essere portatrici di interessi non antitetici. Nel caso in cui, ad esempio, l’imputato confessi la propria responsabilità penale può non ravvisarsi la “contraddizione” tra gli interessi in gioco ma esclusivamente una contrapposizione dialettica. 10 CARNELUTTI, Danno e reato, Padova, 1926, 98.

9

A tal proposito, occorre, però, fare un passo indietro.

E’ necessario, infatti, in primo luogo, esaminare la natura della posizione giuridica attiva rivestita dallo Stato – effettivo titolare della pretesa punitiva – da cui il Magistrato – organo istituzionalmente deputato alla attuazione della pretesa de qua - deriva la propria funzione.

Una parte della dottrina11 ha sostenuto che “i diritti di supremazia costituiscono la principale sfera dei diritti soggettivi dello Stato”.

Tale posizione è stata pervicacemente criticata12 argomentando nel senso che il potere punitivo costituisce “potestà sovrana considerata nella sua attività di giustizia che si può denominare diritto di supremazia sull’altrui persona, quindi, solo impropriamente, si parla di diritto subiettivo dello Stato”.

In verità, oltre che da un punto di vista funzionale, non sembra concepibile una siffatta assimilazione tra il ius puniendi e la situazione giuridica attiva del diritto soggettivo, nemmeno da un punto di vista strutturale: secondo la citata dottrina, che si colloca in posizione critica rispetto alla qualificabilità del c.d. diritto di punire in termini di diritto soggettivo, “la potestà di punire, siccome implica esercizio di sovranità, spetta esclusivamente allo Stato e costituisce un dovere non propriamente giuridico, giacchè non sanzionato, ma politico”.

Alla stregua di siffatta impostazione, in tale ipotesi, si è in presenza di una potestà, quale situazione giuridica attiva cui corrisponde una soggezione altrui (situazione passiva nella quale versa la pluralità dei consociati).

Allo scopo di svincolare il ius puniendi da qualsivoglia categoria dogmatica di matrice spiccatamente privatistica13, inoltre, si ricorre alla categoria del “dovere giuridico”.

11 DI PISA, Le dottrine più recenti intorno ai diritti pubblici soggettivi, Palermo, 1917, 93-96. 12 MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, aggiornato da Nuvolone-

Pisapia, UTET, 1985, Vol. I, 102. 13 A tal’uopo è opportuno precisare che nel testo ci si intende riferire all’aspetto marcatamente privatistico, tipicamente preponderante, in alcune figure soggettive, rispetto ad altre che presentano una connotazione latamente pubblicistica. Con ciò, ovviamente, non s’intende asserire che la posizione di dovere o di potestà non sia di matrice privatistica, ma si vuole

10

Ciò al fine di evidenziare che l’assenza di qualsivoglia previsione che contempli sanzioni in caso di mancato esercizio di tale diritto – fenomeno noto, di contro, al diritto privato che prevede forme di caducazione di diritti in caso di perdurante inazione del titolare – denota l’esclusività della titolarità del diritto medesimo, in capo allo Stato.

L’Organo Sovrano, infatti, può stabilire di “non usare” del suo diritto (ad esempio, in forza di una valutazione di carattere politico-criminale, può autolimitare la pretesa punitiva ed escludere, in forza di essa, la punibilità di un fatto tipico ed antigiuridico, al verificarsi di alcuni presupposti – reato di furto integrato in tutti i suoi estremi ex art. 624 c.p., non punibile ai sensi dell’art. 649 c.p. se commesso in danno del coniuge non legalmente separato o di un ascendente o discendente in linea retta ovvero dell’adottante o dell’adottato) ma non per questo incorrere in fenomeni caducatori di sorta.

Nulla esclude, infatti, che a seguito di una successiva mutazione del contesto socio-politico ed in base a differenti valutazioni di carattere politico-criminale, la pretesa punitiva dello Stato si riespanda, acquisendo l’originario spessore atteso che, le valutazioni determinanti una compressione del ius puniendi, in un dato momento storico, non producono alcuna scalfittura a carico del diritto-potere di cui lo Stato risulta essere titolare in via esclusiva.

A ciò si aggiunga che l’esclusività e la peculiarità della situazione di cui è titolare lo Stato impediscono qualsivoglia raffrontabilità – e, dunque, qualsivoglia conflitto - con altra situazione giuridica, che non si collochi in posizione paritetica con la prima.

Da ciò si inferisce una ulteriore argomentazione a sostegno della non qualificabilità del ius puniendi in termini di diritto soggettivo.

Strutturalmente, infatti, “il concetto di diritto soggettivo è un elemento derivativo che trova nella potestà sovrana riconoscimento e protezione e però non può identificarsi con questa forza, ad esso manifestamente superiore… il diritto soggettivo presuppone la possibilità di conflitti tra forze giuridicamente pari”14.

semplicemente evidenziare come in tali casi l’elemento privatistico non risulti particolarmente qualificante, attesa la riconducibilità alle figure de qua di posizioni giuridiche strumentali di matrice latamente pubblicistica. 14 MANZINI Trattato di diritto penale italiano, aggiornato da Nuvolone-

Pisapia, UTET, 1985, Vol. I, 102.

11

In senso conforme, autorevole dottrina15 sottolinea che “l’interesse dello Stato all’obbedienza alle norme penali non è evidentemente un diritto soggettivo perché non può venire in conflitto con altro interesse (il conflitto non è tra l’interesse dello Stato all’obbedienza e quello del reo a compiere l’atto illecito, ma fra questo e quello del leso) perché manca una norma che lo tuteli (l’origine del diritto è infatti pregiuridica) e perché la tutela dell’interesse non dipenderebbe dalla volontà dello Stato - gli organi dello Stato non hanno la facoltà di volere o di rifiutare la tutela penale”.

Orbene, se proprio l’impossibilità del ius puniendi di entrare in conflitto con altri interessi - atteso che la ipotizzabilità di un “conflitto”, per definizione, presuppone l’esistenza di forze giuridicamente pari – osta alla configurazione in termini di diritto soggettivo del ius in esame, è possibile concepire una conciliazione degli interessi in gioco?

Al lume delle summenzionate posizioni dottrinali, bisognerebbe concludere in senso negativo, atteso che l’impossibilità di concepire un “conflitto” tra interessi, per così dire, “impari”, a fortiori impedisce di concepire una possibilità di composizione dei medesimi.

A ciò potrebbe opporsi che l’esclusività della posizione attiva dello Stato ne comporterebbe anche la disponibilità ad opera non solo dello Stato medesimo, ma anche da parte di coloro che derivino le proprie funzioni dal Supremo Organo.

Tale opposizione sarebbe, comunque, da respingere atteso che, pur sussistendo un rapporto di immedesimazione tra lo Stato ed il giudice, è pur vero che un siffatto rapporto derivativo non è idoneo ad attribuire all’Autorità Giudicante la legittimazione alla effettuazione di valutazioni che presuppongano, in apicibus, necessariamente la piena titolarità e disponibilità del diritto statuale.

Avendo, pertanto, al lume delle suesposte argomentazioni, escluso che il ius puniendi sia suscettibile di una libera disposizione (e se tale capacità di disposizione non è pacificamente ammessa nemmeno in favore dello Stato -unico titolare del diritto in questione, al quale andrebbe pertanto riconosciuta la piena legittimazione ad “usare” del proprio diritto - a maggior ragione una siffatta capacità non può essere riconosciuta al Magistrato del Pubblico Ministero,

15 CARNELUTTI, Danno e reato, Padova, 1926, 98.

12

mera longa manus statuale, titolare di poteri punitivi non originari, né tantomeno al giudice, organo rigorosamente super partes ), tentiamo di analizzare – con specifico riferimento alla istituzione del giudice di pace “penale” - quale significato possiamo riconoscere alla c.d. giurisdizione conciliatrice.

Non può revocarsi in dubbio che, liddove si discorra della attribuzione al giudice di pace in sede penale di una funzione conciliatrice16, non ci si intenda riferire ad una funzione “conciliativa” in senso strettamente tecnico giuridico.

Tuttavia, è pur vero che sul piano effettuale non è possibile cogliere alcun discrimen tra una conciliazione, stricto sensu, ed una funzione latamente conciliativa.

Non a caso, sovente, vengono utilizzate in maniera fungibile le locuzioni “conciliazione” - “transazione”.

Ciò in quanto, come detto, sul piano pratico, in nulla esse divergono.

Tecnicamente, tuttavia, i due concetti non sono sovrapponibili od intercambiabili: non si dimentichi, infatti, che l’art. 1965 c.c. contempla e disciplina la transazione, definendola come “il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere tra di loro”.

Siamo, pertanto, in presenza di un contratto che, come tale, ha ad oggetto gli aspetti di natura marcatamente patrimoniale del rapporto giuridico.

Di contro, gli effetti prodottisi all’esito di una conciliazione, risultano connotati da una eterogeneità e da una ampiezza tali da impedire all’interprete una contrazione degli effetti medesimi ed una riconduzione degli stessi nell’angusto schema contrattuale transattivo.

Premessa la strutturale diversità tra l’istituto della conciliazione e quello della transazione e rilevata, di contro, un’identità funzionale tra i due, non può sfuggirci una ulteriore circostanza.

Individuato il discrimen tra i due istituti nella eterogeneità degli effetti tipicamente riconducibili alle reciproche fattispecie, atteso che l’istituto della conciliazione produce effetti assorbenti di quelli più limitati - circoscritti ai soli aspetti patrimoniali – caratteristici dello strumento

16 Tale funzione viene espressamente menzionata nella relazione al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274.

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transattivo, non può trascurarsi il disposto di cui all’art 1966 c.c.

Tale norma statuisce che “le parti, per transigere, devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite”.

Ciò vuol dire che se tale requisito di capacità è richiesto dal legislatore per realizzare la fattispecie negoziale da cui discendano effetti tipicamente transattivi, precipuamente patrimoniali – i quali costituiscono un minus17 rispetto a quelli “conciliativi”, più ampi ed assorbenti dei primi - a fortiori dobbiamo ritenere che tale requisito di capacità valga anche con riferimento all’esperimento della conciliazione che, pertanto, postula la disponibilità in capo alle parti dei diritti intorno a cui si controverte.

Ecco che si ripropone, in tutta la sua problematicità, la questione inizialmente sollevata: è ammissibile, in sede penale, una giurisdizione conciliatrice?

Al lume delle argomentazioni supra enucleate, dovremmo concludere in senso decisamente negativo atteso che la pretesa punitiva statuale non può essere considerata al pari di un diritto soggettivo disponibile, come tale, suscettibile di essere transatto, né ad opera della pubblica accusa, né tantomeno dal giudice.

A ciò si aggiunga che osta ad una ricostruzione di segno opposto il principio della indisponibilità della giurisdizione, che affonda le proprie radici nell’imperium statuale.

L’indisponibilità dell’attività di iuris dicere in sede penale è una caratteristica endogena alla funzione giurisdizionale medesima.

E tale specifica peculiarità trova la sua esaltazione nell’art. 112 Cost. che sancisce il principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale.

Del resto anche la stessa Consulta ha avuto modo, in varie occasioni, di stigmatizzare – sia pure con la poco accettabile tecnica delle sentenze manipolativo-additive che recano un grave vulnus alla partizione montesquieuviana

17 MANDRIOLI, Manuale di diritto processuale civile, Giappichelli, 1998,

tomo II, 82, afferma che “la conciliazione alla quale tende il tentativo è qualcosa di più e di diverso dalla transazione poiché oltre gli effetti sostanziali propri della transazione produce effetti processuali con riguardo alla fine del processo in corso”.

14

dei poteri – l’introduzione di meccanismi partecipativi in senso forte all’interno del processo penale.

Si pensi, ad esempio, alla vexata quaestio relativa all’art. 513 c.p.p. che, – a cagione della sua labile valenza garantistica - ha costretto legislatore e Consulta ad una poco trasparente “staffetta” legislativa, con una conseguente indebita sovrapposizione dei compiti istituzionali.

Ci si riferisce alla possibilità che, con l’accordo delle parti, il giudice disponga la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese dalle persone di cui all’art. 210 c.p.p. che, mutando l’atteggiamento processuale precedentemente assunto, “si avvalgano della facoltà di non rispondere”.

Tale disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima18 nella parte in cui non prevede che qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell’accordo delle parti alla lettura si applichi l’art. 500, co. 2-bis 19 e 4, c.p.p. – consentendone, attraverso il meccanismo surrettizio delle contestazioni, l’acquisibilità integrale dei relativi verbali.

La Consulta ha ritenuto, in quella sede, che far dipendere dall’accordo delle parti la possibilità di integrare la piattaforma decisionale probatoria del giudice, equivaleva ad introdurre nel sistema penale un’ “inaccettabile disponibilità della giurisdizione”.

Si badi bene – e ciò verrà compiutamente chiarito nel prosieguo della trattazione – nel nostro sistema esistono istituti che, di primo acchito, facciano intravedere un meccanismo partecipativo – quale ad esempio la applicazione di pena su richiesta delle parti ex artt. 444 ss., c.p.p. ma, in tale ipotesi, le parti avanzano semplicemente un prospetto di pena che costituirà pur sempre oggetto del prudente vaglio giurisdizionale, con ciò non determinando alcuna compromissione del principio della indisponibilità della giurisdizione.

In conclusione, secondo quanto rilevato dalla stessa Consulta, i meccanismi di partecipazione diretta delle parti nel processo penale che tendano a pretermettere il giudicante o che ne comprimano la relativa cognizione, sono

18 Corte Cost., sent. n. 361 del 2 novembre 1998. 19 Comma ora abrogato dalla l. n. 63/2001, c.d. legge “attuativa del giusto processo”.

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da rifuggire in quanto non compatibili con un sistema improntato al principio della indisponibilità della giurisdizione.

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2 – L’asettica trasfusione della “mediazione processuale” dal processo civile al processo penale. La prevalenza del ruolo del mediatour su quello del conciliatore.

