La dislessia evolutiva e i suoi trattamenti. Manuale per insegnanti, genitori e operatori

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L’autore, in premessa, muove una critica serrata all’impianto della Legge 170/2010 su tre precise direttrici giuridico-legali, epistemologiche e metodologiche. L’impianto pubblicistico, che riserva ai soli professionisti in servizio al S.S.N. la potestà certificatrice ai fini giuridici-scolastici, sta creando non pochi disservizi (cfr. Circolare Ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013 in tema di BES Bisogni Educativi Speciali) e disparità di trattamento a livello territoriale. Sul versante epistemologico l’autore ritiene scientificamente discutibile la scelta di spostare il baricentro dall’ambito clinico a quello educativo, che ritiene risponda più all’esigenza di economizzare risorse nel S.S.N. che a una efficace direttiva scientifica-metodologica. L’ultima critica riguarda il privilegio accordato agli strumenti compensativi, di cui afferma la validità terapeutica ma all’interno di un programma di trattamento riabilitativo il cui focus dovrebbe essere la riabilitazione neuropsicologica.

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Sebastiano Lupo

La Dislessia Evolutiva e i suoi trattamenti

Manuale per insegnanti, genitori e operatori

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Prima Edizione: 2015

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INDICE

Capitolo 1 - La dislessia evolutiva.

1.1 La Dislessia Evolutiva nelle defi nizioni correnti.1.2 Epidemiologia della DE.1.3 Le traiettorie evolutive dei bambini dislessici.1.4 Tra geni e cultura: fattori biologici e fattori ambientali nell’eziopatogenesi della dislessia evolutiva.1.4.1 Studi di genetica molecolare.1.4.2 Evidenze neuroanatomiche.1.5 Fenomenologia linguistica della dislessia.

Capitolo 2 - Eziologia della dislessa evolutiva.

2.1 Teoria del defi cit fonologico.2.2 Teoria del defi cit al sistema magnocellulare.2.3 Teoria cerebellare.2.4 Teoria multifattoriale.

Capitolo 3 - I modelli esplicativi.

3.1 L’approccio neuropsicologico e il modello a doppia via.3.2 L’approccio neuropsicofi siologico: il balance-model di Bakker.

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3.3 L’approccio clinico e il modello di Boder3.4 Il modello componenziale di Struiksma.3.5 Il modello di sviluppo stadiale di Uta Frith.

Capitolo 4 - Tipologie di diagnosi.

4.1 Consensus Conference.4.2 La diagnosi clinica.4.3 La diagnosi funzionale.4.4 Gli strumenti della valutazione.

Capitolo 5 - I trattamenti della dislessia evolutiva.

5.1 La prevenzione dei defi cit di letto-scrittura.5.2 Gli interventi restitutivi. 5.2.1 Trattamento per l’automazione del riconoscimento sublessicale e lessicale.5.2.2 Il trattamento Balance-Model di Bakker.5.2.3 Il trattamento percettivo-motorio.5.2.4 Altre tipologie di trattamento. 5.3 I metodi compensativi.

Capitolo 6 - Trattamenti a confronto: misure di effi cacia e di effi cienza.

6.1 Signifi catività clinica dei trattamenti:misure di effi cacia ed effi cienza.6.2 Un esempio di confronto tra trattamenti.

Bibliografi a.

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INTRODUZIONE

In Italia il dibattito attorno alla complessa problematica della dislessia evolutiva ha ricevuto un impulso notevole con l’ema-nazione, da parte del Parlamento Italiano, della Legge n. 170 del 10 ottobre 2010 sul riconoscimento dei DSA (Disturbi Specifi ci dell’Apprendimento Scolastico) da parte delle istituzioni sco-lastiche a tutti i livelli. La nuova normativa, meglio conosciuta come legge sulla dislessia, ha introdotto due principi fondamen-tali, che declinano il diritto allo studio per i soggetti colpiti dal disturbo di lettura: il riconoscimento formale del disturbo, che può arrecare gravi ed irreparabili conseguenze alla crescita scola-stica ed umana e il diritto a un trattamento pedagogico-didattico differenziato, nell’ambito della scolarizzazione di base primaria e secondaria. La riabilitazione neurocognitiva è il convitato di pietra, l’ombra che aleggia, la parola impronunciabile e la legge non ne fa cenno, perché?

Una rifl essione è d’obbligo: da una parte c’è un grande di-battito attorno ai temi della diagnosi, della potestà certifi catrice e delle competenze professionali per la diagnosi medesima. Gli appellativi non si sprecano: multidisciplinarietà, interdisciplina-rietà. Per poter fare una diagnosi sono richieste competenze mul-tiple di psicopatologo dell’apprendimento (?), di neuropsichiatra, di logopedista, l’esercizio pubblico di una di queste professioni e l’accreditamento presso il S.S.N., ma il “grande controllo” si ferma qui. E la riabilitazione? Perché è scomparsa dagli articoli della legge? Quale ratio (intesa nelle sue espressioni epistemo-

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logiche e metodologiche) ha mosso gli estensori? Perché non si è inteso affi dare alle medesime strutture pubbliche del S.S.N. anche l’obbligo dei programmi di riabilitazione? Perché si è af-fi dato, ancora una volta, alla scuola italiana un compito e una funzione che non le sono propri? Perché s’è fatta una legge a costo zero?

Le risposte a queste domande vengono dai risultati del primo biennio di attuazione. I risultati, desunti dalla prima rilevazione statistica del MIUR relativa al biennio di applicazione, (2011-2012), ci consegnano due Italie della dislessia; il nord, ove i processi di individuazione e certifi cazione della disabilità vanno avanti a ritmo progressivo, il mezzogiorno e le isole (la Sicilia in particolare), ove il processo riformatore si è praticamente blocca-to, con un livello di certifi cazione di appena un alunno dislessico su dieci.

Il dibattito cui partecipiamo anche attraverso la complessa rete telematica nazionale, aveva già evidenziato alcuni nodi pro-blematici e non tutti positivi e progressivi. Un ruolo progressi-vo sta svolgendo la rete telematica di facebook, all’interno della quale la comunità di tecnici (principalmente psicologi e logope-disti) sta dibattendo ed estendendo la problematica della dislessia anche ai non addetti ai lavori. Ma sta sempre di più emergendo l’altro effetto, quello regressivo ed involutivo della legge. Infatti, l’impianto pubblicistico e statalista, che riconosce (s’intende ai soli fi ni della certifi cazione pubblica) alle sole ASP la potestà certifi catrice, di fatto sta bloccando il processo riformatore quale era nelle intenzioni dei promulgatori della legge, appesantendo il lavoro delle équipe multidisciplinari chiamate alla diagnosi. Anche le regioni più avanzate dal punto di vista organizzati-vo sanitario, cedono il passo. Oggi avere una diagnosi in una struttura pubblica, costa in termini di tempo non meno di 12-16 mesi (vedasi Circolare del MPI n. 8 prot. 561 del 6 marzo 2013). La conferma arriva da un’auterevolissima fonte, la stessa che ha patrocinato e fortemente voluto la legge, l’Associazione Italia-na Dislessia, per bocca della sua Presidente. “Purtroppo il ser-

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vizio sanitario nazionale ospedaliero e territoriale, come l’AID quotidianamente constata in tutto il territorio nazionale, non è in grado di dare risposte in tempi accettabili alle esigenze dei DSA, e non solo in riferimento alla diagnosi; questa realtà, che esamineremo, rischia di pregiudicare i diritti e gli interessi degli studenti con DSA.” (cfr. Posizione dell’AID sull’iter diagnostico in www.aiditalia.org/upload/posizione_aid_iter_diagnostico.pdf, 30/12/2011).

Quali le conseguenze? Se si considera che la famiglia e la scuola, nella migliore delle ipotesi, cominciano ad attenzionare il problema non prima della fi ne del secondo anno della primaria, si comprende come la metà della cosiddetta fi nestra evolutiva vada perduta. D’altra parte la stessa legge, cui per altro difettano le indicazioni di carattere operativo, limitandosi a una demagogica enunciazione di principio, non individua la prevenzione come strumento fondamentale di contenimento e/o risoluzione della problematica della dislessia evolutiva.

Ma la critica più saliente che si può muovere attiene al cam-po squisitamente tecnico-scientifi co. L’enfasi e la centralità po-ste sulla dimensione scolastica sono le caratteristiche dominanti della legge sulla dislessia. Sul piano metodologico viene ribadita la centralità delle Misure educative e didattiche di supporto (art. 5 - didattica individualizzata e personalizzata, misure compensa-tive, misure dispensative). Una visione epistemologica che a dir poco discutibile, il privilegio accordato ai metodi compensativi in luogo della prevenzione e della riabilitazione. Se si accetta il costrutto della classifi cazione dei trattamenti dei DSA in preven-tivi (4-7 anni di scolarità), di restituzione o di base (8-11 anni) e compensativi (oltre 11 anni) [Chilosi, 2006], si comprende che lo strumento compensativo, il cui nucleo centrale è la riabilita-zione meta-cognitiva, si situa al di là della fi nestra critica e in nessun modo può restituire/migliorare la facoltà andata perduta.

