Diritto Penale Dolcini Marinucci

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VEDERE 52 c.p. CAPITOLO I – LEGITTIMAZIONE E COMPITI DEL DIRITTO PENALE Vi sono tre teorie della pena : teoria retributiva: la pena statuale si legittima come un male inflitto dallo Stato per compensare (retribuire) il male che un uomo ha inflitto ad un altro uomo od alla società; questa teoria è assoluta, svincolata dalla considerazione di un qualsivoglia fine da raggiungere: secondo questa logica si punisce perché sia giusto, non perché la pena sia utile; teoria generalpreventiva: essa legittima la pena come mezzo per orientare le scelte di comportamento della generalità dei suoi destinatari: in primo luogo, facendo leva sugli effetti di intimidazione correlati al contenuto afflittivo della pena; nel lungo periodo, attraverso l’azione pedagogica della norma penale (si confida che col tempo si crei nella collettività una spontanea adesione ai valori espressi dalla legge penale); teoria specialpreventiva: la pena è uno strumento per prevenire che l’autore di un reato commetta in futuro altri reati; questa funzione può essere assolta in tre forme: nella forma della risocializzazione, aiutando il condannato ad inserirsi o reinserirsi nella società nel rispetto della legge; nella forma della intimidazione, rispetto alle persone per le quali la pena non può essere strumento di risocializzazione; nella forma della neutralizzazione, quando il destinatario della pena non appaia suscettibile né di risocializzazione né di intimidazione. La legittimazione della pena varia a seconda del tipo di Stato in cui si pone il problema: in uno stato teocratico ogni comportamento immorale o peccaminoso potrà essere represso come reato e la pena potrà coerentemente legittimarsi sulla falsariga della giustizia divina; in uno stato totalitario si reprime come reato qualsiasi sintomo di ribellione e conseguentemente si assegna alla pena il compito di ottenere a qualsiasi prezzo la fedeltà alla legge. Nello stadio della minaccia legislativa, il ricorso alla pena da parte del legislatore italiano si legittima in chiave di prevenzione generale; l’effetto di prevenzione generale perseguito dal legislatore attraverso la minaccia della pena incontra un

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VEDERE 52 c.p.

CAPITOLO I – LEGITTIMAZIONE E COMPITI DEL DIRITTO PENALE

Vi sono tre teorie della pena:

  teoria retributiva: la pena statuale si legittima come un male inflitto dallo Stato per compensare (retribuire) il male che un uomo ha inflitto ad un altro uomo od alla società; questa teoria è assoluta, svincolata dalla considerazione di un qualsivoglia fine da raggiungere: secondo questa logica si punisce perché sia giusto, non perché la pena sia utile;

  teoria generalpreventiva: essa legittima la pena come mezzo per orientare le scelte di comportamento della generalità dei suoi destinatari: in primo luogo, facendo leva sugli effetti di intimidazione correlati al contenuto afflittivo della pena; nel lungo periodo, attraverso l’azione pedagogica della norma penale (si confida che col tempo si crei nella collettività una spontanea adesione ai valori espressi dalla legge penale);

   teoria specialpreventiva: la pena è uno strumento per prevenire che l’autore di un reato commetta in futuro altri reati; questa funzione può essere assolta in tre forme:

  nella forma della risocializzazione, aiutando il condannato ad inserirsi o reinserirsi nella società nel rispetto della legge;

  nella forma della intimidazione, rispetto alle persone per le quali la pena non può essere strumento di risocializzazione;

  nella forma della neutralizzazione, quando il destinatario della pena non appaia suscettibile né di risocializzazione né di intimidazione.

La legittimazione della pena varia a seconda del tipo di Stato in cui si pone il problema: in uno stato teocratico ogni comportamento immorale o peccaminoso potrà essere represso come reato e la pena potrà coerentemente legittimarsi sulla falsariga della giustizia divina; in uno stato totalitario si reprime come reato qualsiasi sintomo di ribellione e conseguentemente si assegna alla pena il compito di ottenere a qualsiasi prezzo la fedeltà alla legge.

Nello stadio della minaccia legislativa, il ricorso alla pena da parte del legislatore italiano si legittima in chiave di prevenzione generale; l’effetto di prevenzione generale perseguito dal legislatore attraverso la minaccia della pena incontra un limite nella funzione di prevenzione speciale, e più precisamente di rieducazione, che la Costituzione assegna alla pena all’art. 27.3 (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato).

Appare problematica nel nostro ordinamento la pena dell’ergastolo (22: la pena dell'ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno.         Il condannato all'ergastolo può essere ammesso al lavoro all'aperto), che come pena detentiva a vita preclude il ritorno del condannato nella società.

I consociati possono essere legittimamente dissuasi, attraverso il deterrente della pena, dai comportamenti che ledano o pongano in pericolo le condizioni di esistenza e di sviluppo della società.

Il principio di offensività dice che non vi può essere reato senza offesa ad un bene giuridico, cioè ad una situazione di fatto o giuridica, carica di valore, modificabile e quindi offendibile per effetto di un comportamento dell’uomo; che il legislatore possa reprimere con la pena solo fatti offensivi di beni giuridici è stato affermato dalla Corte costituzionale.

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Il ricorso alla pena da parte del legislatore si legittima in relazione non ad ogni offesa ad un bene giuridico, ma solo in relazione ad offese recate colpevolmente, offese che siano cioè personalmente rimproverabili al suo autore: il principio di colpevolezza è dotato di rango costituzionale (27.1 Cost.: la responsabilità penale è personale).

Il principio di proporzione esprime l’esigenza che i vantaggi per la società perseguiti attraverso le comminatorie di pena siano idealmente messi a confronto coi costi immanenti alla pena stessa.

Il principio di sussidiarietà postula che la pena venga usata solo quando nessun altro strumento, sanzionatorio o non, sia in grado di assicurare al bene giuridico una tutela altrettanto efficace nei confronti di una determinata forma di aggressione.

Sia il principio di proporzione che quello di sussidiarietà sono ancorati alla Costituzione: il principio di proporzione rappresenta un prius logico del principio della rieducazione del condannato, enunciato nel 27.3 Cost, il principio di sussidiarietà è ricollegabile al principio enunciato nell’art. 13 Cost., ove si riconosce carattere inviolabile alla libertà personale (La libertà personale è inviolabile.          Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.            In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.   È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.            La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva).

È compito del giudice accertare la conformità del fatto concreto al modello di reato descritto dal legislatore.

Tra i criteri ai quali il giudice può fare ricorso, in diritto penale riveste un ruolo peculiare e preminente il criterio offerto dal tenore letterale della disposizione: il principio di legalità dei reati (25.2 Cost.: nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso) impone al giudice di attenersi alla gamma dei possibili significati letterali della norma, assumendo le parole del legislatore come un limite in ogni caso invalicabile: l’art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale (le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati) e l’art. 1 c.p. (nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite) vietano il ricorso all’analogia a sfavore del cittadino.

Il giudice penale è tenuto ad adottare un secondo criterio interpretativo, desumibile dal principio costituzionale di offensività: entro i possibili significati letterali della norma incriminatrice, deve dare la preferenza a quello o a quelli che circoscrivono la sfera di applicabilità della norma ai fatti offensivi del bene giuridico tutelato.

Il giudice pronuncia la condanna ed infligge la pena, scegliendola all’interno dei tipi di pena e dei limiti minimi e massimi previsti dal legislatore.

Affermando che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, il 27.3 Cost. impone al giudice di orientare le sue scelte in funzione di tale finalità: tra più tipi di pena eventualmente comminati in via alternativa per una certa figura di reato, il giudice dovrà scegliere la più idonea a prevenire il rischio che egli delinqua nuovamente, intimidendolo o promuovendone il reinserimento nella società; secondo la stessa logica il giudice dovrà poi operare l’ulteriore scelta del quantum di pena, entro i limiti minimo e massimo fissati dalla norma incriminatrice.

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L’inflizione della pena da parte del giudice trova un ulteriore fondamento giustificativo nelle esigenze della prevenzione generale dei reati: far seguire alla previsione legale della pena la sua applicazione in concreto con la pronuncia della sentenza di condanna significa confermare la serietà della minaccia contenuta nella norma incriminatrice.

Le pene esemplari – eccedendo la pena meritata dal singolo condannato – si pongono in frontale contrasto con due principi costituzionali: col principio di personalità della responsabilità penale (27.1 Cost.), perché una parte della pena applicata al singolo si fonderebbe non su ciò che lui ha fatto, ma su ciò che potranno fare in futuro altre persone, e col principio della dignità dell’uomo (3.1 Cost.: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali), in base al quale l’uomo non può essere degradato a mezzo per il conseguimento di scopi estranei alla sua persona.

Una volta che il giudice abbia commisurato la pena, può aprirsi un’ulteriore fase in cui lo stesso giudice può disporre che la pena non venga eseguita ovvero può sostituirla con pene diverse e meno gravose di quella inflitta: questa possibilità abbraccia una limitata fascia di reati, i cui autori possono essere ammessi alla sospensione condizionale della pena ovvero alla sostituzione della pena detentiva breve.

In questa fase domina l’idea di prevenzione speciale: il giudice che abbia di fronte l’occasionale autore di un reato non grave può decidere di evitargli gli effetti desocializzanti del carcere, qualora abbia ragione di prevedere che quel soggetto non commetterà in futuro nuovi reati; secondo la stessa logica, il giudice può sostituire la pena detentiva breve con una pena non privativa (pena pecuniaria o libertà controllata) o solo parzialmente privativa della libertà personale (semidetenzione): e quando si tratterà di scegliere fra quei diversi tipi di pena sostitutiva, per espressa indicazione del legislatore, dovrà scegliere quella più idonea al reinserimento sociale del condannato.

Che le pene minacciate dal legislatore ed inflitte dal giudice debbano trovare esecuzione è imposto da un’elementare esigenza di prevenzione generale.

L’opera di rieducazione non può essere condotta coattivamente: perché sia fatta salva la dignità dell’uomo (3 Cost.) e perché la pena risulti rispettosa del principio di umanità (27.3 Cost.), la rieducazione deve assumere la forma dell’offerta di aiuto.

La rieducazione deve inoltre cedere il passo alla neutralizzazione del condannato, ove questi non sia suscettibile né di essere reinserito nella società attraverso l’esecuzione della pena, né appaia sensibile ai suoi effetti di intimidazione-ammonimento.

L’efficacia del giudicato penale nei giudizi extrapenali:

  nel giudizio civile od amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato o sia intervenuto nel processo penale, la condanna con sentenza penale irrevocabile pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento del fatto, della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (651.1 c.p.p.); e la stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata a norma del 442 – resa cioè nel giudizio abbreviato – salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato (651.2 c.p.p.);

  negli altri giudizi civili ed amministrativi la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quando si controverte intorno ad un diritto o ad un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali

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oggetto del giudizio penale, purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa (654 c.p.p.);

   nei giudizi disciplinari la sentenza irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (653.1 bis c.p.p.); la stessa efficacia nel giudizio per responsabilità disciplinare è stata attribuita anche alla sentenza pronunciata a seguito del patteggiamento, cioè nel caso di applicazione della pena su richiesta dell’imputato e del p.m. (445.1 c.p.p.).

Accessorietà ed autonomia del diritto penale:

  vi sono norme incriminatrici in rapporto di accessorietà con gli altri rami dell’ordinamento: disciplinano materie in parte già giuridicamente preformate dal diritto civile od amministrativo, alle cui regole il giudice penale dovrà perciò necessariamente fare riferimento; non dovrà solo constatare dei fatti, ma anche applicare quelle regole giuridiche extrapenali: è il campo occupato dagli elementi normativi della fattispecie legale (ad es. nel furto l’altruità della cosa indica che la cosa non è di proprietà dell’autore del furto, ed il relativo accertamento comporta l’applicazione al caso concreto delle regole civilistiche sui modi d’acquisto del diritto di proprietà);

  altre norme incriminatrici sono caratterizzate da autonomia rispetto agli altri rami dell’ordinamento, in primo luogo come autonomia del significato da attribuire ad un dato termine, pur presente in quegli altri rami.

L’autonomia del diritto penale rispetto agli altri rami dell’ordinamento si manifesta anche sotto altri profili: per soddisfare le peculiari esigenze di tutela espresse da questa o quella norma incriminatrice, se ne amplia in via interpretativa il raggio d’azione, reprimendo fatti che no troverebbero tutela in altri rami dell’ordinamento.

L’unità dell’ordinamento giuridico si esprime nella coerenza che caratterizza l’ordinamento giuridico, al cui interno sono inconcepibili contraddizioni insanabili: è inammissibile che uno stesso fatto venga considerato ad un tempo lecito ed illecito.

Gli istituti che fanno emergere la connessione fra i differenti settori dell’ordinamento e l’unità profonda del sistema sono le cause di giustificazione: si tratta dei doveri e delle facoltà, derivanti da norme situate in ogni settore dell’ordinamento, che – rispettivamente – autorizzano od impongono la commissione di un fatto, rendendolo lecito nell’intero ordinamento.

La prova della sussistenza degli elementi costitutivi di un reato incombe sull’accusa: è una regola di rango costituzionale ad imporlo, il principio della presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva (27.2 Cost.: l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva).

Il codice di procedura penale del 1988 ha fissato le regole probatorie sulla cui base, in esito al giudizio, va pronunciata la sentenza di assoluzione: non solo quando vi è la prova che il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per altra ragione (530.1 c.p.p.), ma anche quando vi è il dubbio che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona non imputabile, perché manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova (530.2 c.p.p.).

Il codice del 1988 ha poi statuito che l’in dubio pro reo vale, come regola probatoria, per tutti gli elementi dalla cui assenza o presenza dipende l’affermazione della responsabilità, comprese le cause di giustificazione e le cause di non punibilità.

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Questo quadro è però esplicitamente contraddetto dal legislatore quando conia le norme incriminatrici che delineano i reati di sospetto, quei reati al cui interno compare un’anomala regola probatoria, che allevia alla pubblica accusa il peso di provare la presenza di un elemento costitutivo del reato, trasferendo sull’imputato l’onere di provare l’assenza di quell’elemento: la Corte Costituzionale ha affermato l’illegittimità costituzionale (col 27.2 Cost.) di queste norme incriminatrici.

La contraddizione con quell’insieme di regole probatorie è altrettanto frontale, anche se occulta, quando la giurisprudenza modifica la struttura del reato, sempre per alleviare l’onere probatorio dell’accusa: ricostruisce e plasma la fisionomia di questo o quell’elemento costitutivo per rendere più agevole la prova della sua sussistenza nel caso concreto.

È avvenuto anche lo stravolgimento del rapporto di causalità: si tratta di un rapporto fra due elementi del fatto di reato: l’azione (o l’omissione) e l’evento concreto, che, in base alla legge (40.1), dev’essere conseguenza dell’azione od omissione.

A volte è impossibile provare la sussistenza di un rapporto di derivazione causale fra una data azione ed un singolo evento concreto, perché non sono ancora disponibili leggi scientifiche col cui aiuto spiegare se quell’evento concreto è davvero riconducibile a quella data azione, come alla sua causa; al massimo vi sono indagini epidemiologiche, che però mostrano solo come quel tipo di azione possa aver aumentato la probabilità del verificarsi di eventi del genere di quello verificatosi in concreto.

Per aggirare questo ostacolo probatorio, la giurisprudenza stravolge la fisionomia del rapporto di causalità: quel rapporto non dovrebbe più intercorrere tra azione ed evento, bensì fra azione e pericolo dell’evento, accreditato dalle indagini epidemiologiche.

Sono note le ragioni politico-criminali di questo stravolgimento da parte della giurisprudenza: si vogliono soddisfare i bisogni di punizione alimentati dalla moderna società del rischio.

La codificazione penale in Italia: il primo codice penale in vigore nell’intero territorio del Regno d’Italia – approvato nel 1889 e vigente dal 1890 al 1931 – viene comunemente designato come codice Zanardelli, e presenta i tratti caratteristici del diritto penale liberale.

Al codice Zanardelli succede il codice Rocco, approvato nel 1930 ed entrato in vigore nel 1931: a differenza del precedente codice, il codice Rocco nasce nel contesto di uno Stato autoritario, ma porta a conservare, nella parte generale, alcuni principi di garanzia, come i principi di legalità e di irretroattività delle norme incriminatrici, mentre altri principi, come quello di colpevolezza, vengono ampiamente derogati.

Nel catalogo delle pene ricompare – già anticipata nel 1926 – la pena di morte, prevista sia per delitti politici che per delitti comuni.

Subito dopo la caduta del Fascismo, e prima ancora dell’edificazione del nuovo Stato repubblicano, il governo provvisorio abolisce la pena di morte e ripristina la scriminante della reazione agli atti arbitrari, nonché le circostanze attenuanti generiche.

Si pone mano anche alla progettazione di un nuovo codice penale, destinata però ad esaurirsi in una serie di proposte mai coronate da successo; la mancata riforma globale del codice penale non esclude comunque che siano stati profondamente modificati importanti istituti della parte generale e che siano stati realizzati significativi interventi sulla parte speciale.

Quanto alla parte generale, momenti di particolare rilievo sono segnati da: una legge del 1974, che modifica in senso favorevole al reo il trattamento sanzionatorio del concorso di reati, la disciplina della sospensione condizionale della pena e quella del giudizio di bilanciamento fra circostanze

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aggravanti ed attenuanti; la riforma penitenziaria del 1975; una legge del 1981 che, oltre ad operare una vasta depenalizzazione di illeciti minori, introduce la nuova tipologia sanzionatoria delle pene sostitutive della detenzione breve; una legge del 1990 che elimina la responsabilità oggettiva per le circostanze aggravanti.

Nella sfera della parte speciale si possono rammentare la riforma della disciplina dell’aborto (1978), interventi sulla disciplina della criminalità organizzata, comune o con finalità di terrorismo, una serie di modifiche alla normativa in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, la riforma dei delitti contro la libertà sessuale (1996) e l’introduzione di nuove norme incriminatrici per la repressione della pedofilia (1998).

Un impulso spesso decisivo al superamento dei tratti più illiberali della legislazione penale è venuto dalla Corte Costituzionale, che ha valorizzato in particolare i principi costituzionali di colpevolezza, di riserva di legge e di eguaglianza, oltre ai diritti di libertà (manifestazione del pensiero, sciopero, riunione ecc.) sanciti dalla Costituzione.

La Corte ha limitato l’irrilevanza dell’errore sulla legge penale ai soli casi in cui l’errore sia inescusabile, ed ha bandito la responsabilità oggettiva, individuando nella colpa il limite invalicabile per l’attribuzione della responsabilità penale.

Perdurano le istanze di una nuova codificazione penale.

CAPITOLO II – LE FONTILa pena di morte è consentita dalla Costituzione nei casi previsti dalle leggi militari di guerra (27.4 Cost.), anche se il legislatore ordinario nel 1994 ha eliminato la pena capitale dalla vigente legislazione militare di guerra.

Il principio di legalità o di riserva di legge in materia penale – cioè il monopolio del potere legislativo nella scelta dei fatti da punire e delle relative sanzioni – è frutto del pensiero illuministico; in particolare si deve a Montesquieu l’enunciazione del principio della separazione dei poteri.

Beccaria evidenzia il principio di precisione della legge penale, cioè l’esigenza di leggi chiare e precise.

Feuerbach, infine, conia la formula “nullum crimen, nulla poena sine lege”, individuando due ulteriori corollari della riserva di legge: il divieto di analogia ed il principio di determinatezza, in base al quale il legislatore può reprimere con la pena solo ciò che può essere provato nel processo.

Anche dopo l’avvento del Fascismo, l’eredità del pensiero liberale consente la riaffermazione del principio di legalità nel codice penale del 1930.

La legalità dei reati e delle pene è sancita nell’art. 1, il quale dispone che nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.

Sotto la rubrica “sottoposizione a misure di sicurezza: disposizione espressa di legge” l’art. 199 stabilisce che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti.

L’art. 14 delle Preleggi dispone che le leggi penali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati.

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L’art. 25.2 Cost. dispone che nessuno può essere punito se non in forza di una legge, mentre il 25.3 Cost., con una disposizione espressamente dedicata alle misure di sicurezza, stabilisce che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.

Si può interpretare la formula “legge” del 25.2 Cost. come legge formale, escludendo i decreti legislativi e i decreti-legge dalle fonti del diritto penale, ma il Governo ha fatto ampio ricorso al decreto-legge in materia penale.

Se il decreto-legge fosse fonte di norme penali, in caso di mancata conversione non risulterebbero più reversibili gli effetti sulla libertà personale, mentre per quanto riguarda il decreto legislativo, la prassi appare lontanissima dagli standard di rigore, analiticità e chiarezza auspicati dalla dottrina quali condizioni per la legittimità della delega, inoltre l’attribuzione al potere esecutivo di scelte politiche è un dato immanente alla tecnica della delega legislativa: si può circoscrivere, ma non eliminare la discrezionalità politica del potere esecutivo nell’esercizio della delega.

L’unica deroga alla riserva di legge formale ex 25.2 Cost. è rappresentata dai decreti governativi in tempo di guerra, che in base al 78 Cost. (le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari) possono essere fonte di norme penali su delega espressa del Parlamento.

La legge regionale non può essere fonte di norme incriminatrici: il 117.2 lettera l Cost. stabilisce che lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di ordinamento penale.

Un’eccezione all’incompetenza penale delle Regioni è stabilita dallo Statuto della Regione Trentino-Alto Adige per le leggi della Regione e delle Province di Trento e di Bolzano: l’art. 23 dello Statuto regionale – che ha rango di legge costituzionale e quindi può derogare al principio sancito dal 25.2 Cost., dispone che la Regione e le Province usano – a presidio delle norme contenute nelle rispettive leggi – le sanzioni penali che le leggi dello Stato stabiliscono per le stesse fattispecie.

Per quanto riguarda il diritto comunitario, nessuno dei trattati istitutivi delle Comunità attribuisce in forma espressa ad istituzioni comunitarie la potestà di creare norme incriminatrici, ed anche se vi fosse una previsione di questo tipo, le norme incriminatrici eventualmente emanate dalle fonti comunitarie non potrebbero avere ingresso nel nostro ordinamento: il principio costituzionale della riserva di legge in materia penale attribuisce infatti al solo Parlamento nazionale la competenza ad emanare norme incriminatrici.

Solo norme emanate dai singoli Stati membri possono apprestare una tutela penale degli interessi comunitari: in questo senso si parla di tutela penale mediata degli interessi comunitari; a tale scopo, le tecniche alle quali si può fare ricorso da parte dei legislatori nazionali sono di un triplice ordine:

  l’assimilazione degli interessi comunitari a quelli statali, cioè l’estensione ai primi della stessa tutela penale garantita ai secondi;

  l’armonizzazione delle normative penali nazionali, cioè l’adozione da parte di ogni Stato membro di incriminazioni tendenzialmente omogenee per contenuto e trattamento sanzionatorio;

   l’unificazione delle normative penali nazionali, cioè la predisposizione da parte dei singoli Stati di discipline penali del tutto identiche.

Le norme comunitarie, in caso di contrasto con norme penali statali, ne paralizzano, in tutto od in parte, l’applicabilità, in forza del principio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale.

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Il principio di riserva di legge ex 25.2 Cost. preclude la creazione di norme incriminatrici da parte della consuetudine.

Non v’è spazio per la consuetudine integratrice, cioè per il rinvio della legge alla consuetudine per l’individuazione di un elemento del reato.

Tra gli obblighi giuridici di impedire un evento la cui violazione fonda la responsabilità nei reati commissivi mediante omissione (40.2: non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo), non possono essere ricompresi gli obblighi di fonte consuetudinaria (caratterizzati da una congenita imprecisione).

Il principio di gerarchia delle fonti impedisce alla consuetudine di produrre l’abrogazione di norme legislative incriminatrici (desuetudine abrogatrice): le leggi infatti possono essere abrogate, in modo espresso o tacito, solo da leggi posteriori (art. 15 Preleggi).

Le norme consuetudinarie possono essere fonte di cause di giustificazione (consuetudine scriminante), in quanto oggetto della riserva di legge ex 25.2 Cost. sono solo le norme incriminatrici.

La riserva di legge ex 25.2 Cost esclude che, attraverso il sindacato sulle norme incriminatrici, la Corte costituzionale possa ampliare la gamma dei comportamenti penalmente rilevanti od inasprire il trattamento sanzionatorio di un reato; esclude anche che la Corte, sindacando la legittimità di norme che aboliscano un reato o lo trasformino in illecito amministrativo, faccia rivivere la figura di reato abolita o depenalizzata dal legislatore, a meno che tale norma rappresenti l’attuazione di un obbligo costituzionale espresso di incriminazione.

Individuata nella legge formale dello Stato l’unica fonte di norme incriminatrici, si pone il problema di stabilire se l’esclusione degli atti del potere esecutivo sia totale o parziale: se la riserva ex 25.2 Cost sia da intendersi assoluta, nel senso che sarebbe riservata alla legge l’individuazione di tutti gli elementi del reato e del relativo trattamento sanzionatorio, relativa, nel senso che la legge potrebbe rinviare ad una fonte di rango inferiore per l’individuazione del precetto e delle sanzioni, o tendenzialmente assoluta, nel senso che la legge potrebbe rinviare alla fonte sublegislativa solo per la specificazione sul piano tecnico di singoli elementi del reato già individuati dalla legge.

Il problema si pone in termini diversi a seconda che si tratti di atti normativi generali ed astratti o di provvedimenti individuali e concreti del potere esecutivo.

Quanto ai rapporti fra legge ed atti normativi generali ed astratti del potere esecutivo, un primo orientamento ritiene legittima ogni forma di rinvio da parte della legge ad una fonte subordinata: ciò che verrebbe punito è la disobbedienza come tale alle norme della Pubblica Amministrazione.

Un secondo orientamento riconosce che le norme generali ed astratte emanate da fonti subordinate alla legge integrano il precetto, concorrendo a definire la figura del reato: il principio affermato dal 25 Cost. sarebbe rispettato quando sia una legge ad indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena (così affermò la Corte Costituzionale), ma il criterio della sufficiente specificazione è vago.

Una terza impostazione, che usa la formula “riserva tendenzialmente assoluta”, ritiene legittimo il rinvio della legge ad atti generali ed astratti del potere esecutivo solo se quegli atti si limitano a specificare sul piano tecnico elementi già descritti dal legislatore.

Quando la legge penale rinvia non già ad atti amministrativi generali ed astratti da emanare successivamente, ma ad atti preesistenti, questa disciplina sarà legittima quando non permanga in

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capo all’autorità amministrativa il potere di modificare l’atto: in tal caso il rinvio ha carattere recettizio.

Quanto ai rapporti fra legge e provvedimenti individuali e concreti del potere esecutivo, non violano la riserva di legge le norme penali che sanzionano l’inottemperanza a classi di provvedimenti della pubblica amministrazione, centrale o periferica: il singolo provvedimento amministrativo, del quale la legge punisce l’inottemperanza, è infatti estraneo al precetto penale, perché non aggiunge nulla all’astratta previsione legislativa.

Compatibili con la riserva di legge sono anche le norme penali che sanzionano l’inottemperanza a classi di provvedimenti dell’autorità giudiziaria.

Le norme che puniscono l’inosservanza di classi di provvedimenti amministrativi (o giudiziari) possono peraltro violare la riserva di legge sotto il profilo del principio di precisione:ciò accade quando la classe di provvedimenti, la cui inottemperanza è penalmente sanzionata, sia descritta dalla legge in modo impreciso.

Col nome di norme penali in bianco si intendono le norme penali il cui precetto è posto in tutto od in parte da una norma di fonte inferiore alla legge.

La riserva di legge impone al legislatore un triplice ordine di obblighi: lo vincola a formulare le norme penali nella forma più chiara possibile (principio di precisione), ad incriminare solo fatti suscettibili di essere provati nel processo (principio di determinatezza), ad imporre al giudice il divieto di estensione analogica delle norme incriminatrici ed a formulare le norme incriminatrici in modo rispettoso del divieto di analogia (principio di tassatività): questi principi sono parte integrante del principio di legalità, e trovano il loro fondamento nel 25.2 Cost.

Oltre che espressione della divisione dei poteri, il principio di precisione è garanzia per la libertà e la sicurezza del cittadino.

Il rispetto del principio di precisione è indispensabile anche perché la minaccia legislativa della pena operi come strumento di prevenzione generale, consentendo al cittadino di sapere se il suo comportamento porterà con sé o no una pena.

Inoltre leggi imprecise non consentono di muovere all’agente un rimprovero di colpevolezza.

Solo norme incriminatrici precise, infine, assicurano all’imputato il pieno esercizio del diritto di difesa.

Il più elevato grado di precisione è assicurato dalla tecnica casistica, cioè dalla descrizione analitica di specifici comportamenti, oggetti situazioni; il costo del ricorso indiscriminato alla tecnica casistica è l’elefantiasi della legislazione penale.

Un rischio di imprecisione è connaturato al ricorso a clausole generali, cioè a formule sintetiche comprensive di un gran numero di casi, che il legislatore rinuncia ad enumerare e specificare.

Una tecnica coerente col principio di precisione è rappresentata dal ricorso a definizioni legislative.

Il legislatore talora individua gli elementi del reato con termini e concetti descrittivi, che fanno riferimento, descrivendoli, ad oggetti della realtà fisica o psichica, suscettibili di essere accertati coi sensi o comunque attraverso l’esperienza: l’impiego di concetti descrittivi non garantisce di per sé il rispetto del principio di precisione.

Altre volte un elemento del reato è individuato dal legislatore attraverso un concetto normativo, un concetto cioè che fa da riferimento ad un’altra norma, giuridica o extragiuridica: questa tecnica

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risulta compatibile col principio di precisione ad una duplice condizione: il concetto normativo non deve dare adito ad incertezze né in ordine all’individuazione della norma richiamata, né in ordine all’ambito applicativo ed al contenuto di tale norma.

La Corte Costituzionale ha sempre visto il fondamento del principio di precisione nel 25 Cost.; la recente legislazione sembra più attenta al rispetto del principio di precisione.

Un ulteriore sbarramento frapposto dalla riserva di legge agli arbitri del giudice penale è il divieto di analogia a sfavore del reo, altrimenti designabile come principio di tassatività delle norme incriminatrici; a norma dell’art. 1 c.p. il giudice non può punire fatti che non siano espressamente preveduti come reato dalla legge; secondo quanto prescrive il 14 Preleggi, non può applicare le leggi penali oltre i casi e i tempi in esse considerati.

Si parla di interpretazione estensiva quando il giudice attribuisce alla norma un significato tale da abbracciare tutti i casi che possono essere ricondotti al suo tenore letterale, fuoriesce dall’interpretazione quando riferisce la norma a situazioni non riconducibili a nessuno dei suoi possibili significati letterali, ed in particolare procede per analogia allorché estende la norma a casi simili a quelli espressamente contemplati dalla legge, sulla base di una comune ratio di disciplina.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione distingue costantemente, in linea di principio, tra interpretazione – consentita – ed analogia – non consentita quando riguardi le norme incriminatrici.

Il divieto di analogia opera anche nei casi in cui si sanzioni penalmente la violazione di un precetto contenuto in una disposizione extrapenale, appartenente ad un settore dell’ordinamento che ammette il ricorso all’analogia.

Il divieto di analogia, trovando fondamento nel 25.2 Cost., vincola non solo il giudice, ma anche il legislatore ordinario: si oppone in primo luogo all’eliminazione delle disposizioni (art. 1 c.p. e 14 Preleggi) che vietano al giudice l’applicazione analogica delle norme incriminatrici, vieta l’introduzione di norme che facoltizzino l’analogia nel diritto penale, e preclude la creazione di fattispecie ad analogia espressa.

Sono costituzionalmente legittime, invece, le norme contenenti formule del tipo “e altri simili”, “e altri analoghi” ecc., che siano però precedute dall’elencazione di una serie di ipotesi omogenee, tali da consentire l’individuazione di un genere sotto il quale ricondurre i casi.

Il divieto di analogia in materia penale opera solo quando l’applicazione analogica andrebbe a sfavore dell’agente (analogia in malam partem): il divieto di analogia non si estende alle norme che escludono o attenuano la responsabilità (analogia in bonam partem).

Il ricorso all’analogia va incontro a tre limiti:

  la norma di favore non deve già ricomprendere il caso in esame, nemmeno se interpretata estensivamente;

  la lacuna individuata dall’interprete non dev’essere intenzionale, cioè frutto di una precisa scelta del legislatore;

   la norma di favore non deve avere carattere eccezionale.

Il divieto sancito dal 14 Preleggi non abbraccia le norme che prevedono le cause di giustificazione: non sono infatti norme penali, trattandosi di norme con finalità proprie, situate in ogni luogo dell’ordinamento, né sono norme eccezionali, perché sono espressione di altrettanti principi generali dell’ordinamento.

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Le cause di esclusione della punibilità non sono applicabili per analogia per il loro carattere di norme eccezionali.

Le norme che prevedono circostanze attenuanti non ammettono estensione analogica, essendo il frutto della precisa scelta politico-criminale di attribuire rilevanza attenuante a ben individuate situazioni, e solo a quelle.

La riserva di legge abbraccia non solo i reati, ma anche le relative sanzioni, nel senso che la legge deve prevedere il tipo, i contenuti e la misura delle pene – di tutte le pene: pene principali (17 c.p.), pene accessorie (19 c.p.), pene sostitutive delle pene detentive (art. 53 legge 689/1981), misure alternative alla detenzione (art. 47 legge 354/1975), pene applicabili in caso di conversione della pena pecuniaria (art. 102 legge 689/1981), effetti penali della condanna (20 c.p.).

Il principio di legalità delle pene vincola innanzitutto il giudice: l’art. 1 c.p. dispone che nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.

Il principio di legalità delle pene vincola anche il legislatore: il 25.2 Cost., disponendo che nessuno può essere punito se non in forza di una legge, consacra in modo sintetico l’idea che il tipo, i contenuti e la misura delle pene debbano trovare la loro fonte nella legge.

La Corte Costituzionale ha attribuito carattere assoluto alla riserva di legge in materia di pene, escludendo l’intervento di fonti diverse dalla legislazione statale anche per la definizione di aspetti marginali del trattamento sanzionatorio.

Dev’essere la legge a determinare il tipo (o i tipo) delle pene applicabili dal giudice per ciascuna figura di reato, e ciò può avvenire sia nella stessa norma incriminatrice, sia attraverso clausole generali.

La legge deve inoltre determinare con precisione il contenuto delle sanzioni penali.

La legge deve infine determinare la misura delle sanzioni penali.

Vi sono nella Costituzione alcuni principi (eguaglianza, personalità della responsabilità penale, rieducazione del condannato), che richiedono l’individualizzazione della pena da parte del giudice.

Il punto di equilibrio fra legalità ed individualizzazione della pena risiede nella predeterminazione legale, per ogni figura di reato, di una cornice di pena, cioè di un minimo e di un massimo entro il quale il giudice, usando i criteri indicati dal 133 c.p., dovrà scegliere la pena adeguata ad ogni singolo caso concreto.

Il principio di legalità si oppone alla previsione di pene indeterminate nel massimo; la cornice edittale dev’essere individuata con precisione; la cornice edittale non dev’essere troppo ampia, ed il principio di legalità della pena esige che la legge detti criteri vincolanti per il giudice nella commisurazione della pena.

Le misure di sicurezza (199 ss. c.p.) sono sanzioni – personali (215 c.p.) o patrimoniali (236 c.p.) – applicabili in aggiunta alla pena nei confronti di soggetti imputabili o semimputabili, ovvero in luogo della pena nei confronti di soggetti incapaci di intendere o di volere.

Al pari delle pene, anche le misure di sicurezza soggiacciono al principio di legalità: tale principio è enunciato nel codice penale al 199 (nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti).

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Il legislatore ordinario non può delegare a fonti subordinate, in particolar modo al potere esecutivo, la disciplina delle misure di sicurezza, né può dettare una disciplina imprecisa od indeterminata.

Il primo presupposto per l’applicazione delle misure di sicurezza è la commissione di un fatto preveduto dalla legge come reato, o, in via di eccezione, di un quasi reato.

Il secondo presupposto per l’applicazione delle misure di sicurezza (con l’eccezione della confisca) è la pericolosità sociale dell’agente, cioè la probabilità che egli commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati (203 c.p.); la pericolosità sociale va sempre accertata in concreto dal giudice.

Per soddisfare il principio di precisione, il giudizio di pericolosità dovrebbe essere riferito alla futura commissione non di qualsivoglia reato, bensì di ben delimitate classi di reati; la legge dovrebbe poi individuare una serie di elementi effettivamente sintomatici della pericolosità sociale, e dovrebbe consentire il ricorso alla perizia sulla personalità dell’imputato già nel momento in cui il giudice ordina la sottoposizione ad una misura di sicurezza.

Un ulteriore dubbio di compatibilità col 25.3 Cost. si profila in relazione al principio di determinatezza: le scienze criminologiche denunciano infatti l’assenza di leggi scientifiche o di massime di esperienza che consentano di affermare nel caso concreto la pericolosità sociale di una persona.

La riserva di legge ex 25.3 Cost. esige che il legislatore individui il tipo di misura di sicurezza applicabile dal giudice.

Accade peraltro nel nostro ordinamento che in norme di parte generale o di parte speciale si preveda l’applicabilità di una misura di sicurezza senza precisarne la specie: per questi casi il 215.3 dice che quando la legge stabilisce una misura di sicurezza senza indicarne la specie, il giudice dispone che si applichi la libertà vigilata, a meno che, trattandosi di un condannato per delitto, ritenga di disporre l’assegnazione di lui ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro.

A differenza di quanto si è detto per le pene, la riserva di legge tollera di per sé misure di sicurezza indeterminate nel massimo, poiché dipendono dalla pericolosità sociale dell’agente, cioè da uno stato personale che si protrae nel tempo e del quale non è dato stabilire a priori se e quando verrà meno.

CAPITOLO III – I LIMITI ALL’APPLICABILITÀ DELLA LEGGE PENALELimiti temporali. Il rispetto del principio di irretroattività delle norme che contengono nuove incriminazioni è imposto al giudice dall’art. 2.1 c.p., il quale dispone che nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato: il 2.3 vieta inoltre al giudice di applicare retroattivamente una legge successiva sfavorevole al reo: dispone infatti che se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo.

Queste norme penali non sono modificabili né derogabili dal legislatore ordinario, perché il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli al cittadino è stato innalzato al rango di principio costituzionale: secondo il disposto del 25.2 Cost. nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso , e il divieto riguarda sia la punizione di fatti che al tempo della loro commissione non costituivano reato, sia la punizione più severa di fatti che già costituivano reato.

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Anche al di fuori della materia penale opera il principio di irretroattività della legge, vincolando il giudice; l’art. 11 Preleggi stabilisce infatti che la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo, tuttavia questa disciplina, non essendo coperta da garanzia costituzionale, non impedisce al legislatore ordinario di emanare leggi con efficacia retroattiva anche in pregiudizio dei diritti dei cittadini, ove sussista una ragionevole causa giustificatrice.

Il principio di irretroattività, al pari del principio di legalità, è condizione indispensabile perché la minaccia della pena da parte del legislatore funzioni come strumento di prevenzione generale.

In secondo luogo, il principio di irretroattività impone al legislatore – a garanzia dei cittadini – di includere fra i presupposti dell’applicazione della pena la colpevolezza dell’agente.

Al fine di garantire al cittadino libere scelte di azione è necessario che non gli venga accollata alcuna responsabilità penale per fatti a lui non rimproverabili.

La libertà d’azione del cittadino viene rispettata solo se ciò che gli viene addossato è un fatto che, al momento in cui lo ha commesso, egli ha previsto e voluto (dolo), o che avrebbe evitato se avesse impiegato la dovuta diligenza (colpa), se conosceva o almeno poteva conoscere la norma penale che vietava la realizzazione del fatto (errore inescusabile sulla legge penale), e se era capace di intendere e di volere (imputabilità).

Si configura una nuova incriminazione quando la legge individua una figura di reato integralmente nuova, comprensiva di una classe di fatti che in base alla disciplina previgente erano tutti penalmente irrilevanti.

Una nuova incriminazione può essere altresì il risultato dell’ampliamento di figure di reato preesistenti.

Il divieto di retroattività abbraccia non solo le nuove incriminazioni, ma anche la previsione di pene principali, pene accessorie ed effetti penali della condanna più severi di quanto previsto nella legge vigente al tempo del commesso reato.

Si discute se il principio di irretroattività interessi anche le misure di sicurezza: a proposito delle misure di sicurezza il 25.3 Cost. enuncia il principio di legalità, ma non il principio di irretroattività; inoltre il 200 c.p. stabilisce al primo comma che le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, e soggiunge al secondo comma che se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo dell’esecuzione.

Nessuno può essere sottoposto ad una misura di sicurezza per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso o secondo una legge successiva, non costituisce reato.

L’art. 200 c.p. disciplina l’ipotesi in cui il fatto fosse previsto come reato già al tempo della sua commissione e la legge del tempo già prevedesse l’applicabilità di una misura di sicurezza, ma una legge successiva abbia disciplinato diversamente le modalità di esecuzione della misura.

In questo caso, l’art. 200 c.p. impone al giudice di cognizione di applicare la legge in vigore al momento in cui egli dispone la misura, se poi la legge in vigore al momento dell’esecuzione è ancora diversa, il giudice dell’esecuzione dovrà applicare la nuova legge.

Un problema ancora diverso riguarda la possibilità di applicare una misura di sicurezza prevista da una legge posteriore nel caso in cui la legge del tempo in cui il soggetto ha agito configurasse il fatto come reato, ma non prevedesse l’applicabilità di quella misura: tale ipotesi non rientra nella previsione del 200 c.p.

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In base al generale principio di irretroattività della legge (11 Preleggi), il giudice non potrà applicare la misura di sicurezza a chi abbia agito prima dell’entrata in vigore della legge che ha previsto la misura.

In assenza di una copertura costituzionale, questa regola potrebbe peraltro essere derogata in forma espressa dal legislatore.

Non sono ricomprese nel divieto di retroattività le norme che regolano il processo penale, perché tali norme non interferiscono con le libere scelte di azione del cittadino: per la materia processuale opera di regola il principio tempus regit actum, cioè il principio secondo il quale gli atti processuali già compiuti conservano la loro validità anche dopo un mutamento della disciplina legislativa, mentre gli atti da compiere sono immediatamente disciplinati dalla nuova legge processuale, ancorché collegati ad atti compiuti in precedenza.

L’appartenenza di una norma al diritto penale sostanziale od al diritto processuale non è però sempre incontroversa.

Problematica è soprattutto l’efficacia nel tempo di una legge che allunghi la durata del tempo necessario per la prescrizione di un reato: occorre distinguere a seconda che all’entrata in vigore della legge sia già decorso il tempo per la prescrizione del reato, o la prescrizione non sia ancora maturata: nel primo caso, un’applicazione retroattiva della nuova disciplina è inammissibile; per contro, qualora l’allungamento dei termini intervenga prima che sia maturata la prescrizione in base alla legge vigente al momento del fatto, la legge che sancisce l’allungamento dei termini potrebbe trovare applicazione retroattiva.

L’art. 2 c.p. crea il principio di retroattività della legge penale più favorevole: nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato: se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

La norma sopravvenuta che abolisce l’incriminazione si applica dunque retroattivamente, se non è stata ancora pronunciata la condanna il soggetto dev’essere prosciolto.

Inoltre, secondo il 2 c.p., se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

Al principio di retroattività della disciplina più favorevole al reo fanno eccezione le leggi temporanee e le leggi eccezionali (2.4 c.p.), per le quali vale il diverso principio della incondizionata applicazione della legge del tempo in cui il fatto è stato commesso.

Ai fini dell’applicazione del 2.2 c.p. è indifferente che l’abolizione del reato comporti la liceizzazione del fatto od il suo trasferimento nel catalogo degli illeciti amministrativi (ciò che si designa normalmente come depenalizzazione).

Un’abolizione di reato può derivare anche dalla restrizione dell’area applicativa di una incriminazione preesistente.

Il 2.2 c.p. attribuisce una retroattività illimitata all’abolizione del reato, nel senso che ne può risultare travolto anche il giudicato.

Restano ferme invece le obbligazioni civili nascenti dal reato, nonché la misura di sicurezza patrimoniale della confisca.

Per quanto riguarda la successione di norme integratrici, si discute se e quando sia applicabile il principio della retroattività della norma penale più favorevole nei casi in cui, successivamente alla

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commissione del fatto, sia stata modificata una norma giuridica in varia forma richiamata dalla norma incriminatrice.

La soluzione del problema sarà diversa a seconda che la norma richiamata integri o no la norma incriminatrice: solo nel primo caso si potrà parlare propriamente di successione di norme integratrici della norma penale.

Quando la norma incriminatrice faccia riferimento ad un’altra norma attraverso un elemento normativo della fattispecie, la norma richiamata non integra la norma incriminatrice, con la conseguenza che la modifica della norma richiamata non si ripercuote sulla fisionomia del reato e non dà vita a fenomeni, anche parziali, di abolizione del reato.

Sono vere e proprie norme integratrici della norma penale le norme definitorie, cioè le norme – penali od extrapenali – attraverso le quali il legislatore chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici.

Una modifica della norma definitoria, che restringa l’ambito dell’incriminazione, dà vita ad una (parziale) abolizione del reato, con efficacia retroattiva – ex art. 2.2 c.p. – rispetto ai fatti commessi prima della modifica.

Un fenomeno di integrazione della norma penale si verifica anche quando una disposizione legislativa commini una sanzione penale per la violazione di un precetto contenuto in un’altra disposizione legislativa.

Può darsi che una legge posteriore alla commissione del fatto riguardi solo la disciplina del reato.

Se la legge posteriore è meno favorevole, il principio di irretroattività impone che si applichi la legge vigente al momento del fatto; se viceversa la nuova legge è più favorevole, si applicherà quest’ultima, in base al principio della retroattività della legge più favorevole.

Dispone il 2.3 c.p. che se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo.

La retroattività della legge posteriore più favorevole incontra un limite: non dev’essere intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna.

La regola del 2.3 c.p. si applica infatti salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

Per stabilire quale sia la legge che contiene la disciplina in concreto più favorevole, il giudice deve considerare l’intera disciplina: deve considerare in particolare la specie e la misura della pena principale, le pene accessorie, gli effetti penali della condanna, le misure di sicurezza, le cause di estinzione del reato e della pena, le cause di giustificazione.

Il principio della retroattività della legge penale più favorevole non opera per le leggi eccezionali e per le leggi temporanee; il 2.4 c.p. stabilisce che se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.

Per leggi eccezionali ai sensi del 2.4 c.p. si intendono leggi emanate per fronteggiare situazioni oggettive di carattere straordinario.

Ragioni analoghe presiedono alla scelta legislativa di escludere che abbiano efficacia retroattiva le leggi abolitrici o modificatrici in senso favorevole all’agente delle norme incriminatrici previste da una legge temporanea, cioè da una legge che contenga la predeterminazione espressa del periodo di tempo in cui avrà vigore.

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Un decreto-legge convertito in legge che contenga una nuova incriminazione od un trattamento penale più severo non può avere efficacia retroattiva.

Problemi delicati sorgono in relazione ai decreti-legge decaduti o non convertiti in legge, ove contengano una abolizione del reato od una disciplina penale più favorevole all’agente.

Il 77.3 Cost. dispone che i decreti-legge non convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione perdono efficacia sin dall’inizio.

È necessario distinguere a seconda che si tratti di fatti commessi prima dell’emanazione del decreto-legge non convertito (fatti pregressi) o di fatti commessi dopo l’emanazione del decreto e prima dello spirare del termine per la sua conversione (fatti concomitanti).

Quanto ai fatti pregressi, ove il fatto fosse preveduto come reato dalla legge del tempo, l’abolizione del reato o la disciplina più favorevole prevista dal decreto-legge non avrà nessun effetto, quanto ai fatti concomitanti, il principio di irretroattività impone di applicare la disciplina più favorevole contenuta nel decreto-legge non convertito.

Gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale sono regolati dal 136 Cost. e dall’art. 30 della legge 87/1953, dai quali si ricava che a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione nessun giudice può applicare la legge dichiarata incostituzionale a fatti che si siano verificati in qualsiasi tempo.

Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali: tale principio trova attuazione anche nella disciplina processuale; a norma del 673.1 c.p.p. in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione deve revocare la sentenza di condanna od il decreto penale, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato.

La Corte Costituzionale considera ammissibile il proprio sindacato su norme penali di favore (norme che prevedono cause di giustificazione, scusanti, cause di non punibilità ecc.).

Se si tratta di fatti commessi prima della dichiarazione di illegittimità, andrà applicata la norma penale di favore, e quindi l’agente dovrà essere prosciolto o dovrà essere punito meno severamente.

La disciplina più sfavorevole risultante dalla pronuncia della Corte Costituzionale andrà invece applicata ai fatti commessi a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione della Corte.

In assenza di una norma, si individua il tempo del commesso reato per i reati commissivi nel momento dell’azione o dell’ultima azione prevista dalla norma incriminatrice, per i reati omissivi – propri ed impropri – nel momento in cui andava compiuta l’azione doverosa (teoria della condotta).

Va respinta la teoria dell’evento, che fa riferimento all’evento per individuare il tempo del commesso reato.

Nei reati permanenti il reato si considera commesso nel momento in cui il soggetto compie l’ultimo atto col quale volontariamente mantiene la situazione antigiuridica.

Alla stessa conclusione si deve pervenire per i reati abituali: il tempo del commesso reato è quello in cui si realizza l’ultima condotta che integra il fatto di reato.

Limiti spaziali. La legge penale esprime una tendenziale adesione al principio di universalità: la legge penale italiana è infatti applicabile a tutti i fatti da essa previsti come reato dovunque, da

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chiunque e contro chiunque commessi, ad eccezione di una ristretta gamma di reati, per lo più di limitata gravità (artt. 9 e 10 c.p.): le contravvenzioni; i delitti puniti con la sola pena pecuniaria; i delitti commessi dallo straniero ai danni dello Stato italiano o del cittadino puniti con la reclusione inferiore ad un anno, i delitti commessi dallo straniero ai danni di uno Stato estero o di altro straniero puniti con la reclusione inferiore nel minimo a tre anni.

Quanto ai fatti commessi all’estero, la legge pone talora ostacoli di natura processuale alla perseguibilità del reato, richiedendo la presenza dell’autore nel territorio dello Stato dopo la commissione del reato (artt. 9 e 10 c.p.), la richiesta del Ministro della giustizia (artt. 8, 9 e 10 c.p.), l’istanza o la querela della persona offesa (9.2 e 10.1 c.p.) o la mancata estradizione dell’autore (10.2 n. 3 c.p.); è inoltre necessaria la previsione del fatto come reato sia dalla legge italiana, sia dalla legge straniera (doppia incriminazione).

La legge penale italiana si applica innanzitutto ai reati commessi nel territorio dello Stato, ed è indifferente che l’autore del reato sia un cittadino od uno straniero: dispone il 6.1 c.p. che chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana.

La nozione di territorio dello Stato è fornita dal 4.2 c.p., il quale stabilisce, in primo luogo, che agli effetti della legge penale, è territorio dello Stato il territorio della Repubblica – individuato da confini politici, desunti da convenzioni internazionali, trattati, atti di annessione ecc. – e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato.

Appartengono dunque al territorio dello Stato il suolo dello Stato, le acque interne e il lido del mare, il sottosuolo (nei limiti della sua concreta utilizzabilità e raggiungibilità), il soprassuolo (spazio aereo nazionale, che sovrasta il territorio della Repubblica ed il relativo mare territoriale, limitatamente allo spazio atmosferico) ed il mare territoriale (che, a norma del 2.2 disp. prel. Cod. nav., si estende fino a 12 miglia marine dalle coste continentali ed insulari della Repubblica; un miglio marino equivali a 1,852 Km.).

Secondo il 4.2 ult. pt. c.p., sono considerati poi come territorio dello Stato le navi e gli aeromobili italiani, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, ad una legge territoriale straniera.

In base al diritto internazionale, è illimitata l’estensione della legge penale italiana alle navi ed agli aeromobili militari italiani che si trovino nell’ambito di un territorio estero, mentre ove si tratti di navi od aerei civili italiani (commerciali o da riporto) che si trovino in territorio estero l’assoggettamento alla legge penale italiana è limitato, nel senso che è escluso quando:

  la vittima del reato sia persona diversa dai membri dell’equipaggio;

  il fatto turbi la tranquillità dello Stato estero;

   sia stato richiesto l’intervento dell’autorità locale.

Il codice penale non dice niente a proposito dei reati commessi a bordo di navi od aeromobili stranieri che si trovino nel territorio italiano; quei reati si devono considerare commessi in territorio estero ove si tratti di navi o di aerei militari stranieri.

Anche i reati commessi a bordo di navi od aerei civili battenti bandiera straniera che si trovino in territorio italiano si considerano commessi all’estero, a meno che:

  la vittima del reato sia persona diversa dai membri dell’equipaggio;

  il fatto turbi la tranquillità dello Stato italiano;

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   sia stato richiesto l’intervento dell’autorità italiana.

Il 6.2 c.p., accogliendo la teoria dell’ubiquità, chiarisce che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto od in parte, o si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione.

Nei reati a forma vincolata, cioè nei reati nei quali la legge esige che l’azione sia compiuta con determinate modalità, tipica è l’azione che corrisponde allo specifico modello di comportamento descritto nella norma incriminatrice.

Quanto ai reati a forma libera – reati nei quali la legge attribuisce rilevanza a qualsiasi comportamento umano che abbia causato un determinato evento – solo apparentemente l’azione tipica non è individuata dal legislatore.

Nei reati dolosi a forma libera tipica è l’attività che consiste nell’uso del mezzo scelto dall’agente; nei reati colposi a forma libera tipica sarà invece ogni azione che abbia colposamente creato il pericolo concretizzatosi nell’evento.

Quanto ai reati la cui condotta consiste in un’omissione, il reato si considererà commesso nel territorio dello Stato se ivi doveva essere realizzata l’azione doverosa, che è stata omessa; e nel caso in cui si dovessero compiere più azioni, se almeno una di tali azioni dovesse essere compiuta nel territorio dello Stato.

Nei reati di evento, sia commissivi che omissivi, la legge penale italiana risulta applicabile quando nel territorio dello Stato si sia verificato l’evento descritto nella norma incriminatrice: e ciò anche nel caso in cui l’azione o l’omissione che rispettivamente l’hanno causato o non impedito siano state compiute in territorio estero.

Per quanto riguarda i reati abituali, il reato si considererà commesso nel territorio dello Stato quando ivi è stato compiuto anche uno solo degli atti la cui reiterazione integra il reato.

Quanto ai reati permanenti, l’applicabilità della legge italiana è assicurata dal compimento in Italia anche di una sola parte del fatto.

Il codice penale italiano non detta nessuna regola per disciplinare i casi in cui il reato, consumato o tentato, venga commesso in territorio estero, mentre in Italia siano compiute condotte di partecipazione, materiale o morale, cioè condotte che abbiano contribuito causalmente alla realizzazione del fatto.

Prevale l’opinione che considera sufficiente a fondare l’applicazione della legge penale italiana la commissione nel territorio dello Stato di una qualsiasi condotta di partecipazione.

Riguardo ad alcuni reati commessi integralmente all’estero dal cittadino o dallo straniero, descritti o richiamati dal 7 n. 1-4 e n. 5 pt. 1 c.p., l’applicazione della legge penale italiana è di regola incondizionata.

La legge penale italiana è applicabile innanzitutto ai reati espressamente menzionati nei nn. 1-4 dell’art. 7 c.p.: si tratta di reati che offendono preminenti interessi dello Stato, quali i delitti contro la personalità dello Stato, i delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto, i delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano, nonché i delitti commessi dai pubblici ufficiali a servizio dello Stato, con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alle loro funzioni.

A questo elenco l’art. 7 n. 5 pt. I c.p. aggiunge ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge [...] stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana.

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In base all’art. 7 n. 5 pt. II c.p. soggiace infine alla legge penale italiana, ancorché commesso all’estero, ogni altro reato per il quale speciali [...] convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana.