Si è già diffusamente proceduto alla enucleazione

delle ragioni per le quali si ritiene criticabile il riconoscimento di una funzione conciliatrice in capo al giudice di pace “penale”, pertanto, in questa sede ci si limiterà ad evidenziare brevemente alcuni aspetti problematici del fenomeno della “mediazione processuale”20 così come strutturato all’interno del processo civile – e, correlativamente, all’interno del processo del lavoro, ove il tentativo di conciliazione trova la sua sedes naturalis - .

In sede civile, infatti, la creazione di un istituto che tenda a favorire una composizione bonaria della controversia non solleva problemi di sorta atteso che l’azionabilità di un diritto soggettivo in sede giurisdizionale presuppone necessariamente la titolarità e disponibilità – salvi casi specifici - del diritto in contesa.

Indicativa, a tale fine, è l’attività propulsiva dell’attore, la quale costituisce presupposto indefettibile dell’instaurazione del processo civile che, a differenza di quello

20 Il fenomeno della mediation trova la sua genesi nell’ordinamento

anglosassone. In Inghilterra, in particolare, il crescente interesse per le “alternative al processo” ordinario, trova la sua applicazione preponderante nella materia della tutela del consumatore, sulla premessa della inidoneità del giudizio ordinario, quale strumento per la protezione del contraente economicamente e socialmente debole. Le modalità di risoluzione non giudiziale delle controversie si distinguono in "contenziose", rappresentate essenzialmente dall'arbitrato e "non contenziose", a loro volta distinte nelle due modalità principali della concilation e della mediation; la prima è

caratterizzata da una negoziazione nella quale il terzo imparziale assiste le parti nelle loro trattative; la seconda, da una presa di posizione più incisiva del terzo, che si esprime in poteri di raccomandazione e di formulazione di ipotesi di accordo conciliativo, presupponendo, quindi, una più penetrante valutazione del merito della controversia. Nel nostro ordinamento, sembra che il legislatore abbia propeso per un modello assimilabile al fenomeno della mediation, con la non condivisibile peculiarità della attribuzione di

tali funzioni conciliative al medesimo Organo giudicante.

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penale, e salvi i casi di procedibilità a querela della persona offesa21, è un processo ad impulso di parte (cfr. art. 99 c.p.c.).

Tale caratteristica determina una ulteriore peculiarità del processo civile per quanto concerne i mezzi di prova adducibili, costituenti il substrato fattuale del dictum giudiziale.

Iudex debet iudicare iuxta secundum alligata et probata partium.

Tale brocardo sussume il principio dispositivo che regola le acquisizioni probatorie in sede civile.

Si rimembri, inoltre la disposizione di cui all’art. 2697 c.c. secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti… deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.

Grava, pertanto, sia sull’attore che sul convenuto l’onere della prova.

Ove, infatti, un fatto non risulterà sufficientemente provato il giudice dichiarerà il non liquet.

L’oggettività della giurisdizione penale e l’indefettibilità della stessa, importano, di contro, la sussistenza in capo all’Autorità Giudiziaria di poteri acquisitivi ex officio, liddove l’inerzia delle parti abbia condotto ad una insufficiente delineazione del quadro probatorio.

Ciò puntualizzato, si ricorda che l’istituto della conciliazione nel processo civile è contemplato e disciplinato dall’art. 185 c.p.c.

21 Come si vedrà nel prosieguo della presente trattazione, la predeterminazione, ad opera del legislatore penale, di casi in cui l’instaurazione del processo presupponga una attività propulsiva della persona offesa non può essere assimilata al principio della domanda che, ai sensi dell’art. 99 c.p.c. regola il processo civile; molteplici, infatti, sono le ragioni, che variano a seconda della tipologia di fattispecie penali procedibili a querela, sottese ad una siffatta previsione legislativa. Ad esempio, nei reati di violenza sessuale, per i quali l’art. 609 septies, c.p.,

dispone la procedibilità a querela della persona offesa, salvi alcuni casi specifici, trova la sua ratio nella tutela accordata alla riservatezza della

vittima che può decidere di non denunciare il fatto all’Autorità competente, atteso che la peculiarità dei delitti de quibus può, in alcuni casi, produrre

effetti pregiudizievoli ben più gravi sulla psiche della persona offesa, ove l’accaduto fosse reso pubblico ed ove fossero rinverditi i ricordi per esigenze di accertamento processuale.

18

Tale norma ha subito una modifica ad opera dell’art. 89, l. n. 353 del 26 novembre 1990 che ne ha abrogato il comma primo.

Nella sua formulazione originaria, infatti, la norma così disponeva: “se la natura della causa lo consente, il giudice istruttore, nella prima udienza, deve cercare di conciliare le parti disponendo, quando occorre, la loro comparizione personale”.

Orbene, la obbligatorietà dell’esperimento del tentativo di conciliazione ad opera del giudice istruttore limitata alla prima udienza finiva col rimanere de facto svuotato di contenuto.

Ciò in quanto per effettuare il tentativo di conciliazione si presuppone che il “giudice istruttore ed i difensori conoscano la causa in tutti i suoi aspetti, ciò che alla prima udienza non si verifica quasi mai”22.

La novella del 1990, come detto, abrogando il primo comma della disposizione in oggetto, ha sostanziato di contenuto la norma che, nella attuale formulazione, stabilisce che “il tentativo di conciliazione può essere rinnovato in qualunque momento dell’istruzione”.

Come vedremo successivamente, il legislatore penale, avendo asetticamente recepito la figura del “mediatore processuale”23, in base a cieche esigenze di celerità processuale, ha riproposto un problema di tal genere24.

22 In tal senso, MANDRIOLI, Manuale di diritto processuale civile,

Giappichelli, 1998, tomo II, 82. 23 Il particolare ruolo attribuito al giudice di pace nell’ambito della riforma è evidenziato nella Relazione al decreto legislativo del 28 agosto 2000 n. 274. In ossequio al distinguo individuato in dottrina tra la figura del “conciliatore” e la figura del “mediatore” - intendendo per il primo, un organo che ab externo e senza particolari poteri di ingestione, solleciti e

promuova una composizione bonaria della lite e, per il secondo, un organo che, in forza dei penetranti poteri riconosciutigli dalla legge, penetri nel merito della vicenda processuale - il legislatore del 2000 ha propeso per la delineazione del ruolo del giudice di pace secondo lo schema del mediatore. Si legge, infatti, nella Relazione: “… va da sé, quindi, che la nuova formulazione della causa estintiva esalta la funzione conciliatrice del giudice di pace, che diventa così un "mediatore effettivo": non solo conosce e apprezza i conflitti, ma dispone di strumenti in grado di suggellarne la composizione”. Una particolare ipotesi in cui detta caratteristica del giudice di pace si appalesa, a detta di DENTI, in I riti alternativi civili: caratteristiche e potenzialita'. La diffusione delle forme di risoluzione delle controversie diverse dalla giurisdizione ordinaria, Impresa & Stato n°40, pagina web, www.cittadinolex.com. è il caso della applicazione della causa di estinzione

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Anche in base al d.lgs. n. 274/00, infatti, sembra che il tempus di esperimento di tale tentativo di conciliazione sia proprio la prima udienza dibattimentale.

Una ulteriore precisazione. Non è un caso che il legislatore nel predisporre

l’istituto della conciliazione in sede civile abbia effettuato una puntualizzazione all’art. 183,. I co., c.p.c.:”…il giudice istruttore, quando la natura della causa lo consente, tenta la conciliazione….”.

Tale specificazione è indicativa del fatto che, ovviamente, l’esperimento del tentativo di conciliazione, “presuppone naturalmente la disponibilità in capo alle parti, dei diritti in contestazione”25.

del reato per condotte riparatorie prevista dall’art. 35 del decreto delegato. Osserva l’ A. che “in definitiva, gli istituti deflattivi, conciliativi ed estintivi delineati nel decreto contribuiscono, in piena sinergia, a configurare un sistema che vuole porsi come mezzo di tutela sostanziale dei beni giuridici lesi, più che come astratto ed indefettibile meccanismo retributivo conseguente alla commissione del reato. Va da sé, quindi, che la nuova formulazione della causa estintiva esalta la funzione conciliatrice del giudice di pace, che diventa così un "mediatore effettivo": non solo conosce e apprezza i conflitti, ma dispone di strumenti in grado di suggellarne la composizione”. 24 A tal proposito, BALDI, in Manuale del giudice di pace penale, Giuffrè ed., 2000, XXVI, osserva che il d.lgs. n. 274/00 non ha creato un nuovo “tipo di giudice di pace” ma “ha aggiunto alla ormai decennale competenza civile la nuova competenza in materia penale”. 25 MANDRIOLI, op.cit., 83.

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Lo spirito ed iLo spirito ed iLo spirito ed iLo spirito ed il l l l modus operandimodus operandimodus operandimodus operandi della riforma della riforma della riforma della riforma

SOMMARIO: 1 – La ratio legis sottesa al d.lgs. n. 274/2000: esigenze

pragmatiche di “accelerazione” della giustizia, trascendenti il principio della concentrazione. 2 - La competenza ratione materiae del giudice di pace, in sede penale. I principi e criteri direttivi di cui alla legge delega: i limiti edittali, la facilità di accertamento, la rimovibilità delle conseguenze naturalistiche. 3 - La surrettizia introduzione della figura del “reato bagatellare in concreto” e l’elusione de facto del principio di obbligatorietà dell’azione penale per effetto della tipizzazione della condizione di improcedibilità per “particolare tenuità del fatto”. Dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 34, d.lgs. n.274/00. 4 - Il tentativo di conciliazione: alternativo al dibattimento o al giudizio?

1 – La ratio legis sottesa al d.lgs. n. 274/2000: esigenze pragmatiche di “accelerazione” della giustizia, trascendenti il principio della concentrazione.

Non è ignoto al nostro sistema un anomalo

“fenomeno” che si sostanzia in una sovrapposizione tra esigenze di ordine pragmatico che acquistano una valenza giuridica ed esigenze giuridiche tout court.

Non infrequentemente, infatti, il nostro ordinamento ha aperto varchi, ad esigenze strettamente contingenti e transeunti – giuridicizzandole - di rilievo esclusivamente pratico.

Capitolo

2

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E’ accaduto, infatti, in alcune occasioni, che il legislatore, avvedutosi della instaurazione di una prassi contra ius, abbia ritenuto necessario un intervento normativo semmai volto unicamente ad esprimere, con maggiore enfasi, quello stesso concetto giuridico già presente nella norma, allo scopo unicamente di frenare la prassi deviante.

Tale fenomeno è tipico – ed assume le massime dimensioni – della legislazione emergenziale.

Si faccia l’esempio dell’art. 274 c.p.p. modificato dalla l. n. 332 dell’8 agosto 1995 che, rettificando il comma I della disposizione in oggetto, si prefiggeva unicamente lo scopo di limitare una applicazione distorta della norma, pur non innovando sostanzialmente la disposizione medesima.

“Le misure cautelari sono disposte: a) quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede in relazione a situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova …..le situazioni di concreto ed attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti…”.

Il testo anteriormente vigente stabiliva “…quando sussistono inderogabili esigenze attinenti alle indagini, in relazione a situazioni di concreto pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova”.

Orbene, dal punto di vista sostanziale l’intervento modificativo del 1995 non ha in nulla innovato il contenuto precettivo della disposizione in esame atteso che, senza ombra di dubbio, il “rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni” e la “mancata ammissione degli addebiti” non avrebbero potuto di certo costituire una “situazione di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova”.

Ed ancora. L’art. 506 c.p.p. stabiliva, nella formulazione

anteriore alla modifica apportata al comma secondo dalla c.d. legge Carotti 26, “il presidente …può rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici ed alle parti private già esaminate”

Orbene, tale formulazione appariva estremamente esaustiva e chiara.

26 Legge n. 479 del 16 dicembre 1999.

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Il legislatore confezionando siffatta disposizione, invero, mirava ad impedire che il giudice – in particolare, il presidente del collegio quando si procede dinanzi al tribunale in composizione collegiale – compromettesse la sua posizione di “super partes” intromettendosi nell’esame condotto dalle parti, degradando ad ipotesi meramente marginale e residuale – ed oltretutto unicamente in chiave integrativa e chiarificatoria – l’intervento giudiziale.

Attesa la ratio della disposizione citata era facilmente rilevabile che con la locuzione “ parti già esaminate” il legislatore avesse inteso riferirsi alla conclusione tanto dell’esame ad opera della parte richiedente l’escussione che del controesame condotto dalla parte portatrice di un interesse dialetticamente e processualmente opposto al richiedente.

Una formatasi prassi deviante, la quale assisteva – legittimandole - ad indebite intromissioni da parte del presidente del collegio che non si limitava ad intervenire, dunque, in chiave meramente integrativa, piuttosto rivestiva un ruolo attivo nell’ambito della cross-examination ha reso necessario – a detta del legislatore – un intervento correttivo della norma citata che nella sua attuale formulazione si presente così strutturata “il presidente…può rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici ed alle parti private …solo dopo l’esame ed il controesame”.

Questi casi evidenziati costituiscono soltanto alcuni degli innumerevoli esempi che ritroviamo nel nostro codice e che ci fanno comprendere come potrebbe, in alcuni casi, rifuggirsi da una proliferazione ipertrofica legislativa, che spesso risulta ingiustificata e non proporzionata alle effettive esigenze di innovazione precettiva.

Tanto premesso, andiamo ad analizzare con maggiore attenzione la problematica che ci interessa direttamente.

Orbene, anche per quanto concerne il settore oggetto della presente trattazione non sembra si verta in una situazione del tutto dissimile da quella poc’anzi indicata.

Non può revocarsi in dubbio che la problematica degli ingenti carichi giudiziari e delle difficoltà logistiche degli uffici strumentali all’amministrazione della giustizia costituisca una tematica di non limitato rilievo, attesa la sua inevitabile ripercussione sulla correttezza e sulla efficienza della amministrazione medesima.

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Tuttavia, non pare corretta in punto di diritto una siffatta tecnica legislativa.

La accidentalità delle esigenze sottese ad interventi normativi di tale portata costituisce fonte di inevitabili discrasie all’interno del sistema, fondato su rigorosi principi informatori che, per effetto di interventi correttivi non sostenuti da rationes strettamente giuridiche, finiscono con l’essere ineludibilmente compromessi.