Indicazioni perfettamente coerenti ci vengono dai costrutti fondamentali della riabilitazione neuropsicologica dei disturbi acquisiti. La superiorità dei metodi restitutivi rispetto ai metodi

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compensativi è un dato scientifi co acquisito e ampiamente con-diviso. I metodi restitutivi agiscono direttamente sul defi cit, consentendo un ritorno di effi cacia, a vari gradi e livelli, della funzione dannaggiata. I metodi compensativi insegnano al pa-ziente l’utilizzo di strategie diverse, compensando la funzione defi citaria con altre funzioni [Serino, 2012]. L’ascolto di un testo al computer può compensare il defi cit di lettura e consentire al dislessico la comprensione del testo stesso, ma non restituisce la funzione persa. Quanto poi al grado di comprensione che è in grado di attivare non vi sono ancora studi validati. Occorre ribadire con chiarezza ciò che la legge 170 misconosce, cioè che il trattamento riabilitativo della dislessia evolutiva è il nucleo fondamentale di qualsivoglia impostazione terapeutica della di-slessia e che esso è un trattamento sanitario e non una metodo-logia educazionale e/o psicoeducativa e, come tale, rientra tra le competenze del Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N). I metodi compensativi adottati a scuola sono misure educative e didatti-che di supporto, necessarie ed anche indispensabili, ma pur sem-pre di supporto al trattamento riabilitativo.

Ci è sembrato utile il chiarimento metodologico nella presen-tazione del presente lavoro, proprio per riportare al centro del dibattito il problema della dislessia, nelle sue componenti neu-robiologiche, eziologiche, diagnostiche ed esplicative, di tratta-mento.

Anche i fautori del principio, non ancora supportato da evi-denze sperimentali, che vuole i metodi compensativi di effi cacia superiore di quelli restitutivi, trattandosi di defi cit evolutivi di cui è impossibile modifi carne la struttura neurofunzionale [Stel-la, 2006], riconoscono la centralità della riabilitazione neuropsi-cologica, evento che si situa a monte di qualsivoglia intervento didattico-pedagogico incentrato sulla compensazione.

Il libro si declina in sei capitoli, che trattano della dislessia evolutiva, della sua storia, dei paradigmi interpretativi, dell’ap-prodo a una concezione neurobiologica a partire dai modelli esplicativi della psicologia clinica che facevano riferimento agli

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aspetti emotivo-relazionali, dentro un modello esplicativo teori-co, il modello PCN o modello cognitivo-neuropsicologico, che fa della dislessia una complessa sindrome cognitiva-neuropsico-logica.

Il secondo capitolo descrive le principali ipotesi eziologiche: quella fonologica che rimane la più accreditata, l’ipotesi del processamento uditivo rapido, quella del doppio defi cit, l’ipo-tesi visiva del defi cit alla via magnocellulare e, per fi nire, quel-la del defi cit multifattoriale. Il terzo capitolo descrive i modelli esplicativi con particolare riferimento al modello neuropsicofi -siologico Balance-Model di Dirk Bakker, al modello neuropsi-cologico di Coltheart, a quello componenziale di Struiksma. Il quarto capitolo tratta dell’inquadramento nosografi co e delle tipologie di dislessia presentate e discusse in relazione ai modelli esplicativi, della diagnosi differenziale e degli strumenti diagno-stici. Il quinto capitolo presenta una dettagliata panoramica dei principali modelli di intervento riabilitativo, di tipo neuropsi-cologico e psicolinguistico. Il sesto capitolo illustra i criteri di signifi catività dei trattamenti e fa una comparazione statistica tra i trattamenti italiani più accreditati.

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CAPITOLO 1 - LA DISLESSIA EVOLUTIVA

La legge 8 ottobre 2010 n. 170 sancisce l’ingresso uffi ciale dell’Italia nel novero dei paesi avanzati, che considerano la Di-slessia Evolutiva un problema sociale importante e strategico per lo sviluppo del sistema scolastico italiano. Perché l’Italia è arrivata con circa un ventennio di ritardo al riconoscimento del-la problematica sociale e sanitaria dei DSA, almeno rispetto a molti altri paesi europei? La reductio ad unicum chiama in causa la psicologia clinica italiana come unica responsabile di questo ritardo. L’errore che si imputa ai clinici italiani di avere scam-biato le cause con gli effetti, ha radici complesse. Certamente ancora oggi il paradigma di interpretazione prevalentemente di tipo psicodinamico, che spiega la DE come un disturbo di tipo emotivo e/o relazionale, è ancora abbastanza resistente anche tra gli stessi clinici [Stella, 2004]. Di volta in volta vengono evocati i sistemi relazionali del bambino e la sua risposta all’ansia che questi sistemi disfunzionali evocherebbero. Non di rado, almeno nell’opinione corrente delle scuole italiane, vengono chiamati in causa il parenting (rapporti diadici madre-fi glio, rapporti polia-dici, confl itti emotivo-relazionali interni alla famiglia), le rela-zioni a scuola e il carico eccessivo di richieste di performance apprenditive per un soggetto dislessico. Sicché le manifestazioni comportamentali (ipersensibilità, forme oppositive, irrequietezza motoria, ecc.), che tipicamente si associano alle diffi coltà di let-tura, sono evocate come cause e non effetti della DE. Un paradig-ma che è molto radicato nell’attività di molti clinici, così come

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nel senso comune dei docenti italiani e, non di rado, pregiudica irrimediabilmente il futuro personale di molti bambini (cfr. caso clinico).

La spiegazione di questo ritardo chiama in causa i rapporti della psicologia clinica italiana con la ricerca in neuroscienze, ed in particolar modo in neuropsicologia dell’età evolutiva. Forse è il caso di estendere l’assunto che è in atto una modifi ca cultu-rale in seno alle neuroscienze italiane. L’impronta neurologica, che per lunghi decenni ha permeato la giovane neuropsicologia italiana, è al capolinea [D. Grossi, F. Boller, 1996] e, con essa, anche il paradigma riduzionista che ne consegue. Da qui il salto, non ancora compiuto del tutto, che ci fa ipotizzare che è in atto una transizione epistemologica, nel senso kuhniano del termine, verso un modello di spiegazione di tipo circolare e complesso che è quello cognitivo-neuropsicologico, contrapposto a quello riduzionista classico, che separa neurologia e psicologia clinica come scienze disgiunte e separate. Per cui l’incapacità iniziale della neurologia di spiegare l’eziologia della dislessia si coniuga con i risultati dell’altra scienza giustapposta la psicologia clinica, che la esplica invece in senso psicodinamico.

Gli sviluppi neuroscientifi ci odierni, che hanno defi nito e af-fermato la matrice neurobiologica della DE, sono il risultato di questo cambio paradigmatico: da una visione riduzionistica e monodisciplinare (la neurologia con il suo carico di riduzioni-smo biologista e la psicologia clinica egemonizzata dal paradig-ma psicodinamico) a un’interpretazione transdisciplinare, circo-lare e complessa, in cui confl uiscono i risultati e le conoscenze più recenti di un ampio spettro di discipline (neurologia, neuro-anatomia, psicologia cognitiva, neuropsicologia cognitiva, neu-rofi siologia, neurochimica, neurofarmacologia). Ma è un confl u-ire dinamico ed organizzazionale, cioè produttore di sé, in cui in queste interazioni i concetti e gli schemi migrano da un sapere all’altro, creando un processo ciclico che retroagisce non solo sulla disciplina singola ma anche sul ricercatore e su tutte le altre scienze. Le inter-retroazioni divengono così comunicazionali e

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organizzazionali, si ha una inter-grammaticazione reciproca e la fabbricazione di nuove teorie e nuovi principi [Lupo, 2006].

Il contributo più rilevante a questo sapere interdisciplinare e complesso è venuto dalla psicologia cognitiva e dalla neuropsi-cologia di matrice cognitivista. A queste due discipline dobbiamo lo sviluppo di una modellistica dei processi cognitivi in grado di spiegare l’architettura funzionale dei processi normali ed atipici.

Ormai da decenni l’apporto neuropsicologico in psicologia clinica dello sviluppo trova un ampio impiego nello studio dei pazienti con lesioni al sistema nervoso centrale (SNC), con de-fi cit cognitivo primario o secondario ad alterazioni genetiche, con disturbi specifi ci: disturbo specifi co del linguaggio, disturbo specifi co di apprendimento, disturbo della coordinazione moto-ria, ecc. [Temple, 1997; Vicari e Caselli, 2002], in soggetti con alterazioni comportamentali [Vio, 2004], in soggetti affetti da au-tismo [Frith, 1989; Surian, 2002].

Non è pensabile uno sviluppo in senso neuroscientifi co del-le conoscenze sui disturbi dell’apprendimento scolastico (DSA) senza l’apporto decisivo dei modelli esplicativi della dislessia e della discalculia: dai modelli di impianto e di matrice neurop-sicologica, come il modello a due vie [Sartori, Job, 1983; Sar-tori, 1984], il dual-route-model [Coltheart, 1978], il modello di discalculia [McCloskey, 1985], a quelli neuropsicofi siologici: il balance model [Dirk Bakker, 1980].