Il legislatore del 1930 ha stabilito che la legge penale italiana è applicabile ai delitti politici commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero ai danni di un interesse politico dello Stato italiano o di un diritto politico di un cittadino italiano (art. 8 c.p.); l’applicabilità della legge italiana non è però in questo caso incondizionata: è infatti subordinata ad una scelta di opportunità da parte del potere esecutivo, nella forma della richiesta del Ministro della giustizia (art. 8.1 c.p.), nonché alla scelta discrezionale della persona offesa, nella forma della querela, ove si tratti di reato perseguibile a querela di parte (art. 8.2 c.p.).

La nozione di delitto politico è fornita dal terzo comma dell’art. 8 c.p.: agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici.

Delitto oggettivamente politico è, in primo luogo, quello che offende le componenti essenziali dello Stato: la sua indipendenza e sicurezza, l’integrità territoriale, la forma di governo; non sono invece oggettivamente politici i delitti che offendono il funzionamento degli apparati dello Stato, come la pubblica amministrazione o l’amministrazione della giustizia.

In secondo luogo, sono oggettivamente politici i delitti che offendono un diritto politico del cittadino.

Quanto al delitto soggettivamente politico, si tratta di ipotesi di reato comune alla cui commissione l’agente è stato ideologicamente motivato dall’obiettivo di incidere sulle componenti essenziali dello Stato, sulla struttura dei singoli poteri statuali o sui rapporti fra Stato e cittadino.

Politico è anche un delitto comune determinato solo in parte da motivi politici.

I delitti comuni commessi all’estero dal cittadino: il 9 c.p. dispone l’assoggettamento alla legge penale italiana dei delitti comuni puniti con pena detentiva commessi dal cittadino all’estero.

Quando si tratta di un delitto punito con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, l’applicabilità della legge penale italiana è subordinata alla condizione che il cittadino, dopo la commissione del reato, sia presente nel territorio dello Stato (9.1 c.p.).

Per i delitti puniti con la reclusione inferiore nel minimo a tre anni, la legge penale italiana è applicabile a condizione che, trattandosi di delitti perseguibili a querela della persona offesa, sia stata proposta la querela; se si tratta di delitti perseguibili d’ufficio che offendono un bene giuridico individuale pertinente ad un cittadino italiano, dev’essere stata proposta istanza di procedimento da parte della persona offesa, ovvero, in caso di inerzia della parte, dev’essere avanzata richiesta dal Ministro della giustizia (342 c.p.p.); se si tratta di delitti perseguibili d’ufficio che offendono beni collettivi, istituzionali o diffusi, la perseguibilità è subordinata alla richiesta del Ministro della giustizia (9.2 c.p.).

Se infine il reato commesso all’estero dal cittadino è un delitto che offende un bene pertinente ad uno Stato estero o ad un cittadino straniero, l’applicabilità della legge penale italiana è subordinata:

  alla presenza del cittadino nel territorio dello Stato;

  alla querela od all’istanza della persona offesa;

   alla richiesta del Ministro della giustizia;

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   alla non concessione da parte del Governo italiano dell’estradizione del cittadino o alla non accettazione dell’estradizione del cittadino da parte del Governo dello Stato estero (9.3 Cost.).

Pur in assenza di un’espressa indicazione legislativa, deve ritenersi che l’assoggettamento alla legge penale italiana di reati comuni commessi all’estero dal cittadino sia sottoposto all’ulteriore condizione della doppia incriminazione del fatto, vale a dire della previsione del fatto come reato sia secondo la legge italiana, sia secondo la legge dello Stato straniero nel quale è stato commesso il reato.

L’art. 10 c.p. assoggetta alla legge penale italiana i delitti comuni commessi dallo straniero all’estero, entro limiti e sotto condizioni diverse a seconda che il delitto offenda lo Stato od un cittadino italiano, od uno Stato estero od uno straniero.

L’applicabilità della legge penale italiana per i delitti comuni dello straniero commessi all’estero a danno dello Stato o del cittadino italiano abbraccia tutti i delitti puniti con la reclusione non inferiore nel minimo ad un anno (10.1 c.p.).

L’esercizio dell’azione penale è peraltro subordinato alle seguenti condizioni:

  la presenza dell’agente nel territorio dello Stato;

  la proposizione della querela, se si tratta di delitti perseguibili a querela della persona offesa;

   se si tratta di delitti perseguibili d’ufficio che offendono un bene individuale pertinente ad un cittadino italiano, dev’essere stata proposta istanza di procedimento ad opera della persona offesa, o, in caso d’inerzia della parte, richiesta del Ministro della giustizia;

   se si tratta di delitti perseguibili d’ufficio a danno dello Stato italiano, la perseguibilità è subordinata alla richiesta del Ministro della giustizia.

È più ristretto l’ambito di applicabilità della legge penale italiana ai delitti comuni dello straniero commessi all’estero a danno di uno Stato estero o di uno straniero: deve trattarsi di delitti puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni (10.2 c.p.).

Sono sempre necessarie:

  la presenza dell’agente nel territorio dello Stato;

  la richiesta del ministro della giustizia;

   la non concessione, da parte del Governo italiano, dell’estradizione dello straniero o la non accettazione dell’estradizione da parte del Governo dello Stato estero.

Per tutti i delitti comuni commessi all’estero dallo straniero, l’applicabilità della legge penale italiana è subordinata all’ulteriore condizione della doppia incriminazione del fatto.

Il rinnovamento del giudizio: vige la riserva della giurisdizione italiana su tutti i fatti assoggettati alla legislazione penale italiana, ai sensi degli artt. 6-10 c.p.

La riserva di giurisdizione è piena e incondizionata per i reati commessi nel territorio dello Stato: dispone l’art. 11.1 c.p. che nel caso indicato nell’art. 6, il cittadino o lo straniero è giudicato nello Stato, anche se sia stato giudicato all’estero.

Per i delitti, sia politici che comuni, commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero, il rinnovamento del giudizio in Italia è subordinato alla richiesta del Ministro della giustizia.

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Secondo il codice penale del 1930, il principio ne bis in idem non opera nei rapporti internazionali: il processo di integrazione europea determina la tendenza al riconoscimento del ne bis in idem all’interno dell’Unione europea.

La riserva di giurisdizione si manifesta anche nella tendenziale irrilevanza delle sentenze penali straniere.

La possibilità di riconoscimento è circoscritta a taluni aspetti secondari della sentenza: per stabilire la recidiva od un altro effetto penale della condanna, per dichiarare l’abitualità, la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere (12.1 n.1 c.p.), per applicare una pena accessoria (12.1 n.2 c.p.), per applicare una misura di sicurezza personale (12.1 n. 3 c.p.).

Il riconoscimento della sentenza straniera può produrre alcuni effetti di diritto civile (12.1 n. 4 c.p.): in primo luogo il riconoscimento può essere operato ai fini delle restituzioni o del risarcimento del danno; inoltre la sentenza penale straniera può essere riconosciuta ad altri effetti civili.

I Paesi membri del Consiglio d’Europa hanno stipulato una serie di convenzioni: può essere data esecuzione in Italia alle pene principali inflitte da un giudice straniero, inoltre l’esecuzione della pena principale, inizia a all’estero, può proseguire in Italia a seguito del trasferimento della persona condannata.

Le sentenze penali straniere possono essere riconosciute anche ai fini della confisca disposta dal giudice straniero su beni che si trovino nel territorio dello Stato, sempre che si tratti di beni che sarebbero confiscabili se si procedesse secondo la legge italiana; inoltre è confiscabile il valore dei proventi del reato, cioè una somma di denaro corrispondente al valore del prezzo, del prodotto o del profitto del reato (733 bis c.p.p.).

Il sistema penale italiano pone una serie di condizioni perché si possa procedere al riconoscimento di una sentenza penale straniera.

Condizione prioritaria è la doppia incriminazione del fatto (cioè il fatto concreto oggetto della domanda di estradizione integra un reato sia secondo la legge italiana che secondo la legge dello Stato estero).

Agli effetti del riconoscimento, previsto dal 12 c.p., non basta che la legge italiana preveda quel fatto come reato, ma occorre che lo preveda come delitto.

Deve esistere un trattato di estradizione con lo Stato estero (12.2 c.p.), anche se non è necessario che il delitto rientri fra quelli per i quali è prevista l’estradizione; e in mancanza di un trattato di estradizione si può procedere al riconoscimento della sentenza straniera sulla base della richiesta del Ministro della giustizia (12.2 c.p.).

L’estradizione è un procedimento attraverso il quale uno Stato consegna ad un altro Stato una persona che si trova nel suo territorio affinché, nello Stato richiedente, sia sottoposto a giudizio (estradizione processuale) od all’esecuzione di una pena già inflittagli (estradizione esecutiva).

Si parla inoltre di estradizione attiva e di estradizione passiva, a seconda che si guardi all’estradizione dal punto di vista dello Stato che richiede l’estradizione o dello Stato che la concede.

Il 13.1 c.p. si limita ad enumerare le fonti che regolano l’estradizione, individuandole nella legge penale italiana, nelle convenzioni e negli usi internazionali.

A norma del 696 c.p.p. prevalgono le norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato italiano e le norme di diritto internazionale generale: ciò comporta che le norme di diritto

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internazionale si applicano in luogo di quelle di diritto interno, anche emanate successivamente, ove dettino una disciplina diversa.

Limiti invalicabili sono posti dal diritto italiano con norme di rango costituzionale in ordine all’estradabilità del cittadino per i reati comuni: l’estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali (26.1 Cost.), ovvero, come stabilisce il 13.4 c.p., non è ammessa l’estradizione del cittadino, salvo che sia espressamente consentita nelle convenzioni internazionali.

Condizione per l’estradizione, enunciata nel 13.2 c.p., è la doppia incriminazione del fatto; è irrilevante che il fatto abbia una diversa qualificazione giuridica nei due ordinamenti, o che sia punito con pene diverse: ai fini della doppia incriminazione il caso concreto va considerato sia sotto il profilo del fatto, sia sotto il profilo dell’antigiuridicità, sia sotto il profilo della colpevolezza.

L’estradizione deve ritenersi altresì subordinata alla punibilità, in base alla legge dei due Stati, del fatto antigiuridico e colpevole.

È irrilevante, ai fini della concedibilità dell’estradizione, la circostanza che nell’ordinamento dello Stato richiesto il reato sia sottoposto a condizioni di procedibilità non previste nello Stato richiedente.

Un’ulteriore condizione per l’estradizione, sia attiva che passiva, è fissata dal principio di specialità: esso (699 e 721 c.p.p.) comporta il divieto per lo Stato che ottiene l’estradizione di sottoporre l’estradato a restrizione della libertà personale a qualsiasi titolo – in esecuzione di una pena, o di una misura di sicurezza, o di un provvedimento cautelare disposto dal giudice per finalità processuali – per fatti anteriori e diversi da quello per il quale l’estradizione è stata concessa, e comporta il divieto di consegnare l’estradato ad un altro Stato (quest’ultimo limite non vige a proposito dell’estradizione in Italia dall’estero).

Il divieto di sottoporre l’estradato a restrizione della libertà personale per fatti anteriori e diversi da quello cui l’estradizione si riferisce viene meno in quattro casi:

  quando lo Stato richiedente abbia domandato ed ottenuto una estradizione suppletiva, cioè l’estensione dell’estradizione per perseguire altri reati anteriormente commessi;

  quando l’estradato si sia volontariamente trattenuto nel territorio dello Stato che ha ottenuto l’estradizione per almeno 45 giorni dalla sua definitiva liberazione;

   quando l’estradato, dopo aver lasciato il territorio dello Stato al quale era stato consegnato, vi abbia fatto volontariamente ritorno;

   quando l’estradato abbia manifestato il consenso ad essere processato per un reato anteriore e diverso da quello per il quale è stata concessa l’estradizione.

La materia dell’estradizione è infine governata dai principi di sussidiarietà e del ne bis in idem (705.1 c.p.p.).

In base al primo principio, l’estradizione non può essere concessa se per lo stesso fatto e nei confronti della persona della quale è domandata l’estradizione è in corso un procedimento penale nello Stato italiano; in base al principio del ne bis in idem, l’estradizione è altresì impedita quando per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è stata pronunciata in Italia sentenza irrevocabile.

La Costituzione prevede alcuni limiti personali all’estradizione.

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Il cittadino è estradabile per reati comuni solo ove l’estradizione sia espressamente prevista nelle convenzioni internazionali (26.1 Cost.).

Mentre tra i Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione europea di estradizione del 1957 l’estradizione del cittadino può essere rifiutata, nei rapporti fra gli Stati dell’UE la situazione è diversa: l’estradizione non può essere rifiutata per il motivo che la persona oggetto della domanda di estradizione è cittadino dello Stato membro richiesto.

La Costituzione vieta anche l’estradizione del cittadino e dello straniero per reati politici (26.2 e 10.4 Cost.).

Una parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che la nozione costituzionale di reato politico coincida con quella fornita dall’art. 8 c.p.; un secondo indirizzo ritiene che il divieto di estradizione operi solo quando vi sia pericolo di persecuzione politica o di discriminazione da parte dello Stato che ha richiesto l’estradizione; un terzo orientamento ritiene che il divieto di estradizione operi solo nei confronti degli autori di reati commessi all’estero finalizzati a far cessare un regime illiberale, ovvero per affermare un diritto di libertà il cui esercizio è negato in quel regime.

La legge costituzionale 1/1967 consente l’estradizione per i delitti di genocidio.

La Convenzione europea per la repressione del terrorismo rende possibile l’estradizione da parte dell’Italia per una serie di delitti determinati da motivi politici di terrorismo.

La Convenzione di estradizione fra gli Stati membri dell’UE del 27-9-1996 ha virtualmente eliminato il divieto di estradizione per i reati oggettivamente o soggettivamente politici.

Il codice di procedura penale del 1988 ha disposto che non può essere concessa l’estradizione quando vi è ragione di ritenere che l’imputato od il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.

È vietata l’estradizione da parte dell’Italia per reati per i quali l’ordinamento dello Stato richiedente preveda la pena di morte, a nulla rilevando che lo Stato estero fornisca assicurazioni che la pena di morte non sarà inflitta o, se già inflitta, non sarà eseguita.

Limiti personali. Il codice penale prevede la possibilità che alcune categorie di soggetti siano eccezionalmente sottratte all’applicabilità della legge penale italiana; l’art. 3.1 c.p. stabilisce che la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale, designate dalla dottrina col nome di immunità.

Si distingue tra immunità di diritto sostanziale ed immunità di diritto processuale, a seconda che comportino l’inapplicabilità della sanzione penale (ed eventualmente delle sanzioni extrapenali) o l’esenzione dalla giurisdizione penale (od anche extrapenale); si distingue anche tra immunità funzionali ed extrafunzionali, a seconda che riguardino i soli fatti compiuti nell’esercizio della specifica funzione da cui deriva l’immunità od anche i fatti estranei all’esercizio di quella funzione.

Il 90 Cost. dispone che il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione.

Si tratta di un’immunità funzionale di diritto sostanziale.

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Il reato di attentato alla Costituzione è quello previsto dal 283 c.p. (cioè la commissione di un fatto diretto a mutare la Costituzione dello Stato o la forma del governo con mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale dello Stato), sotto il nome di alto tradimento vanno ricompresi i delitti contro la personalità dello Stato richiamati dal 77 c.p.m.p., nonché ogni altro delitto contro la personalità dello Stato che rappresenti il tradimento dei doveri di fedeltà alla Repubblica assunti dal Presidente all’atto dell’insediamento nella carica.

Per i membri del Parlamento la Costituzione prevede un’immunità funzionale di diritto sostanziale circoscritta alle opinioni espresse ed ai voti dati nell’esercizio delle loro funzioni: il 68.1 Cost. recita infatti che i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni: si tratta di una causa di giustificazione.

Restano fuori dell’immunità i fatti materiali, le opinioni manifestate nell’ambito dell’attività politica e gli stessi atti tipici della funzione parlamentare che siano frutto di reati.

I parlamentari godono anche di una limitata immunità processuale penale (68.2 e 3 Cost.): nei loro confronti può essere iniziato un procedimento penale, ma il compimento di alcuni atti processuali, nonché l’adozione di misure restrittive della libertà personale, necessitano dell’autorizzazione da parte della Camera di appartenenza.

Il parlamentare può però essere privato della libertà personale in esecuzione di una sentenza definitiva di condanna e nei casi di arresto obbligatorio in flagranza.

Quest’immunità processuale riguarda non solo i fatti realizzati dal parlamentare nell’esercizio delle funzioni, ma tutti i comportamenti del parlamentare, anche precedenti all’assunzione della carica: si tratta di un’immunità extrafunzionale.

La Costituzione riconosce ai consiglieri regionali un’immunità di diritto sostanziale analoga per contenuti ed effetti giuridici a quella dei parlamentari: il 122.4 Cost. dice che i consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.

I consiglieri regionali non godono di alcuna immunità processuale.

Anche i giudici della Corte costituzionale fruiscono di un’immunità funzionale di diritto sostanziale per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.

I giudici costituzionali, limitatamente alla durata della carica, godono anche di un’immunità processuale extrafunzionale: senza autorizzazione della Corte Costituzionale i giudici non solo non possono essere privati della libertà personale, ma non possono nemmeno essere sottoposti a procedimento penale.

I componenti del Consiglio Superiore (della Magistratura) non sono punibili per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni e concernenti l’oggetto della discussione: si tratta di un’immunità funzionale di diritto sostanziale.

I membri del Consiglio Superiore della Magistratura vengono esonerati solo dalla responsabilità penale (“non sono punibili”, e non anche dalla responsabilità civile ed amministrativa: siamo dunque in presenza di una causa di esclusione della punibilità.

Tra le immunità di diritto internazionale, un’immunità assoluta compete al Sommo Pontefice, la cui persona è definita “sacra e inviolabile” nell’art. 8 del Trattato del Laterano; il Sommo Pontefice gode di un’immunità di diritto sostanziale anche per atti compiuti al di fuori delle funzioni, nonché di una piena immunità di diritto processuale; tali immunità si estendono a tutti i rami dell’ordinamento.

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L’immunità, agli effetti del diritto penale, ha natura di causa personale di esclusione della punibilità.

Anche il Capo di Stato estero, i suoi famigliari ed il suo seguito, quando si trovino in tempo di pace in territorio italiano, godono di un’immunità assoluta di diritto sostanziale e processuale, penale ed extrapenale, che abbraccia anche gli atti compiuti al di fuori dell’esercizio delle funzioni.

Godono di un’immunità di diritto sostanziale sia agli effetti penali sia agli effetti extrapenale, quando si trovino nel territorio dello Stato italiano, i capi ed i membri di governo stranieri, i componenti delle missioni speciali inviate in Italia da uno Stato estero ed i rappresentanti di Stati esteri in conferenze internazionali ed in organizzazioni intergovernative: tale immunità riguarda però i soli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni.

Gli agenti diplomatici stranieri godono dell’immunità dalla giurisdizione penale, civile ed amministrativa dello Stato italiano anche per gli atti compiuti al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni; i membri del personale tecnico ed amministrativo della missione diplomatica sono esentati dalla giurisdizione penale dello Stato italiano, mentre l’esenzione dalla giurisdizione civile ed amministrativa è circoscritta agli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni.

I funzionari e gli impiegati consolari stranieri godono di un’immunità funzionale di diritto sostanziale, penale ed extrapenale; sul terreno del diritto penale, l’immunità ha natura di causa personale di non punibilità.

Per gli atti compiuti al di fuori dell’esercizio delle funzioni i funzionari e gli impiegati consolari non possono essere arrestati, né assoggettati a custodia cautelare in carcere, a meno che non si tratti di un crimine grave.

La ratio di tutte queste immunità di diritto internazionale è quella di non turbare i rapporti tra Stati: non si tratta perciò di cause di giustificazione, ma, sul terreno del diritto penale, di cause personali di esclusione della punibilità.

I membri del Parlamento europeo godono di un’immunità funzionale, penale ed extrapenale, per le opinioni espresse ed i voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni: infatti non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti a motivo delle opinioni o dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni.

Per la durata delle sessioni dell’Assemblea, i parlamentari europei godono di un’immunità processuale extrafunzionale.

Alcuni funzionari di organismi internazionali (es.: il Segretario generale dell’ONU) quando si trovano in territorio italiano godono di immunità extrafunzionale.

Gli appartenenti alle forze armate di uno Stato estero che in tempo di pace si trovino nel territorio dello Stato italiano sono soggetti alla sola legge dello Stato di appartenenza, quando si tratti di reati commessi in servizio.

Una disciplina speciale è prevista per gli appartenenti alle forze armate dei Paesi partecipanti alla NATO di stanza in Italia dalla Convenzione di Londra del 19-6-1951: essa prevede la giurisdizione esclusiva dello Stato di origine per i fatti non punibili in base alla legge italiana e la corrispondente giurisdizione esclusiva dello Stato italiano per i fatti non punibili secondo la legge dello Stato di origine.

I restanti fatti, previsti come reato sia dalla legge italiana sia dalla legge dello Stato di appartenenza del militare, sono sottoposti alla giurisdizione concorrente di entrambi gli Stati, con attribuzione di sfere di giurisdizione prioritarie ad ognuno di essi, modificabili a seguito di rinuncia alla priorità.

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CAPITOLO IV – LA NOZIONE DI REATO E LA DISTINZIONE TRA DELITTI E CONTRAVVENZIONIUn fatto costituisce reato solo quando la legge gli ricollega una pena.

Non tutte le sanzioni penali assolvono alla funzione di identificare i reati: questo compito è affidato alle sole pene principali, cioè l’ergastolo, la reclusione, la multa, l’arresto e l’ammenda (previste dal 17 c.p.); inoltre, per i reati militari, la reclusione militare (22 c.p.m.p.).

Sono ulteriori pene principali per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità, ma non assolvono alla funzione di identificare i reati perché sono sempre previste in alternativa alla multa o all’ammenda.

Non rappresentano invece un criterio di identificazione dei reati né le pene accessorie, né le misure di sicurezza, né le pene sostitutive della detenzione breve.

La specie delle pene principali elencate nel 17 c.p. rappresenta il criterio per distinguere il reato dall’illecito amministrativo: quando la legge commina la multa (pena pecuniaria per i delitti: art. 18 c.p.) o l’ammenda (pena pecuniaria per le contravvenzioni: art. 18 c.p.) ci si trova in presenza di un reato, mentre sanzioni pecuniarie non designate come multa o come ammenda hanno natura di sanzione amministrativa.

Anche nei rapporti con l’illecito civile, l’unico criterio per identificare i reati è offerto dal nome delle pene principali: quando un fatto costituisce illecito civile, ma non è al contempo sanzionato con una delle pene principali, non possono sorgere dubbi circa la sua estraneità al diritto penale.

Uno stesso fatto può costituire sia un reato sia un illecito civile: in tal caso l’ordinamento appresta due tipi di sanzioni civili: il risarcimento (185 c.p.) e la pubblicazione della sentenza di condanna (186 c.p.).

La legislazione penale vigente suddivide i reati in due categorie – delitti e contravvenzioni – usando come unica nota distintiva il criterio formale della specie delle pene comminate.

Dispone il 39 c.p. che i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilita da questo Codice.

Si ha un delitto ogni volta che la legge commini l’ergastolo, la reclusione o la multa (pene principali per i delitti, a norma del 17.1 c.p.), una contravvenzione ogni volta che la legge commini l’arresto o l’ammenda (pene principali stabilite per le contravvenzioni, a norma del 17.2 c.p.).

Sono inoltre delitti (37.3 c.p.m.p.) i reati militari puniti con la reclusione militare (pena militare principale, a norma del 22 c.p.m.p.).

La rilevanza della distinzione fra delitti e contravvenzioni riguarda la diversa disciplina cui vengono assoggettate le due classi di reati sotto molti profili, tra i quali l’elemento soggettivo del reato ed il tentativo:

  l’elemento soggettivo di regola richiesto per i delitti è il dolo, salvi i casi in cui la legge espressamente dà rilevanza alla colpa od alla preterintenzione: il 42.2 stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge.

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Le contravvenzioni, invece, di regola possono essere commesse sia con dolo, sia per colpa: in base al 42.4 c.p. nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.

Solo eccezionalmente sono previste contravvenzioni che devono necessariamente essere commesse con dolo, o contravvenzioni che devono essere necessariamente commesse per colpa;

  il tentativo è di regola configurabile solo per i delitti; eccezionalmente in alcune leggi speciali possono comparire contravvenzioni rilevanti anche nella forma del tentativo.

CAPITOLO V – ANALISI E SISTEMATICA DEL REATOL’evoluzione del diritto penale non s’è esaurita nella formulazione di una tipologia di reati, elencati e raggruppati nella parte speciale della legislazione penale: la dottrina ha proceduto ad estratte dai singoli reati elementi comuni, che hanno formato oggetto di elaborazione concettuale, in parte recepita e fatta propria dal legislatore nella parte generale delle codificazioni.

Ciascun elemento del reato è presupposto indispensabile per l’applicabilità della pena nel caso concreto.

Il reato è un fatto umano, antigiuridico, colpevole, punibile (non si tratta dell’unico modello di analisi del reato: altri ne vengono proposti da parte della dottrina).

L’interprete deve accertare se è stato commesso il fatto, cioè l’offesa al bene giuridico che individua ciascuna figura di reato, e solo dopo domandarsi se l’autore del fatto ha agito con dolo o con colpa, era imputabile ecc., e quindi ne è responsabile? O deve invece prima volgere la propria attenzione all’autore, domandandosi quali fossero le sue intenzioni, se sia stato disattento, imprudente ecc., e solo dopo accertare se le sue intenzioni o la sua disattenzione si siano tradotte nel fatto costitutivo di un determinato reato?

Quest’alternativa tra primato dell’oggettivo o primato del soggettivo può essere sciolta ricordando che la preferenza dev’essere accordata a quello schema di analisi che meglio rispecchia la struttura del reato in un dato ordinamento.

Il legislatore italiano ha quasi costantemente costruito i tipi di reato assegnando il primato all’oggettivo rispetto al soggettivo, cioè al fatto rispetto all’autore.

La Costituzione italiana ha disegnato un modello di reato che fa perno sul fatto – sull’offesa ai beni giuridici – assegnando alla colpevolezza (dolo, colpa, imputabilità ecc.) il ruolo, logicamente successivo, di individuare le condizioni che consentono di rimproverare il fatto al suo autore.

Lo schema di analisi del reato che meglio rispecchia la fisionomia che ogni reato possiede nel nostro ordinamento è quello che individua nel reato quattro elementi:

  un fatto (umano);

  l’antigiuridicità del fatto;

   la colpevolezza del fatto antigiuridico;

   la punibilità del fatto antigiuridico e colpevole.

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Ne segue che punibile può essere solo un fatto umano antigiuridico e colpevole; colpevole può essere solo un fatto umano antigiuridico; antigiuridico può essere solo un fatto umano.

Il fatto è l’insieme degli elementi oggettivi che individuano e caratterizzano ogni singolo reato come specifica forma di offesa ad uno o più beni giuridici.

Essendo il fatto una specifica forma di offesa ad uno o a più beni giuridici, ne segue che compongono il fatto tutti e solo quegli elementi oggettivi che concorrono a descrivere quella forma di offesa: la condotta, cioè un’azione od un’omissione, cioè il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa; i presupposti della condotta, cioè le situazioni – di fatto o di diritto – che devono preesistere o coesistere con la condotta; l’evento o gli eventi, cioè gli accadimenti temporalmente e spazialmente separati dalla condotta e da questa causati; il rapporto di causalità tra condotta ed evento; l’oggetto materiale, cioè la persona o la cosa sulla quale incide l’azione o l’omissione o l’evento; le qualità o le relazioni giuridiche o di fatto richieste per il soggetto attivo del reato nei reati propri, cioè nei reati che possono essere commessi solo da soggetti qualificati; l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, nella forma del danno od in quella del pericolo.

Non tutti gli elementi menzionati compaiono in ogni fatto di reato.

Una condotta – nella forma dell’azione o dell’omissione – ed un’offesa – nella forma del danno o del pericolo – sono presenti in qualsiasi fatto penalmente rilevante, ma vi sono reati in cui il fatto è costituito solo da un’azione o da una omissione dannosa o pericolosa – reati di mera condotta – mentre nei reati di evento il fatto consta di una condotta, di uno o più eventi e di un rapporto che collega la condotta all’evento o agli eventi.

Gli elementi costitutivi del fatto sono di regola espressamente previsti dalla norma incriminatrice; talora sono invece sottintesi, nel senso che la loro presenza è tacitamente richiesta dalla norma per la configurazione del fatto.

Nella grande maggioranza dei casi gli elementi del fatto di reato sono individuati dal legislatore come elementi positivi, cioè come elementi la cui presenza nel caso concreto è necessaria per la sussistenza del fatto.

A volte però la legge richiede per l’esistenza del fatto l’assenza di una qualche situazione di fatto o giuridica: si parla in questo caso di elementi negativi del fatto.

Per individuare gli elementi del fatto di reato il legislatore può fare uso sia di concetti descrittivi, sia di concetti normativi: si parla di concetti descrittivi quando il legislatore usa termini che fanno riferimento ad oggetti della realtà fisica o psichica, suscettibili di essere accertati coi sensi o comunque attraverso l’esperienza.

Un elemento del reato è invece individuato con un concetto normativo quando il legislatore fa ricorso ad un concetto che fa riferimento ad una norma o ad un insieme di norme giuridiche od extragiuridiche.

Il secondo elemento del reato, l’antigiuridicità, esprime il rapporto di contraddizione tra il fatto e l’intero ordinamento giuridico.

Si dà il nome di cause di giustificazione all’insieme delle facoltà e dei doveri derivanti da norme (ubicate in qualsiasi luogo dell’ordinamento) che autorizzano od impongono la realizzazione di un fatto penalmente rilevante.

Se il fatto è commesso in assenza di ogni causa di giustificazione, il fatto è antigiuridico, e costituirà reato se concorreranno gli altri estremi del reato (la colpevolezza e la punibilità); se

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invece è commesso in presenza di una causa di giustificazione, il fatto è lecito, e quindi non costituisce reato, è lecito in qualsiasi luogo dell’ordinamento e perciò non assoggettabile a nessun tipo di sanzione.

In questo senso la dottrina parla di efficacia universale delle cause di giustificazione.

La colpevolezza dell’agente designa l’insieme dei criteri dai quali dipende la possibilità di muovere all’agente un rimprovero per aver commesso il fatto antigiuridico; nel diritto vigente i criteri sui quali si fonda e si gradua il rimprovero personale per la commissione del fatto antigiuridico sono:

  dolo o colpa;

  assenza di scusanti, o normalità delle circostanze concomitanti alla commissione del fatto;

   conoscenza o conoscibilità della norma penale violata;

   capacità di intendere e di volere.

Il dolo è rappresentazione e volizione di tutti gli estremi del fatto antigiuridico.

La colpa consiste nella negligenza, nell’imprudenza, nell’imperizia o nell’inosservanza di norme giuridiche preventive e deve abbracciare tutti gli elementi del fatto antigiuridico.

La colpevolezza esige anche che il fatto antigiuridico, doloso o colposo, sia commesso dall’agente in assenza di scusanti, cioè di circostanze anormali, tali, nella valutazione legislativa, da influenzare in modo irresistibile la volontà dell’agente o le sue capacità psicofisiche e da rendere perciò inesigibile un comportamento diverso da quello tenuto nel caso concreto.

La conoscenza o la conoscibilità della norma penale violata comporta che l’agente sapesse, o potesse sapere usando la dovuta diligenza, che il fatto antigiuridico, doloso o colposo, da lui commesso, era represso da una norma incriminatrice.

Non è colpevole, e quindi non può esser punito, chi al momento in cui ha commesso il fatto non era imputabile (85 c.p.), ed è imputabile chi è capace sia di intendere sia di volere.

All’interno della punibilità va ricondotto l’insieme delle condizioni, ulteriori ed esterne rispetto al fatto antigiuridico e colpevole, che possono fondate od escludere l’opportunità di punirlo.

È controverso se la punibilità debba essere collocata tra gli elementi del reato, o se appartenga ad un diverso ed ulteriore capitolo del diritto penale.

Le scelte del legislatore sull’opportunità di punire un fatto antigiuridico e colpevole possono esprimersi nell’individuazione di un duplice ordine di condizioni:

  condizioni che fondano la punibilità;

  condizioni (o cause) che escludono la punibilità.

Fondano la punibilità quelle che il legislatore designa come condizioni obiettive di punibilità: si tratta di quegli accadimenti, menzionati in una norma incriminatrice, che esprimono solo valutazioni di opportunità in ordine all’inflizione della pena.

Escludono la punibilità, e possono quindi chiamarsi cause di esclusione della punibilità:

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  alcune situazioni contestuali alla commissione del fatto che attengono alla posizione personale dell’agente o ai suoi rapporti con la vittima (cause personali di non punibilità);

  alcuni comportamenti dell’agente susseguenti alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole (cause sopravvenute di non punibilità o di risoluzione della punibilità);

   alcuni fatti naturali o giuridici successivi alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole, che o sono del tutto indipendenti da comportamenti dell’agente o comunque non si esauriscono in un comportamento dell’agente (cause di estinzione della punibilità).

A volte il legislatore rimette al giudice il compito di valutare l’opportunità di una effettiva punizione dell’autore di un fatto antigiuridico e colpevole.

L’ordine nel quale sono disposti gli elementi del reato secondo la sistematica quadripartita – il fatto, la sua antigiuridicità, la colpevolezza per il fatto antigiuridico e la punibilità del fatto antigiuridico e colpevole – è un ordine logico che trova fondamento nel 129 c.p.p. (In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza.  Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato, o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta).

Si pone il problema se alcune specificità dei reati omissivi – cioè dei reati caratterizzati dal mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa – impongano, ai fini dell’esposizione didattica, una trattazione separata rispetto ai reati commissivi – cioè dei reati caratterizzati dal compimento di azioni vietate.

Per molto tempo nell’elaborazione della teoria del reato s’è pensato alle norme penali come ad un insieme di divieti di agire e si sono perciò assunti come prototipo i reati commissivi; peraltro il diritto penale risulta composto anche da comandi di agire: accanto ai reati commissivi, o di azione, compaiono i reati omissivi.

L’avvento dello Stato sociale, e del governo pubblico dell’economia, ha comportato la crescita progressiva dei comandi di agire.

CAPITOLO VI – IL FATTOIl fatto nei reati commissivi. Al centro di ogni fatto commissivo penalmente rilevante compare, descritta da un verbo, un’azione umana; il diritto penale italiano reprime gli attacchi dell’uomo all’integrità dei beni giuridici e non la mera volontà di offendere un bene che non si sia tradotta in un’attività esteriore.

Due sono le tecniche alle quali il legislatore può ricorrere per descrivere le azioni penalmente rilevanti: può esigere che l’azione sia compiuta con determinate modalità, e si parla di reati a forma vincolata, o può attribuire rilevanza ad ogni comportamento umano che abbia causato – con qualsiasi modalità – un determinato evento: si parla allora di reati a forma libera.

A volte, configurando un reato a forma vincolata, il legislatore dà rilievo al compimento di più azioni, che devono essere realizzate secondo una determinata successione temporale.

Nel codice penale e nella legislazione speciale compaiono reati di possesso, cioè reati nei quali l’oggetto del divieto è il possesso (o la detenzione) di una cosa.

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Uno speciale sottogruppo dei reati di possesso è costituito dai reati di sospetto, il cui carattere peculiare è di natura processuale e riguarda l’inserzione nella norma incriminatrice di una anomala regola di giudizio: in contrasto con la presunzione di non colpevolezza (27.2 Cost.), l’onere della prova della destinazione o della provenienza lecita della cosa incombe interamente sull’imputato, e finché il giudice versi in dubbio si impone una pronuncia di condanna.

In molte figure di reato la rilevanza penale di un fatto come specifica forma di offesa ad un bene giuridico è subordinata alla condizione che l’azione venga compiuta in presenza di determinate situazioni di fatto o giuridiche, che devono preesistere all’azione o ne devono accompagnare l’esecuzione: tali situazioni vengono designate come presupposti della condotta.

Spesso la norma incriminatrice richiede il verificarsi di un evento, cioè un accadimento temporalmente e spazialmente separato dall’azione e che da questa dev’essere causato: il nome di evento spetta solo a quella o a quelle conseguenze dell’azione che sono espressamente o tacitamente previste dalla norma incriminatrice, e non anche alle eventuali ulteriori conseguenze, non prese in considerazione dalla singola norma.

L’evento può consistere, tra l’altro, in una modificazione della realtà fisica, in una modificazione della realtà psichica, in un’alterazione della realtà economico-giuridica, in un comportamento umano.

La nozione di evento, come accadimento che dev’essere causato dall’azione, è espressamente usata dal legislatore, fra l’altro, nella definizione del rapporto di causalità (nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione, 40.1 c.p.) e nella definizione del delitto doloso (il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione, 43.1 c.p.).

Parte della dottrina parla anche di evento giuridico per alludere all’offesa (danno o pericolo) al bene tutelato dalla norma incriminatrice: questa nozione, in quanto sinonimo di offesa, risulta superflua.

Tra l’azione e l’evento deve sussistere un rapporto di causalità; il problema cruciale è che cosa sia necessario per poter affermare che un dato evento è conseguenza di una data azione.

Ridotte all’essenziale, le principali teorie della causalità sono:

  teoria condizionalistica, o della condicio sine qua non : l’azione A è causa dell’evento B, se può dirsi che senza A, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, l’evento B non si sarebbe verificato;

  teoria della causalità adeguata: l’azione A è causa dell’evento B quando senza l’azione A l’evento B non si sarebbe verificato, ed inoltre l’evento B rappresenta una conseguenza prevedibile, o normale, dell’azione A;

   teoria della causalità umana: l’azione A è causa dell’evento B quando senza l’azione A l’evento B non si sarebbe verificato, ed inoltre il verificarsi dell’evento B non è dovuto al concorso di fattori eccezionali.

Nella teoria condizionalistica giuridicamente rilevante come causa dell’evento è ogni azione che non può essere eliminata mentalmente senza che l’evento concreto venga meno.

Questa concezione della causalità trova piena applicazione in due gruppi di casi discussi in dottrina: un primo caso è quello della causalità ipotetica: l’evento che rappresenta il punto di riferimento del

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rapporto di causalità non è l’evento astratto descritto dalla norma incriminatrice, ma l’evento concreto, cioè individuato attraverso tutte le modalità della sua verificazione.

Il rapporto di causalità va accertato tenendo conto del decorso causale effettivo, e non di un decorso causale solo ipotetico, che cioè poteva verificarsi ma non s’è verificato.

Un secondo caso è quello della causalità addizionale: sussiste il rapporto di causalità tra l’azione di Tizio, che ha somministrato a Caio una dose di veleno di per sé sufficiente ad uccidere, e la morte di Caio, se anche Sempronio ha autonomamente versato una dose mortale dello stesso veleno nella stessa bevanda assunta da Caio? Eliminando mentalmente l’azione di Sempronio, Cario sarebbe morto egualmente, nello stesso tempo e luogo, ma il rapporto di causalità va accertato in relazione all’evento concreto, tenendo conto quindi anche della quantità di veleno: non si possono eliminare mentalmente né l’azione di Tizio né quella di Sempronio senza che l’evento concreto venga meno.

La formula dell’eliminazione mentale ha bisogno di essere riempita di contenuti per poter essere applicata ai casi concreti, e questi contenuti vanno desunti dalle leggi scientifiche, cioè da enunciati che esprimono successioni regolari di accadimenti, frutto dell’osservazione sistematica della realtà fisica o psichica.

La teoria della condicio sine qua non può dunque essere così riformulata: causa dell’evento è ogni azione che, tenendo conto di tutte le circostanze che si sono verificate, non può essere eliminata mentalmente, sulla base di leggi scientifiche, senza che l’evento concreto venga meno.

Le leggi scientifiche utilizzabili dal giudice per la spiegazione causale dell’evento possono essere o leggi universali o leggi statistiche: si parla di leggi universali quando si tratta di enunciati che asseriscono regolarità senza eccezioni nella successione di eventi, sono invece statistiche le leggi che enunciano regolarità statistiche emerse dall’osservazione della realtà empirica e che affermano che in un gran numero di casi, ma non tutti, all’accadimento A segue l’accadimento B.

Non sono leggi scientifiche i risultati delle indagini epidemiologiche.

A volte il giudice si trova di fronte a pluralità di possibili spiegazioni causali dell’evento, ciascuna fondata su una diversa legge scientifica: il giudice dovrà dare la preferenza a quella che meglio si attaglia al caso concreto.

Corollari della teoria condizionalistica:

  il concorso di fattori causali preesistenti, simultanei o sopravvenuti non esclude il rapporto di causalità tra l’azione e l’evento, quando l’azione è una condizione necessaria dell’evento. E ciò vale anche se i fattori estranei all’opera dell’uomo sono rari od anormali;

  il rapporto di causalità non è escluso nemmeno se il fattore causale ulteriore rispetto all’azione dell’uomo consiste in un fatto illecito di un terzo;

   il rapporto di causalità non sussiste quando tra l’azione o l’evento s’è inserita una serie causale autonoma, che è stata da sola sufficiente a causare l’evento: in tal caso l’azione è solo un antecedente temporale, e non una condicio sine qua non dell’evento.

La teoria della causalità adeguata si propone di escludere il rapporto di causalità quando nel decorso causale, accanto all’azione umana, siano intervenuti fattori – preesistenti, simultanei o sopravvenuti – anormali.

A giustificazione di questo limite, si avanzano considerazioni di equità: eventi imprevedibili per la loro anormalità non possono essere evitati nemmeno dall’uomo prudente e giudizioso, inoltre la

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punizione di chi abbia cagionato un evento imprevedibile non soddisfa né le esigenze della giusta retribuzione, né quelle della prevenzione.

Anche la teoria della causalità umana appone un limite alla nozione di causa proposta dalla teoria condizionalistica: l’evento non dev’essere dovuto al concorso di fattori eccezionali.

Il rapporto di causalità si considera escluso non già, come sostiene la teoria della causalità adeguata, tutte le volte in cui il decorso causale è anormale, ma solo nei casi in cui tra l’azione e l’evento intervengono fattori causali rarissimi, che hanno una minima, insignificante probabilità di verificarsi.

Il primo ed il terzo comma del 41 c.p. enunciano due corollari della teoria condizionalistica: il primo comma stabilisce che il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento, il terzo comma stabilisce che le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui.

Oggetto di controversie è invece la disciplina contenuta nel secondo comma, il quale dispone che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono da sole sufficienti a determinare l’evento: anche questa disposizione comunque ribadisce l’adesione del legislatore alla teoria condizionalistica, dal momento che esprime un ulteriore corollario di tale teoria e non contiene nessuna formula che evochi né l’idea di valutazioni prognostiche né l’intervento di fattori causali rarissimi.

L’adesione da parte del legislatore italiano alla teoria condizionalistica non comporta un eccessivo ampliamento dell’area della responsabilità penale: una volta accertata la sussistenza del rapporto di causalità tra una determinata azione ed un determinato evento, si passa ad esaminare se quell’evento è stato causato dolosamente o colposamente.

La teoria condizionalistica sembrerebbe produrre un’eccessiva dilatazione della responsabilità penale nelle ipotesi in cui l’evento viene posto a carico dell’agente a titolo di responsabilità oggettiva, cioè solo perché l’azione dell’agente lo ha materialmente causato, senza che sia necessario accertare la sussistenza del dolo o della colpa.

Dopo l’avvento della Costituzione, tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva non hanno più diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento.

Non risulta persuasiva l’obiezione, spesso mossa alla teoria condizionalistica, di aprire la strada ad un regresso all’infinito, andando alla ricerca della causa penalmente rilevante anche tra gli antecedenti più remoti dell’evento (fino ad Adamo ed Eva!).

Glanville Williams disse che l’obiezione è vera, ma due fattori limitano l’indagine giuridica: si inizia con l’imputato che è accusato (e non con sua madre), e l’imputato che ha realizzato una condicio sine qua non non è responsabile se la sua non è altresì una causa colpevole.

In alcune figure di reato l’azione o l’evento devono incidere su una persona o su una cosa: tale entità (persona o cosa) viene normalmente designata come oggetto materiale del reato.

La maggior parte dei reati possono essere commessi da chiunque: si parla in questo caso di reato comune; vi sono però reati che possono essere commessi solo da chi possegga determinate qualità o si trovi in determinate relazioni con altre persone: si parla in questo caso di reato proprio.

Quanto alla natura delle qualità o delle relazioni del soggetto attivo che entrano a comporre il fatto nei reati propri, può trattarsi sia di qualità o relazioni di fatto, sia di qualità o relazioni giuridiche.

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L’offesa al bene od ai beni tutelati può assumere la forma della lesione o del pericolo per l’integrità del bene o dei beni.

In alcune ipotesi l’offesa al bene protetto è un elemento espresso del fatto di reato, in quanto espressamente menzionato nella norma incriminatrice.

In altre ipotesi, all’interno del modello di reato, la legge individua un elemento costitutivo che rappresenta l’equivalente fenomenico dell’offesa al bene giuridico: anche in questi casi l’offesa è elemento costitutivo espresso del fatto di reato.

Altre volte l’offesa al bene giuridico non compare nella lettera della norma incriminatrice, né direttamente – attraverso la sua menzione espressa – né indirettamente – attraverso un elemento che rappresenti l’equivalente fenomenico dell’offesa.

In molte di queste ipotesi l’offesa al bene giuridico va fatta emergere in via interpretativa, trattandosi di un elemento sottinteso del fatto di reato.

La lesione esprime la distruzione, l’alterazione in peggio, la diminuzione di valore ecc. dell’entità in cui si concretizza il bene giuridico: il pericolo esprime invece la probabilità della lesione, una lesione solo potenziale.

Configurando reati di danno (o di lesione), il legislatore reprime fatti che compromettono l’integrità dei beni; configurando reati di pericolo, il legislatore anticipa la tutela: reprime fatti che minacciano l’esistenza o il godimento del bene.

In dottrina ed in giurisprudenza si distingue fra reati di pericolo concreto e reati di pericolo astratto: sono reati di pericolo concreto quelli in cui il giudice deve accertare se nel singolo caso concreto il bene giuridico ha corso un effettivo pericolo, sono reati di pericolo astratto quei reati nei quali il legislatore, sulla base di leggi di esperienza, ha presunto che una classe di comportamenti è, nella generalità dei casi, fonte di pericolo per uno o più beni giuridici.

Nei reati di pericolo concreto l’accertamento del pericolo esige una prognosi ex ante in concreto; il giudice deve riportarsi idealmente al momento nel quale s’è verificata l’azione o l’evento della cui pericolosità si tratta; per formulare la prognosi deve poi usare il massimo di conoscenze disponibili al momento del giudizio, ivi comprese le eventuali, occasionali conoscenze ulteriori del singolo agente, che gli consentiranno di dire se, data quell’azione o quell’evento, era probabile il verificarsi della lesione del bene; infine come base del giudizio prognostico, il giudice deve tener conto di tutte le circostanza presenti al momento in cui s’è compiuta l’azione o s’è verificato l’evento.

L’inquadramento di un illecito penale tra i reati di pericolo astratto o tra i reati di pericolo concreto è spesso controverso.

Le peculiarità del fatto nei reati omissivi. Nei reati omissivi è penalmente rilevante solo il mancato compimento di azioni imposte da comandi contenuti in norme giuridiche: obblighi etico-sociali, pur avvertiti come vincolanti da parte della collettività, rilevano per il diritto penale solo se ribaditi da norme giuridiche.

L’omissione penalmente rilevante consiste nel mancato compimento di un’azione che si aveva l’obbligo di compiere.

Sono reati omissivi propri quelli nei quali il legislatore reprime il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa, indipendentemente dal verificarsi o meno di un evento come conseguenza dell’omissione; tali reati sono direttamente configurati da singole norme incriminatrici, che descrivono sia l’azione doverosa la cui omissione è penalmente rilevante, sia i presupposti in presenza dei quali sorge l’obbligo giuridico di agire.

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L’obbligo giuridico di agire presuppone il potere di compiere l’azione doverosa (ad impossibilia nemo tenetur).

Anche nei reati omissivi propri è presente l’offesa al bene tutelato, come elemento sottinteso del fatto.

Sono reati omissivi impropri quei reati nei quali la legge incrimina il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa imposta per impedire il verificarsi di un evento: in questi casi l’evento è elemento costitutivo del fatto.

Anche l’obbligo di impedire l’evento presuppone il relativo potere.

Per lo più i reati omissivi impropri non sono configurati attraverso apposite norme di parte speciale; la loro previsione è il risultato del combinarsi di una disposizione di parte generale – l’art. 40.2 c.p. – e di norme incriminatrici di parte speciale che vietano la causazione di un evento.

Due sono i criteri vincolanti ai quali il giudice deve attenersi per stabilire se e quando l’omesso impedimento di un evento sia penalmente rilevante:

  rileva solo il mancato compimento di un’azione impeditiva dell’evento imposta da una norma giuridica;

  è il contenuto delle singole norme giuridiche che decide quali siano i presupposti in presenza dei quali sorge l’obbligo di impedire l’evento e quali siano gli eventi il cui verificarsi dev’essere impedito.

Attraverso la formula “obbligo giuridico di impedire l’evento” il 40.2 c.p. rinvia a norme giuridiche extrapenali ovunque ubicate, senza distinguere a seconda del loro rango.

Fonte dell’obbligo di impedire l’evento non può essere una precedente attività pericolosa, lecita od illecita che sia: manca infatti una norma giuridica da cui possa ricavarsi, in capo a chi abbia creato la situazione di pericolo, l’obbligo di attivarsi per neutralizzare quel pericolo, impedendo il verificarsi di eventi dannosi.

Si possono individuare due diverse classi di obblighi: obblighi di protezione ed obblighi di controllo.

Si parla di obblighi di protezione quando l’obbligo giuridico riguarda la tutela di uno o più beni nei confronti di una gamma più o meno ampia di pericoli.

L’obbligo di impedire l’evento nascente da contratto sorge a partire non dal momento pattuito fra le parti, ma dal momento in cui l’obbligato viene a contatto con la specifica situazione pericolosa che egli deve neutralizzare.

Obblighi di controllo sono quelli aventi per oggetto la neutralizzazione dei pericoli derivanti da una determinata fonte.

Problemi peculiari presenta l’individuazione dei garanti nell’ambito delle imprese strutturate in forma societaria.

Si lasciano individuare due fondamentali categorie di doveri di garanzia:

  quelli relativi all’amministrazione dell’impresa, finalizzati alla protezione dei beni giuridici direttamente o indirettamente riconducibili alla tutela del patrimonio sociale;

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  quelli relativi alla gestione tecnica, operativa e commerciale dell’impresa sociale, finalizzati al controllo delle fonti di pericolo immanenti all’esercizio dell’attività d’impresa.

Dai doveri relativi all’amministrazione dell’impresa discende l’obbligo di impedire la commissione dei reati fallimentari e societari da parte del direttore generale e dell’institore; titolari di questo ordine di obblighi sono – in via esclusiva – i membri del consiglio di amministrazione della società, i membri del comitato esecutivo o l’amministratore o gli amministratori delegati.

Anche la delega di funzioni al comitato esecutivo od all’amministratore delegato lascia sussistere posizioni di garanzia in capo ai membri del consiglio di amministrazione: permane cioè il dovere di impedire i reati fallimentari o societari quando i membri del consiglio di amministrazione potevano venirne a conoscenza vigilando sul generale andamento dell’amministrazione della società ovvero quando ne siano comunque venuti a conoscenza (2392.2 c.c.).

Anche il secondo ordine di obblighi di garanzia – correlati alla gestione tecnica, operativa e commerciale dell’impresa – incombe sulle persone fisiche che occupano i vertici dell’organizzazione.

Si tratta di stabilire:

  se una delega di funzioni possa comportare un totale trasferimento degli obblighi di garanzia dai vertici dell’impresa ai soggetti delegati;

  quale siano la fonte e le condizioni di validità degli obblighi di garanzia in capo ai soggetti delegati.

Quanto al primo punto, possono essere trasferiti per delega obblighi di controllo, ma in ogni caso rimane in capo ai vertici dell’impresa un generale dovere di vigilanza sul rispetto da parte dei delegati dei compiti ad essi attribuiti.

Un totale venir meno della posizione di garanzia dell’organo di vertice può profilarsi in materia di sicurezza del lavoro, quando l’impresa sia articolata in diverse unità produttive: in questo caso il responsabile dell’unità produttiva assume la veste di datore di lavoro, a condizione che gli siano attribuiti i poteri giuridici ed i mezzi economici necessari per assicurare in via autonoma la neutralizzazione dei rischi inerenti all’attività produttiva.

Venendo al secondo punto, la fonte di un obbligo di garanzia in capo al soggetto delegato è un atto dell’autonomia privata che delinea l’organizzazione interna dell’impresa.

Per la validità della delega e della conseguente assunzione dell’obbligo di garanzia, è necessario, fra l’altro, che la delega sia precisa, che il delegato abbia accettato l’incarico, che gli siano stati trasferiti i poteri relativi all’assolvimento dei compiti delegati (comprensivi anche dei mezzi economici occorrenti), che il delegante non si ingerisca nello svolgimento dei compiti attribuiti al delegato.

È controverso se sia necessario che la delega sia conferita per iscritto, o se sia sufficiente la prova, anche testimoniale, dell’esistenza della delega, o ancora se, in assenza della forma scritta o della prova testimoniale, basti che i poteri derivanti dalla delega risultino esercitati di fatto.

Quando la delega sia conferita nel rispetto di tutte le condizioni accennate, sorge in capo al delegato una posizione di garanzia concorrente con quella dei vertici dell’impresa.

Nei reati omissivi impropri l’evento è elemento costitutivo del fatto ed il nesso tra omissione ed evento, secondo il disposto del 40.2 c.p., consiste non nella causazione dell’evento, ma nel suo mancato impedimento.

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Nei reati omissivi il rapporto di causalità fra omissione ed evento sussiste quando l’azione doverosa che è stata omessa, se fosse stata compiuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento, nel senso che, aggiungendola mentalmente, l’evento non si sarebbe verificato.

L’accertamento del rapporto di causalità fra omissione ed evento richiede una duplice indagine: in primo luogo, si tratta di accertare un effettivo rapporto di causalità tra un dato antecedente (un’azione umana od un fattore naturale) ed un dato evento concreto, in secondo luogo, si deve usare lo schema della condicio sine qua non: bisogna chiedersi se aggiungendo mentalmente l’azione doverosa che è stata omessa, ne sarebbe seguita una serie di modificazioni della realtà che avrebbero bloccato il processo causale sfociato nell’evento.

Quando l’evento è il risultato di un processo causale innescato da fattori meccanici o naturali, per stabilire se l’azione doverosa che è stata omessa avrebbe o meno impedito l’evento si dovrà fare ricorso a leggi scientifiche.

Quando invece, come nell’amministrazione delle imprese, l’evento da impedire consiste nella commissione di un reato – nella specie, di un reato societario o fallimentare – l’accertamento dell’omesso impedimento da parte dei garanti non potrà basarsi su inesistenti leggi scientifiche.

Ulteriori classificazioni dei reati secondo la struttura del fatto. Si parla di reati di mera condotta quando il fatto si esaurisce nel compimento di una o più azioni (reati di mera azione) o nel mancato compimento di un’azione doverosa (reati di mera omissione, o reati omissivi propri).

Si parla invece di reati di evento quando il fatto consta non solo di un’azione o di un’omissione, ma anche di uno o più eventi, conseguenza dell’azione (reati commissivi di evento) o dell’omissione (reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione).

Solo nei reati di evento sorge il problema del nesso di causalità; solo le norme incriminatrici di reati di evento, combinate col 40.2 c.p., possono dar vita a reati omissivi impropri; solo nei reati di evento può trovare applicazione la disciplina del recesso attivo dal delitto tentato (56.4 c.p.).

Un reato si dice consumato quando nel caso concreto si sono verificati tutti gli estremi del fatto descritti nella norma incriminatrice, finché il reato non è giunto a consumazione, potranno eventualmente ricorrere gli estremi di un tentativo (56 c.p.).