Un fenomeno non dissimile si è verificato con riferimento alla istituzione del giudice di pace con competenze penale.

Se da un punto di vista squisitamente pratico, non si può tacere che la riforma in parola costituisce comunque un valido tentativo di deflazionare il carico giudiziario, in alcuni casi, insostenibile – atteso che le ingiustificate lungaggini del processo penale comportano, nella maggioranza dei casi, la vanificazione del principio della obbligatorietà dell’azione penale che, in virtù dell’istituto della prescrizione, viene sostanzialmente posto nel nulla – da un punto di vista sistematico-assiologico non può dirsi lo stesso.

Era del tutto prevedibile che, considerando quale prioritario obiettivo da perseguire la “accelerazione” della giustizia, si sarebbe finiti col creare una procedura penale avulsa dal sistema processuale penale in quanto in aperta collisione con essa.

A parere di chi scrive, la assunta natura bagattellare dei reati devoluti alla competenza del giudice di pace non legittima alcune vistose deroghe al sistema.

Delle due, l’una. O si considera il processo penale dinanzi al

giudice di pace, così come positivamente strutturato, un sistema a sé stante oppure dobbiamo concludere per la incompatibilità del impianto così articolato, con la struttura del processo intesa nella sua globalità.

Supra si è fatto riferimento ad esigenze di “accelerazione” della giustizia.

Qual è la natura giuridica – ci si chiede – di tali esigenze?

In verità, non è dato riconoscere a tali esigenze una valenza giuridica che piuttosto sembrano rivestire una portata metagiuridica.

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Le esigenze di “accelerazione”, si badi bene, non vanno confuse con le esigenze di “concentrazione” di indubbia natura giuridica.

Il principio di “concentrazione” esprime esigenze di “continuità” del processo – ed, in particolar modo, del dibattimento - che, una volta iniziato, deve svolgersi senza interruzioni, per giungere rapidamente alla conclusione27.

Ciò al fine di impedire che la qualità di imputato che riveste la persona sottoposta a processo penale perduri sine die; non è possibile, infatti, sottacere gli effetti stigmatizzanti che si producono nell’ambito sociale a carico di un soggetto che, pur non potendo essere considerato colpevole fino alla pronuncia di condanna definitiva, molto spesso viene “condannato” dalla società, subendo effetti pregiudizievoli in ambito lavorativo e relazionale che, una possibile sentenza di assoluzione, non sarà idonea ad elidere totalmente.

Tuttavia, il concetto di concentrazione, come anticipato, non è sovrapponibile all’altro, ben diverso, della accelerazione.

In forza di quest’ultimo, infatti, le esigenze di tutela della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato, sarebbero destinate, inevitabilmente a cedere il passo alle prioritarie esigenze di rapidità.

Ove si riconoscesse alla “rapidità” dell’accertamento, valenza prioritaria, si giungerebbe ineluttabilmente ad una “giustizia sommaria”; e tanto il giurista e l’esegeta, quanto l’operatore del diritto non possono non paventare, con una certa apprensione, tale pericolo.

27 In tal senso, DALIA-FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale,

ult. ed., CEDAM, 593.

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2 - La competenza ratione materiae del giudice di pace, in sede penale. I principi e criteri direttivi di cui alla legge-delega: i limiti edittali, la facilità di accertamento, la rimovibilità delle conseguenze naturalistiche.

Rinviando ad altra sede28 l’enumerazione e la

disamina puntuale delle materie oggetto della cognizione del giudice di pace in sede penale, in tale paragrafo, ci limiteremo ad esaminare i criteri informatori di quella che viene definita la “riforma epocale”29.

L’art. 15 della legge delega30 poneva due criteri ai quali l’Autorità delegata si sarebbe dovuta informare nell’espletamento della attività di individuazione dei reati da devolvere alla cognizione del giudice di pace31.

Un primo metodo consisteva nella elencazione specifica e puntuale dei reati da attribuire alla cognizione del giudice di pace; il secondo, invece, si sostanziava nella indicazione di specifici canoni, in base ai quali il Governo avrebbe dovuto selezionare le ulteriori fattispecie penali da deferire alla cognizione del medesimo giudice.

Focalizziamo, ora, l’attenzione su questi ultimi. Il legislatore delegante stabiliva che il legislatore

delegato avrebbe dovuto effettuare la scelta delle fattispecie penali rifluenti nella giurisdizione del giudice di pace, in base ai seguenti criteri: a) inclusione delle fattispecie punite con

28 Vedi infra, Sez. II, Cap. I. 29 In tal senso, BALDI, Manuale del giudice di pace penale, Giuffrè ed.,

2000, XXVI, il quale osserva che sebbene la riforma del 2000 non abbia creato un nuovo “tipo di giudice di pace” ma “abbia aggiunto alla ormai decennale competenza civile la nuova competenza in materia penale, si prenota per passare alla storia come riforma epocale, visto che essa, come poche altre riforme, si traduce in una scommessa sulla riuscita di un modello del tutto nuovo di giurisdizione che si fonda su una doppia tipologia di giudice: da un lato quella del magistrato di carriera, dall’altro quella del giudice di pace. 30 Legge n. 468 del 24 novembre 1999. 31 A tal proposito, si ricordi che la l. n. 374 del 21 novembre 1991 aveva delegato il Governo entro il 31 dicembre 1993 un decreto legislativo che individuasse le competenze penali del giudice di pace. Ben sei decreti-legge espansero l’efficacia temporale della legge delega che, tuttavia, non trovò mai attuazione.

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una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro mesi o, in alternativa, con una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena detentiva;

b) esclusione delle fattispecie aggravate che comportassero un inasprimento di pena oltre il limite edittale di cui al punto 1;

c) esclusione delle fattispecie rientranti nelle materie indicate nell’art. 34 della l. n. 689 del 24 novembre 1981;

d) esclusione delle fattispecie contemplanti violazioni finanziarie;

e) inclusione degli illeciti per i quali non sussistano difficoltà interpretative;

f) inclusione dei reati per i quali non ricorra la necessità di procedere ad indagini o a valutazioni complesse in fatto o in diritto.

Orbene, è agevolmente rilevabile come, in particolare, tali ultimi due criteri abbiano sostanzialmente aperto varchi ad amplissimi margini di discrezionalità nella individuazione delle fattispecie attribuite alla cognizione del giudice di pace.

Mentre il criterio sub e), pur apparendo di difficile applicazione - atteso che l’operatività del medesimo presupporrebbe un accertamento puntuale di carattere giurisprudenziale e dottrinale, all’esito del quale si possano escludere contrasti esegetici – sembra, comunque, non destare difficoltà di sorta, altrettanto non può dirsi per quanto concerne il criterio sub f).

La necessità di procedere all’espletamento di indagini complesse non può essere valutata in abstracto.

E’ possibile, in ipotesi, che l’apporto causale di un compartecipe nella commissione di un efferato delitto di maggiore allarme sociale risulti acclarato sul piano storico e che, pertanto, il suo accertamento non richieda l’espletamento di particolari indagini.

Di contro, è possibile che la responsabilità di un soggetto che si presume abbia commesso un fatto penalmente rilevante, connotato da un trascurabile disvalore sociale, implichi la necessità di accertamenti considerevoli.

A fortori, ciò vale con riferimento al secondo elemento contenuto nella stessa lettera f), atteso che le “valutazioni in fatto o in diritto” non sono che una frazione dell’attività orientata alla ricostruzione storicistica

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dell’accaduto, prodromiche alla sussunzione della fattispecie concreta in quella astrattamente tipizzata dal legislatore.

Per tali ragioni, riteniamo che il criterio in oggetto sia inidoneo a costituire una valida prescrizione, attesa l’impossibilità della medesima di operare in un ambito di astrazione legislativa.

Nonostante la difficile operatività di alcuni criteri prefissati in sede di delega, il legislatore delegato, all’art. 4 del d.lgs. n. 274/00, ha selezionato, in modo definitivo, le fattispecie da devolvere alla cognizione del giudice di pace.

Volendo sintetizzare, in linea di massima, è possibile affermare che l’intento perseguito dal legislatore delegante era quello di riservare alla cognizione del giudice di pace quelle fattispecie penali c.d. bagatellari, stante la peculiarità del bene giuridico protetto dalle relative norme incriminatrici, il limitato disvalore sociale delle condotte integranti gli estremi di tali fattispecie ed, inoltre, la semplicità di accertamento dei fatti relativi.

Per quanto concerne le fattispecie espressamente indicate nella legge-delega, nulla quaestio.

Mentre, infatti, con riferimento a queste ultime, è possibile riscontrare una perfetta corrispondenza tra le fattispecie individuate in sede delegante e le altre selezionate dal legislatore delegato, lo stesso non è a dirsi con riferimento alle tipologie di reati, per la cui predeterminazione erano stati fissati unicamente criteri e principi direttivi.

L’eccessiva eterogeneità dei criteri informatori di siffatta scelta selettiva, la laconicità e la duttilità degli stessi – con particolare riferimento ai summenzionati criteri sub e) ed f) - hanno prodotto una riforma non perfettamente aderente alla ratio legis, atteso che - e potremo cogliere tale aspetto nel prosieguo della trattazione, ove procederemo alla elencazione ed alla disamina dei reati la cui cognizione risulta devoluta per effetto del d.lgs. n. 274/00 al giudice di pace - non tutte le fattispecie selezionate risultano rivestire una effettiva natura bagatellare o, quantomeno, non tutte risultano direttamente riconducibili ai criteri direttivi.

In particolare, l’inclusione del delitto di cui all’art.1094 cod.nav., “rubricato insubordinazione ad ordine del superiore”, prevede la comminatoria di una pena – per le ipotesi aggravate – che può raggiungere anche i quattro anni di reclusione, superando ampiamente i limiti edittali individuati nella legge delega.

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Inoltre, infrange il divieto di attribuire alla cognizione del giudice di pace le fattispecie concernenti violazioni finanziarie la circostanza della inclusione delle ipotesi di cui agli artt. 18 e 20, l. n. 528 del 2 agosto 1982 che, secondo l’opinione predominante in giurisprudenza32, hanno natura di illeciti finanziari.

In ogni caso, pur a voler sottacere siffatte “dimenticanze” legislative, si ritiene che tale operazione di predeterminazione legislativa sia viziata in apicibus e derivi il vizio da cui risulta inficiata proprio dalla eccessiva elasticità e labilità dei criteri direttivi.

A parere di chi scrive, infatti, in primo luogo, non è concepibile far dipendere l’ascrizione della natura bagatellare di un fatto dalla maggiore o minore complessità delle indagini, necessarie ai fini della ricostruzione del fatto nella sua dimensione storicistica.

Invero, ad onta del fatto che il legislatore non abbia dichiaratamente asserito di voler riservare al giudice di pace la cognizione di reati c.d. bagatellari, non può revocarsi in dubbio che tale sia stata l’intenzione legislativa: ritagliare una fetta di giurisdizione a conduzione “domestica”.

Orbene, in basa a tale assunto risulta quantomeno difficile individuare un nesso logico tra la natura non socialmente allarmante di un fatto di reato e la maggiore o minore complessità delle indagini relative.

A sostegno di tale assunto, si ricorda che una dottrina33 evidenzia proprio la diversità del bene giuridico protetto dalle norme incriminatici, contemplanti le fattispecie devolute alla cognizione del giudice di pace:“si tratta di illeciti che non coinvolgono la privacy, l’ambiente, la sanità, lo Stato, la sicurezza del lavoratore la salute del consumatore”.

Da ciò si inferisce che la “natura” dell’illecito si atteggia come una peculiarità intrinseca della fattispecie, ed endogena alla medesima, a far tempo dalla venuta ad esistenza dell’illecito stesso.

In altri termini, ove si discorre della “natura” di un illecito non si può non fare riferimento ad un quid che connota l’illecito medesimo nella sua fase genetica.

Ora, far discendere la natura dell’illecito da una valutazione di ordine pragmatico e fattuale – quale è la

32 Ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, 6 febbraio 1987, in Cass. pen., 1988,

1261. 33 BALDI, Manuale del giudice di pace penale, Giuffrè ed., 2000, 48.

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necessità della effettuazione di indagini più o meno complesse – equivale a determinare una indebita sovrapposizione di momenti giuridicamente ed ontologicamente dissimili.

Da ciò derivano le perplessità avanzate dallo scrivente.

Ancorando a tali criteri contingibili una valutazione che, invece, esula dai medesimi, in quanto afferente ad un momento logicamente e cronologicamente antecedente rispetto alla medesima, comporta la attribuzione di una natura bagatellare anche a fattispecie che, in realtà, non rivestono tale qualità.

Ad esempio, risulta allo stato devoluto alla competenza del giudice di pace la condotta contravvenzionale – eccezionalmente solo dolosa - prevista dall’art. 17, co. III, l. n. 107 del 4 maggio 1990, che sanziona la condotta di chi “cede il proprio sangue o i suoi derivati a fini di lucro”.

Orbene, il legislatore ha effettuato una valutazione circa la minore dannosità sociale della condotta integrante questo tipo di reato, a fronte di una intrinseca ed evidente forte illiceità della stessa, per contrarietà a norme di ordine pubblico.

Indubbiamente l’attribuzione alla fattispecie in esame della natura di reato contravvenzionale è indicativa di una pregressa valutazione di opportunità di carattere politico-criminale condotta dal legislatore, che ha ritenuto di sanzionare in maniera meno grave34 una tale condotta; a fronte di ciò, tuttavia, non può sottacersi che con la devoluzione della cognizione del reato de quo al giudice di pace si rende applicabile il corredo sanzionatorio in bonam partem, di dubbia efficacia general-preventiva e special-preventiva.

A ciò si aggiunga, che come detto, non è dato presumere una maggiore facilità di accertamento, attesa l’impossibilità di ipotizzare l’effettuazione di una valutazione in abstracto di una circostanza marcatamente effettuale.

Le argomentazioni relative al non del tutto trascurabile disvalore connotante le fattispecie che, allo stato, risultano devolute al giudice di pace, valgono anche con

34 Invero, nonostante il legislatore consideri i delitti più gravi delle contravvenzioni, occorre rimarcare che, in alcuni casi, le contravvenzioni possono, da un certo punto di vista, considerarsi sanzionate in maniera più grave rispetto ai delitti, atteso che nelle prime si prescinde dall’accertamento dell’elemento psicologico, essendo le contravvenzioni punite indifferentemente a titolo di dolo o di colpa.