1.1 La Dislessia Evolutiva nelle defi nizioni correnti

La comunità scientifi ca ha raggiunto un suffi ciente accordo sulla defi nizione del termine dislessia evolutiva. Tre istituti, tra i più rappresentativi nel panorama internazionale, il National Institu-te of Child Health (NICH), l’International Dyslexia Association

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(IDA) e l’European Dyslexia Association (EDA), concordano sostanzialmente nel defi nire la Dislessia Evolutiva (DE) come “una disabilità specifi ca dell’apprendimento di origine neuro-biologica. Essa è caratterizzata dalla diffi coltà nell’effettuare una lettura accurata e/o fl uente e da abilità scadenti nella scrit-tura e nella decodifi ca. Queste diffi coltà tipicamente derivano da un defi cit nella componente fonologica del linguaggio che è spesso inattesa in rapporto alle altre abilità cognitive e alla ga-ranzia di un’adeguata istruzione scolastica. Conseguenze secon-darie possono includere i problemi di comprensione nella lettura e una ridotta pratica della lettura che può impedire la crescita del vocabolario e delle conoscenze generali” [IDA, 2003].

La DE viene classifi cata come un Distrubo Specifi co dell’Ap-prendimento Scolastico assieme alla Discalculia Evolutiva, alla Disortografi a e alla Disgrafi a o disprassia della scrittura. Speci-fi cità, comorbidità e origine neurobiologica sono tre caratteri-stiche che distinguono un disturbo specifi co dell’apprendimento scolastico da uno aspecifi co. Le diffi coltà di apprendimento, e nel caso in specie di lettura, infatti, possono essere anche la con-seguenza di defi cit sensoriali e/o educazionali, nel qual caso si parlerà di disturbo aspecifi co [DSM-5, F81.9 Disturbo dell’Ap-prendimento non altrimenti specifi cato]. Quindi per poter parlare di DE è necessario, in primis, escludere l’esistenza di defi cit sen-soriali, così come anche di fattori di svantaggio socio-culturale. Disturbi alle vie visive ed uditive, deprivazione affettiva, carenze di accudimento e di educazione, si associano spesso ad atipico sviluppo delle abilità di lettura e fi niscono per compromettere e/o rallentare la carriera scolastica. Nel disturbo aspecifi co, in ge-nere, sono presenti problematiche in tutte le aree dell’apprendi-mento scolastico, dalla lettura alla comprensione del testo, dalla discalculia alla disortografi a, che si accompagnano spesso anche ad anomalie sensoriali, defi cit neurologici, psicopatologie, fattori di esclusione per il disturbo specifi co.

Il disturbo specifi co [DSM-5, F81.0 Disturbo di Lettura] è

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tale perché riguarda un dominio settoriale ben defi nito e deli-mitato e lascia intatte e in sviluppo tipico e normale le abilità afferenti ad altri domini.

Occorre fare anche una seconda distinzione, quella tra distur-bo e diffi coltà. Non tutte le manifestazioni di sviluppo atipico della lettura in termini di velocità e di errori sono inquadrabili come learning disabilities. La differenza fra questi due profi li ha un’importante ricaduta sui trattamenti riabilitativi.

La condizione di disturbo, categoria nosografi ca inquadrata nel DSM-5 e nell’ICD-10, è l’espressione di un’organizzazione anatomo-funzionale cerebrale presente alla nascita, ma che tro-va la sua espressività quando il bambino è alla prese con l’ap-prendimento della lettura, della scrittura e del calcolo [Tressoldi, Vio, 2008]. Una condizione innata determinerebbe lo sviluppo atipico della lettura nel dislessico, in quanto le caratteristiche neurofunzionali sono geneticamente determinate e non acquisite [Grigorienko, 2001]. La natura neurobiologica determinerebbe, anche, una resistenza al cambiamento, response o resistance to instruction o, anche, résistance didactique et thérapeutique. La modifi cabilità dei comportamenti di lettura, attraverso attività specifi ce e mirate anche in termini di durata e frequenza, deve fare i conti con i complessi fenomeni di riorganizzazione strut-turale e funzionale, per cui la resistenza al cambiamento viene interpretata come espressione di disturbo specifi co. Viceversa, la risposta positiva susseguente ad adattamenti pedagogici e didat-tici è sintomatica del ritardo o delle diffi coltà, eziologicamente correlate a fattori diversi da quelli neurobiologici, più in generale fattori di tipo educazionale. In defi nitiva i dislessici sarebbero soggetti resistenti al trattamento e per tale motivo la resistenza all’intervento si esprimerebbe come resistenza all’automazione dei processi di decodifi ca.

In fi gura 1 è rappresentato il risultato di un trattamento riabi-litativo di un alunno di inizio quinta elementare, con diagnosi di ritardo nell’acquisizione delle abilità di lettura. Al soggetto, per

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tre mesi con due sedute settimanali di un’ora ciascuno, è stato ap-plicato un trattamento misto: la stimolazione emisfero-specifi ca sinistra con presentazione tachistoscopica destra e l’automazione del riconoscimento sub-lessicale e lessicale. Gli esiti del tratta-mento in termini di effi cacia e di effi cienza sono i seguenti:

velocità di lettura di brano pre-trattamento 2,4 sill./sec., post 3,4 sill./sec., con un vantaggio di 0,9 sill./sec in tre mesi di stimo-lazione. Il cambiamento nella velocità di lettura è stato superiore a quello atteso dall’evoluzione naturale pari a 0.5 sill./sec.. L’e-sito del trattamento conferma la diagnosi che trattasi di ritardo e non disturbo.

Il criterio della specifi cità inteso come defi cit in un dominio specifi co e circoscritto, si correla all’altro criterio quello della di-screpanza. Il soggetto dislessico, a differenza di quello in ritardo, conserva tipicamente le altre abilità, a cominciare dall’intelligen-za. Dunque nel dislessico esiste una deviazione statisticamente signifi cativa tra intelligenza generale (QI) e risultati scolastici patologici non correlati all’intelligenza generale. Sicché nella pratica clinica un QI<85 misurato con i normali strumenti psi-

Fig. 1 - Esiti del trattamento riabilitativo delle diffi coltà di lettura. Fonte: Lupo, [2009].

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cometrici viene ad essere elemento di esclusione per la diagnosi di dislessia evolutiva. Diversamente, il ritardo nell’acquisizione delle abilità di lettura, ma anche di altre come la discalculia, la disortografi a e la disgrafi a, può essere correlato, e molto spesso lo è, a un’intelligenza atipicamente al di sotto della norma, così come è correlato a svantaggio socio-culturale, a problemi emoti-vo-relazionali e di comportamento, a sindromi psicopatologiche, a carenze di istruzioni, a defi cit neuropsicologici quali attenzione e memoria. Altri criteri utili alla defi nizione dei DSA sono: il ca-rattere evolutivo, la diversa espressione del disturbo nelle diverse fasi dell’evoluzione, la comorbidità interna ed esterna, l’impatto negativo che compromette l’adattamento scolastico e le attività quotidiane.

L’evoluzione naturale nel tempo delle abilità di lettura nel

lettore tipico e atipico è stata attenzionata da diversi ricercatori. In uno studio longitudinale [Stella e Biondino, 2002], realizzato su 30 alunni (23 maschi e 7 femmine) di seconda e terza primaria con diagnosi di dislessia evolutiva di grado medio-lieve per 12 soggetti (fra -2 e -3 ds) e di grado severo per i rimanenti 18 (ds > -4), è stato dimostrato che la velocità di lettura, entro l’arco del-la scolarità obbligatoria, progredisce naturalmente con gradiente differente: mediamente 0,5 sill./sec. all’anno per i normolettori e 0,3 sill./sec nei soggetti con sviluppo atipico. Inoltre, in ter-za media, quando viene raggiunto l’effetto soffi tto, la distanza che separa normolettori e dislessici risulta aumentata (in seconda primaria 2,1 vs 0,33 differenza 1,57, in terza media 5,32 vs 2,27 differenza 3,05).

Un altro dato signifi cativo che emerge dallo studio di Stella e Biondino, riguarda la stabilità del profi lo dei dislessici. Infatti dei 18 dislessici defi niti severi, solo uno al termine della terza media transita nel sottogruppo dei dislessici medio-lievi. Un’ultima ac-quisizione importante dello studio longitudinale dei due studio-si italiani, ai fi ni diagnostici e riabilitativi, riguarda la differente evoluzione nella velocità di lettura (che si mantiene costante) e

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nell’accuratezza che, invece, evolve naturalmente verso profi li di tipicità. Ne consegue la scarsa rilevanza del parametro accu-ratezza come indicatore critico della severità del disturbo [Stella e Biondino, 2002].

In defi nitiva, come per la lingua tedesca, anche per l’italiano lingua ad ortografi a trasparente, la velocità di lettura sembra es-sere il criterio fondante e cruciale per la diagnosi di dislessia evo-lutiva, mentre l’accuratezza evolve spontaneamente verso profi li di tipicità e non sembra essere un difetto persistente nel tempo.