Si designano come reati istantanei i reati nei quali, una volta verificatasi la consumazione del reato, è irrilevante che la situazione antigiuridica creata dall’agente si protragga nel tempo; nei reati permanenti invece il protrarsi nel tempo della situazione antigiuridica creata dalla condotta è rilevante, nel senso che il reato è perfetto nel momento in cui si realizza la condotta ed eventualmente si verifica l’evento, ma il reato non si esaurisce finché perdura la situazione antigiuridica.

Il reato permanente è assoggettato ad una disciplina peculiare sotto diversi profili: il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza; la legittima difesa (52 c.p.) è possibile per tutto il tempo per cui perdura la situazione antigiuridica; il concorso di persone (110 ss. c.p.) può avvenire anche dopo l’inizio della fase consumativa; legge del tempo del commesso reato è sia quella vigente all’inizio, sia quella entrata in vigore nel corso della fase consumativa; ai fini dell’applicabilità della legge penale italiana, il reato permanente si considera commesso nel territorio dello Stato anche quando la fase consumativa è iniziata all’estero ed è proseguita nel territorio dello Stato.

Ulteriori peculiarità nella disciplina del reato permanente riguardano il diritto processuale; lo stato di flagranza – presupposto per l’arresto obbligatorio (380 c.p.p.) o facoltativo (381 e 383 c.p.p.) – dura fino a quando non è cessata la permanenza (382.2 c.p.p.); la competenza per territorio spetta al giudice del luogo nel quale ha avuto inizio la consumazione.

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Per reato abituale s’intende un reato il cui fatto esige la ripetizione, anche ad apprezzabile distanza di tempo, di una serie di azioni od omissioni: un singolo atto del tipo descritto nella norma incriminatrice non integrerà la figura legale del reato in questione.

Ai fini della successione di leggi penali, legge del tempo commesso reato è la legge in vigore nel momento in cui è stato commesso anche l’ultimo degli atti che integrano il fatto costitutivo del reato abituale.

Ai fini dell’applicabilità della legge penale italiana, il reato abituale si considera commesso nel territorio dello Stato (6.2 c.p.) anche quando uno solo degli atti la cui reiterazione integra il reato è stato compiuto nel territorio dello Stato.

Per reati necessariamente plurisoggettivi s’indicano quei reati il cui fatto richiede come elemento costitutivo il compimento di una pluralità di condotte da parte di una pluralità di persone.

A volte la norma incriminatrice assoggetta a pena tutti i soggetti che intervengono nel reato: si parla in questo caso di reati necessariamente plurisoggettivi in senso stretto (o reati necessariamente plurisoggettivi propri).

Altre volte invece la norma assoggetta a pena solo alcune delle condotte che costituiscono il fatto di reato: si parla in questo caso di reati necessariamente plurisoggettivi in senso ampio (o reati necessariamente plurisoggettivi impropri).

CAPITOLO VII – L’ANTIGIURIDICITÀ E LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONEL’antigiuridicità è il concetto col quale si esprime, come secondo elemento del reato, il rapporto di contraddizione tra il fatto tipico e l’intero ordinamento giuridico.

Un fatto può essere o antigiuridico o lecito: è antigiuridico se è in contraddizione con l’intero ordinamento, è lecito se anche una sola norma dell’ordinamento lo facoltizza o lo impone.

Se nel caso concreto sono presenti tutti gli estremi di due norme antinomiche – la prima che incrimina il fatto e l’antitetica norma che ne facoltizza o ne impone la realizzazione – si profila un conflitto di norme, che però è solo apparente: l’unità dell’ordinamento giuridico infatti impone di risolvere quel conflitto assegnando la prevalenza alla norma che facoltizza od impone la realizzazione del fatto: il fatto è dunque lecito, e come tale non punibile, per difetto del secondo estremo del reato, l’antigiuridicità del fatto.

Col nome di cause di giustificazione del fatto (o nomi equivalenti, quali scriminanti, o cause di esclusione dell’antigiuridicità) si designa l’insieme delle facoltà o dei doveri derivanti da norme, situate in ogni luogo dell’ordinamento, che autorizzano od impongono la realizzazione di questo o quel fatto penalmente rilevante.

Se è commesso in assenza di ogni causa di giustificazione, il fatto è antigiuridico; se invece è commesso in presenza di una causa di giustificazione, il fatto è lecito.

Il 273.2 c.p.p., enunciando le condizioni generali per l’applicabilità delle misure cautelari, stabilisce che nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità.

L’unità dell’ordinamento giuridico comporta non solo che le cause di giustificazione possano essere previste in qualsiasi luogo dell’ordinamento, ma anche che la loro efficacia sia universale: il fatto

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sarà lecito in qualsiasi settore dell’ordinamento, e non potrà dunque essere assoggettato ad alcun tipo di sanzione (penale, civile, amministrativa etc.).

Le norme che prevedono cause di giustificazione, essendo situate in qualsiasi luogo dell’ordinamento giuridico, ed avendo efficacia in ogni luogo dell’ordinamento, non sono norme penali.

Non sono perciò soggette alla riserva di legge prevista dal 25.2 Cost., né al divieto di analogia sancito dal 14 delle disposizioni sulla legge in generale.

Non si tratta nemmeno di norme eccezionali: anche sotto questo profilo le norme che prevedono cause di giustificazione sfuggono al divieto di analogia previsto nel 14 delle Preleggi: tali norme non fanno eccezione a regole generali, ma sono anzi espressione di principi generali dell’ordinamento.

La rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione trova esplicito e vincolante riconoscimento nel codice penale: il 59.1 dispone che le circostanze che escludono la pena – e quindi anche le cause di giustificazione – sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o per errore ritenute inesistenti.

Di regola, chi concorre alla realizzazione di un fatto tipico commesso in presenza di una causa di giustificazione non è punibile perché concorre in un fatto lecito: il 119.2 dispone che le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato.

Fanno eccezione a questa regola le cause di giustificazione personali, cioè quelle che si riferiscono solo a cerchie limitate di soggetti.

Contro il pericolo attuale di un’offesa giusta perché realizzata in presenza di una causa di giustificazione, non si profilerà mai una legittima difesa: il 52 c.p. richiede infatti che il pericolo dal quale ci si può difendere abbia per oggetto un’offesa ingiusta.

Se il fatto viene commesso in assenza di una qualsivoglia causa di giustificazione, è definitivamente antigiuridico; tuttavia, l’agente può credere erroneamente di agire in presenza di una situazione di fatto che, se esistesse nella realtà, darebbe vita ad una causa di giustificazione riconosciuta dall’ordinamento: tale ipotesi è disciplinata dal 59.4 c.p., in base al quale se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena – dunque anche le cause di giustificazione – queste sono sempre valutare a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.

Si parla di eccesso nelle cause di giustificazione, se il fatto è commesso in presenza di una situazione che integra la previsione di una norma scriminante, ma la condotta dell’agente eccede i limiti segnati da tale norma.

Il codice penale disciplina espressamente l’eccesso colposo: a norma del 55 c.p. quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.

La colpa dell’agente può riguardare un’erronea valutazione della situazione scriminante, o radicarsi nella fase esecutiva della condotta, in particolare in un cattivo controllo dei mezzi esecutivi, che comporta un risultato più grave di quello voluto dall’agente (e che sarebbe stato lecito provocare).

Esula dalla sfera del 55 c.p., lasciando sussistere, di regola, la responsabilità per dolo, un errore che abbia per oggetto non la situazione, ma la norma scriminante.

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Si tratta di eccesso doloso, come tale non riconducibile alla previsione del 55 c.p., quando l’agente si sia rappresentato esattamente la situazione scriminante, abbia pienamente controllato i mezzi esecutivi ed abbia consapevolmente e volontariamente realizzato un fatto antigiuridico che eccede i limiti della causa di giustificazione.

Nessuna responsabilità penale sorgerà infine nel caso di eccesso incolpevole, quando cioè l’errore in cui è incorso l’agente, vuoi nella fase di rappresentazione della situazione scriminante, vuoi nella fase esecutiva della condotta, non sia dovuto a colpa, perché non sarebbe stato evitato da parte di un uomo ragionevole che si fosse trovato ad agire nelle stesse circostanze di tempo e di luogo.

Le cause di giustificazione previste nel codice penale sono il consenso dell’avente diritto (50), l’esercizio di un diritto (51), l’adempimento di un dovere (51), la legittima difesa (52) e l’uso legittimo delle armi (53): l’inquadramento dello stato di necessità (54) tra le cause di giustificazione è problematico.

Il 50 c.p. stabilisce che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.

Il fatto penalmente rilevante che lede o pone in pericolo un diritto disponibile col consenso del titolare sarà dunque lecito.

Esula dalla sfera di applicazione della norma citata ogni ipotesi in cui il consenso od il dissenso siano elementi costitutivi di un fatto penalmente rilevante, come nel caso della sottrazione consensuale di minorenni (che si configura quando taluno sottrae al genitore esercente la potestà dei genitori un minore che abbia compiuto gli anni quattordici col consenso di esso, 573 c.p.).

L’individuazione dei diritti disponibili è possibile solo nell’ambito dei diritti individuali: sono indisponibili gli interessi dello Stato, di ogni altro ente pubblico e della famiglia, nonché gli interessi che fanno capo alla collettività nel suo insieme (buon costume, sentimento religioso, ...).

Tra i diritti individuali è indisponibile il diritto alla vita: lo si ricava dalla norma che configura come reato l’omicidio del consenziente (579 c.p.).

Sono invece disponibili in via di principio i diritti patrimoniali, a meno che l’integrità del bene che forma oggetto del diritto patrimoniale soddisfi anche un interesse pubblico.

Disponibili sono poi i vari diritti personalissimi (diritto all’onore, alla libertà morale e personale, alla libertà sessuale, alla libertà di domicilio, alla riservatezza ed alla segretezza di fatti o dati relativi alla persona).

La disponibilità della libertà personale incontra un limite di misura: il consenso è inoperante in relazione al delitto di riduzione in schiavitù (600 c.p.).

L’integrità fisica è illimitatamente disponibile quando l’atto di disposizione del corpo sia funzionale alla salvaguardia della salute, l’integrità fisica è invece disponibile solo entro i limiti fissati dal 5 c.c. se l’atto di disposizione va a svantaggio della salute del disponente.

Quanto al limite della diminuzione permanente dell’integrità fisica, non sarà superato quando il consenso riguardi l’asportazione di parti del corpo autoriproducibili; sarà invece superato, ed il consenso sarà quindi inefficace, quando riguardi un organo non autoriproducibile, anche se si tratta di un organo doppio.

La legge 458/1967 in presenza di una serie di condizioni finalizzate a garantire la spontaneità e la non venalità del consenso ha reso lecita la donazione di un rene; nello stesso senso ha disposto la legge 483/1999 a proposito del trapianto di parti del fegato.

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Legittimato a prestare il consenso è il titolare del diritto, od il suo rappresentante legale o volontario.

Quanto alla capacità a consentire, decisiva è la capacità naturale di chi presta il consenso, cioè la maturità e la lucidità necessaria ad intendere l’importanza del bene in gioco ed a valutare l’opportunità del sacrificio.

Il consenso può essere manifestato in qualsiasi forma, espressa o tacita; può essere sottoposto a condizioni od a termini; dev’essere immune da vizi (errore, dolo o violenza; tra l’altro il consenso è viziato quando abbia per oggetto un trattamento medico-chirurgico non preceduto da un’adeguata informazione del paziente sui rischi tipici di quel trattamento); infine il consenso deve sussistere al momento del fatto, ed è sempre revocabile, a nulla rilevando che il soggetto si sia preventivamente obbligato a non revocare il consenso.

È discussa la figura del consenso presunto, che si ha quando non sia stato prestato alcun consenso, ma l’agente operi nella convinzione che l’avente diritto avrebbe espresso il proprio consenso se ne avesse avuto la possibilità.

Il 51.1 c.p. stabilisce che l’esercizio di un diritto esclude la punibilità; accanto alle facoltà legittime espressamente contemplate dal codice penale (consenso dell’avente diritto e legittima difesa), l’ordinamento giuridico prevede altre nome attributive della facoltà legittima di commettere anche fatti penalmente rilevanti.

Il diritto scriminante: l’espressione “diritto” nel 51 c.p. viene intesa come comprensiva non solo dei diritti soggettivi in senso stretto, ma anche di qualunque facoltà legittima di agire riconosciuta dall’ordinamento.

Fonti del diritto scriminante: facoltà di agire rilevanti ex 51 c.p. possono scaturire da norme costituzionali, da norme di legge ordinaria, da norme di fonte comunitaria, da leggi regionali o da una consuetudine.

Tra le fonti di un diritto scriminante ex 51 c.p. non può annoverarsi il provvedimento amministrativo: se il provvedimento autorizza un’attività vietata dalla legge penale, trattandosi di un provvedimento illegittimo, il giudice è tenuto a disapplicarlo e, in presenza di ogni altro elemento del reato, dovrà pronunciare sentenza di condanna.

La rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione stabilita dal 59 comporta che il fatto resta lecito, in quanto realizzato nell’esercizio di un diritto, qualunque sia il fine che ha in concreto animato il soggetto nell’esercizio del suo diritto.

La rilevanza del fine è circoscritta ai soli casi in cui già la norma che attribuisce il diritto ne escluda la sussistenza quando l’agente persegua una data finalità.

La libertà di manifestazione del pensiero abbraccia sia la manifestazione di opinioni e convincimenti, sia l’esposizione di vicende e fatti.

Quanto alla prima sfera, si può ritenere che il diritto derivante dal 21 Cost. copra anche manifestazioni di opinioni non argomentante né motivate, e magari formalmente scorrette.

Quanto alla narrazione di fatti, la giurisprudenza ritiene che gli eventuali contenuti offensivi della reputazione siano giustificati solo in quanto rispondano a verità; sembra peraltro più persuasiva la tesi secondo cui l’unico limite è rappresentato dalla verosimiglianza dei fatti narrati, che il giornalista deve accertare attraverso un controllo sulle sue fonti di informazione.

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Un ulteriore limite al diritto di cronaca è rappresentato dall’esistenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti dal giornalista.

Per quanto riguarda il diritto di sciopero, previsto nel 40 Cost., dopo gli interventi della Corte Costituzionale, conservano rilevanza penale solo lo sciopero per fini non contrattuali (503) e la coazione alla pubblica autorità mediante sciopero (504), limitatamente alle ipotesi in cui siano diretti a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare.

Il 340 c.p. reprime l’interruzione di un servizio di pubblica necessità.

Non rientrano nel diritto di sciopero, e quindi integrano il delitto di violenza privata (610), le azioni di picchettaggio violento, cioè l’uso di violenza o minaccia per costringere i lavoratori ad aderire allo sciopero.

Il dovere scriminante: il 51 stabilisce che l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica esclude la punibilità.

Uno stesso ordinamento non può vietare sotto minaccia di pena la realizzazione di un fatto e, al tempo stesso, imporne la realizzazione.

Spesso il dovere prevalente verrà individuato attraverso il criterio della specialità.

Quando non sussista un rapporto di specialità tra le norme in conflitto, la prevalenza spetterà al dovere il cui adempimento soddisfa un interesse di rango superiore.

Le norme giuridiche che impongono un dovere scriminante possono promanare non solo dalla legge o dagli altri atti dotati di forza di legge (decreto legislativo e decreto-legge), ma anche da fonti sublegislative, come un regolamento.

Quanto alle norme di ordinamenti stranieri, che impongano il dovere di commettere fatti penalmente rilevanti in base alla legge italiana, sono irrilevanti se si tratta di reati commessi nel territorio italiano; ove si tratti invece di fatti commessi all’estero, il principio di doppia incriminazione comporta l’efficacia scriminante dell’adempimento del dovere imposto dalla norma del Paese straniero: a meno che non si tratti di uno dei delitti previsti dal 7 c.p. o di un delitto politico ai sensi dell’8 c.p., nel qual caso l’applicabilità della legge penale italiana non è subordinata al principio della doppia incriminazione.

Secondo il disposto del 51 c.p., un dovere il cui adempimento rende lecita la realizzazione di fatti penalmente rilevanti può derivare, oltre che da una norma giuridica, anche da un ordine legittimo della pubblica autorità.

L’ordine – in ogni caso promanante da una pubblica autorità e non da un privato – deve essere legittimo sia formalmente sia sostanzialmente.

È formalmente legittimo quando concorrono tre requisiti:

  la competenza dell’organo che lo ha emanato;

  la competenza del destinatario ad eseguire l’ordine;

   il rispetto delle forme eventualmente prescritte per la validità dell’ordine.

L’ordine è sostanzialmente legittimo quando esistono i presupposti fissati dall’ordinamento per la sua emanazione.

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Il 51 stabilisce anche che se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine.

Quanto alla responsabilità di chi ha emanato l’ordine illegittimo per il fatto commesso dall’esecutore dell’ordine, il 51.2 dà esplicito rilievo ad una normale ipotesi di concorso di persone nel reato; quanto invece alla responsabilità di chi ha eseguito l’ordine illegittimo, sancita dal 51.3 c.p., è senz’altro configurabile nei confronti di chi, come i pubblici impiegati, non sono vincolati all’obbedienza degli ordini dei superiori: hanno anzi il preciso dovere di astenersi dall’eseguire l’ordine del superiore quando l’atto sia vietato dalla legge penale.

Il pubblico impiegato ha infatti il potere-dovere di controllare la legittimità sia formale sia sostanziale dell’ordine.

Del pari, hanno il dovere di astenersi dall’eseguire un ordine la cui esecuzione integra un reato i privati che ricevano un ordine illegittimo di polizia.

Il 51.4 stabilisce che non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine.

In realtà, esistono nel nostro ordinamento ordini criminosi vincolanti, ma non si tratta mai di un vincolo assoluto; in particolare, i militari e gli appartenenti alla polizia di Stato hanno il dovere di eseguire gli ordini dei superiori, ma tale dovere incontra un triplice limite:

  l’ordine non deve essere formalmente illegittimo;

  anche se formalmente legittimo, l’ordine non deve essere manifestamente criminoso;

   il subordinato non deve comunque essere personalmente a conoscenza del carattere criminoso dell’ordine.

L’esecuzione degli ordini da parte del militare o dell’appartenente alla polizia di Stato non potrà ritenersi antigiuridica, costituendo l’oggetto di uno specifico dovere dell’agente: e tale dovere opererà come causa di giustificazione, fondata sulla prevalenza dell’interesse ad un pronto adempimento degli ordini dei superiori rispetto agli interessi tutelati dalle norme incriminatrici di volta in volta violate; si tratta di una causa di giustificazione personale.

Quanto ai limiti alla vincolatività degli ordini illegittimi, si fondano tutti sul venir meno della generale presunzione di legittimità degli ordini emanati dai superiori gerarchici; tale presunzione viene meno sia in caso di illegittimità formale dell’ordine, sia in caso di manifesta criminosità dell’ordine.

Non risponde a titolo di dolo il subordinato – pubblico impiegato, militare etc. – che dia esecuzione ad un ordine illegittimo, qualora egli ritenga per un errore di fatto di eseguire un ordine legittimo (51.3).

La legittima difesa: il 52 stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui, contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.

L’ordinamento attribuisce al cittadino la facoltà legittima di autotutelare i propri diritti quando corrano il pericolo di essere ingiustamente offesi da terzi e lo Stato non sia in grado di assicurare una tempestiva ed efficace tutela, anche ai casi in cui siano ingiustamente messi in pericolo i diritti individuali di un terzo.

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Quanto alla nozione di pericolo accolta nel 52, essa coincide con quella riguardante i reati di pericolo concreto; il giudice deve compiere una prognosi postuma in concreto.

Il pericolo deve scaturire da una condotta umana, si tratti di un’azione o di un’omissione.

Quanto all’omissione, potrà rilevare in primo luogo l’omesso impedimento di un evento lesivo ex 40.2.

In secondo luogo, rileveranno le omissioni costitutive di reati omissivi propri, quando si violi il dovere giuridico di rimuovere un pericolo incombente su un diritto individuale.

Facendo riferimento ad un pericolo attuale, il 52 c.p. esclude che la legittima difesa possa sussistere quando il pericolo è ormai passato, o perché si è tradotto in danno, o perché il pericolo è stato definitivamente neutralizzato o si è altrimenti dissolto.

Del pari, la causa di giustificazione non sussiste quando si tratti di un pericolo futuro: non è consentita la difesa preventiva.

La formula “pericolo attuale” abbraccia due classi di ipotesi: in primo luogo, quelle in cui la verificazione dell’offesa sia temporalmente imminente; in secondo luogo, è attuale il pericolo perdurante, ciò che si verifica quando l’offesa è già in atto, ma non si è ancora esaurita.

È controverso se il concetto di attualità del pericolo debba determinarsi esclusivamente con riferimento al momento della sua insorgenza, od anche con riferimento all’improcrastinabilità dell’azione difensiva.

Oggetto del pericolo rilevante ex 52 dev’essere un’offesa ingiusta ad un diritto dell’agente o d’un terzo.

L’espressione diritto abbraccia qualsiasi interesse individuale espressamente tutelato dall’ordinamento (come diritto soggettivo o come facoltà legittima).

Non sono invece suscettibili di legittima difesa gli autentici beni collettivi: né i beni a titolarità diffusa, né i beni istituzionali, facenti capo cioè allo Stato come espressione della collettività organizzata o a suoi singoli poteri od organi.

La tutela dei beni collettivi è affidata in via esclusiva ai competenti organi dello Stato.

Esigendo che il diritto corra il pericolo di un’offesa ingiusta, l’ordinamento subordina la sussistenza di una situazione di legittima difesa al requisito dell’antigiuridicità dell’offesa minacciata o non impedita dall’altrui condotta.

Ai fini dell’ingiustizia dell’offesa è irrilevante il carattere colpevole o punibile della condotta umana che ha creato il pericolo: la legittima difesa è dunque invocabile anche contro condotte realizzate senza dolo e senza colpa, o realizzate da un soggetto non imputabile o non punibile.

La condotta difensiva, per essere legittima, dev’essere innanzitutto necessaria, ed il legislatore esalta l’importanza di tale requisito dicendo che l’agente dev’essere stato costretto dalla necessità di difendersi; ciò significa due cose: che il pericolo non poteva essere neutralizzato né da una condotta alternativa lecita, né da una condotta meno lesiva di quella tenuta in concreto.

La difesa non è altresì necessaria quando sia possibile un commodus discessus, quando cioè la persona minacciata nei propri diritti possa sottrarsi al pericolo senza esporre a rischio la sua integrità fisica.

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Quando non vi sia la possibilità di neutralizzare il pericolo attraverso una condotta alternativa lecita, può accadere che il pericolo possa essere sventato attraverso una serie di fatti penalmente rilevanti tutti egualmente efficaci: in tal caso il requisito della necessità comporta che la condotta difensiva adottata in concreto debba essere la meno lesiva tra quelle praticabili.

Oltre che necessaria, la difesa dev’essere proporzionata all’offesa.

Ciò che si richiede non è la prevalenza del bene difeso rispetto a quello sacrificato, né l’equivalenza tra i due beni: l’aggredito può ledere un bene anche di rango superiore, sempreché il divario di valore tra i due beni non sia eccessivo.

Per la valutazione comparativa dei beni, si farà riferimento alle valutazioni etico-sociali dei beni in conflitto, eventualmente rispecchiate dalla Costituzione.

I presupposti ed i limiti dell’uso legittimo dei mezzi di coercizione fisica trovano nel 53 c.p. una disciplina che s’articola in tre ipotesi:

  quella in cui l’uso dei mezzi di coercizione sia necessario per respingere una violenza o vincere una resistenza all’autorità (53.1 pt. I);

  quella in cui la coercizione fisica sia necessaria per impedire la consumazione di una serie di gravissimi delitti (53.1 pt. II);

   le ulteriori ipotesi, previste da altre norme legislative, nelle quali è consentito un uso più largo delle armi o degli altri mezzi di coazione fisica (53.3).

Il 53.1 pt I stabilisce che ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità.

Il 53 evidenzia che questa causa di giustificazione occupa uno spazio autonomo rispetto sia alla legittima difesa (52), sia all’adempimento di un dovere (51).

Legittimati a far uso delle armi sono non tutti i pubblici ufficiali, ma solo quelli tra i cui doveri istituzionali rientra l’uso della coercizione fisica diretta con armi o con altri mezzi: nel linguaggio del nostro ordinamento per designare questa categoria di pubblici ufficiali si parla di forza pubblica.

La categoria comprende, fra l’altro, gli ufficiali e gli agenti della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza; non rientrano invece nella forza pubblica né gli agenti della polizia municipale, né le guardie giurate in servizio di vigilanza e di investigazione privata.

La legge richiede che il pubblico ufficiale agisca al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio.

I presupposti dell’uso delle armi sono la necessità, la proporzione e la violenza o resistenza all’autorità.

Il pubblico ufficiale dev’essere costretto dalla necessità di far uso delle armi; ciò comporta:

  che l’uso delle armi non è consentito quando il pubblico ufficiale può respingere la violenza o vincere la resistenza all’autorità con mezzi diversi dall’uso di qualsivoglia mezzo di coazione fisica;

  che tra i diversi mezzi di coazione, tutti egualmente efficaci l’agente deve scegliere il meno lesivo;

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In secondo luogo, per essere legittimo il ricorso ad un dato mezzo di coazione fisica dev’essere proporzionato, nel senso che si tratta di stabilire caso per caso se l’interesse pubblico che la coazione amministrativa mira ad affermare sia prevalente rispetto all’interesse individuale sacrificato.

In terzo luogo, dev’essere in atto una violenza od una resistenza nei confronti dell’Autorità.

L’ipotesi della violenza ricorre quando taluno, per impedire od ostacolare l’attività pubblica, faccia uso di qualsiasi forma di energia fisica che cada sulle persone, ledendone l’integrità o la salute, ovvero sulle cose, distruggendole o rendendole in tutto od in parte inservibili.

Di resistenza può invece parlarsi in relazione alle sole ipotesi di resistenza attiva, cioè quelle in cui la resistenza non si limita all’inerte impedimento fisico dell’attività pubblica né consiste nel mero allontanamento dal luogo in cui la pubblica autorità abbia intimato di fermarsi.

Il 53.3 rinvia ad altre leggi per l’individuazione di altre ipotesi nelle quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica; si parla di resistenza anche passiva nell’ordinamento penitenziario quando si autorizza il personale di custodia a far uso della forza fisica, ad es., nei confronti dei detenuti che non ottemperino all’ordine di rientrare nelle celle.

Il 53.1 pt. II prevede la non punibilità dell’agente della forza pubblica che faccia uso od ordini di far uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica quando vi sia costretto dalla necessità di impedire la consumazione dei delitti di strage, naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.

Questa figura di uso legittimo delle armi sottostà ad un triplice limite:

  l’uso delle armi dev’essere necessario: non è cioè consentito quando si possa impedire la consumazione di quei delitti con mezzi diversi, e tra diversi mezzi di coazione, tutti egualmente efficaci, l’agente deve scegliere il meno lesivo;

  la coazione fisica dev’essere proporzionata, nel senso che la sua legittimità è subordinata al bilanciamento di tutti gli interessi in gioco;

   la formula “impedire la consumazione” (dei delitti di strage, etc.) indica che il momento in cui può essere impedita la consumazione è quello in cui – esauriti gli atti preparatori ed iniziata l’esecuzione del reato – già sussistano gli estremi del tentativo di uno dei delitti contemplati dal 53.1 pt. II.

Più ampie ipotesi di uso legittimo delle armi o di altri mezzi di coazione fisica sono previste da alcune leggi speciali.

I militari, gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria addetti alla repressione del contrabbando nelle zone di frontiera possono far uso delle armi quando il contrabbandiere sia palesemente armato, od il contrabbando sia compiuto di notte, od i contrabbandieri agiscano in un gruppo di almeno tre persone: in questi casi l’uso delle armi è consentito anche quando il contrabbandiere si dia alla fuga, a meno che non abbandoni il carico.

La legge autorizza inoltre gli stessi soggetti a far uso delle armi contro gli autoveicoli, quando il conducente non ottemperi all’intimazione di fermo e non vi sia la possibilità di raggiungerlo.

Ulteriori ipotesi speciali di uso legittimo delle armi attengono alla vigilanza interna ed esterna degli istituti penitenziari ed ai passaggi abusivi di frontiera.

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Lo stato di necessità: il 54.1 recita che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo; nel secondo comma si soggiunge che questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo, ed al terzo comma si legge che la disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.

La fonte del pericolo può risiedere sia in un accadimento naturale, sia in un comportamento dell’uomo.

Quanto all’attualità del pericolo, vale quanto s’è osservato a proposito di tale requisito nella legittima difesa: il pericolo è dunque attuale sia quando il verificarsi del danno è imminente, sia quando il danno è già in atto, ma ancora non è esaurito (pericolo perdurante).

Qualora si tratti di un pericolo futuro, ma che possa essere fronteggiato solo con un’azione immediata, a pena del verificarsi di un danno certo, una parte della dottrina include tali ipotesi nella nozione di pericolo attuale.

La legge pone un ulteriore limite al pericolo rilevante ai fini dello stato di necessità, esigendo che il pericolo non sia stato volontariamente causato.

L’orientamento prevalente, soprattutto in giurisprudenza, è nel senso di cogliere la formula “volontariamente” come sinonimo di “colpevolmente”, abbracciando così anche l’ipotesi in cui il pericolo sia stato cagionato da una condotta colposa.

Oggetto del pericolo dev’essere un danno grave alla persona dell’agente o di un terzo; il bene minacciato può consistere nella vita, nell’integrità fisica od in altri beni di natura personalissima, come la libertà personale e la libertà sessuale.

Può anche consistere in uno di quei beni collettivi che rappresentano la sintesi di beni di singole persone: è il caso della incolumità pubblica e della salute pubblica.

Per contro, sono esclusi non solo i beni individuali che non hanno carattere personalissimo, come i beni patrimoniali, ma anche i beni istituzionali.

È controversa la riconducibilità alla previsione normativa in esame della necessità abitativa: se cioè possano considerarsi non punibili ex 54.1 gli autori di fatti di invasione di edifici (633), quando si tratti di persone indigenti che agiscano per soddisfare il bisogno di un alloggio.

Quanto al requisito della gravità del danno alla persona, va accertato in relazione sia al rango del bene esposto a pericolo, sia in relazione all’intensità della lesione incombente.

Ai fini dello stato di necessità, la legge richiede in primo luogo che la commissione del fatto penalmente rilevante sia necessaria per fronteggiare il pericolo di un danno grave alla persona: ciò comporta l’assenza di alternative lecite o meno lesive egualmente efficaci per neutralizzare il pericolo.

In secondo luogo, il 54.1 richiede che il pericolo sia inevitabile, e cioè che il pericolo non possa essere neutralizzato nemmeno attraverso un comportamento che cagioni un pericolo personale per l’agente.

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Il 54.1 esige che il fatto penalmente rilevante sia proporzionato al pericolo sventato con la commissione del fatto: con questo requisito la legge impone una valutazione comparativa tra il bene personale esposto a pericolo ed il bene dell’innocente sacrificato dall’azione di salvataggio.

Ciò che si richiede non è necessariamente la prevalenza del bene salvato rispetto a quello sacrificato, né l’equivalenza tra i due beni: si può sacrificar un bene anche di rango superiore rispetto al bene in pericolo che viene salvato, sempre che il divario di valore tra i due beni non sia eccessivo.

Perché possa parlarsi di stato di necessità, il soggetto dev’essere costretto dalla necessità di commettere il fatto penalmente rilevante.

È discusso se lo stato di necessità vada annoverato tra le cause di giustificazione o tra le scusanti; vi sono due possibili letture: una prima secondo la quale la costrizione starebbe a denotare solo l’oggettiva impossibilità di salvare il bene in pericolo senza sacrificare il bene di un terzo innocente; una seconda lettura identifica la costrizione con l’esclusione o con una restrizione della libertà di agire.

La prima lettura porterebbe ad inquadrare lo stato di necessità tra le cause di giustificazione, la seconda lettura suggerisce di inquadrarlo tra le scusanti, ipotesi nelle quali la ragione della non punizione sta nell’assenza di colpevolezza di chi abbia agito sotto l’influenza di una pressione psicologica che, agli occhi del legislatore, rendeva inesigibile un comportamento rispettoso della legge penale.

Dall’inquadramento dello stato di necessità tra le scusanti, oltre alla necessaria conoscenza del pericolo ed al conseguente effetto di costrizione psicologica, deriva ancora la possibilità di esercitare la legittima difesa contro chi agisce in stato di necessità (trattandosi di un fatto ingiusto e solo scusato).

La legge esclude che possa essere applicato lo stato di necessità a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.

L’ordinamento può scusare il comune cittadino, ma non chi, avendo ricevuto uno specifico addestramento e magari disponendo di un idoneo equipaggiamento, è particolarmente attrezzato per fronteggiare quel pericolo: a condizione che si tratti proprio del tipo di pericolo che l’agente ha il dovere giuridico di affrontare ed all’ulteriore condizione che l’agente si trovi ad affrontare un mero pericolo (anche per la vita) e non la prospettiva di una morte certa.

CAPITOLO VIII – LA COLPEVOLEZZAPerché sia legittimo il ricorso alla sanzione penale, non basta che sia commesso un fatto – un’offesa ad uno o a più beni giuridici – né basta che la realizzazione del fatto sia antigiuridica (cioè, non autorizzata od imposta da un’altra norma giuridica): occorre anche che la commissione del fatto antigiuridico possa essere personalmente rimproverata all’autore; i criteri sui quali si può fondare quel rimprovero personale sono compendiati, nel linguaggio della dottrina, sotto la formula “colpevolezza”, e nel linguaggio della Costituzione sotto la forma “responsabilità personale” (27.1 Cost.).

Con la formula “colpevolezza” si designa dunque l’insieme dei criteri dai quali dipende la possibilità di muovere all’agente un rimprovero per aver commesso il fatto antigiuridico.

Nel diritto vigente tali criteri sono:

  dolo o colpa;

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  assenza di scusanti;

   conoscenza o conoscibilità della norma penale violata;

   capacità di intendere e di volere.

Sul finire degli anni Ottanta la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha segnato una svolta storica: la Corte ha riconosciuto espressamente che “responsabilità penale”, a norma del 27.1 Cost., è sinonimo di “responsabilità per un fatto proprio colpevole”.

La Corte ha messo in risalto l’esigenza di interpretare l’espressione “responsabilità personale” alla luce della funzione rieducativa assegnata alla pena dal 27.3 Cost.: non avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo almeno in colpa (rispetto al fatto), non ha bisogno di essere rieducato.

Vi è poi un collegamento stabilito dalla Corte tra il principio di personalità della responsabilità penale ed i principi di legalità ed irretroattività della legge penale, sanciti nel 25.2 Cost.

Il privato risponde penalmente solo per azioni da lui controllabili, e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella non colpevole e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto.

Il principio di colpevolezza si contrappone alla responsabilità oggettiva (responsabilità per un fatto proprio, ma realizzato senza dolo e senza colpa), alla responsabilità penale di chi abbia commesso il fatto volontariamente o colposamente, ma ignorando senza colpa l’illiceità penale del fatto; alla responsabilità penale accollata a chi abbia agito in situazioni anormali, tali da rendere inesigibile un comportamento diverso da quello tenuto dall’agente, od all’incapace di intendere o di volere.

La Corte Costituzionale ha dichiarato il 5 c.p. costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile: conseguentemente nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale dovuta a colpa.

Perché l’art. 27.1 Cost. sia pienamente rispettato, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente, siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa.

Nella nostra Costituzione la responsabilità personale (27.1 Cost.) è responsabilità per il fatto commesso (25.2 Cost.): tutti i criteri sui quali si fonda la colpevolezza dell’agente vanno cioè riferiti e strettamente collegati al singolo fatto antigiuridico da lui commesso.

Si porrebbe in contrasto con la Costituzione il legislatore se, nel configurare taluno, o tutti i criteri che fondano e graduano la colpevolezza, si riferisse non già al fatto, nel momento della sua commissione, ma al complesso dei comportamenti antecedenti al fatto, attraverso i quali il soggetto avrebbe colpevolmente plasmato la propria personalità (colpevolezza per la condotta di vita), o si riferisse al carattere dell’agente (colpevolezza per il carattere).

Il criterio di attribuzione della responsabilità di regola richiesto dal legislatore per i delitti è il dolo, la forma più grave di responsabilità, mentre la colpa rileva solo in via di eccezione espressa.

Il 42.2 stabilisce infatti che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non lo ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto [...] colposo espressamente preveduti dalla legge.

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È diversa invece la disciplina riservata di regola alle contravvenzioni, che possono essere commesse indifferentemente sia con dolo, sia per colpa: il 42.4 stabilisce infatti che nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.

Solo eccezionalmente sono previste contravvenzioni che devono essere necessariamente commesse con dolo, come gran parte dei reati societari, o contravvenzioni che devono necessariamente essere commesse per colpa (es.: la rovina di edifici o di altre costruzioni da cui sia derivato pericolo alle persone, 676.2).

Per l’esistenza del dolo si richiede un duplice coefficiente psicologico: la rappresentazione e la volizione del fatto antigiuridico: il 43 stabilisce che il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione.

Il 47 esclude il dolo per difetto di rappresentazione del fatto, quando per una falsa rappresentazione della realtà o per la difettosa interpretazione di una norma giuridica l’agente è caduto in un errore sul fatto che costituisce il reato.

Il 59.4 esclude il dolo quando l’agente, pur rappresentandosi la realizzazione del fatto, non si renda conto del suo carattere antigiuridico, perché ritenga di agire in presenza di una causa di giustificazione: il 59.4 stabilisce infatti che se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui.

Per quanto riguarda la rappresentazione, si rimprovera al soggetto d’aver avuto ben chiaro dinanzi agli occhi il fatto antigiuridico e di non essersi lasciato trattenere da quella rappresentazione ammonitrice.

La rilevanza dell’errore sul fatto discende dall’impossibilità che il soggetto venga trattenuto dall’agire.

Il momento rappresentativo del dolo esige la conoscenza effettiva di tutti gli elementi del fatto concreto che integra una specifica figura di reato, e tale conoscenza deve sussistere nel momento in cui il soggetto inizia l’esecuzione dell’azione tipica.

La conoscenza dev’essere effettiva, e non meramente potenziale (una conoscenza potenziale può rilevare solo per la sussistenza della colpa); in secondo luogo, è sufficiente che la conoscenza effettiva sia presente nel momento in cui l’agente inizia l’esecuzione dell’azione tipica: non è necessario che la rappresentazione del fatto sia presente nella mente del soggetto per tutto il tempo dell’azione.

Il momento rappresentativo del dolo si considera di regola integrato anche nei casi di dubbio; il dubbio risulta invece incompatibile cl dolo nei casi in cui – eccezionalmente – la legge richiede una conoscenza piena e certa dell’esistenza di un elemento del fatto.

Vi sono elementi del fatto la cui conoscenza può essere acquisita attraverso i sensi: si tratta degli elementi descrittivi, cioè degli elementi del fatto individuati attraverso concetti descrittivi.

Altri elementi del fatto – gli elementi normativi – sono invece individuati attraverso concetti che esprimono qualità giuridiche o sociali di un dato della realtà: la loro conoscenza non può essere raggiunta solo attraverso i sensi, ma richiede la mediazione di una norma, giuridica o sociale (basta la conoscenza propria del profano, ossia del comune cittadino).

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La rappresentazione del fatto necessaria per la sussistenza del dolo difetta quando l’agente versa in un errore sul fatto (47), quando cioè non si rappresenti la presenza di almeno uno degli elementi del fatto come conseguenza o di un’errata percezione sensoriale (errore di fatto) o di un’errata interpretazione di norme giuridiche o sociali (errore di diritto).

L’errore sul fatto dovuto ad un’erronea percezione della realtà (errore di fatto) esclude il momento rappresentativo del dolo, ma può residuare una responsabilità per colpa: il 47.1 stabilisce infatti che se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.

Un errore sul fatto può essere cagionato anche da un errore di diritto, cioè dall’erronea interpretazione di norme diverse dalla norma incriminatrice, da quest’ultima richiamate attraverso un elemento normativo.

Il 47.3 stabilisce che l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato.

Il dolo non s’esaurisce nella rappresentazione del fatto: come s’evince dal 61 n. 3, l’aver agito nonostante la previsione dell’evento è perfettamente compatibile con la struttura della colpa, e ne rappresenta solo una forma aggravata (colpa cosciente, o con previsione dell’evento): perché sia in dolo, il soggetto deve aver voluto la realizzazione del fatto antigiuridico che s’era preventivamente rappresentato.

Il momento volitivo del dolo consiste innanzitutto nella risoluzione di realizzare l’azione, e questa risoluzione dev’essere presente nel momento in cui il soggetto agisce, rappresentandosi tutti gli estremi del fatto descritto dalla norma incriminatrice.

La risoluzione può essere la conseguenza immediata di un improvviso impulso ad agire (si parla in questo caso di dolo d’impeto) o può esser presa e tenuta ferma fino al compimento dell’azione per un apprezzabile lasso di tempo senza soluzione di continuità: si parla allora di dolo di proposito, che per alcuni reati viene designato dal legislatore come premeditazione, ed integra una circostanza aggravante.

Il momento volitivo del dolo si estende a tutti gli elementi oggettivi conosciuti dall’agente, che servono da base per la decisione di agire e può assumere tre forme, che rappresentano altrettanti gradi di intensità del dolo: dolo intenzionale, dolo diretto e dolo eventuale.

Il dolo intenzionale si configura quando il soggetto agisce allo scopo di realizzare il fatto: non è necessario che la realizzazione del fatto rappresenti lo scopo ultimo perseguito dall’agente, potendo essere anche uno scopo intermedio.

Del pari, non è necessario che la causazione dell’evento perseguito dall’agente sia probabile.

A volte la legge esige il dolo intenzionale, o meglio, esige che l’agente sia animato da particolari finalità in relazione a questo od a quell’evento; in alcuni di questi casi l’evento che l’agente deve prendere di mira deve realizzarsi per l’esistenza del reato.

Nei reati a dolo generico le finalità perseguite dall’agente con la commissione del fatto sono irrilevanti per l’esistenza del dolo (es.: omicidio doloso); nei reati a dolo specifico il legislatore richiede che l’agente commetta il fatto avendo di mira un risultato ulteriore, il cui realizzarsi non è necessario per la consumazione del reato (es.: sequestro di persona a scopo di estorsione).

Il dolo diretto si configura quando l’agente non persegue la realizzazione del fatto, ma si rappresenta come certa o come probabile al limite della certezza l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione.

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Di regola, così come non è necessario che l’agente persegua come scopo la realizzazione del fatto, così non è richiesto che si rappresenti la realizzazione del fatto come certa: basta, di regola, il dolo eventuale.

Eccezionalmente la legge richiede una conoscenza piena e certa dell’esistenza di un elemento del fatto.

Il dolo eventuale si ha quando il soggetto si rappresenta come seriamente possibile (non come certa) l’esistenza di presupposti della condotta od il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare all’azione ed ai vantaggi che se ne ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi (“agisco costi quel che costi!”).

È opinione diffusa che il dolo eventuale sia caratterizzato dall’accettazione del rischio del verificarsi del fatto, ma è opinione contra legem: ponendo ad oggetto dell’accettazione non l’evento, ma il pericolo del verificarsi dell’evento, codesta opinione trasforma i reati di evento in reati di pericolo del verificarsi dell’evento.

Ciò che invece l’agente deve accettare è proprio l’evento.

L’esatta definizione del dolo eventuale delinea i confini della responsabilità penale; ciò accade per i fatti che sono previsti nella sola forma del delitto doloso.

Quando il fatto è punito sia se commesso con dolo, sia se commesso per colpa, il dolo eventuale rappresenta la linea di confine che separa l’area della responsabilità per dolo da quella della responsabilità per colpa.

Sotto questo profilo il dolo eventuale va distinto dalla colpa cosciente, o colpa con previsione dell’evento: i due criteri di imputazione della responsabilità hanno in comune l’elemento della previsione dell’evento, ma nella colpa cosciente l’agente si rappresenta il possibile verificarsi di un evento e ritiene per colpa che non si realizzerà nel caso concreto, agisce invece con dolo eventuale chi ritiene seriamente possibile la realizzazione del fatto ed agisce accettando tale eventualità.

La rappresentazione e la volizione devono avere per oggetto non già gli elementi descritti in astratto dalla norma incriminatrice, ma il fatto concreto che corrisponde alla figura legale del fatto incriminato.

L’agente può anche ignorare l’esistenza della norma che descrive il fatto da lui realizzato, o può interpretarla erroneamente: tutto ciò non aggiunge né toglie nulla all’esistenza del dolo, ma rileverà eventualmente ex art 5 c.p. come ipotesi di ignoranza od errore sulla legge penale.

Nei reati a dolo generico l’oggetto della rappresentazione e della volizione è solo il fatto concreto che integra gli estremi del fatto descritto dalla norma incriminatrice: eventi ulteriori, perseguiti come conseguenza eventuale del fatto tipico, sono al di fuori dell’oggetto del dolo e tutt’al più rileveranno come motivi che aggravano od attenuano la pena.

Nei reati a dolo specifico, invece, l’oggetto del dolo è più ampio: abbraccia sia il fatto concreto corrispondente a quello descritto dalla norma incriminatrice, sia l’evento, che l’agente deve perseguire come scopo e la cui realizzazione è irrilevante per la consumazione del reato.

Va chiarito che cosa debba intendersi per fatto concreto ai fini dell’oggetto del dolo, cioè quale parte del fatto concreto debba essere oggetto di rappresentazione e da quale parte debba invece farsi astrazione.

L’errore sulla persona dell’offeso, cioè lo scambio – dovuto ad una falsa rappresentazione della realtà – tra vittima designata e vittima reale, rileva ex lege (60 c.p.) non ai fini del dolo, ma ai fini

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delle circostanze aggravanti od attenuanti relative alla vittima reale ed ai rapporti tra il colpevole e l’offeso.

Quanto al decorso causale che dev’essere rappresentato dall’agente nei reati di evento, è necessario e sufficiente che l’agente abbia attribuito alla sua azione l’attitudine a causare in concreto quell’evento, mentre è irrilevante che abbia previsto un decorso causale diverso da quello che poi s’è verificato (aberratio causae).

Dire che oggetto della rappresentazione e della volizione necessarie ai fini del dolo è un fatto concreto che corrisponde al modello di una specifica figura di reato equivale a dire che l’agente deve rappresentarsi e volere tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato.

Quanto ai presupposti della condotta, il soggetto deve rappresentarsi la loro esistenza come certa o come possibile, accettando l’eventualità della loro esistenza.

Nell’oggetto del dolo va inclusa la specifica qualità del soggetto attivo, giuridica o di fatto, che caratterizza i reati propri.

Le qualità richieste per il soggetto attivo del reato proprio concorrono a delineare il fatto come specifica forma di offesa ad un bene giuridico: si tratta infatti di una posizione del soggetto che riflette un particolare rapporto col bene.

Perché si configuri il dolo è sufficiente che l’agente abbia una conoscenza da profano della sua qualità giuridica.

La regola generale è nel senso che il soggetto privo della qualifica richiesta dalla norma incriminatrice (il c.d. estraneo) risponde di concorso doloso nel reato proprio se sapeva che la persona da lui agevolata od istigata alla commissione del reato rivestiva la qualità richiesta dalla norma incriminatrice.

A questa regola il 117 pone un’eccezione, che rende responsabile di concorso nel reato proprio anche l’estraneo che ignorava la qualità della persona istigata od agevolata, ma ciò solo nel caso in cui l’estraneo volesse comunque concorrere a realizzare un fatto penalmente rilevante e la presenza della qualità a lui ignota comportasse solo l’integrazione di una diversa figura di reato.

Dal momento che nell’ipotesi di cui al 117 c.p. l’oggetto del dolo viene amputato di un elemento costitutivo, ci si trova in presenza di una responsabilità oggettiva.

Il dolo è rappresentazione e volizione di un fatto antigiuridico; da questa premessa segue che l’erronea supposizione di trovarsi in una situazione che, se esistesse realmente, integrerebbe gli estremi di una causa di giustificazione riconosciuta dall’ordinamento esclude il dolo.

Se però l’erronea supposizione della presenza di una causa di giustificazione è stata determinata da colpa, perché nessuna persona ragionevole sarebbe caduta in quell’errore, il fatto antigiuridico viene addebitato all’agente a titolo di colpa, a condizione che quel fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo.

Dispone il 59.4 che se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena – dunque, fra l’altro, cause di giustificazione – queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.

L’ipotesi delineata dal 59.4 è quella dell’agente che erroneamente supponga l’esistenza nella realtà degli estremi di una causa di giustificazione riconosciuta dall’ordinamento; altra cosa è invece l’ipotesi in cui l’agente supponga l’esistenza di una causa di giustificazione non contemplata

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dall’ordinamento o ritenga erroneamente che una causa di giustificazione abbia limiti più ampi di quelli previsti dall’ordinamento: queste ultime ipotesi, estranee alla sfera della disciplina del 59.4 c.p., sono riconducibili alla disciplina del 5 c.p., trattandosi di errori sulla legge penale, che rileveranno se ed in quanto scusabili, cioè evitabili con la dovuta diligenza.

Le peculiarità del fatto nei reati omissivi, sia propri che impropri, si riflettono nella configurazione del dolo sotto il profilo dell’oggetto della rappresentazione e della volizione.

Quanto al momento rappresentativo, il soggetto che ha l’obbligo di agire deve innanzitutto essere a conoscenza, anche in forma dubitativa, dei presupposti di fatto dai quali scaturisce il dovere di agire.

Il dolo di omissione di soccorso (593), prototipo dei reati omissivi propri, esige infatti che il soggetto si renda conto di trovarsi di fronte ad un fanciullo minore di anni dieci o ad una persona incapace di provvedere a se stessa che siano stati abbandonati o smarriti, ovvero ad un corpo che sia o sembri inanimato.

In secondo luogo il soggetto deve sapere qual è l’azione da compiere (nell’esempio, chi si imbatte nel minore o nell’incapace deve sapere che deve avvertire la pubblica autorità, chi si trova in presenza di una persona in pericolo deve sapere che deve prestargli soccorso od avvertire la pubblica autorità).

Nei reati omissivi impropri, che esigono anche il verificarsi di un evento come conseguenza dell’omissione, il garante deve rendersi conto che il compimento dell’azione per lui doverosa potrebbe impedire il verificarsi dell’evento.

Quanto al momento volitivo del dolo, è necessario che il soggetto decida di non compiere l’azione doverosa; nei reati omissivi impropri, inoltre il momento volitivo esige che il soggetto abbia posto a base di quella decisione l’intenzione di non impedire l’evento o la certezza o l’accettazione dell’eventualità del verificarsi di un evento che sarebbe stato impedito dal compimento dell’azione doverosa.

Problemi notoriamente difficili solleva l’accertamento del dolo: i fatti psichici che lo compongono – la rappresentazione e la volizione – non possono essere accertati mediante i sensi, ma possono essere solo desunti da dati esteriori, con l’aiuto di massime di esperienza.

Le massime di esperienza vanno usate tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, relative alle modalità dell’azione, alla condotta susseguente al reato, alla personalità dell’agente, all’interesse che egli aveva al compimento dell’azione, ai suoi moventi, etc.

L’errore – sia sul fatto che sulle cause di giustificazione – esclude il dolo anche se inescusabile; l’errore dovuto a colpa lascia sussistere una responsabilità per colpa sempre che il fatto sia previsto dalla legge anche nella forma del delitto colposo (47.1 e 59.4 c.p.), ma la credibilità dell’errore, e quindi anche la prova della sua effettiva esistenza, di regola non può fondarsi solo sulle affermazioni dell’agente.

La realizzazione per colpa di un fatto antigiuridico comporta una responsabilità meno grave rispetto alla realizzazione dolosa dello stesso fatto; emblematica la sanzione comminata per l’omicidio: per chi cagiona dolosamente la morte di un uomo (575), la pena minima è di ventuno anni di reclusione; per chi invece cagiona la morte per colpa (589), la pena massima è di cinque anni di reclusione.

Il 43.1 stabilisce che il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. La colpa consta dunque di un requisito negativo e di un requisito positivo: il primo è l’assenza di dolo, il secondo è quello che la legge

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descrive come negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

La negligenza è l’omesso compimento di un’azione doverosa, l’imprudenza è la violazione di un divieto assoluto di agire o del divieto di agire con particolari modalità, l’imperizia è un’imprudenza od una negligenza nello svolgimento di attività che esigono il possesso e l’impiego di particolari abilità e/o cognizioni.

Le regole di diligenza, prudenza e perizia possono essere contenute in norme giuridiche, di fonte pubblica o privata.

Accanto ai poteri legislativo (=> leggi) ed esecutivo (=> regolamenti), anche altre pubbliche autorità possono emanare atti (ordini) la cui inosservanza dà vita a colpa (es.: i vigili urbani mentre regolano il traffico).

Infine, regole cautelari possono trovare la loro fonte in atti emanati da singoli soggetti privati che esercitino un’attività pericolosa (discipline).

Essendo la finalità preventiva o cautelare il tratto che individua tutte le regole di condotta rilevanti ai fini della colpa, rientrano nel concetto di leggi (regolamenti, ordini o discipline) la cui inosservanza dà vita a colpa non tutte le leggi, ma solo le leggi che impongono o vietano una data condotta all’esclusivo scopo di neutralizzare, o ridurre, il pericolo che da quella condotta possano derivare eventi dannosi o pericolosi rilevanti ai sensi di una fattispecie di reato colposo.

Le leggi la cui inosservanza può fondare il rimprovero di colpa possono essere variamente sanzionate: con sanzione amministrativa od anche con sanzione penale.

Il fenomeno della codificazione delle regole di diligenza, prudenza e perizia, per quanto in progressiva espansione, incontra una serie di limiti.

Accanto alle regole codificate, vi è un ampio spazio per regole la cui individuazione grava sul giudice: è lo spazio della colpa generica, quella che il codice penale designa come colpa per negligenza o imprudenza o imperizia.

Il giudice non è libero di individuare a suo piacimento le regole di diligenza o di prudenza o di perizia che andranno rispettate dall’agente nel singolo caso concreto: per individuare quelle regole il giudice non farà riferimento a quel che si usa fare, ma a quel che si doveva fare in un dato momento.

Una volta si invitava il giudice ad assumere un unico modello di riferimento: la tradizionale figura del buon padre di famiglia, l’uomo medio, un uomo accortissimo dotato di tutto il sapere del suo tempo.

Oggi si fa capo ad una pluralità di modelli.

Le regole di diligenza vanno ampiamente ritagliate sulla persona del singolo agente; questo processo di personalizzazione incontra però un limite logico: si può cioè tener conto delle deficienze del singolo agente, ma non dell’assenza del minimo di conoscenze e di capacità psico-fisiche necessarie per affrontare la vita di relazione.

Ciò comporta che si possano prendere in considerazione solo le menomazioni fisiche e non anche quelle di natura psichica.

Le capacità e le abilità del singolo agente superiori rispetto a quelle dell’agente modello non possono fondare, in linea di principio, un più elevato dovere di diligenza.

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Ci si chiede se l’inosservanza di una regola cautelare contenuta in una norma giuridica sia sempre sufficiente a fondare la colpa; va premessa la distinzione fra norme giuridiche a contenuto rigido e norme giuridiche a contenuto elastico: le prime impongono al destinatario una regola di condotta fissata in modo preciso, le seconde fanno invece dipendere l’individuazione della regola di condotta dalle circostanze del caso concreto.

Il quesito se l’inosservanza di una regola cautelare codificata sia sufficiente a fondare la colpa ha senso per le sole regole cautelari a contenuto rigido: l’inosservanza dà vita a colpa, a meno che siano presenti circostanze concrete tali da rendere il rispetto della norma fonte di un aumento del rischio della realizzazione di un fatto che integra un reato colposo: in questa evenienza l’inosservanza della norma giuridica è irrilevante.