30

riferimento alle fattispecie puntualmente enumerate nella legge-delega.

Ovviamente, però, con riferimento a queste ultime possiamo limitarci esclusivamente ad effettuare delle considerazioni personali, fini a se stesse, atteso che l’individuazione delle fattispecie de quibus risulta rigorosamente effettuata in sede delegante.

A tal proposito, la nostra attenzione viene immediatamente incentrata sui delitti contro l’incolumità individuale.

Allo stato risultano riservati alla competenza del giudice di pace i reati di lesioni personali, punibili a querela della persona offesa, in quanto cagionino una impossibilità di badare alle proprie occupazioni per un tempo non superiore a venti giorni.

Alcuni reati quali, ad esempio, gli appena menzionati delitti contro l’incolumità individuale, appaiono dotati di un disvalore intrinseco.

Con ciò non vuole sicuramente postularsi la esistenza di un concetto di disvalore quasi meta-giuridico che sia presente oltre ed al di là dell’ordinamento; vuole, di contro, semplicemente affermarsi come almeno relativamente ad alcune fattispecie delittuose è ravvisabile – salvi momenti patologici della storia – una univocità di consensi circa la giustizia di alcune norme universalmente riconosciute – quali non uccidere, non ledere gli altri…-

Inoltre, con l’aver il legislatore ancorato la deferibilità al giudice di pace, della cognizione di determinate fattispecie penalmente rilevanti – nonché della esperibilità del tentativo di conciliazione35 - alla procedibilità a querela della persona offesa ha, invero, effettuato una indebita sovrapposizione di categorie giuridiche.

Questa tecnica legislativa appare fuorviante in quanto potrebbe ingenerare la falsa convinzione secondo cui, stante la discrezionalità riconosciuta alla persona offesa di avanzare la sua istanza di punizione nei confronti del presunto colpevole, sarebbe giustificato un procedimento di accertamento della responsabilità più esile ed una eventuale conciliazione tra le parti.

In verità, molteplici e disparate possono essere le ragioni politico-criminali per le quali il legislatore ha previsto

35 Art. 29, IV co., d.lgs. n. 274/00.

31

tale condizione di procedibilità con riferimento ad alcune fattispecie penalmente rilevanti.

La persona offesa che eventualmente decida di esercitare il proprio diritto di querela non si sostituisce ai titolari della pubblica accusa, limitandosi, con l’avvalimento di una propria facoltà, a rimuovere un ostacolo procedurale all’instaurazione di un processo penale; allo stesso modo, ove la persona offesa si determini per il non esercizio di tale facoltà, siffatta valutazione non inciderà – comprimendola - sulla originaria espansione del ius puniendi statuale, astrattamente esercitabile in tutta la dimensione primitiva, ma ne congelerà semplicemente l’esercizio, essendo un elemento che limita ab externo la pretesa punitiva.

Unicamente in forza di tale esegesi è possibile preservare il principio di obbligatorietà dell’azione penale – ex art. 112 Cost. – che, ove si propendesse per una diversa interpretazione, risulterebbe irrimediabilmente compromesso.

L’art. 649 c.p.p. implicitamente conferma l’assunto.

La disposizione contenuta nell’art. 69 c.p.p., a cui l’art. 649 c.p.p. espressamente rinvia, costituisce solo apparentemente una deroga al ne bis in idem.

In realtà la sopravvenienza di una condizione di procedibilità non implica l’operatività del divieto di un secondo giudizio, atteso che un giudizio non c’è mai stato.

Operando, infatti, la condizione di procedibilità, come detto, quale elemento esterno, non può la stessa minimamente implicare una restrizione del ius puniendi che è di imperio unicamente statale.

Tali argomentazioni sono addotte allo scopo di indicare che la procedibilità a querela della persona offesa non implica una sorta di disponibilità dell’azione penale, vigendo, nel nostro ordinamento, il principio monopolistico dell’azione penale, di spettanza esclusiva del Magistrato del Pubblico Ministero.

Se ciò è vero, dobbiamo concludere che far dipendere il riconoscimento di una funzione conciliativa del giudice di pace dalla procedibilità a querela della persona offesa, costituisce un errore macroscopico.

La disamina di tale problematica costituirà oggetto di specifica trattazione nel prosieguo della presente indagine.

32

Appare necessario sottolineare che la scelta legislativa volta all’inclusione dei delitti contro la libertà individuale nel novero delle fattispecie da devolvere alla cognizione del giudice di pace non sembra, inoltre, soddisfare quell’ulteriore criterio indicato nella legge-delega: i reati da selezionare sarebbero dovuti essere tali da consentire l’eliminazione delle conseguenze dannose, mediante una restitutio in integrum, eventualmente surrogata dal risarcimento per equivalente.

Tale criterio, come si è osservato36, veniva ideato allo scopo di esaltare la funzione prettamente conciliativa del giudice onorario.

Orbene, in tale tipologia di reati difficilmente è pensabile la rimozione totale delle conseguenze – ovviamente, naturalistiche – del reato medesimo.

Una effettiva rimozione delle conseguenze dannose è, ipotizzabile, ad esempio per quanto concerne la fattispecie di furto, in cui è possibile un ripristino della situazione quo ante mediante o la restituzione della cosa oggetto dello spossessamento altrui e del correlativo indebito impossessamento da parte dell’autore, oppure, ove la cosa fosse stata consumata, il risarcimento per equivalente.

Tale criterio, inoltre, risultava sostanzialmente disatteso anche con riferimento a tutte le fattispecie di mero pericolo, pure riservate alla giurisdizione del giudice non togato, per la cui consumazione è sufficiente la realizzazione della condotta, già di per sé idonea a produrre la messa in pericolo del bene protetto dalla norma incriminatrice.

Siffatta tipologia di reati è caratterizzata dalla assenza di un evento in senso naturalistico.

Se, dunque, manca un evento, inteso quale modificazione tangibile della realtà effettuale, cagionata dall’azione umana, considerata quale movimento corporeo atto a causare tale mutazione dell’ambiente esterno, non si vede come sia possibile ipotizzare la rimovibilità di un effetto che in realtà non si è mai prodotto.

Si pensi, ad esempio, alle condotte di mero inadempimento degli ordini della Pubblica Amministrazione ex art. 650 c.p.

36 In tal senso, BALDI, Manuale del giudice di pace penale, Giuffrè ed.,

2000, 57.

33

Una dottrina37 ha paventato – con riferimento a detta tipologia di illeciti – una illegittimità incostituzionale, per contrarietà all’art. 76 Cost., atteso che, in sede delegata, venivano, in buona sostanza, disattesi i principi e criteri direttivi di cui alla legge-delega.

Nella relazione al decreto legislativo si difende, comunque, la scelta governativa asserendo che alla stregua del criterio di cui all’art. 15, III co., legge-delega, “si sarebbe dovuta negare la competenza del giudice di pace in relazione ai reati per i quali sia impossibile una restitutio in pristinum, quand’anche nella forma surrogata del risarcimento”.

“Peraltro, così operando, si sarebbe prodotto l’effetto paradossale di attribuire al giudice di pace reati di maggiore gravità (con tutto il nuovo corredo sanzionatorio in bonam partem ) escludendo, invece, dalla sua competenza fattispecie di pericolo astratto in relazione alle quali non sia ravvisabile alcuna conseguenza dannosa e, dunque, presumibilmente meno gravi oltre che di accertamento più agevole…Alla luce di queste considerazioni, il richiamo alle conseguenze dannose del reato è stato inteso in senso atecnico…In conclusione, si è ritenuto opportuno escludere dal novero dei reati di competenza del giudice di pace quelli suscettibili di produrre effetti non rimovibili; viceversa sono stati attribuiti a questo giudice, quelli che per la loro tipologia, producano conseguenze eliminabili come anche quelli che non producano affatto conseguenze”.

37 Vedi nota precedente.

34

3 - La surrettizia introduzione della figura del “reato bagatellare in concreto” e l’elusione de facto del principio di obbligatorietà dell’azione penale per effetto della tipizzazione della condizione di improcedibilità per “particolare tenuità del fatto”. Dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 34, d.lgs. n. 274/00.

Come si è in precedenza analizzato, l’eccessiva

eterogeneità dei principi e criteri direttivi di cui alla legge-delega, ai quali il legislatore delegato si sarebbe dovuto ispirare nell’espletamento della propria attività di selezione delle fattispecie da devolvere alla cognizione del giudice onorario, ha prodotto una situazione estremamente caotica.

Risulta, infatti, arduo individuare un denominatore comune alle fattispecie definitivamente delineate in sede delegata.

Criticabile, inoltre, appare la tecnica legislativa utilizzata che, in sostanza, introduce un doppio binario, ora incentrato su disposizioni in deroga al codice di procedura penale, ora sulle regole codicistiche non incompatibili con il decreto38, con buona pace degli obiettivi prioritari della riforma, identificabili con la semplicità e la snellezza della procedura.

Ad ogni modo, sebbene non vada esente da critiche la scelta legislativa effettuata tanto in sede delegante che in quella delegata, non resta che prendere atto dell’attuale assetto normativo.

Il legislatore ha ritenuto che alcune fattispecie penalmente rilevanti potessero essere acclarate con un procedimento più esile, corredato da un apparato sanzionatorio ad hoc, motivando tale scelta a volte con la scarsa offensività delle fattispecie, altre con una presunta rapidità di accertamento delle medesime, altre ancora con la supposta circostanza che le relative questioni non implicassero particolari problemi esegetici.

38 Si veda, a tal proposito, l’art. 2, d.lgs. n. 274/00.

35

Fin qui, la situazione appare tollerabile, dato che si è tentato - sia pur, non sempre, conseguendo i risultati sperati - di predeterminare, in sede di delega, con una sufficiente chiarezza, i criteri che avrebbero dovuto sostenere il delegato nell’ardua operazione di selezione delle fattispecie c.d. “bagatellari”.

Tanto, per imprescindibili esigenze di legalità. Non possono, invece, sottacersi le perplessità dalle

quali siamo assaliti, invece, nel momento in cui ci accingiamo ad esaminare l’art. 34, d.lgs. n. 274/00, che in buona sostanza pone nel nulla tutta l’attività espletata in sede delegata e delegante, finalizzata alla predeterminazione tassativa dei reati bagatellari.

E’ indubbio, infatti, che il legislatore delegante, prima, e quello delegato, poi, abbiano introdotto un sistema parallelo all’ordinario iter accertativo della responsabilità penale dell’imputato, corredato da un impianto procedurale e sanzionatorio a se stante.

Per tale ordine di motivi, il legislatore ha avvertito la necessità di predeterminare, in abstracto, quelle fattispecie che risultassero “bagatellari”.

Ciò in quanto, unicamente in sede legislativa, è ammissibile siffatta valutazione, essendo per l’appunto, riservata a detta sede l’effettuazione delle valutazioni politico-criminali che conducono alla “penalizzazione” od alla “depenalizzazione” di un fatto.

Con l’introduzione dell’art. 34, d.lgs. n. 274/00, tale assunto che sembrava costituire un principio incontrastato ed incontrastabile del nostro sistema, viene fatto vistosamente vacillare.

A tenore della disposizione citata, infatti, il giudice può, valutando alcune circostanze espressamente indicate, concludere per la “particolare tenuità del fatto”, in tal modo escludendo la procedibilità.

Orbene, siamo di fronte ad una prima incongruenza.

La condizione di procedibilità, ontologicamente, si pone quale ostacolo, ab externo, condizionante l’avvio o la prosecuzione di un procedimento penale.

Il giudice – terzo ed imparziale – è chiamato, ove ne ravvisasse l’esistenza, a dichiarare sussistente una condizione di improcedibilità; in altri termini, si limiterà a

36

prendere atto di tale circostanza, non potendo in alcun modo influire sulla operatività della stessa.

Ciò, in quanto trattasi di elementi di ordine strettamente procedurale, che prescindono da qualsivoglia accertamento di merito.

Ebbene, l’art. 34 citato ci pone dinanzi ad una realtà affatto diversa.

In questo caso, infatti, siamo in presenza di una (supposta) condizione di procedibilità che invece di costituire un elemento ostativo dell’accertamento, in effetti, lo presuppone.

Basti pensare ai parametri, forniti dal legislatore, in base ai quali vagliare la tenuità del fatto: l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, la sua occasionalità e il grado della colpevolezza .

E’ di tutta evidenza, che dette valutazioni sono assolutamente esaustive al fine di fondare una pronuncia nel merito.

Il giudice, infatti, ha valutato il fatto nella sua dimensione storicistica, ha individuato un presunto autore, ha asserito l’attribuibilità del fatto storico al suo autore, sia in termini psichici che in termini causali, ha sussunto il fatto nella correlativa fattispecie astratta, ha valutato l’entità delle conseguenze naturalistiche e giuridiche che ne sono derivate, ha effettuato valutazioni in ordine alla riprovevolezza normativa dell’agente ed, inoltre, ha considerato un quid pluris: la occasionalità della condotta, spingendo il proprio giudizio anche alla pregressa attività delinquenziale dell’agente.

Brutalmente, potremmo dire, il giudice ha, in tal modo, concluso il processo.

Al lume di tali argomentazioni, la ratio sottesa a tale istituto appare difficilmente riscontrabile.

La Relazione al decreto del 2000 individua quale ratio ispiratrice dell’art. 34 la deflazione processuale.

Ma come è possibile riconoscere tale funzione ad una condizione di procedibilità che implica siffatte penetranti valutazioni di merito?

A tal proposito, un’attenta dottrina39 osserva che lo scopo della deflazione “viene raggiunto solo se si evita che i

39 BALDI, BALDI, Manuale del giudice di pace penale, Giuffrè ed., 2000,

307.

37

fatti penali giungano ad avere rilevanza processuale mentre è evidente che, nel caso di specie, un processo nasce e chiede di essere condotto a termine”.