1.2 Epidemiologia delle DE

Un problema di rilevanza clinica e riabilitativa è la fenome-nica della dislessia, cioè quanto, quando e come si presenta nel-la popolazione italiana. Vi è una mancanza di consenso circa le stime della presenza della dislessia evolutiva nella popolazione italiana e le cause sono le più disparate.

Fig. 2 - Evoluzione delle abilità di lettura in età evolutiva. Fonte: Stella e Bion-dino, [2002]

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Innanzitutto la mancanza di un osservatorio epidemiologico nazionale. Nell’ambito dei lavori della Consensus Conference 2007 è stato costituito un gruppo inter-associativo e interdiscipli-nare di ricerca epidemiologica, ma ancora non se ne vedono gli effetti, almeno in termini di produzione scientifi ca centralizzata di dati epidemiologici su base nazionale. Dunque i dati vanno desunti ed estrapolati da ricerche di carattere locale.

Giacomo Stella [2002] fornisce dati varianti tra il 2,5% e il 3,5% della popolazione generale, sostanzialmente in accordo con i lavori di Salvatore Soresi [1993] e di G. Levi [1994]. Stime più alte vengono fornite da altri autori: Curci e Ruggerini [1991] la situano al 3,65%, Mazzotta [1992], e, infi ne, Tressoldi tra il 5% e il 10% [2001].

L’andamento del fenomeno nella scuola dell’obbligo sem-bra descrivere una curva a campana (fi g. 3). A partire dall’ini-zio della seconda classe scuola primaria si ha un considerevole incremento, che tocca l’apice nel corso della terza primaria; poi comincia a decrescere fi no alla fi ne della scuola media superiore [Stella, 2004].

Il dato sembra essere la spiegazione causale della diversità dei dati epidemiologici esistenti sul territorio nazionale. Non è pos-sibile, infatti, comparare dati relativi a classi di età e di scolariz-zazione diversi. Una conferma delle acquisizioni di Stella è data da uno studio della Regione Veneto, effettuato all’ASP di Verona dal Centro di Riferimento Regionale per i Disturbi dell’Appren-dimento (CRRDP). La popolazione dei dislessici nell’età evolu-tiva (fi no a 18 anni) è stimata attorno al 3,5%, con un andamento variabile per classi di scolarizzazione ed età: 0-4 3,5%, 5-7 5%, 8-10 3,5%, 11-18 2,5%.

Un altro limite alla ricerca epidemiologica è rappresentato dagli strumenti di diagnosi. Solo a partire dalla Consensus Con-ference del 2006 sono state emanate Linee Guida anche per la diagnosi, che prevedono un protocollo standardizzato e misure di cut-off per la maggior parte delle prove.

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Uno stereotipo corrente spiega anche il ritardo culturale ita-liano all’approccio problematico della dislessia evolutiva. La lin-gua italiana, per la sua caratteristica di essere lingua ad ortografi a trasparente (vedi oltre), si apprende in contesti ecologici in modo facile. I bambini che non imparano a leggere, data la sempli-cità del sistema ortografi co, sono da sempre considerati pigri e svogliati. Dunque i ritardi nella consapevolezza fonologica e nei processi di transcodifi ca vengono ancora oggi molto spesso sot-tovalutati [Stella, 2004].

Altro e rilevantissimo problema soprattutto ai fi ni riabilitativi, è quella delle forme cliniche assosciate alla DE. Raramente la DE si presenta nella forma pura; molto spesso essa è associata ad altri disturbi, dunque in comorbidità. La comorbidità del disturbo di lettura con altro DSA (disortografi a, diascalculia, disprassia della scrittura) o con manifestazioni psicopatologiche (ansia, de-

Fig. 3 - Andamento della dislessia nell’arco dell’età evolutiva. Fonte: Stella e Biondino, [2002]

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pressione, disturbi oppositivo-provocatori, ADHD, disturbi del comportamento, ecc.) può essere di due tipi: conseguente e co-occorrente.

In misura e gradi diversi la dislessia si accompagna a distur-bi della sfera emotivo-relazionale e del comportamento, sicché molto spesso questi vengono erroneamente considerati le cause della diffi coltà nella decodifi ca della parola scritta. È un rapporto complesso quello della dislessia con i disturbi della sfera emo-tiva, affettiva e motivazionale che invariabilmente l’accompa-gnano, articolato nell’eziopatogenesi dei sintomi disfunzionali e negli effetti che può produrre a media e lunga scadenza. Ovvia-mente, il quadro dei profi li psicologici e non necessariamente psicopatologici è estremamente variante e non riducibile ad un unicum. Soprattutto il livello qualitativo della sintomatologia di-pende da numerosi fattori, tutti spiegabili alla luce di un modello interpretativo, multifattoriale, complesso e a-soglia, il modello cognitivo-neuropsicologico (vedi oltre). Diversi e complessi fat-tori di origine genetica e ambientale contribuiscono al determi-nismo della struttura di personalità del soggetto dislessico. Una struttura ancora in formazione che, quindi, può essere “aggiusta-ta” con opportuni correttivi terapeutici.

Pur nella diversità dei profi li fenomenologici, alcuni proces-si di base si presentano comuni a tutte le forme di dislessia in diverse aree: della motivazione, della sfera emotiva, della sfera relazionale, del successo scolastico, e determinano un disagio psicologico che, non di rado, evolve in disagio sociale.

L’area della motivazione è senza dubbio la prima ad esse-re intaccata. Il bambino dislessico è svogliato, apparentemente privo di motivazione allo studio, utilizza tecniche di coping di-sfunzionali quali la disattenzione, la scarsa partecipazione, l’e-vitamento, che ben presto si circolarizzano e divengono abitus comportamentale corrente. A scuola viene defi nito svogliato, privo di interessi e si rifi uta di fare i compiti, a volte compaiono anche segni apparenti di inibizione intellettiva.

La sfera emotiva è contrassegnata da un vissuto di profondo

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disagio e frustrazione, che non di rado si declina in manifestazio-ni di ira e di rabbia, con comportamenti oppositivi ed aggressivi. La scuola è vissuta con profonda tensione, diviene essa stessa fonte di disagio. Spesso rifi uta di andare a scuola, accusa sintomi somatici proprio al momento della separazione, mal di pancia, mal di testa, sensazioni di vomito; sembra quasi esser preso da ansia da separazione o fobia per la scuola.

La sfera relazionale può contribuire a circolarizzare i com-portamenti disfunzionali del bambino dislessico. I primi compor-tamenti aggressivi diventano fattori trigger, che innescano intera-zioni sociali distorte e di rifi uto. Intorno ai sintomi del bambino si crea una scuola selettiva, che rifi uta le sue diffi coltà, che preten-de senza dare, che emargina più che integrare. È la profezia che si autoavvera: il bambino è un disadattato, non è scolarizzabile, non è portato per la scuola, manca dei prerequisiti cognitivi e comportamentali, è meglio che resti a casa. L’eziologia di questi comportamenti disturbanti la si ricerca solo nel parenting.

Il rendimento scolastico diventa esso stesso molto spesso fonte di disagio. Le ferite inferte all’autostima da richieste supe-riori alle capacità personali (ben oltre la zona di sviluppo pros-simale del bambino), caricano di ansia tutto il vissuto scolastico e attivano un processo difensivo di disinvestimento diffi cilmente reversibile [Mancini, Gabrielli, 1998].

Insuccesso e bassa autostima elicitano un processo di circola-rità viziosa di cui è impossibile intelligere la rampa di lancio. Un indice basso di autostima induce aspettative negative. Il soggetto tenderà a evitare l’impegno, con un atteggiamento autolesioni-stico (self handicapping), che però è funzionale al suo benesse-re psicologico. Attribuisce l’insuccesso allo scarso impegno ed evita una più compromettente causalità alla sua incapacità. Tutto ciò, ovviamente, si accompagna ad ansia e stress emotivo.

Il risultato non può che essere negativo, ma l’angoscia è “vin-ta” da questa forma autodifensiva. Il senso di colpa autodiretto e eterodiretto subentra all’insuccesso in correlazione agli atteg-giamenti ed alle aspettative dei suoi altri signifi cativi (genitori,

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insegnanti e compagni). Il circolo vizioso si chiude (per riaprirsi immediatamente dopo per un nuovo processo) con un effetto do-minante: l’abbassamento del senso di autoeffi cacia e dell’auto-stima globale e la nascita dell’helplessnes (impotenza appresa), una condizione di completa vulnerabilità che sopravviene alla credenza acquisita che non esista più nulla che sia in grado di proteggere il Sé, e di conseguenza il soggetto dislessico, com-pletamente esausto, non mette più in atto alcun genere di sforzo [Seligman, 1996].

Fig. 4 - Circolo vizioso dell’helplessness.

Don Lorenzo Milani ed Edgar Morin, due contemporanei dai destini e dagli esiti vitali così diversi, ma accumunati dalla me-desima sensibilità intellettiva, ci hanno ben spiegato la funzione insostituibile del linguaggio: l’uomo è il suo linguaggio e il lin-guaggio è l’uomo. Fra l’uomo e il linguaggio v’è una relazione circolare e complessa, in cui ciascun elemento della diade genera l’altro in un processo autopoietico circolare senza fi ne.