Il legislatore ha assunto come prototipo dei reati colposi il reato colposo di evento: ha infatti stabilito che il delitto è colposo [...] quando l’evento [...] si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi: in questa classe di reati le regole di diligenza, prudenza e perizia sono rivolte al futuro: sono cioè finalizzate a prevenire che dalla condotta dell’agente possa derivare un evento offensivo di beni giuridici.

E colposa dev’essere sia la condotta sia l’evento che ne è derivato.

Nei reati colposi di evento, il dovere di diligenza, prudenza o perizia – qualunque sia la fonte da cui deriva – ha un duplice contenuto, vincolante al momento in cui si inizia o si continua ad agire:

  riconoscere il pericolo o i pericoli del realizzarsi del fatto antigiuridico;

  neutralizzare o ridurre il pericolo o i pericoli che si realizzi il fatto antigiuridico.

Quanto al primo dovere, il riconoscimento dell’esistenza del pericolo o dei pericoli del realizzarsi di un fatto antigiuridico può e deve essere ottenuto dall’agente coi sensi, con gli strumenti apprestati dalla tecnica per potenziare i sensi, attraverso l’applicazione al caso concreto delle regole di esperienza o giuridiche note all’agente modello.

In presenza di un pericolo di realizzazione di un fatto antigiuridico noto all’agente, il dovere logicamente successivo ha per oggetto la neutralizzazione o, se cioè è tecnicamente impossibile, la riduzione del pericolo.

L’adempimento di questo dovere può comportare la totale astensione dall’agire o dalla prosecuzione dell’agire.

Molte attività pericolose vengono svolte da una pluralità di persone, ed opera il principio di affidamento: ciascuno degli agenti può confidare che il comportamento dell’altro sia conforme alle regole di diligenza, prudenza e perizia.

Il limite logico del principio di affidamento è che le circostanze del caso concreto lascino riconoscere la possibilità di altrui comportamenti colposamente pericolosi.

Nei reati di evento la colpa deve abbracciare sia l’azione sia l’evento: si doveva agire diversamente perché, agendo come si è agito, si poteva cagionare un evento che il legislatore vuole impedire.

Il nesso tra colpa ed evento è richiesto dalla stessa definizione legislativa del delitto colposo: l’evento che è il risultato dell’azione o dell’omissione deve infatti verificarsi a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (43.1); e questo nesso compare anche nella descrizione dei singoli delitti colposi di evento.

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La violazione della stessa regola di diligenza, prudenza o perizia deve caratterizzare come colposa tanto l’azione, quanto l’evento che è conseguenza dell’azione.

Il nesso che deve intercorrere tra colpa ed evento è duplice.

In primo luogo, l’evento concreto dev’essere realizzazione del pericolo (o di uno dei pericoli) che la norma violata mirava a prevenire, in altri termini l’evento verificatosi nella realtà dev’essere il risultato di una delle serie di sviluppi causali il cui prevedibile avverarsi rendeva colposa la condotta dell’agente.

È problematico se tra gli sviluppi causali riconducibili al pericolo colposamente creato dall’agente vadano ricompresi i comportamenti colposi del terzo.

Il secondo aspetto del nesso tra colpa ed evento si lascia così individuare: accertato che l’evento è la realizzazione del pericolo colposamente creato dall’agente, bisogna appurare se il pericolo colposamente creato dall’agente poteva essere neutralizzato col comportamento conforme alle regole di diligenza: in altri termini, se la condotta rispettosa delle regole di diligenza avrebbe evitato nel caso concreto il verificarsi dell’evento.

L’insussistenza del nesso tra colpa ed evento esclude che chi ha tenuto la condotta colposa possa essere assoggettato alla pena prevista per la causazione colposa di questo o quell’evento; rimane aperta invece la possibilità che la condotta colposa venga punita di per sé con una diversa e meno grave sanzione – penale, amministrativa o disciplinare – prevista dall’ordinamento giuridico.

La responsabilità per l’omesso impedimento di eventi costitutivi di delitti colposi si configura nei confronti di chi è destinatario di obblighi di protezione o di controllo dei pericoli che possono incombere sui più diversi beni.

In questo gruppo di reati la colpa può consistere:

  nell’inottemperanza del dovere di attivarsi per riconoscere la presenza dei pericoli che i garanti hanno il dovere di sventare;

  nel mancato compimento delle azioni necessarie per neutralizzare o ridurre quei pericolo.

Anche nei reati omissivi impropri l’evento non può essere addebitato a colpa se il soggetto non poteva evitarlo nemmeno compiendo le azioni che la diligenza o la perizia gli imponevano di compiere.

Sia tra i delitti, sia tra le contravvenzioni, compaiono reati colposi di mera condotta, cioè reati colposi nei quali il fatto si esaurisce nella realizzazione di una condotta, in presenza di dati presupposti, senza che debba verificarsi un evento.

In questo tipo di reati le regole di diligenza che l’agente deve rispettare sono finalizzate non già a prevenire eventi futuri, ma ad assicurare che l’agente assuma le informazioni necessarie o compia i controlli necessari nel momento in cui esegue l’azione.

Nell’ordinamento italiano la colpa si configura quando la condotta concreta è difforme dal modello di condotta prescritto da una regola di diligenza, prudenza o perizia, codificata o non codificata.

Il grado della colpa – cioè il divario tra la condotta concreta ed il modello di condotta che l’agente doveva rispettare – è dunque irrilevante ai fini della realizzazione per colpa di questa o quella figura di reato colposo: rileverà invece ai fini della commisurazione della pena, che dipende, tra l’altro, dal grado della colpa (133.1 n.3).

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Vi sono peraltro figure di reato la cui integrazione esige un elevato grado di colpa (es.: bancarotta semplice, 217.1 n.3 l. fall.).

Una forma più grave di responsabilità per colpa si configura nei casi di colpa cosciente, cioè nei casi in cui l’agente per leggerezza sottovaluta la probabilità del verificarsi dell’evento che ha previsto o sopravvaluta le proprie capacità di evitarlo: il 61.3 prevede come circostanza aggravante l’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento.

Il codice penale del 1930 prevede una serie di ipotesi di responsabilità oggettiva, cioè ipotesi nelle quali un elemento del fatto di reato o l’intero fatto di reato viene addossato all’agente senza che sia necessario accertare la presenza del dolo o, almeno, della colpa.

Si tratta però di una disciplina in contrasto con la Costituzione: il principio di colpevolezza ha il rango di principio costituzionale, come ha affermato la Corte Costituzionale in due sentenze del 1988, la seconda delle quali ha messo in risalto che dal primo comma dell’art. 27 Cost. risulta indispensabile il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto.

Vi sono tre gruppi di ipotesi:

  responsabilità oggettiva in relazione all’evento;

  responsabilità oggettiva in relazione ad elementi del fatto diversi dall’evento;

   responsabilità oggettiva in relazione all’intero fatto di reato.

Un primo gruppo di ipotesi, in cui è l’evento l’elemento del fatto sottratto all’oggetto del dolo e della colpa, è rappresentato dai delitti aggravati dall’evento, figure delittuose per le quali la legge prevede un aggravamento della pena al verificarsi di una conseguenza naturalistica del reato.

Alla luce del principio costituzionale di colpevolezza, la maggior pena che la legge ricollega al verificarsi dell’evento potrà essere applicata solo se, alla luce di tutte le circostanze concrete, l’evento era uno sviluppo prevedibile ed evitabile, con la diligenza esigibile da un uomo ragionevole, del fatto concreto volontariamente realizzato dall’agente.

L’evento viene posto dalla legge a carico dell’agente sulla sola base del rapporto di causalità anche nei casi di delitto preterintenzionale, cioè nei casi in cui dall’azione od omissione deriva un evento [...] più grave di quello voluto dall’agente (43.1); l’unica figura di reato che il legislatore ha espressamente qualificato come preterintenzionale è l’omicidio di cui all’art. 584 c.p.: risponde di tale delitto chi, con atti diretti a percuotere o a cagionare una lesione personale, cagiona la morte di un uomo.

La responsabilità oggettiva si configura anche quando elementi del fatto diversi dall’evento vengono posti a carico dell’agente benché rispetto ad essi non vi sia né dolo né colpa, e dunque solo perché oggettivamente esistenti.

Si pensi in primo luogo alla disciplina dei reati contro la libertà sessuale in danno di un minore di anni quattordici: secondo quanto dispone il 609 sexies, il colpevole non può invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa.

In base al tenore del 609 sexies, tale errore lascerebbe in ogni caso sussistere la responsabilità dell’agente per il delitto configurato dal 609 quater comma 1 n. 1 c.p.

Viceversa, interpretando il 609 sexies in conformità alla Costituzione, la responsabilità dell’agente potrà essere affermata solo quando l’ignoranza dell’età dell’offeso, o l’erronea supposizione di un’età superiore agli anni quattordici, sia dovuta a colpa dell’agente.

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Il 117 c.p. introduce una deroga alla disciplina generale del concorso di persone nel reato, per i casi in cui, in assenza della qualità richiesta dalla norma che configura il reato proprio, il fatto integrerebbe un diverso reato: l’estraneo che, ignorando la qualità dell’intraneo, lo istiga o lo aiuta a commettere un fatto che integrerebbe il reato diverso risponde ex 117 c.p. come concorrente nel reato proprio: si tratta di responsabilità oggettiva.

Letto secondo Costituzione, il 117 impone di ritenere l’estraneo responsabile di concorso nel reato proprio solo se l’ignoranza o l’errore sulla qualifica soggettiva del concorrente sia dovuta a colpa.

Un’ulteriore ipotesi di responsabilità oggettiva, nella quale un elemento del fatto giace al di fuori del dolo, è configurata dall’82.1: si tratta dell’aberratio ictus monolesiva , cioè dell’ipotesi in cui per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un’altra causa è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta.

In presenza di una divergenza tra ciò che il soggetto ha voluto e ciò che ha realizzato, la legge fa ricorso ad una finzione, considerando realizzata dolosamente l’offesa cagionata a danno di una persona diversa da quella presa di mira: dispone l’82.1 che il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere.

L’ipotesi dell’aberratio ictus è diversa da quella dell’error in persona: in quest’ultima ipotesi la persona offesa è quella contro cui materialmente si dirigeva l’azione e che si voleva offendere, e ciò che diverge tra volizione e realizzazione attiene solo all’identità della persona offesa.

Nell’aberratio ictus monolesiva, invece, si voleva offendere un determinato uomo e non lo si è offeso: si è offeso un altro uomo che l’agente non voleva offendere.

L’82.2 contempla l’ipotesi in cui oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l’offesa era diretta (aberratio ictus plurilesiva ), disponendo che il colpevole soggiace alla pena prevista per il reato più grave, aumentata fino alla metà.

Interpretando l’82 secondo Costituzione, in tutti i casi di aberratio ictus (monolesiva o plurilesiva) l’agente risponderà solo se l’offesa a persona diversa sia dovuta a colpa, in quanto cioè l’agente, come chiunque altro al suo posto, potesse prevedere, in quelle circostanze concrete, che l’offesa da lui progettata si sarebbe verificata nei confronti di una persona diversa (aberratio monolesiva) o anche di una persona diversa (aberratio plurilesiva) dalla vittima designata.

Nel codice penale è presente una disposizione che accolla all’agente l’intero fatto di reato secondo lo schema della responsabilità oggettiva.

Si tratta del 116, secondo il quale qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione.

Sul 116 si è pronunciata la Corte Costituzionale, fornendo una lettura della disposizione in esame secondo la quale il reato diverso deve potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto.

Secondo l’originario dettato del 59.1, le circostanze aggravanti venivano valutate a carico dell’agente, anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti: bastava cioè la loro oggettiva esistenza.

Il legislatore ha successivamente armonizzato tale disciplina col principio di colpevolezza richiedendo la presenza almeno della colpa: secondo il disposto del 59.2, le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute od ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.

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Nel 1958 il legislatore aveva riformulato la disciplina dei reati di stampa, sostituendo all’originaria responsabilità oggettiva del direttore, del redattore responsabile etc. una responsabilità a titolo di colpa per l’omesso controllo atto ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati (57).

La norma configura una vera e propria responsabilità per colpa: è pertanto necessario accertare caso per caso se, nelle circostanze del caso concreto, il direttore responsabile poteva, con la dovuta diligenza, rendersi conto ed evitare che col mezzo della pubblicazione da lui diretta venisse commesso un reato.

La formula “a titolo di colpa” compare anche nell’83 c.p. a proposito dell’aberratio delicti, cioè l’ipotesi in cui per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione o per un’altra causa si cagiona un evento diverso da quello voluto.

Non si tratta di un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma di un’ipotesi di responsabilità per colpa.

Quest’interpretazione dell’83 decide anche del fondamento della responsabilità nell0ipotesi di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (586), per la cui disciplina – che interessa tutte le figure di delitto doloso per le quali non siano espressamente previste ipotesi aggravate dagli eventi “morte” o “lesione personale” – la legge stabilisce che si applicano le disposizioni dell’art. 83.

La morte o la lesione di una persona che conseguano alla commissione di un fatto preveduto come delitto doloso saranno poste a carico dell’agente solo se cagionate per colpa, solo cioè se si tratti di conseguenze prevedibili da un uomo ragionevole.

Le condizioni obiettive di punibilità operano indipendentemente dal dolo e dalla colpa, ma ciò non contrasta col principio di colpevolezza, trattandosi di elementi del reato estranei al fatto.

Assenza di scusanti. Per considerare colpevole l’agente non basta che abbia commesso un fatto antigiuridico con dolo o con colpa: un compiuto rimprovero di colpevolezza non può muoversi quando l’agente ha commesso il fatto in presenza di scusanti, cioè di circostanze anormali che, nella valutazione legislativa, hanno influito in modo irresistibile sulla sua volontà o sulle sue capacità psicofisiche.

Il tratto comune di queste ipotesi viene espresso col concetto di inesigibilità, nel senso che da chi ha agito sotto la pressione di quelle circostanze anormali non si poteva esigere un comportamento diverso.

Solo in via di eccezione espressa gli ordinamenti danno rilievo all’umana fragilità per scusare il compimento di ingiustificati fatti offensivi di beni giuridici commessi con dolo o per colpa.

Eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate solo dal legislatore, e non dal giudice in via analogica.

Tra le principali ipotesi di scusanti, si segnala la provocazione nei delitti contro l’onore: a norma del 599.2 non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 594 e 595 – cioè i fatti dolosi di ingiuria e diffamazione – nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso.

Inoltre è scusato chi commette fatti antigiuridici dolosi di falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, favoreggiamento personale, etc. per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore (384.1).

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Ancora, non è colpevole chi agisce in stato di necessità determinato da forze della natura (54.1) o dall’altrui minaccia (54.3), essendo costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona.

Conoscenza o conoscibilità della norma penale violata. Il principio di colpevolezza richiede che, al momento della commissione del fatto, l’agente sapesse o potesse sapere che quel fatto era previsto dalla legge come reato.

Oggi vige la regola secondo cui nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale dovuta a colpa, nel senso che la responsabilità non si profila quando l’agente, anche usando la dovuta diligenza, non poteva sapere che il fatto doloso o colposo da lui realizzato era previsto da una norma incriminatrice.

L’oggetto dell’ignoranza o della conoscenza errata ex 5 c.p. può essere in primo luogo la rilevanza penale del fatto commesso dall’agente.

L’ignoranza o l’errata conoscenza può inoltre riguardare l’antigiuridicità del fatto: l’agente può ritenere lecito il fatto da lui realizzato o in quanto supponga esistente una norma che lo autorizza o lo impone non prevista dall’ordinamento, oppure in quanto ritenga che la norma che prevede la causa di giustificazione abbia limiti più ampi di quelli fissati dall’ordinamento.

L’ignoranza o l’errata conoscenza può inoltre riguardare alcuni elementi della colpevolezza logicamente precedenti all’indagine sulla conoscenza o conoscibilità della legge penale: in particolare, la colpa.

Ulteriore condizione perché un fatto possa essere oggetto di un rimprovero personale è che l’autore, al momento della commissione del fatto, fosse imputabile, cioè capace di intendere e di volere: in altri termini capace di comprendere il significato sociale e le conseguenze dei propri atti (capacità di intendere), nonché di autodeterminarsi liberamente (capacità di volere).

Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile, inoltre è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere (85).

Vi è una serie di ipotesi la cui disciplina rappresenta una mera applicazione di tale principio: è il caso del vizio di mente, della cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti e del sordomutismo, che escludono l’imputabilità quando l’infermità comporta l’incapacità di intendere o di volere; è il caso dell’età minore di anni quattordici, per la quale il legislatore stabilisce una presunzione assoluta di incapacità di intendere e di volere; ed è il caso, infine, dell’età compresa fra i quattordici e i diciotto anni (non ancora compiuti), che esige l’accertamento caso per caso della capacità di intendere e di volere.

Questo elenco di cause di esclusione della capacità di intendere e di volere non ha carattere tassativo.

Il legislatore ha escluso che gli stati emotivi e passionali possano assumere rilievo scusante (90 c.p.).

A norma dell’88 c.p. non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere.

Aggiunge l’89, sotto la rubrica “vizio parziale di mente”: chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita.

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Il concetto di infermità ex 88 ed 89 c.p. ricomprende sia malattie di tipo psichico, sia malattie di tipo fisico, purché tali da incidere sulle capacità intellettive o volitive della persona.

Per l’accertamento del vizio di mente è sempre necessaria una perizia psichiatrica.

La persona riconosciuta affetta da vizio totale di mente al momento del fatto viene prosciolta per difetto di colpevolezza e quindi non viene sottoposta a pena; peraltro, ove sia ritenuta socialmente pericolosa, ed il fatto commesso integri un delitto doloso punito con la reclusione superiore nel massimo a due anni, l’agente verrà sottoposto ad una misura di sicurezza: precisamente, al ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (222 c.p.), ovvero, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 253/2003, alla libertà vigilata (228 ss. c.p.).

In caso di vizio parziale di mente, l’agente viene invece sottoposto ad una pena diminuita in misura non eccedente un terzo (secondo la regola dettata dal 65 n. 3 c.p.); ove il soggetto sia ritenuto socialmente pericoloso, viene inoltre ricoverato in una casa di cura e di custodia (219 c.p.) ed il ricovero verrà di regola eseguito dopo che sia stata scontata la pena.

Se si tratta di un reato per il quale la legge prevede una pena detentiva inferiore nel minimo a cinque anni, in luogo della casa di cura e custodia il giudice potrà disporre la libertà vigilata (219.3).

Il 96 dispone che non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità, la capacità di intendere o di volere. Se la capacità di intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita.

Il legislatore fa obbligo al giudice di accertare caso per caso se il sordomuto sia capace di intendere e di volere nel momento della commissione del fatto.

Il sordomuto prosciolto per difetto di imputabilità o condannato a pena diminuita in quanto la sua capacità di intendere o di volere era grandemente scemata – se ritenuto socialmente pericoloso – potrà essere sottoposto alle misure di sicurezza rispettivamente del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, dell’assegnazione ad una casa di cura e di custodia o della libertà vigilata.

Il codice penale individua tre fasce di età rilevanti ai fini dell’imputabilità:

  al di sopra dei 18 anni: il compimento del diciottesimo anno di età al momento del fatto segna il limite oltre il quale il soggetto si considera imputabile;

  al di sotto dei 14: chi al momento della commissione del fatto non aveva ancora compiuto i quattordici anni è considerato sempre non imputabile (97): nei suoi confronti potrà peraltro essere applicata una misura di sicurezza;

   tra i 14 ed i 18: la legge in questo caso subordina la dichiarazione di imputabilità all’accertamento caso per caso della capacità di intendere e di volere del minore al momento del fatto.

Quanto ai criteri in base ai quali va condotto l’accertamento della capacità del minore, la disciplina del processo penale minorile (art. 9 d.P.R. 22-9-1988 n. 448) impone al pubblico ministero ed al giudice di formare il suo convincimento anche sulla base di elementi relativi alle condizioni personali, familiari, sociali ed ambientali del minorenne, consentendo anche di assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporto con il minorenne e (di) sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità.

Può darsi che il procedimento penale si instauri a notevole distanza di tempo dalla commissione del fatto: se l’intervallo temporale è tale da rendere impossibile accertare se il minore fosse o meno

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imputabile al momento del fatto, dovrà essere pronunciata sentenza di assoluzione per difetto di imputabilità, ai sensi degli artt. 98 e 85 c.p.

Se il minore di età compresa tra quattordici e diciotto anni viene riconosciuto imputabile, gli verrà inflitta la pena per il reato da lui commesso, diminuita nella misura massima di un terzo (65 n. 3).

Il minore di anni quattordici non è imputabile e quindi non è assoggettabile a pena, ma ove abbia commesso un fatto previsto dalla legge come delitto e sia riconosciuto socialmente pericoloso deve essere sottoposto ad una misura di sicurezza: la libertà vigilata o, limitatamente ad una gamma di reati di particolare gravità (23.1 e 36.2 d.P.R. n. 448 del 1988), il riformatorio giudiziario.

Quest’ultima misura viene ora eseguita attraverso l’affidamento coattivo del minore ad una comunità educativa, pubblica o privata.

Le stesse misure di sicurezza, con la stessa disciplina ed alle stesse condizioni, si applicano a chi al momento del fatto avesse un’età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni, sia che il soggetto venga ritenuto imputabile, sia che venga ritenuto non imputabile: nel primo caso la misura di sicurezza seguirà l’esecuzione della pena, nel secondo si tratterà dell’unica sanzione penale.

Ai rapporti tra azione di sostanze alcoliche o stupefacenti e imputabilità il codice penale dedica una disciplina articolata (91 ss.), distinguendo tra ubriachezza accidentale (derivata cioè da caso fortuito o da forza maggiore), ubriachezza volontaria o colposa, ubriachezza preordinata, ubriachezza abituale e, infine, cronica intossicazione da alcool.

La prima ipotesi contemplata dal codice penale (91) è quella dell’ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore: derivata cioè o da un accadimento imprevedibile o da una forza esterna invincibile, esercitata da un altro uomo o dalla natura.

In ogni caso, secondo la previsione legislativa, il soggetto non è imputabile solo se, al momento della commissione del fatto, l’ubriachezza accidentale è piena, e cioè tale da escludere la capacità di intendere o di volere; se invece l’ubriachezza non è piena, ma è tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere, il soggetto è imputabile, ma soggiace ad una pena diminuita (come di regola per le circostanze attenuanti, nella misura massima di un terzo: 65 n.3).

Nei confronti di chi venga prosciolto o condannato a pena diminuita ex art. 91 c.p., non può essere disposta alcuna misura di sicurezza.

La seconda ipotesi è quella dell’ubriachezza volontaria o colposa (92.1): si parla di ubriachezza volontaria per alludere all’assunzione di alcool sorretta dall’intenzione di ubriacarsi, mentre l’ubriachezza è colposa quando il soggetto assume alcool in misura superiore alla sua capacità di reggerlo, imprudentemente ignorando o sottovalutando gli effetti inebrianti che l’alcool produrrà su di lui.

L’una e l’altra forma di ubriachezza non esclude né diminuisce l’imputabilità (92.1).

Quanto alla natura dolosa o colposa della responsabilità, dipenderà dalla presenza del dolo o della colpa nel momento della commissione del fatto (e non dal carattere volontario o colposo dello stato di ubriachezza).

L’ubriachezza abituale è oggetto di una definizione legislativa: a norma del 94.2 è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcooliche e in stato frequente di ubriachezza.

Chi commetta un fatto di reato in stato di ubriachezza abituale non solo è considerato imputabile, ma viene anzi sottoposto ad un aggravamento di pena, nella misura massima di un terzo (94.1 e 64 c.p.).

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Lo stesso trattamento sanzionatorio è previsto per chi commetta un reato sotto l’azione di sostanze stupefacenti e sia dedito all’uso di tali sostanze (94.3).

La cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti si caratterizza come un’alterazione patologica permanente, che incide sul sistema nervoso, per lo più nella forma di un’affezione cerebrale, alla quale conseguono psicopatie che permangono indipendentemente dall’ulteriore assunzione di alcool o di stupefacenti.

La cronica intossicazione viene equiparata dalla legge al vizio di mente (totale o parziale): stabilisce il 95 che per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti, si applicano le disposizioni contenute negli artt. 88 [vizio totale di mente] e 89 [vizio parziale di mente].

Gli artt. 87 e 92.2 disciplinano le ipotesi di incapacità di intendere o di volere preordinata dall’agente, vale a dire le ipotesi in cui il soggetto si mette in stato di incapacità al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa: l’87 detta una regola di portata generale, mentre il 92.2 fa riferimento allo specifico caso in cui l’incapacità preordinata derivi dall’assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti.

In base al dettato della legge (al fine di commettere il reato: artt. 87 e 92.2 c.p.), il reato commesso dev’essere proprio quello che l’agente si proponeva di commettere nel momento in cui si è posto in stato d’incapacità: ne segue che se viene commesso un reato diverso, nel caso in cui l’incapacità preordinata sia dovuta a cause diverse dall’alcool o dalle sostanze stupefacenti, il soggetto andrà prosciolto in applicazione della regola enunciata dall’85 c.p.; ove invece l’incapacità sia dovuta all’alcool od a stupefacenti, la diversità del reato commesso rispetto a quello programmato non escluderà l’imputabilità: l’agente risponderà ex art. 92.1, ma non sarà applicabile la circostanza aggravante prevista dal 92.2.

Il 90 stabilisce che gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità.

Gli stati emotivi o passionali incideranno sull’imputabilità, escludendola o diminuendola, quando siano la manifestazione esterna di un vero e proprio squilibrio mentale, anche transitorio.

CAPITOLO IX – LA PUNIBILITÀ

Nella struttura del reato l’ultimo elemento è la punibilità, formula che designa l’insieme delle condizioni, ulteriori ed esterne rispetto al fatto antigiuridico e colpevole, che possono fondare o escludere l’opportunità di punirlo.

Le scelte del legislatore sull’opportunità di punire un fatto antigiuridico e colpevole possono esprimersi nell’individuazione di un duplice ordine di condizioni: condizioni che fondano la punibilità e condizioni (o cause) che escludono la punibilità.

Fondano la punibilità quelle che il legislatore designa come condizioni obiettive di punibilità (44 c.p.) e che la dottrina più recente denomina “condizioni estrinseche di punibilità”: si tratta di quegli accadimenti, menzionati in una norma incriminatrice, che non contribuiscono in alcun modo a descrivere l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma, ma esprimono solo valutazioni di opportunità in ordine all’inflizione della pena.

Le condizioni obiettive di punibilità sono del tutto svincolate dal dolo e dalla colpa: operano cioè anche se l’agente non si è rappresentato né ha voluto l’accadimento che integra la condizione, ed anche se l’agente non se lo poteva rappresentare, né lo poteva evitare impiegando la dovuta diligenza.

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Il 44 c.p. qualifica come obiettive le condizioni di punibilità non solo nella rubrica, ma espressamente dispone che quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto.

Escludono la punibilità:

  alcune situazioni concomitanti alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole, che ineriscono alla posizione personale dell’agente od ai suoi rapporti con la vittima (cause personali di non punibilità);

  alcuni comportamenti dell’agente susseguenti alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole (cause sopravvenute di non punibilità o di risoluzione della punibilità);

   alcuni fatti naturali o giuridici successivi alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole, che o sono del tutto indipendenti da comportamenti dell’agente o comunque non s’esauriscono in un comportamento dell’agente (cause di estinzione del reato).

Esempi di cause personali di non punibilità possono trarsi dal 649, che dichiara non punibile chi ha commesso la gran parte dei delitti contro il patrimonio in danno di un famigliare (coniuge non legalmente separato, ascendente o discendente, affine in linea retta, adottante o adottato, fratello o sorella conviventi con l’autore del fatto); dalle immunità di diritto internazionale (3 c.p.), che riguardano il Sommo Pontefice, i capi di Stato, i capi di governo ed i ministri degli Stati esteri, gli agenti diplomatici accreditati presso il nostro Stato, i membri del Parlamento europeo, i giudici della Corte dell’Aia, etc.

Come le condizioni obiettive di punibilità, le cause personali di esclusione della punibilità sono del tutto svincolate dal dolo e dalla colpa: operano a favore dell’agente se obiettivamente esistenti, rendendo non punibile il fatto antigiuridico e colpevole da lui realizzato; mentre, se oggettivamente non esistono, a nulla varrà che l’agente abbia erroneamente supposto che fossero presenti nel caso concreto.

Si inquadrano tra le cause sopravvenute di non punibilità una serie di disposizioni che premiano con l’impunità chi, avendo commesso un fatto antigiuridico e colpevole, realizzi successivamente una condotta tale o da impedire che la situazione di pericolo già creata si traduca nella lesione del bene giuridico o da reintegrare ex post il bene offeso.

Le cause personali e le cause sopravvenute di non punibilità vanno ricomprese, di regola, nella disciplina dettata dal 119.1 in ordine alle circostanze soggettive di esclusione della pena: secondo tale disposizione, le circostanze soggettive che escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato hanno effetto solo riguardo alla persona a cui si riferiscono.

Le cause di estinzione del reato sono istituti che prendono vita in modo del tutto indipendente da comportamenti dell’agente o che comunque non si esauriscono in un comportamento dell’agente: in particolare sono integrati da accadimenti naturali (morte del reo, decorso del tempo necessario per la prescrizione) o da vicende giuridiche (leggi di amnistia, provvedimenti di ammissione all’oblazione, provvedimenti di concessione del perdono giudiziale per i minori) che, intervenuti dopo la commissione del fatto antigiuridico e colpevole e prima della condanna definitiva, comportano l’inapplicabilità di qualsiasi sanzione penale prevista per quello specifico reato.

Quando sia intervenuta una causa di estinzione del reato non possono dunque applicarsi le pene principali, le pene accessorie, gli effetti penali della condanna e le misure di sicurezza, con l’eccezione di una misura di sicurezza patrimoniale che, per espressa indicazione legislativa, dev’essere disposta anche se non è stata pronunciata sentenza di condanna: la confisca obbligatoria

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di cose intrinsecamente criminose, cioè di quelle cose la cui fabbricazione, uso, porto o alienazione costituisce di per sé reato (240.2 n.2 c.p.).

L’effetto estintivo riguarda le sole sanzioni penali: non coinvolge invece le eventuali obbligazioni civili derivanti da reato.

Stabilendo che la morte del reo, avvenuta prima della condanna, estingue il reato (150), il legislatore preclude la possibilità di applicare qualsiasi sanzione penale anche sul patrimonio del defunto, così come era previsto, invece, in alcune codificazioni preunitarie.

L’amnistia propria (151.1 pt. I c.p.) – cioè l’amnistia che interviene prima della sentenza definitiva di condanna – consiste in un provvedimento generale di clemenza che estingue il reato e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie; essa dev’essere adottata con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale dell’intero testo (79 Cost.).

Le figure di reato interessate dall’amnistia vengono di regola individuate dalla legge con riferimento al massimo della pena edittale; possono d’altra parte essere previste esclusioni oggettive, cioè per tipi di reato.

Salvo diversa previsione contenuta nella singola legge di amnistia, il provvedimento non si applica ai recidivi, nei casi di recidiva aggravata o reiterata (99.2 e 99.3 c.p.), né ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza (102 ss.): in questo senso dispone il 151.5 c.p.

Quanto ai limiti temporali di applicazione dell’amnistia, il 79.3 Cost. prevede che l’amnistia non possa applicarsi a reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge.

Il condannato può rinunciare all’amnistia propria, poiché ha diritto ad essere giudicato per veder riconosciuta la sua piena innocenza.

Prevedendo che il reato possa estinguersi per effetto della prescrizione (157), la legge dà rilievo al venir meno dell’interesse pubblico alla repressione dei reati, e quindi all’applicazione di tutte le sanzioni penali, quando dalla commissione del reato sia decorso un tempo proporzionato, in linea di principio, alla sua gravità, desunta dalla pena edittale.

Peraltro non cadono mai nell’oblio della prescrizione, e quindi non si estinguono per effetto del decorso del tempo, i reati puniti con l’ergastolo.

La prescrizione estingue il reato:

  in venti anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni;

  in quindici anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a dieci anni;

   in dieci anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a cinque anni;

   in cinque anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione inferiore a cinque anni, o la pena della multa;

   in tre anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell'arresto;

   in due anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell'ammenda.

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Per determinare il termine di prescrizione per un determinato reato si ha riguardo al massimo edittale di pena previsto per il reato consumato o tentato; a tale scopo si tiene conto anche delle circostanze (157.2 e 157.3 c.p.): sul massimo edittale di pena vanno operati l’aumento massimo previsto per le circostanze aggravanti e la diminuzione minima prevista per le attenuanti: in caso di concorso di circostanze eterogenee, si procede al giudizio di comparazione ex 69 c.p.

A norma del 158, il termine della prescrizione decorre dal giorno della consumazione del reato; per il tentativo, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza, vale a dire dal giorno in cui è cessata la situazione antigiuridica creata dalla condotta; per il reato continuato dal giorno in cui è cessata la continuazione, cioè dal giorno della consumazione dell’ultimo dei reati uniti dal vincolo della continuazione.

Quando l’autorità giudiziaria non resti inerte, ma si attivi prima che siano decorsi i termini di prescrizione sopraindicati, il corso della prescrizione subisce un’interruzione; non ogni iniziativa dell’autorità giudiziaria, ma solo il compimento degli atti di cui al 160.1 e 160.2 c.p. può interrompere il corso della prescrizione: tra gli atti interruttivi si annoverano fra l’altro l’interrogatorio dell’imputato, l’ordinanza di applicazione di misure cautelari, la richiesta di rinvio a giudizio, al sentenza di condanna non definitiva, etc.

La prescrizione interrotta ricomincia a decorrere dal giorno dell’interruzione, ma i termini previsti dal 157 non possono prolungarsi oltre la metà (160.3).

Il corso della prescrizione può anche subire una sospensione (159): è quanto si verifica in una serie di ipotesi di forzata inattività dell’autorità giudiziaria, come quelle in cui sia necessaria un’autorizzazione a procedere, nonché le ipotesi in cui il giudice ordinario sollevi questione di legittimità costituzionale.

Una volta cessata la causa di sospensione, la prescrizione riprende il suo corso ed il tempo decorso anteriormente al verificarsi della causa sospensiva si somma al tempo decorso dopo che tale causa è venuta meno.

L’oblazione consiste nel pagamento di una somma di denaro corrispondente ad un terzo del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione ovvero alla metà del massimo, quando si tratti di contravvenzione punita alternativamente con l’arresto o con l’ammenda: il pagamento di tale somma estingue il reato.

L’oblazione ha un campo applicativo limitato alle contravvenzioni: alle sole contravvenzioni punite in astratto (162) o che il giudice punirebbe nel caso concreto (162 bis) con la pena dell’ammenda.

L’oblazione ordinaria è disciplinata dal 162: a fronte della domanda proposta tempestivamente dall’imputato, il giudice ha l’obbligo di ammetterlo all’oblazione; invece, nel quadro dell’oblazione speciale, prevista dal 162 bis per le contravvenzioni punite con pene alternative, il giudice deve vagliare discrezionalmente se il concreto fatto antigiuridico e colpevole sia così poco grave da meritare solo la pena pecuniaria, e non l’arresto; in tal caso, accoglierà la domanda di oblazione, sempre che l’accoglimento non sia precluso o dai precedenti dell’agente (recidiva reiterata, abitualità o professionalità nelle contravvenzioni) o dal permanere di conseguenze dannose o pericolose del fatto eliminabili dall’agente.

Accolta la domanda di oblazione ed accertato il pagamento da parte dell’imputato, il giudice dichiarerà con sentenza l’estinzione del reato.

Il perdono giudiziale si indirizza ai soli minori, e precisamente ai soli soggetti che al momento della commissione del fatto abbiano compiuto i quattordici anni e non ancora i diciotto.

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Il perdono giudiziale (169) è disposto discrezionalmente dal giudice – sulla base della prognosi che il soggetto si asterrà dal commettere ulteriori reati – e può consistere o nell’astensione dal rinvio a giudizio ovvero, nel caso in cui il giudizio si sia già instaurato, nell’astensione dalla pronuncia della condanna; l’estinzione del reato consegue immediatamente al passaggio in giudicato della sentenza che nell’uno e nell’altro caso applica il perdono giudiziale.

Al giudice si richiede di quantificare la pena che andrebbe inflitta nel caso concreto, dovendo tale pena collocarsi al di sotto del tetto massimo di due anni di pena detentiva o di millecinquecentoquarantanove euro di pena pecuniaria; nella determinazione della pena in concreto il giudice terrà conto, tra l’altro, della diminuzione prevista per la minore età.

L’applicabilità del perdono giudiziale è sottoposta inoltre ad alcuni limiti soggettivi:

  il minore non deve aver riportato precedenti condanne a pena detentiva per delitto, né deve trattarsi di delinquente o contravventore abituale o professionale;

  non deve aver già fruito del perdono giudiziale: infatti il 169.4 dispone che il perdono giudiziale non può essere conceduto più di una volta; quest’ultima preclusione è stata ridimensionata dalla Corte Costituzionale: oggi l’istituto può essere applicato per la seconda volta, nel rispetto dei limiti di pena precedentemente illustrati, se il reato per cui si procede è stato commesso anteriormente alla prima sentenza di perdono o se è unito dal vincolo della continuazione ad altro od altri reati per i quali è già stato concesso il perdono giudiziale.

Le cause di estinzione del reato hanno in comune quella che convenzionalmente viene designata come autonomia o specificità del loro campo di applicazione: questo carattere si manifesta sia in relazione ai reati ai quali la causa di estinzione è applicabile, sia alle persone che ne possono beneficiare.

Sotto il primo profilo il 170 detta una disciplina di portata generale: in primo luogo stabilisce che quando un reato è il presupposto di un altro reato, la causa che lo estingue non si estende all’altro reato; in secondo luogo dispone che la causa estintiva di un reato che è elemento costitutivo o circostanza aggravante prevista per chi commette un reato per eseguirne o occultarne un altro (61 n. 2): l’estinzione di uno dei due reati non esclude l’applicabilità dell’aggravante.

Il 151.2 tratta di amnistia e di concorso di reati: nel concorso di più reati, l’amnistia si applica ai singoli reati per i quali è conceduta.

Il secondo profilo – quello delle persone interessate dalla causa estintiva – emerge invece nel quadro del concorso di persone nel reato: il 182 dispone infatti che l’estinzione del reato […] ha effetto soltanto per coloro ai quali la causa di estinzione si riferisce, facendo salva peraltro la possibilità che la legge disponga altrimenti.

Eccezione: chi abbia istigato od aiutato altri a commettere un fatto di bigamia non è punibile se il matrimonio, contratto precedentemente dal bigamo, è dichiarato nullo, ovvero è annullato il secondo matrimonio per causa diversa dalla bigamia (556.3).

L’ordine nel quale sono disposti gli elementi del reato – al primo posto il fatto, al secondo la sua antigiuridicità, al terzo al colpevolezza per il fatto antigiuridico e solo al quarto la punibilità – è un ordine vincolante per il giudice anche nel caso in cui sia presente una causa di estinzione del reato.

La Corte Costituzionale ha fatto discendere dal diritto di difesa ex 24 Cost. il principio in base al quale l’imputato può rinunciare all’intervenuta prescrizione od amnistia così da consentirgli la difesa nel merito.

CAPITOLO X – TENTATIVO E CONCORSO DI PERSONE

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In un ordinamento retto dal principio di legalità, sulla base del solo catalogo dei reati contenuto nella parte speciale del codice e nella legislazione speciale potrebbe rispondere penalmente solo chi realizza un reato consumato, cioè chi compie un fatto concreto nel quale sono presenti tutti gli estremi di un dato reato.

Il 56, integrandosi con le norme di parte speciale che descrivono i singoli delitti, dà vita ad altrettante nuove figure delittuose, che sono forme di manifestazione meno gravi di quei delitti: tentativo di omicidio, di furto, di rapina etc.

C’è bisogno di una norma ad hoc anche per fondare la responsabilità di chi non realizza in prima persona un reato, ma si limita ad aiutare o a persuadere altri a commetterlo; la funzione di estendere la responsabilità a chi concorre alla commissione di un reato da parte di altri è assolta nel nostro ordinamento dal 110, che, combinandosi con le norme che prevedono la forma consumata o tentata dei singoli reati, dà vita ad una nuova forma di manifestazione di quei reati: concorso in omicidio, in furto, in rapina etc.

Integrano le singole disposizioni di parte speciale anche le disposizioni che prevedono circostanze, aggravanti od attenuanti, del reato: ciò induce parte della dottrina a parlare di forme di manifestazione del reato anche a proposito del reato circostanziato.

Tuttavia, va sottolineato che una differenza decisiva corre tra le disposizioni sul tentativo e sul concorso di persone e quelle in tema di circostanze: le prime decidono se una persona debba o meno rispondere penalmente, le seconde presuppongono la sussistenza di una responsabilità penale e decidono solo della misura della pena.

Il tentativo. Il tentativo è punito perché pone in pericolo un bene giuridico, l’art. 56.1 dice che chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato [8 comma 4 c.p.p.], se l'azione non si compie o l'evento non si verifica [49 comma 2]; requisiti sono allora l’idoneità degli atti e la loro non equivocità.

Il tentativo è un titolo autonomo di reato e non una circostanza attenuante.

Ad eccezione delle ipotesi in cui per il delitto consumato sia prevista la pena dell’ergastolo – in tal caso, per espressa previsione legislativa, il tentativo è punito con la reclusione da dodici a ventiquattro anni (artt. 56.2 e 23.1) – all’autore di un delitto tentato si applica la pena stabilita per il delitto [consumato] diminuita da un terzo a due terzi (56.2).

Trattandosi di una figura autonoma di reato, il tentativo ha una propria cornice edittale di pena, che il giudice deve individuare preliminarmente rispetto alla commisurazione della pena, da operarsi poi all’interno di quella cornice: in particolare, la pena per il delitto tentato spazierà da un minimo pari alla pena minima prevista per il delitto consumato diminuita di due terzi e un massimo pari alla pena massima prevista per il delitto consumato diminuita di un terzo.

A partire dalle pene previste per il delitto consumato, si deve cioè operare la diminuzione massima sulla pena minima e la diminuzione minima sulla pena massima.

Il legislatore ha circoscritto la funzione estensiva della norma sul tentativo ai soli delitti: le contravvenzioni son configurabili nella forma tentata nei soli casi in cui è la stessa norma incriminatrice a dar rilevanza al tentativo di realizzare una determinata condotta.

Il delitto tentato dev’essere necessariamente commesso con dolo.

Solo in via d’eccezione espressa il tentativo di singole figure delittuose può essere punito con la stessa pena del corrispondente delitto consumato (è il caso dei delitti in materia di contrabbando).

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Gli atti univoci sono gli atti esecutivi, il requisito dell’univocità degli atti esprime una caratteristica oggettiva di condotta: sono diretti verso un delitto solo gli atti che rappresentino l’inizio di esecuzione di quel determinato delitto.

Per quanto riguarda l’idoneità, il giudizio viene formulato ex ante: se il giudizio fosse formulato ex post nessun tentativo potrebbe essere punibile.

L’idoneità come giudizio di probabilità ha come necessario termine di relazione la consumazione del delitto.

Nei reati che si esauriscono in un’azione o in più azioni (reati di mera condotta) l’idoneità andrà rapportata al completamento dell’azione o delle azioni richieste dalla legge per la consumazione del reato

Nei reati di evento, l’idoneità degli atti andrà invece valutata in relazione al verificarsi dell’evento o degli eventi.

Vi è divergenza fra impostazione soggettivistica (dati conosciuti o conoscibili dall’agente) ed oggettivistica (dati oggettivamente presenti).

Il 115 c.p. considera non punibili sia l’accordo sia l’istigazione che abbiano per oggetto la commissione di un delitto che poi non venga commesso.

Nei reati a forma vincolata sono esecutivi gli atti che corrispondono allo specifico modello di comportamento descritto nella norma incriminatrice; nei reati a forma libera l’azione tipica si individua in funzione del mezzo scelto in concreto dall’agente: esecutiva è l’attività che consiste nell’uso del mezzo scelto dall’agente.

L’irrilevanza degli atti preparatori ai fini del tentativo non sempre comporta la loro irrilevanza penale: eccezionalmente l’ordinamento prevede come reati a sé stanti una molteplicità di atti preparatori di altri reati.

Le figure delittuose che danno autonoma rilevanza agli atti preparatori non tollerano che la soglia della punibilità sia ulteriormente spostata all’indietro: tali reati non ammettono il tentativo.

Il 49.2 dice che la punibilità è esclusa quando, per la inidoneità dell'azione o per l'inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso.

Oggetto del dolo nel delitto tentato è la realizzazione del corrispondente delitto consumato.

Il 49.1 dice che non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato (reato putativo per errore di fatto).

Nei reati omissivi impropri si ha il tentativo quando il mancato compimento dell’azione aumenta il pericolo che il garante ha l’obbligo giuridico di neutralizzare per impedire che si verifichi l’evento, e l’evento non si verifica.

Nei reati omissivi propri si pensa che non si possa configurare il tentativo, tranne che nelle ipotesi in cui il soggetto non sfrutti il primo momento utile per adempiere all’obbligo di agire ma conservi una chance ulteriore per adempiere a quell’obbligo.

Sono configurabili, in rapporto al delitto tentato, la desistenza volontaria (requisiti: condotta di desistenza; volontarietà) ed il recesso attivo (volontario impedimento dell’evento dopo aver completato l’azione o l’omissione; se l’agente cerca di impedire l’evento, ma non vi riesce, siamo in presenza di un reato consumato; l’impedimento può avvenire con l’aiuto di terzi).

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Un comportamento che integrerebbe gli estremi di un tentativo può essere configurato dal legislatore come figura autonoma di delitto: si parla di reati a consumazione anticipata (es.: delitti di attentato: essi non ammettono il tentativo ma ne hanno i requisiti strutturali: l’inizio di esecuzione e l’idoneità degli atti esecutivi).

I reati a dolo specifico non ammettono il tentativo: essi, caratterizzati dalla presenza di una finalità la cui realizzazione non è necessaria per la consumazione del reato, si distinguono in reati a dolo specifico nei quali l’evento perseguito dall’agente non è né dannoso né pericoloso, e reati nei quali invece esso è un evento offensivo di beni giuridici protetti dall’ordinamento: questi ultimi reati posseggono il requisito dell’idoneità degli atti, ma non quello dell’inizio dell’esecuzione dell’attività diretta a conseguire lo scopo indicato dalla norma.

Il concorso di persone nel reato. Le norme sul concorso di persone assolvono ad una duplice funzione: in primo luogo viene in considerazione la loro funzione incriminatrice: alcune norme sul concorso di persone (110, 115, 116, 117 e 119 c.p.) hanno la funzione di dar rilevanza a comportamenti atipici ai sensi delle norme che delineano i singoli reati, estendendo quindi la responsabilità a chi non realizza in prima persona un reato consumato o tentato, ma concorre alla commissione di un reato da parte di altri; altre norme sul concorso di persone (111, 112, 114 e 118 c.p.) adempiono ad una funzione di disciplina del trattamento sanzionatorio, individuando la misura della pena per ciascuno dei concorrenti.

Il concorso di persone nel reato consta di quattro elementi: pluralità di persone, realizzazione di un fatto di reato (consumato o tentato), contributo causale della condotta atipica alla realizzazione del fatto, consapevolezza e volontà di contribuire causalmente alla realizzazione del fatto.

Alla realizzazione del fatto, nei reati monosoggettivi, deve concorrere almeno un’altra persona (il partecipe) rispetto a quella la cui condotta è descritta nella norma incriminatrice di parte speciale (l’autore); in relazione ai reati necessariamente plurisoggettivi, deve aggiungersi almeno un’altra persona a quelle la cui condotta è già richiesta dalla struttura della norma incriminatrice di parte speciale.

Nel novero dei concorrenti rientrano anche le persone non imputabili o non punibili per effetto di una causa personale di esclusione della punibilità.

L’irrilevanza dell’imputabilità e della punibilità per la sussistenza del concorso di persone discende dalle disposizioni degli artt. 111 e 112 c.p., che prevedono alcune circostanze aggravanti nei confronti di chi ha determinato a commettere il fatto persone non imputabili o non punibili: in particolare, il 112.4 c.p. stabilisce che alcune circostanze aggravanti si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto non è imputabile o non è punibile.

Il secondo requisito del concorso di persone è che sia stato realizzato, nella forma tentata o consumata, il fatto di reato descritto da una norma incriminatrice di parte speciale: prima che sia integrato il fatto, il comportamento atipico è penalmente irrilevante.

Questo requisito del concorso è imposto dal 115 c.p., che sancisce la non punibilità dell’accordo per commettere un reato e dell’istigazione accolta a commettere un reato, quando il reato oggetto dell’accordo o dell’istigazione non è stato commesso.

Un reato può considerarsi commesso quando il fatto è stato realizzato sia nella forma consumata sia nella forma tentata: basta quindi che l’autore realizzi un delitto tentato perché possa profilarsi un concorso di persone nel reato.

Subordinando la rilevanza delle condotte atipiche alla presenza di un fatto tipico, il legislatore italiano ha modellato il concorso di persone secondo l’idea dell’accessorietà, risalente in Italia a Carrara: il comportamento atipico rileva se ed in quanto accede ad un fatto principale tipico.

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Si pone il problema se ai fini del concorso sia sufficiente un fatto principale tipico (accessorietà minima), se il fatto principale debba essere non solo tipico e antigiuridico, ma anche colpevole (accessorietà estrema) o, addirittura, non solo tipico, antigiuridico e colpevole, ma anche punibile (iperaccessorietà).

Il nostro ordinamento ritiene sufficiente che la condotta atipica acceda ad un fatto tipico.

Quanto all’antigiuridicità, di regola la liceità del fatto commesso in presenza di una causa di giustificazione opera sia nei confronti dell’autore del fatto, sia di chi lo ha istigato od agevolato.

La normale estensione delle cause di giustificazione a tutti i concorrenti è sancita dal 119.2, il quale stabilisce che le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato.

Questa regola ammette eccezioni: vi sono infatti cause di giustificazione personali – che si riferiscono cioè solo a cerchie limitate di soggetti, come l’uso legittimo delle armi – che giustificano il fatto limitatamente alle persone appartenenti a quella cerchia.

Le cause di giustificazione personali rientrano nella categoria legislativa delle circostanze soggettive di esclusione della pena, la cui rilevanza è disciplinata dal 119.1: secondo tale disposizione le circostanze soggettive le quali escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato hanno effetto soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono.

La disciplina del 119.1 si applica anche nella sfera della colpevolezza.

Se il fatto tipico è commesso da persona non imputabile, rimane ferma l’eventuale responsabilità di chi lo ha istigato o gli ha fornito l’arma con la quale il soggetto non imputabile ha commesso, ad es., un fatto di omicidio.

Se chi commette il fatto agisce senza dolo per difetto del momento rappresentativo, essendo caduto in errore su un elemento essenziale del fatto, non risponderà del delitto di appropriazione indebita (646) per mancanza di dolo; ne risponderà invece chi lo ha istigato a commettere il fatto se sapeva che la cosa oggetto della vendita non era di proprietà dell’istigato e magari ha provocato con l’inganno l’errore in cui è caduto l’autore del fatto: è quanto si ricava dal 48, quando dispone espressamente che in caso di errore determinato dall’altrui inganno del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo.

Difetta poi il momento volitivo del dolo quando il fatto sia stato commesso per costringimento fisico; in tal caso il 46 stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi; il che non esclude il concorso dell’autore della costrizione: il 46.2 stabilisce infatti che del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza.

L’irrilevanza della colpevolezza dell’autore del fatto emerge anche sul terreno delle scusanti: così, ai sensi del 54.3, non è punibile chi commette un fatto nello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia, ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo.

La disciplina del 119.1 s’applica anche alle cause personali di non punibilità: chi istiga un agente diplomatico straniero ad acquistare un quadro rubato in una pinacoteca italiana risponderà di concorso in ricettazione (648), in quanto la causa di non punibilità di cui gode il diplomatico ha carattere personale e quindi non si comunica ai concorrenti.

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La realizzazione del fatto tipico può avvenire ad opera di più persone, ciascuna delle quali, d’accordo con l’altra, realizza una parte del fatto: si parla in questo caso di esecuzione frazionata e si designano come coautori coloro che eseguono congiuntamente una parte del fatto.

Perché si tratti dell’esecuzione frazionata di un unico fatto, è necessario che i soggetti agiscano sulla base di un accordo, mentre non rileva il contesto temporale nel quale si collocano le condotte dei coautori.

Nel codice penale italiano manca una previsione espressa dell’esecuzione frazionata di un fatto tipico, ma è pacifico che tale ipotesi sia riconducibile alla disciplina generale del concorso di persone nel reato.

Non vi può essere concorso di persone se la condotta atipica non ha esercitato un’influenza causale sul fatto concreto tipico realizzato da altri.

Nel 116 la legge accolla a titolo di concorso un reato commesso da altri che il partecipe non ha voluto, a condizione che la condotta atipica abbia contribuito causalmente alla realizzazione del fatto: la norma dice infatti che qualora il reato commesso sia diverso da quello che l’agente voleva contribuire a realizzare, questi risponde del reato diverso se è conseguenza della sua azione od omissione.

Un collegamento causale è visibile anche nelle ipotesi in cui la legge, agli artt. 111 e 112, parla di chi ha determinato altri a commettere un reato: determinare significa infatti compiere azioni che esercitano un influsso causale sulle scelte di comportamento di altri.

Nel silenzio della legge, la dottrina e la giurisprudenza distinguono due diverse forme di collegamento causale tra condotta del partecipe e fatto principale: il concorso materiale ed il concorso morale.

Si ha concorso materiale quando una condotta atipica di aiuto è stata condizione necessaria per l’esecuzione del fatto concreto penalmente rilevante da parte di altri.

Irrilevante ai fini della sussistenza di un contributo causale alla realizzazione del fatto, la distinzione tra condotte astrattamente sostituibili od insostituibili potrà rilevare in sede di commisurazione della pena: nel senso che una condotta non sostituibile da un’altra potrà comportare una pena maggiore di quella che spetterà alla condotta che in astratto poteva essere rimpiazzata da un’altra equivalente sul piano causale.

È contra legem la tesi secondo cui non sarebbe necessario che la condotta atipica abbia causalmente contribuito alla realizzazione del fatto concreto da parte di altri, ma sarebbe sufficiente che la condotta apparisse ex ante idonea ad aumentare le probabilità di realizzazione del fatto, anche se ex post si è rivelata ininfluente o addirittura dannosa.

Questa soluzione sarebbe accettabile solo se il nostro ordinamento prevedesse e punisse il tentativo di partecipazione, il fatto di chi cerca senza riuscirvi di dare un contributo ad un reato commesso da altri.

L’influenza causale nella forma del concorso morale si realizza da parte di chi, con comportamenti esteriori, fa nascere in altri il proposito di commettere il fatto che poi viene commesso o rafforza un proposito già esistenze, ma non ancora consolidato.

Talvolta in dottrina si designa come determinatore chi fa nascere il proposito, riservando il nome di istigatore a chi si limita a rafforzare un proposito preesistente.

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Si tratta però di una distinzione che non trova fondamento nel linguaggio legislativo: il legislatore, sotto la rubrica istigazione al suicidio (580), abbraccia infatti esplicitamente sia la condotta di chi determina altri al suicidio, sia la condotta di chi rafforza l’altrui proposito di suicidio.

Nel concorso morale il nesso causale tra condotta atipica e fatto principale si articola in un duplice passaggio:

  l’istigazione deve far nascere o rafforzare in capo all’istigato il proposito di commettere un determinato reato;

  questo reato dev’essere poi effettivamente commesso.

Questo duplice passaggio viene indirettamente evidenziato dal legislatore al 115, ove si afferma che l’istigazione deve essere accolta ed in secondo luogo che la persona che ha accolto l’istigazione deve commettere il reato oggetto dell’istigazione.

L’influenza causale dell’istigazione va accertata in concreto secondo il consueto schema della condicio sine qua non: si tratta di accertare, con l’aiuto di leggi psicologiche, che, in assenza della condotta istigatoria, l’autore non avrebbe realizzato il fatto di reato con quelle specifiche modalità.