La medesima dottrina – poi con una asserzione non condivisibile – tenta di individuare la reale ratio di tale norma, facendola coincidere con “l’esigenza di attribuire alla pena una funzione veramente rieducativa…”.

Ma si badi bene. Siamo in presenza di un errore logico prima

ancora che giuridico. Una cosa è discorrere della rilevanza penale di un

fatto e dell’esercizio dell’azione penale per un fatto e altro è discorrere della sanzione da comminare nel caso concreto.

La fase di comminazione della pena presuppone che sia stata esercitata l’azione penale per un fatto, che un processo sia stato celebrato e che questo si sia concluso con una sentenza passata in giudicato.

La condizione di cui all’art. 34, d.lgs. n. 274/00, si badi bene, osta allo stesso avvio di un procedimento penale o, nel caso di cui al comma III40, alla conclusione del processo.

Da ciò, non è dato, quindi, inferire una ratio di valenza retribuzionistica.

Ciò che maggiormente preoccupa – in quanto contrastante con i principi del nostro sistema accertativo della responsabilità penale – è che risulta attribuito al giudice un amplissimo margine di discrezionalità, nella valutazione della “tenuità” del fatto.

E, si badi bene, in tal modo non si riconosce al giudice un potere riconducibile al normale margine di discrezionalità, attribuita al medesimo dal legislatore nella

40 Il comma III dell’art. 34, d.lgs. n. 274/00 così suona: “se è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto, può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono”. Secondo le argomentazioni di cui al testo più che qualificarla – come fa il legislatore – “definizione alternativa del procedimento”, dovrebbe essere qualificata a tutti gli effetti sentenza “ordinaria” di assoluzione. Ciò, in quanto, in primo luogo, il giudice ha valutato tutte le circostanze di merito che avrebbero costituito oggetto di giudizio anche se il processo si fosse definito seguendo le vie ordinarie, ed in secondo luogo, in quanto non sarebbe più riconoscibile una presunta funzione deflattiva all’istituto in esame, atteso il momento processuale in cui viene pronunciata – dibattimento - e la forma solenne nella quale viene cristallizzata – sentenza - .

38

commisurazione della pena, bensì gli si consente di dichiarare la non procedibilità.

In buona sostanza, il giudice può decidere se un fatto va considerato penalmente rilevante.

Ma questa valutazione è di competenza esclusiva del legislatore, che deve in astratto predeterminare le fattispecie penalmente rilevanti.

Delle due, l’una. O il legislatore ritiene che una fattispecie rivesta

rilevanza penale, o ritiene che non la rivesta e che, pertanto, debba essere depenalizzata.

Ma è inaccettabile la soluzione mediana che vede una prima valutazione a livello legislativo di disfavore verso un dato fatto e, poi, una valutazione in concreto condotta dal giudice, che può disporre di non procedere in relazione a quel fatto.

Si consideri che con la introduzione all’art. 34, della speciale condizione di improcedibilità per “particolare tenuità del fatto” si consente all’accesso surrettizio, nel nostro sistema, della figura del reato “bagatellare in concreto”, con buona pace del principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Come si legge nella Relazione al decreto delegato, “non è la fattispecie astratta a risultare bagatellare, ma la sottofattispecie concreta”41.

Una siffatta asserzione rappresenta, a detta di chi scrive, un serio vulnus al principio di legalità.

Non pare azzardato sollevare, a tal proposito, dubbi di illegittimità costituzionale della norma de qua per contrarietà all’ art.112 Cost. che, solennemente, consacra il principio di obbligatorietà dell’azione penale.

La disposizione costituzionale, nella sua particolare vis precettiva, risulterebbe sostanzialmente tamquam non esset ove si facesse dipendere la sua operatività da una valutazione di carattere marcatamente discrezionale.

Diversamente è a dirsi ove si predetermini legislativamente una causa di improcedibilità oggettivamente

41 La Relazione medesima continua facendo l’ esempio del il reato di lesioni personali: “la fattispecie incriminatrice astratta, non può certo dirsi bagatellare, perché essa sanziona comportamenti meritevoli di sanzione penale; e, tuttavia, possono darsi in concreto fatti di lesione contrassegnati da una particolare tenuità di disvalore che non giustificano l’esercizio dell’azione penale”.

39

rilevabile, quale, ad esempio la mancanza della autorizzazione a procedere o la carenza di una istanza, querela o denuncia.

La duttilità della condizione di improcedibilità di cui all’art. 34, d.lgs. n. 274/00 fa, di fatto, dipendere da una valutazione de casu di opportunità l’esercizio dell’azione penale.

Pur potendo apparire ultroneo, giova ricordare che l’art. 112 Cost. non effettua alcuna graduazione delle fattispecie penalmente rilevanti al verificarsi delle quali sussiste l’obbligo di esercizio dell’azione penale.

Ciò in quanto l’obbligatorietà dell’azione penale è un principio contenuto nella nostra Grundnorm che, pertanto, non può essere disatteso dal legislatore ordinario.

Ecco che liddove il legislatore ordinario abbia reputato di dover “penalizzare” un certo ambito della vita sociale, è – implicitamente - obbligato a predisporre gli strumenti affinché il principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito da norma gerarchicamente sovraordinata, rivesta piena effettività.

Di converso, l’alternativa a ciò, consiste nel “depenalizzare” un certo ambito di vita sociale, effettuando, in sede legislativa, una valutazione politico-criminale di inopportunità della pena.

40

4 – Il tentativo di conciliazione: alternativo al dibattimento o al giudizio?

Tra i principi regolatori del procedimento davanti

al giudice di Pace – ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 274/00 – individuiamo il criterio sul quale si incentra la presente indagine: l’esperimento del tentativo di conciliazione.

Il comma II del citato articolo stabilisce: “nel corso del procedimento, il giudice di pace deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti”.

Come in precedenza evidenziato, risulta arduo riconoscere al Giudicante, in sede penale, l’attribuzione di una giurisdizione - e, dunque, di una funzione - “conciliativa”.

Tanto, in considerazione del ruolo super partes rivestito dal giudice e della natura giuspubblicistica della funzione espletata dallo stesso nell’ambito del procedimento penale, il quale risulta essere strumentale – ove si ravvisino gli estremi per l’attribuibilità di un fatto giuridico ad un soggetto – all’attuazione della pretesa punitiva statuale.

Probabilmente lo stesso legislatore ha avvertito il disagio derivante da un indiscriminato riconoscimento della funzione “conciliativa” al giudice in sede penale.

Ma procediamo per gradi. Va immediatamente evidenziata una prima

discrasia riscontrabile che si appalesa dal combinato disposto degli artt. 2 e 29, IV co., d.lgs. n. 274/00.

L’art. 2, comma II, del decreto delegato eleva il tentativo di conciliazione – istituto per il cui tramite si ipostatizza la giurisdizione conciliativa del giudice di pace – a “principio generale del procedimento dinanzi al giudice di pace”42.

Il “principio generale”, per definizione, è un elemento dotato di una particolare vis cogente; esso, pur traendo origine dall’ordinamento nel suo complesso – sia pure settorialmente considerato, come nel caso di specie - assurge ad elemento allo stesso sovraordinato.

42 Tale è, infatti, la rubrica dell’articolo citato nel testo.

41

Orbene, in coerenza con tale qualificazione giuridica, il principio non avrebbe dovuto subire limitazioni di sorta, per quanto concerne la sua sfera di operatività.

Invero, in primo luogo, l’art. 29, d.lgs. n. 247/00, sembra limitare la sua esperibilità alla prima udienza a fronte della disposizione di cui all’art. 2, II co., del decreto delegato che suggerisce il ricorso al tentativo di conciliazione “nel corso del procedimento”, dunque, senza limitazioni di sorta.

Tuttavia, se si escludesse che l’art. 29 menzionato circoscrive l’operatività del tentativo di conciliazione alla sola prima udienza di comparizione43 si andrebbe definitivamente a compromettere le finalità deflattive che la riforma – con le perplessità sollevate – si propone.

Una seconda limitazione viene subito individuata all’art. 29, VI co., d.lgs. n. 274/00: “il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti”.

Tale contrazione dell’ambito applicativo dell’istituto de quo, è sintomatica di un disagio del legislatore nel riconoscimento di una vera e propria funzione conciliatrice nel procedimento dinanzi al giudice di pace, in sede penale.

Invero una norma similare a quella contenuta nell’art, 29 del decreto delegato viene rinvenuta anche nell’ambito delle disposizioni codicistiche.

Ci si intende riferire al dato normativo contenuto nell’art. 555, III co. c.p.p..

Tuttavia, la situazione normativa risulta affatto diversa44 da quella attualmente contemplata dall’art. 555, III co., c.p.p. per quanto concerne il procedimento dinanzi al Tribunale in composizione monocratica.

Nel menzionato articolo, infatti, il giudice si limita a verificare se il querelante è disposto a rimettere la querela ed il querelato ad accettare la remissione.

Tale attività che potremmo definire di carattere meramente ricognitivo, in realtà non può ritenersi esaurire l’attività conciliativa del giudice, altrimenti – ci si chiede – che senso avrebbe avuto utilizzare la locuzione “tentativo di conciliazione” se il legislatore avesse inteso limitare l’attività del Giudicante alla mera verificazione dei presupposti di una condizione di improcedibilità?

43 L’art. 29, d.lgs. n. 274/00 reca la rubrica: “udienza di comparizione”. 44 Contra, vedi BALDI, in Manuale del giudice di pace penale, Giuffrè ed.,

2000, 274.

42

Come sopra cennato, la limitazione dell’operatività del tentativo di conciliazione alle sole fattispecie procedibili a querela di parte non può non essere indicativa dell’imbarazzo del legislatore che, diversamente, avrebbe potuto attribuire all’istituto in parola una operatività di gran lunga maggiore.

Inoltre, tale limitazione è foriera di equivoci. Sembrerebbe, infatti, concepibile una

conciliazione solo ove la prosecuzione del processo dipendesse – detto brutalmente - dalla volontà delle parti, quasi ingenerando la erronea convinzione che il processo, in tal caso fosse “disponibile” dalle parti.

E’ per tale ragione, dunque, che il legislatore ha ancorato l’operatività dell’istituto alla procedibilità a querela.

Siccome la conciliazione implica - o quantomeno - rievoca una sorta di disposizione del giudizio, era necessario ancorare la sua esperibilità alla procedibilità a querela di parte.

Né, diversamente, potrebbe sostenersi che le ragioni di tale scelta legislativa risiedano nella minore gravità da cui sono connotati i reati perseguibili a querela; ciò costituisce un errore.

Come detto, svariate possono essere le ragioni di carattere politico-criminale che hanno condotto il legislatore a propendere per la officiosità o per la procedibilità a querela.

Ma, pur a voler prescindere da ciò – se il legislatore avesse inteso limitare gli effetti dell’esperimento del tentativo di conciliazione al mero accertamento della volontà persona offesa-querelante di mantenere o di rimettere la querela e del querelato, eventualmente, di accettarla, perché mai avrebbe utilizzato la locuzione “conciliazione”?

In realtà, non è semplicemente questa la significazione che il legislatore intendeva attribuire a tale locuzione.

Si osserva, infatti, che non avrebbe avuto senso la disposizione di cui al IV comma, seconda parte, dell’art. 29, decr.deleg., nella quale si attribuisce al giudice la facoltà di disporre un rinvio dell’udienza - che si appalesi utile alla conciliazione tra le parti – al fine anche di avvalersi, “ove occorra, dell’attività di mediazione di centri o strutture pubbliche o private presenti sul territorio”.

Come si è detto, infatti, la “conciliazione” è un concetto più ampio, comprensivo anche dell’altra figura della transazione, nella accezione processualistica del termine.

43

Le parti non si limitano a fare reciproche concessioni, atteso che con la conciliazione si producono oltre che effetti di carattere sostanziale, anche ulteriori effetti processuali: primo fra tutti, la definizione del giudizio.

Orbene, ci si chiede, il tentativo di conciliazione, che sia andato a buon fine, è alternativo al dibattimento o al giudizio?

In realtà, l’esperimento del tentativo di conciliazione si colloca in un momento processuale immediatamente precedente la dichiarazione di apertura del dibattimento.

Infatti, il IV comma dell’art. 29, d.lgs. n. 274/00, individua i casi in cui è possibile procedere all’espletamento di tale attività conciliativa; il V comma, disciplina le modalità di formalizzazione di tale attività ed il VI comma, invece, statuisce: “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento l’imputato può presentare domanda di oblazione”, con ciò lasciando intendere che le attività di cui ai commi precedenti debbano essere espletate in un momento temporalmente antecedente la dichiarazione di apertura del dibattimento.

Una dottrina sostiene45 – sia pure con riferimento al processo civile – che “si è generalizzata negli ordinamenti contemporanei la tendenza a risolvere i gravi problemi della giustizia civile, dovuti principalmente all'incremento della litigiosità, mediante il ricorso a forme alternative di risoluzione delle controversie; alternative, s'intende, rispetto alla giustizia dello Stato”.

In un’ottica strettamente tecnicistica, potrebbe affermarsi che, effettivamente il tentativo di conciliazione risulta alternativo al dibattimento.

A sostegno di tale asserto, potrebbero essere addotte oltre che le argomentazioni di carattere testuale precedentemente enucleate – la successione cronologica dei commi IV, V e VI dell’art. 29 del decreto delegato – anche deduzioni di ordine latamente politico.

Se è vero, infatti, che la ratio legis va ricercata nell’esigenza deflattiva46 del carico giudiziario, potrebbe

45DENTI, I riti alternativi civili: caratteristiche e potenzialita'. La diffusione delle forme di risoluzione delle controversie diverse dalla giurisdizione ordinaria, Impresa & Stato n°40, pagina web, www.cittadinolex.com. 46 Volendo volgere uno sguardo alle tendenze evolutive del fenomeno conciliativo negli ordinamenti contemporanei, non possiamo omettere di

44

asserirsi che tale meccanismo alternativo veniva predisposto dal legislatore allo scopo, per l’appunto, di decongestionare il sistema penale, evitando che i procedimenti giungessero ad una fase avanzata di trattazione.

In tal senso, dunque, l’istituto del tentativo di conciliazione si atteggerebbe a strumento “alternativo al dibattimento”.