Opportunamente scrive il Maestro di Barbiana: Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua. Questa non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita d’ogni uomo, dal primo

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all’ultimo che si vuol dire uomo... Ciò che manca ai miei è dun-que solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza e i confi ni precisi, sulla propria per-ché esprima senza sforzo e senza tradimenti le infi nite ricchezze che la mente racchiude [Milani, 1956].

Altrettanto esplicativo il pensiero dell’epistemologo france-se Edgar Morin: L’uomo si è fatto nel linguaggio che ha fatto l’uomo. Il linguaggio è in noi e noi siamo nel linguaggio .[…]. Il linguaggio permette l’emergenza della mente umana, le è neces-sario per tutte le operazioni cognitive e pratiche, ed è inerente a ogni organizzazione sociale [Morin, 2002].

Se dunque il linguaggio è l’essere, nel suo venir meno sva-nisce l’essere stesso, che scolorisce nella variegata fenomenica della comorbilità esterna, ovvero del suo presentarsi, in modo statisticamente signifi cativo, in compresenza con disturbi di na-tura psichiatrica, della cui risoluzione dipendono anche gli esiti sul piano dello sviluppo individuale e sociale. Non necessaria-mente, però, la compresenza di DSA e sindromi psichiatriche va intesa come diversa espressione di un unico fattore monopatoge-netico [Consensus Conference, 2007].

Il disagio personale e sociale del soggetto dislessico con le sue manifestazioni nella sfera cognitiva, emotivo-relazionale e comportamentale, può evolvere verso un disturbo mentale solo in condizioni di vulnerabilità. In questo senso, più che parlare di evoluzione verso, è più corretto considerare l’emergenza di un DSA come di un evento critico, il più delle volte inaspettato, che costituisce una prova impegnativa per il bambino e i suoi genitori, perché impone loro una modifi ca della concezione che hanno di se stessi e una verifi ca nel campo della qualità protettiva e confortante della loro relazione di attaccamento che dà luogo a diverse risposte non rigidamente disgiunte e lungo un conti-nuum di risposte collegate tra loro: di adattamento funzionale, di adattamento difensivo, di alternanza di stragegie protettive, di alternanza di strategie improduttive, di disperazione, di de-pressione e di helplessness [Ruggerini, Lambruschi, Trebeschi,

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Landini, 2004].La mancanza in Italia di un osservatorio epidemiologico na-

zionale rende diffi cile quantifi care la presenza di disturbi psi-chiatrici che si presentano in comorbilità con la dislessia evo-lutiva. In uno studio di 64 dilessici, circa il 30% presentava di-sturbi psichiatrici. Largamente rappresentativo era il Defi cit di Attenzione e Iperattività (ADHD) 15% in associazione spesso con il Disturbo Oppositivo Provocatorio, seguito da Disturbo dell’Umore di Tipo Depressivo per l’11%, e altri disturbi come Pavor Nocturnus, Tricotillomania, Eneuresi primaria, Encopresi primaria, Disturbo d’Ansia da Separazione, Disturbo Iperansioso dell’Infanzia presenti in casistica con la stessa frequenza con cui compaiono nella generale popolazione [Marino e Vanzin, 2000].

L’eziologia di questi disturbi appare, al momento, indipen-dente dal quella della dislessia, anche se la presenza contempora-nea dei due disturbi (ad esempio dislessia e ADHD) si infl uenza reciprocamente, sì da potenziare circolarmente gli effetti negativi dell’uno e dell’altro disturbo.

Da quanto detto precedentemente ne discende, come logica conseguente, il costrutto ampiamente condiviso dalla comunità scientifi ca della spiccata variabilità dei quadri clinici della di-slessia, per cui sarebbe più corretto parlare di dislessie e non di dislessia.

Ovviamente questo discorrere sulla o sulle dislessie non è un puro discordo accademico. Si comprende facilmente che la na-tura e le componenti del profi lo clinico ed eventualmente psico-patologico, infl uenzano fortemente l’inquadramento diagnostico nosografi co, ma soprattutto le previsioni prognostiche e il pro-getto riabilitativo nei diversi profi li.

L’inquadramento della variabilità dei quadri clinici della di-slessia evolutiva fa riferimento a quattro dimensioni: [Adelman, Taylor, 1986]: i fattori eziologici, l’intensità dei sintomi, la re-lazione con le altre aree dello sviluppo o dell’apprendimento, la persistenza del quadro sintomatologico nel tempo.

Una metafora geometrica esprime effi cacemente l’eziologia

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del disturbo. Lungo un continuum sensa soluzione (un asse ge-ometrico) si rappresentano i fattori attivi del determinismo della dislessia. I fattori neurobiologici (estremo a sinistra) interferisco-no con gli altri i fattori ambientali che possono fare da fattori di vulnerabilità e di protezione. Uno sbilanciamento a destra verso i fattori ambientali disfunzionali: estrazione socio-culturale, siste-ma di attaccamento-accudimento, il parenting, la rete sociale, il teaching, se da una parte può mascherare la dislessia, dall’altro rende più positiva la prognosi. Una sbilanciamento netto a favore del carettere neurobiologico rende più resistente il quadro sinto-matologico neuropsicologico, dovendo fare i conti con gli effetti di un’alterazione della struttura corticale [Ruggerini, 2004].

La prognosi è legata a due specifi ci fattori: l’intensità del qua-dro neuropsicologico (lieve o severo) e la tipologia di disturbo (dislessia fonologica, superfi ciale o mista). In linea di principio la gravità del quadro neuropsicologico è espressione del peso dei fattori neurobiologici, così come nella dislessia fonologica. In questo caso l’evoluzione nel tempo ha una prognosi più negativa e il disturbo permane nel tempo. Ovviamente gli esiti evolutivi sono mediati dalla relazione reciproca che si instaura tra i di-versi livelli: cognitivo e psicopatologico. A infl uenzarne gli esiti è l’esistenza di fattori protettivi (attaccamento sicuro, parenting funzionale, insegnamento effi cace e personalizzato, rete sociale di supporto, ecc.).

Un ruolo decisivo ha il parenting. Sul piano epidemiologico è accertato che in un terzo dei casi di dislessia sono presenti diffi -coltà familiari. Non di rado un bambino dislessico vive in fami-glie in cui i genitori hanno problematiche psichiatriche, problemi relazionali di coppia, in famiglie adottive, o che hanno sofferto la perdita di un genitore, o in famiglie separate. Queste condizioni fi niscono per svolgere un ruolo di rischio psicosociale che può elicitare esiti prognostici negativi.

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1.3 Le traiettorie evolutive dei bambini dislessici

Che esiti ha la dislessia evolutiva fuori dal periodo dello svi-luppo, nell’età adulta? Una domanda carica di signifi cati scien-tifi ci ma soprattutto esistenziali per il soggetto dislessico, cui nemmeno la Consensus Conference 2010 ha dato una risposta defi nitiva. Si è limitata a ribadire ciò che non è accertato e dimo-strato scientifi camente, lasciando aperte le riposte a soluzioni che solo la ricerca futura potrà dare.

La prognosi va posta a tre diversi livelli nell’età adolescen-ziale ed adulta: a livello del disturbo, cioè dell’evoluzione a di-stanza dei processi di decodifi ca; a un secondo livello quello del-la prognosi psicopatologica, riferita al rischio di insorgenza di un distrurbo della condotta e, in ultimo, a livello della prognosi scolastica-lavorativa, cioè degli effetti sul curriculum scolastico e sulle possibilità di accesso al lavoro.

Si è già detto nell’introduzione, che ciò che caratterizza il di-sturbo dal ritardo è la resistenza al trattamento. Dunque dagli studi sull’evoluzione della dislessia nel tempo ci si attende la

Fig. 5 - L’arco neuropsicopatologico della Dislessia evolutiva secondo il modello PCN, Lupo [2014].

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persistenza e la non variabilità. In effetti è quanto emerge allo stato attuale delle conoscenze scientifi che, attraverso l’unica me-tanalisi effettuata su studi di lingua anglofona.

Swanson e collaboratori [2009] hanno effettuato una metana-lisi su 52 studi pubblicati tra il 1963 e il 2007, includendo sog-getti con dislessia (1.793) e soggetti di controllo (1.893), di età compresa tra 18-44 anni, con media 24 anni e ds di 6 anni e con un Quoziente Intellettivo QI > 80.

Sono state individuate variabili suddivise in classifi catorie e comparative, così denominate perché rientranti nei criteri che defi niscono la lettura (le prime) e non incluse nei criteri clas-sifi catori (le seconde). Per ciascuna variabile è stato calcolato l’effect size, ovvero un indice statistico che misura il grado di associazione o dimensioni dell’effetto tra la dislessia e le varia-bili considerate.