Si deve perciò escludere la configurabilità di un concorso di persone nell’ipotesi in cui l’autore fosse già determinato a commettere il reato (istigazione rivolta all’omnimodo facturus).

La mera presenza sul luogo del reato non integra alcuna forma di concorso morale, a meno che non sia stata accompagnata da una chiara manifestazione esteriore di adesione al comportamento delittuoso e l’autore ne abbia tratto motivo di rafforzamento del suo proposito o di rassicurazione.

Fuori dai limiti del concorso morale, perché difetta ogni contributo causale alla decisione di commettere il reato, è anche la connivenza, cioè la consapevolezza che altri sta per commettere o sta commettendo un reato senza che si faccia nulla per impedirlo: potrà delinearsi un concorso nel reato solo nella forma del concorso omissivo, cioè quando chi non impedisce la commissione del reato aveva l’obbligo giuridico di impedirla.

Rientra invece nello schema del concorso morale l’accordo, che rappresenta la comune decisione di commettere un reato come punto d’arrivo di una influenza psicologica esercitata da ciascun partecipe dell’accordo nei confronti degli altri; anche nell’ipotesi di accordo, come impone il 115, all’incontro delle volontà deve seguire la commissione del reato che è stato oggetto dell’accordo.

La responsabilità del partecipe dipende, oltre che dall’aver apportato un contributo causale alla realizzazione del fatto da parte dell’autore, anche dalla presenza del dolo: e la particolare struttura del fatto nel concorso di persone comporta che l’oggetto del dolo abbracci sia il fatto principale realizzato dall’autore, sia il contributo causale recato dalla condotta atipica.

Quanto alle peculiarità del fatto concreto che devono essere oggetto di rappresentazione da parte del concorrente atipico, ciò che è necessario, ma anche sufficiente è che il concorrente si rappresenti la commissione di un fatto concreto conforme a quello descritto dalla norma incriminatrice: è invece irrilevante che il partecipe conosca le concrete modalità con cui l’autore eseguirà il reato.

Se l’autore decide, per sua autonoma scelta, di uccidere una persona diversa da quella di cui era stata commissionata la morte, il mandante non risponde di concorso in omicidio perché la scelta autonoma dell’autore ha spezzato il legame causale con la condotta del mandante.

Ai fini del dolo del concorso di persone nel reato non è necessaria una consapevolezza reciproca dell’altrui attività: è sufficiente il dolo di partecipazione in capo al concorrente atipico, mentre l’autore può ignorare l’altrui contributo materiale alla realizzazione del fatto.

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L’eventualità che l’autore ed il partecipe abbiano raggiunto un accordo prima della commissione del fatto rileverà non ai fini della sussistenza del dolo, ma solo ai fini della commisurazione della pena: il reato commesso da più persone in esecuzione di un programma più o meno articolato presenta infatti caratteri di particolare gravità sia sul piano oggettivo, per la maggiore carica lesiva connessa ad una forma sia pure embrionale di criminalità organizzata, sia sul piano soggettivo, in quanto l’accordo comporta un grado più elevato di intensità del dolo.

Si designa come agente provocatore chi – appartenente alle forze dell’ordine o privato cittadino – istighi taluno a commettere un reato, volendo far scoprire ed assicurare alla giustizia la persona provocata prima che il reato giunga a consumazione.

S’è cercato di motivare variamente l’impunità dell’agente provocatore, ma la ragione assorbente è l’assenza del dolo di partecipazione in capo all’agente provocatore.

Diversa dalla figura dell’agente provocatore è la figura dell’infiltrato: si tratta di chi s’inserisce in un’organizzazione criminale, compiendo fatti di reato, per acquisire elementi di prova a carico dei membri dell’organizzazione; l’impunità non può essere fondata sull’assenza del dolo di consumazione, come per l’agente provocatore, ma sulla liceità dei fatti di reato commessi, nei rari casi e per le limitate classi di soggetti e di reati previste dal legislatore.

Se il fatto concreto realizzato dall’autore integra una figura di reato diversa da quella che il partecipe voleva contribuire a realizzare, la disciplina del dolo imporrebbe di escludere la responsabilità del partecipe; questa regola viene però infranta dal 116, il quale stabilisce che qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione: viene cioè addossato al concorrente a titolo di dolo un fatto di reato che egli non ha voluto, avendo solo contribuito causalmente alla sua realizzazione.

Si tratta di una delle ipotesi di responsabilità oggettiva che può essere armonizzata in via interpretativa col principio costituzionale di colpevolezza solo se si limita la sfera di applicabilità della norma alle ipotesi in cui il partecipe si esponga al rimprovero di aver contribuito per colpa alla realizzazione del reato diverso: alle ipotesi cioè in cui le circostanze concrete erano tali che un uomo ragionevole, al posto dell’agente, poteva prevedere che si sarebbe realizzato quel diverso reato, in luogo di quello voluto dal partecipe.

Anche così reinterpretata, la norma pone seri problemi di legittimità costituzionale in rapporto al principio di proporzione.

L’asprezza di questa disciplina viene appena temperata dalla previsione di una circostanza attenuante per l’ipotesi in cui il reato commesso sia più grave di quello voluto dal partecipe: il 116.2 stabilisce infatti che la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave.

Può configurarsi il concorso di un estraneo in un reato proprio, cioè in un reato che può essere commesso solo da chi possegga determinate qualità o si trovi in determinate relazioni con altre persone.

In primo luogo, l’estraneo deve contribuire causalmente alla realizzazione del fatto costitutivo del reato proprio (nella forma tentata o consumata) nelle consuete forme del concorso materiale o morale; si discute se possa operarsi un’inversione di ruoli tra l’intraneo e l’estraneo, se cioè possa essere l’estraneo a commettere il fatto tipico, relegando l’intraneo al ruolo di mero partecipe.

Autore di un reato proprio può essere solo l’intraneo: lo impone il principio di legalità.

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Il dolo del partecipe esige la consapevolezza e la volontà di contribuire alla realizzazione del fatto costitutivo del reato proprio e quindi esige anche la consapevolezza della qualità rivestita dall’intraneo, che è elemento costitutivo del fatto di reato proprio.

Non è necessario che l’estraneo conosca la qualifica soggettiva dell’intraneo, limitatamente alle ipotesi in cui la qualità dell’autore determini un mutamento del titolo del reato: in altri termini, limitatamente alle ipotesi in cui accanto alla figura del reato proprio esista una corrispondente figura di reato comune.

Per questi casi, il 117 dispone che se muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato.

È pacifico che possa configurarsi il concorso di persone in un reato necessariamente plurisoggettivo: la funzione incriminatrice assolta dal 110 consente infatti di dar rilevanza anche alla condotta atipica di chi istiga od agevola la commissione di un reato necessariamente plurisoggettivo.

Quanto ai reati necessariamente plurisoggettivi impropri od in senso ampio (cioè quei reati nei quali la norma richiede una pluralità di condotte da parte di una pluralità di persone, assoggettando a pena, però, solo alcune delle condotte che costituiscono il fatto di reato), la funzione incriminatrice del 110 può esplicarsi solo nei confronti di chi contribuisca alla realizzazione del fatto di reato tenendo una condotta atipica, cioè diversa da quella descritta dalla norma incriminatrice.

V’è il problema della configurabilità di un concorso di persone in quella particolare categoria di reati necessariamente plurisoggettivi che si designano come reati associativi (ad es.: banda armata, 306; associazione per delinquere, 416; associazione di tipo mafioso, 416 bis).

Taluno nega che sia possibile ipotizzare una condotta atipica che contribuisca alla realizzazione di queste figure di reati, sostenendo che di un reato associativo potrebbe rispondere solo chi partecipa all’associazione, e dunque è un suo membro stabile.

Questa tesi non persuade: chi occasionalmente apporti un contributo causale al mantenimento od al rafforzamento delle capacità operative di una banda armata, di un’associazione per delinquere etc. non opera da partecipe dell’associazione, nel senso che non è parte integrante della sua struttura organizzativa, ma di sicuro agevola l’esistenza dell’associazione, realizzando così in pieno gli estremi oggettivi di un concorso di persone nel reato associativo.

La configurabilità di un concorso di persone nel reato associativo è avvalorata sul piano sistematico dalle norme che prevedono come reati a sé stanti l’assistenza ai partecipi di banda armata (307) e l’assistenza agli associati di un’associazione per delinquere o di un’associazione di tipo mafioso (418): queste due figure delittuose, consistenti nel dar rifugio o nel fornire vitto agli associati, si applicano, per espressa previsione legislativa, fuori dei casi di concorso nel reato: ciò significa che, agli occhi dello stesso legislatore, dare rifugio o fornire vitto ad un associato può anche integrare un concorso nel reato associativo, e quindi, più in generale, che può aversi un concorso ex art. 110 nei reati associativi.

Un concorso di persone nel reato può realizzarsi anche in forma omissiva: nel senso che anche con un comportamento omissivo si può contribuire alla realizzazione di un reato da parte di altri; sono indispensabili a tale scopo due requisiti:

  deve sussistere una posizione di garanzia, cioè in capo ad un soggetto deve sussistere l’obbligo giuridico di impedire la commissione del reato da parte di altri: in assenza di tale obbligo non c’è partecipazione al reato, bensì mera connivenza – cioè l’inerzia da parte di chi sappia che altri sta per commettere o sta commettendo un reato – od un’altrettanto irrilevante adesione morale – cioè l’approvazione solo interiore del reato commesso da altri.

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L’obbligo di impedimento può riferirsi a qualunque tipo di reato.

Quanto al contenuto degli obblighi di impedimento, andrà desunto dalle norme giuridiche che fondano l’obbligo di garanzia; si discute, tra l’altro, se il generale obbligo di impedimento dei reati che incombe sulle forze di polizia sia idoneo a fondare una responsabilità penale per omesso impedimento di un reato nel caso in cui, pur potendo attivarsi con efficacia impeditiva, il poliziotto scientemente decida di rimanere inerte: il quesito merita risposta affermativa;

  in secondo luogo, l’omissione dev’essere condizione necessaria per la commissione del reato da parte dell’autore: bisogna cioè accertare se l’azione doverosa che s’è omesso di compiere avrebbe impedito la realizzazione del fatto concreto da parte dell’autore.

Nel 110, sotto la rubrica “pena per coloro che concorrono nel reato”, si legge che quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di essa soggiace alla pena per questo stabilita.

Ciò significa non che tutti i concorrenti dovranno essere puniti in concreto con la stessa pena, ma che la pena per i singoli concorrenti andrà graduata all’interno di una stessa cornice edittale, tenendosi conto dei criteri ordinari di commisurazione ex 133 (modalità dell’azione, intensità del dolo, capacità a delinquere etc.).

Una volta determinata la pena-base per il singolo concorrente secondo i criteri di cui al 133, il giudice deve procedere ad un’ulteriore fase della commisurazione della pena: deve cioè verificare se nel caso concreto siano presenti gli estremi di una o più circostanze del reato (le aggravanti e le attenuanti speciali previste per il concorso di persone negli artt. 111, 112 e 114, quelle previste per i singoli tipi di reato e quelle comuni, contemplate negli artt. 61, 62 e 62 bis).

Tra le circostanze aggravanti, gli artt. 111 e 112 contemplano alcune ipotesi in cui il concorrente ha avuto un ruolo di spicco nella preparazione o nell’esecuzione del reato, promuovendo, organizzando o dirigendo l’attività degli altri concorrenti (112.1 n. 2); ipotesi in cui il concorrente ha sfruttato la propria posizione di supremazia od un’altrui situazione di debolezza: è il caso di chi ha determinato a commettere il reato una persona soggetta alla sua autorità, direzione o vigilanza (112.1 n. 3), nonché il caso di chi ha determinato a commettere il reato per un soggetto non imputabile o non punibile, un soggetto di età compresa tra i 14 e i 18 anni capace di intendere e di volere, un seminfermo di mente, etc., ovvero s’è avvalso di uno di tali soggetti per commettere il reato (111 e 112.1 nn. 2, 3 e 4 c.p.); ancora, l’ipotesi in cui sono concorse nel reato cinque o più persone (112.1 n.1), ciò che comporta una maggior probabilità di riuscita nella realizzazione del reato.

Tra le circostanze attenuanti compaiono alcune ipotesi speculari alle aggravanti contemplate nel 112: l’ipotesi di chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato da parte di un soggetto che eserciti nei suoi confronti un’autorità, direzione o vigilanza, l’ipotesi di chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato avendo un’età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni ed essendo capace di intendere e volere; ancora, l’ipotesi di chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato trovandosi in stato di infermità o di deficienza psichica (114.3).

Inoltre, il 114.1 prevede che il giudice possa diminuire la pena qualora ritenga che l’opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato […] abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato.

Per espressa preclusione legislativa, non si potrà ritenere di minima importanza il contributo di chi si sia avvalso delle condizioni di vulnerabilità dell’autore del fatto previste dall’art. 112.1 nn. 3 e 4.

Nell’ambito del concorso di persone nel reato si pone il problema della comunicabilità o meno delle circostanze ai diversi concorrenti; in proposito il 118 dispone che le circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le

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circostanze inerenti alla persona del colpevole [cioè quelle che riguardano l’imputabilità e la recidiva] sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono.

Quanto alle circostanze non disciplinate dal 118, si comunicano invece ai concorrenti alle condizioni fissate in via generale dal 59: le circostanze attenuanti saranno valutate a favore di tutti i concorrenti per il solo fatto della loro oggettiva esistenza (59.1), le circostanze aggravanti saranno invece poste a carico del concorrente a condizione che fossero da lui conosciute ovvero ignorate per colpa ovvero ritenute inesistenti per errore determinato da colpa (59.2).

Ne segue che l’attenuante del recesso attivo dal delitto tentato (56.4) risulta applicabile a tutti i concorrenti, anche a chi non ha dato un volontario contributo all’impedimento dell’evento; quanto alle aggravanti, ad es., l’aggravante prevista per chi ha determinato a commettere il reato una persona soggetta alla sua autorità, direzione o vigilanza (112.1 n.3) risulta applicabile anche al partecipe, purché sapesse o potesse sapere con la dovuta diligenza che un altro concorrente ha sfruttato quel rapporto di supremazia.

Se l’autore desiste volontariamente dal portare a compimento l’azione, non sarà punibile in forza di una causa di non punibilità, il cui carattere personale esclude che possa essere estesa sia ai coautori, sia ai partecipi.

In assenza di una disciplina espressa, si discute invece delle condizioni necessarie per integrare una desistenza volontaria da parte del partecipe, e quindi per escludere la sua punibilità.

Un orientamento rigorista ritiene che il partecipe debba tenere una condotta successiva a quella di partecipazione che impedisca la consumazione del reato, paralizzando quindi l’attività di tutti i concorrenti.

Questa tesi chiede troppo: dal momento che la responsabilità del partecipe presuppone che la sua condotta atipica abbia contribuito causalmente alla realizzazione del fatto principale, ne segue che per la configurazione della desistenza sarà sufficiente che il partecipe abbia neutralizzato gli effetti della sua azione.

L’impedimento del reato ad opera del partecipe è invece ovviamente necessario per integrare un recesso attivo.

Il codice prevede anche che il concorso di persone possa configurarsi in relazione ad un fatto preveduto dalla legge come delitto colposo: sotto la rubrica cooperazione nel delitto colposo il 113.1 stabilisce che nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso; il 113.2 dispone che la pena è aumentata per chi ha determinato altri a cooperare nel delitto, quando concorrono le condizioni stabilite nel 111 e nei nn. 3 e 4 del 112.

Anche con riferimento alla cooperazione nel delitto colposo bisogna distinguere tra la funzione incriminatrice assolta dal 113.1 e la funzione di disciplina del trattamento sanzionatorio assolta dagli artt. 113.2 e 114.

La funzione incriminatrice del 113.1 – cioè la funzione di attribuire rilevanza penale a comportamenti atipici ai sensi delle norme incriminatrici dei delitti colposi – riguarda i delitti colposi di evento a forma vincolata e i delitti colposi di mera condotta; non riguarda invece i delitti colposi di evento a forma libera: chiunque cagioni per colpa un evento penalmente rilevante, aggiungendo per colpa il proprio contributo causale a quello di altre persone, risponde infatti ai sensi della norma incriminatrice di parte speciale, senza che il 113.1 svolga nessun ruolo.

Alcuni elementi strutturali della cooperazione nel delitto colposo sono comuni, anche sotto il profilo della disciplina, al concorso nel delitto doloso: la pluralità di persone, la realizzazione di un fatto di

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reato (in proposito, va sottolineato che dovrà trattarsi necessariamente di un reato consumato, non essendo configurabile il tentativo nei delitti colposi) ed il contributo causale della condotta atipica alla realizzazione del fatto.

Peculiare del concorso colposo ai sensi del 113 è invece il carattere colposo della condotta di partecipazione, come violazione di una regola di diligenza, prudenza o perizia che ha la finalità di prevenire il riconoscibile realizzarsi del fatto dannoso o pericoloso che integra il delitto colposo.

Come per il concorso nel delitto colposo, la responsabilità del partecipe non dipende dal carattere colposo o meno del fatto realizzato dall’autore.

Venendo al trattamento sanzionatorio della cooperazione nel delitto colposo ex 113.1, trovano applicazione le circostanze aggravanti previste dagli artt. 111 (determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile) e 112.1 nn. 3 e 4 (determinazione di chi è soggetto all’altrui autorità, direzione o vigilanza ovvero di chi è minore di anni diciotto o in stato di infermità o deficienza psichica).

Ai sensi del 114.1 anche per la cooperazione nel delitto colposo trova applicazione la circostanza attenuante del contributo di minima importanza da parte del singolo concorrente: per espressa preclusione legislativa, il giudice non potrà però ritenere di minima importanza il contributo di chi si sia avvalso delle condizioni di vulnerabilità dell’autore del fatto previste dal 112.1 nn. 3 e 4.

Quanto al concorso di persone nelle contravvenzioni, la disciplina di cui al 110 si applica anche alle contravvenzioni necessariamente dolose, nonché a quelle che in concreto vengono commesse con dolo.

Parte della dottrina dubita invece della possibilità di configurare un concorso colposo nelle contravvenzioni colpose, argomentando dal tenore letterale del 113, nel quale si fa riferimento alla cooperazione nel solo delitto colposo.

Altra parte della dottrina, col consenso della prevalente giurisprudenza, replica persuasivamente, da un lato, che il 113 era norma necessaria per dare rilievo al concorso colposo nei delitti colposi, posto che la responsabilità per colpa per i delitti, ai sensi del 42.2, esige una previsione espressa: di una previsione siffatta non c’era invece bisogno per le contravvenzioni, che, in base al 42.4, possono essere indifferentemente realizzate sia con dolo, sia per colpa.

D’altro lato, la rilevanza del concorso colposo nelle contravvenzioni discende dal 110, che parla di concorso nel reato, abbracciando quindi anche le contravvenzioni necessariamente colpose od in concreto commesse per colpa.

CAPITOLO XI – CONCORSO APPARENTE DI NORME E CONCORSO DI REATI

Uno dei problemi più controversi della teoria e della prassi del diritto penale riguarda i casi in cui con una sola azione od omissione o con una pluralità di azioni od omissioni si integrino gli estremi di più figure legali di reato: si tratta di stabilire in quale rapporto si trovino fra loro le norme che prevedono quelle figure di reato.

Può darsi che la natura di quel rapporto comporti l’applicazione di una soltanto di tali norme, escludendo l’applicazione delle altre, nel qual caso si parlerà di concorso apparente di norme.

Può darsi invece che tutte quelle norme reclamino la loro applicazione, nel qual caso si tratterà di concorso formale di reati, se i reati sono stati commessi con una sola azione od omissione; di concorso materiale di reati, se sono stati commessi con più azioni od omissioni.

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A prima vista l’unico criterio per individuare un concorso apparente di norme (e non un concorso di reati) è quello del rapporto di specialità fra le norme incriminatrici, che trova un’espressa enunciazione nella parte generale del codice penale all’art. 15: quando tra le norme incriminatrici non intercorra un rapporto di specialità, si avrebbe sempre concorso di reati, con la conseguente applicazione o delle sanzioni previste per ogni singolo reato sommate l’una all’altra (è quanto si prevede di regola per il concorso materiale di reati) o della pena prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo (come si prevede per il concorso formale di reati).

In realtà, il legislatore ha espressamente usato altri criteri che individuano ipotesi di concorso apparente di norme, cioè ipotesi nelle quali una sola è la norma da applicare quando o con una sola azione o con più azioni sono stati integrati gli estremi di più figure di reato.

Si pensi alle norme contenenti clausole di riserva, come “se il fatto non costituisce altro reato”, o “se il fatto non costituisce un più grave reato”, o “fuori del caso indicato nell’art. X” o “fuori dei casi di concorso nel reato X”.

Il concorso apparente di norme può profilarsi in due gruppi di casi:

  quando un unico fatto concreto (un’azione od omissione) sia riconducibile ad una pluralità di norme incriminatrici, una sola delle quali applicabile;

  quando si realizzino più fatti concreti cronologicamente separati (più azioni od omissioni), ciascuno dei quali sia riconducibile ad una norma incriminatrice, ed una sola di tali norme sia applicabile: con la conseguente impunità o del fatto antecedente o del fatto susseguente a quello che viene punito.

Per risolvere i problemi posti dal primo gruppo di ipotesi, il legislatore enuncia innanzitutto il criterio di specialità, stabilendo che quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito (15 c.p.).

Da questa disposizione consegue che quando tra due norme incriminatrici sussiste un rapporto di specialità si ha un concorso apparente di norme (e non un concorso di reati) ed al fatto concreto è applicabile la sola norma speciale, che estromette la norma generale.

Una norma è speciale rispetto ad un’altra quando descrive un fatto che presenta tutti gli elementi del fatto contemplato dall’altra – la norma generale – ed inoltre uno o più elementi specializzanti.

Specializzante può essere:

  un elemento che specifica un elemento del fatto previsto dalla norma generale;

  un elemento che si aggiunge a quelli espressamente previsti nella norma generale.

Si parla nel primo caso di specialità per specificazione, nel secondo di specialità per aggiunta.

Se il legislatore non avesse previsto questa o quella ipotesi speciale di reato, o cessasse di prevederla a seguito di abrogazione, troverebbe sempre applicazione la norma generale.

Nella seconda eventualità, a seguito dell’abrogazione della norma che prevedeva l’oltraggio a pubblico ufficiale (341, abrogato dalla legge 205/1999), l’offesa all’onore del pubblico ufficiale viene oggi ricondotta alla figura generale dell’ingiuria (594: chiunque offende l'onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516.          Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa.    La pena è della reclusione fino a un anno o della

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multa fino a euro 1.032, se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato.           Le pene sono aumentate qualora l'offesa sia commessa in presenza di più persone), e la maggior gravità di un’offesa all’onore recata ad un pubblico ufficiale non come ad un qualunque privato cittadino, ma, secondo quanto recitava il 341, a causa o nell’esercizio delle sue funzioni, potrà essere valorizzata dal giudice in sede di commisurazione della pena prevista dal 594, nonché applicando la circostanza aggravante del 61 n. 10 c.p. (aver commesso il fatto contro un pubblico ufficiale).

Una più ampia nozione di legge speciale viene proposta da una parte della dottrina, che riferisce il principio enunciato nel 15 anche alle ipotesi di specialità in concreto od a quelle di specialità reciproca (o bilaterale).

Con la formula specialità in concreto si allude ad un rapporto tra norme che, pur descrivendo modelli legali di reato tra i quali non intercorre un rapporto strutturale di specialità, ricomprendono entrambe un medesimo fatto concreto in ragione delle particolari modalità con le quali quel fatto è stato realizzato.

Questo criterio s’espone però ad obiezioni radicali: non ha senso far dipendere da un fatto concreto l’instaurarsi di un rapporto di genere a specie tra norme; d’altra parte, non sussistendo alcun mezzo per determinare la norma concretamente speciale, i fautori della specialità in concreto propongono di individuare la sola norma applicabile sulla base della gravità della sanzione, cioè sulla base di un indice che non ha nulla a che fare con la specialità.

Altrettanto fallace appare la pretesa di ricondurre alla disciplina del 15 le ipotesi di specialità reciproca, i casi in cui due norme descrivono fatti di reato che, accanto ad un nucleo di elementi comuni, presentano elementi specifici ed elementi generici rispetto ai corrispondenti elementi dell’altra.

Risulta pressoché impossibile individuare un criterio plausibile per stabilire quale sia la norma speciale che deve prevalere sull’altra.

Una parte della giurisprudenza interpreta la formula “stessa materia” nel 15 come sinonimo di “stesso bene giuridico”, limitando così il campo di applicazione del criterio di specialità alle sole ipotesi in cui la norma speciale tuteli lo stesso bene giuridico protetto dalla norma generale.

A questo orientamento s’obietta in primo luogo che la formula “stessa materia” non evoca minimamente l’idea di un identico bene giuridico tutelato, stando piuttosto ad indicare l’esigenza che uno stesso fatto sia riconducibile sia alla norma generale sia alla norma speciale; in secondo luogo, si sottolinea che nessuna ragione di tipo logico si oppone a che si consideri norma speciale una norma che tutela, accanto al bene tutelato dalla norma generale, anche un bene diverso.

Alla regola della prevalenza della norma speciale potrà derogarsi solo nel senso della congiunta applicabilità di entrambe le norme concorrenti: sia di quella speciale, sia di quella generale.

Si avrà pertanto un concorso formale di reati, e non un concorso apparente di norme.

Con la clausola di riserva apposta al 15, il legislatore anticipa la possibilità che singole norme incriminatrici contemplino, a loro volta, clausole del tipo “ferme restando le sanzioni previste”, “senza pregiudizio per le sanzioni previste” da questo o quel testo normativo, etc.

Il principio di specialità non esaurisce il concorso apparente di norme penali: ulteriori ipotesi possono individuarsi attraverso il principio di sussidiarietà.

Quando un unico fatto concreto sia riconducibile a due o più norme incriminatrici, v’è concorso apparente di norme, ed è quindi applicabile una sola delle norme concorrenti, anche nei casi in cui

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fra le norme sussista un rapporto di rango: la norma di minor rango, come norma sussidiaria, cede il passo alla norma principale.

E questo rapporto di rango tra le norme concorrenti è reso visibile dalla sanzione più grave comminata nella norma principale.

Per il principio di sussidiarietà una norma è dunque sussidiaria rispetto ad un’altra (norma principale), quando quest’ultima tutela, accanto al bene giuridico protetto dalla prima norma, uno o più beni ulteriori ovvero reprime un grado di offesa più grave allo stesso bene.

La logica della sussidiarietà guida il legislatore quando inserisce nel testo di una norma incriminatrice clausole del tipo “qualora il fatto non costituisca un più grave reato”, “se il fatto non è preveduto come più grave reato da altra disposizione di legge”, etc.: clausole siffatte connotano espressamente la norma come sussidiaria.

Un rapporto di sussidiarietà sussiste anche quando una norma contenga in sé una clausola del tipo “fuori del caso indicato nell’art. x”, “fuori dei casi di concorso nel reato x”, etc.: se il fatto concreto, oltre ad integrare gli estremi del reato descritto dalla norma contenente la clausola di riserva, realizza anche gli estremi dell’altro reato, troverà applicazione solo la norma alla quale fa rinvio la clausola di riserva, come norma il cui rango più elevato è messo in evidenza dalla pena più severa ivi comminata.

L’ipotesi della sussidiarietà tacita ricorre quando due norme incriminatrici, alle quali sia contemporaneamente riconducibile il fatto concreto, si pongano tra loro in un rapporto di rango, individuando due figure di reato di diversa gravità, delle quali l’una offenda, oltre al bene offeso dall’altra, anche un bene ulteriore ovvero rappresenti uno stadio di offesa più intensa allo stesso bene giuridico.

In un rapporto di sussidiarietà tacita si pongono ad es. la norma che configura il delitto di strage (422) ed una serie di norme che configurano altri delitti contro la pubblica incolumità, come l’incendio (423), l’inondazione, frana o valanga (426), il naufragio o sommersione (428).

La sussidiarietà, in forma espressa o tacita, può delinearsi anche fra norme incriminatrici che descrivano stadi diversi di offesa allo stesso bene giuridico, come nei rapporti tra reati di pericolo concreto e corrispondenti reati di danno.

Parte della dottrina, per descrivere un rapporto fra norme che comporta l’applicazione in via esclusiva di una di esse, affianca ai criteri della specialità e della sussidiarietà l’ulteriore criterio della consunzione.

Il criterio della consunzione individua i casi in cui la commissione di un reato è strettamente funzionale ad un altro e più grave reato, la cui previsione consuma ed assorbe in sé l’intero disvalore del fatto concreto.

L’idea della consunzione sta alla base della disciplina del reato complesso, delineata nell’84, il quale dispone che le disposizioni degli articoli precedenti [cioè quelle relative al concorso di reati] non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato.

La commissione di un reato che sia strettamente funzionale ad un altro e più grave reato comporta l’assorbimento del primo reato nel reato più grave.

Il principio di consunzione impone in primo luogo una interpretazione restrittiva di quelle figure astratte di reato che sono costruite dal legislatore come il risultato del combinarsi di più reati: in

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tanto è integrato il reato complesso, in quanto nel singolo fatto concreto sia presente il nesso strumentale e funzionale che è alla base dell’unificazione legislativa di quei reati.

Il principio di consunzione trova altresì applicazione quando, pur in assenza di una figura astratta di reato complesso, la commissione di un reato sia in concreto strettamente funzionale alla commissione di un altro e più grave reato: si tratta delle ipotesi che parte della dottrina designa con la formula reato eventualmente complesso.

La figura del reato eventualmente complesso, non essendo espressamente prevista dal legislatore, dà adito inevitabilmente ad incertezze applicative, acuite dalla presenza nell’ordinamento della circostanza aggravante comune del nesso teleologico, che ex art. 61 n. 2 c.p. ricorre allorché un reato sia commesso allo scopo di eseguirne un altro, con la conseguenza che il giudice, quando escluda la sussistenza di un reato eventualmente complesso (cioè escluda la consunzione del reato-mezzo nel reato-scopo) ravvisando un concorso di reati, dovrà ritenere il reato-mezzo aggravato ex 61 n. 2).

Di fronte ad un unico fatto concreto riconducibile sotto due o più norme incriminatrici l’alternativa che si profila è quella dell’applicabilità di tutte le norme incriminatrici (concorso formale di reati) o di una sola di quelle norme (concorso apparente di norme), che prevale o perché speciale o perché principale o perché è norma che contiene e consuma l’altra o le altre.

L’alternativa fra concorso di reati e concorso apparente di norme si prospetta anche quando vengono commessi più fatti concreti cronologicamente separati, ciascuno dei quali integra gli estremi di una figura di reato.

In quest’eventualità, ad escludere il concorso (materiale) di reati e a far propendere per il concorso apparente di norme non di rado è lo stesso legislatore, sancendo espressamente ora l’inapplicabilità della norma o delle norme violate coi fatti concreti cronologicamente antecedenti (antefatto non punibile), ora invece l’inapplicabilità della norma o delle norme violate coi fatti concreti cronologicamente posteriori (postfatto non punibile).

La logica sottostante alle ipotesi espresse di antefatto non punibile è quella della sussidiarietà: tra più norme che prevedono stadi e gradi diversi di offesa dello stesso bene giuridico prevale, come norma principale, e trova applicazione in via esclusiva, la norma che descrive lo stadio più avanzato ed il grado più intenso di offesa al bene, escludendo l’applicabilità della norma sussidiaria (o delle norme sussidiarie) ai fatti concreti antecedenti.

Così, è norma principale quella che incrimina la falsificazione di monete, come forma più intensa e più grave di offesa alla fiducia pubblica nella genuinità delle monete nazionali o estere, la cui applicabilità preclude quella delle norme sussidiarie, che puniscono le precedenti condotte della contraffazione di carta filigranata e della fabbricazione di filigrane.

Accanto alle ipotesi espresse, si possono individuare ipotesi tacite di antefatto non punibile: anche in questo caso la non punibilità dell’antefatto discende dalla considerazione che si tratta di uno stadio anteriore e meno grave di offesa allo stesso bene o ad un bene meno importante, ricompreso nel bene offeso dal fatto susseguente.

Previsioni espresse di un postfatto non punibile sono assai numerose: si tratta, in primo luogo, dei casi in cui il legislatore sancisce la punibilità di questo o quel fatto “fuori dei casi di concorso” in un fatto delittuoso antecedente.

Un esempio può trarsi dalle norme sui delitti di favoreggiamento personale (378) e favoreggiamento reale (379) che, per espressa indicazione legislativa, si applicano fuori dei casi di concorso nel reato antecedente.

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Altre volte il legislatore sancisce la punibilità di un determinato fatto fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti o dall’articolo precedente, e cioè a condizione che l’agente non sia stato autore o partecipe nella realizzazione del fatto o dei fatti preveduti in quell’articolo o in quegli articoli.

Alla base delle norme che sanciscono la non punibilità di questo o quel fatto nei confronti di chi, come autore o partecipe, abbia realizzato un reato cronologicamente precedente, sta una logica riconducibile all’idea di consunzione: la repressione del fatto antecedente esaurisce infatti il disvalore complessivo e il relativo bisogno di punizione, posto che il fatto successivo rappresenta un normale sviluppo della condotta precedente, attraverso il quale l’agente o consegue i vantaggi perseguiti attraverso il primo fatto o ne mette al sicuro i risultati.

Le ipotesi di postfatto non punibile non si esauriscono in quelle espressamente individuate dal legislatore; tacitamente le riserve “fuori dei casi di concorso nel reato” antecedente o “fuori dei casi preveduti nell’articolo o negli articoli precedenti”, che comportano la non punibilità del reato susseguente, operano tutte le volte in cui quest’ultimo reato rappresenta un normale sviluppo della condotta precedente.

Le norme a più fattispecie: può accadere che una sola disposizione di legge preveda una serie di fatti ai quali ricollega la stessa pena.

Ci si chiede se in casi del genere la norma preveda un unico reato, realizzabile con diverse modalità considerate equivalenti, o una pluralità di reati, che possono concorrere fra loro: si parla nel primo caso di norme a più fattispecie (o di norme miste alternative) e nel secondo caso di disposizioni a più norme (o norme miste cumulative).

L’interpretazione dovrebbe sempre condurre a ravvisare un unico reato, trattandosi della violazione di un’unica norma incriminatrice.

I vari fatti descritti all’interno dell’unica disposizione rappresentano, sul piano sostanziale, o altrettanti gradi di offesa ad uno stesso bene giuridico, o modalità diverse di offesa a quel bene.

La molteplicità dei fatti eventualmente commessi dall’agente non sarà peraltro priva di qualsiasi rilevanza: ferma rimanendo l’unicità del reato, il giudice terrà conto del numero o della gravità dei fatti concreti nella commisurazione della pena all’interno della cornice edittale.

Il concorso di reati. Di fronte ad un comportamento umano che prima facie realizzi gli estremi di più figure legali di reato, per stabilire che si è in presenza di un concorso di reati non basta escludere che si tratti di un concorso apparente di norme: bisogna ulteriormente verificare se davvero ci si trova in presenza di più reati.

Di concorso di reati potrà parlarsi solo quando si sciolga l’alternativa unità-pluralità di reati a favore del secondo termine; per sciogliere tale alternativa non basta guardare alla presenza o meno di una molteplicità di atti sul piano fenomenico-naturalistico.

La soluzione va cercata, invece, sul terreno normativo.

Può accadere che la figura di reato descritta dalla norma incriminatrice esiga il compimento di più azioni, che dunque daranno vita ad un unico reato.

Vi sono figure legali di reato che non devono, ma possono essere integrate attraverso una pluralità di atti: con la conseguenza che anche in questo secondo caso si è in presenza di un unico reato: ad es., si realizza un unico fatto di corruzione di minorenni (609 quinquies: chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni) sia che venga compiuto un unico atto sessuale, sia che vengano compiuti più atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere.

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Ancora, possono essere integrati con più atti i reati permanenti.

Un unico reato si ha infine nel caso in cui più azioni, ciascuna integrante il modello legale di un medesimo reato, vengano poste in essere contestualmente (cioè l’una immediatamente dopo l’altra o comunque a breve intervallo di tempo) e con un’unica persona offesa.

Si avrà un unico reato di ingiuria (594) sia nel caso in cui Tizio rivolga a Caio una pesante espressione lesiva del suo onore, sia che riversi su di lui, in un breve lasso di tempo, una serie di insulti.

È unico il reato di percosse (581: chiunque percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 309.            Tale disposizione non si applica quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato) sia nel caso in cui Tizio dia uno schiaffo a Caio, sia che lo investa con una serie ininterrotta di schiaffi, pugni e calci.

Per contro, si avrà una pluralità di reati quando manchi o il requisito della contestualità delle azioni o il requisito dell’unicità della persona offesa.

Acquisito che ci si trova di fronte, nel caso concreto, non ad un unico reato, ma ad una pluralità di reati, bisogna distinguere – come distingue la legge – a seconda che i reati siano stati commessi con una sola azione od omissione (81.1) o con più azioni od omissioni (71 ss.): nel primo caso si parla di concorso formale di reati, nel secondo di concorso materiale di reati.

Più mite è il trattamento riservato al concorso formale di reati, per il quale il nostro ordinamento adotta attualmente il cumulo giuridico delle pene ed in particolare prevede che si applichi la pena che dovrebbe infliggersi per il reato più grave aumentata sino al triplo (81.1).

Più severo è invece il trattamento sanzionatorio del concorso materiale di reati: secondo lo schema del cumulo materiale delle pene, di regola si applicano le pene previste per ogni singolo reato sommate l’una all’altra (71 ss.).

La commissione di più reati con una sola azione od omissione integra, in base all’81.1, un concorso formale di reati.

Il concorso formale di reati è omogeneo se quell’unica azione viola più volte la stessa norma, eterogeneo se quell’unica azione viola due o più norme incriminatrici.

Un’unica azione può constare, oltre che di un unico atto, anche di una pluralità di atti: in questo caso ciò che consente di parlare di unica azione è l’unicità del contesto spazio-temporale in cui vengono compiuti.

Parte della dottrina e della giurisprudenza richiedono l’ulteriore requisito dell’unicità dello scopo che dovrebbe sorreggere il compimento degli atti.

Questa tesi, però, non persuade: il requisito dell’unico scopo è infatti riferibile ai soli reati dolosi, mentre è pacifico che il concorso formale può intercorrere anche tra reati colposi.

Per stabilire se ci si trovi in presenza di un concorso formale omogeneo, e non di un unico reato, il criterio fondamentale è quello della molteplicità delle offese al bene giuridico tutelato (od ai beni giuridici tutelati) dalla norma incriminatrice.

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Se Tizio, nello stesso contesto spaziale e temporale, rivolge una o più contumelie all’indirizzo di varie persone, commette una pluralità di ingiurie (594) in concorso formale tra loro, avendo realizzato tante offese quante sono le persone il cui onore è stato messo in pericolo.

Ciò che caratterizza il concorso formale eterogeneo di reati è un’unica azione con la quale un soggetto esegue due (o più) distinte figure di reato.

Se un agente di polizia, abusando delle sue qualità e delle sue funzioni, costringe una prostituta a corrispondergli del denaro in cambio della sua protezione, vi è concorso formale tra il reato di sfruttamento della prostituzione (art. 3 legge 75/1958) e quello di concussione (317: il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni).

L’81 c.p. contempla anche l’ipotesi del concorso formale di reati omissivi: si parla anche infatti di una sola omissione, con la quale si integra più volte lo stesso reato (concorso formale omogeneo) o si integrano più reati diversi (concorso formale eterogeneo).

Il presupposto comune ad entrambe le ipotesi di concorso formale è l’unicità del contesto spazio-temporale nel quale si aveva l’obbligo di compiere le azioni che sono state omesse.

Quanto ai reati omissivi impropri, si profilerà ad es. un concorso formale omogeneo di omicidi colposi mediante omissione (40 e 589.3 c.p.) se il datore di lavoro ha colposamente omesso di predisporre misure di sicurezza che, se attuate, avrebbero impedito che due operai cadessero da un’impalcatura riportando lesioni gravissime, sfociate in tempi diversi nella morte di entrambi.

Si avrà invece un concorso formale eterogeneo fra il delitto di incendio colposo mediante omissione (449: chiunque cagiona per colpa un incendio, o un altro disastro preveduto dal capo primo di questo titolo, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è raddoppiata se si tratta di disastro ferroviario o di naufragio o di sommersione di una nave adibita a trasporto di persone o di caduta di un aeromobile adibito a trasporto di persone) e quello di omicidio colposo mediante omissione (589: chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.    Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da uno a cinque anni.      Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni dodici) nel caso di un incendio sviluppatosi in un deposito di carburanti che sia sfociato nella morte di un operaio: risponderà dei due reati il preposto che abbia omesso per incuria di eseguire i controlli doverosi sul funzionamento di apparati antincendio, che, se efficienti, avrebbero spento sul nascere le fiamme, impedendo sia l’incendio, sia la morte).

Un concorso formale può profilarsi inoltre tra reati omissivi propri.

Il concorso formale di reati è sottoposto ad un trattamento più mite di quello riservato al concorso materiale: il giudice deve operare il cumulo giuridico delle pene, individuando il più grave fra i reati in concorso ed applicando la pena che infliggerebbe per questo reato aumentata fino al triplo. Dispone infatti l’81.1 che l’autore di più reati in concorso formale tra loro è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo.

Lo stesso 81.3 stabilisce che nei casi preveduti da questo articolo, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti, cioè alla pena che sarebbe applicabile in base al cumulo materiale.

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È controverso se la violazione più grave debba individuarsi in astratto od in concreto: secondo il primo orientamento, prevalente in giurisprudenza, violazione più grave sarebbe quel reato per il quale la legge prevede il massimo di pena più elevato, e, in caso di pene massime identiche, quello per il quale la legge prevede il minimo più elevato; secondo l’altro orientamento, prevalente in dottrina, violazione più grave sarebbe invece quella per la quale il giudice, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, infliggerebbe la pena più elevata.

La formula legislativa “violazione più grave” soffre di un così alto grado di ambiguità da esporsi a seri dubbi di illegittimità costituzionale per violazione del principio di legalità della pena (25.2 Cost.).

Sul piano sistematico, un argomento a favore della determinazione in concreto della violazione più grave può trarsi dal 187 disp. att. c.p.p., che disciplina l’applicazione del concorso formale di reati e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione: regolando espressamente la determinazione del reato più grave, la norma citata stabilisce che si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave.

Una volta individuato il reato più grave e quantificata la relativa pena, che fungerà da pena-base per la formazione della pena complessiva secondo lo schema del cumulo giuridico, il giudice deve procedere all’aumento previsto dall’81: a tale scopo dovrà indicare un quantum di pena per ciascuno dei reati meno gravi (reati-satellite).

L’aumento di pena dev’essere contenuto entro un doppio limite: la pena finale non può superare né il triplo della pena-base, né, in ogni caso, l’ammontare della pena che verrebbe applicata se si procedesse al cumulo materiale.

Si pone il problema se la disciplina del cumulo giuridico sia applicabile anche in caso di concorso fra reati puniti con pene eterogenee, cioè con pene diverse o per specie (reclusione/arresto, multa/ammenda) o per genere (pene detentive/pene pecuniarie).

Per la prima ipotesi – pene diverse per specie – sembra ormai definitivamente affermata la soluzione dell’applicabilità del cumulo giuridico.

Più dibattuto è il quesito relativo ai reati puniti con pene diverse per genere: se si possa procedere al cumulo giuridico delle pene qualora concorrano ex art. 81.1 due reati puniti l’uno con pena detentiva e l’altro con pena pecuniaria; la giurisprudenza oggi prevalente accoglie la soluzione affermativa.

Si pone a questo punto un ulteriore interrogativo: come vada operato il cumulo giuridico tra pene di genere diverso.

La giurisprudenza maggioritaria opta per il cumulo giuridico per assimilazione, ritiene cioè che ai fini dell’aumento di pena ex 81 si debba infliggere per i reati-satellite, ancorché puniti ex lege con pena pecuniaria, una quota di pena detentiva, e cioè una pena dello stesso genere di quella prevista per la violazione più grave; il giudice dovrebbe commutare in pena detentiva la pena pecuniaria prevista per il reato meno grave, secondo il criterio di ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive fissato dal 135 (trentotto euro = un giorno di reclusione o arresto).

In base ad un diverso orientamento, commutare la pena pecuniaria in pena detentiva significa però violare l’81.3, infliggendosi una pena qualitativamente più grave di quella che risulterebbe dal cumulo materiale: secondo questo orientamento, la disciplina dell’81 resta comunque operante: il cumulo giuridico va operato non per assimilazinoe, ma per addizione.

Per determinare la pena complessiva, il giudice deve cioè aggiungere alla pena detentiva quantificata per il reato più grave una pena pecuniaria per il reato-satellite, la cui misura non potrà

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superare il limite del triplo della pena-base imposto dall’81.1; al ragguaglio ex 135 il giudice farà ricorso al solo scopo di verificare il rispetto di tale limite.

Il concorso materiale di reati si caratterizza per la presenza di una pluralità di azioni o di omissioni, e sotto questo profilo rileva ancora una volta l’esistenza di una cesura temporale tra le plurime violazioni della stessa norma (concorso materiale omogeneo) o tra le violazioni di diverse disposizioni di legge (concorso materiale eterogeneo).

Un esempio di concorso materiale di reati commissivi: tizio spara a Caio con l’intenzione di ucciderlo, ma i colpi vanno a vuoto, ed alcuni giorni dopo gli spara di nuovo, ma ancora senza successo (concorso materiale di tentativi di omicidio, ex artt. 56 e 575 c.p.).

Quanto al concorso materiale di reati omissivi, si può pensare al caso di un datore di lavoro che, omettendo per colpa di far riparare un dispositivo di sicurezza di una macchina, cagioni una lesione personale ad un operaio; quel datore di lavoro seguita a violare il suo dovere di garanzia, cosicché, nei giorni successivi, altri operai vengono feriti, ed anzi si verifica un incidente mortale: si configurerà in questo caso un concorso materiale tra delitti di lesioni colpose mediante omissione e di omicidio colposo mediante omissione.

Il concorso materiale di reati è assoggettato al cumulo materiale delle pene, ancorché temperato ex 78 ss. c.p. dalla fissazione di limiti massimi per ciascuna specie di pena (trent’anni per la reclusione, sei anni per l’arresto, etc.): in ogni caso, la pena complessiva non può essere superiore al quintuplo della più grave delle pene concorrenti.

Al responsabile di più reati in concorso materiale fra loro, puniti con pene della stessa specie, il giudice applicherà di regola la somma aritmetica delle pene stabilite per ciascun reato.

Se si tratta invece di reati puniti con pene di specie diversa (reclusione ed arresto, multa ed ammenda) o di genere diverso (reclusione e multa, reclusione ed ammenda, arresto e multa, etc.), le varie pene si applicano tutte indistintamente e per intero (74.1 e 75.1): pene detentive di specie diversa (reclusione ed arresto) concorrenti fra loro non si applicano però per intero se la durata complessiva delle varie pene supererebbe gli anni trenta (78.2).

Il cumulo materiale delle pene va eseguito sia nel caso in cui una persona venga condannata per più reati con una sola sentenza o decreto (71), sia nel caso in cui una persona, dopo una prima condanna, venga giudicata e condannata per un altro reato, commesso anteriormente o posteriormente (80 pt. I), sia infine nel caso in cui contro la stessa persona si debbano eseguire più sentenze o più decreti di condanna (80 pt. II c.p. e 663 c.p.p.).

L’81.2 delinea e disciplina la figura del reato continuato, che si realizza quando taluno con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge.

Siamo dunque in presenza di una pluralità di reati, e più precisamente di un concorso materiale di reati, unificati dal medesimo disegno criminoso.

L’81.2 prevede per il reato continuato il cumulo giuridico delle pene nella stessa forma stabilita nell’81.1 per il concorso formale di reati: prevede cioè che l’agente soggiaccia alla pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo.

Al centro della struttura del reato continuato sta il disegno criminoso del quale i singoli reati devono rappresentare l’esecuzione.

Il disegno criminoso è cosa ben diversa dal dolo che deve sorreggere la commissione dei singoli reati: non si tratta infatti della consapevole decisione di realizzare ogni singolo reato, ma di un

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programma che deve formarsi nella mente dell’agente prima dell’inizio dell’esecuzione del primo dei reati in concorso.

Si discute sul contenuto di quel programma: se basti la generica prefigurazione di una futura attività delinquenziale o, magari, all’opposto, se sia necessaria la rappresentazione anticipata non solo dei tipi di reato che verranno commessi, ma anche delle concrete modalità della loro realizzazione.

L’orientamento prevalente è per una soluzione intermedia: basta cioè la programmazione dei tipi di reato da commettere, magari lasciandosi aperte eventuali alternative.

Va esclusa l’unicità del disegno criminoso per quei tipi di reato che, non essendo stati preventivati inizialmente, sono il risultato di decisioni assunte solo nel corso dell’esecuzione del programma.

La giurisprudenza tiene giustamente fermo che più reati non possono dirsi commessi in esecuzione di un unico disegno criminoso solo perché frutto di un medesimo impulso o motivo.

L’unità del disegno criminoso non viene interrotta dall’intervento di una sentenza definitiva di condanna in relazione ad una parte dei reati in concorso, dopo la quale l’agente realizza uno o più fra gli altri reati programmati.

Questa soluzione trova oggi la sua base normativa nel 671 c.p.p., il quale attribuisce anche al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del reato continuato nel caso dell’intervento di sentenze irrevocabili di condanna.

Il giudice deve accertare caso per caso se per effetto della precedente sentenza di condanna si sia o meno verificata l’interruzione dell’originario programma criminoso.

Le difficoltà della prova spiegano la tendenza dei giudici di merito a presumere l’esistenza di un medesimo disegno criminoso tutte le volte in cui si procede contro taluno per una pluralità di reati commessi in tempi diversi.

L’orientamento della giurisprudenza si ribalta allorché si chiede l’applicazione della disciplina del reato continuato a reati commessi dopo che sia intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna relativa ad uno o più dei reati oggetto della programmazione.

La prevalente giurisprudenza esige che il richiedente precisi tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersi la prova dell’unicità del disegno criminoso.

I reati che formano oggetto del disegno criminoso possono consistere sia in più violazioni della stessa disposizione di legge, sia nella violazione di diverse disposizioni di legge.

Appare pertanto contra legem il tentativo di una parte della dottrina di far riemergere il vecchio limite alla configurabilità del reato continuato, affermando che un medesimo disegno criminoso potrebbe profilarsi solo in relazione a reati omogenei fra loro.

Le disposizioni di legge la cui violazione dà vita al reato continuato devono necessariamente prevedere reati dolosi (delitti o contravvenzioni), lo impone il requisito del disegno criminoso, comportando una rappresentazione preventiva di tutti gli elementi costitutivi dei vari reati, nonché la deliberazione di commetterli.

Il rato continuato appare dunque incompatibile sia con la colpa, sia con la responsabilità oggettiva.

In passato era controverso se il reato continuato dovesse considerarsi come un unico reato, o se le singole violazioni conservassero la loro autonomia tranne che per alcuni effetti espressamente disciplinati dal legislatore.

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Oggi, a seguito della riforma del 1974, il testo dell’81.2 non reca più la formula “le diverse violazioni si considerano come un solo reato”: da tale soppressione segue che i reati legati dal vincolo della continuazione devono considerarsi unificati solo ai fini della pena principale, ai fini della decorrenza del termine per la prescrizione del reato (che, a norma del 158, decorre dal giorno in cui è stato commesso l’ultimo dei reati abbracciati dal disegno criminoso), ai fini dell’applicabilità della sospensione condizionale della pena, nonché ad altri limitati effetti (dichiarazione di abitualità nel reato ex artt. 102 ss. c.p., dichiarazione di professionalità nel reato ex art. 105 c.p.) per i quali la considerazione unitaria del reato continuato torna a favore dell’agente, secondo la logica propria della continuazione.

Ai fini della determinazione della pena principale, il legislatore ha disposto l’assoggettamento dei vari reati ad un’unica pena, formata secondo il meccanismo del cumulo giuridico.

Ai fini dell’individuazione del termine dal quale decorre la prescrizione del reato il legislatore ha espressamente unificato i vari reati, stabilendo che la prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la continuazione.

Il tempo necessario per la prescrizione va determinato avendo riguardo alla pena massima prevista per ciascun reato, ai sensi degli artt. 157 ss. c.p.

A proposito dei rapporti tra sospensione condizionale della pena e reato continuato, la disciplina della sospensione condizionale fa espresso riferimento alla pena inflitta in concreto dal giudice, che non deve superare i limiti massimi fissati dal 163; ne deriva che, essendo unica la pena da infliggersi nelle ipotesi di continuazione, il giudice deciderà della concedibilità della sospensione condizionale avendo riguardo alla pena considerata unitariamente.

Questa conclusione è ribadita dal 671.3 c.p.p., il quale prevede che anche il giudice dell’esecuzione ridetermini la pena quando accerti che tra i vari reati sussiste il vincolo della continuazione e ne sospenda condizionalmente l’esecuzione se il suo ammontare rientra nei limiti fissati dalla legge e se sussistono gli altri presupposti per l’applicazione dell’istituto.

Al di fuori di questa limitata sfera di istituti, i reati uniti dal vincolo della continuazione conservano invece la loro autonomia: si considerano cioè come reati distinti: ciò vale ai fini dell’amnistia, dell’indulto, delle pene accessorie, delle misure di sicurezza, dell’imputabilità, del concorso di persone nel reato e delle circostanze del reato.

L’applicabilità dell’amnistia propria (151.1 pt. I c.p.), dell’amnistia impropria (151.1 pt. II c.p.) e dell’indulto (174) andrà verificata in relazione a ciascun singolo reato.

Anche per determinare le pene accessorie si ha riguardo alle pene principali relative a ciascuno dei reati in continuazione (pena-base per il reato più grave, quote di pena per ciascuno dei reati-satellite).

Ad es., se viene inflitta una pena complessiva pari a cinque anni di reclusione, ciò non comporterà ex art. 29.1 l’applicazione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, posto che ai cinque anni si è giunti per effetto del cumulo giuridico delle pene: per stabilire se sia applicabile l’interdizione perpetua dai pubblici uffici si deve tener conto della pena-base inflitta per il reato più grave.

CAPITOLO XII – LE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI E ATTENUANTISia nella parte generale, sia nella parte speciale del codice penale, sia nelle leggi speciali il legislatore italiano ha dato espresso rilievo ad alcune situazioni, inerenti al reato od alla persona del

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colpevole, che presuppongono la sussistenza nel caso concreto di una responsabilità penale e comportano solo una modificazione della pena, aggravandola o attenuandola: si tratta perciò non di elementi costitutivi del reato, ma di circostanze del reato, cioè di elementi che stanno intorno (circum stant) ad un reato già perfetto.

Le circostanze del reato si caratterizzano per un triplice ordine di requisiti:

  non sono elementi costitutivi del reato, come viene esplicitato dal legislatore agli artt. 61 e 62;

  la figura del reato circostanziato, cioè del reato commesso in presenza di una circostanza aggravante od attenuante, è speciale rispetto alla figura del reato semplice;

   l’effetto della circostanza è l’aggravamento o l’attenuazione della pena commisurata dal giudice per il reato semplice.

Stabilire se una determinata disposizione descriva un elemento costitutivo di una autonoma figura di reato, speciale rispetto a quella di riferimento, o descriva una mera circostanza aggravante od attenuante comporta una serie di importanti conseguenze.

Mentre la rilevanza degli elementi costitutivi è indefettibile, le circostanze del reato possono scomparire nel caso concreto: quando infatti concorrono circostanze eterogenee (cioè aggravanti ed attenuanti), il giudice deve procedere al loro bilanciamento, ex 69 c.p., e tale giudizio può concludersi nel senso della prevalenza delle une sulle altre o nel senso dell’equivalenza.