Da tale qualificazione, discende la circoscrizione di operatività dell’istituto de quo unicamente alla prima udienza, ovvero in un momento processualmente antecedente alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

Come osservato47, in tale fase, però, il giudice non “conosce ancora bene il processo…non avendo ammesso le prove e non essendo ancora in possesso del fascicolo per il dibattimento”.

Da un diverso angolo prospettico, tuttavia, considerando gli amplissimi effetti prodotti dall’esperimento del tentativo di conciliazione andato a buon fine, cristallizzato nel verbale di conciliazione48, potrebbe inferirsi una diversa

rilevare che il paese in cui il movimento ha avuto le sue più rilevanti manifestazioni è gli Stati Uniti, nei quali la court congestion, dovuta all'incremento litigation expolosion in settori come la responsabilità civile,

si è aggravata per le caratteristiche del sistema processuale. La tendenza al diffondersi di forme alternative di soluzione delle controversie è culminata, nel 1990, nella entrata in vigore del Civil Justice Reform Act, che ha imposto alle Corti federali di adottare procedure alternative, con la finalità precisa di ridurre la durata e i costi della giustizia, nonché il carico del lavoro giudiziario. Conseguenza rilevante di tale fenomeno è stata, sul piano sociale, la discriminazione nelle concrete possibilità di accesso alle corti, a danno dei soggetti privi dei mezzi economici necessari per sopportare il costo, anche in termini di durata, della giustizia. Le forme assunte da queste procedure sono state le più varie, dai mini trials alla

mediazione, diretta da un tecnico neutrale incaricato dal giudice, a forme di count-annexed arbitration, previste per le cause di minor valore in tema

di risarcimento danni: modalità di tutela che potranno considerare come una forma di arbitrato obbligatorio, tuttavia non vincolante, in quanto le parti, dopo la pronuncia del lodo, possono non accettarlo e chiedere la riapertura del trial. Dalle esperienze straniere possiamo estrapolare un

dato non irrilevante: la conduzione delle procedura alternative risulta affidata ad un terzo imparziale nominato dal giudice. Con la riforma del giudice di pace, entrata in vigore in Italia, invece, si è realizzata una poco condivisibile commixtio di funzioni, in capo all’Organo giudicante. 47 In tal senso, BALDI, in Manuale del giudice di pace penale, Giuffrè ed.,

2000, 275. 48 Nel prosieguo della presente indagine, sarà, inoltre, affrontata la non agevole questione relativa alle forme di verbalizzazione della conciliazione avvenuta tra le parti e della conseguente efficacia del verbale medesimo,

45

funzione dell’istituto de quo che andrebbe, in buona sostanza ad atteggiarsi quale strumento “alternativo al giudizio”.

Si consideri, infatti, che una volta formalizzata l’attività conciliativa svolta dal giudice - che abbia sortito gli effetti attesi - il procedimento non prosegue; esso, infatti, viene definito.

A tal proposito, tuttavia, andrebbero effettuate alcune considerazioni relative all’efficacia rivestita dal verbale di conciliazione redatto all’esito dell’espletamento dell’attività conciliativa.

Ma pur a voler prescindere da dette considerazioni, afferenti alla natura giuridica ed alla efficacia processuale del verbale di conciliazione - che riteniamo opportuno riservare ad una sede più appropriata – non può revocarsi in dubbio che l’effetto processuale tipico che si produce al momento del perfezionamento del verbale di conciliazione sia la definizione del procedimento.

Attesa, dunque, l’irreversibilità degli effetti prodottisi e considerata la complessità dei medesimi, potrebbe verosimilmente concludersi per la qualificazione di strumento alternativo al giudizio, o addirittura alternativo alla giustizia dello Stato49.

con riferimento alla idoneità di quest’ultimo a rivestire una vis giuridica,

assimilabile all’autorità della cosa giudicata. 49 DENTI, in Impresa & Stato n°40, I riti alternativi civili: caratteristiche e potenzialita' la diffusione delle forme di risoluzione delle controversie diverse dalla giurisdizione ordinaria, asserisce, sia pure con espresso riferimento al

processo civile, che “si è generalizzata negli ordinamenti contemporanei la tendenza a risolvere i gravi problemi della giustizia civile, dovuti principalmente all'incremento della litigiosità, mediante il ricorso a forme alternative di risoluzione delle controversie; alternative, s'intende, rispetto alla giustizia dello Stato”.

46

47

La dimensione positiva della c.d. giurisdizione La dimensione positiva della c.d. giurisdizione La dimensione positiva della c.d. giurisdizione La dimensione positiva della c.d. giurisdizione

“conciliatrice” “conciliatrice” “conciliatrice” “conciliatrice”

SOMMARIO:1 - I requisiti necessari per conseguire la nomina a giudice di

pace. 2 - Il pre-giudizio del giudice della conciliazione: l’escamotage legislativo per aggirare la causa d’incompatibilità non positivizzata del giudice di pace che ha esperito il tentativo di conciliazione. 3 – Le modalità di esperimento del tentativo di conciliazione. 4 - Insufficienza delle modalità di verbalizzazione positivamente tipizzate. 5 – Esiti dell’attività conciliativa. Il dibattimento quale ipotesi residuale nel processo dinanzi al giudice di pace. 6 - La causa di estinzione del reato per condotte riparatorie e l’improcedibilità per tenuità del fatto quali elementi in cui la funzione conciliatrice si ipostatizza.Il ruolo di “scavalcamento” della persona offesa rivestito dal giudice di pace. 7 – Note di diritto processuale penale comparato: la “mediazione processuale” negli ordinamenti europei. 8 - Conclusioni: La penalizzazione come extrema ratio. De iure condendo, una proposta coerente con l’architettura sistematica del processo penale.

1 - I requisiti necessari per conseguire la nomina a giudice di pace.

Al fine di delineare la figura professionale del

giudice non togato, risulta opportuno individuare i requisiti necessari per conseguire la nomina a giudice di pace.

Capitolo

1

48

L’art. 5 della l. n. 374 del 1991, così come sostituito dall’art. 3, l. 24 novembre 1999 n. 468 richiede che il giudice di pace:

1) sia cittadino italiano; 2) che abbia il pieno esercizio dei diritti civili e

politici e, cioè, non sia stato dichiarato fallito (o, nel caso in cui esista la dichiarazione di fallimento, sia stato riabilitato), né sia stato provvisoriamente o definitivamente interdetto;

3) non abbia riportato condanne (irrevocabili, ad onta del fatto che il legislatore non lo puntualizzi espressamente) per delitti non colposi o a pena detentiva per contravvenzione e non sia sottoposto a misura di sicurezza detentiva o a misura di prevenzione;

4) abbia conseguito la laurea in giurisprudenza, qualunque sia stata la votazione;

5) abbia idoneità fisica e psichica, intendendosi per idoneità psichica l’assenza di malattie anche non mentali che incidano sul sistema nervoso;

6) abbia un’età non inferiore a trenta anni e non superiore a settanta 50;

7) abbia superato l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense51;

8) abbia cessato, o si sia impegnato a cessare prima dell’assunzione delle funzioni di giudice di pace, l’esercizio di qualsiasi attività lavorativa dipendente, pubblica o privata;

9) sia persona capace di assolvere degnamente, per indipendenza, equilibrio e prestigio acquisito e per esperienza giuridica e culturale, le funzioni di magistrato onorario.

Dalla elencazione dei requisiti positivamente richiesti per poter rivestire l’ufficio del giudice di pace emerge,

50 Nella previsione contenuta nella versione originaria della legge n.374/1991, tra i requisiti per accedere alla carica di giudice di pace era richiesta un’età compresa tra i cinquanta ed i settanta anni. 51 Tale requisito, tuttavia, non è richiesto nel caso in cui l’aspirante giudice di pace abbia esercitato funzioni giudiziarie, anche onorarie, per almeno un biennio o nelle ipotesi in cui abbia insegnato materie giuridiche nelle università, abbia espletato funzioni notarili, abbia svolto funzioni inerenti alle qualifiche dirigenziali ed alla ex carriera direttiva delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie.

49

con chiarezza, che non occorre una particolare ed approfondita preparazione tecnica.

Il requisito indicato sub) 5 – a dir poco risibile – sembra, in particolare, non avere alcuna efficacia discriminante, atteso che risulta in sostanza applicabile soltanto nelle ipotesi in cui l’aspirante sia affetto da patologie che palesemente vadano ad incidere in misura significativa sull’equilibrio psichico.

In realtà, siffatti requisiti sarebbero stati soddisfacenti se il legislatore avesse delineato un modello diverso di giudice di pace; se, cioè, non avesse affidato al medesimo attribuzioni che richiedano oltre che una particolare competenza tecnica, anche una particolare sensibilità.

Ci si intende riferire alle valutazioni che il giudice di pace è abilitato a condurre con riferimento alla sentenza di estinzione del reato per l’intervento di condotte riparatorie e risarcitorie.

Come avremo modo di rilevare nel prosieguo della presente trattazione, l’art. 35, II co.,d.lgs. n. 274/00, come talaltro si legge anche nella relazione di accompagnamento al decreto delegato, statuisce che il giudice di pace pronuncia la sentenza de qua solo se le condotte riparatorie sono idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione.

“Può accadere, infatti, che le attività riparatorie, sia pure espletate in modo adeguato a compensare la vittima o a reintegrare l'offesa e perciò stesso intessute anche di uno spessore sanzionatorio, non consentano di contrastare sufficientemente l'illecito sul versante delle retribuzione e della prevenzione.

In questi casi, cioè, il risarcimento e l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato non integrano un presidio sanzionatorio sufficiente a compensare il disvalore complessivo dell'illecito e/o le esigenze di prevenzione speciale.

Si pensi, ad esempio, ad un reato commesso con modalità particolarmente gravi o insidiose per la vittima, ovvero da un autore con una spiccata capacità a delinquere.

Il giudice di pace è chiamato a valutare se occorre "punire" il soggetto agente, quando risulta insufficiente, per le ragioni descritte, la sola attività (sanzione) riparatoria”52.

52 Così, testualmente, la Relazione di accompagnamento al d.lgs. n.274/00.

50

Probabilmente non è stata colta appieno la complessità di siffatta valutazione riservata al giudice di pace.

A ciò si aggiunga che non v’è traccia nel nostro impianto codicistico di una norma di pari portata che operi con riferimento al giudice togato.

Questi pur essendo dotato di una competenza tecnica specialistica non sarebbe abilitato a compiere una valutazione analoga a quella riservata, invece, al giudice onorario.

Sembra davvero eccessivo, infatti, consentire ad un giudice – a fortori ad un giudice non togato – una valutazione la cui sedes naturalis risulta essere quella legislativa.

Esclusivamente il legislatore, infatti, è abilitato ad apprezzare, in abstracto, l’efficacia general-preventiva e special-preventiva della sanzione correlata ad una fattispecie criminosa, in sede di predeterminazione della fattispecie medesima.

Da questo punto di vista, pertanto, il giudice di pace risulta dotato di un potere di apprezzamento di sapore “legislativo” che esorbita dai limiti generalmente attribuiti all’autorità giudicante e che sembra essere davvero eccessivo rispetto al ruolo ed alla preparazione tecnica del giudice onorario.

51

2 - Il pre-giudizio del giudice della conciliazione: l’escamotage legislativo per aggirare la causa d’incompatibilità non positivizzata del giudice di pace che ha esperito il tentativo di conciliazione.

Le esigenze di celerità e di deflazione che – con i

dubbi supra sollevati – costituiscono lo scopo della riforma oggetto della presente indagine, si atteggiano ad obiettivi da perseguire anche a costo di una compressione dei principi regolatori dell’intero impianto processual-penalistico.

Uno dei principi cardine del processo penale - quello che dai più viene definito “principio naturale del giudizio” attesa la sua particolare valenza di elemento costituente il tessuto connettivo dell’impalcatura del nostro processo penale - è costituito, senza dubbio, dal principio della “terzietà” del giudice.

Nella accezione più pregnante del termine, per “terzietà” del giudice dobbiamo intendere quella posizione di assoluta neutralità dell’organo giudicante rispetto alle ragioni delle parti.

Tale principio esige che, nell’ipotesi in cui l’organo giudicante abbia in un certo momento processuale espresso pareri o valutazioni o, comunque, abbia maturato un certo convincimento sull’oggetto dell’imputazione, non continui ad esercitare funzioni giudicanti nel medesimo processo penale, atteso che diversamente andrebbero ad essere compromesse le garanzie di terzietà del giudice stesso.

La formazione del convincimento giudiziale non deve in alcun modo essere condizionata da pre-giudizi né, tantomeno, dalla “forza della prevenzione”, intesa come naturale tendenza del giudice a mantenere un giudizio già espresso in altri momenti decisionali del procedimento.

Orbene, tale garanzia sembra subire un serio vulnus ad opera del d.lgs. n. 274/00.

Nel caso in cui l’esito dell’attività conciliativa giudiziale sia stato negativo, il processo prosegue dinanzi allo stesso giudice-persona che ha promosso la conciliazione, senza che l’esperimento del tentativo di conciliazione implichi, per le fasi successive, l’insorgere di una causa di incompatibilità.

52

E’ pur vero, però, che la previsione di tale causa di incompatibilità avrebbe de facto vanificato totalmente lo scopo della riforma.

Avendo elevato l’esperimento del tentativo di conciliazione a passaggio necessitato nel processo dinanzi al giudice di pace, ovviamente, la causa di incompatibilità eventualmente positivizzata, sarebbe stata destinata ad operare in ogni caso, con buona pace delle esigenze di celerità e di snellezza del processo, che avrebbe subito inevitabili battute d’arresto.

Tuttavia, lo stesso legislatore sembra si sia avveduto del rischio che la mancata previsione di una causa di incompatibilità avrebbe creato, sul piano della neutralità del giudice.

Se così non fosse stato, ovvero, se tale rischio fosse stato in nuce scongiurato, non avrebbe avuto senso una previsione volta ad evitarlo.

Il legislatore ha inteso fronteggiare tale rischio mediante una previsione che, tuttavia, non pare idonea a scongiurare il pericolo della compromissione della terzietà del giudicante.