L’effect size per la lettura e le sue variabili classifi catorie o non: lettura e competenze neuropsicologiche necessarie alla let-tura (consapevolezza fonologica, lettura di parole, lettura di non-parole, velocità di lettura, spelling di parole, comprensione del testo, intelligenza verbale), si situa a valori alti e tutti superiori a 0,80.

Dunque in età adulta, non solo la lettura globale, ma anche alcune sue componenti neuropsicologiche continuano a mante-nersi defi citarie, consentendo ancora di differenziare tra adulti normolettori e adulti dislessici.

La meta-analisi di Swanson e collaboratori individua anche una dipendenza dal QI. Quanto più alta è la discrepanza tra va-lori di QI e delle capacità di lettura (in termini di velocità e cor-rettezza), tanto maggiore si manifesta la distanza abilitativa che separa i dislessici adulti dai normodotati adulti. Infatti l’effect size per le due variabili QI e lettura cresce proprorzionalmente al crescere della loro discrepanza iniziale.

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I risultati della meta-analisi appena descritta possono consi-derarsi coerenti con la ricerca longitudinale di Stella e Biondi-no, precedentemente esposta. Sia pure limitata all’arco dell’età evolutiva, essa dimostra due elementi: l’evoluzione naturale da un defi cit di grado severo a uno di grado lieve si può realizzare entro la terza media, quando viene raggiunto l’effetto soffi tto, cioè quando si completa lo sviluppo delle abilità di lettura negli studenti italiani; solo una bassissima percentuale di soggetti (uno su 18) ha una evoluzione positiva della disabilità verso il grado lieve [Stella e Biondino, 2002].

In defi nitiva, anche se in termini assoluti si realizza un miglio-ramento delle abilità di lettura, con un incremento annuo di 0,3 sill./sec, le prestazioni dei soggetti dislessici rimangono molto al di sotto di quelle dei loro pari per età e scolarizzazione, sì da costituire un fattore di rischio per gli esiti scolastici e lavorativi futuri. Per cui allo stadio attuale della ricerca si può legittima-mente sostenere che la Dislessia Evolutiva appare come un di-sturbo molto persistente in tutto l’arco della scuola dell’obbligo.

Un’ultima notazione che si rileva dal lavoro dei due studiosi italiani riguarda il differente sviluppo tra velocità di lettura che è più resistente al cambiamento, rispetto all’accuratezza (nume-ro di errori) che, invece, nel dislessico italiano evolve in senso tipico più rapidamente, a partire dalla fi ne della scuola primaria.

Il secondo livello di analisi prognostica è quello dell’evo-luzione nel campo della salute mentale e dell’adattamento so-ciale. Gli esiti della circolarità viziosa (vedi par. 2) che porta il

Tabella 1: Evoluzione a distanza dell’effi cienza del processo di lettura. Fonte: Swanson H. L. et. al. [2009].

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soggetto alla defi nizione dell’helplessness non necessariamente debbono sfociare in esiti psichiatrici. Una vasta letteratura, nella seconda parte del secolo ventesimo, ha sottolineato il rischio di una prognosi sfavorevole in senso psicopatologico per i bambini dislessici. L’ottica riduzionistica della scienza psichiatrica fi no alla fi ne degli anni sessanta, ha portato a sostenere l’esistenza di un rapporto di causalità diretta e lineare tra dislessia evolutiva e grado di disadattamento sociale, fi no ad ipotizzarre una causali-tà con le forme delinquenziali giovanili ed adulte. Il paradigma di questa riduzione è ben espresso dalla psichiatria statuniten-se: Il fallimento iniziale dello studente nell’apprendimento della lettura può avere enormi conseguenze in termini di adattamento emotivo, tendenza alla delinquenza [Department of Health State United, 1969].

Un decennio più tardi, alla fi ne degli anni ottanta, toccò a O. Spreen dimostrare la semplicazione del costrutto dislessia = psi-copatologia, attraverso un suo studio accurato. L’ampiezza del campione (203 dislessici e 53 soggetti di controllo) e soprattutto la durata notevole del follow-up (dieci anni), dimostrò l’erroneità di quelle posizioni. Spreen arriva alla conclusione che non esiste un rapporto di causalità diretto tra le due variabili ed evidenzia la grande eterogeneità della prognosi psicopatologica dei soggetti dislessici in età adulta: Abbiamo trovato alcuni nostri clienti in prigione o in ospedale psichiatrico, altri in case confortevoli di loro proprietà e apparentemente in armonia con le loro comunità [Spreen O., 1979].

Il decennio degli anni ottanta vede realizzarsi una rivoluzione paradigmatica nel campo della psicopatologia. Il modello medico riduzionista della psichiatria classica scricchiola sotto le spinte innovative dei lavori di A. Beck sulla Psicoterapia cognitivista. In Italia la prospettiva cognitivista standard veniva rielaborata da Giudano e Liotti in direzione costruttivista, con l’introduzione di costrutti importanti sulla conoscenza (tacita/esplicita), sulla dinamica centrale di costruzione della realtà (esperire/spiegare).

A seguire, alla fi ne degli anni novanta, dalla matrice cogni-

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tivista originaria si sviluppa un nuovo e più avanzato paradig-ma interpretativo, mediato dall’epistemologia della complessità [Morin, 1977], la Complex Cognitive Therapy. Si afferma il principio di una eziopatogenesi delle affezioni psichiche di tipo multifattoriale ed il modello bio-psico-sociale viene assunto come il paradigma interpretativo capace di spiegare l’eziopato-genesi come interazione complessa di più fattori: la vulnerabilità biologica, il genotipo e i fattori ambientali [Scrimali T. 2000].

Sicchè l’assetto emotivo, che è la condizione per l’insorgen-za di un disturbo psicopatologico correlato, non è più spiegabile unidimensionalmente con una noxa patogena (il defi cit di lettu-ra), bensì con un complesso ed articolato processo di bilancia-mento dei fattori di vulnerabilità, biologici e non, e di protezione (parenting funzionale, aiuti abilitativi).

Uno studio effettuato tra il 1985 e il 1996 conferma queste innovative concezioni della psicopatologia di fi ne secolo vente-simo. Concettualizza la relazione tra DSA (e la dislessia in parti-colare) e l’insorgenza di un disturbo psichiatrico, come relazione possibile ma non obbligatoria. E la casistica conferma questa tesi. Nel campione studiato gli autori individuano tre diversi pro-fi li di personalità analizzati con uno studio della personalità: un 30% di soggetti dislessici presenta un profi lo assolutamente nor-male; un ulteriore 40% un buon adattamento sociale; il rimanente 30% ha un profi lo di natura psicopatologica, distribuito equa-mente tra disturbi tipo inward (ansia e depressione) e una psi-copatologia outward (disturbo oppositivo-provocatorio, disturbo della condotta, defi cit di attenzione e iperattività). Quanto basta per escludere la signifi catività della relazione dislessia evolutiva-disturbi psicopatologici [Rourke e Furst, 1995].

Altri e più recenti studi arrivano a conclusioni più esplicite circa il rapporto tra dislessia evolutiva e probabilità di insorgenza di disturbi psichiatrici della sfera internalizzante, quali depres-sione ed ansia. In un campione di 94 cattivi lettori di 15 anni seguiti per 2 anni e mezzo e confrontati con un egual numero di normolettori (campione di controllo), si è dimostrata una correla-

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zione signifi cativa tra le due variabili [Arnold, 2005].Uno studio più datato [Maughan, 1996] effettuato su un cam-

pione più vasto: 200 bambini all’età di 10 anni con un follow-up fi no all’età adulta (età media 27,7), ha dimostrato una buona cor-relazione con il defi cit di attenzione e iperattivtà (ADHD) ma non con comportamenti antisociali in adolescenza e nell’età adulta.

Due altri studi introducono la tematica dei fattori confonden-ti presenti prima dell’insorgenza della disabilità di lettura. Un vasto campione di bambini (856 in tutto) è stato seguito dall’età di otto anni e fi no a 18. Il campione è stato suddiviso in due sot-togruppi: una con diffi coltà di lettura o reading delayed (sotto 1 ds), e l’altro con disturbo o reading disability (oltre 1 ds).

Dai 10 ai 16 anni è stata valutata la presenza di comportamen-ti antisociali, ma contemporeaneamente la presenza di variabili confondenti: comportamenti precoci, età, fattori socio-demogra-fi ci, gruppo etnico, relazioni intra-familiari, scolarità della ma-dre.

La relazione tra dislessia e comportamenti devianti perde di signifi catività statistica se si considerano i fattori confondenti e, fra questi, il più specifi co e correlato risulta la presenza di pro-blemi comportamentali prima dei sei anni, cioè in periodo an-tecedente all’emergere del defi cit di lettura [Fergusson, 1997]. In ultimo uno studio analogo [Trzesniewski, 2006] conferma il ruolo dei fattori confondenti legati al contesto familiare nell’e-ziopatogenesi dei disturbi della condotta in soggetti affetti da di-slessia evolutiva.

L’ultimo livello di analisi prognostica riguarda l’adattamen-to scolastico nel soggetto dislessico lungo l’arco della scolarità obbligatoria e superiore. L’ottica da cui ci poniamo è quella della psicopatologia dello sviluppo di matrice cognitivista.