Quanto ai criteri di imputazione della responsabilità, se si tratta di elemento costitutivo di un’autonoma figura di delitto doloso, dovrà essere abbracciato dal dolo, al pari di ogni altro elemento costitutivo del fatto; se invece si tratta di una circostanza aggravante, in base al 59.2 di regola sarà sufficiente la colpa.

Ulteriori conseguenze della qualificazione come circostanza o come elemento costitutivo di un’autonoma figura di reato riguardano il momento consumativo del reato (e quindi la decorrenza del termine per la prescrizione ex 158.1), il concorso di persone e l’applicabilità della legge penale italiana; quanto al primo profilo, il momento consumativo coinciderà o meno col verificarsi della situazione descritta in una certa norma solo se quella situazione integra un elemento costitutivo del reato, e non se integra una circostanza; quanto al concorso di persone, quando si qualifichi l’elemento dubbio come circostanza potrà trovare applicazione il 118, che esclude la comunicabilità di alcune circostanze ai concorrenti nel reato, mentre se vi si ravvisa un elemento costitutivo di un’autonoma figura di reato troverà applicazione la disciplina generale del concorso di persone in quel diverso reato, ed eventualmente la disciplina dettata dagli artt. 116 e 117 c.p.

Se infine l’elemento dubbio si verifica nel territorio dello Stato, mentre gli altri elementi del reato si realizzano all’estero, la legge italiana può trovare applicazione solo se quella situazione viene inquadrata come elemento costitutivo, integrando una parte dell’azione o l’evento.

Nel silenzio della legge, incombe sull’interprete il compito di individuare i criteri discretivi tra elementi costitutivi e circostanze del reato.

Può parlarsi di circostanza del reato solo in presenza di un rapporto di specialità con la figura del reato semplice; d’altra parte, un rapporto di specialità è perfettamente compatibile anche col carattere di figura autonoma di reato: il rapporto di specialità è dunque condizione necessaria, ma non sufficiente per individuare una circostanza del reato.

Un primo criterio formale di identificazione delle circostanze è offerto dall’espressa qualificazione di un elemento come circostanza del reato operata dal legislatore nella rubrica o nel testo di una disposizione.

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Nel caso in cui la rubrica di una disposizione parli di circostanze, ma descriva ipotesi che non sono speciali rispetto ad un dato reato semplice, ci si troverà in presenza di un’autonoma figura di reato; così, ad es., a dispetto della rubrica “circostanze aggravanti” che compare nel 583, parte della dottrina ritiene che le lesioni gravi e gravissime ivi previste rappresentino figure autonome di reato.

A volte, all’espressa qualificazione di un dato elemento, nel testo d’una norma, come circostanza aggravante od attenuante si accompagna un ulteriore dato formale, rappresentato dal riferimento alla disciplina del giudizio di bilanciamento delle circostanze, operato al fine di apportarvi una deroga.

È il caso, ad es., del 280.5, a norma del quale la gran parte delle circostanze attenuanti concorrenti con le aggravanti speciali previste nello stesso 280 (Chiunque, per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico attenta alla vita od alla incolumità di una persona, è punito, nel primo caso, con la reclusione non inferiore ad anni venti e, nel secondo caso, con la reclusione non inferiore ad anni sei.   Se dall'attentato alla incolumità di una persona deriva una lesione gravissima, si applica la pena della reclusione non inferiore ad anni diciotto; se ne deriva una lesione grave, si applica la pena della reclusione non inferiore ad anni dodici.         Se i fatti previsti nei commi precedenti sono rivolti contro persone che esercitano funzioni giudiziarie o penitenziarie ovvero di sicurezza pubblica nell'esercizio o a causa delle loro funzioni, le pene sono aumentate di un terzo.       Se dai fatti di cui ai commi precedenti deriva la morte della persona si applicano, nel caso di attentato alla vita, l'ergastolo e, nel caso di attentato alla incolumità, la reclusione di anni trenta.     Le circostanze attenuanti concorrenti con le circostanze aggravanti previste nel secondo e quarto comma non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste) per il delitto di attentato per finalità terroristiche o di eversione non possono essere ritenute né prevalenti né equivalenti rispetto alle aggravanti e la diminuzione di pena per quelle attenuanti andrà operata sulla quantità i pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti.

Ancora, parla univocamente nel senso della natura di circostanza, aggravante od attenuante, la presenza nel testo della legge di formule come “la pena è aumentata” o “la pena è diminuita” non accompagnate da ulteriori indicazioni.

Un criterio formale che parla a favore della natura di elemento costitutivo di un’autonoma figura di reato è offerto a volte dalla presenza di un apposito nomen iuris nella rubrica della norma: si pensi al 640 bis, che reca in rubrica “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche”: la natura di figura autonoma di reato emerge sia dal nomen iuris, sia dalla collocazione in un articolo del codice penale distinto da quello che descrive la truffa comune (640), ove si prevedono, fra l’altro, due aggravanti speciali, espressamente qualificate nel terzo comma come circostanze.

Alcuni problemi si pongono nella sfera dei delitti aggravati dall’evento: spesso è controverso se l’evento aggravante debba essere considerato circostanza del reato od elemento costitutivo di un’autonoma figura di reato.

Il sistema del codice sembra orientato in linea di principio nel senso dell’inquadramento dell’evento come elemento costitutivo di autonome figure delittuose.

I delitti aggravati dall’evento sono caratterizzati da un fatto-base punito per la sua oggettiva pericolosità nei confronti di un dato bene giuridico, mentre l’evento aggravante esprime la traduzione di quel pericolo nella lesione dello stesso bene.

Emblematici i delitti nei quali il verificarsi di eventi di lesione o di morte aggrava la pena per i fatti pericolosi per l’integrità e per la vita repressi come reati-base: è il caso dell’abuso dei mezzi di correzione (571: chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi.         Se dal fatto

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deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni), dei maltrattamenti in famiglia (572: chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.   Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni), dell’abbandono di persone minori o incapaci (591: chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere la cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.           Alla stessa pena soggiace chi abbandona all'estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro.            La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte.     Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall'adottante o dall'adottato), etc.

È diversa invece la normale fisionomia delle circostanze aggravanti, che solo eccezionalmente si riferiscono ad un evento, ed in questo caso si tratta dello stesso evento costitutivo del reato-base, del quale acquista rilievo un particolare connotato di gravità.

Questa differenza strutturale tra delitti aggravati dall’evento e circostanze aggravanti viene calpestata dal legislatore in alcune sporadiche ipotesi, nelle quali etichetta espressamente od implicitamente come circostanze aggravanti eventi che pure esprimono il tradursi in danno del pericolo immanente al reato-base: sono i casi, ad es., della condanna conseguente ad alcuni delitti contro l’amministrazione della giustizia (375, in relazione agli artt. 371 bis, 371 ter, 372, 373 e 374) e delle lesioni o della morte conseguenti all’omissione di soccorso (593).

Questo ordine sistematico è stato alterato dalla prassi, e da una parte della dottrina, dopo che la riforma del 1974 ha riscritto il 69, abbattendo ogni limite alla possibilità di bilanciare le circostanze eterogenee concorrenti tra loro; in particolare, ha incluso nell’area applicativa del giudizio di bilanciamento anche le circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella prevista per il reato-base o determina la misura della pena in modo indipendente da quella del reato-base; e proprio con l’una o con l’altra di queste tecniche la legge prevede normalmente la pena per i delitti aggravati dall’evento.

A questo punto, qualificare l’evento aggravante come circostanza significava attrarlo nel giudizio di bilanciamento, aprendo la strada alla scomparsa di quell’evento ai fini della pena, ogni volta che il giudice ritenesse equivalenti o prevalenti le (autentiche) circostanze attenuanti presenti nel caso concreto.

Circostanze comuni sono quelle previste per un numero indeterminato di reati, cioè per tutti i reati coi quali non siano incompatibili: sono descritte negli artt. 61, 62 e 62 bis, in alcune leggi speciali e, per il concorso di persone, negli artt. 111, 112 e 114; circostanze speciali sono quelle previste per uno o più reati determinati.

Circostanze aggravanti sono quelle che comportano un inasprimento della pena commisurata dal giudice per il reato semplice; circostanze attenuanti sono quelle che comportano una mitigazione della pena commisurata dal giudice per il reato semplice.

L’aumento o la diminuzione della pena possono essere quantitativi o qualitativi: sono di tipo quantitativo quando, ad es., alla pena inflitta per il reato semplice deve aggiungersi, per effetto della circostanza, un quantum di pena della stessa specie (“la pena è aumentata fino ad un terzo”, etc.) o la legge prevede per il reato circostanziato un’autonoma cornice edittale di pena.

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La modificazione di pena è di tipo qualitativo quando per effetto della circostanza cambia la specie della pena: è il caso, ad es., delle circostanze aggravanti dell’omicidio doloso (575) di cui agli artt. 576 e 577, che comportano il passaggio dalla reclusione all’ergastolo.

Circostanze ad efficacia comune sono, nel linguaggio della dottrina, quelle che comportano un aumento od una diminuzione fino ad un terzo della pena che dovrebbe essere inflitta per il reato semplice.

Quando la legge non precisa l’ammontare dell’aumento di pena per una circostanza aggravante o quello della diminuzione per un’attenuante, a norma del 64 la pena dev’essere aumentata fino ad un terzo o, a norma del 65 n. 3, dev’essere diminuita fino ad un terzo.

Circostanze ad efficacia speciale sono:

  quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa rispetto a quella prevista per il reato semplice, in dottrina si parla di circostanze autonome;

  quelle per le quali la legge prevede una cornice di pena diversa da quella prevista per il reato semplice, nel linguaggio della dottrina, circostanze indipendenti;

   quelle che importano un aumento od una diminuzione della pena superiore ad un terzo, nel linguaggio della dottrina ed in quello del legislatore, circostanze ad effetto speciale.

Per esempio, per la circostanza aggravante della recidiva reiterata (99.4) la legge prevede aumenti di pena, a seconda dei casi fino alla metà, fino a due terzi, o da un terzo a due terzi.

La categoria delle circostanze ad efficacia speciale ha rilevanza ex lege (63.3, 63.4 e 63.5) ai fini del concorso omogeneo di circostanze: soggiacciono ad una disciplina ad hoc per il caso in cui il reato sia corredato in concreto da una pluralità di circostanze, tutte aggravanti o tutte attenuanti, delle quali almeno una rientri nella categoria delle circostanze ad efficacia speciale.

Circostanze definite (o tipiche) sono quelle i cui elementi costitutivi sono compiutamente descritti dalla legge; circostanze indefinite (o discrezionali) sono invece quelle la cui individuazione, in assenza di ogni tipizzazione legislativa o comunque di una compiuta tipizzazione legislativa, è rimessa alla discrezionalità del giudice.

Quanto alle circostanze attenuanti, è il caso delle attenuanti generiche di cui al 62 bis (designate dal legislatore con una sorta di formula in bianco, come “altre circostanze diverse” da quelle prevedute nel 62 “che il giudice ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena”).

In base al 70.1 n.1, circostanze oggettive sono quelle che concernono la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione, la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni o le qualità personali dell’offeso: sono circostanze oggettive, per esempio, l’aver adoperato sevizie o l’aver agito con crudeltà verso le persone (61 n.4).

Circostanze soggettive sono quelle che concernono la intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole (70.1 n. 2); il 70.2 precisa che le circostanze inerenti alla persona del colpevole riguardano la imputabilità e la recidiva.

Un esempio di circostanza soggettiva è l’aver agito per motivi abbietti o futili (61 n. 1).

La sola rilevanza normativa della disciplina dettata dal 70 riguarda l’univoca inclusione della recidiva (99) e delle cause che diminuiscono o aumentano l’imputabilità (artt. 89 ss.).

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Secondo l’originario dettato del 59, le circostanze sia aggravanti sia attenuanti rilevavano di regola obiettivamente, si applicavano cioè anche se non conosciute dall’agente o per errore ritenute inesistenti.

Per effetto della legge 19/1990, nella disciplina dell’imputazione delle circostanze:

  è rimasta ferma l’irrilevanza delle circostanze aggravanti ed attenuanti erroneamente supposte dall’agente;

  è rimasta ferma la rilevanza oggettiva delle circostanze attenuanti;

   è mutata la disciplina delle circostanze aggravanti: la loro imputazione è armonizzata col principio di colpevolezza in modo tale che queste circostanze possono essere poste a carico dell’agente solo se gli si può muovere almeno un rimprovero di colpa, cioè solo se erano da lui conosciute, od ignorate per colpa, o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.

Peraltro, vi sono alcune circostanze aggravanti che rilevano solo se i dati di fatto che le integrano sono conosciuti dall’agente, come l’aggravante del nesso teleologico o conseguenziale, cioè l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato (61 n. 2): essa è applicabile solo se l’agente commette questo o quel reato nella consapevolezza che si tratta di un mezzo per conseguire uno dei fini indicati dalla norma.

Il 60 introduce alcune deroghe alla disciplina generale dell’imputazione delle circostanze per le ipotesi di errore sulla persona dell’offeso.

Si tratta in primo luogo delle ipotesi in cui l’agente versi in errore sull’identità della persona offesa, inoltre, per effetto del rinvio espresso contenuto nell’82, il 60 è applicabile anche all’aberratio ictus, cioè, ad es., all’ipotesi in cui Tizio, volendo uccidere Caio, uccida invece Sempronio, suo padre, per un errore di mira determinato da colpa o per non essersi colposamente reso conto del rischio che lungo la traiettoria del proiettile potesse trovarsi una persona diversa.

Dalla Relazione del Guardasigilli che accompagna il codice penale del 1930 si ricava che il legislatore storico ha inteso ricomprendere nella disciplina in esame anche le ipotesi in cui l’agente si rappresenti esattamente l’identità della persona offesa, ma ignori i rapporti che intercorrono tra lui e la vittima: ad es., Tizio vuole uccidere Caio e lo uccide, e solo dopo viene a sapere che la persona uccisa era suo padre.

In tutti questi casi, se la legge contempla una o più circostanze aggravanti che riguardano alcune condizioni o qualità della vittima reale, o i suoi rapporti col colpevole, il 60.1 dispone che tali aggravanti non vengano mai poste a carico dell’agente: esso stabilisce che nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa o i rapporti tra offeso e colpevole.

L’errore sulla persona dell’offeso, in tutti i casi riconducibili sotto il 60.1, rileva anche se si tratta di errore od ignoranza dovuti a colpa, che potevano essere evitati con la dovuta diligenza.

Il 60.2 contempla l’ipotesi in cui, a seguito di un errore sulla persona offesa, l’agente supponga di trovarsi in presenza di una situazione che integrerebbe una circostanza attenuante relativa alle qualità o condizioni personali dell’offeso ovvero ai rapporti tra colpevole ed offeso: in deroga alla generale irrilevanza del putativo nella sfera delle circostanze (59.3), la circostanza attenuante erroneamente supposta viene valutata a favore del colpevole.

Dalla categoria delle circostanze, attenuanti ed aggravanti, relative alle condizioni o qualità della persona offesa, il 60.3 enuclea le circostanze relative all’età e quelle relative alle condizioni o

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qualità fisiche o psichiche della stessa persona offesa, disponendo che per tali circostanze, in caso di errore sulla persona dell’offeso, non opera la disciplina di favore dettata dal primo e dal secondo comma del 60.

Per questo gruppo di circostanze troverà applicazione la disciplina generale dettata dal 59: ai sensi del 59.1 le attenuanti si applicheranno dunque solo se oggettivamente esistenti, mentre ai sensi del 59.2 le aggravanti potranno essere poste a carico dell’agente a condizione che l’errore in cui è caduto l’agente sia dovuto a colpa.

Se è presente nel caso concreto una sola circostanza aggravante od attenuante, il 63.1 impone al giudice di procedere come segue: quando la legge dispone che la pena sia aumentata o diminuita entro limiti determinati, l’aumento o la diminuzione si opera sulla quantità di essa, che il giudice applicherebbe al colpevole, qualora non concorresse la circostanza che la fa aumentare o diminuire.

La determinazione della pena dovrà perciò avvenire con un giudizio bifasico: nella prima fase il giudice quantificherà la pena per il reato semplice, secondo i criteri di commisurazione indicati dal 133, nella seconda fase procederà all’aumento o alla diminuzione di pena conseguente alla circostanza.

E queste due fasi dovranno emergere nella sentenza, dove dovrà essere indicata sia la pena per il reato semplice, sia la misura dell’aumento o della diminuzione operati per effetto della circostanza, aggravante od attenuante.

All’interno del procedimento bifasico per la determinazione della pena per il reato circostanziato, si pone il problema dei rapporti tra circostanze del reato e criteri di commisurazione della pena in senso stretto ex 133.

La circostanza aggravante od attenuante, in ragione del rapporto di specialità che intercorre col corrispondente criterio di commisurazione della pena ex 133, mette fuori gioco tale criterio: nel senso che quel criterio potrà essere applicato solo per aspetti diversi da quelli isolati dal legislatore ed assunti ad oggetto della circostanza: ad es., tra le modalità dell’azione nella bigamia, il giudice potrà tener conto ex 133 solo di modalità diverse dall’induzione in errore.

Il giudice non potrà fare una doppia valutazione dello stesso elemento, sia nella determinazione della pena-base (cioè della pena che applicherebbe per il reato semplice), sia ai fini dell’aumento o della diminuzione di quella pena.

Nel caso in cui la norma di legge che prevede la singola circostanza non specifichi la misura dell’aumento o della diminuzione di pena, la pena per il reato semplice dovrà essere aumentata o diminuita fino ad un terzo (64.1 e 65 n. 3): si parla in questo caso di circostanza ad efficacia comune.

Per determinare in concreto la misura dell’aumento o della diminuzione da apportarsi alla pena per il reato semplice, il giudice deve scomporre la fattispecie astratta della circostanza aggravante od attenuante in una scala continua di sottofattispecie, individuando una serie di ipotesi tutte riconducibili a quella circostanza, graduate secondo la loro gravità se si tratta di circostanza aggravante o secondo la loro tenuità se si tratta di circostanza attenuante: all’interno di tale scala il giudice collocherà la circostanza del caso concreto, per stabilire il suo grado di intensità.

La pena della reclusione da applicarsi per effetto dell’aumento determinato da una sola circostanza aggravante ha un limite massimo: non può superare gli anni trenta (64.2); nel caso di una sola circostanza attenuante, alla pena dell’ergastolo è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni (65 n. 2).

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Quando sia presente nel caso concreto una sola circostanza per la quale la legge preveda un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo (circostanza ad effetto speciale), quel maggior aumento o quella maggiore diminuzione verranno calcolati a partire dalla pena-base fissata dal giudice per il reato semplice, secondo l’accennato criterio dell’intensità della circostanza.

Quando la circostanza presente nel caso concreto sia una circostanza autonoma (per la quale cioè la legge prevede una pena di specie diversa da quella prevista per il reato semplice, individuando un’apposita cornice di pena) o una circostanza indipendente (per la quale la legge prevede una cornice di pena diversa da quella prevista per il reato semplice), il giudice sceglierà la pena all’interno del nuovo spazio edittale usando i criteri generali di commisurazione della pena fissati dal 133.

Se vi è concorso omogeneo di circostanze, e cioè se concorrono più circostanze tutte aggravanti o tutte attenuanti, e per ciascuna di esse è previsto un aumento od una diminuzione di pena fino ad un terzo, l’aumento o la diminuzione di pena si opera sulla quantità di essa risultante dall’aumento o dalla diminuzione precedente (63.2); in altre parole, una volta calcolato l’aumento o la diminuzione di pena per una sola circostanza, sulla pena così determinata il giudice effettuerà l’ulteriore aumento o l’ulteriore diminuzione, e così via.

La pena risultante dagli aumenti o dalle diminuzioni conseguenti al concorso di più circostanze aggravanti o di più circostanze attenuanti ad efficacia comune soggiace ad una serie di limiti fissati rispettivamente agli artt. 66 e 67.

L’applicazione degli aumenti o delle diminuzioni di pena in caso di concorso omogeneo di circostanze alcune delle quali ad efficacia speciale (circostanze autonome, circostanze indipendenti e circostanze ad effetto speciale) è disciplinata rispettivamente nel 63.3 (concorso di una circostanza ad efficacia speciale con una o più circostanze ad efficacia speciale) e 63 commi 4 e 5 (concorso di più circostanze ad efficacia speciale).

Il 63.3 non fa espresso riferimento a tutte e tre le classi di circostanze che abbiamo inquadrato tra le circostanze ad efficacia speciale, ma menziona le sole circostanze autonome e quelle ad effetto speciale: secondo l’opinione più accreditata, la disciplina del 63.3, 63.4 e 63.5 è tuttavia riferibile, nel silenzio della legge, anche alle circostanze indipendenti, ricomprendendo in definitiva tutte le circostanze ad efficacia speciale.

Nel caso in cui una circostanza ad efficacia speciale concorra con una o più circostanze ad efficacia comune (tutte aggravanti o tutte attenuanti), ai sensi del 63.3, il giudice applicherà per prima la circostanza ad efficacia speciale; dapprima determinerà cioè la pena che applicherebbe se il reato fosse corredato dalla sola circostanza ad efficacia speciale (cioè la pena di specie diversa prevista per la circostanza autonoma, la pena scelta all’interno dell’apposita cornice edittale prevista per la circostanza indipendente o la pena aumentata o diminuita in misura anche superiore ad un terzo per la circostanza ad effetto speciale): sulla pena così determinata, il giudice procederà successivamente all’aumento od alla diminuzione fino ad un terzo per la circostanza ad efficacia comune.

Nel 63.4 e 63.5 il legislatore disciplina l’ipotesi in cui concorrano tra loro più circostanze ad efficacia speciale, tutte aggravanti o tutte attenuanti: in tale ipotesi vige il principio di sussidiarietà: se si tratta di circostanze aggravanti si applica solo la pena stabilita per la circostanza più grave, se invece si tratta di circostanze attenuanti, si applica solo la pena meno grave stabilita per le predette circostanze.

In altri termini, tra più circostanze aggravanti ad efficacia speciale se ne applica una sola, e cioè quella che comporta la pena più grave.

Non si tratta però di un assorbimento totale, perché la legge attribuisce al giudice la facoltà, caso per caso, di aumentare fino ad un terzo la pena così determinata (63.4 e 64).

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Analogamente, tra più circostanze attenuanti ad efficacia speciale s’applica solo quella che comporta la pena meno grave; e la pena così determinata può essere ulteriormente diminuita fino ad un terzo (63.5).

Si parla di concorso eterogeneo di circostanze quando un reato sia corredato, in concreto, da due o più circostanze, una od alcune delle quali aggravanti e l’altra, o le altre, attenuanti.

In tal caso il giudice deve procedere al bilanciamento delle circostanze concorrenti (69), che può avere un triplice esito: la prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti, la prevalenza delle aggravanti sulle attenuanti, l’equivalenza delle une con le altre.

Se il giudice ritiene prevalenti le attenuanti, applica solo le relative diminuzioni di pena, non tenendo conto delle aggravanti: se ritiene prevalenti le aggravanti, non tiene conto delle attenuanti ed opera gli aumenti di pena per le aggravanti; se ritiene equivalenti aggravanti ed attenuanti, applicherà la pena che avrebbe inflitto se non fosse stata presente alcuna circostanza.

Al giudizio di bilanciamento partecipano tutte le circostanze aggravanti ed attenuanti.

Il nuovo 69.4 stabilisce che le disposizioni precedenti [relative ai giudizi di prevalenza e di equivalenza] si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato.

La legge non fornisce nessun criterio per orientare il giudice nella valutazione comparativa delle circostanze concorrenti; tale criterio non può essere fornito dal numero delle circostanze da bilanciare, le circostanze in concorso non vanno contate ma pesate.

Sembra del tutto estranea al giudizio di bilanciamento una valutazione complessiva della gravità del reato semplice e della capacità a delinquere dell’agente: il bilanciamento va operato solo fra le circostanze aggravanti ed attenuanti.

La totale eterogeneità delle circostanze rende per lo più impraticabile una comparazione diretta: piuttosto, in dottrina, s’è proposto di far riferimento alla loro intensità da accertarsi in concreto: se, ad es., una circostanza aggravante è presente nel caso concreto così da meritare l’aumento di pena nella misura massima, tale circostanza prevarrà su una attenuante che di per sé meriterebbe una diminuzione nella misura minima od in misura prossima al minimo.

Di regola, il giudizio di bilanciamento risulta affidato alla libera ed incontrollata discrezionalità del giudice, o, come ha detto il Guardasigilli nella Relazione al Re (n. 46), alla sua “capacità di intuizione”.

Gli effetti del giudizio di bilanciamento delle circostanze si producono, oltre che sulla misura della pena da infliggere in concreto, anche su altri istituti la cui applicabilità è correlata alla misura della pena inflitta: è il caso, ad es., dell’amnistia impropria o dell’indulto, concessi per reati puniti in concreto con una pena non superiore ad un certo limite, nonché delle pene accessorie, quando la loro applicazione sia collegata alla pena principale irrogata in concreto.

Il giudizio di bilanciamento rileva inoltre, per espressa disposizione di legge (157.3), ai fini del computo del tempo necessario per la prescrizione del reato: il bilanciamento delle circostanze non influisce su istituti che non si ricollegano al quantum di pena inflitta.

Così, la perseguibilità d’ufficio stabilita dalla legge per l’ipotesi aggravata di un determinato delitto, resta ferma anche se tale circostanza aggravante viene elisa nel giudizio di bilanciamento, per la prevalenza o l’equivalenza riconosciuta ad un’attenuante.

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Ancora, nei casi in cui la legge ricolleghi una pena accessoria alla condanna per i delitti commessi in presenza di una determinata circostanza aggravante, quella pena accessoria si applicherà al condannato anche se la circostanza aggravante è stata elisa nel giudizio di bilanciamento.

Quando una determinata situazione è riconducibile sotto più norme che prevedono circostanze del reato, può profilarsi o un concorso effettivo di circostanze, omogeneo od eterogeneo, o un concorso apparente delle norme che prevedono quelle circostanze, con la conseguenza che applicabile sarà una sola di tali norme.

Quest’ultima eventualità è disciplinata dal 68, il quale individua un concorso apparente di circostanze in due distinte ipotesi.

La prima è quella in cui una data circostanza è in rapporto di specialità rispetto ad un’altra: ad es., la circostanza aggravante dell’aver agito in seguito ad intelligenze col nemico prevista per i delitti di disfattismo politico (265.3) e di disfattismo economico (267.3), è speciale rispetto all’aggravante relativa agli stessi reati dell’aver agito in seguito ad intelligenze con lo straniero (265.2 n. 2 e 267.2).

In casi di questo tipo, il giudice applicherà la sola circostanza speciale, secondo la regola del 15.

La seconda ipotesi è quella i cui, non sussistendo tra le due norme un rapporto di specialità, una circostanza aggravante od attenuante comprende in sé un’altra aggravante od un’altra attenuante; si pensi, ad es., alla circostanza aggravante del 577.1 n. 1 (l’aver commesso un fatto di omicidio doloso “contro l’ascendente o il discendente”) e a quella dell’art. 61 n. 11 (l’aver commesso il fatto con abuso di relazioni domestiche o con abuso di relazioni di coabitazione).

In tal caso la presenza di una situazione che integra la seconda circostanza è in concreto strettamente funzionale all’uccisione dell’ascendente o del discendente: l’aggravante del 577.1 n. 1 è dunque, nel linguaggio della dottrina e della Relazione del Guardasigilli, “circostanza eventualmente complessa” rispetto all’aggravante comune del 61 n. 11, o, nel linguaggio della legge, è una circostanza che “comprende in sé” quest’ultima aggravante.

Secondo quanto dispone il 68.1, in casi di questo tipo s’applica solo la circostanza che importa il maggior aumento di pena, se si tratta di circostanza aggravante, o solo la circostanza che importa la maggior diminuzione di pena, se si tratta di circostanza attenuante; se poi le diverse circostanze importano tutte il medesimo aumento o la medesima diminuzione di pena, s’applica un solo aumento od una sola diminuzione (68.2).

Al 61 il codice penale prevede un elenco di circostanze aggravanti comuni, cioè di circostanze aggravanti che possono accompagnarsi ad un numero indeterminato di reati, ossia a tutti i reati coi quali non siano incompatibili; si tratta di undici circostanze:

1.      l’avere agito per motivi abietti o futili: per motivo si intende la causa psichica della condotta, cioè l’impulso che induce il soggetto ad agire o ad omettere di agire.

      Il carattere abietto o futile del motivo va accertato secondo le valutazioni medie della collettività in un certo momento storico.

      Quest’aggravante non è applicabile a chi sia affetto da vizio parziale di mente, se l’impulso ad agire trova la propria origine nell’anomalia psichica del soggetto.

      Trattandosi d’una circostanza soggettiva concernente i motivi a delinquere, nel quadro del concorso di persone è applicabile, ai sensi del 118, solo alla persona animata da quel motivo;

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2.      l’avere commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il profitto o il prezzo, ovvero l’impunità di un altro reato: la norma individua tre distinte circostanze aggravanti: la prima ricorre quando un reato viene posto in essere come mezzo per la commissione di un successivo reato (reato-fine), ed in dottrina si parla di aggravante teleologica, mentre con riguardo alla seconda e terza aggravante si parla di aggravanti consequenziali.

      Per la sussistenza di ognuna di queste aggravanti è necessario e sufficiente che l’agente commetta il reato per uno degli scopi suddetti, non rileva che poi l’agente non commetta il reato-fine o non consegua lo scopo che s’è prefisso.

      Le aggravanti consequenziali presuppongono la commissione d’un precedente reato; l’aggravante è configurabile anche nel caso in cui il reato presupposto sia, per una qualunque causa, estinto: in questo senso dispone il 170.

      È controverso se si debba tener conto delle aggravanti del 61 n. 2 nel quadro del reato continuato;

3.      l’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento: questa circostanza aggravante, che dà rilievo alla colpa cosciente, si configura quando l’agente si rappresenta come seriamente possibile il verificarsi di un evento, ma ritiene per colpa che quell’evento non si realizzerà nel caso concreto, e ciò in quanto, per leggerezza, sottovaluta la probabilità del suo verificarsi o sopravvaluta le proprie o altrui capacità di evitarlo.

      In base al tenore letterale della disposizione, la circostanza è applicabile solo ai delitti: quanto alle contravvenzioni, della colpa cosciente il giudice terrà contro sotto il profilo del grado della colpa, ai sensi del 133.1 n. 3, nel commisurare la pena all’interno della cornice edittale.

      A norma del 118, trattandosi di circostanza soggettiva concernente il grado della colpa, nel concorso di persone è valutata solo nei confronti della persona a cui si riferisce;

4.      l’avere adoperato sevizie, o l’avere agito con crudeltà verso le persone: sevizia è ogni sofferenza fisica inferta alla vittima che non è necessaria per la commissione del reato; agisce con crudeltà verso le persone chi infligge alla vittima o ad un terzo una sofferenza morale, rivelatrice di mancanza di umanità: anche in questo caso deve trattarsi di una sofferenza non necessaria per la commissione del reato;

5.      l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o la privata difesa;

6.      l’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato: l’aggravante risulta applicabile solo se l’agente sia a conoscenza di essere ricercato;

7.      l’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravita: la rilevante gravità del danno patrimoniale (comprensivo sia del danno emergente che del lucro cessante) dev’essere valutata secondo un criterio oggettivo, offerto dal valore della cosa, e poi secondo un criterio soggettivo, correlato alle condizioni economiche della vittima: quest’ultimo criterio entra in gioco solo in via sussidiaria, nei casi in cui il danno patrimoniale non sia in sé elevatissimo, ma comporti effetti di grande momento proprio in ragione delle modeste condizioni economiche della vittima.

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      La giurisprudenza prevalente ritiene applicabile l’aggravante anche al delitto tentato, nel caso in cui se il reato fosse giunto a consumazione avrebbe prodotto un danno patrimoniale di rilevante gravità.

      Questa soluzione urta però contro la legge, che richiede un danno di rilevante gravità cagionato alla persona offesa dal reato: non lascia spazio per una considerazione del danno potenziale;

8.      l’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso: questa circostanza aggravante presuppone la commissione di un qualsiasi delitto, doloso o colposo, consumato o tentato, e consiste in una condotta successiva con la quale l’agente volontariamente aggravi o cerchi di aggravare le conseguenze del precedente delitto;

9.      l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto: non basta che il reato venga commesso da chi possiede una di quelle qualità, è invece necessario l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri inerenti a quella qualifica.

Occorre poi che tra la commissione del reato e l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri esista almeno un nesso occasionale, nel senso che l’esecuzione del reato dev’essere stata resa possibile o quanto meno agevolata dalle attribuzioni dell’agente.

Sia l’abuso dei poteri, sia la violazione dei doveri devono essere realizzati consapevolmente: questa circostanza rappresenta perciò una deroga alla disciplina generale dell’imputazione delle circostanze aggravanti ex 59.2.

La circostanza aggravante non è applicabile a quei reati nei quali l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, ad un pubblico servizio od alla qualità di ministro di culto è elemento costitutivo del fatto: è il caso, ad es., per il pubblico ufficiale o per l’incaricato di un pubblico servizio, del delitto di concussione (317);

10.  l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio: la giurisprudenza sottolinea che quest’aggravante esige, in deroga al 59.2, la consapevolezza da parte dell’agente della qualità personale del soggetto passivo.

Per l’applicabilità della circostanza l’aggressione a uno dei soggetti in questione non dev’essere elemento costitutivo di un’autonoma figura di reato, come nel caso della violenza ad un pubblico ufficiale (336) o dell’oltraggio ad un magistrato in udienza (343);

11.  l’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione o di ospitalità: l’aggravante dà rilievo a situazioni di particolare vulnerabilità del bene giuridico, derivanti da relazioni interpersonali che possono facilitare la commissione del reato.

L’abuso di autorità evoca lo sfruttamento di una situazione di preminenza, nell’ambito di un rapporto privatistico; “relazioni domestiche” sono quelle interne alla famiglia in senso lato, anche in assenso di un rapporto di parentela (ad es. la convivente) o di coabitazione (ad es. la domestica ad ore); di “relazioni d’ufficio” può parlarsi a proposito dei rapporti che intercorrono tra chi opera in uno stesso ambiente di lavoro, pubblico o privato; “relazioni di prestazione d’opera” sono, per bocca della Corte di Cassazione, non solo l’ipotesi del rapporto o contratto di lavoro, ma tutti quei rapporti giuridici che, in una più vasta e larga accezione, comportano l’obbligo di un facere; il concetto di “coabitazione” ricomprende qualsiasi forma di permanenza non momentanea di più persone in uno stesso luogo; il concetto di “ospitalità” abbraccia tutte le

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ipotesi di permanenza occasionale di breve durata in un determinato luogo col consenso del proprietario o del possessore.

In tempi diversi, per fronteggiare gravi fenomeni di criminalità, il legislatore ha previsto per tutti i reati, salvo il limite dell’incompatibilità, altri tre gruppi di circostanze aggravanti comuni: in primo luogo, l’art. 1 della legge 15/1980 (“Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica”) stabilisce che per i reati commessi per le finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, punibili con pena diversa dall’ergastolo, la pena è aumentata della metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato.

In secondo luogo, l’art. 7 della legge 203/1991 (“Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento della attività amministrativa”) prevede che per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dal 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà.

In terzo luogo, l’art. 3 della legge 205/1993 (“Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica o religiosa”) prevede che per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà.

Si tratta in tutti i casi di circostanze ad effetto speciale, escluse dal giudizio di bilanciamento ex 69.

Il 62 elenca sei circostanze attenuanti comuni:

1.   l’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale: i primi sono quei motivi che ricevono un apprezzamento pienamente positivo nell’intero gruppo sociale o in una parte di esso, i motivi di particolare valore sociale sono invece i motivi rispondenti, in un certo momento storico, agli obiettivi propri della società nel suo insieme: non deve trattarsi necessariamente di obiettivi valutati positivamente da tutti i consociati in quel momento storico, il metro unificante di giudizio va invece individuato nei principi e nei valori sociali accolti e cristallizzati nella Costituzione.

Trattandosi di una circostanza soggettiva concernente i motivi a delinquere, nel quadro del concorso di persone è applicabile, ai sensi del 118, solo alla persona animata da quel motivo;

2.   l’avere reagito in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui: ai sensi del 118 la circostanza non si comunica ai concorrenti nel reato; in quest’attenuante possono individuarsi tre elementi: il primo è rappresentato da un fatto ingiusto altrui, e potrà trattarsi di comportamenti in contrasto sia con norme giuridiche, di qualsiasi fonte e causa, sia con regole elementari della convivenza sociale, il secondo è integrato da uno stato d’ira, cioè da un’emozione che genera impulsi aggressivi non contenibili coi normali freni inibitori e compatibile con un preesistente stato di risentimento, di rancore o di odio, purché vi si innesti un autonomo e nuovo fatto ingiusto come fattore scatenante dell’esplosione d’ira, quale terzo elemento viene in considerazione il rapporto di causalità che deve intercorrere tra lo stato d’ira e la commissione del reato: questo rapporto di causalità non sussiste quando il fatto ingiusto altrui è stato un pretesto di cui l’agente ha approfittato per dare sfogo alle proprie prepotenze, violenze etc.

È inaccettabile l’idea che il fatto di reato debba essere in un rapporto di proporzione col fatto ingiusto che ha prodotto lo stato d’ira; non è necessario che la commissione del reato segua immediatamente al fatto ingiusto altrui (la legge lo richiede quando la provocazione opera come scusante, e non come mera attenuante, nei delitti contro l’onore).

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La giurisprudenza sottolinea che l’attenuante in esame può sussistere anche nel caso di una serie di comportamenti ingiusti, di scarsa entità se considerati uno ad uno, ma che nel loro insieme provochino, per accumulo, lo scoppio dell’ira.

Dell’attenuante può giovarsi anche una persona diversa da colui che ha subito il torto, purché quel torto abbia cagionato in lui una reazione d’ira, sfociata nella commissione del reato.

È difficile pensare che l’attenuante possa trovare applicazione nel caso in cui il reato venga commesso nei confronti di persona diversa dall’autore del fatto ingiusto, essendo inammissibile che sopravviva una sorta di responsabilità collettiva (fondata sull’appartenenza allo stesso nucleo familiare, alla stessa razza, etc.);

3.   l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’Autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale, o delinquente per tendenza: l’influenza emotiva esercitata dalla folla in tumulto, indebolendo i processi volitivi che hanno portato alla commissione del fatto si traduce in una minore intensità del dolo, perciò, ai sensi del 118, la circostanza non si comunica ai concorrenti nel reato.

Per l’applicabilità dell’attenuante è necessario che la commissione del reato sia conseguenza della suggestione della folla in tumulto, perciò l’attenuante non ricorre quando l’agente si sia determinato a commettere il reato già prima di entrare in contatto con la folla.

L’influenza causale della folla in tumulto può sussistere anche nei confronti di chi si inserisca per sua scelta in un assembramento di persone già in tumulto, a condizione che la decisione di commettere il reato si sia formata successivamente.

La legge impone un duplice limite all’applicabilità della circostanza: un primo limite è ispirato all’esigenza di non riconoscere un’attenuazione di pena a chi agisca all’interno di una situazione di illegalità: la riunione (presenza previamente organizzata di più persone nello stesso luogo) o l’assembramento (riunirsi accidentale od improvviso) non devono essere vietati dalla legge o dall’autorità; il secondo limite riflette una logica di prevenzione speciale, nei confronti di chi, già incline a delinquere, può trovare ulteriori spinte criminogene nella folla in tumulto;

4.   l’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l’avere agito per conseguire o l’avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità: la speciale tenuità dev’essere valutata con gli stessi criteri esposti per la valutazione della rilevante gravità del danno patrimoniale di cui all’art. 61 n. 7.

La giurisprudenza maggioritaria ritiene applicabile l’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità anche alle ipotesi di delitto tentato, nei casi cioè in cui, se il delitto fosse giunto a consumazione, avrebbe cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ma si tratta di una soluzione contra legem: il tenore letterale del 61 n. 4 esige che un danno di speciale tenuità sia stato “cagionato”.

Il tenore letterale della disposizione, dove fa riferimento all’aver comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, autorizza l’applicazione dell’attenuante anche a chi abbia commesso un delitto per conseguire un lucro rilevante, ma in concreto ne abbia ottenuto solo uno di speciale tenuità;

5.   l’essere concorso a determinare l’evento, insieme con l’azione o l’omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa: benché la legge parli di evento, si ritiene che l’attenuante sia applicabile anche ai reati di mera condotta; anche la formula “doloso” non può esser presa alla

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lettera: il dolo è un criterio di attribuzione della responsabilità e l’oggetto del dolo è l’intero fatto, mentre ciò a cui la legge fa riferimento in questo caso è solo il carattere volontario della condotta della vittima.

L’attenuante in esame non è compatibile con quelle figure di reato nelle quali una condotta volontaria della vittima sia elemento costitutivo del fatto, come l’omicidio del consenziente (579) e, tra i reati di mera condotta, degli atti sessuali con minorenne (609 quater), dell’usura (644) e della cessione di sostanze stupefacenti (73.1 d.P.R. 309/1990).

L’area applicativa di questa circostanza attenuante sembra circoscritta ai reati che offendono beni giuridici individuali (vita, integrità fisica, libertà personale, patrimonio etc.), laddove siano in gioco beni collettivi non c’è una persona offesa dal reato che con la propria condotta volontaria possa contribuire a cagionare il fatto penalmente rilevante;

6.   l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto dall’ultimo capoverso dell’art. 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato: secondo la Corte Costituzionale, l’attenuante va letta in chiave oggettiva, cioè come espressione dell’esigenza di incentivare la reintegrazione del patrimonio del danneggiato dal reato, a condizione che l’intervento risarcitorio sia a qualsiasi titolo riferibile all’imputato.

La riparazione dev’essere integrale, ciò comporta l’irrilevanza di un risarcimento parziale o della promessa di un risarcimento futuro; in caso di rifiuto della parte lesa, il risarcimento può essere effettuato nella forma dell’offerta reale ai sensi del 1209 c.c. (Se l’obbligazione ha per oggetto danaro, titoli di credito, ovvero cose mobili da consegnare al domicilio del creditore, l’offerta deve essere reale.         Se si tratta invece di cose mobili da consegnare in luogo diverso, l’offerta consiste nell'intimazione al creditore di riceverle, fatta mediante atto a lui notificato nelle forme prescritte per gli atti di citazione).

Sia il risarcimento, sia le restituzioni devono avvenire prima del giudizio, cioè prima dell’apertura del dibattimento.

La giurisprudenza ritiene che un aiuto offerto dal colpevole alle indagini di polizia od a quelle dell’autorità giudiziaria, così da agevolare la scoperta di complici, non sia sufficiente ad integrare la circostanza attenuante: la soluzione potrebbe essere diversa se, per effetto della collaborazione, si sia ottenuto il risultato, ad es., di far cessare del tutto l’attività delittuosa di un’associazione per delinquere.

La clausola “fuori del caso preveduto dall’ultimo capoverso dell’art. 56” preclude che questa circostanza attenuante possa cumularsi con quella del volontario impedimento dell’evento prevista nel 56.4 (se [colui che compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto] volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà).

Il 62 bis dice che il giudice, indipendentemente dalle circostanze prevedute dall’art. 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate, in ogni caso, ai fini della applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto art. 62.

Quest’attenuante, presenze nel codice Zanardelli ed esclusa dal codice del 1930, è stata reintrodotta nel 1944; viene comunemente designata sia in dottrina sia in giurisprudenza con la formula circostanze attenuanti generiche.

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Quanto al contenuto delle attenuanti generiche, il legislatore rinuncia totalmente ad individuarli: il 62 bis individua solo un duplice limite al campo di applicazione delle attenuanti generiche.

In primo luogo, il giudice non potrà tener conto di situazioni che già integrano una circostanza attenuante tipica; inoltre, non potrà considerare come attenuanti generiche situazioni che siano incompatibili col tenore di una norma che prevede una circostanza attenuante tipica.

L’individuazione in positivo del contenuto delle circostanze attenuanti generiche è rimessa alla discrezionalità del giudice, che però non è libera ma vincolata al rispetto dei criteri desumibili dall’ordinamento.

Per lo più il giudice farà riferimento ai criteri elencati nel 133.

La concessione delle attenuanti generiche deve considerarsi del tutto svincolata da una valutazione complessiva della gravità del reato e della capacità a delinquere dell’agente.

Oltre che sui criteri del 133, il giudice può fondare la concessione delle attenuanti generiche su situazioni che realizzino parzialmente il modello legale d’una circostanza attenuante tipica.

Le attenuanti generiche sono assoggettate alla disciplina che la legge detta in genere per le circostanze del reato ed in particolare per le circostanze attenuanti; così, come ogni altra circostanza del reato, le attenuanti generiche dovranno essere applicate secondo lo schema del giudizio bifasico imposto dal 63.1.

Sempre in ragione della loro natura di vere e proprie circostanze del reato, le attenuanti generiche incidono sulla determinazione del tempo necessario per la prescrizione del reato ai sensi del 157.2 e 157.3 e, in caso di concorso con circostanze aggravanti, entrano nel giudizio di bilanciamento delle circostanze eterogenee di cui al 69.

La recidiva, che viene inquadrata dal legislatore tra le circostanze inerenti alla persona del colpevole (70), consta di due elementi: il primo elemento è rappresentato dalla commissione di un reato dopo che il soggetto è stato condannato con sentenza definitiva per un precedente reato (99.1).

È necessario che la commissione del primo reato sia stata accertata con una sentenza di condanna passata in giudicato, ed il giudicato si dev’essere formato prima della commissione del nuovo reato.

È irrilevante che alla condanna sia seguita l’esecuzione, totale o parziale, della pena.

Il nuovo reato deve, in secondo luogo, denotare insensibilità all’ammonimento derivante dalla precedente condanna ed un’accentuata capacità a delinquere, il che non si verifica, secondo la Cassazione, quando il nuovo reato tragga origine da situazioni contingenti ed eccezionali, o sia stato commesso dopo un lungo intervallo di tempo dal reato precedente, od abbia natura radicalmente diversa da quest’ultimo.

Perché la commissione del nuovo reato possa denotare insensibilità all’ammonimento, è necessario, in deroga alla disciplina generale dell’imputazione delle circostanze aggravanti (59.2), che l’agente sia a conoscenza di quella condanna.

L’accertamento del secondo elemento della recidiva è affidato alla discrezionalità del giudice: in questo senso si parla comunemente di facoltatività della recidiva.

Per univoca indicazione legislativa (70.1 n. 2 e 70.2) la recidiva è una circostanza aggravante soggettiva del reato, inerente alla persona del colpevole; come ogni altra circostanza, la recidiva partecipa al giudizio di bilanciamento: lo sottolinea il 69.4 pt. I.

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Ai sensi del 118 la recidiva è una di quelle circostanze soggettive che non si comunicano ai concorrenti nel reato.

In relazione alle diverse forme di recidiva previste dal 99, la dottrina parla di recidiva semplice, recidiva aggravata e recidiva reiterata.

La recidiva semplice (99.1) si ha quando, dopo aver riportato condanna per un reato, l’agente ne commette un altro, di qualsiasi specie e gravità, ad oltre cinque anni dalla condanna precedente: in tal caso il giudice, qualora ravvisi nel caso concreto il secondo requisito della recidiva, sulla pena che infliggerebbe per il reato semplice opera un aumento fino ad un sesto.

Si parla di recidiva aggravata (99.2), ed essa comporta l’aumento fino ad un terzo della pena che il giudice infliggerebbe per il reato semplice, in tre ipotesi:

  se il nuovo reato è della stessa indole di quello precedente (recidiva specifica);

  se il nuovo reato è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente (recidiva infraquinquennale);

   se il nuovo reato è stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, o durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena.

Ove concorrano più circostanze fra quelle ora enunciate, l’aumento di pena può essere fino alla metà.

A norma del 101, reati della stessa indole sono non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pure essendo preveduti da disposizioni diverse […], nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinano, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni.

Spesso la giurisprudenza considera reati della stessa indole quelli che sono sorretti dallo stesso motivo e in concreto ledono o pongono in pericolo beni giuridici omogenei.

Anche la recidiva aggravata, in tutte le sue ipotesi, ha carattere facoltativo, nel senso che il giudice deve sempre accertare nel caso concreto la sussistenza di un’accentuata colpevolezza e capacità a delinquere.

Può aversi la recidiva reiterata (anche in questa forma la recidiva è facoltativa) quando chi è già recidivo commetta un nuovo reato (99.4); non basta che il soggetto potesse essere considerato recidivo, se non lo è stato in concreto.

Ai fini della recidiva reiterata rileva anche una precedente condanna nella quale l’aumento di pena disposto dal giudice per la recidiva sia stato in concreto neutralizzato nell’ambito del giudizio di bilanciamento delle circostanze.

La misura dell’aumento di pena per la recidiva reiterata varia a seconda della forma di recidiva ritenuta nella prima condanna: se si tratta di recidiva semplice, l’aumento può essere fino alla metà; se di recidiva specifica o di recidiva infraquinquennale, l’aumento può essere fino a due terzi; se si tratta di recidiva correlata all’esecuzione della pena (ex 99.2 n. 3), l’aumento può essere da un terzo a due terzi.

L’aumento di pena è sottoposto ad un limite massimo, segnato dal cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo reato (99.5).

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Ulteriori effetti della recidiva – circoscritti alla recidiva aggravata ed a quella reiterata – riguardano alcune cause estintive del reato e della pena.

In caso di recidiva aggravata o reiterata non s’applicano l’amnistia (151.5), l’indulto (174.3) e la prescrizione della pena (172.7), mentre la liberazione condizionale (176.2) e la riabilitazione (179.2) sono sottoposte a condizioni più restrittive di quelle ordinarie.

In caso di recidiva reiterata, infine, non è ammessa l’oblazione discrezionale (162 bis comma 3).

Altre circostanze inerenti alla persona del colpevole sono quelle che riguardano l’imputabilità (70.2): si tratta sia di circostanze attenuanti, sia di circostanze aggravanti, e tutte ad efficacia comune, comportando rispettivamente una diminuzione od un aumento fino ad un terzo della pena che dovrebbe essere inflitta per il reato semplice.

Al pari di ogni altra circostanza, anche quelle che riguardano l’imputabilità partecipano al giudizio di bilanciamento ai sensi del 69.

È prevista una circostanza attenuante per chi, nel momento in cui ha commesso il fatto:

  era affetto da vizio parziale di mente (89);

  era affetto da sordomutismo, quando il sordomutismo comporti una capacità di intendere o di volere grandemente scemata (96),

   aveva un’età compresa fra quattordici e diciotto anni, ed è stato riconosciuto imputabile (98.1);

   si trovava in stato di ubriachezza o sotto l’azione di sostanze stupefacenti derivate da caso fortuito o da forza maggiore, e tali da scemare grandemente la capacità di intendere o di volere (91.2 e 93);

   era affetto da cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti tali da scemare grandemente la capacità di intendere o di volere (95 ed 89).

È prevista una circostanza aggravante per chi, nel momento in cui ha commesso il fatto:

  si trovava in stato di ubriachezza o sotto l’azione di stupefacenti preordinate al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa (92.2 e 93);

  si trovava in stato di ubriachezza abituale (94.1 e 94.2) od era dedito all’uso di sostanze stupefacenti (94.3).

CAPITOLO XIII – LE PENE: TIPOLOGIA, COMMISURAZIONE, ESECUZIONE, ESTINZIONEAll’interno della categoria delle pene, nella legislazione italiana – dentro e fuori il codice penale – si possono individuare quattro sottocategorie: pene principali; pene sostitutive delle pene detentive; pene derivanti dalla conversione delle pene pecuniarie; pene accessorie.

A queste classi di pene s’aggiunge una serie di altre conseguenze giuridiche della condanna, che il legislatore designa non come pene, ma come effetti penali della condanna.

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Pene principali sono l’ergastolo, la reclusione, la multa, l’arresto e l’ammenda (17), alle quali si aggiungeva la pena di morte, eliminata anche nel diritto penale militare di guerra nel 1994; ulteriori pene principali sono, per i reati militari, la reclusione militare (22 c.p.m.p.) e, per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità (art. 52 d.lgs. 274/2000).

Una spinta verso l’abolizione della pena di morte negli ordinamenti dei Paesi europei è venuta dal VI Protocollo alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo (1983, ratificato dall’Italia nel 1989), che prevedeva la possibilità di conservare la pena di morte nel solo tempo di guerra o di imminente pericolo di guerra, nonché, da ultimo, dal XIII Protocollo alla stessa Convenzione, sottoscritto a Vilnius il 3-5-2002 dai ministri degli esteri degli Stati membri del Consiglio d’Europa, che si impegnano – una volta ratificato il documento – ad abolire totalmente la pena di morte.

Cesare Beccaria, contestando l’utilità (cioè l’efficacia generalpreventiva) della pena di morte, osservava che meglio di una pena terribile ma istantanea agisce come deterrente una pena che duri nel tempo (e sottolineava che l’uomo tende a rimuovere l’idea della morte come cosa che riguarda solo gli altri”); metteva in evidenza come la morte possa suscitare – anziché salutare terrore – compassione per il condannato, e facilmente generi la percezione d’una giustizia ingiusta, crudele e dispotica; aggiungeva che la minaccia della pena di morte, lungi dal sensibilizzare al rispetto del bene della vita, lo svaluta, per l’intrinseca contraddizione che intercorre tra il divieto d’uccidere e la minaccia della pena di morte; infine, metteva in guardia contro il pericolo che la pena di morte – pena irreparabile per eccellenza – venisse inflitta nei confronti di un innocente.

Le pene principali si caratterizzano per essere inflitte dal giudice con la sentenza di condanna (20); esse, ad eccezione di quelle previste per i reati di competenza del giudice di pace, assolvono alla funzione di identificare i reati, distinguendoli da ogni altra categoria di illeciti.

Descrivendo la tipologia delle pene principali, il legislatore fornisce il criterio per distinguere tra delitti e contravvenzioni (17 e 39): l’ergastolo, la reclusione e la multa sono le pene principali per i delitti, l’arresto e l’ammenda per le contravvenzioni.

Quanto al bene sul quale incidono – libertà personale o patrimonio – si distingue tra pene detentive o restrittive della libertà personale (ergastolo, reclusione, arresto e reclusione militare) e pene pecuniarie (multa ed ammenda): questa classificazione, per le pene previste dal codice penale, sta nel 18.

Sul bene “libertà personale” incidono anche le nuove pene principali della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità: sono pene solo limitative, e non privative, della libertà personale.

L’ergastolo è previsto per alcuni delitti contro la personalità dello Stato, contro l’incolumità pubblica e contro la vita; il suo ambito di applicazione s’è dilatato per effetto della progressiva sostituzione alla pena di morte.

In caso di concorso di reati, ex art. 73.2, l’ergastolo si applica anche quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni.

Secondo il disposto del 22, la pena dell’ergastolo è perpetua.

Il 176.3 prevede per il condannato all’ergastolo la possibilità di essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena, ma questo termine può essere ulteriormente abbreviato per effetto delle riduzioni di pena (quarantacinque giorni per ogni semestre di pena scontata) previste dal 54 ord. penit. quale riconoscimento della partecipazione prestata dal condannato all’opera di rieducazione.

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La riforma penitenziaria del 1986 ha consentito che il condannato all’ergastolo possa essere ammesso, dopo l’espiazione di almeno dieci anni di pena, ai permessi premio, nonché, dopo vent’anni, alla semilibertà.

Anche nel computo di questi termini si terrà conto, ex 54.4 ord. penit., delle eventuali riduzioni di pena.

Per quanto riguarda il lavoro da prestarsi da parte del condannato all’ergastolo, il 22 ne sottolinea innanzitutto il carattere obbligatorio.

Quanto al lavoro all’esterno (lavoro che si svolge fuori dell’istituto di pena, alle dipendenze di imprese pubbliche o private, o nell’ambito di attività organizzate dalla stessa amministrazione penitenziaria, od anche sotto forma di lavoro autonomo), il condannato all’ergastolo vi può essere ammesso solo dopo che abbia scontato almeno dieci anni di pena (21.1 ord. penit.).