L’art. 29, IV co., seconda parte, statuisce, infatti, che “ in ogni caso, le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell’attività di conciliazione non possono essere in alcun modo utilizzate ai fini della deliberazione”53.

Invero, la semplice previsione che imponga al giudice di non utilizzare ai fini della deliberazione le dichiarazioni rese nel corso dell’espletamento dell’attività conciliativa non evita il rischio che un convincimento giudiziale possa fondarsi su dette dichiarazioni.

E’ pur vero che tali dichiarazioni non potranno in alcun modo essere addotte a fondamento, ad esempio, di una pronuncia di condanna ma è possibile che esse vadano comunque ad incidere in maniera significativa sul convincimento medesimo, anche semplicemente rafforzandolo.

53 Tra l’altro, ci si chiede in quale modo sia possibile individuare con esattezza le dichiarazioni di cui è vietata l’utilizzazione ai fini della deliberazione, atteso che, nell’ipotesi in cui l’espletamento dell’attività conciliativa non abbia prodotto effetti positivi, il verbale di conciliazione non va redatto e che, pertanto, si troverà traccia dell’attività conciliativa unicamente nel verbale di udienza redatto – di regola – in forma riassuntiva ex art. 140 c.p.p.

53

Non va, infatti, dimenticato che il convincimento giudiziale consta di un primo momento che definiremmo “emozionale” e che solo successivamente esso va ad oggettivizzarsi nella motivazione della sentenza.

Il convincimento è, infatti, in primis, intime conviction.

E’ indubbio che le dichiarazioni rese nel corso dell’esperimento del tentativo di conciliazione siano idonee ad incidere in tale momento emozionale del convincimento giudiziale.

Come detto, è indubbio che la previsione di una causa di incompatibilità – giuridicamente corretta – avrebbe determinato una sostanziale paralisi del processo dinanzi al giudice di pace.

I limiti della riforma si colgono, con particolare evidenza, con riferimento alle disposizioni intrinsecamente contraddittorie, che nel decreto delegato non mancano.

54

3 – Le modalità di esperimento del tentativo di conciliazione.

Il giudice di pace promuove la conciliazione tra le

parti, a norma dell’art. 29, IV co., d.lgs. n. 274/00. Qualora sia utile per favorire la conciliazione, egli

può “rinviare l’udienza per un periodo non superiore a due mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell’attività di mediazione di centri e strutture pubbliche e private presenti sul territorio”.

E’ indubbio che siffatta previsione legislativa non si pone in linea con l’esigenze di rapidità dell’accertamento sottese alla riforma del 2000, atteso che la sua operatività produrrebbe ritardi non temporalmente quantificabili .

Il decreto non ha consentito all’interprete di identificare con maggiore chiarezza i centri e le strutture a cui il legislatore ha fatto riferimento.

Con l’ausilio dell’interpretazione autentica fornita dalla Relazione al decreto, può ritenersi che esse non dovrebbero essere diverse da quelle già operanti nel settore minorile.

Non è difficile prevedere che in assenza di disposizioni attuative, la norma non sarà suscettibile di concreta applicazione.

55

4 - Insufficienza delle modalità di verbalizzazione positivamente tipizzate.

Nell’ipotesi in cui l’attività conciliativa abbia

prodotto un esito positivo, viene redatto processo verbale ex art. 29, IV co., d.lgs. n. 274/00.

Ciò si desume dalla prima parte del comma appena richiamato che testualmente esordisce “in caso di conciliazione”, dando per avvenuta con esito positivo la conciliazione tra le parti.

In primo luogo, va, dunque, osservato che nell’ipotesi in cui l’esperimento del tentativo di conciliazione non abbia sortito gli effetti attesi, l’attività processuale volta ad una “composizione bonaria della lite” sarebbe tamquam non esset o, quantomeno, rimarrebbe priva di effetti giuridici rilevanti.

Ovviamente essa rileverebbe esclusivamente allo scopo di dare per avvenuto l’adempimento di tale formalità processuale e di consentire, dunque, la prosecuzione del processo, con le ordinarie forme dibattimentali.

Tuttavia, non possiamo fare a meno di notare che la verbalizzazione, così come indicata nell’art. 29, IV co. del decreto delegato, sembra quantomeno non sufficiente a fronte degli ampi effetti giuridici che si producono in conseguenza di essa.

Come detto in precedenza, infatti, l’esperimento del tentativo di conciliazione che abbia prodotto esiti positivi si pone quale elemento – piuttosto che alternativo al dibattimento – alternativo al giudizio.

Andiamo, dunque, a raffrontare gli effetti giuridici che si producono all’esito della redazione del verbale di conciliazione e gli elementi che il verbale medesimo deve contenere.

In particolare, l’art. 29, IV co., d.lgs. n. 274/00, stabilisce che “…è redatto processo verbale attestante la remissione della querela o la rinuncia al ricorso di cui all’art. 21 e la relativa accettazione”.

56

Orbene, non pare possa individuarsi un parallelismo tra il contenuto del verbale di conciliazione e lo spessore degli effetti processuali che si producono54.

Stante alla lettera della norma, infatti, è sufficiente che venga indicata unicamente la remissione della querela – la rinuncia al ricorso – e la relativa accettazione.

Attesa la centralità che il legislatore della riforma ha riservato alla funzione conciliativa nonché gli effetti processuali di definizione del procedimento, sarebbe stato preferibile richiedere una maggiore completezza del processo verbale relativo.

Si noti, tra l’altro, che nell’ipotesi in cui l’attività conciliativa non abbia prodotto effetti positivi ed il processo prosegua con le forme ordinarie, non è prevista la redazione di un autonomo processo verbale da cui si evincano dettagliatamente le modalità di espletamento della conciliazione, in tal modo non agevolando l’operatività di quella disposizione - volta a scongiurare una ipotesi di incompatibilità del giudice di pace – che statuisce: “in ogni caso, le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell’attività di conciliazione non possono essere in alcun modo utilizzate ai fini della deliberazione”.

54 BALDI, in Manuale del giudice di pace penale, Giuffrè ed., 2000, 276,

osserva che “ è quantomeno contraddittorio che la verbalizzazione sia così limitata a fronte dell’importanza della funzione conciliativa”.

57

5 – Esiti dell’attività conciliativa. Il dibattimento quale ipotesi residuale nel processo dinanzi al giudice di pace.

Il passaggio alla fase dibattimentale nel

procedimento penale dinanzi al giudice di pace costituisce una ipotesi residuale, atteso il favor del legislatore per la rapida definizione del processo, con le forme alternative della conciliazione – almeno per quanto concerne i reati perseguibili a querela della persona offesa - .

Il procedimento, come rilevato, prosegue dinanzi allo stesso giudice-persona che ha promosso il tentativo di conciliazione tra le parti.

Il dibattimento, di contro, per quanto concerne i reati perseguibili ex officio, costituisce l’ipotesi ordinaria.

Per quanto concerne la disciplina dell’udienza dibattimentale non si appalesano particolarità di rilievo.

La disciplina positiva è contenuta nei commi VII e VIII dell’art. 29 e nell’ art. 32, d.lgs. n. 274/00.

In particolare, la prima delle disposizioni richiamate statuisce che “dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, se può procedersi immediatamente al giudizio, il giudice ammette le prove richieste escludendo quelle vietate dalla legge, superflue o irrilevanti e invita le parti ad indicare gli atti da inserire nel fascicolo per il dibattimento, provvedendo a norma dell’art. 431 c.p.p.”.

Il giudice, inoltre, ove occorra fissare altra udienza per il giudizio, autorizza ciascuna parte alla citazione dei propri testimoni o consulenti tecnici, escludendo le testimonianze vietate dalla legge e quelle manifestamente sovrabbondanti.

La parte che omette la citazione decade dalla prova.

La fase istruttoria può, dunque, risultare necessaria anche ove si proceda per quei reati “presunti”, dal legislatore, di rapido accertamento.

Una peculiarità – peraltro comune al procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica55 - viene individuata nella disposizione di cui

55 Art. 559, III co., ultima parte, c.p.p. .

58

all’art. 32 del decreto delegato, che consente, sull’accordo delle parti, la conduzione da parte del giudice dell’esame dei periti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e delle parti private sulla base delle domande e delle contestazioni proposte dal magistrato del pubblico ministero e dai difensori.

La disposizione deroga ai principi sanciti nell’art. 506 c.p.p. in cui il giudice ( presidente del collegio) può rivolgere domande a i testimoni, periti, consulenti tecnici, alle persona di cui all’rt. 210 c.p.p. ed alle parti già esaminate, “solo dopo l’esame e il controesame”; pertanto, egli deve astenersi dallo svolgere un ruolo attivo, principale, nello svolgimento dell’esame e del controesame, che vanno condotti rispettivamente, dalla parte che ha chiesto l’esame e da quella che non ha richiesto l’esame.

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6 - La causa di estinzione del reato per condotte riparatorie e l’improcedibilità per tenuità del fatto quali elementi in cui la funzione conciliatrice si ipostatizza. Il ruolo di “scavalcamento” della persona offesa rivestito dal giudice di pace.

L'articolo 17, comma 1, lettera h), della legge 24

novembre 1999, n. 468, reca la previsione di ipotesi di estinzione del reato conseguenti a condotte riparatorie o risarcitorie del danno.

Essa trova attuazione nell'articolo 35 del decreto legislativo n. 274/00.

Come si evidenzia nella Relazione al decreto delegato, la scelta si colloca “in linea con quelle che hanno condotto ad introdurre meccanismi quali l'improcedibilità per la particolare tenuità del fatto ed il tentativo di conciliazione”.

La disposizione, peraltro, si discosta significativamente da quella - art. 29 - prefigurata nello schema di decreto legislativo trasmesso alle Camere per il parere, che era strutturata nel modo seguente.

Essa limitava il rilievo dell'istituto ai reati diversi da quelli perseguibili a querela, sul presupposto della ritenuta intangibilità della volontà punitiva manifestata dal privato56.

La disposizione in esame, poneva in essere, nell'esercitare la delega, due argini: uno di carattere temporale ed uno afferente alla valenza della condotta di riparazione dell'offesa.

Sotto il primo profilo, si creava uno sbarramento di carattere temporale, tale per cui la riparazione del danno cagionato o la eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, per essere rilevanti ai fini dell'estinzione del reato, dovevano intervenire non oltre l'udienza di comparizione, salvo che la parte dimostrasse di non averlo potuto fare in precedenza.

56 Come in precedenza evidenziato, non si concorda sulla attribuibilità alla persona offesa dal reato di una vera e propria volontà punitiva giuridicamente rilevante, attesa la eterogeneità delle ragioni politico-criminali per le quali il legislatore ha propeso per la procedibilità a querela o per quella ex officio con riferimento ad alcune tipologie di reato.

60

In tale ultimo caso, con meccanismo non dissimile rispetto a quello inteso a favorire la conciliazione tra le parti, era possibile al giudice disporre la sospensione, per un breve periodo, del procedimento attivando meccanismi di verifica dell'adempimento delle prestazioni.

La Commissione Giustizia del Senato ha analizzato con particolare attenzione la tematica degli istituti deflattivi e conciliativi ed ha riservato una speciale attenzione alla causa di estinzione in esame ed al ruolo rivestito dalla persona offesa nell’ambito della riforma, oggetto della presente indagine.

Relativamente a quest’ultimo punto, la Commissione si era, in buona sostanza, divisa in due.

In particolare, l'estensore del parere ha dato atto che una parte della Commissione reputava possibile configurare una "potestà di scavalcamento" da parte del giudice dell'eventuale indebita persistenza della volontà punitiva del querelante/ricorrente in favore del quale fossero state efficacemente poste in essere attività risarcitorie e riparatorie.

In altre parole, tale orientamento puntava ad estendere la causa di estinzione del reato ai reati perseguibili a querela, riconoscendo al giudice di pace, nell'ottica di un potenziamento della sue funzioni conciliative, il potere di valutare la congruità e l'effettività delle condotte riparatorie e di pervenire ad una declaratoria di estinzione del reato pur in presenza di un pervicace rifiuto dell'offeso a ritirare la sua domanda di punizione.

Altra parte della Commissione, pur apprezzando questi obbiettivi, aveva tuttavia rilevato che la volontà punitiva del privato non sembra neutralizzabile con un atto di imperio del giudice.

A ben vedere, dunque, la Commissione Giustizia del Senato, pur ritenendo condivisibile la scelta operata nello schema di decreto, aveva introdotto importanti elementi di riflessione che il Governo ha inteso valorizzare, allo scopo di rendere più incisiva la funzione conciliatrice del giudice di pace, specie in presenza di condotte dirette a reintegrare l'offesa recata agli interessi lesi dal reato, che, come noto, costituiscono tangibile spia di un atteggiamento di fattiva resipiscenza dell'autore del reato.

61

Si è così rimodellata la causa estintiva con riferimento alla sua orbita applicativa e ai suoi presupposti operativi.

Sul versante dell'orbita applicativa, si è previsto che la causa di estinzione abbracci tutti i reati di competenza del giudice di pace.

Detta modifica appare maggiormente in linea con il dettato normativo di cui alla legge - delega che, nel criterio di cui alla lettera h) del comma 1 dell'art. 17, non opera alcuna delimitazione in ordine all'estensione della causa di estinzione, interamente ancorata sulla tenuta di condotte riparatorie.

In proposito, occorre ricordare che il delegante aveva ben presente quali fossero i reati di competenza del giudice di pace, ad esclusione dei reati la cui determinazione veniva rimessa al legislatore delegato – che, comunque, non risultavano difficilmente pronosticabili, attesa la stringente limitatezza dei parametri cui la scelta legislativa si sarebbe dovuta informare - .

In altre parole, l'ossatura più significativa dei reati devoluti al giudice di pace era proprio quella dei reati perseguibili a querela, tipicamente espressivi di quella microconflittualità privata che costituisce il terreno elettivo della funzione conciliatrice.

Da ciò si inferisce che il legislatore delegante, se avesse davvero inteso escludere dalla sfera applicativa della nuova causa di estinzione del reato i reati punibili a querela della persona offesa, lo avrebbe senz'altro espressamente esplicitato, vista la rilevanza qualitativa e quantitativa di tali illeciti.