Descriveremo un caso clinico e i suoi esiti attuali, già parzial-mente defi nitivi, desunti dalle narrazioni del percorso evolutivo di adattamento/disadattamento del soggetto e della caregiver al suo percorso di vita.

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Caso clinico: la storia paradigmatica di Filippo

Filippo (nome di fantasia) ha oggi 15 anni frequenta la prima superiore all’istituto tecnico industriale e, apprendiamo mentre scriviamo, che il suo consiglio di classe lo ha “bocciato” perché ritenuto immaturo ed inadatto alla seconda classe. Dai dati già a nostra disposizione si sa con certezza che la scuola ha palese-mente violato i dettami della legge 170/2010 in quanto ha omes-so di redigere il PDP. Mamma Teresa è una signora laboriosa, energica, combattiva, amorevolmente osservatrice, “cocciuta” nella sua perseverante “ostinazione” di voler dare aiuto al fi glio Filippo, per quelle che ella considera, già all’apparire, chiare dif-fi coltà di apprendimento della lettura.

Filippo inizia la scuola primaria nell’anno scolastico 2004/05 all’istituto comprensivo di un paese della provincia. Già dai pri-mi giorni di scuola emergono le prime criticità. La mamma inizia un insistente dialogo con le maestre, segnala da subito le diffi -coltà e i ritardi del proprio bambino nell’apprendere le strategie di lettura.

Inizia così un triennale calvario fatto di incomprensioni e so-litudine e la famiglia si ritrova ben presto sola con il suo “bam-bino-problema”. Più passa il tempo e più il giudizio della scuola diventa di tipo etico-morale: il bambino è svogliato, non si im-pegna, è disinteressato e disattento, si rifi uta di lavorare a casa come a scuola, si comporta male, si oppone alle maestre e ai compagni, non è scolarizzabile, è inadatto a frequentare la scuo-la, è in buona sostanza un “caratteriale”.

A volte il disagio scolastico del bambino si manifesta con comportamenti interiorizzanti, in questo caso Filippo viene tranquillamente lasciato a “riposare” sul suo banco, tanto non intralcia il regolare svolgimento delle lezioni; quando invece i comportamenti si presentano nelle forme esteriorizzanti, viene allontanato dall’aula, in corridoio, costretto a vagabondare, per non disturbare il clima relazionale ed educativo della classe.

E intanto le diffi coltà di Filippo si circolarizzano, diventan-

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do ritardi e poi disturbo. Il bambino non sviluppa i prerequisiti della letto-scrittura. Rimane lento nel riconoscimento grafemico, nel lavoro seriale sinistra-destra; non riesce in compiti basila-ri di analisi fonemica delle parole, stenta nella fusione sillabica ma non riesce in quella fonemica; i compiti di ricerca visiva di-ventano quasi insormontabili, la globalità visiva ne risente for-temente; in conseguenza l’accesso alla parola si fa lentissimo ed impreciso. Le diffi coltà di lettura compromettono le possibilità di apprendimento nelle diverse aree scolastiche: in italiano come in matematica, in storia come in scienze; eppure il bambino non dimostra segni di ritardo mentale, né di disabilità alcuna.

Il tempo è inesorabile, passa con grande rapidità. Il bambi-no cresce, dalla prima va alla seconda e poi alla terza elementa-re. Con la sua crescita cronologica crescono anche le evidenze dei disapprendimenti; ma per la scuola non esiste problema. Di volta in volta cambiano le congetture esplicative: prima lo stile dell’accudimento, poi i problemi emotivo-affettivi che il bam-bino vivrebbe in famiglia, in seguito inesistenti problemi socio-relazionali con i compagni, quindi la sua personalità disturbata, in ultimo perfi no il disturbo emotivo della mamma, che com-prometterebbe, a detta delle insegnanti, l’equilibrio affettivo ed emotivo del fi glio, dando origine al rifi uto della scuola da parte di Filippo.

Mamma Teresa non cede, comprende che le spiegazioni in-sensate non sono altro che un tentativo della scuola di scaricare le sue responsabilità sulla famiglia, acquista sempre più la con-sapevolezza di esser sola, che la scuola non è in grado di fornire l’aiuto ch’ella richiede, e decide di cambiare scuola e maestre.

Siamo già al 2007, Filippo inizia la quarta elementare in un altro istituto comprensivo del paese. Per tutto il primo quadri-mestre il clima attorno al fanciullo cambia, si fa più accogliente.

E l’umore del bambino ne risente positivamente, ma dura poco.

Sei mesi dopo l’inizio delle lezioni scatta però la scintilla nel-le menti dei nuovi insegnanti. Perché non portare Filippo ad un

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controllo specialistico presso l’ASP competente? Mamma Teresa fi nalmente sospira contenta: “vuoi vedere che fi nalmente imbroc-chiamo la strada giusta?” pensa tra sé e sé. Accetta di buon grado e porta Filippo al controllo specialistico, prima presso uno Studio di Pedagogia Clinica (marzo 2008), quindi all’esame presso l’A-SP competente (aprile 2008).

Arriva così la conferma dei timori di mamma Teresa: per i pedagogisti Filippo soffre realmente di Dislessia (senz’altra qua-lifi cazione e specifi cazione), per l’Équipe Multidisciplinare di “Disturbi evolutivi specifi ci delle abilità scolastiche (cod. F81 dell’ICD-10)”. Il cerchio fi nalmente si chiude, dopo tre lunghi anni di peregrinazioni Filippo fi nalmente riceve la giusta diagno-si e può iniziare un trattamento riabilitativo per la riduzione del defi cit.

Giova ricordare che si è nel bel mezzo, forse quasi alla fi ne della cosiddetta fi nestra evolutiva, il periodo cioè critico, in cui una diagnosi ben fatta, i profi li neuropsicologico e cognitivo ben accertati e un trattamento specialistico riabilitativo ben calibra-to e fi nalizzato all’automazione dei processi di decodifi ca, po-trebbero contenere il defi cit e migliorare l’approccio alla lettura, garantendo al bambino, non la risoluzione totale del suo proble-ma ma l’autonomia nello studio e nell’apprendimento. In realtà questa ultima opportunità non viene colta appieno, e inizia un secondo lungo calvario di Filippo e di mamma Teresa.

Per spiegare questo secondo peregrinare, occorre partire dalle due diagnosi che si limitano a fotografare ciò che già si sapeva: l’esistenza di un ritardo nell’acquisizione della capacità di lettu-ra. Entrambe mancano di un passaggio essenziale e fondamenta-le: la stesura del profi lo di sviluppo neuropsicologico, di quello cognitivo generale, del profi lo di sviluppo dei prerequisiti della lettoscrittura e del conseguente profi lo di sviluppo degli appren-dimenti scolastici.

I profi li anzidetti costituiscono il supporto imprescindibile per la scuola ai fi ni della stesura del Piano Didattico Personalizzato (PDP). La redazione del PDP è, infatti, “atto dovuto per le scuole

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in presenza di un alunno con segnalazione specialistica di DSA (Disturbo dell’Apprendimento Scolastico)” (cfr. Circolari espli-cative precedenti la Legge 170/2010 e le Linee Guida del Mini-stero della Ricerca e dell’Istruzione). Nel caso in specie, sia il servizio pubblico sia quello privato, hanno palesemente omesso la redazione di un atto che la normativa scolastica richiede come dovuto e imprescindibile. Conseguentemente nemmeno la scuola è stata in grado di redigere il suo PDP.

Mamma Teresa accompagna Filippo, per lunghi periodi nel biennio 2008-2009, al centro privato specialistico per il tratta-mento della dislessia. Del lungo trattamento riabilitativo si cono-scono solo due scarne relazioni. Quella di dimissione nel marzo del 2010 è esattamente uguale a quella di prima valutazione nel marzo del 2008: non specifi ca la tipologia di trattamento utiliz-zata, omette l’indicazione dei protocolli di valutazione utilizzati ex-ante ed ex-post, misconosce le Linee Guida della Consensus Conferenze sulla Dislessia del 2007 e, a coronamento, manca an-che la sottoscrizione del professionista che ha curato la diagnosi e il trattamento riabilitativo.

Dall’altra parte la scuola, che non redice il PDP, si trova nell’incapacità di attuare le direttive ministeriali (cfr. Nota prot. 4099/A4 del 5 ottobre 2004 e seguenti), che le impongono l’ado-zione di strumenti compensativi e dispensativi, vuoi per l’assen-za dei profi li anzidetti, vuoi per la scarsa conoscenza dei profi li giuridico-normativi del Ministero della Pubblica Istruzione in materia di DSA.

Le conseguenze su Filippo sono a dir poco devastanti. Il ra-gazzo acuisce il proprio distacco emotivo-affettivo dalla scuola, accresce un disinvestimento affettivo-motivazionale che lo porta al totale disimpegno, approfondisce il gap apprenditivo e cultu-rale.

Nel frattempo passa alla scuola media. A marzo del 2010, le ripetute sollecitazioni dei nuovi insegnanti spingono mamma Te-resa verso una valutazione della condizione che a loro sembra di “evidente handicap cognitivo”, che giustifi chi l’adozione di

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misure di sostegno ma non quelle compensative e dispensative chieste dalla famiglia alla scuola con formale istanza in base alla diagnosi prodotta.

Il centro, che ha formalmente ancora in trattamento il ragazzo, riformula la stessa relazione del 2008 (di cui s’è già detto). Il ser-vizio sanitario riformula la stessa medesima diagnosi di Disturbi evolutivi specifi ci delle abilità scolastiche, e il circolo vizioso ed inerte della burocrazia scolastica e sanitaria si richiude senza alcun reale contributo alla salute di Filippo.

Intanto sono passati sei lunghi anni, il BAMBINO DISLES-SICO è diventato un RAGAZZO DISLESSICO. In seguito alla valutazione specialistica cui si è liberamente sottoposto gli è sta-ta fatta la diagnosi di DISLESSIA EVOLUTIVA PROFONDA DI GRADO SEVERO.

Cosa vuol dire? Che il ragazzo ha un grave defi cit che riguar-da sia l’accesso indiretto o fonologico, che l’accesso diretto o lessicale, che tutte e due le vie di lettura sono gravemente com-promesse.

Entrambi gli indici sono fortemente defi citari: legge il brano a una velocità di 0,81 sill./sec. (4 deviazioni standard dalla me-dia), mentre la lettura di parole e nonparole si situa ben oltre le sette deviazioni standard; gli errori di lettura lo collocano sotto il 5° percentile. Sul piano neuropsicologico presenta problemi di diverso tipo: di working memory, specifi catamente di memoria di lavoro fonologica; di attenzione, di capacità di astrazione e di problem solving. Lo sviluppo dei pre-requisiti della letto-scrittu-ra non è adeguato alla sua età cronologica.

Viene da chiedersi: perché di tutto questo? I disturbi delle abi-lità scolastiche sono imputabili unicamente alla cause endogene di natura neurobiologica? Non vi sono cause esogene che han-no contribuito al rafforzarsi del defi cit iniziale? Un trattamen-to precoce ed appropriato poteva attenuare il defi cit e rendergli una certa autonomia d’apprendimento? Un’azione didattica per-sonalizzata da parte della scuola, con l’utilizzo degli strumenti compensativi e dispensativi previsti dalle normative ministeriali,

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avrebbe potuto migliorare il rendimento scolastico ed assicurare a Filippo un futuro scolastico migliore?

Le risposte non possono essere che parziali e temporanee, data l’estrema variabilità dei profi li con cui si presenta la dislessia (bisognerebbe dunque parlare di dislessie). Non si può escludere che un trattamento precoce avrebbe potuto restituire autonomia di studio e di apprendimento a Filippo, e con essa, un futuro sco-lastico e di cittadinanza migliore.

D’altra parte è certo ed acclarato che le istituzioni preposte, non hanno svolto correttamente il proprio compito, contravve-nendo alle elementari norme in materia. Come è evidente, fuor di ogni ragionevole dubbio, che le carenze ambientali, didattico-educative, relazionali, di sostegno e guida della scuola hanno fi nito per peggiorare la situazione di Filippo, che oggi non ha davanti a sé certamente un futuro di studente e di cittadino di normali prospettive.

Nell’ottica della psicopatologia dello sviluppo cognitivista e complessa, possiamo cogliere il nucleo centrale della storia evo-lutiva di Filippo. Il vissuto personale carico di tensione e disagio, l’adattamento disfunzionale all’ambiente scolastico non possono essere visti ed interpretati come gli effetti lineari e causali del defi cit di lettura. La sua storia è contraddistinta da oscillazioni molto ampie nella percezione del suo adattamento, oscillazioni che sono in relazione con l’equilibrio/disequilibrio che si è venu-to a realizzare tra fattori protettivi e fattori di rischio.

L’esistenza del grave defi cit di lettura, con la sua componente genetica (il padre del bambino presentava la medesima proble-matica evolutiva che lo aveva portato ad interrompere precoce-mente gli studi), costituisce un forte fattore di rischio, così come i comportamenti delle istituzioni, dalla scuola ai centri specia-listici di salute mentale. La scuola che non è stata in grado di cogliere, per un lungo quinquennio, la vera natura dei disturbi di Filippo e poi, ha messo in atto una strategia di autodifesa, quella del rifi uto; i centri di salute (dal centro di pedagogia clinica alle ASP, che pure avevano inquadrato il problema), si sono limita-

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ti a dare una diagnosi nosografi ca di dubbia utilità, omettendo di redigere e dirigere un piano di riabilitazione scientifi camente fondato, ivi compreso un trattamento psicologico strutturato.

Unico ma importante fattore di protezione il parenting rappre-sentanto da un attaccamento di Filippo con le fi gure genitoriali, se non perfettamente sicuro, sicuramente positivo e stabile, non-ché dalla sensibilità e livello di competenza della madre (diplo-mata alla scuola media superiore) che, fi n dall’inizio non si è rassegnata alle previsioni di destino scolastico del fi glio.

L’equlibrio inizialmente precario ed in divenire tra questi fattori è evidenziato dal grafi co di fi gura 6. Il grafi co, sostan-zialmente diviso in due parti cronologicamente distinte (scuola primaria e scuola media), ci informa dell’andamento della per-cezione dell’adattamento scolastico da parte di Filippo e della madre Teresa.

Un primo dato di assuluto rilievo è la sintonia delle relazioni affettive tra Filippo e la madre e il carattere protettivo della loro relazione di attaccamento-accudimento. Le due curve sono, in-fatti, concordanti e sintoniche. Dato che viene confermato anche dai risultati del Parentel Bonding Instrument R. B. I. (trad. di T.

Fig. 6 - Percezione dell’adattamento scolastico di Filippo e della madre.

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Scrimali), da cui emergono relazioni positive di Filippo con tutte e due le fi gure di riferimento: la madre Teresa è percepita come dotata di grande calore emotivo (p. 29) ma un pò controllante (p. 20), mentre il padre è percepito come meno attento al controllo (p. 17) e più distaccato (p. 20).

L’esperienza della scuola primaria è connotata da una chiara oscillazione tra autopercezioni positive e altre di valore negativo. Alle prime negative legate agli inizi della scolarizzazione, su-bentrano altre positive correlate al tentativo di affrontare il pro-blema e di inquadramento diagnostico. L’inversione di tendenza si ha, dunque, al primo evento signifi cativo (nel caso di Filippo un pò tardi, a metà della quarta primaria), il momento in cui la rete decide di affrontare il suo problema del suo “disadattamen-to scolastico”. Evidentemente, la modifi cazione dell’attribuzio-ne causale [Ruggerini et al., 2004] (Filippo non più disadattato ma bambino problematico per via del defi cit di lettura), anche da parte della rete esterna di sostegno, ha liberato atteggiamenti positivi della madre ma anche della scuola, che sono stati perce-piti positivamente da Filippo in direzione della percezione di un maggiore protezione.

Mancheranno ancora, almeno fi no alla metà del primo anno della scuola media, gli aiuti abilitativi (secondo evento fonda-mentale) necessari alla sua condizione, tuttavia da quel momento iniziale scatta una tensione motivazionale che porterà Filippo a declinare con le indispensabili oscillazioni, uno sforzo di integra-zione scolastica, certamente carico di tensioni, fi no a raggiunge-re il diploma di terza media.

Quello di Filippo è uno dei tanti, possibili percorsi evolutivi, correlati al processo di bilanciamento dei fattori di rischio e di protezione. Un interessante studio [Ruggerini et al., 2004], ri-porta una casistica di sette casi, in cui i tre eventi signifi cativi, la formulazione della diagnosi, la messa in campo di aiuti abilitativi e gli eventi personali o familiari indipendenti dal DSA (in specie la tipologia relazione confl ittuale/integrante della scuola in dire-

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zione del rifi uto/aiuto di aiuto), agiscono in maniera funziona-le/disfunzionale e capaci di promuovere o non l’indispensabile processo di modifi ca della concezione del Sé indispensabile per attivare sinergie e processi motivazionali funzionali.

In fi gura 7 è riportato il caso di un soggetto dislessico in cui l’evento della formulazione della diagnosi (in quarta elementare) ha elicitato un periodo di peggioramento dell’adattamento con-gruente con la percezione del processo da parte della stessa ma-

dre. Nelle fi gure 8 e 9 sono riportati, invece, i casi di due soggetti

dislessici, in cui le linee di sviluppo mostrano una chiara discor-danza percettiva del bambino e del genitore. In questo caso le relazioni dei bambini con i propri signifi cativi appaiono di scarsa sintonia e il parenting appare disfunzionale, lasciando prevede-re itinerari di sviluppo personale caratterizzati da diffi coltà nella concettualizzazione ed integrazione dei dati dell’esperienza di dislessia [Ruggerini et al., 2004].

Fig. 7 - Percezione dell’adattamento scolastico di un alunno dislessico e della ma-dre

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Fig. 8 - Percezione dell’adattamento e autopercezione indipendente.

Fig. 9 - Percezione dell’adattamento e autopercezione indipendente.

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