Dopo la riforma penitenziaria del 1975, gli stabilimenti destinati all’esecuzione della pena, ai quali fa riferimento il 22, non sono più gli “ergastoli”, ma le “case di reclusione”.

L’ergastolo è da tempo oggetto di seri dubbi di legittimità costituzionale: identificandosi il concetto costituzionale di rieducazione con la restituzione al condannato dell’idoneità a vivere nell’ambiente sociale, una pena che, per il suo carattere di perpetuità, escluderebbe a priori il ritorno del condannato nella società sembra urtare contro il principio sancito nel 27.3 Cost.

La Corte Costituzionale ha però ripetutamente respinto questioni di legittimità di questo tenore, sulla base di un duplice ordine di considerazioni: da un lato, negando che funzione e fine della pena sia il solo riadattamento dei delinquenti, dall’altro rilevando che l’istituto della liberazione condizionale consente il reinserimento dell’ergastolano nel consorzio civile.

Reclusione (23) ed arresto (25) sono le pene detentive temporanee, previste rispettivamente per i delitti e per le contravvenzioni.

Vige il principio della separazione dei condannati alla reclusione dai condannati all’arresto, sancito nel 23.2 e 25.1 c.p. e nel 14.3 ord. penit.: in attuazione di questo principio il 61 ord. penit. distingue gli istituti per l’esecuzione delle pene in case di arresto e case di reclusione, ma questa differenza si annulla nella realtà, poiché le due pene, a causa del sovraffollamento, si scontano negli stessi stabilimenti.

Le pene della reclusione e dell’arresto, secondo il 23.1 ed il 25.1 c.p., hanno limiti minimi e massimi diversi: la reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro anni, l’arresto si estende da cinque giorni a tre anni; questi minimi e massimi non vincolano il legislatore, che rimane libero di prevedere minimi più bassi o massimi più elevati per singole figure di reato (la comminatoria della reclusione in misura superiore a ventiquattro anni non è rara nella legislazione dell’emergenza, emanata tra gli anni ’70 ed ’80 per fronteggiare gravi forme di criminalità comune e politica).

La previsione di limiti minimi e massimi per la reclusione e per l’arresto ha la funzione di integrare le comminatorie indeterminate di pena contenute nelle norme incriminatrici.

Gli artt. 23.1 e 25.1 fissano poi dei limiti invalicabili dal giudice in sede di commisurazione della pena (se non in presenza di una deroga espressa stabilita dallo stesso legislatore: 132.2).

Nei casi espressamente determinati dalla legge (132.2), in cui, in deroga al 23, è consentito al giudice superare il massimo di ventiquattro anni, la reclusione non può comunque eccedere i trent’anni; nei casi in cui è esplicitamente consentito al giudice superare il limite massimo di tre anni, l’arresto può arrivare fino a cinque anni – per concorso di più aggravanti – (66.1 n. 2), o fino a sei anni – nelle ipotesi di concorso di reati – (78.1 n. 2).

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Nel 2000 il legislatore (d.lgs. 274/2000) ha attribuito al giudice di pace al competenza relativa ad una serie di reati previsti nel codice penale od in leggi speciali: tra l’altro, la guida in stato di ebbrezza, le percosse, le lesioni dolose lievi, alcune ipotesi di lesioni colpose lievi, l’omissione di soccorso semplice, l’ingiuria, la diffamazione (purché non commessa col mezzo della stampa), la minaccia semplice ed il danneggiamento.

Al catalogo contenuto nel 17 vanno aggiunge le nuove pene principali della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità: esse sono applicabili indifferentemente ai delitti ed alle contravvenzioni.

La pena della permanenza domiciliare (art. 53 d.lgs. 274/2000) comporta l’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza; è una pena che si esegue normalmente nei giorni di sabato e domenica, ma su richiesta del condannato può essere scontata continuativamente ed ha una durata compresa fra sei e quarantacinque giorni; all’obbligo di rimanere presso l’abitazione può aggiungersi il divieto di accedere a specifici luoghi nei giorni in cui il condannato non è obbligato alla permanenza domiciliare.

Il lavoro di pubblica utilità (art. 54 d.lgs. 274/2000) consiste nella prestazione di attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato; è applicabile esclusivamente su richiesta dell’imputato.

Quando l’imputato chiede che gli venga applicato il lavoro di pubblica utilità, si instaura un processo di irrogazione della pena bifasico, che comporta per il giudice di pace, oltre alle funzioni proprie del giudice di cognizione, anche ampi poteri in tema di modalità esecutive della sanzione, all’interno di previsioni dettate dal Ministro della giustizia.

La norma, in base al suo tenore letterale (“se ritiene di poter applicare”), conferisce al giudice un potere discrezionale.

Multa (24) ed ammenda (26) sono i due nomi coi quali il legislatore indica la sanzione penale pecuniaria, distinguendola dalla sanzione amministrativa di analogo contenuto.

La sfera di applicazione della multa e dell’ammenda s’è ridotta a favore della sanzione pecuniaria amministrativa, soprattutto per effetto della depenalizzazione, cioè della trasformazione in illeciti amministrativi, di una gamma sempre più vasta di delitti e di contravvenzioni.

Se la pena pecuniaria è inidonea a risocializzare il condannato, appare però in grado di propiziare la rieducazione, nella forma dell’intimidazione-ammonimento; il 133 bis comma 2 prevede che il giudice possa aumentare la multa o l’ammenda stabilite dalla legge sino al triplo […] quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace.

A norma del 17 la multa è la pena pecuniaria per i delitti, l’ammenda è la pena pecuniaria per le contravvenzioni: la presenza nell’ordinamento di due tipi di pena pecuniaria, di identico contenuto, serve solo a qualificare l’illecito come delitto o come contravvenzione.

A norma del 24.1, la multa può spaziare da un minimo di 5 euro ad un massimo di 5.164 euro, mentre il 26.1 prevede per l’ammenda un minimo di 2 euro ed un massimo di 1.032 euro.

Al pari delle corrispondenti disposizioni relative alla reclusione ed all’arresto (23.1 e 25.1), le disposizioni degli artt. 24.1 e 26.1 valgono ad integrare eventuali comminatorie indeterminate nel minimo o nel massimo, nonché comminatorie indeterminate nel minimo e nel massimo; impongono poi al giudice limiti invalicabili in sede di commisurazione della pena.

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Il minimo ed il massimo stabiliti dagli artt. 24.1 e 26.1 possono essere derogati dal giudice, a norma del 132.2, nei soli casi espressamente determinati dalla legge.

I limiti minimi e massimi fissati dal codice penale per la multa e per l’ammenda non vincolano il legislatore.

Il 24.2 dispone che per i delitti determinati da motivi di lucro, se la legge stabilisce soltanto la pena della reclusione, il giudice può aggiungere la multa da euro 5 a euro 2.065.

Secondo l’opinione prevalente in dottrina, i motivi di lucro ex 24.2 al pari delle condizioni economiche di cui al 133 bis comma 2 – non integrano una vera e propria circostanza aggravante, e di conseguenza non partecipano al giudizio di bilanciamento ex 69, né devono essere contestati in giudizio.

La multa e l’ammenda possono essere pagate in rate mensili, e questa facilitazione può essere accordata dal giudice in relazione alle condizioni economiche del condannato (133 ter).

Il rateizzo della pena pecuniaria potrà essere accordato sia a chi si trovi in temporanee difficoltà di pagamento – anche all’abbiente in temporanea crisi di liquidità a fronte di una pena pecuniaria particolarmente elevata – sia al non abbiente.

Il provvedimento può essere adottato non solo in situazioni di totale impossibilità di pagare in un’unica soluzione, ma anche in situazioni in cui il mancato frazionamento renderebbe la pena eccessivamente gravosa.

Per espressa indicazione legislativa, le rate hanno cadenza mensile, il loro numero dev’essere compreso fra tre e trenta e l’ammontare di ciascuna rata non può essere inferiore a quindici euro.

Nel caso in cui l’ammontare della multa o dell’ammenda sia inferiore a quarantacinque euro, il 133 ter comma 1 pt. II (ciascuna rata […] non può essere inferiore a euro quindici), combinandosi col disposto della prima parte della stessa norma, che non consente un numero di rate inferiore a tre, esclude la possibilità di rateizzare la pena pecuniaria.

In ogni tempo il condannato può estinguere la pena con un unico pagamento (133 ter comma 2).

Sono presenti nell’ordinamento anche pene pecuniarie fisse e pene pecuniarie proporzionali: pene pecuniarie fisse sono quelle indicate dalla legge, nella singola norma incriminatrice, in una misura unica, espressa in termini puntuali; le pene pecuniarie proporzionali si dividono in due sottotipi:

  si parla di pene proporzionali proprie (o a proporzionalità costante) ogni volta che il legislatore stabilisce un coefficiente fisso od articolato fra un minimo ed un massimo, edittalmente prefissato (es.: “il doppio”);

  si indicano come pene proporzionali improprie (o pene a proporzionalità progressiva, od eventualmente proporzionali) le sanzioni caratterizzate da uno schema nel quale la base del calcolo di proporzionalità è fissa, o determinabile dal giudice tra un minimo ed un massimo prefissati ex lege, mentre la fattispecie concreta ha la funzione di individuare il coefficiente di moltiplicazione della pena-base stabilita dalla legge.

A norma del 27, le pene pecuniarie fisse e proporzionali non soggiacciono ai limiti massimi generali, individuati negli artt. 24 e 26.

Problema connaturato alla pena pecuniaria è quello dell’insolvibilità del condannato; per risolvere questo problema l’ordinamento italiano prevede l’istituto della conversione della pena pecuniaria, il

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codice del 1930 (art. 136) prevedeva che la pena pecuniaria ineseguita per insolvibilità del condannato si convertisse nella pena detentiva della specie corrispondente (reclusione od arresto).

A partire dal 1981 pene da conversione della pena pecuniaria sono non più la reclusione e l’arresto, ma la libertà controllata ed il lavoro sostitutivo; a norma dell’art. 102 della legge 689/1981, venticinque euro di pena pecuniaria si convertono, su richiesta del condannato, in un giorno di lavoro sostitutivo, mentre trentotto euro di pena pecuniaria si convertono in un giorno di libertà controllata.

L’articolo 103 della stessa legge fissa limiti massimi di durata per le sanzioni da conversione: la durata della libertà controllata non può eccedere un anno e sei mesi, se la pena convertita è quella della multa, né può eccedere i nove mesi se la pena convertita è quella dell’ammenda; la durata del lavoro sostitutivo non può superare in ogni caso i sessanta giorni.

Il provvedimento di conversione della pena pecuniaria è adottato, a sensi del 660, dal magistrato di sorveglianza.

In caso di violazione delle prescrizioni inerenti alla libertà controllata od al lavoro sostitutivo, la parte residua di tali pene si converte ulteriormente (conversione di secondo grado) in un eguale periodo di reclusione od arresto (art. 108 della stessa legge).

A norma dell’art. 105 della legge 689/1981, il lavoro sostitutivo consiste nella prestazione di un’attività non retribuita, a favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, o presso enti, organizzazioni o corpi di assistenza, di istruzione, di protezione civile e di tutela dell’ambiente naturale o di incremento del patrimonio forestale, previa stipulazione, ove occorre, di speciali convenzioni da parte del Ministero della giustizia, che può delegare il magistrato di sorveglianza. Tale attività si svolge nell’ambito della provincia in cui il condannato ha la residenza, per una giornata lavorativa per settimana, salvo che il condannato chieda di essere ammesso ad una maggiore frequenza settimanale.

La gratuità assicura al lavoro sostitutivo la massima omogeneità con la pena pecuniaria originariamente inflitta; stabilendo che il lavoro debba svolgersi nella provincia in cui il condannato ha la residenza e, almeno di regola, per un giorno alla settimana (normalmente un giorno festivo, trattandosi di soggetti occupati), il legislatore si è preoccupato di contenere il più possibile gli effetti di desocializzazione nei confronti del condannato.

Per i reati di competenza del giudice di pace, la conversione della pena pecuniaria è oggetto di una disciplina peculiare; in primo luogo, accanto al lavoro sostitutivo, come pena da conversione è prevista la permanenza domiciliare.

Se in sede di conversione della pena pecuniaria viene applicato il lavoro sostitutivo ed il condannato non ottempera ai relativi obblighi, la parte residua di lavoro sostitutivo si converte in permanenza domiciliare (conversione di secondo grado ex 55.4 d.lgs. 274/2000).

La violazione degli obblighi inerenti alla permanenza domiciliare integra un’autonoma figura di delitto, punito con la pena della reclusione (56.1 d.lgs. 274/2000).

Competente a disporre la conversione non è il magistrato di sorveglianza, ma lo stesso giudice di pace.

A norma del 135, quando, per qualsiasi effetto giuridico, si deve eseguire un ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando trentotto euro, o frazione di trentotto euro, di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva.

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Nel 1979 è stato soppresso l’istituto della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva; è stato poi introdotto un istituto simmetrico alla conversione della pena pecuniaria in pena detentiva: la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria.

Rinvii espressi al 135 sono contenuti negli artt. 163 e 175.2, in tema di sospensione condizionale della pena e di non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale: per decidere dell’applicabilità dei due istituti in caso di condanna alla multa o all’ammenda, si deve procedere al ragguaglio ex 135, sia quando la pena pecuniaria venga inflitta congiuntamente alla pena detentiva, sia quando venga inflitta da sola.

Casi ulteriori in cui deve eseguirsi un ragguaglio ai sensi di quella norma fra pena pecuniaria e pena detentiva sono poi delineati nel 37 (quando, essendo inflitta come pena principale una multa od un’ammenda, si debba quantificare una pena accessoria temporanea la cui durata non sia espressamente determinata dalla legge) e nel 137 (quando, pronunciandosi condanna a pena pecuniaria, si debba detrarre un periodo di custodia cautelare sofferta dal soggetto).

Rientrano poi nella sfera di applicazione del 135 il concorso formale di reati ed il reato continuato.

Almeno dalla fine dell’800 si ha consapevolezza degli effetti criminogeni delle pene detentive brevi.

S’è attribuita al giudice la facoltà di sospendere per un certo lasso di tempo l’esecuzione della pena inflitta senza sottoporre il condannato ad obblighi o divieti né a controlli di sorta (nel nostro ordinamento si tratta dell’istituto della sospensione condizionale della pena, introdotto nel 1904); in tempi diversi sono stati creati istituti sospensivi dell’esecuzione della pena detentiva breve accompagnati da forme più o meno intense di controllo in libertà.

Nell’ordinamento italiano questo modello s’è tradotto, con la riforma penitenziaria del 1975, nell’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale, al quale sono state affiancate altre tipologie di misure alternative alla detenzione (detenzione domiciliare e semilibertà).

In terzo luogo, i legislatori di vari paesi hanno previsto una più o meno ampia facoltà per il giudice di sostituire la pena detentiva comminata nelle norme incriminatrici con una pena pecuniaria; la peculiarità del nostro ordinamento consiste nell’aver previsto una più ampia gamma di pene sostitutive, affiancando alla pena pecuniaria due tipi di pena sconosciuti al panorama internazionale: la semidetenzione e la libertà controllata.

La categoria delle pene sostitutive delle pene detentive fa la sua comparsa nel nostro ordinamento con la legge 689/1981: a norma del suo art. 53, il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna, quando ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di due anni, può sostituire tale pena con quella della semidetenzione; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di un anno, può sostituirla anche con la libertà controllata; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di sei mesi, può sostituirla altresì con la pena pecuniaria della specie corrispondente.

Pene sostitutive delle pene detentive brevi sono dunque, accanto alla multa ed all’ammenda (sostitutive delle pene detentive fino a sei mesi), la libertà controllata e la semidetenzione (sostitutive, rispettivamente, della pena detentiva fino ad un anno e fino a due anni).

Diversi limiti di pena concreta per la sostituzione sono previsti in relazione alle ipotesi di concorso di reati; si ricava dal 53.4 della legge 689/1981 che nei casi di concorso formale di reati e di reato continuato i limiti previsti nel primo comma sono triplicati: la pena pecuniaria potrà sostituire pene detentive fino ad un anno e mezzo, la libertà controllata pene detentive fino a tre anni e la semidetenzione pene detentive fino a sei anni; l’unica condizione perché possa procedersi alla

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sostituzione è che la pena che il giudice ritiene di dover infliggere per il reato più grave rientri nei limiti previsti nell’art. 53 della legge 689/1981.

Sullodata legge all’art. 59 prevede alcuni limiti soggettivi all’applicabilità delle pene sostitutive: esclude dalla sostituzione chi è stato condannato ad oltre tre anni di reclusione nei cinque anni precedenti alla nuova condanna.

Nel processo minorile, il giudice, quando ritiene di dover applicare una pena detentiva non superiore a due anni, può sostituirla con la sanzione della semidetenzione o della libertà controllata, tenuto conto della personalità e delle esigenze di lavoro o di studio del minorenne nonché delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali (art. 30 d.P.R. 448/1988).

La semidetenzione si configura come una misura privativa pro tempore della libertà personale: comporta in ogni caso l’obbligo di trascorrere almeno dieci ore al giorno in un apposito istituto penitenziario.

A questo nucleo s’aggiungono alcune componenti accessorie: la sospensione della patente di guida, il ritiro del passaporto e la sospensione della validità degli altri documenti utilizzabili per l’espatrio, il divieto assoluto di detenere armi, munizioni ed esplosivi, l’obbligo di conservare e si esibire a richiesta della polizia l’ordinanza che determina le modalità di esecuzione della pena.

L’essenza della libertà controllata (art. 56 legge 689/1981) risiede invece in una limitazione della libertà di circolazione del soggetto: tale sanzione comporta infatti in ogni caso – oltre agli stessi obblighi e divieti ricompresi anche tra le componenti accessorie della semidetenzione – il divieto di allontanarsi dal comune di residenza e l’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno […] presso il locale ufficio di pubblica sicurezza.

A norma del 57.1 e 57.2 della legge 689/1981, per ogni effetto giuridico la semidetenzione e la libertà controllata si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita. La pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva.

Dai due articoli si ricava anche la sospendibilità (ex 163 ss.) delle pene sostitutive sia applicate d’ufficio sia applicate su richiesta delle parti a norma del 444 c.p.p., nell’ambito del patteggiamento.

La tipologia delle pene sostitutive è stata ampliata ad opera del d.lgs. 286/1988, che, all’art. 16, ha previsto quale sanzione sostitutiva della detenzione l’espulsione dello straniero; questa forma di espulsione coesiste nel sistema delle sanzioni penali con quella contemplata nel codice penale quale misura di sicurezza personale non detentiva (215.3 n. 4 e 235).

Le pene sostitutive, al pari delle pene principali, sono inflitte dal giudice nella sentenza di condanna (o nella sentenza di patteggiamento, equiparata alla pronuncia di condanna ai sensi del 445.1 c.p.p.).

A proposito del potere discrezionale del giudice nella sostituzione della pena detentiva, il 58.1 della legge 689/1981 dispone che il giudice, nei limiti fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati nell’articolo 133 del codice penale, può sostituire la pena detentiva e tra le pene sostitutive sceglie quella più idonea al reinserimento sociale del condannato.

Quando il giudice ritenga di dover determinare la pena detentiva entro il limite di sei mesi, può sostituirla sia con la pena pecuniaria, sia con la libertà controllata, sia con la semidetenzione; quando il giudice ritenga di dover determinare la pena detentiva entro il limite di un anno, può sostituirla sia con la libertà controllata, sia con la semidetenzione; solo nell’ipotesi in cui la pena detentiva, in concreto, abbia un ammontare compreso fra un anno e un giorno e due anni, la sostituzione dovrà essere operata con la semidetenzione.

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Tra i criteri sui quali il giudice può fondarsi nell’esercizio della discrezionalità ex art. 58 della legge 689/1981 non possono annoverarsi considerazioni di prevenzione generale.

Il secondo comma dello stesso articolo preclude al giudice la sostituzione della pena detentiva quando vi sia motivo di ritenere che le prescrizioni inerenti alla sanzione sostitutiva rimarrebbero inadempiute.

L’ultimo comma del considerato articolo dice che il giudice deve in ogni caso specificamente indicare i motivi che giustificano la scelta del tipo di pena erogata.

Quanto ai criteri di ragguaglio tra pene detentive e pene sostitutive, un giorno di reclusione o di arresto equivale a un giorno di semidetenzione o a due giorni di libertà controllata; quando invece la pena detentiva venga sostituita con la pena pecuniaria, il giudice deve in primo luogo determinare la somma giornaliera, compresa fra un minimo di 38 euro ed un massimo di 380, il cui pagamento può essere imposto all’imputato, tenendo conto della condizione economica complessiva di quest’ultimo e del suo nucleo familiare; in secondo luogo, tale somma dev’essere moltiplicata per il numero dei giorni di pena detentiva inflitta.

Nei casi in cui la pena detentiva sia stata sostituita con la semidetenzione o con la libertà controllata, la sostituzione è soggetta a revoca, con conversione della parte residua di pena nell’originaria pena detentiva sostituita.

La revoca può essere disposta quando siano state violate una o più prescrizioni inerenti alla pena sostitutiva, nonché in una serie di casi in cui sopravvenga una nuova condanna a pena detentiva per un altro reato, commesso prima o dopo la condanna con la quale è stata applicata la pena sostitutiva.

Quando la pena detentiva sia stata sostituita con la pena pecuniaria, il mancato pagamento della somma dovuta per insolvibilità del condannato comporta non il ritorno alla pena detentiva sostituita, bensì la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata od in lavoro sostitutivo, ai sensi del 136.

Un presidio ad hoc è predisposto per i casi in cui la sostituzione della pena detentiva (con qualsiasi tipo di pena sostitutiva) venga disposta in sede di patteggiamento (444 ss. c.p.p.): colui che viola gli obblighi inerenti alla pena sostitutiva integra un’autonoma figura di delitto, punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Le pene accessorie si caratterizzano per potersi applicare solo in aggiunta ad una pena principale: non possono che accedere ad una pena principale.

Un elenco di pene accessorie è fornito dal 19, dove si distingue tra pene accessorie per i delitti (l’interdizione dai pubblici uffici; l’interdizione da una professione o da un’arte; l’interdizione legale; l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione; l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro; la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori), pene accessorie per le contravvenzioni (la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte e la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese) ed un’unica specie di pena accessoria comune ai delitti ed alle contravvenzioni (la pubblicazione della sentenza penale di condanna); tale elenco non ha carattere tassativo: diverse pene accessorie sono contemplate nella legislazione speciale e nello stesso codice penale.

La maggioranza delle pene accessorie ha contenuto interdittivo: comportano il divieto di svolgere determinate attività, di rivestire determinati uffici, di esercitare facoltà o diritti, o, ancora, comportano la cessazione di alcuni rapporti.

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Quanto alle modalità di applicazione, le pene accessorie di regola conseguono di diritto alla condanna (20), senza che sia necessaria un’espressa dichiarazione in sentenza.

Oltre che ad una sentenza di condanna, le pene accessorie possono conseguire anche ad una sentenza di patteggiamento (444 c.p.p.), purché la pena principale irrogata sia una pena detentiva superiore a due anni; al di sotto di tale limite, la sentenza di patteggiamento non comporta l’applicazione di pene accessorie (445.1 c.p.p.).

Esistono alcune pene accessorie che comportano un margine di discrezionalità per il giudice in relazione: all’applicazione stessa della pena accessoria, alla sua durata ed alle sue modalità esecutive.

Quando la pena accessoria sia integralmente predeterminata dalla legge, in mancanza di una statuizione espressa nella sentenza di condanna può essere applicata dal giudice dell’esecuzione, su richiesta del p.m. (183 disp. att. c.p.p.).

Nel caso in cui con la sentenza di condanna o con la sentenza di patteggiamento sia applicata la sospensione condizionale della pena, oltre all’esecuzione della pena principale è sospesa anche l’esecuzione della pena accessoria (166.1).

Le pene accessorie possono essere perpetue o temporanee: in quest’ultimo caso la loro durata può essere espressamente determinata dalla legge o, se la legge tace, pari a quella della pena principale inflitta, secondo il principio di equivalenza (37).

Ove la pena principale inflitta sia la multa o l’ammenda, la durata della pena accessoria si determina ragguagliando la pena pecuniaria alla corrispondente pena detentiva secondo i criteri di cui al 135 (38 euro di pena pecuniaria equivalgono ad un giorno di pena detentiva).

In ogni caso la durata della pena accessoria temporanea determinata secondo il principio di equivalenza non può superare i limiti minimo e massimo stabiliti dalla legge per ogni tipo di pena accessoria.

In base al 139, nel computo delle pene accessorie temporanee non si tien conto del tempo in cui il condannato sconta la pena detentiva, o è sottoposto a misura di sicurezza detentiva, né del tempo in cui egli si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena o della misura di sicurezza.

Questa regola conosce alcune eccezioni: è il caso dell’interdizione legale e quello della sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori, che si eseguono durante l’esecuzione della pena principale (32.3).

Nel caso di concorso di reati dai quali conseguano pene accessorie temporanee, la legge (79) fissa dei limiti massimi di durata per alcune di queste pene: dieci anni per l’interdizione dai pubblici uffici e per l’interdizione da una professione o da un’arte, cinque anni per la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte.

Per garantire effettività agli obblighi ed ai divieti che ineriscono alle pene accessorie, il legislatore ha creato l’autonoma figura delittuosa dell’inosservanza di pene accessorie, punendo con la reclusione da due a sei mesi chi viola quegli obblighi o quei divieti (389).

Un quesito dibattuto in dottrina ed in giurisprudenza verte sull’applicabilità delle pene accessorie – quando siano previste con riferimento ad un determinato titolo di reato – anche in caso di condanna per delitto tentato.

Secondo la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, le pene accessorie possono conseguire sia alla condanna per delitto consumato, sia alla condanna per delitto tentato.

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Singole pene accessorie ex 19:

a. l’interdizione dai pubblici uffici priva il condannato del diritto di elettorato attivo e passivo e di ogni altro diritto politico, degli uffici ricoperti a seguito di nomina od incarico da parte dello Stato od altro ente pubblico e della relativa qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, degli incarichi di tutela di minori od interdetti, di curatela di minori emancipati e di inabilitati, dei gradi e delle dignità accademiche dei titoli cavallereschi, delle decorazioni e delle altre pubbliche insegne onorifiche; l’interdizione può essere perpetua o temporanea (nel qual caso non può avere durata inferiore ad un anno e superiore a cinque); l’interdizione perpetua consegue alla condanna all’ergastolo od alla reclusione non inferiore a cinque anni, nonché alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel delitto o di tendenza a delinquere: l’interdizione temporanea consegue alla condanna alla reclusione non inferiore a tre anni, nel qual caso dura cinque anni, nonché alla condanna per un delitto realizzato con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio;

b.l’interdizione da una professione o da un’arte priva il condannato della capacità d’esercitare, durante l’interdizione, una professione, arte, industria o commercio o mestiere per cui è richiesto uno speciale permesso, abilitazione, autorizzazione o licenza dell’autorità.

Questa pena accessoria consegue alla condanna per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’esercizio di una professione, arte, industria, commercio o mestiere; di regola, la sua durata non può essere inferiore ad un mese né superiore a cinque anni;

c. la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte comporta la temporanea incapacità di esercitare la professione, arte etc. al cui esercizio il condannato era stato autorizzato, o gli preclude la possibilità di ottenere il titolo che lo legittimerebbe ad esercitare quell’attività; a differenza dell’interdizione professionale, non comporta la decadenza dal titolo.

Presupposto di questa pena accessoria è la condanna per una contravvenzione commessa con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla professione, arte etc.; la pena inflitta non dev’essere inferiore ad un anno di arresto e la durata della sospensione dev’essere compresa fra i quindici giorni e i due anni;

d.l’interdizione legale priva il condannato della capacità di agire limitatamente ai diritti patrimoniali: il soggetto può esercitare tali diritti solo con un tutore; questa pena accessoria consegue di diritto alla condanna all’ergastolo od alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni pronunciata per un delitto non colposo; l’interdizione legale si esegue contemporaneamente alla pena principale e ne ha uguale durata;

e. l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese comporta la perdita temporanea della capacità di esercitare uffici direttivi o di rappresentanza delle persone giuridiche e delle imprese; presupposto per l’applicazione di questa pena accessoria è la condanna alla reclusione non inferiore a sei mesi per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio; è applicabile anche al condannato per delitto colposo e la sua durata si determina in base al principio di equivalenza, senza previsione di minimi o massimi;

f.  la sospensione dall’esercizio degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese comporta la sospensione dall’esercizio degli stessi uffici direttivi o di rappresentanza delle persone giuridiche e delle imprese di cui al 32 bis; questa pena accessoria consegue alla condanna all’arresto per contravvenzioni commesse con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio, la durata si determina in base al principio di equivalenza;

g. l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione priva temporaneamente il condannato della capacità di stipulare con la P.A. contratti sia di diritto privato sia di diritto pubblico;

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l’incapacità non s’estende ai contratti che abbiano per oggetto la prestazione di un pubblico servizio.

Presupposto per l’applicazione di questa pena accessoria è la condanna per uno dei delitti compreso in un elenco tassativo fornito dal 32 quater; il delitto dev’essere stato commesso in danno o in vantaggio di un’attività imprenditoriale o comunque in relazione ad essa, destinatario della sanzione può essere sia chi esercita un’attività imprenditoriale, sia il pubblico funzionario; la durata si determina in base al principio di equivalenza;

h. l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego produce la cessazione del rapporto nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici o di enti a prevalente partecipazione pubblica; presuppone la condanna alla reclusione non inferiore a tre anni per i delitti di peculato, concussione o corruzione;

i.   la decadenza dalla potestà dei genitori comporta la perdita definitiva dei poteri conferiti dalla legge ai genitori nei confronti dei figli; essa consegue alla condanna all’ergastolo ed alla condanna per alcuni delitti espressamente individuati dalla legge al 34.1; ha carattere perpetuo;

j.  la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori comporta la perdita temporanea della capacità di esercitare le stesse facoltà e diritti; essa consegue alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni (nel qual caso dura quanto la pena principale), nonché alla condanna per un qualsiasi delitto commesso con abuso della potestà dei genitori (ed ha durata doppia a quella della pena principale);

k.la pubblicazione della sentenza di condanna s’esegue d’ufficio a spese del condannato e per una sola volta – in uno o più giornali designati dal giudice; quando si tratti di sentenza di condanna all’ergastolo, la pena accessoria comporta anche la pubblicazione mediante affissione all’albo del comune in cui è stata pronunciata, in quello in cui il delitto fu commesso ed in quello in cui il condannato aveva l’ultima residenza; è una pena accessoria comune a delitti e contravvenzioni e consegue alla condanna all’ergastolo ed alla condanna per alcuni specifici titoli di reato.

Accanto alle pene, il codice penale fa espresso riferimento agli effetti penali della condanna, come ulteriori conseguenze sanzionatorie che si ricollegano alla pronuncia di una sentenza di condanna: essi sono un genus nel quale s’inquadrano, come species, le pene accessorie; carattere comune all’intera categoria degli effetti penali è il loro prodursi come conseguenze automatiche della condanna.

Rimane aperto il problema della distinzione tra pene accessorie ed altri effetti penali della condanna; non si tratta solo di questioni nominalistiche: gli effetti penali hanno una resistenza superiore alle cause estintive della pena rispetto a quella delle pene accessorie.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione a Sezioni unite, gli effetti penali della condanna si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna: per essere conseguenza che deriva direttamente, ope legis, dalla sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la condanna come necessario presupposto.

Quanto ai rapporti tra pene accessorie ed effetti penali della condanna, sembra di poter dire che le pene accessorie conseguono alla condanna in modo certo ed indefettibile, mentre gli effetti penali danno vita ad uno status che si tradurrà in un effettivo pregiudizio per il condannato solo in via eventuale, a condizione che nei suoi confronti si apra un nuovo procedimento penale, per un altro reato.

Effetti penali della condanna sono conseguenze sanzionatorie automatiche di una sentenza definitiva di condanna, incidenti sulla sfera giuridico-penale del condannato, e la cui operatività è

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subordinata alla commissione di un nuovo reato da parte del condannato e all’instaurarsi di un nuovo procedimento penale.

È del tutto eccezionale nel nostro ordinamento la previsione di pene fisse, integralmente predeterminate dalla legge nella specie e nell’ammontare: di regola esse sono comminate tra un minimo ed un massimo, che individuano la cornice edittale di pena.

Alla pena finale si arriva attraverso un processo che vede protagonista il giudice: il processo si chiama di commisurazione della pena, e si distingue tra commisurazione in senso stretto, che riguarda la determinazione della specie e dell’ammontare della pena all’interno della cornice edittale, e commisurazione in senso lato, che abbraccia tutti gli ulteriori momenti in cui il potere discrezionale del giudice concorre a determinare la pena da eseguirsi in concreto.

La disciplina della commisurazione della pena in senso stretto è contenuta nel codice penale agli artt. 132 e 133, che interessano sia le pene detentive, sia le pene pecuniarie; quanto a queste ultime, la disciplina della commisurazione si completa con la disposizione del 133 bis.

Sia nel testo sia nella rubrica del 132.1 pt. I il legislatore qualifica come discrezionali i poteri del giudice nella commisurazione della pena.

In caso di comminatorie alternative di pena, il giudice applicherà la pena pecuniaria quando il fatto concreto si collochi al di sotto di una soglia media di gravità (ed il suo autore appaia dotato di scarsa capacità a delinquere); all’interno della cornice edittale di pena, punto di partenza per la commisurazione della pena dovrebbe essere il medio edittale, dal quale discostarsi solo in quanto la fattispecie presenti particolari connotazioni, positive o negative.

La tendenza giurisprudenziale a svuotare di contenuti l’obbligo di motivazione sulla misura della pena si manifesta soprattutto nell’uso da parte dei giudici di merito di formule come “pena congrua”, “pena adeguata”, “pena equa”, od in motivazioni che s’esauriscono in un generico ed apodittico richiamo ai criteri del 133.

La Corte di Cassazione considera spesso affermazioni di questo tenore sufficienti a soddisfare l’obbligo posto dal 132.

Secondo la giurisprudenza, l’obbligo di motivazione diventa più incisivo nel giudizio d’appello se l’appellante indica espressamente tra gli elementi non esposti in motivazione, quelli che a suo avviso dovevano portare all’irrogazione di una pena diversa o minore.

La Corte di Cassazione spesso attribuisce contenuti diversi all’obbligo di motivazione ex 132, a seconda dell’entità della pena inflitta in concreto.

Quando la pena viene applicata nel minimo od in misura prossima al minimo, la Corte di Cassazione non solo considera sufficienti le tradizionali formule sintetiche “appare congruo o equo o adeguato”, ma a volte afferma il venir meno dello stesso obbligo di motivazione; quando, invece, il giudice supera in modo vistoso il minimo edittale, è tenuto, secondo la Cassazione, a motivare esplicitamente sulle ragioni che lo hanno determinato a tale conclusione.

Una configurazione dell’obbligo di motivazione ex 132.1 pt. II a seconda del livello sanzionatorio prescelto dal giudice non trova nessun fondamento nella legge.

Il 133 enumera una serie di criteri fattuali di commisurazione, raggruppati all’interno delle categorie generali “gravità del reato” e “capacità a delinquere del colpevole”; tace invece sui criteri finalistici, vale a dire sui fini della pena nel momento dell’irrogazione.

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Secondo il disposto del 133.1, ai fini della commisurazione della pena, in primo luogo, il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta:

1.   dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione;

2.   dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;

3.   dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.

Quanto alla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato,la formula legislativa si riferisce alla gravità dell’offesa (danno o pericolo) prodotta al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, e non all’entità del danno in senso civilistico.

Richiamandosi all’intensità del dolo, il 133.1 n. 3 implicitamente invita il giudice a prendere in considerazione:

  il grado di complessità della deliberazione che ha portato alla condotta illecita, valutato in primo luogo in base al lasso di tempo in cui si è perfezionato il processo volitivo;

  il ruolo che la rappresentazione dell’evento ha avuto nella determinazione ad agire o ad omettere.

Il giudizio sul grado della colpa verterà invece sulla misura in cui il soggetto si è discostato dal modello di comportamento richiesto in generale dall’ordinamento per quel determinato tipo di attività, e si dovrà considerare se una determinata posizione sociale o professionale, od altre caratteristiche individuali, valgano ad indiziare nell’agente particolari capacità, rispetto ad un soggetto medio, nel prevedere e prevenire eventi del tipo verificatosi.

Il 133.2 soggiunge che il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta:

1)   dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;

2)   dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;

3)   dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;

4)   delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.

Il concetto di capacità a delinquere è al centro di un dibattito: secondo alcuni, esso si proietterebbe nel passato, esprimerebbe l’attitudine del soggetto al fatto commesso, mentre secondo altri si proietterebbe nel futuro, esprimendo l’attitudine del soggetto a commettere nuovi reati.

Ai fini del giudizio prognostico di capacità a delinquere, vengono in considerazione i motivi ed il carattere del reo: i motivi a delinquere dovranno essere analizzati sotto il profilo dell’intensità, dell’idoneità a permanere nel tempo, nonché del valore etico-sociale (distinguendosi a seconda che il motivo produca di regola comportamenti socialmente apprezzabili o riprovevoli).

Attraverso il richiamo al carattere del reo, il 133.2 n. 1 invita il giudice ad una valutazione complessiva della personalità dell’agente.

I fattori socio-ambientali di criminogenesi hanno invece ingresso nella commisurazione della pena, e più precisamente nella valutazione della capacità a delinquere, attraverso il criterio delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo, di cui al 133.2 n. 4.

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Tra le condotte susseguenti al reato, l’attenzione di dottrina e giurisprudenza si concentra in particolare sul comportamento processuale dell’imputato.

Il criterio della condotta contemporanea al reato, infine, attribuisce rilevanza a qualsiasi comportamento, diverso dalla condotta tipica, tenuto dal soggetto nel periodo che intercorre fra l’inizio dell’esecuzione e la consumazione del reato, od anche, nei reati permanenti, durante il periodo consumativo.

Nel silenzio della legge, parte della dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono che la pena assolva contemporaneamente, nello stadio dell’irrogazione da parte del giudice, ad una serie di funzioni: retribuzione, prevenzione speciale e prevenzione generale.

L’ordinamento contiene indicazioni vincolanti per il giudice; tali indicazioni si ricavano dalla Costituzione, in particolare dagli artt. 27.3 (le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato), 27.1 (la responsabilità penale è personale) e 3.1 (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge).

Segue da tali principi che il giudice deve assumere la rieducazione come criterio finalistico di commisurazione della pena, entro i limiti della colpevolezza per il singolo fatto concreto, nel rispetto della dignità della persona del condannato e del divieto della responsabilità per fatto altrui.

Poiché il 27.3 Cost. fa spazio alla rieducazione tra i fini della pena anche nello stadio dell’irrogazione giudiziale, tra le possibili interpretazioni della formula codicistica dovrà prevalere quella che, riferendo al futuro il giudizio sulla capacità a delinquere, in attuazione del principio costituzionale chiami il giudice a prendere in considerazione le esigenze di intimidazione-ammonimento del reo, nonché l’opportunità di evitargli inutili rischi di desocializzazione e di aprirgli prospettive di reinserimento nella società.

Un problema tradizionale riguarda i rapporti fra il I ed il II comma del 133, e più in generale la possibilità di individuare un principio d’ordine tra i criteri fattuali di commisurazione della pena indicati dal 133.

Il principio costituzionale di colpevolezza attribuisce una posizione preminente, fra gli indici di gravità del reato, a quelli attinenti la colpevolezza.

La gravità del reato dovrebbe essere valutata dal giudice all’interno dei limiti segnati dalla colpevolezza.

Dal 27.3 Cost. può trarsi un’indicazione a favore dell’esclusiva rilevanza in bonam partem delle considerazioni di prevenzione speciale: considerazioni relative alla capacità a delinquere del reo non potrebbero fondare l’applicazione di pene eccedenti la misura corrispondente alla gravità del fatto colpevole, ma potrebbero solo suggerire l’applicazione di pene inferiori.

Un ulteriore interrogativo verte sulla legittimità di includere la prevenzione generale fra i criteri finalistici di commisurazione della pena.

Accogliendo la tesi della legittimità di considerazioni di prevenzione generale, la Corte ha confermato una motivazione nella quale si faceva riferimento alla necessità di porre un argine all’impressionante ripetersi di alcuni tipi di reato; ha ritenuto sufficiente a legittimare l’applicazione di una pena alquanto superiore al minimo il rilievo che si trattava di reati gravi, compiuti in una forma di delinquenza associata che aveva messo in allarme la popolazione della zona.

Dal principio della dignità dell’uomo (3.1 Cost.) e dal divieto della responsabilità penale per fatto altrui (27.1 Cost.) discende il divieto di ridurre l’uomo a semplice mezzo per il perseguimento di finalità politico-criminali.

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Lo stesso divieto di qualsiasi forma di responsabilità per fatto altrui sarebbe violato da un inasprimento di pena ispirato a considerazioni generalpreventive: così procedendo, infatti, il giudice chiamerebbe il condannato a rispondere della circostanza che altri soggetti abbiano commesso reati dello stesso tipo in numero particolarmente elevato.

Inoltre, non solo la liceità, ma anche l’utilità di una strategia generalpreventiva nella commisurazione della pena è quanto meno dubbia.

Il 133 bis, in aggiunta ai generali criteri della gravità del reato e della capacità a delinquere dell’agente, fa spazio alle condizioni economiche del reo tra i criteri fattuali di commisurazione.

Il 133 bis interessa la commisurazione della multa e dell’ammenda comminate dalla legge come pene principali, e non anche la commisurazione delle pene pecuniarie sostitutive della pena detentiva: per queste ultime, dispone invece il 53.2 della legge 689/1981, nella versione della legge 134/2003, che ha modellato la pena pecuniaria sostitutiva secondo lo schema dei tassi giornalieri.

Nella prassi giurisprudenziale l’adeguamento della pena pecuniaria alle condizioni economiche è rimasto lettera morta, o s’è realizzato in ipotesi marginali.

Il 133 bis non fornisce alcuna definizione delle condizioni economiche del reo, rinunciando ad individuare gli elementi che concorrono a costituirle.

Nessun dubbio che il giudice debba innanzitutto riferirsi al reddito del soggetto al tempo della condanna, prendere in considerazione il patrimonio del reo: in questo senso s’è pronunciata anche la Cassazione.

Tra le componenti passive delle condizioni economiche del reo, il giudice dovrà tener conto delle obbligazioni pecuniarie gravanti sul soggetto, in particolare degli obblighi derivanti da reato, degli obblighi di alimenti nei confronti dei famigliari, dei debiti d’imposta e dei debiti che il soggetto abbia assunto per esigenze essenziali, proprie o del suo nucleo famigliare.

Vi sono poi problemi che riguardano l’accertamento di tali condizioni.

Quanto ai controlli sulle dichiarazioni rese dall’imputato, saranno relativamente agevoli nei confronti dei lavoratori dipendenti e dei soggetti a reddito fisso, mentre per altre categorie ci si potrebbe basare su valutazioni a stima da parte del giudice.

Per quanto riguarda invece le obbligazioni pecuniarie gravanti sul soggetto, l’onere sostanziale di provarne l’esistenza incomberà comunque sull’imputato.

Il 133 bis comma 2 dispone che il giudice può aumentare la multa o l'ammenda stabilita dalla legge sino al triplo o diminuirle sino ad un terzo quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa.

Dovrà considerarsi inefficace una pena che non comporterebbe un apprezzabile sacrificio per il soggetto, ed eccessivamente gravosa una sanzione che comporterebbe un sacrificio intollerabile, e sarebbe quindi avvertita come ingiusta e vessatoria; secondo la Cassazione, perché la pena pecuniaria possa considerarsi eccessivamente gravosa deve ricorrere una situazione di vera e propria impossibilità o di estrema difficoltà a darvi esecuzione.

Si pone il problema se, in applicazione del 133 bis, le condizioni economiche del reo possano rilevare una prima volta nella commisurazione della pena all’interno della cornice edittale ed una seconda volta in sede di aumento o diminuzione a norma del secondo comma: il quesito andrebbe

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risolto in senso negativo: il giudice può tener conto una sola volta delle condizioni economiche del reo.

Per ottenere la riduzione della pena pecuniaria, correlata ad una disagiata situazione economica, la Corte ritiene che gravi sull’imputato l’onere di allegare la relativa documentazione; ai fini della triplicazione del massimo, accolla invece all’accusa l’onere di fornire la prova della consistenza patrimoniale del reo.

A proposito della natura giuridica degli aumenti e delle diminuzioni di pena previsti dal 133 bis comma 2, ci si chiede se la modificazione della pena collegata alle condizioni economiche del reo configuri una circostanza in senso tecnico.

Il problema viene risolto in senso negativo dalla giurisprudenza della Cassazione: ne segue l’estraneità delle condizioni economiche del soggetto al giudizio di bilanciamento delle circostanze, a norma del 69.

Anche secondo la prevalente dottrina le condizioni economiche del reo non integrano una circostanza in senso tecnico, ma rappresentano il criterio per un atipico adeguamento della pena a situazioni particolari in cui il soggetto venga a trovarsi al momento dell’inflizione della multa o dell’ammenda.

Il legislatore esalta a parole il dibattimento come luogo di formazione della prova, ma al tempo stesso predispone congegni atti ad evitarlo, poiché la sua applicazione su larga scala finirebbe per soffocare il funzionamento pratico della nuova giustizia penale.

Il più vistoso stravolgimento dei meccanismi di commisurazione della pena si verifica nell’applicazione della pena su richiesta delle parti (il patteggiamento, 444 ss. c.p.p.); due i problemi che vanno esaminati: la sfera di applicabilità di questo procedimento penale ed il ruolo riservato al giudice rispetto all’accordo sulla pena intervenuto fra le parti.

Quanto alla sfera di applicabilità dell’istituto, essa ricomprende, in primo luogo, tutti i procedimenti nei quali potrebbe essere applicata ex officio una pena sostitutiva: la pena pecuniaria, la libertà controllata od anche la semidetenzione, nel rispetto di tutti (e soli) i limiti fissati dalla legge 689/1981 agli artt. 53 e 59: limiti oggettivi – di pena concreta – e soggettivi.

Inoltre, il patteggiamento può applicarsi ai reati punibili in concreto con una pena pecuniaria, di qualsiasi ammontare.

La richiesta delle parti può infine avere per oggetto l’applicazione di una pena detentiva; per tale ipotesi è previsto un limite quantitativo, il cui rispetto deve verificarsi attraverso il seguente procedimento: su un ammontare di pena prescelto all’interno della cornice edittale si operano gli aumenti o le diminuzioni derivanti dalle eventuali circostanze aggravanti od attenuanti; la pena così determinata dev’essere ulteriormente diminuita fino ad un terzo, secondo il dettato del 444.1 c.p.p.

La Cassazione, con una pronuncia a Sezioni unite, ha chiarito che la formula pena […] diminuita fino ad un terzo va riferita alla quantità di pena che può essere detratta, e non al risultato dell’operazione.

Quanto al ruolo del giudice di fronte alla richiesta presentata dalle parti, egli deve vagliare se non debba pronunciare una sentenza di proscioglimento, sulla base degli atti (444.2); non ricorrendo tale situazione, il giudice verificherà la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell’applicazione delle circostanze e della loro comparazione.

Inoltre, ove sia stata richiesta la sospensione condizionale della pena, vaglierà se tale istituto sia applicabile nel caso concreto.

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Il giudice potrà rigettare la richiesta formulata dalle parti in quanto ritenga scorretta l’applicazione ch’esse hanno operato di circostanze a struttura discrezionale, od in quanto non condivida le conclusioni tratte in sede di bilanciamento delle circostanze, od ancora in quanto non ritenga di poter formulare sull’imputato la prognosi favorevole alla quale il 164.1 subordina l’applicabilità della sospensione condizionale della pena.

Il giudice, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 313/1990, dovrà valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione.

Quando l’accordo tra l’imputato ed il p.m. abbia portato ad un trattamento sanzionatorio incoerente rispetto agli scopi che la Costituzione attribuisce alla pena, il giudice potrà rigettare la richiesta avanzata dalle parti e disporre che si proceda secondo il rito ordinario.

La riduzione di pena fino ad un terzo, prevista dal 444.1 c.p.p. quale corrispettivo per il consenso da parte dell’imputato ad un rito più rapido e meno garantito di quello ordinario, non cessa di esporsi a censure radicali sul piano politico-legislativo: si tratta di un prezzo che il diritto penale sostanziale deve pagare ad esigenze di funzionalità del processo, e non di una scelta razionalizzabile sul piano dei fini della pena.

Anche il procedimento speciale del giudizio abbreviato (438 ss. c.p.p.) prevede una riduzione di pena, nella misura fissa di un terzo (442.2 c.p.p.).

Nel procedimento per decreto (459 ss. c.p.p.), riservato ai reati punibili in concreto con pena pecuniaria (anche se in sostituzione di una pena detentiva), su richiesta del p.m. la pena può essere diminuita fino alla metà del minimo edittale: l’an ed il quantum sono affidati alla discrezionalità del p.m.

Il giudice può o accogliere in toto o rigettare la richiesta: se il giudice la accoglie, pronuncia decreto di condanna col quale applica la pena nella misura indicata dal p.m.

La Costituzione del 1948 impegna il legislatore ad orientare la pena verso una finalità di rieducazione del condannato (27.3 Cost.), cioè verso l’obiettivo del suo reinserimento nella società.

La legge sull’ordinamento penitenziario (354/1975), nonché il relativo regolamento di esecuzione (d.P.R. 431/1976) si preoccupano di arginare l’azione desocializzante del carcere, risparmiando a chi vi faccia ingresso brutali effetti di annientamento della personalità e rovinose forme di contagio criminale: si prevede tra l’altro che il detenuto sia dotato di abiti propri, possa acquistare cibo, possa provvedere all’igiene personale e fruire di una sfera di riservatezza.

Il legislatore ha cercato di salvaguardare alcuni rapporti tra il condannato e la società, aprendo il carcere verso l’esterno durante l’esecuzione attraverso colloqui telefonici, contatti riservati coi parenti, accesso a giornali, radio e televisione.

Negli istituti dell’affidamento in prova e della semilibertà, se non si realizza un pieno superamento della pena carceraria, si sposta il tradizionale punto di equilibrio fra esigenze di neutralizzazione ed istanze di non desocializzazione.

Una nuova tappa nell’evoluzione dei contenuti della pena detentiva è segnata dalla legge Gozzini (663/1986), recante “modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”: tra le altre cose, introduce la nuova misura della detenzione domiciliare e disciplina alcuni profili del lavoro.

La legge sull’ordinamento penitenziario, dopo la riforma Gozzini, contempla due forme di permessi: quelli ispirati ad esigenze di umanizzazione della pena, che possono essere accordati nel caso di imminente pericolo di vita di un famigliare o di un convivente, od eccezionalmente per altri

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eventi famigliari di particolare gravità, ed i permessi premio, finalizzati sia a scongiurare gli effetti desocializzanti del carcere, sia a garantire ordine e disciplina al suo interno, che vengono concessi per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e che non risultano socialmente pericolosi.

La legge Simeone (165/1988) riforma la disciplina delle misure alternative: introduce la sospensione dell’esecuzione delle pene detentive fino a tre anni (fino a quattro quando si tratti di pena inflitta per reati commessi in relazione ad uno stato di tossicodipendenza), prevede una generale estensione alle pene residue dei limiti previsti dalla legge con riferimento alle pene inflitte, ai fini dell’ammissione alle misure alternative (656.3 c.p.p.) e prevede la possibilità di applicare l’affidamento in prova prescindendo dall’osservazione della personalità in istituto nei confronti di tutti i condannati (art. 47.3 ord. penit.).

Le riforme succedutesi a partire dal 1998 ampliano l’ambito applicativo delle misure alternative, senza però rafforzare gli organi di polizia e del servizio sociale deputati al controllo ed al sostegno del condannato.

Il legislatore nel 2000 varò un nuovo regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà (d.P.R. 230/2000); tra gli elementi di novità si segnalano alcune disposizioni concernenti il trattamento dei detenuti stranieri, a proposito dei quali si prevede che si tenga conto delle difficoltà linguistiche e delle differenze culturali.

La legge Smuraglia (193/2992) promuove il ricorso al lavoro penitenziario anche attraverso la previsione di agevolazioni fiscali e contributive in favore delle cooperative sociali e delle imprese che assumano persone detenute, internate, ammesse alle misure alternative alla detenzione ed ammesse al lavoro all’esterno ex 21 ord. penit.

Tra gli istituti introdotti nel nostro ordinamento per combattere gli effetti dannosi delle pene detentive brevi si annoverano le misure alternative alla detenzione, contemplate agli artt. 47 ss. ord. penit., e cioè l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà.

Queste misure sono non tipi autonomi di pena, ma modalità di esecuzione della pena detentiva: parlano in questo senso il fatto che l’applicazione delle misure alternative non è disposta dal giudice di cognizione che pronuncia la condanna ed infligge la pena (come è caratteristica delle pene principali), ma dal tribunale di sorveglianza, in un momento successivo alla condanna, ed il fatto che l’applicazione delle misure alternative presuppone, di regola, l’inizio dell’esecuzione della pena detentiva (anche se sono state introdotte sempre più eccezioni).

L’accesso alle misure alternative è precluso agli autori di una serie di reati di particolare gravità, che mantengano collegamenti con la criminalità organizzata od eversiva.

L’affidamento in prova al servizio sociale (47 ord. penit.) comporta che il condannato venga sottoposto ad un periodo di prova di durata pari a quella della pena detentiva da scontare: durante questo periodo egli soggiace ad una serie di obblighi e divieti e nel contempo è affidato, fuori dell’istituto penitenziario, al servizio sociale, che svolge funzioni di controllo e di aiuto.

Se la prova ha esito positivo, si estingue la pena e viene meno ogni effetto penale della condanna.

All’atto dell’affidamento, il tribunale di sorveglianza può dettare prescrizioni relative ai rapporti del condannato col servizio sociale, al lavoro, alla libertà di locomozione, ed in particolare alla dimora, al soggiorno in un determinato luogo, alla frequentazione di determinati locali o persone: questa gamma di obblighi e divieti non ha carattere né vincolante né tassativo: al condannato può essere imposta qualsiasi prescrizione che gli impedisca di svolgere attività o di avere rapporti personali che possono portare al compimento di altri reati (47.6 ord. penit.).

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Il tribunale di sorveglianza è tenuto a disporre che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato ed adempia puntualmente agli obblighi di assistenza familiare (47.7 ord. penit.).

L’ambito applicativo dell’affidamento in prova parrebbe circoscritto ai condannati ad una pena detentiva non superiore a tre anni (47.1 ord. penit.), ma il legislatore ha detto che per “pena inflitta” si deve intendere “pena da espiare in concreto”.

Per poter concedere l’affidamento in prova il tribunale di sorveglianza deve ritenere che il provvedimento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzioni del pericolo che egli commetta altri reati; un comportamento del condannato contrario alla legge o alle prescrizioni che gli sono state imposte può comportare la revoca, ma non produce necessariamente questo effetto: la revoca dovrà essere disposta se la violazione commessa dal condannato appaia incompatibile con la prosecuzione della prova: in questo caso, disse la Corte Costituzionale (343/1987), spetta al tribunale di sorveglianza determinare la residua pena detentiva da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento in prova.

Forme speciali di affidamento in prova sono previste per i soggetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, e per i tossicodipendenti e gli alcooldipendenti.

La detenzione domiciliare (47 ter ord. penit.) comporta l’espiazione della pena detentiva nell’abitazione del condannato, od in altro luogo di privata dimora od in luogo pubblico di cura, assistenza od accoglienza.

Il condannato è sottoposto a prescrizioni fissate dal tribunale di sorveglianza: in particolare, il condannato non deve allontanarsi dal luogo in cui espia la pena (tranne casi eccezionali: 284.3 c.p.p.) e, ove il giudice lo ritenga necessario, non deve comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono.

Se si allontana, il condannato in regime di detenzione domiciliare risponde di una nuova forma di evasione, punibile ai sensi del 385 c.p., e la condanna per questo delitto comporta anche la revoca del regime di detenzione domiciliare.