Del resto, ove il legislatore avesse inteso realmente escludere le fattispecie perseguibili a querela dal novero dei reati a cui risultava applicabile detta causa di estinzione, in buona sostanza, si sarebbe prodotto l’effetto di impedire qualsivoglia operatività della causa estintiva in esame.

Di fatto, essa avrebbe operato solo per pochissime contravvenzioni non oblabili a norma degli art. 162 e 162-bis del codice penale.

Questa constatazione rafforza il Governo nella convinzione che il delegante non abbia voluto riservare uno spazio così angusto a una causa estintiva densa di implicazioni sul piano sistematico e politico-criminale.

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Sul versante concernente i presupposti di operatività della causa estintiva, si è ritenuto di dover riconoscere al giudice di pace il potere di sindacare la congruità delle attività risarcitorie, rafforzandone anche i poteri conformativi: si è infatti previsto che, qualora l'imputato chieda di poter riparare e risarcire nel corso dell'udienza di comparizione, il giudice, oltre che assegnare un termine per l'adempimento, possa altresì impartire prescrizioni che, nella maggior parte dei casi e ove possibile, saranno finalizzate all'eliminazione delle cause del reato.

Ma non basta. Il Governo è consapevole che l'esistenza di un meccanismo estintivo interamente fondato sulla realizzazione di condotte riparatorie, di cui pure si deve apprezzare la congruità, rischia di fomentare una sorta di "monetizzazione" della responsabilità penale, vale a dire una comoda e talvolta ingiustificata fuoriuscita dal sistema punitivo.

Per ovviare a questa evenienza57, si è stabilito nel comma 2 dell'art. 35, che il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione solo se le condotte riparatorie sono idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione.

Tale asserzione non sembra condivisibile da parte di chi scrive.

Se da un lato, infatti, è comprensibile la preoccupazione del legislatore di non incorrere nella creazione di meccanismi che implichino una “monetizzazione” della responsabilità penale, dall’altro è inaccettabile sia riservata al giudice di pace – per di più non professionale – una valutazione di siffatta pregnanza, oltre che di matrice squisitamente legislativa.

Si noti, infatti, che il legislatore, in sede di predeterminazione e tipizzazione delle sanzioni penali astrattamente comminabili in caso di commissione di un determinato fatto di reato, effettua questo tipo di valutazioni di connotazione politico-criminale: una determinata pena risulta dal punto di vista retribuzionistico ed in chiave specie-preventiva idonea a soddisfare esigenze di riprovazione del reato e di prevenzione?

57 DENTI, , I riti alternativi civili: caratteristiche e potenzialita'. La diffusione delle forme di risoluzione delle controversie diverse dalla giurisdizione ordinaria, Impresa & Stato n°40, pagina web, www.cittadinolex.com.

63

Ove la risposta a detto quesito – sempre in sede di predeterminazione legislativa – risultasse positiva, sarebbe affidato all’organo giudicante il potere, in concreto, di proporzionare alla entità ed alla gravità della violazione commessa, la sanzione penale nella tipologia predeterminata dal legislatore.

Questi, infatti, contiene entro convenienti limiti edittali la pena astrattamente comminabile.

Ciò risulta indicativo della valutazione di proporzionalità e di opportunità politico-criminale della sanzione penale, già condotta in apicibis dal legislatore.

Orbene, nel caso di cui al decreto delegato non sembra possa discorrersi di “potere di scavalcamento” del giudice di pace rispetto alla permanenza della volontà punitiva della persona offesa; sarebbe più aderente alla realtà dei fatti, discorrere di “potere di scavalcamento” della valutazioni legislative.

Non può revocarsi in dubbio che si possa ipotizzare un parallelismo tra le valutazioni condotte dal giudice di pace e quelle condotte a livello di predeterminazione legislativa; tanto più, se si consideri che qui non si discorre del quantum della pena da applicare bensì si tratta dell’an della comminatoria della pena, atteso che se il giudice di pace ritiene applicabile la causa di estinzione – per l’appunto – il reato si estingue.

64

7 – Note di diritto processuale penale comparato: la “mediazione processuale” negli ordinamenti europei.

La figura della mediazione processuale non è

ignota anche agli altri sistemi processual-penalistici europei 58 che, tuttavia, sembrano fornire soluzioni più appaganti, rispetto a quella prospettata dall’Italia.

Nel sistema belga, ad esempio, il Procuratore del Re può convocare il supposto autore del reato – nel caso in cui per il fatto oggetto dell’accertamento si presume si possa comminare una pena non superiore a due anni di emprisonnement – per invitarlo a risarcire il danno.

Può, inoltre, convocare la vittima del reato al fine di tentare una mediazione sul risarcimento e, in tale contesto, può chieder al reo di sottoporsi ad un trattamento, di eseguire un lavoro di interesse generale, di seguire corsi di formazione.

Se il reo adempie le condizioni richieste, l’azione penale si estingue, fermi restando i diritti delle vittime che non hanno partecipato alla mediazione59.

Come si vede, dunque, l’iniziativa di promuovere una transazione spetta in via esclusiva al Procuratore del Re.

L’istituto della transazione – creato da un arrêté ministeriale del 10 gennaio 1935 – è applicabile a tutti i delitti ed a tutte le contravvenzioni , a condizione che il reato non abbia provocato danni o che questi siano stati interamente riparati.

Ulteriore condizione è che l’azione penale non sia stata esercitata mediante investitura del giudice istruttore o del giudice dibattimentale.

Ove ritenga di assumere una tale iniziativa il magistrato del pubblico ministero indirizza al presunto reo l’invito a versare a favore dell’amministrazione fiscale – entro un termine che va da otto giorni a tre mesi – una somma

58 DELMAS-MARTY, Procedure penali d’Europa, ed. italiana a cura di

Chiavario, Cedam, 2001. 59 Art. 216-ter, Code d’instruction criminelle.

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compresa tra un minimo di 1000 franchi belgi ed il massimo edittale dell’ammenda prevista per quel reato.

Se la transazione è accettata e la somma versata, l’azione pubblica è definitivamente estinta.

Orbene, per quanto concerne le connotazioni giuridiche dell’istituto della mediazione processuale nel sistema belga, nulla qaestio.

Ad onor del vero, tuttavia, andrebbe sottolineata l’incompatibilità con la figura della conciliazione di una transazione promossa da una parte, come tale, interessa all’esito della mediazione.

Sarebbe più opportuno demandare tale funzione ad un soggetto terzo ed imparziale.

Il merito, comunque, di questo sistema consiste in ciò, che l’organo giudicante risulta assolutamente estraneo alla vicenda transattiva - presupposto per la promozione della transazione, infatti, è che l’azione penale non sia stata esercitata mediante investitura del giudice istruttore o del giudice dibattimentale.

Anche il sistema francese contempla un meccanismo simile di mediazione, riservando un ruolo centrale alla persona offesa dal reato.

La mediazione è disposta dal Procuratore della Repubblica ma può anche essere realizzata da un mediatore, persona fisica o giuridica abilitata a tale fine, in base a quanto dispone l’art. D. 15-1 s. Code de procédure penalé, che dia garanzie di imparzialità, indipendenza ed autonomia.

La mediazione deve venire accettata per iscritto dalle parti, il cui accordo è giuridicamente assimilato ad una transazione.

Le parti, che possono farsi assistere da un avvocato, formalizzano, pertanto, gli impegni assunti.

Una relazione definitiva è trasmessa – nel termine massimo di sei mesi – dal mediatore al Procuratore della Repubblica, che archivierà il caso qualora la mediazione abbia sia stata esperita positivamente.

Il codice, in ogni caso, non impone al rappresentante della pubblica accusa di archiviare pur in presenza di una transazione esperita fruttuosamente.

Simili strumenti processuali sono conosciuti anche al sistema inglese.

In Germania, vigono alcune forme di consensualismo triangolare.

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Ai sensi del ∫ 153 StPO, può essere disposta dal pubblico ministero l’archiviazione con il consenso del giudice e dell’accusato.

Come si è visto, dunque, le forme di consensualismo nella amministrazione della giustizia variano a seconda delle valutazioni di carattere politico-criminale condotte dal legislatore, che vengono trasfuse nelle disposizioni legislative disciplinanti il ruolo delle parti nella conduzione del processo penale.

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8 - Conclusioni: La penalizzazione come extrema ratio. De iure condendo, una proposta coerente con l’architettura sistematica del processo penale.

Dalla disamina – si spera, esaustiva -

dell’intervento legislativo del 2000 si sono appalesate alcune incongruenze con l’impianto processuale, per così dire, “ordinario”.

A detta dello scrivente, infatti, la riforma sul giudice di pace “penale”, sembra discostarsi eccessivamente dai principi generali a cui l’intero tessuto processual-penalistico si informa, tanto da far sorgere la domanda: il processo dinanzi al giudice di pace si colloca in posizione di netta autonomia rispetto al processo “ordinario” - disciplinato dalle regole codicistiche - oppure è un processo “ordinario”, sia pure connotato peculiarmente?

Al lume delle argomentazioni addotte nel corpo della nostra indagine – che, si badi bene, sono unicamente frutto delle opinioni personali dello scrivente – dovrebbe propendersi per la prima delle potenziali risposte al quesito sollevato.

Dovremmo, pertanto, ritenere ammissibile nel nostro sistema una procedura penale a se stante, non riconducibile alla disciplina generale del nostro processo penale.

Ovviamente, la nostra indagine essendo contenuta entro un milieu ben determinato, probabilmente non risulta idonea ad evidenziare le “forti” peculiarità del processo dinanzi al giudice di pace; tanto “forti”, da porre in dubbio che esse stesse siano particolarità dell’unico sistema processuale penale in vigore.

Al di là, comunque, delle disquisizioni teoriche di cui è pregnata la presente indagine, ci preoccupano i risvolti pratico-applicativi del decreto n. 274 del 28 agosto 2000.

Ci si chiede se il giudice di pace – giudice, non professionale – sia in grado di condurre efficacemente quelle valutazioni così pregnanti che gli vengono affidate, prima fra tutte la idoneità delle “attività risarcitorie e riparatorie a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione”, ex art. 35 del decreto delegato.

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Perplessità non marginali desta, inoltre, l’impianto sanzionatorio previsto dal decreto del 2000.

Emblematica è la sanzione di cui all’art. 53, d.lgs. n.274/00 dell’obbligo di permanenza domiciliare.

A dire poco, risibile. La disposizione citata statuisce, infatti, che “la

pena della permanenza domiciliare comporta l’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica”.

A ciò si aggiunga – e tale elemento evidenzia la difficoltà del legislatore che ha tipizzato detta “pena” – che il II comma della norma in esame puntualizza che “…il condannato non è considerato in stato di detenzione”.

E, allora, ci si domanda se il condannato ha, comunque, l’obbligo di permanenza domiciliare, a che titolo è – per l’appunto – obbligato a non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo determinato?

Si consideri che pur non essendo considerato in vinculis, il condannato, ove violi i suddetti obblighi, soggiace alla pena di cui all’art. 56, d.lgs n. 274/00, ovverossia, la reclusione fino ad un anno 60.

Orbene, riteniamo che la riforma sul giudice di pace non si ponga in linea con il fondamentale principio informatore del sistema penale consistente nella “penalizzazione” come extrema ratio.

Delle due, l’una. O si ritiene che determinati fatti siano penalmente

rilevanti – e, dunque, li si “penalizza” – prevedendo, per il caso della commissione dei medesimi, una sanzione che sia efficace da un punto di vista general-preventivo e special-preventivo oltre che in chiave retribuzionistica e si prevede, a tal fine, un idoneo impianto processuale, oppure si esclude che tali fatti abbiano una rilevanza penale e, dunque, si propende per la depenalizzazione dei medesimi.

Riteniamo che sia giuridicamente inaccettabile una sorta di “purgatorio legislativo” in cui sia ipotizzabile una “giustizia domestica”.

De iure condendo, sarebbe preferibile – anche per scopi deflattivi – depenalizzare quelle fattispecie che secondo il

60 La competenza per il delitto di cui all’art. 56 del decreto delegato è attribuita al tribunale in composizione monocratica, ai sensi dell’art. 57 del decreto medesimo.

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senso comune – logicamente trasfuso nelle valutazioni politico-criminali condotte a livello legislativo – non appaiono più dotate di idoneità offensiva rispetto al bene protetto dalla norma .

Parallelamente bisognerebbe impegnarsi per fare sì che le disfunzioni della amministrazione della giustizia non si riverberino negativamente sugli scopi perseguiti dalla giustizia medesima.

In altri termini, ove si acclari la responsabilità penale di un soggetto, a cui risulta ascrivibile un determinato fatto di reato, è necessario che la sanzione penale venga effettivamente comminata, evitando che il decorso del tempo importi una vanificazione de facto delle pretese punitive; l’operatività dell’istituto della prescrizione, infatti, implica una sostanziale frustrazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’art. 112 Cost.

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Autori

• BALDI, Manuale del giudice di pace penale, Giuffrè ed., 2000.

• CARNELUTTI, Danno e reato, Padova, 1926. • DALIA-FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale

penale, CEDAM, 2001.

• DELMAS-MARTY, Procedure penali d’Europa, Ed. italiana a cura di CHIAVARIO, CEDAM, 2001.

• DENTI, I riti alternativi civili: caratteristiche e potenzialità. La diffusione delle forme di risoluzione delle controversie diverse dalla giurisdizione ordinaria, in Impresa e Stato n. 40, www.cittadinolex.com.

• DI PISA, Le dottrine più recenti intorno ai diritti pubblici soggettivi, Palermo, 1917.

• MANDRIOLI, Manuale di diritto processuale civile, Giappichelli ed., 1998.

• MANTOVANI, Manuale di diritto penale, CEDAM, 1988.

• MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Aggiornato da NUVOLONE-PISAPIA, UTET, 1985.

Giurisprudenza Costituzionale • Corte Costituzionale, sent. n. 361 del 2 novembre 1998.

Giurisprudenza di Legittimitá • Cass. Pen., Sez. III, 6 febbraio 1987, in Cass. Pen. 1988,

1261.