La legge prevede che si faccia ricorso, per il controllo sul condannato, a mezzi elettronici od altri strumenti tecnici, alla duplice condizione che le autorità preposte al controllo abbiano la disponibilità di quei mezzi e che il condannato accetti di essere sorvegliato elettronicamente.

Campo di applicazione:

  detenzione domiciliare umanitaria: riguarda la donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente; il padre di minore di anni dieci, con lui convivente, quando la madre sia deceduta od impossibilitata ad assistere il minore; la persona gravemente inferma, che necessiti di costanti contatti coi presidi sanitari territoriali; l’ultrasessantenne, inabile anche parzialmente; il minore di anni ventuno, che abbia comprovate esigenze di studio, lavoro o famiglia.

La detenzione domiciliare in questi casi può essere disposta se la pena da espiare, trattandosi di reclusione, non superi i quattro anni, mentre non sono previsti limiti se si tratta di arresto;

  i casi in cui gli artt. 146 e 147 c.p. prevedono il rinvio dell’esecuzione della pena detentiva, qualunque sia l’ammontare della pena;

   i casi dei condannati che debbano scontare una pena detentiva non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, quando non ricorrano i presupposti per l’affidamento

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in prova e sempre che la detenzione domiciliare sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta nuovi reati;

   i casi dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria che hanno in corso o intendono intraprendere un programma di cura ed assistenza;

   detenzione domiciliare speciale: è riservata alle madri di prole di età non superiore ad anni dieci, condannate ad una pena eccedente i quattro anni, che abbiano espiato almeno un terzo della pena, o quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo: alle stesse condizioni la misura può essere concessa al padre detenuto, se la madre è deceduta od impossibilitata.

Durante la semilibertà (48 ss. ord. penit.) il condannato trascorre la maggior parte della giornata all’interno di un istituto di pena, salvo uscirne il tempo necessario per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale.

Per il passaggio dall’esecuzione chiusa della pena detentiva alla semilibertà la legge richiede che il condannato alla reclusione in misura superiore a sei mesi abbia espiato almeno metà della pena, mentre per il condannato all’ergastolo richiede l’espiazione di almeno vent’anni; l’espiazione di metà pena non è richiesta per i condannati alla reclusione fino a tre anni, quando essi abbiano chiesto l’affidamento in prova al servizio sociale, ed il tribunale di sorveglianza ritenga di non accogliere quella richiesta, ma di poter ammettere il condannato al regime di semilibertà.

Può esservi revoca quando il soggetto non si appalesi idoneo al trattamento (50.1 ord. penit.).

Il condannato che senza giustificato motivo non rientri in istituto e l’assenza si protrae più al lungo di dodici ore, risponde di una nuova forma di evasione, punibile ai sensi del 385 c.p.

La legge sull’ordinamento penitenziario, al 54, prevede tra le misure alternative anche la liberazione anticipata: questo istituto comporta una detrazione di quarantacinque giorni per ogni semestre di pena scontata a beneficio del condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione; codesto istituto riduce poi i tempi previsti dalla legge per poter usufruire dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale.

L’accesso alle misure alternative (fatta eccezione per la liberazione anticipata), al lavoro, all’esterno ed ai permessi-premio risulta precluso ai detenuti od internati per alcuni reati di particolare gravità a meno che siano collaboratori di giustizia o ricorrano altri elementi che escludano l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ai detenuti od internati per altri gravi reati quando vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata od eversiva, ai detenuti od internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia od il procuratore distrettuale comunica l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (e ciò preclude anche l’accesso alla liberazione anticipata).

Il codice penale prevede tassativamente delle ipotesi in cui il tribunale di sorveglianza deve rinviare l’esecuzione della pena (rinvio obbligatorio), o può rinviarla (rinvio facoltativo).

Le ipotesi di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena, a norma del 146, riguardano la donna incinta, senza limiti inerenti al periodo di gestazione, la madre di infante di età inferiore ad un anno, e la persona affetta da AIDS conclamata, da grave deficienza immunitaria o da altra malattia grave.

Il rinvio obbligatorio è precluso, o, se già concesso, revocato, nel caso in cui la gravidanza si interrompa, la madre decada dalla potestà sul figlio, il figlio muoia, venga abbandonato, o sia affidato ad altri che alla madre.

Il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena è previsto dal 147 nelle ipotesi in cui è stata presentata domanda di grazia, la pena detentiva dev’essere eseguita contro chi si trova in condizioni

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di grave infermità fisica (alla duplice condizione, per bocca della Cassazione, che si tratti di gravità oggettiva e che il condannato possa fruire, in stato di libertà, di cure e trattamenti sostanzialmente diversi e più efficaci di quelli che possono essere prestati in regime di detenzione), o la pena detentiva dev’essere eseguita nei confronti della madre di prole di età inferiore a tre anni.

Il provvedimento di rinvio non può essere adottato, e se adottato dev’essere revocato, quando sussista il concreto pericolo della commissione di delitti.

In tutti i casi in cui può essere disposto il rinvio dell’esecuzione della pena ex 146 od ex 147, il tribunale di sorveglianza può ammettere il condannato alla detenzione domiciliare (47 ter ord. penit.).

Un’ulteriore ipotesi di rinvio o di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva è prevista nel 148, il quale dice che se, prima dell'esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale o durante l’esecuzione, sopravviene al condannato una infermità psichica, il giudice, qualora ritenga che l’infermità sia tale da impedire l'esecuzione della pena, ordina che questa sia differita o sospesa e che il condannato sia ricoverato in un manicomio giudiziario, ovvero in una casa di cura e di custodia. Il giudice può disporre che il condannato, invece che in un manicomio giudiziario, sia ricoverato in un manicomio comune se la pena inflittagli sia inferiore a tre anni di reclusione o di arresto, e non si tratti di delinquente o contravventore abituale, o professionale, o di delinquente per tendenza.    [La disposizione precedente si applica anche nel caso in cui, per infermità psichica sopravvenuta, il condannato alla pena di morte deve essere ricoverato in un manicomio giudiziario.]      Il provvedimento di ricovero è revocato, e il condannato è sottoposto alla esecuzione della pena, quando sono venute meno le ragioni che hanno determinato tale provvedimento.

La Corte Costituzionale, con sentenza 146/1975, ha dichiarato l’illegittimità di questo articolo nella parte in cui prevede che il giudice, nel disporre il ricovero in manicomio giudiziario del condannato caduto in stato di infermità psichica durante l'esecuzione di pena restrittiva della libertà personale, ordini che la pena medesima sia sospesa; ha dichiarato altresì l’illegittimità nella parte in cui prevede che il giudice ordini la sospensione della pena anche nel caso in cui il condannato sia ricoverato in una casa di cura e di custodia ovvero in un manicomio comune: questo per evitare disparità di trattamento tra il condannato e l’imputato colpito da infermità mentale sopravvenuta: la Corte ha imposto lo scomputo del periodi di internamento, per cui oggi il 148 non prevede più un rinvio (od esecuzione) della pena.

La Cassazione ha detto che il 147.1 n. 2 ed il 148 stanno tra loro in un rapporto di reciproca esclusione.

Col nome di cause di estinzione della pena il legislatore italiano indica una serie di istituti che, intervenendo dopo la pronuncia della condanna e l’inflizione delle pene, ne impediscono in tutto od in parte l’esecuzione o precludono il prodursi di tutti gli effetti penali della condanna o di una parte di essi.

Può creare problemi una situazione di concorso di cause estintive, che intervengano contemporaneamente od in momenti diversi: nel primo caso opera la causa più favorevole, e le eventuali sanzioni residue potranno essere estinte dalle altre cause in concorso (183.4), nel secondo caso si applica la causa estintiva intervenuta per prima, e poi le successive per far cessare l’esecuzione delle pene non ancora estinte.

Vi è poi il problema dell’applicabilità al delitto tentato delle esclusioni di alcuni tipi di reato dal campo d’applicazione di cause di estinzione come l’amnistia impropria e l’indulto.

Le esclusioni abbracciano anche il delitto tentato, perché il tentativo non è un tipo a sé, ma una particolare forma di manifestazione di una figura di reato, e poi la ratio politico criminale

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dell’esclusione di un determinato tipo di reato dal campo applicativo di una causa in estinzione risiede nel peculiare disvalore di quel tipo di reato, che è qualitativamente invariato, consumato o tentato ch’esso sia.

Ci si chiede inoltre se l’esclusione di un’ipotesi aggravata di reato dall’area applicativa di cause di estinzione come l’amnistia propria o l’indulto venga meno quando la circostanza aggravante risulti elisa nel giudizio di bilanciamento con una o più circostanze attenuanti ai sensi del 69: la giurisprudenza risponde negativamente, perché fondamento dell’esclusione è l’oggettiva gravità dell’ipotesi.

L’amnistia impropria (151.1 pt. II) ha i caratteri dell’amnistia propria, ma interviene dopo la sentenza definitiva di condanna.

L’amnistia impropria fa cessare l’esecuzione delle pene principali e delle pene accessorie, mentre non estingue gli effetti penali della condanna.

Come accade a proposito dell’amnistia propria, anche le figure di reato interessate dall’amnistia impropria vengono di regola individuate dalla legge con riferimento al massimo della pena edittale.

Possono essere previste esclusioni per tipi di reato; salvo diversa previsione, il provvedimento non si applica ai casi di recidiva reiterata od aggravata, né ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

I limiti temporali dell’amnistia impropria sono gli stessi dell’amnistia propria.

L’amnistia impropria, come l’indulto, è applicata dal giudice dell’esecuzione (672 c.p.p.) e può essere sottoposta a condizioni od obblighi: se si tratta di condizioni sospensive, il giudice dell’esecuzione deve sospendere l’applicazione dell’amnistia fino al verificarsi della condizione imposta, se si tratta di condizioni risolutive, al verificarsi della condizione il giudice dovrà revocare il provvedimento col quale ha applicato l’amnistia.

La morte del reo avvenuta dopo la condanna, in ossequio al principio di personalità della responsabilità penale (27.1 Cost.), estingue la pena principale, le pene accessorie ed ogni effetto penale della condanna: l’unica sanzione penale di cui può continuare l’esecuzione è la confisca, trattandosi di una misura di sicurezza che colpisce le cose e non la persona del condannato.

La morte del reo non comporta l’estinzione delle obbligazioni civili da reato (198 c.p.), tranne le obbligazioni inerenti alle spese di mantenimento in carcere del condannato e l’obbligo di rimborsare le spese del processo penale.

Col decorso di un certo lasso di tempo dalla condanna irrevocabile si ha prescrizione della pena: si estinguono tutte le pene principali, tranne l’ergastolo, mentre non si estinguono le pene accessorie e gli effetti penali della condanna.

Nel caso in cui sia iniziata l’esecuzione della pena ed essa si interrompa per un fatto volontario del condannato, la prescrizione inizia a decorrere dal giorno successivo a quello in cui il condannato s’è volontariamente sottratto all’esecuzione.

La pena della reclusione si estingue in un tempo pari al doppio della pena inflitta, entro i limiti minimo e massimo di dieci e trent’anni; la pena della multa si estingue in dieci anni; se la multa è inflitta con la reclusione, la prescrizione matura per entrambe le pene nel tempo stabilita per la reclusione.

Per pena inflitta, ai sensi del 172.1 e 172.3, s’intende la pena da scontare in concreto.

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In caso di concorso di reati e di reato continuato, si deve far riferimento alla pena inflitta per i singoli reati.

L’arresto e l’ammenda si prescrivono in cinque anni, anche nell’ipotesi in cui siano applicate insieme.

Una disciplina speciale è prevista per i recidivi aggravati o reiterati e per i delinquenti abituali, professionali o per tendenza: nei loro confronti sono imprescrittibili le pene della reclusione e della multa, mentre l’arresto e l’ammenda si prescrivono in un tempo doppio rispetto a quello ordinario; le pene della reclusione e della multa sono imprescrittibili se il condannato, durante il tempo necessario per l’estinzione della pena, riporta una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole.

L’indulto, come l’amnistia, è un provvedimento di carattere generale, riservato a partire dal 1992 in via esclusiva al Parlamento, che lo concede con legge approvata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ogni Camera (79.1 Cost.); l’indulto non può essere applicato ai reati commessi dopo la presentazione del disegno di legge.

L’effetto dell’indulto è di condonare in tutto od in parte la pena principale inflitta con la sentenza di condanna, o commutarla, cioè sostituirla con un’altra meno grave.

L’indulto non estingue gli effetti penali della condanna.

Come ogni altra causa di estinzione della pena, l’indulto impedisce che vengano disposte misure di sicurezza (tranne la confisca o le altre misure che possono essere ordinate in ogni tempo)

L’indulto è applicato dal giudice dell’esecuzione (indulto proprio), se viene applicato dal giudice di cognizione al momento di pronuncia della condanna (indulto improprio), gli effetti estintivi si verificano solo al momento del passaggio in giudicato della sentenza.

Nel caso di concorso di reati l’indulto si applica una volta sola sulla pena cumulata.

Il 174.3, rinviando alle disposizioni relative all’amnistia, fissa per l’applicabilità dell’indulto una serie di preclusioni soggettive, che riguardano il recidivo aggravato o reiterato e chi sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; anche l’indulto può essere revocato se la legge che lo concede prevede condizioni risolutive: se invece è sottoposto a condizioni sospensive, il giudice dell’esecuzione sospende l’applicazione dell’indulto finché la condizione non sia stata adempiuta entro il termine fissato dalla legge.

La grazia, a differenza dell’amnistia e dell’indulto, è un provvedimento di clemenza individuale, la cui concessione è riservata, ai sensi dell’87 Cost., al Presidente della Repubblica: essa può essere da lui concessa anche in assenza di domanda, mentre è discusso se la controfirma del Ministro della Giustizia, necessaria per la validità dell’atto, valga a subordinare la concessione della grazia all’assenso del Ministro.

Come l’indulto, l’effetto estintivo della grazia può consistere nel condono totale o parziale della pena inflitta, o nella commutazione in altra e meno grave specie di pena.

La grazia non estingue gli effetti penali della condanna.

La grazia può essere sottoposta a condizione risolutiva.

Se la domanda di grazia non è stata presentata dall’interessato, questi non può rifiutare il condono o la commutazione della pena concessa col provvedimento di grazia: il condannato infatti ha l’obbligo, non il diritto di scontare la pena.

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Il casellario giudiziale consente di ricostruire la storia personale del condannato nei suoi rapporti con la giustizia penale, ma grazie all’istituto della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta dei privati si evita che la condanna venga resa nota.

La non menzione può essere disposta dal giudice in presenza di alcuni requisiti:

  la pena inflitta non dev’essere superiore a due anni, sia che si tratti di pena detentiva, sia che si tratti di pena pecuniaria, ragguagliata a pena detentiva a norma del 135; la non menzione può essere concessa anche in caso di condanna alla multa o all’ammenda pari a 27.740 euro; la non menzione della condanna può essere concessa anche quando siano inflitte congiuntamente una pena detentiva non superiore a due anni ed una pecuniaria che, ragguagliata a norma del 135 e cumulata alla pena detentiva, priverebbe il condannato della libertà personale per un tempo non superiore a trenta mesi (175.2);

  deve trattarsi di una prima condanna (175.1 pt. I); a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale la non menzione può essere concessa anche dal giudice che pronuncia condanne per reati commessi anteriormente alla prima condanna, se la pena inflitta, cumulata con quelle precedentemente irrogate, non supera i limiti quantitativi descritti prima.

La non menzione della condanna è soggetta a revoca: ciò accade quando il condannato commette un nuovo delitto (non contravvenzione) di qualsiasi specie o gravità.

La liberazione condizionale si applica alle sole pene di lunga durata: si riserva l’ammissione alla liberazione condizionale a chi ha scontato almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli ex 176.1.

La liberazione condizionale è una causa estintiva della pena, e più precisamente una causa sospensiva dell’esecuzione di una parte della pena principale inflitta, cui segue l’estinzione nel caso in cui il liberato condizionalmente superi la prova alla quale è sottoposto: nel periodo corrispondente alla durata della pena residua, od entro cinque anni dal provvedimento di liberazione condizionale se condannato all’ergastolo, non commette un nuovo delitto, né una contravvenzione della stessa indole, né viola gli obblighi inerenti alla libertà vigilata.

Le condizioni necessarie per accedere alla liberazione condizionale riguardano l’ammontare della pena già scontata: per l’ergastolo, venticinque anni, per la reclusione o l’arresto, trenta mesi e comunque almeno della metà della pena inflitta.

Se si tratta di recidivo aggravato o reiterato le condizioni per l’ammissione alla liberazione condizionale sono di quattro anni di pena e non meno di tre quarti della pena inflitta (176.2).

Una seconda condizione che limita il campo applicativo della liberazione condizionale nei confronti del condannato a pena detentiva temporanea riguarda l’ammontare della pena residua, che non deve superare i cinque anni (176.1).

I limiti temporali non operano nei confronti di chi, al momento della commissione del reato, non abbia compiuto i diciotto anni: nei confronti del minore la liberazione condizionale può essere ordinata in qualsiasi momento dell’esecuzione della pena, qualunque sia l’entità della pena inflittagli.

Terza condizione per poter fruire della liberazione condizionale è l’aver adempiuto alle obbligazioni civili derivanti dal reato (restituzioni, risarcimento del danno, rimborso delle spese del procedimento, delle spese di mantenimento in carcere e spese per la pubblicazione della sentenza, 176.4).

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Questa condizione non vige quando il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierla.

Quarta ed ultima condizione è che il condannato, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.

A norma del 230.1 n. 2, alla concessione della liberazione condizionale consegue automaticamente l’applicazione della libertà vigilata (228).

Una volta che il tribunale di sorveglianza abbia disposto la liberazione condizionale, si aprono per il condannato due possibilità: la prima è quella dell’estinzione della pena, che può prodursi dopo un arco di tempo pari alla durata della pena residua o dopo cinque anni dalla data del provvedimento nei confronti del condannato all’ergastolo (in questo caso sono anche revocate le misure di sicurezza personali che fossero state ordinate), la seconda è quella della revoca della liberazione condizionale, che viene disposta dal tribunale di sorveglianza (682 c.p.p.) se la persona liberata commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole, ovvero trasgredisce agli obblighi inerenti alla libertà vigilata (177.1): in questo caso, viene disposta l’esecuzione di tutta o parte della pena residua.

La sospensione condizionale della pena sospende l’esecuzione delle pene principali ed accessorie: l’effetto estintivo è solo condizionato ed eventuale, producendosi nel caso in cui il condannato superi la prova alla quale viene sottoposto nel periodo fissato dalla legge (cinque anni se si tratta di condanna per delitto, e due anni per la contravvenzione).

Appare improprio l’inquadramento di questo istituto, da parte del legislatore, tra le cause estintive del reato: a differenza delle vere cause, la sospensione condizionale è disposta nella sentenza di condanna presupponendo l’accertamento della responsabilità e l’inflizione della pena, inoltre propriamente la sospensione condizionale non è nemmeno una causa di estinzione della pena, perché ciò che produce l’estinzione è il superamento della prova alla quale il condannato è sottoposto durante il periodo di sospensione dell’esecuzione.

L’applicabilità della sospensione condizionale della pena è subordinata alla presenza di una serie di presupposti che riguardano il tipo e l’ammontare della pena inflitta, i precedenti penali del condannato e la previsione dei suoi futuri comportamenti.

Quanto alla pena inflitta, può trattarsi della pena della reclusione o dell’arresto non superiore a due anni; ove il condannato non avesse compiuto i diciotto anni al momento del fatto, la pena detentiva può raggiungere i tre anni; nel caso in cui il reo fosse maggiore di diciotto anni ed inferiore agli anni ventuno od abbia compiuto gli anni settanta, la pena detentiva soggiace al limite massimo di due anni e sei mesi (163).

La sospensione condizionale può anche applicarsi in caso di condanna alla multa od all’ammenda, applicata da sola o con la pena detentiva: in questo caso, il rispetto degli indicati limiti andrà verificato ragguagliando la pena pecuniaria alla pena detentiva secondo il criterio fissato dal 133.

La sospensione condizionale della pena può essere disposta anche nel caso in cui la pena detentiva inflitta sia stata sostituita in sede di condanna con una qualsiasi pena sostitutiva: la semidetenzione, la libertà controllata o la pena pecuniaria: in tal caso, ciò che il giudice può sospendere è l’esecuzione della pena sostitutiva.

Non sono sospendibili invece le pene irrogate dal giudice di pace.

Il 164 ai commi 2 e 4 individua alcune preclusioni soggettive all’applicabilità della sospensione condizionale della pena, che riguardano:

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  chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto (a meno che la pena da infliggere, cumulata con quella irrogata con la precedente condanna, rientri nei limiti del 163);

  chi è stato dichiarato delinquente o contravventore abituale o professionale;

   chi ha già fruito della sospensione condizionale della pena, a meno che la pena inflitta in occasione della nuova condanna, cumulata con quella precedentemente inflitta, rientri nei limiti fissati dal 163; in ogni caso, la sospensione condizionale della pena non può essere concessa più di due volte.

La sospensione condizionale della pena presuppone che il giudice formuli una prognosi favorevole sul futuro comportamento del reo, ritenendo che s’asterrà dal commettere ulteriori reati (164.1), tenendo conto dei criteri relativi alla capacità a delinquere indicati nel 133.

La sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento di uno o più obblighi: restituzioni, pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno, pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno, eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato con le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna.

In caso di seconda concessione, la sospensione condizionale della pena dev’essere subordinata all’adempimento di almeno uno di questi obblighi, a meno che ciò sia impossibile.

Il termine per l’adempimento dev’essere fissato dal giudice nella sentenza di condanna (165.3).

La sospensione condizionale è soggetta a revoca, obbligatoria in quattro casi: se entro cinque anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna che ha disposto la sospensione condizionale, trattandosi di condanna per delitto, od entro due anni, trattandosi di condanna per contravvenzione, il condannato:

  non adempie gli obblighi che gli sono stati imposti a norma del 165;

  commette un delitto;

   commette una contravvenzione della stessa indole (a norma del 101);

   riporta una nuova condanna per un reato commesso prima del passaggio in giudicato della sentenza che ha disposto la sospensione condizionale della pena.

Nelle ultime tre ipotesi, la revoca è obbligatoria solo se la pena applicata per il nuovo reato, cumulata con quella sospesa, supera i limiti fissati dal 163: se questi limiti non vengono superati, la revoca è facoltativa.

È aperta la questione che riguarda la rilevanza delle sentenze di patteggiamento (ex 444 c.p.p.) ai fini della revoca della sospensione condizionale: ci si chiede se la sentenza di patteggiamento contenga o meno un accertamento di responsabilità: solo chi risponda negativamente a questa domanda può escludere che una sentenza pronunciata ex 444 possa comportare la revoca d’una sospensione condizionale precedentemente applicata.

Se nei termini fissati dal 163.1 non intervengono cause di revoca, può affermarsi che la prova alla quale è sottoposto il condannato ha avuto esito positivo, e si produce l’effetto estintivo previsto dal 167: s’estinguono le pene principali e le pene accessorie, ma permangono gli effetti penali della condanna.

La riabilitazione produce un effetto estintivo che interessa le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, a meno che la legge disponga altrimenti; è discusso se la riabilitazione

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estingua anche quel particolare effetto penale che consiste nel divieto di fruire, in occasione di un’ulteriore condanna, del beneficio della non menzione nel certificato del casellario giudiziale richiesto dai privati.

Il provvedimento di riabilitazione non ha effetto retroattivo (il pubblico impiegato destituito in conseguenza dell’interdizione dai pubblici uffici non ha, con la riabilitazione, il diritto ad essere reintegrato nell’impiego perduto).

Dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza che concede la riabilitazione le pene accessorie e gli effetti penali della condanna non sono ancora estinti, ma sospesi: si estinguono una volta decorso il tempo in cui sarebbe potuta intervenire la revoca.

Il provvedimento di riabilitazione può essere adottato solo a seguito di un’espressa richiesta dell’interessato (683 c.p.p.), e decide il Tribunale di sorveglianza (666 c.p.p.).

La riabilitazione presuppone che siano decorsi cinque anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo estinta (179.1), il termine invece è di dieci anni nei casi di recidiva aggravata o reiterata (179.2), o nei confronti del delinquente abituale, professionista o per tendenza (179.3): in questi ultimi casi i dieci anni decorrono dal giorno in cui è stato revocato l’ordine di assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro.

A norma del 179.1 pt. II è necessario che il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta: si tratta dell’accertamento di un dato di fatto, e non di una prognosi su futuri comportamenti del soggetto.

Il 179.4 individua due condizioni ostative alla concessione della riabilitazione: la prima risiede nella sottoposizione a misure di sicurezza: nei confronti del condannato non dev’essere stata disposta alcuna misura, o, se disposta, la misura dev’essere stata revocata.

In deroga a questa regola può però accedere alla riabilitazione il condannato che sia sottoposto alla misura di sicurezza personale dell’espulsione, trattandosi di straniero (235) od alla misura di sicurezza patrimoniale della confisca (240).

La seconda condizione ostativa è rappresentata dall’inadempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato (185 ss.): la riabilitazione può essere concessa se il riabilitando dimostra di trovarsi nell’impossibilità di adempiere alle obbligazioni civili.

Il provvedimento di riabilitazione è soggetto a revoca, con conseguente reviviscenza delle pene accessorie e degli effetti penali interessati dalla riabilitazione.

Presupposto della revoca è la commissione di un delitto non colposo entro cinque anni dalla sentenza definitiva che ha disposto la riabilitazione, purché per il nuovo reato venga inflitta la reclusione non inferiore a tre anni o l’ergastolo (180).

La revoca è disposta dallo stesso giudice che pronuncia la condanna per il nuovo reato, o dal Tribunale di sorveglianza: si tratta di un provvedimento di diritto, è escluso ogni potere discrezionale del giudice.

CAPITOLO XIV – LE MISURE DI SICUREZZALe misure di sicurezza sono un’ulteriore categoria di sanzioni penali.

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Le misure di sicurezza personali incidono sulla libertà personale e si rivolgono sia a soggetti imputabili o semimputabili pericolosi (in tal caso la misura di sicurezza si cumula con la pena), sia a soggetti non imputabili pericolosi (in tal caso la misura s’applica in via esclusiva).

Ai sensi del 215 le misure di sicurezza personali si distinguono a loro volta in misure personali detentive (assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro, assegnazione ad una casa di cura e di custodia, ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, ricovero in un riformatorio giudiziario) e non detentive (libertà vigilata, divieto di soggiorno in uno o più comuni od in una o più province, divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche, espulsione dello straniero dallo Stato).

Il 215.4 disciplina i casi in cui la legge prevede una misura di sicurezza senza indicarne la specie: in questo caso il giudice disporrà la libertà vigilata, a meno che, trattandosi di un condannato per delitto, ritenga di disporne l’assegnazione ad una colonia agricola od una casa di lavoro.

Le misure di sicurezza patrimoniali, che incidono invece sul patrimonio, sono la cauzione di buona condotta e la confisca.

Le misure di sicurezza detentive riservate agli imputabili hanno assunto nella prassi i connotati di un’ulteriore pena detentiva, che si cumula con la reclusione o con l’arresto: si parla di sistema del doppio binario e frode delle etichette.

La Costituzione sottopone le misure di sicurezza al principio di legalità, riservando al solo legislatore l’individuazione dei casi nei quali può essere applicata una misura di sicurezza (25.3 Cost.: nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge).

La previsione di misure di sicurezza detentive risulta incompatibile con la Costituzione, essendo una variante solo nominalistica della pena.

A norma del 202.1 le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose, che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato; il 202.2 soggiunge che la legge penale determina i casi nei quali a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza per un fatto non preveduto dalla legge come reato: i presupposti delle misure di sicurezza personali si possono così compendiare: reato (o quasi reato) + pericolosità sociale.

Ove si tratti di una misura di sicurezza da applicarsi ad un soggetto imputabile o semimputabile, il quale dev’essere stato sottoposto ad una pena, la formula legislativa evoca tutti gli elementi costitutivi del reato: si discute se quest’interpretazione valga anche per il caso in cui si tratti di una misura di sicurezza da applicarsi ad un non imputabile.

Che non debba esser presente in tutti i suoi elementi la colpevolezza, è incontestabile perché in questi casi è assente, per definizione, l’imputabilità: il vero oggetto di controversia è relativo al dolo.

Le misure di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario e del riformatorio giudiziario richiedono infatti che sia stato commesso un delitto doloso, ma è dubbio se il dolo che deve sorreggere la realizzazione del fatto abbia, in questi casi, una struttura coincidente con quella del dolo dell’imputabile.

La giurisprudenza maggioritaria risponde affermativamente a questo quesito.

Si può ritenere che il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario od in un riformatorio giudiziario possa essere disposto solo in presenza d’un fatto tipico, antigiuridico e punibile,

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commesso con dolo da parte di chi versi in una delle situazioni patologiche indicate dal 222 o da un minore non imputabile, tale ex lege (97) od in base ad una valutazione in concreto del giudice (98).

In alcuni casi, in via d’eccezione, la legge deroga alla regola fissata nel 202.1 secondo la quale la misura di sicurezza è applicabile solo se è stato commesso un fatto preveduto come reato; questi casi sono quelli in cui è stato commesso un quasi reato.

Attualmente, si tratta del reato impossibile ex 49.2 e 49.4, dell’accordo per commettere un delitto che poi non viene commesso (115.1 e 115.2), dell’istigazione a commettere un reato, se l’istigazione viene accolta ma il reato non viene commesso (115.3), dell’istigazione a commettere un delitto, se l’istigazione non viene accolta (115.4).

L’autore di un quasi reato non viene punito, ma se socialmente pericoloso può essere assoggettato alla misura di sicurezza della libertà vigilata.

Che la punibilità sia un elemento la cui presenza è indefettibile per l’applicazione delle misure di sicurezza sia agli imputabili che ai non imputabili trova conferma nel 210, dove si stabilisce che l’estinzione del reato impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza.

Il 203.1 fornisce una definizione di pericolosità sociale, stabilendo che agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati.

La pericolosità sociale è dunque la probabilità, e non la mera possibilità, che il soggetto commetta in futuro nuovi reati, o, nell’ipotesi di quasi reato, che commetta reati.

Il pericolo può riguardare qualsiasi reato, e non solo reati della stessa indole di quello già commesso.

Tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui che ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa.

Il 679 c.p.p. ha chiarito che va accertata sia l’esistenza della pericolosità sociale al momento del giudizio di cognizione, sia la sua persistenza al momento in cui la misura dev’essere eseguita: il primo accertamento spetta al giudice di cognizione, che ordina la misura, il secondo è invece di competenza del magistrato di sorveglianza.

Il 69 ord. penit. ha stabilito che il magistrato di sorveglianza, nel provvedere al riesame della pericolosità, può revocare la misura di sicurezza anche prima che sia decorsa la sua durata minima, quando accerti il venir meno della pericolosità.

Il giudizio di pericolosità sociale si articola in due momenti: il primo dedicato all’analisi della personalità del soggetto, il secondo alla prognosi criminale, che dev’essere formulata sulla base di quanto accertato nel primo momento.

La pericolosità sociale dev’essere valutata in relazione non al momento della commissione del fatto, ma al momento dell’applicazione della misura, quando il giudizio viene operato dal giudice di cognizione, ed al momento dell’esecuzione, quando viene operato dal magistrato di sorveglianza.

Quanto ai criteri in base ai quali va stabilita la pericolosità sociale, il 203.2 stabilisce che la qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’art.133.

Il giudice deve provvedere di regola da solo, senza l’assistenza di un perito: di un perito il giudice può avvalersi solo per stabilire se il soggetto è incapace di intendere o di volere per cause

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patologiche (220.2 c.p.p.), nel qual caso può porre l’ulteriore quesito se la persona sia socialmente pericolosa.

Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione: se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo dell’esecuzione (200).

Le misure di sicurezza si applicano anche agli stranieri che si trovano nel territorio dello Stato; al solo straniero si indirizza del resto la misura di sicurezza dell’espulsione.

Nel caso di riconoscimento di una sentenza penale straniera che secondo la legge penale italiana comporterebbe l’applicazione di una misura di sicurezza personale ai sensi del 12.1 n. 3, si può applicare quella misura di sicurezza subordinatamente all’accertamento che la persona sia socialmente pericolosa (201.2).

Le misure di sicurezza personali sono applicate di regola dal giudice di cognizione, nella sentenza di condanna o di proscioglimento (205.1); misure di sicurezza personali e patrimoniali possono anche essere applicate nell’ambito di una sentenza di patteggiamento (444 c.p.p.), quando sia inflitta una pena detentiva superiore a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria; al di sotto di tale limite, è applicabile solo la misura di sicurezza patrimoniale della confisca (445.1 c.p.p.).

In alcuni casi le misure possono essere ordinate dal magistrato di sorveglianza: dopo una sentenza di condanna, mentre sia in corso l’esecuzione della pena, o mentre il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena, etc.

Quando una persona ha commesso più fatti di reato, per i quali siano applicabili più misure di sicurezza della stessa specie, è ordinata una sola misura di sicurezza; se invece le misure di sicurezza sono di specie diversa, il giudice applicherà una sola misura o più misure a seconda della minore o maggiore pericolosità della persona (209.2).

Queste regole operano anche nel caso in cui il giudice od i giudici di cognizione abbiano disposto, in procedimenti separati, più misure di sicurezza nei confronti dello stesso soggetto: in tal caso il magistrato di sorveglianza provvederà all’unificazione delle misure.

Per alcune misure di sicurezza detentive la legge prevede la possibilità dell’applicazione provvisoria a delle condizioni: deve trattarsi di reati per i quali quelle misure potrebbero essere applicate in via definitiva; devono esistere gravi indizi di commissione del reato; il fatto non dev’essere stato commesso in presenza di una causa di giustificazione, di una scusante, di una causa di non punibilità o di una causa d’estinzione della pena; dev’essere accertata in concreto la pericolosità sociale dell’indagato.

Al venir meno della pericolosità sociale, l’ordine d’applicazione provvisoria della misura di sicurezza dev’essere revocato.

Nel caso in cui, dopo che sia stata applicata provvisoriamente una misura di sicurezza, il soggetto venga condannato ad una pena detentiva, senza che nei suoi confronti venga disposta in via definitiva la misura di sicurezza, il periodo trascorso in esecuzione provvisoria della misura dev’essere detratto dalla pena (657.1 c.p.p.).

Per quanto riguarda l’esecuzione delle misure di sicurezza personali, bisogna distinguere a seconda che vengano disposte con sentenza di condanna o con sentenza di proscioglimento.

Nel primo caso, se la misura di sicurezza è aggiunta ad una pena detentiva, la legge stabilisce che la misura vada eseguita dopo che la pena è stata scontata o altrimenti estinta (211.1).

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Il 212.1 stabilisce che l’esecuzione di una misura di sicurezza applicata a persona imputabile è sospesa se questa deve scontare una pena detentiva, e riprende il suo corso dopo l’esecuzione della pena; è prevista un’eccezione per il caso in cui la misura da applicare sia la casa di cura e di custodia: a norma del 220.2, il giudice, tenuto conto delle particolari condizioni di infermità psichica del condannato, può disporre che il ricovero venga eseguito prima che sia iniziata o abbia termine la esecuzione della pena restrittiva della libertà personale.

Se invece la misura di sicurezza personale s’aggiunge ad una pena non detentiva, la misura andrà eseguita non appena la sentenza di condanna sia divenuta definitiva (211.2).

Quanto alle misure di sicurezza personali disposte con sentenza di proscioglimento, nel silenzio del 211, si ritiene che la loro esecuzione debba avvenire una volta che la sentenza sia passata in giudicato, a meno che, trattandosi di una delle misure contemplate nel 206.1, non venga disposta l’applicazione provvisoria della misura.

Può accadere che nei confronti dello stesso soggetto siano disposte una misura di sicurezza detentiva ed una temporanea non detentiva: si eseguirà prima la misura di sicurezza detentiva (211.3).

In ogni caso l’effettiva esecuzione è subordinata ad un nuovo accertamento della pericolosità da parte del magistrato di sorveglianza (679 c.p.p.).

Il 212 disciplina le ipotesi in cui nel corso dell’esecuzione di una misura personale o della cauzione di buona condotta sopravvenga un’infermità psichica.

Se la misura di sicurezza in corso è una misura detentiva, il magistrato di sorveglianza, se ritiene che l’infermità psichica sia ulteriore fonte di pericolo sociale, deve sostituire alla misura precedentemente disposta quella dell’ospedale psichiatrico o della casa di cura e di custodia; cessata l’infermità psichica, quando il magistrato di sorveglianza ritenga ancora l’internato socialmente pericoloso, applica la misura della colonia agricola o casa di lavoro, o, se si tratta di un minore, quella del riformatorio giudiziario: sempre che non ritenga sufficiente, in entrambi i casi, disporre la libertà vigilata.

Quando la misura di sicurezza in corso d’esecuzione sia invece una misura personale non detentiva o la cauzione di buona condotta, al sopravvenire di un’infermità psichica l’esecuzione della misura cessa: in questo caso, il soggetto viene ricoverato in un ospedale civile, dove verrà sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio (T.S.O.) per malati mentali; venuta meno l’infermità, quando la misura originariamente applicata fosse una misura personale, il giudice procederà ad un nuovo esame della pericolosità, disponendo eventualmente, ove la pericolosità persista, una misura personale non detentiva (212.4).

Il 211 bis estende alle misure di sicurezza personali la disciplina dettata dagli artt. 146 e 147 in tema di rinvio dell’esecuzione della pena.

Se la persona nei confronti della quale è stata disposta la misura di sicurezza la cui esecuzione viene rinviata ha commesso un delitto con violenza alle persone o con uso di armi e v’è concreto pericolo che commetta nuovamente un delitto con le stesse caratteristiche, il giudice può ordinare che quel soggetto venga ricoverato in un luogo di cura adeguato alla sua patologia o situazione.

Il legislatore lascia colpevolmente nel vago quali siano i luoghi di cura in cui il soggetto può essere coattivamente ricoverato, e quale sia la natura di tale provvedimento.

La legge assegna alle cause di estinzione della pena l’effetto di impedire, di regola, sia l’applicazione, sia l’esecuzione delle misure di sicurezza personali.

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La durata delle misure di sicurezza personali (tranne l’espulsione dello straniero), mentre non soggiace ad alcun limite massimo, dovendosi protrarre finché permanga la pericolosità sociale del soggetto è sottoposta ad un limite minimo: trascorso tale periodo, il giudice deve riesaminare la pericolosità: se la ritiene cessata, dispone la revoca della misura di sicurezza, altrimenti fissa un nuovo termine per un ulteriore riesame.

Il 69.4 ord. penit. attribuisce al magistrato di sorveglianza un potere di revoca anticipata della misura: il potere di revocarla anche prima che sia decorso il periodo minimo di durata.

Nei casi in cui l’internato si sottragga volontariamente all’esecuzione delle misure di sicurezza della colonia agricola o casa di lavoro o del riformatorio giudiziario, come sanzione ricomincia a decorrere il periodo minimo di durata della misura di sicurezza a partire dal giorno in cui a questa è data nuovamente esecuzione, a condizione che il magistrato di sorveglianza accerti ancora la pericolosità sociale.

Non sono previste sanzioni, in considerazione delle patologie di cui soffrono tali soggetti, per chi si sottragga volontariamente all’esecuzione delle misure dell’ospedale psichiatrico giudiziario o della casa di cura e di custodia.

Riservata a soggetti imputabili condannati a pena detentiva, la colonia agricola o casa di lavoro è un’unica misura di sicurezza con differenti modalità esecutive.

La distinzione tra i due istituti – colonia agricola e casa di lavoro – è rimasta sulla carta: essi rappresentano un prolungamento della pena detentiva.

Destinatari di questa misura di sicurezza, ai sensi del 216, sono coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza; coloro che, essendo stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e non essendo più sottoposti ad una misura di sicurezza, commettono un nuovo delitto non colposo, che sia ulteriore manifestazione della abitualità, della professionalità o della tendenza a delinquere, le persone condannate o prosciolte negli altri casi indicati espressamente dalla legge.

A norma degli artt. 102 e 103, la dichiarazione di abitualità nel delitto presuppone la presenza in capo al soggetto di alcune precedenti condanne: ex 102, la condanna alla reclusione complessivamente superiore a cinque anni per tre delitti non colposi della stessa indole, commessi non contestualmente ed entro dieci anni; ex 103, la condanna per due delitti non colposi.

In occasione della condanna per un nuovo delitto (che dev’essere non colposo), il giudice deve accertare se, tenuto conto della specie e della gravità dei reati del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell’art. 133, il colpevole sia dedito al delitto.

Quanto alla professionalità nel delitto, la relativa dichiarazione può essere pronunciata nei confronti di chi, trovandosi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità, riporta condanna per un altro reato, quando, avuto riguardo alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole e alle altre circostanze indicate nel capoverso dell’art. 133, debba ritenersi che egli viva abitualmente, anche in parte soltanto, dei proventi del reato.

A norma del 108, può essere dichiarato delinquente per tendenza chi commette un delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, quando, per la gravità oggettiva e soggettiva del reato commesso ed alla luce delle circostanze indicate nel 133.2, egli riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole.

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Per espressa indicazione legislativa, l’inclinazione al delitto non dev’essere originata da un vizio di mente, totale o parziale, ai sensi degli artt. 88 ed 89, né da una cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti.

Il 69.4 ord. penit. stabilisce che il magistrato di sorveglianza, quando accerti il venir meno della pericolosità durante l’esecuzione della misura di sicurezza, deve revocare non solo questa misura, ma anche la dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza, facendo venir meno anche gli effetti penali evocati dal 109.

La colonia agricola o casa di lavoro può esser applicata a coloro che già in passato erano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza (e come tali sottoposti a questa misura di sicurezza, successivamente revocata sull’assunto che fosse venuta meno la pericolosità sociale): la misura viene disposta di nuovo se il soggetto commette un ulteriore delitto non colposo nel quale il giudice ravvisi una nuova espressione della pericolosità dell’agente (216 n. 2).

In questo caso non è necessaria una nuova dichiarazione di abitualità, professionalità o tendenza a delinquere.

La misura di sicurezza in esame viene applicata anche alla persona sottoposta a misura di sicurezza detentiva che sia stata colpita da infermità psichica, quando, al momento della cessazione dell’infermità, sia ancora socialmente pericolosa; al minore sottoposto al ricovero in riformatorio giudiziario, quando la misura deve applicarsi od eseguirsi dopo che il soggetto ha raggiunto i diciotto anni d’età e non viene considerata sufficiente la libertà vigilata; al minore delinquente abituale, professionale o per tendenza che abbia raggiunto i diciotto anni d’età dopo che sia stata applicata od eseguita la misura del riformatorio giudiziario; a colui che, sottoposto a libertà vigilata, abbia commesso gravi o ripetute trasgressioni degli obblighi inerenti a quella misura.

La durata minima della colonia agricola o casa di lavoro (217) è di due anni per i delinquenti abituali, tre anni per i delinquenti professionali e quattro anni per i delinquenti per tendenza; per le altre ipotesi la durata minima è di un anno.

L’istituzione della casa di cura e di custodia non è mai avvenuta: si tratta di fatto di una mera sezione, o reparto, degli ospedali psichiatrici giudiziari; i primi destinatari della casa di cura e di custodia sono i soggetti semimputabili, cioè soggetti la cui capacità di intendere o di volere al momento del fatto era grandemente scemata: il condannato per delitto non colposo ad una pena diminuita per cagione di: infermità psichica; cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti; sordomutismo.

Parlando di infermità psichica il 219.1 esclude l’applicabilità di questa misura ai disturbi mentali di carattere occasionale e transitorio determinati da infermità fisica.

Richiedendo, per l’applicabilità della misura di sicurezza, che l’autore del reato sia stato condannato ad una pena diminuita per una delle situazioni patologiche indicate nel 219.1, la legge esclude che la misura possa essere disposta quando, concorrendo con l’attenuante relativa alla semimputabilità dell’agente una o più circostanze aggravanti, il giudice, in sede di giudizio di bilanciamento ex 69, ritenga l’aggravante o le aggravanti prevalenti od equivalenti rispetto all’attenuante, col risultato che il soggetto non viene condannato ad una pena diminuita.

La misura della casa di cura e di custodia non può essere applicata nei confronti dei minori d’età compresa fra 14 e 18 anni, che al momento del fatto si trovino in una delle situazioni descritte dal 219.1.

La legge prevede come durata minima del ricovero in una casa di cura e di custodia: un anno, quando la pena stabilita dalla legge non è inferiore nel minimo a cinque anni di reclusione; tre anni, quando la pena è quella dell’ergastolo o quella della reclusione non inferiore nel minimo a dieci

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anni; sei mesi, se si tratta di un altro reato punito con pena detentiva: i quest’ultimo caso il giudice può sostituire alla misura del ricovero in casa di cura e di custodia la misura della libertà vigilata.

Destinatari della casa di cura e di custodia sono anche gli ubriachi abituali e le persone dedite all’uso di sostanze stupefacenti, condannate alla reclusione per un delitto commesso in stato di ubriachezza o sotto l’azione di una sostanza stupefacente.

Il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, disciplinato dal 222, mira al trattamento della pericolosità sociale ed alla cura delle infermità di chi,a vendo commesso un fatto preveduto dalla legge come delitto doloso, punito in astratto con la reclusione superiore nel massimo a due anni, sia stato prosciolto per vizio totale di mente determinato da infermità psichica, o per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, o per sordomutismo: è inoltre necessario che il soggetto sia stato ritenuto socialmente pericoloso.

La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.222 nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale.

Quanto ai destinatari dell’ospedale giudiziario, deve trattarsi di soggetti la cui capacità di intendere o di volere era totalmente esclusa al momento della commissione del fatto.

Il dolo che deve sorreggere la realizzazione del fatto compiuto dal soggetto verso cui la misura si indirizza, ha una struttura coincidente con quella del dolo dell’imputabile.

L’ospedale psichiatrico giudiziario. non s’applica quando sia stato commesso un fatto preveduto dalla legge come delitto doloso punito con la reclusione non superiore nel massimo a 2 anni o punito con la sola pena della multa, od un fatto preveduto dalla legge come delitto colposo o come contravvenzione.

Quanto alla pericolosità sociale dell’infermo di mente e degli altri soggetti nei cui confronti può essere applicata questa misura di sicurezza, il legislatore ha richiesto per tutte le misure di sicurezza l’accertamento dell’esistenza e della persistenza nel caso concreto della probabilità che il soggetto commetta nuovi reati.

La durata minima del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario è di regola pari a due anni: è di cinque anni, se si tratta di delitto doloso punito con la reclusione non inferiore nel minimo a dieci anni; è di dieci anni, nel caso di fatti delittuosi puniti con la pena dell’ergastolo.

Il ricovero dei minori in un riformatorio giudiziario s’è rivelato del tutto incapace di educare il minore; la misura si esegue ora attraverso l’affidamento coattivo del minore ad una comunità educativa; al minore possono essere imposte prescrizioni inerenti allo studio, al lavoro o ad altre attività utili per la sua rieducazione.

Destinatari di questa misura sono, in quanto riconosciuti in concreto pericolosi, i minori degli anni 14 (ex lege non imputabili, 97) ed i minori degli anni 18 ritenuti dal giudice non imputabili ex 98; i minori d’età compresa fra i 14 ed i 18 anni, riconosciuti imputabili al giudice e condannati a pena diminuita ai sensi del 98.1 pt. II; i minori degli anni 18 dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

La misura di sicurezza del riformatorio giudiziario è applicata soltanto in relazione ad una ristrettissima gamma di gravi delitti dolosi, altrimenti nei confronti del minore ritenuto socialmente pericoloso è applicabile la misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata.

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La riforma del 1988 opera una ridefinizione della pericolosità sociale del minore, imponendo al giudice di ritenere sussistente la pericolosità sociale del minore solo quando, per le specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, sussiste il concreto pericolo che questi commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza collettiva o l’ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata.

La durata minima della misura di sicurezza del riformatorio giudiziario è pari ad un anno.

La libertà vigilata è una misura di sicurezza personale non detentiva che comporta sia l’imposizione di una serie di prescrizioni limitative della libertà personale (es.: il divieto di trasferire la propria residenza o dimora in un comune diverso senza autorizzazione del magistrato di sorveglianza), sul cui rispetto vigila l’autorità di pubblica sicurezza, sia interventi di sostegno e d’assistenza affidati al servizio sociale.

Il codice penale distingue tra casi in cui può essere ordinata la libertà vigilata ed i casi in cui essa deve essere ordinata, richiedendo solo nei primi l’accertamento in concreto della pericolosità sociale del soggetto, che oggi però va accertato anche nelle ipotesi di cui al 230.

Accanto ai condannati alla reclusione la legge individua una vasta gamma di ulteriori potenziali destinatari della libertà vigilata (come l’autore di uno dei quasi reati).

La durata minima della misura è di regola di un anno.

In caso di violazione degli obblighi inerenti alla libertà vigilata, il 231.1 prevede che il giudice possa aggiungere alla libertà vigilata la misura di sicurezza patrimoniale della cauzione di buona condotta.

Se la violazione è particolarmente grave o ripetuta, o non venga prestata la cauzione, il giudice può sostituire la libertà vigilata con l’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro o, se si tratta di minori, il ricovero in un riformatorio giudiziario (231.2).

Il divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province è una misura di sicurezza personale non detentiva, per “soggiornare” s’intende il fermarsi o trattenersi in quei luoghi anche per un brevissimo lasso di tempo ed anche occasionalmente.

Destinatari sono i condannati per alcune categorie di delitti tassativamente indicati dalla legge contro la personalità dello stato o l’ordine pubblico, od occasionati da particolari condizioni sociali o morali esistenti in un determinato luogo.

La misura può essere applicata qualunque sia l’entità della pena inflitta ed ha durata minima d’un anno.

Il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche vieta il recarsi sistematicamente, e non solo sporadicamente, in quei luoghi; destinatario di questa misura, se ritenuto socialmente pericoloso, è chi venga condannato per un reato commesso in stato d’ubriachezza, ove si tratti d’ubriachezza abituale.

La durata minima della misura è di un anno.

L’espulsione dello straniero dallo Stato avviene, di regola, con l’accompagnamento alla frontiera, una volta che sia stata eseguita la pena detentiva; la misura è prevista anche in forma di misura amministrativa, disposta dal Ministro dell’Interno o dal Prefetto.

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La misura è applicabile, accertata la pericolosità sociale del soggetto, quando lo straniero sia condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a dieci anni o condannato per un delitto in materia di sostanze stupefacenti.

Destinatari sono gli straneri, e la relativa definizione si ricava a contrario dalla definizione di cittadino dettata dal 4: non può dunque trattarsi di un apolide residente nello Stato, né di un italiano non appartenente alla Repubblica, né di chi, avendo perduto la cittadinanza italiana, venga ancora considerato cittadino ai fini dei delitti contro la personalità dello Stato.

La misura non ha carattere temporaneo.

La trasgressione all’ordine di espulsione configura un autonomo reato contravvenzionale, punito con l’arresto da due a sei mesi: scontata la pena, lo straniero verrà nuovamente espulso dallo Stato.

Le misure di sicurezza patrimoniali si caratterizzano per la loro incidenza sul patrimonio; il codice penale prevede la cauzione di buona condotta e la confisca.

Tratti in comune con le misure di sicurezza personali: sono sottoposte al principio di legalità, sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, sono applicabili ai fatti commessi all’estero alle condizioni di cui al 201.1, sono ordinate dal giudice di cognizione nella sentenza di condanna o di proscioglimento e possono essere disposte successivamente nei casi stabiliti dalla legge.

La cauzione di buona condotta si esegue mediante il deposito d’una somma di denaro presso la Cassa delle ammende, o mediante la prestazione di una garanzia ipotecaria o di una fideiussione solidale avente ad oggetto una somma equivalente.

La somma di denaro dev’essere restituita, l’ipoteca cancellata e la fideiussione s’estingue se, durante l’esecuzione della misura di sicurezza, il soggetto non commette delitto alcuno, né contravvenzioni punite con l’arresto, in caso contrario la somma è incamerata dallo Stato.

Destinatari di questa misura sono coloro che, assegnati ad una colonia agricola o casa di lavoro, vengano dimessi da tale istituto; coloro che, sottoposti alla libertà vigilata, abbiano violato gli obblighi che sono stati loro imposti; coloro che abbiano trasgredito il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche; coloro che abbiano riportato condanna per esercizio di gioco d’azzardo, a condizione che si tratti di contravventore abituale o professionale.

La durata minima è di un anno, quella massima di cinque anni; se non viene depositata la somma, o prestate le garanzie, il giudice sostituisce alla cauzione la libertà vigilata.

La confisca consiste nell’espropriazione ad opera dello Stato di cose attinenti ad un reato o di per sé criminose; presupposto della confisca è la pericolosità della cosa, da intendersi come probabilità che, ove lasciata nella disponibilità del reo, la cosa costituisca per lui un incentivo alla commissione di ulteriori illeciti.

Di regola questo presupposto va accertato in concreto dal giudice, in altri casi (confisca obbligatoria, 240.2) la pericolosità della cosa è presunta dalla legge.

La confisca ha durata perpetua.

A norma del 240.1, nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.

Il legislatore circoscrive l’area applicativa della confisca ai soli reati dolosi: lo si evince dalle parole “servirono” e “furono destinate”, che esprimono un’intenzione finalistica dell’agente.

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Prodotto del reato sono le cose materiali create attraverso l’attività penalmente rilevante, profitto del reato, infine, sono le cose che rappresentano l’utilità economica direttamente od indirettamente conseguita con la commissione del reato.

La confisca facoltativa è subordinata a due condizioni: il procedimento penale si dev’essere concluso con una sentenza od un decreto penale di condanna, e la cosa non deve appartenere a persona estranea al reato.

La sentenza di patteggiamento comporta la confisca in tutte le ipotesi contemplate dal 240, sia che si tratti di confisca facoltativa, che di confisca obbligatoria.

Il 240.2 contempla due ipotesi di confisca obbligatoria: la prima ha per oggetto le cose che costituiscono il prezzo del reato, che sono state date per istigare o determinare il soggetto a commettere il reato, come autore o partecipe; la seconda riguarda le cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione od alienazione è prevista dalla legge come reato: la dottrina parla di cose intrinsecamente criminose.

Si distinguono le cose il cui possesso, uso etc. costituisce sempre reato (ipotesi di divieto assoluto) e cose il cui possesso, uso etc. può essere autorizzato in via amministrativa (ipotesi di divieto relativo): in quest’ultimo caso la confisca dev’essere disposta se in concreto mancava l’autorizzazione o non erano state rispettate le condizioni alle quali l’autorizzazione era stata subordinata.

In caso di divieto, sia assoluto che relativo, la confisca delle cose intrinsecamente criminose dev’essere disposta anche in assenza d’una sentenza di condanna.

Se la cosa appartiene a persona estranea al reato, la confisca è applicabile nei casi di divieto assoluto, mentre, ai sensi del 240.4, non può essere disposta se il divieto è relativo: in questo caso a precludere la confisca non è necessari che l’autorizzazione amministrativa sia stata effettivamente rilasciata al terzo, ma basta l’astratta possibilità del suo rilascio.

Altre ipotesi di confisca sono contemplate nella parte speciale del codice penale e della legislazione complementare: il 416 bis comma 7 prevede la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato di associazione di tipo mafioso, e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego.

Il 446 prevede come obbligatoria la confisca delle cose che a norma del 240.1 sarebbero sottoposte a confisca facoltativa se il reato commesso è uno di quelli in materia di alimenti contemplati negli artt. 439, 440, 441 e 442 (avvelenamento di acque o di sostanze alimentari, adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari, adulterazione o contraffazione di altre cose in danno della pubblica salute, commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate) e dal fatto è derivata la morte o la lesione grave o gravissima di una persona.

La legge 356/1992 prevede, in caso di condanna o patteggiamento per alcuni gravi delitti, in una serie di provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, la confisca obbligatoria del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito.