LA DEMOLIZIONE DELL'IMMAGINE nel CINEMA di CARMELO … · 2019-01-01 · di “Nostra signora dei...

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LA DEMOLIZIONE DELL'IMMAGINE nel CINEMA di CARMELO BENE Università degli Studi di Salerno Facoltà di Lettere eFilosofia Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione  Tesi di Laurea in Sociologia dei processi culturali  “La demolizione dell’immagine nel cinema di Carmelo Bene” Candidata Concetta Brunetti Relatore prof. Luigi Frezza / Correlatore prof. Alfonso Amendola                          Anno accademico 2004/2005 Indice                  “Introduzione”                                           Cap.1     “Alla sorgente del Bene”                                          §1.1  “Bene e l’avanguardia cinematografica”                     §1.2 “La negazione nella cinematografia dada e surrealista”                                                     §1.3 “Oltre il surrealismo: Artaud cineasta”             §1.4 “E’ la volta di Bene”                                     Cap.2     “La cecità dell’ immagine: Nostra Signora dei   Turchi”                                                                  §2.1 “Biografia o storia?”                                          §2.2 “La demolizione dell’impianto narrativo”             1 / 32

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LA DEMOLIZIONE DELL'IMMAGINE nel CINEMA di CARMELO BENE

Università degli Studi di Salerno 

Facoltà di Lettere eFilosofiaCorso di Laurea in Scienze della Comunicazione

 Tesi di Laurea in Sociologia dei processi culturali

 “La demolizione dell’immagine nel cinema di Carmelo Bene”Candidata Concetta BrunettiRelatore  prof. Luigi Frezza / Correlatore prof. Alfonso Amendola

                         Anno accademico 2004/2005

Indice                  “Introduzione”                                            Cap.1      “Alla sorgente del Bene”                                            §1.1   “Bene e l’avanguardia cinematografica”                       §1.2  “La negazione nella cinematografia dada esurrealista”                                                       §1.3  “Oltre il surrealismo: Artaud cineasta”               §1.4  “E’ la volta di Bene”                                     

Cap.2      “La cecità dell’ immagine: Nostra Signora dei    Turchi”                                                                    §2.1  “Biografia o storia?”                                            §2.2  “La demolizione dell’impianto narrativo”             

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      §2.3  “Ed ora la pellicola”                                     

Cap.3      “Don Giovanni”                                                 §3.1   “Don Giovanni: milletré occasioni mancate”             §3.2   “L’amplificazione distrugge il senso ”         

Cap.4       “Attraverso il cristallo”                                       §4.1  “L’immagine cristallo”                                        §4.2  “Il cerimoniale del corpo”                           

   “Conclusioni”                                                Appendice  “Antologia di fotogrammi”                              “Bibliografia”                                                      

 

 

INTRODUZIONE

E’ di scena Carmelo Bene

Carmelo Bene nasce, o meglio viene abortito , a Campi Salentina in provincia di

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Lecce, nel 1937. Insieme a lui verrà alla luce il suo straordinario teatro, anzi,  latotale reinvenzione che Bene ha fatto del teatro.         Dopo i primi studi classici presso un collegio di gesuiti, si trasferisce a Roma dovesi iscrive nel 1957 all'Accademia di Arte Drammatica Silvio D’Amico,un'esperienza che, a partire dal solo anno successivo, abbandona convinto dellasua "inutilità". Bene aveva già tutto il necessario dentro di sè . Ad ogni modo, già da questo episodio è possibile intravedere l'incompatibilità fral'idea classica di teatro, di rappresentazione, e la "destrutturazione" che di questaidea Bene ha portato avanti; un'operazione culturale capace di demolire l'ideastessa di recitazione, messa in scena, rappresentazione e addirittura "testo". Il debutto di questo grande genio è datato 1959, come protagonista del "Caligola"di Albert Camus andato in scena a  Roma con la regia di Alberto Ruggiero. Inquesta fase, è ancora alle "dipendenze" di altri registi e di idee non sue. Di lì apoco comincerà a manifestarsi il bisogno del nostro di essere su e giù dal palco,  regista di se stesso , iniziando in questo modo l'opera di manipolazione e distraniamento di alcuni classici  immortali. L'attore le ha talvolta chiamate"variazioni". Sono di questi anni numerosi spettacoli come "Lo strano caso deldottor Jekill e del signor Hyde", "Gregorio", "Pinocchio"(1961), "Salomè"(1964),"Amleto"(1961), "Il rosa e il nero"(1966). Nel 1965 si cimenta anche come scrittore, producendo il paradossale testo"Nostra signora dei Turchi", edito dalla casa editrice Sugar. L'anno dopo, ilromanzo viene adattato e messo in scena al teatro Beat '62. Comincia negli stessi anni la sua parentesi cinematografica; la sua primaesperienza nel cinema è da attore nel film di Pasolini "Edipo Re"(1967), poi comeregista del film "Nostra signora dei Turchi"(1968), ancora una volta tratto da quelsuo primo romanzo. Il film vince il premio speciale della giuria a Venezia e rimaneun caso unico nell'ambito della sperimentazione cinematografica. In seguito, giraancora due film "Capricci" (1969) e "Don Giovanni" (1970), mentre del 1972 è"L'occhio mancante", libro edito da Feltrinelli e rivolto polemicamente ai suoicritici. Con "Salomè" (1972) e "Un Amleto in meno" (1973) si chiude la suaesperienza cinematografica, ripresa solo nel 1979 con l'"Otello", girato per latelevisione e montato solo in tempi recenti. Cinque anni intercorrono tra il 1967 e il1972, un lustro di furore iconoclasta che scosse la provincia del cinema italiano,assopita dinnanzi ad obsolete celebrazioni del Neorealismo. Riguardo al suoprimo lungometraggio, “Nostra signora dei Turchi”, citando le parole dell’autore,“[…] è dichiaratamente anti ’68, in dispregio non solo a quel “maggio italo-gallico”,ma a tutti i “maggi” socialmondani della Storia, in saecula saeculorum”. Questo Bene “rovinato dalle buone letture”, Lacan prima di tutto, con l’ardore delneofita crea un cortocircuito storico-geografico nel sud del sud dei santi. In

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“Nostra signora dei Turchi” si legge l’abbandono della storia confusa di continuocon una improbabile biografia. Rifiuto dunque, della storia ma anche del tempo,come lo stesso Bene racconta a Gianfranco Dotto: “Il tempo non esiste. Non misento nato e non mi sento cristiano, né tantomeno cattolico”.Seppure premiato alla Mostra del Cinema di Venezia, il film non fu compreso damolta parte della critica italiana (contrariamente a quella francese).L’incomprensione probabilmente deriva dalla programmatica intenzione benianadi fare del suo cinema la negazione dell’azione e del corpo, irriducibile ad ogniestetica ed ininterpretabile. Carmelo Bene si scaglia contro l’immagine, contro la rappresentazione, narrarenon rientra fra i suoi compiti di cineasta:

         “il cinema è sempre servito a spacciare storielle,                ma nessuno ha mai spacciato la pellicola”

Gilles Deleuze, che ha studiato con attenzione le opere di Carmelo Bene,sostiene che la sensazione è ciò che si trasmette direttamente, evitandol’espediente di una storia raccontata; Lorenzo Esposito definisce “Nostra signoradei Turchi unfilm sulla dissipazione della soggettività in quanto tale, radicalmente differita neldoppio, nel triplo, nella moltiplicazione continua dell’esserci in / di un solo corpodove ogni singolo movimento di macchina è rigorosamente marcato o interrotto,quasi solo immaginato come le ferite e le malattie di cui si vorrebbe vedereproliferare il proprio corpo […]. Nostra signora dei Turchiè la morte raccontata da un vivo”.Questo ci riporta a Deleuze ed in particolare alla sua lucida analisidell’immagine-cristallo. Il concetto di bergsoniana memoria si esplica nell’unitàindivisibile tra un’immagine attuale e la sua immagine virtuale che le corrispondecome un riflesso. Immagine virtuale ed immagine attuale creano un piccolocircuito interno di elementi distinti ma indiscernibili che si riflettono l’un l’altroscambiandosi i ruoli in un infinito rimando. Deleuze stesso dirà che Carmelo Beneè uno dei massimi produttori di immagini-cristallo, citando a tal proposito il palazzodi “Nostra signora dei Turchi” fluttuante nell’immagine, la danza dei veli di

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“Capricci”; scene che attraverso il grottesco cerimoniale imposto ai corpi giungonoalla scomparsa definitiva del corpo visibile:

         “il  cinema non  fu in grado  di farsi  corpo e questo coma           somatico, relitto sopravvissuto al tormento dell’aprassia,          è svanito.          Alla volgarità  dell’immagine  artistica riservo da sempre          la mia intransigente ostilità iconoclastica.”

Tutto il suo progetto cinematografico, progetto iconoclastico, è improntato ad unavera e propria demolizione dell’immagine, che viene attuata in modo puntuale emaniacale con una serie di accorgimenti tecnici. Innanzitutto “Nostra signora deiTurchi”, “Capricci”, “Don Giovanni” sono girati in 16mm e solo successivamentegonfiati a 35mm, il che lascia un’impronta sulla pellicola, l’amplificazione. Bene nefa uso alla stregua di uno strumento retorico: amplificare fino a far esplodere ifotogrammi, fargli perdere la misura, fino ad annullare il suo effetto. Altroespediente beniano è la ripetizione di alcuni fotogrammi; essa mina laconsequenzialità temporale decostruendola, insieme all’uso di primissimi piani edel fuori fuoco. In modo particolare in “Don Giovanni” e in “Salomè” Carmelo Bene sembra nonvolersi arrendere alla volgarità dei 24 fotogrammi al secondo e dunque attua unmontaggio furioso: tutto per “sfidare l’immagine corpo due volte larvata nellavirtualità dell’obitorio cinematografico”.1973, fine della corsa:

“crede nel cinema, crede che il cinema possa operare  una  teatralizzazione più profonda del  teatro  stesso, ma  lo  crede  per  un solo istante. […] il tempodi una opera troppo presto interrotta, volontariamente interrotta, alla  capacità che avrebbe il cinema di dare un corpo, di  farlo nascere e  scomparire  in una

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cerimonia”.

La fama internazionale, svariate targhe e trofei, il fegato definitivamente a pezzi,con questi lasciti del cinema Carmelo Bene torna al teatro, partecipa atrasmissioni radiofoniche, si dedica alla televisione, portando con sé l’elettronica ele nuove tecnologie. Il nostro torna al teatro con "La cena delle beffe", con"S.A.D.E", entrambi del 1974, e poi ancora con "Amleto" (1975). Seguononumerose opere, ma molto rilevante è la sua cosiddetta "svolta concertistica",rappresentata in prima istanza da "Manfred" (1980), un lavoro basatosull'omonimo poema sinfonico di Schumann. Ottimi i successi di pubblico e critica.Nel 1981 dalla Torre degli Asinelli a Bologna recita la "Lectura Dantis", poi neglianni '80 "Pinocchio" (1981), "Adelchi"(1984), "Hommelette for Hamlet" (1987),"Lorenzaccio" (1989) e "L'Achilleide N. 1 e N. 2" (1989-1990). Dal 1990 al 1994 lalunga assenza dalle scene, durante la quale, come dirà lui stesso, "si disoccuperàdi sé". Nel 1995 era tornato sotto i riflettori e in particolare nelle librerie con la suaopera "omnia" nella collana dei Classici Bompiani (ciò che gli consentiva diorgogliosamente autodefinirsi “un classico in vita”), cui aveva fatto seguito nel2000 il poemetto "'l mal de' fiori". A proposito di quest'ultimo lavoro, inun'auto-intervista redatta per Café Letterario del 16 maggio 2000, scrisse: "Primadi questo 'l mal de' fiori non mi ero mai imbattuto in una nostalgia delle cose chenon furono mai in nessuna                   produzione artistica (letteratura, poesia,musica). Sono da                   sempre stato privo d'ogni vocazione poetica intesacome mimesi                   elegiaca della vita come ricordo, rimpianto degliaffetti-paesaggi, mai scaldato dalla "povertà dell'amore", sempre nei versi delpoema ridimensionato nella sua funzione di 'amor facchino', cortese o no.Riscattato dall'o-sceno demotivato, divino, svuotato una volta per tutte dell'affannoerotico nel suo ossessivo ripetersi senza ritorno. Muore il 16 marzo 2002, nella sua casa romana. Aveva 64 anni.                   "Nonpuò essere morto chi ha sempre dichiarato di non essere                   nato" hadetto alla notizia della sua scomparsa Enrico Ghezzi,                   che con CarmeloBene aveva firmato il volume "Discorso su due                   piedi (il calcio)". La vita di questo autore può essere letta “nella magmaticità dei suoiattraversamenti, (come) un opera vitale e assolutamente non storica, quasi unwork in progress (…) capace di scardinare convinzioni, abitudini e procedure delsimbolico” .

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Capitolo primo

“Alla sorgente del Bene”

 1.1. Bene e l’avanguardia cinematografica

Carmelo Bene è senza dubbio un autore molto complesso la cui poetica si èespressa principalmente nel teatro. Ma la sua parentesi cinematografica è digrande interesse per la combinazione di elementi già in nuce nel cinemad’avanguardia sviluppatosi tra il 1910 e il 1930. Il Nostro si è avvicinato al cinema,segno privilegiato della modernità, struttura qualificante dei nuovi processi diinterrelazione sociale e comunicativa, immaginando un altro cinema, come giàaltri prima di lui. Secondo Paolo Bertetto: ”immaginare un altro cinema possibile éinfatti il grande impegno degli artisti, dei registi e dei teorici: un cinemadiversamente inventato e teorizzato, di volta in volta organico alle poetiche e allericerche linguistiche dei vari movimenti d’avanguardia, o capace di realizzare inmodo assolutamente puro e rigoroso le potenzialità e le specificità del cinemacome arte autonoma” . Ciò che è importante sottolineare, anche sulla scorta diintuizioni  deleuziane, è che, pur non essendo il primo a tentare questa strada,Bene non appartiene ad un determinato movimento se non per quanto lui stessoinventa. Inoltre la totalità degli elementi che compongono la sua poetica,globalmente intesa nel suo essere plurimediale, mirano alla sottrazione, o meglioalla demolizione degli elementi determinanti il potere. Perseguendo questa stradaegli è capace di sprigionare una forza non-rappresentativa e instabile. Ma ineffetti, tutti gli autori che nel corso di questo secolo di cinema o poco più, hannotentato strade desuete per esprimere se stessi fanno parte di un’unità, sebbene innegativo, “realizzata sulla base di un rifiuto, di una radicale ed esplicita estraneitàal cinema ufficiale e alle sue leggi discorsive” . Disarticolare i codici e i modelli narrativi, rifiutare una narrazione e una

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rappresentazione di tipo lineare, l’autosottrazione all’universo rappresentativo el’imposizione di una fruizione anomala: ecco le linee guida di quell’unità che vadalla preistoria del cinema differente sino all’odierna video-arte. Alla sopra citatapreistoria del cinema d’avanguardia appartiene la fase cinematografica del notomusicista Shönberg. In una sua lettera ad Emil Hertzka si legge una fraseesplicativa della sua idea di cinema: “ Io esigo: la più grande irrealtà”. Egli rifiuta lostatuto narrativo-rappresentativo vigente per creare dall'irrealtà costitutiva delcinema un’idea compositiva precisa quanto uno spartito musicale. Shönberg fufolgorato dalla duttilità del cinema, dalle possibilità di creare un linguaggiopolimorfo ed irreale. Egli dunque tenta una convergenza tra diversi linguaggiartistici mirando alla creazione di un’arte sintetica,  ottenuta a partire dalla musica.Nel percorso beniano verso il cinema è ravvisabile qualcosa di molto simile, macon una fondamentale differenza. Bene parte dal teatro con lo stesso intento diShönberg: dar vita a qualcosa che lo superi, lo attraversi, ed è così che giunge adar vita al suo cinema.

 

1.2. La negazione nella cinematografia dada e surrealista

Il movimento dadaista, nato in Svizzera e sviluppatosi in Francia nel 1916, harappresentato un vero e proprio "pugno nello stomaco" all'arte e ai suoi utenti. Segià il futurismo, italiano e russo, si opponeva al concetto stesso di arterifiutandone i compromessi e il derivante successo, (ricordiamoci del piacere di Marinetti nel ricevere fischi anziché applausi o lo "Schiaffo al gusto del pubblico di Mayakoski), il dadaismo forse andava ancora oltre. La parola stessa "dada"non ha alcunsignificato, ”Dada non significa niente. Dada è un suono della bocca”, diceva T.Tzara. Dada fu sregolatezza, astrattezza, fu il nonsense, arte "pura" completamente evolutamente fine a se stessa. Qui risiede la poesia e la bellezza del dadaismo, nelsuo sarcasmo, nella sua pungente ironia. Il movimento Dada spinge verso la

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disgregazione del simbolico, dell’arte e la distruzione del senso, ma non giàattraverso dichiarazioni teoriche di una poetica, bensì attraverso azioni concrete.Gli artisti dada intendevano rovesciare il funzionamento del simbolico,”realizzando una produzione negativa e distruttiva, capace di inceppare lestrutture istituzionali del fare artistico” .Una poetica tale, dedita alla spontaneità e al caso, non poteva non includere ilcinema; un'arte giovane, tutta da scoprire e che già in sé presentava lecaratteristiche proprie di tutti i movimenti d’avanguardia del primo '900: immaginein movimento, dinamizzazione visiva, dove ombre e oggetti si muovono eagiscono. Su questi concetti, propri della settima arte, futuristi, dadaisti e inseguito surrealisti fondarono la loro idea di cinema e, al contempo, lascavalcarono. Il cinema in mano loro sarebbe diventato un libero dispiegamentodell'immaginazione. Invero notiamo come vi sia un solo film assolutamente dada, un film che neriprenda l'estetica nella sua essenza. E' Retourn a la raison di Man Ray, giratonel 1923. Quest’opera casuale, arbitraria e antistituzionale fu girata in un sologiorno, incollando semplicemente “le strisce (di pellicola) tra loro”.Retourn a la raison c’interessa perché emblematico di un processo di negazionedell’universo spettacolare e di ogni canone estetico. Man Ray, distruggendo ogniidea compositiva, annulla la comunicabilità filmica e rende l’opera estranea adogni mercificazione.Man Ray torna alla regia nel 1927 con Emak Bakia, la cui analisi è di maggioreinteresse per la nostra ricerca in quanto la dimensione frammentaria che locaratterizza sarà uno degli elementi di forza del cinema beniano. Lo stesso Man Ray dirà del suo film che consiste in “una serie di frammenti, uncinepoema con una certa sequenza ottica da cui nasce un insieme che tuttaviaresta un frammento” . Ecco dunque palesarsi la non-narrazione, la volontàd’essere mancante, di distruggere ogni progetto di ricomposizione ideologica. Lostesso frammentarsi della struttura filmica lo ritroviamo in alcune sequenze delfilm Nostra Signora dei Turchi(1968), dove la coazione aripetersi di determinati fotogrammi demolisce l’intero impianto narrativo aprendouno spiraglio sulla claustrofobica struttura filmica tradizionale, nonchè sulla realtà.

Il Surrealismo recupera molte delle istanze eversive del Dadaismo. Il segno dellacontinuità tra i due movimenti è dato primariamente dalle personalità cheanimarono entrambi i filoni; dalla negazione del simbolico ufficiale e dalla

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distruzione del senso seppure reinterpretati attraverso l’analisi di meccanismipsichici direttamente emergenti dall’inconscio. La cinematografia surrealista opera utilizzando i temi cari alla psicoanalisifreudiana, con particolare attenzione per il sogno: le immagini di questi filmseguono, infatti, una logica che non trova altro riscontro se non in quelladell'attività onirica, non come semplice trascrizione di sogni, ma comeriproduzione del processo generativo di questi, vale a dire che lo spettatore nondeve cercare un significato in quello che vede o cercarvi un referente reale, macambiare l'atteggiamento con cui, di solito, si siede sulla poltrona, al buio.Il ribaltamento della realtà in favore dell’onirismo è una lezione che Carmelo Benemette in pratica già a partire dalla versione teatrale di Nostra Signora dei Turchi(1966) dove l’azione si svolge sempre dietro vetri smerigliati che impediscono unachiara visione e l’ascolto dei deliri testuali. Ma la piena realizzazione di ciòavviene nella versione cinematografia, dove l’uso del mezzo cinematograficoaccresce notevolmente la forza immaginifica del sogno. Unitamente aquest’ultimo, ironia, amour fou, humour noir, rappresentano i « picconi » con cui isurrealisti hanno tentato di abbattere le mura difensive della morale borghese perottenere la liberazione dell’uomo. Il mezzo d’azione tra i più efficaci per questademolizione è stato proprio il cinema, considerato surrealista di per sè, in quantoal cinema tutto è possibile. Uno dei film più indicativi della poetica del gruppo è Un chien andalou.  Nonostante in questo film i trucchi ottici siano limitati e la potenza dell’immaginesia estranea alla potenza della tecnica la sua crudeltà è insostenibile per l’occhiodello spettatore medio. Secondo l’analisi di Canosa il film vieta la visionetradizionale allo spettatore: il taglio dell’occhio(visione tradizionale) viene eseguitodallo stesso regista, “l’occhio è tagliato e la visione è negata. Ma,paradossalmente, l’occhio non rinuncia a vedere, bensì vede finalmente. La realtàsi spalanca mostruosa”.Il film presenta una serie di elementi di grande interesse: uno sviluppoantinarrativo che si regge sull'inatteso e sullo choc, la presenza di una simbologiasessuale, la continua tensione tra il piano razionale e quello del subcosciente,l'oscillazione tra la costruzione di una storia e la sua negazione (i personaggi sonoricorrenti e, anche se allo spettatore non è concessa alcuna identificazione,costituiscono una sorta di punto d'ancoraggio per poter individuare una certacoerenza all'interno del film). Alla luce di quanto detto a proposito di Un chien andalou, sono notevoli i punti dicontatto tra il surrealismo cinematografico e il cinema beniano,ma sarebbesemplicistico vedere in quest’ultimo i prodromi del primo e  null’altro.

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1.3. Oltre il surrealismo:  Artaud cineasta

Il discorso di Artaud sul cinema si differenzia dalle posizioni dei surrealisti inquanto nega di assimilare lo spazio del cinema al sogno. L’immagine, secondo  Artaud, deve avere come oggetto il funzionamento delpensiero di cui il sogno è solo un’approssimazione. Dai suoi scritti emerge che, aparer suo, la specificità del cinema è la vibrazione come “nascita occulta delpensiero”, ciò “può rassomigliare e apparentarsi alla meccanica di un sognosenza essere un sogno esso stesso” . Il distacco tra il cinema di Artaud e quello surrealista non risiede nei temi trattati,che rimangono  pressappoco immutati, ma l’approccio ad essi; l’autore scrive: “lasessualità, il rimosso, l’inconscio non mi sono mai sembrati spiegazionesufficiente dell’ispirazione o dello spirito…” . Non è il pensiero a confrontarsi conqueste istanze, bensì il contrario: queste determinazioni si confrontano colpensiero come fosse un problema più alto, indeterminabile.Artaud scompiglia i rapporti tra  pensiero e cinema per congiungere quest’ultimocon la realtà intima del cervello. Egli attribuisce al cinema una “forza dissociatrice”capace di creare interstizi tra le immagini in cui far risiedere la significanza.Usando parole di  Blanchot “Artaud rovescia i termini del movimento, mette inprimo piano la privazione, e non più la totalità immediata di cui quella privazionepareva dapprima la semplice mancanza. Quel che viene prima, non è la pienezzadell’essere, ma l’incrinatura e la fessura” .Siamo di fronte ad un novo cinema, un cinema della crudeltà dove non ci sonostorie da raccontare, ma solo lo sviluppo degli stati dello spirito.Antonin Artaud può essere definito il maestro ideale del nostro Carmelo Bene chedarà vita ad un “barocco della crudeltà” di matrice artaudiana tuffato dentro unmondo distorto. Sono innumerevoli gli elementi di comunanza tra i due autori a partire dallamedesima strada intrapresa che dal teatro li ha portati al cinema per poi tornareindietro. Dopo la deludente realizzazione de La Coquille e Clergyman, Artaud, comeaccadrà allo stesso Bene, smette di credere nel cinema: “il mondo imbecille delleimmagini preso come nel vischio in miriadi di retine non completerà mai

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l’immagine che ci si è potuti fare di lui”.Buona parte degli scenari  cinematografici scritti da Artaud non furono mairealizzati,tra questi Les dix-huit secondes è molto interessante poiché si sviluppasu piani temporali diversi(un tempo mentale integrato con quello filmico che vaoltre il tempo reale).uno stesso discorso è valido per analizzare ciò che accade inNostra Signora dei Turchiin qui si verifica un cortocircuito temporale tra Storia e storia.Les dix-huit secondes affronta uno dei temi essenziali della poetica artaudiana,esso rappresenta “…la disarticolazione dell’io, la frantumazione del soggetto,…inpreda all’abisso e alla negatività, segnato da una mancanza radicale ad essere ea simbolizzare” . Qui Artaud tenta di realizzare un’opera chesi faccia pensiero e delirio proiettando sulla dimensione filmica le ossessioni dellamente, un “delirio dispiegato della visione” .Lo stesso delirio lo vive  il Don Giovanni di Bene quando, seduto ad una tavolaimbandita, vede dinnanzi a lui una donna,due donne, tre donne,ma sempre lastessa proiezione della sua mente.Nel testo del 1933 La vecchiaia precoce del cinema, Artaud realizza che lafissazione su pellicola dell’immagine la rende morta poiché “impediscerisistemazione e ogni ripetizione…la figura del film è definitiva e  senza appello”. È qui che risiede la cifra distintiva tra maestro ed epigono. Di fatti Bene, adifferenza di Artaud, crede che un’opera, una volta terminata, non può più esserein alcun modo compromessa. Una volta datagli vita, il testo, di qualsiasi natura, sirende autonomo dall’autore e la ripetizione funziona come principio didifferenziazione. Proprio attraverso il cinema, Bene perviene al riconoscimento “diun evento irriproducibile nell’istituto della ripetizione”che si realizza attraverso la dissociazione delle componenti narrative e del senso.Nel superare il suo maestro, Carmelo Bene diviene per Maurizio Grande “unamacchina antilinguaggio” capace di attuare un processo di allontanamento dalsenso moltiplicando  visioni allucinatorie .

 

1.4. E’ la volta di Bene

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Nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di tracciare delle linee su cui farscorrere la storia del cinema fino a Carmelo Bene. Quest’ultimo non è però classificabile, né catalogabile, ma può essere solo “registrato”, in quanto, comesostiene Gian Piero Brunetta , la stessa “raggruppabilità tematica, stilistica,poetica, ideologica degli autori in famiglie, tendenze, scuole, cooperative,che ciconsente di operare un taglio netto tra produzione commerciale e produzionesperimentale, porta, alla fine di ulteriori suddivisioni e ripartizioni, a riconoscereche i conti non tornano perfettamente. Rimane sempre fuori, quasi in uno spaziodi nessuno, Carmelo Bene” . L’impossibilità di attribuire un posto al nostro èdovuta al fatto che Bene, nonostante gli evidenti contatti con leavanguardie,permane all’interno di una tradizione culturale ben più antica, quelladel grande attore ottocentesco. Ciò è evidente, in particolare, per quantoconcerne i testi utilizzati sia nel teatro che nel cinema. Shakespeare in testa, sonoi grandi maestri del passato ad offrire il miglior materiale su cui lavorare. Proprio sui due binari di tradizione e avanguardia prende il via il progetto benianodi demolizione dell’immagine, nonché della comunicabilità filmica.Quando Giancarlo Dotto chiede a Bene come sia arrivato al cinema, questi glirisponde: “dal detestar qualcosa. Per poi demolirla” ,la domanda a questo punto ècome. La  risposta è lui stesso a darla: “invece del racconto, questo bricolage disuoni e immagini destinato a una citazione di racconto, questa miriade di segnialla deriva dell’onda sonora che detta il movimento”.Bene rifiuta di narrare;quand’anche la storia emerge, è solo per confondereulteriormente i piani della narrazione. Per ottenere il suo scopo comincia a disfarel’impianto cinematografico dal suo costituente principale: il montaggio. Febbrile e ossessivo, il montaggio dei film di Bene è la sede principale dell’operadi distruzione figurativa che attende le immagini girate: vivisezionate, le sequenzeperdono il loro significato originale per  acquistarne uno nuovo che deriva dall’accostamento di frammenti spesso così brevi da far sorgere nello spettatore ildubbio di aver solo immaginato ciò che hanno visto(o meglio intravisto). Il senso(onon-sense) permane negli interstizi, la sua sottrazione lo rende più evidente.Il cinema di Carmelo Bene è contro il cinema: nessun “cinema de pàpa” danegare, nessun nuovo cinema da costruire, ma, tout court, il cinema da disfare inun progetto di annientamento che investe lo statuto di visibilità dell’immaginecinematografica e i codici della rappresentazione di cui si sostanzia e chenell’intenzione iconoclasta che lo muove non lascia possibilità di ricostruzione o dirinnovamento.L’immagine artaudianamente sconcatenata   si sottrae a sé stessa attraverso lacoazione a ripetere, che invece di dare maggiore vigore al messaggio lo sopisce,

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lo cancella.Il dettaglio, l’ingrandimento eccessivo hanno lo stesso effetto di unrimpicciolimento estremo: la cancellazione. Bene “ crede che il cinema possa operare una teatralizzazione più profonda delteatro stesso, ma lo crede solo per un breve istante. Ben presto pensa che ilteatro sia più adatto a rinnovare se stesso e a liberare le potenze sonore, che ilcinema troppo visivo ancora limita, anche a costo che la teatralizzazione integrisupporti elettronici piuttosto che cinematografici. Resta il fatto che ha creduto, inmomento, il tempo di un’opera troppo presto interrotta, volontariamente interrotta,alla capacità che avrebbe il cinema di dare un corpo, cioè di farlo, di farlo nasceree scomparire in una cerimonia, in una liturgia” .

 

Capitolo secondo

“La cecità dell’immagine: Nostra Signora dei Turchi”

 

2.1.  Biografia o Storia?

La parentesi “eroica” di Bene, ovvero la sua fase cinematografica, iniziaufficialmente con Nostra Signora dei Turchi , film del 1968 finito in concorso allaMostra del Cinema di Venezia della contestazione. Benchè l’opera sia figlia di quell’anno così importante politicamente, citando le

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parole dell’autore, essa “[…] è dichiaratamente anti ’68, in dispregio non solo aquel “maggio italo-gallico”, ma a tutti i “maggi” socialmondani della Storia, insaecula saeculorum”. Nostra Signora dei Turchi porta con se non una missione politica bensì epica :“parodia dell’intellettuale italiota (…), carico di zavorre iperstoricizzate, coppole etricolori, poeti santi e navigatori”, questo film rappresenta un cortocircuito spazio-temporale in cui l’invasioned’Otranto da parte dei Turchi nel 1480 è raccordata a più riprese con un’altrainvasione, quella dei turisti durante la stagione estiva. In questo complessoquadro la figura di Carmelo Bene, scissa in una moltitudine di ruoli, autobiografiadel personaggio narrante e narrato, tende ad elidere la sua continua presenza suivari piani della vicenda e lo scarto temporale tra invasori antichi e moderniper legare Storia e biografia, ottenendo così una non-storicizzazionedell’autobiografia ed un’attualizzazione della storia. Il film si apre con la presentazione visiva e verbale del moresco Palazzo Sticchi,un falso storico in realtà  novecentesco: “…mentre procede il viaggio dellamacchina da presa dentro di esso, la voce fuori campo di Carmelo Bene cidescrive il palazzo come elemento di riferimento essenziale alla biografia delprotagonista che gradualmente, si trasforma in autobiografia del narrante.Autobiografia vivente nel prodigio di un passato non concluso che si attualizza inun presente fuori dello stesso tempo  dello stesso spazio, e come conquistamateriale e formale dell’immaginario” . Il palazzo rappresenta una sorta di cesuratemporale che ingloba e fagocita vicende umane, Storia, Mito. Esso rappresentadue diversi passati: quello della memoria equello dell’immaginario. Proprio all’interno dell’immaginifico passato tratteggiato da Bene si trova la suastoria; negli occhi di uno dei martiri della fede si legge lo sguardo del nostro.“Prigionieri, addormentati nell’Ade, i martiri-eroi, simboli di quella divina immaginecreatrice e redentrice, celata dentro ognuno di noi, attendono di esserericonosciuti e risvegliati dalla luce a nuova vita. Lui, eroe-personaggio-CarmeloBene, sprofondato nella morte, immerso in se stesso, non può ripetere nésottostare alla castrante situazione accaduta cinquecento anni prima. Ora develiberarsi affrontando l’esperienza del proprio mondo interiore”. La liberazione di Bene avviene grazie al suo film, una feroce e divertita parodia della vita interiore.Passato e presente si aggrovigliano fino all’implosione della logica temporale delracconto, il che si verifica fin dalla prima sequenza dove l’uso dell’imperfetto

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suggerisce alle vicende del personaggio un’aria di passato. Eppure ciò cheaccade conserva una continuità indefinita nel presente, non solo tramitel’esposizione verbale, quanto mostrando insistentemente dettagli del palazzomoresco e del “viaggio” della macchina da presa al suo interno .Con Nostra Signora dei Turchi Carmelo Bene compie un delirante viaggio nel Suddel Sud dei Santi, luogo di residenza prescelto da matti e santi il cui più importante compito èassolvere le deformità stereotipiche con cui si suole condannare la minoritàmeridionale per tramutarle in virtù

2.2. La demolizione dell’impianto narrativo

“Il cinema è mezzo, strumento, procedimento e linguaggio” . Il cinema ècomunicazione, dunque deve esserci un significativo rapporto tra funzione filmicae comunicabilità di referenti capaci di stabilire un senso esplicito. Negli annitrascorsi dalla sua nascita (28 dicembre 1895) al 1968 (anno in cui viene girato Nostra Signora dei Turchi), il cinema si è dato delle regole sulla rappresentazione filmica riguardanti l’ordinelogico, le convenzioni spaziali e temporali. Ma come poteva il nostro CarmeloBene attenersi a delle regole che contrastavano  il suo programmatico intento didemolizione del cinema. Carmelo fa violenza ad ogni convenzione e trova in nuove possibilità espressiveun’efficacia superiore. Egli rifiuta di racchiudere il cinema  entro sistemiprecodificati, non accetta di dover intendere il linguaggio cinematografico come “traduttore o fissatore di determinati contenuti preesistenti all’azione linguistica”. Le soglie percettive possono variare grazie al genio di un autore capace di unapuntuale de-costruzione dei sistemi tradizionali di rappresentazione, dei codici,delle meccaniche e delle regole canonizzate dell’esecuzione teatrale. CarmeloBene giunge sino alla soglia della non-comunicabilità poiché il suo compito non è“spacciare storielle”. Egli rigetta categoricamente la tesi di un utilizzo del racconto cinematografico

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funzionale ad una narrazione lineare, per creare un  tipo di narrazioneconcentrico, “dove ogni elemento ha la sua pluralità di ruoli, una posizionepolivalente e suscettibile di amplificazione dinamica ed estetica, polisense,esteticamente ambigua, logicamente contraddittoria, poeticamente indeterminata”. Nella narrazione filmica non vi è progressione di azioni o eventi, “si danno soloatti mancati, gesti sospesi, impasse”; il più significativo esempio di ciò sta nel rituale delle cadute volontarie.Carmelo-personaggio continua a gettarsi dalla finestra ancora e ancora, purrestando indenne. Bene-regista, citando Hitler, afferma: “per valutare ildisfacimento di un corpo è indispensabile rapportarne la gravità all’altezza da cuiè precipitato”…la traiettoria, dunque . Volendo essere meno criptici, nel momentoin cui il corpo attoriale di Bene  si getta nel vuoto, l’azione è interrotta e il corporesta sospeso per un attimo per poi trovarsi già a terra, dove il dolore è espresso“in una segmentazione del gesto propria di un corpo già trasformato in macchina”. Per il nostro è necessario sopprimere la traiettoria, o meglio l’intervallo tra inizioe fine del gesto, per conservare di Inquel gesto l’immediatezza. La potenza dell’atto sta nella sua sospensione, nella sua incompiutezza, nel suonon-essere.Il rituale delle cadute involontarie comincia a mettere in attoquell’autofrantumazione dell’io pienamente raffigurata dai molti personaggipartoriti da Carmelo-auctor e resi vivi da Carmelo-actor . Si può ben dire, come faMaurizio Grande che “ogni elemento, ogni componente testuale è investita da unprincipio dissociativo, da un automatismo oggettivante, da slittamenti continui delsenso e improvvise defunzionalizzazioni e da proliferazioni di altri da sé, comepresenze-assenze da inventare, il cui dispositivo è il "corpo": è l’uguale cheprende a differirsi e come scrive Pierre Klossowski è "l’uguale che si tratta dicontraffare [e disintegrare] implicando una dissomiglianza" nel gesto e nella voce”. Di qui  il senso di scene come quella di un gangster che spara alla sua immaginecivile (il suo passaporto), o ancora la trasformazione del protagonista in unanziano frate a sua volta sdoppiatosi in un frate più giovane. Tutti questi doppisono ferite dell’io, utili espedienti per la contraffazione di un’immagine due voltelarvata dalla morte, quella di una realtà che non è più e quella registrata mai viva.L.Esposito definisce “Nostra signora dei Turchi un film sulla dissipazione dellasoggettività in quanto tale, radicalmente differita nel doppio, nel triplo, nellamoltiplicazione continua dell’esserci in / di un solo corpo dove ogni singolomovimento di macchina è rigorosamente marcato o interrotto, quasi soloimmaginato come le ferite e le malattie di cui si vorrebbe vedere proliferare ilproprio corpo […]. Nostra signoradei Turchi è la

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morte raccontata da un vivo”.

 

2.3. Ed ora la pellicola

Siamo nella primavera del 1968, a Carmelo Bene viene affidato dalla Nexus Filmil compito di girare tre documentari nel Salento , di cui solo uno vedrà la luce Ilbarocco leccese, recentemente restaurato. Utilizzando i fondi stanziati per la realizzazione diquesti lavori, Bene gira il suo primo lungometraggio Nostra Signora dei Turchi,senza neppure una vera sceneggiatura. I mezzi a disposizione della troupe, composta da Mario Masini (direttore dellafotografia) e Bene (attore-regista-ideatore), sono decisamente limitati : attricisenza compenso e per le comparse “coloni indigeni acquisiti con un bicchiere divino rosso procapite”. Il film è interamente girato negli ambienti “reali”, un unicum per Bene, con unamacchina da presa Arriflex ST in 16 mm, poi ingrandito in 35 mm. Il girato vieneletteralmente de-costruito in due settimane di montaggio grazie alla maestria diMauro Contini, un montaggio forsennato capace di cancellare la narrazione perlasciar il posto alla demolizione.Nostra Signora dei Turchi non merita ancora i prodigiosi montaggi dei successivifilm di Bene , ma la sua realizzazione ha delmiracoloso: “avevamo la pellicola misurata (…). Ci si arrangiava con gli scarti dipellicola, e con gli scarti s’addizionavano immagini ammantate di nulla, in nome diquel mio metodo ormai classico che aggiunge per sottrarre”. Bene si avvicina al detestabile cinema per poter fare a pezzi il visivo fisicamente,materialmente. Il nostro Carmelo si scaglia contro l’immagine, contro larappresentazione,         “il cinema è sempre servito a spacciare storielle, manessuno ha mai spacciato la pellicola (…). Squartata, bruciata, fatta a pezzi” .

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Nelle lunghe sedute di montaggio la pelle-pellicola subisce trattamenti inimmaginabili: trinciata con coltelli, bruciata con cicche disigaretta, stropicciata  e calpestata fino a rendere impossibile un’oggettiva visione.

Insieme alla pellicola si distrugge ogni possibile incontro con il pubblico,volontariamente privato dell’opportunità di fruire l’immagine quanto il suosignificato.“Era questo disammantare l’ammanto che costituiva il mio primo film. Ma si èsempre al primo film. Si è sempre al primo verso, si è alla prima battuta. Si èsempre di prima, come mi piace ricordare” .

 

 

Capitolo terzo

 “Don Giovanni”

 

3.1. Don Giovanni: milletré occasioni mancate

1970: Don Giovanni, terza avventura cinematografica di Carmelo Bene.

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Set del film una stanza d’albergo: tendaggi pesanti alle finestre, pochi metri reali adisposizione dilatati infinitamente nella finzione filmica.Il film viene presentato a Cannes, alla Quizaine des realisaturs, nel maggio del1970 e nell’agosto alla Mostra del Cinema di Venezia, un film castigato dalladistribuzione, meno che in Francia. A differenza dei due precedenti lungometraggi, quest’opera non ha origine da varianti letterarie né tantomeno teatrali. Il soggettotrae spunto da “Il più bell’amore di Don Giovanni”, una novella di Jules-AmédéeBarbey d’Aurevilly, in cui il conte Ravila di Ravilès ricorda l’amore provato per unastrana tredicenne, figlia di una sua amante, convinta di essere stata ingravidatadallo sguardo di Don Giovanni, durante un’esercitazione ad un  piano dai tasti chesuonano a vuoto. Partendo da questo semplice episodio, il nostro Bene opera ladecostruzione del mito di Don Giovanni dimenticando la sua storia e dilatando inmodo estenuante la sua avventura con la piccola tredicenne, non ancora sfioritain donna (Gea Marotta). Proprio lei, giovane e pura, marca l’impossibilità perBene-Don Giovanni della copula. Ciò che viene raccontato qui è l’agire sospeso,irrisolto di un uomo per cui “di ogni donna messa a nudo il corpo è terrairriducibile, limite che esclude ogni conquista (…), conquistatore si, Don Giovanni,ma del suo proprio scacco(…), più che fallire non può il seduttore nella rovina insé che germoglia e dilaga”. Carmelo Bene infligge un grave colpo al dongiovannismo già dal falso prologo inbianco e nero,  dove ostenta l’indifferenza del protagonista verso il catalogo delledodici donne sfilanti dinnanzi al suo sguardo. In realtà tutte le donne del catalogonon sono che la ripetizione differita di un’unica donna, sempre la stessa, l’amataLydia Mancinelli. Il corpo attoriale di Lydia si traveste per attuare un’impossibileseduzione, preso in un’estasi cosmetica crea altro da sé, moltiplica il suo essere:“è l’uguale che si contraffà implicando una dissomiglianza” .

 

3.2. L’amplificazione cancella il senso

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Don Giovanni offre la risposta a come provocare i crampi alla rappresentazione,come distruggere l’immagine. “Amplificazione e ingrandimento: primissimi piani,dettagli, ferocità cromatica, corpo in frammenti simili a coriandoli, arguzia,sfocatura, sovrimpressioni, graffi sulla pellicola, montaggio al limite delsubliminale, contrazione testuale, rumori, citazioni, phonè, vetri infranti? Questofilm è un flusso e ci mostra la distruzione in un campo di battaglia composto difotogrammi” . Il particolarissimo montaggio fratto qui adoperato aiuta Carmelo Bene a disegnareil suo corpo a corpo con l’immagine, la sua strenua lotta per demolirla. Spazialitàe temporalità sono dislocate da un montaggio che costringe l’immagine a“eccedersi in quattro-cinque-seimila inquadrature che sono altrettante traiettorie dicaduta, fulminei inabissamenti durante i quali Bene prova a filmare tutti i singoliistanti di questa curva temporale, vista come una grande onda che travolge tuttoal suo passaggio” . Questo accade soprattutto quando la bambina, la madre eDon Giovanni attraversano il corridoio che conduce alla camera rossa. Le loroimmagini avanzano e retrocedono continuamente come la musica di un vecchiovinile rovinato, mediante variazioni della scala delle distanze create con ilpassaggio velocissimo dal dettaglio al primo piano e addirittura al primissimo. Siverificano anche repentine variazioni di direzione mediante continui salti in avantie indietro.   Prende vita così un circuito dell’immagine in cui si iscrivono ipersonaggi con il loro innaturale incedere, scorrevole per qualche frazione disecondo, per poi interrompersi subitaneamente e riprendere dal punto dipartenza. L’estrema sezionatura dei fotogrammi , la realedifficoltà nel recepire immagini che si susseguono ad una velocità impressionantedisfa la narrazione, alcune sono talmente brevi da essere percepibili solo a livellosubliminalema questo non è ancora abbastanza. La vera ossessione del film è rappresentatadall’amplificazione, legata in prima battuta al gonfiaggio subito dalla pellicola nelpassaggio da 16 mm a 35 mm. Oltre il puro dato tecnico, l’amplificazione è ingrado di far esplodere i fotogrammi, fargli perdere la misura, la loro educatacomposizione. L’oggetto amplificato non guadagna visibilità, bensì si sfuocaperdendo ogni possibilità di essere decifrato, cancellandosi nel suo espandersi.L’eccesso si pone come regola e non permette più di cogliere la differenza traaccrescimento e diminuzione. Nel catalogo femminile a disposizione di Don Giovanni l’amplificazione divieneingrandimento cutaneo: la cosmesi attuata sul volto di Lydia  eccede  l’intento dioccultamento dei difetti per restituire volti devastati, in cui l’eccesso di  trucco pareabbia infine accelerato la distruzione del tessuto stesso, lasciandolo in preda abolle pestilenziali. Preso dal deturpare l’immagine, il nostro Carmelo realizza

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un’ultima cosmesi: quella sui cadaveri. “Don Giovanni è un trattato sulla morte, sulla putrefazione dei morti ancoraviventi”, sulla demolizione del corpo prima ancora che del vedere.Questo film dissipa il movimento in ogni infinitesimale fotogramma, in ognidettaglio: Lydia-amante-madre si fa persino quadro, si dà come pura immagine. “L’effetto quadro” rappresenta la risposta alla preliminare domanda da cui partetutto il cinema di Carmelo Bene: la differenza  tra l’immagine fissa e quella inmovimento. “Detestandole entrambe, mi limito a dire che la virtualità d’un corpo inmovimento è assai meno dinamica d’un virtuale apparentemente incantato unavolta per tutte (olio su tela…), dove l’oggetto figurato sprigiona un’energiasospesa, impassibile d’una fruizione definitiva da parte di chi guarda. Al contrario,l’immagine in movimento non può generalmente sottrarsi al limite mediocre del giàsciaguratamente espresso” .  Dunque Lydia diviene citazione viva ed esplicitadella Baingneuse di Ingres per cambiare ancora escivolare nella Venere allo specchiodi Velàsqez.Dall’immagine fissa, Bene trapassa fino all’immagine meccanizzata e artificialedella marionetta avvolta in fili che le danno la vita ed una pseudo-movenza ,quegli stessi fili che cingeranno Carmelo Bene impedendo una volta ancora l’attoamoroso, la congiunzione dei corpi, impedendo il compiersi dell’essenza vera diDon Giovanni .

                                                                                                        

 

Capitolo quarto

 “Attraverso il cristallo”

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4.1. L’immagine cristallo

Nei suoi saggi sul cinema, Gilles Deleuze dedica pagine ammirate all’operacinematografia di Carmelo Bene, che considera uno dei massimi produttori diimmagini cristallo. Sulla scorta di Bergson, nell’Immagine-tempo, lo studiosoanalizza questo concetto. L’immagine  cristallo è data dall’accostamento di un’immagine attuale ad unaspecie di doppio, “la stessa immagine attuale ha un’immagine virtuale che lecorrisponde come un doppio o un riflesso(…) vi è formazione di un’immagine adue facce, attuale e virtuale” . Le due componenti dell’immagine cristallo formanoun piccolo circuito interno di elementi distinti, ma indiscernibili. Tale indiscernibilitàrende impossibile attribuire in maniera definitiva la marca di realtà o di virtualitàalle due facce del cristallo poiché esse sono, come afferma Bachelard, immaginireciproche . Esistono, inoltre, oggetti materiali cheposseggono una natura doppia, capace di rendere ulteriormente indistinguibile ilpassaggio dal reale al virtuale: lo specchio  ne è un eclatante esempio. Il continuoribaltamento insito nelle immagini speculari cresce di complessità nella praticabeniana: nel Don Giovanni LydiaMancinelli vede emergere dallo specchio che le è di fronte un’immaginevirtuale-citazione pittorica della Venere allo specchio di Velàzquez. Nel finale delmedesimo film, lo specchio diviene protagonista: attraversato da Carmelo Bene, siriduce in frantumi, ma quando Lydia si china a raccogliere i cocci, ecco comparireil riflesso del nostro Carmelo, ingurgitato dalla magica superficie riflettente chetorna ad essere integra. In Nostra Signora dei Turchi  Bene-protagonista nega il volto come unità e, nel rifletterlo allo specchio, inscrivedentro quest’ultimo l’immagine in primissimo piano di Santa Margherita, operandocosì una moltiplicazione dei piani di analisi. Non solo dunque l’immagine allospecchio è virtuale in relazione al personaggio attuale, ma c’è da tenere in contol’attualità e la virtualità della santa, a sua volta riflessa, e le possibili combinazionitra le varie entità del circuito così generato.  Ecco cosa rappresenta Nostra Signora dei Turchi, “un film sulla dissipazione della soggettività in quanto tale, radicalmente differita

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nel doppio, nel triplo, nella moltiplicazione continua dell’esserci in/di un corpo,dove ogni singolo movimento di macchina è rigorosamente mancato o interrotto,quasi solo immaginato come le ferite di cui si vorrebbe veder proliferare il propriocorpo”. Non bisogna trascurare il fatto che alla base dell’immagine cristallo c’è unacomplessa relazione temporale studiata attentamente dal filosofo francese HenriBergson a cui più volte Deleuze fa riferimento. L’immagine considerata attualerappresenta il tempo presente, che subisce delle variazioni fino a divenirepassato. Ma ciò non si verifica quando il presente non è più, bensì mentre èancora. Questo vuol dire che l’immagine deve essere contemporaneamentepresente e passata. Dunque “il presente è l’immagine attuale e il proprio passatocontemporaneo, è l’immagine virtuale, l’immagine allo specchio” . Neconsegue che il tempo deve di continuo sdoppiarsi: “il tempo consiste in questascissione, è essa, esso che si vede nel cristallo”. Ma attenzione a non dimenticare che tale scissione, non essendo totale,permette comunque al cristallo di vivere la sua reciprocità.Il cristallo è il “limite sfuggente tra il passato immediato che non è già più el’avvenire immediato che non è ancora (…), specchio mobile che riflette senzaposa la percezione in ricordo” .

4.2.  Il cerimoniale del corpo

Perseguire la cecità dell’immagine. Forse è tutto qui il cinema di Carmelo Bene. Ma, perché il nostro riesca nel suo intento, è necessario dare un corpo a questocinema; che sia performatico, cerimoniale, patetico, "ridicolo", distante dagliautomatismi del corpo quotidiano, ordinario del cinema di Andy Warhol . chepossa darsi come puro cristallo. Diviene dunque necessario che il corpocinematicopassi attraverso un cerimoniale che permetta la sua trasformazione in corpo oragrottesco ora glorioso, “per giungere infine alla scomparsa del corpo visibile”. L’immagine visibile del corpo si (dis)fa (in) immagine orale. Parodia cerimonialeinstallata nel corpo stesso, nei gesti anche vocali, "l’aprassia e l’afasia sono duefacce della stessa postura"

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: afasia come "guasto della parola" e aprassia come "sincope del gesto". Corpocavo; corpo come cavità orale (os oris "bocca"), voce, respiro. Corps subtil comelo ha definito Pierre Klossowski.La cerimonia ha come scopo ultimo da raggiungere quello di “liberare il corpo delprotagonista o del maestro di cerimonia, che passa attraverso tutti gli altri corpi” .Ecco dunque che ogni azione perde la sua naturalezza per dar vita ad unaliturgia, come accade in Nostra Signora dei Turchidove,  in seguito al rituale delle cadute volontarie, Bene è a terra, il dolore appareinumano, espresso da gesti propri di  un corpo tramutato in macchina, la morte non riesce a compiersi, “mummia completamente bendata che non riesce più afarsi una puntura, la postura impossibile”. La ritualità più assoluta si raggiunge nel Don Giovanni, opera interamentepercorsa dai cerimoniosi tentativi del protagonista di conquistare la giovanefanciulla, figlia di una delle sue amanti. I rituali di seduzione hanno luogo inquattro momenti distinti: la preparazione del tè è il primo. Ogni suono, ogni voce èamplificata, tutti i gesti sono frantumati dal montaggio fratto che li rendemacchinaci e innaturali, cancellando il corpo e la sua percezione in quanto tale. Fallito il primo tentativo, eccone subito un altro: lo spettacolo dei burattini. Lamadre forza la figlia a guardare, ma ella si rifiuta e bacia ossessivamente ilrosario, suo unico appiglio contro le tentazioni. Don Giovanni anima i burattinisenza però riuscire ad attirare lo sguardo della piccola che fugge rigirandosi,dunque è costretto a muoversi  continuamente intorno ad ella per poterlointercettare, il che impedisce il compiersi dell’azione. Terzo tentativo: la strategia si svolge ora mediante oggetti religiosi, corone ecrocifissi. Le immagini si confondono e divengono irreali, lo sguardo dellabambina si fa vertiginoso e vaga tra i ceri. Dinanzi ad un altro fallimento codificatoDon Giovanni intraprende l’ultimo tentativo di seduzione, l’ultima estremacontraffazione di sé: vestito da Cristo avanza verso la giovane e, tra ripetutesospensioni  rallentamenti, anche il sonoro perde definizione. Ad un tratto la suaimmagine si sblocca e precipita sulla bambina che risponde con uno sputo.Le quattro cerimonie terminano tutte con un fallimento sintomaticodell’impossibilità  del compimento. L’agire è sottratto poiché per Bene “il cinemanon fu in grado di farsi corpo e, comunque, questo coma somatico, relittosopravvissuto al tormentone dell’aprassia, è svanito. (…)  Ho sentito l’urgenza disfidare, frantumandola,  l’immagine-corpo, già di per sé due volte larvata nellavirtualità dell’obitorio cinematografico” .

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Conclusioni

 

Cala il sipario

Nel corso di questo breve lavoro abbiamo analizzato un aspetto del lavoro dacineasta di Carmelo Bene, forse l’ultimo grande autore di un secolo ancora troppoconfuso, il ‘900.La mania classificatrice degli studiosi ha forzosamente inserito la cinematografiabeniana nell’Avanguardia forse perché, una volta circoscritto il fenomeno, divienedi gran lunga più facile abbandonarlo nell’oscuro dimenticatoio delle espressioniculturali non di massa. Ma non si può certo dire che il nostro non sia un ossoduro, capace di resistere al mondo, come alla malattia, come ai criticiincompetenti che, rifacendosi alla vecchia massima “condanna ciò che noncomprendi”, l’hanno spesso ostacolato. Proprio come accaddenell’indimenticabile  edizione della Mostra del Cinema di Venezia del’68 quandoCarlo Mazzarella, inviato di punta della RAI, stroncò in diretta televisiva NostraSignora dei Turchi, in concorso alla mostra. Bene e i suoi amici erano sufficientemente ubriachi peringaggiare una discussione con il critico e così, quando Perla Peragallo chiede:“Che faccio gli do uno schiaffo?” e Bene le risponde: “E perché no”, il ceffone appare inevitabile.Passano vent’anni e Il nostro Carmelo avrà di nuovo a che fare  con le mostreveneziane, ma questa volta in un ruolo completamente diverso: 1988, duranteuna rappresentazione de “Homelette for Hamlet” al Teatro Quirino, arriva lafolgorante notizia della nomina di Bene come direttore artistico della sezioneteatro della Biennale. Questa decisione risultò agli occhi degli addetti ai lavori unafollia, “come insediare un serial killer alla presidenza del Telefono Azzurro” .

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Come era facile prevedere, questa storia non ebbe esiti positivi, tutt’altro, ful’antefatto di una diatriba durata due anni, finita a colpi di querele e carta bollata. Al di là del suo spiacevole esito, questa faccenda ci porta a riflettere sull’erroneaattribuzione di Bene ad una qualunque lobbies artistica poiché, se si escludequella degli Asinelli, il nostro non si è mai chiuso in nessuna torre, non ha mairisparmiato a se stesso alcuno sforzo per esserci, convinto com’era che “in Italiabasta voltarsi un attimo e non si è più,non si è mai stati” .  Fissare Carmelo Bene in uno qualsiasi dei suoi innumerevoli stilemi vuol direucciderlo perché, come afferma Gilles Deleuze, “la potenza di un artista è ilrinnovamento” .Ma, se è così semplice essere dimenticati, cosa rimane oggi di Carmelo Bene edel suo cinema? Non è semplice trovare epigoni del nostro nell’attuale panorama cinematografico,è probabile che non ce ne siano, eppure possiamo rintracciare alcuni elementi dimatrice beniana tanto nel cinema quanto, forse in misura maggiore, nelle nuoveforme della comunicazione per immagini.Per quanto concerne la sua attitudine alla distruzione della narrazione, sono dicerto in molti i registi che tentano questa via, sebbene non con il suo stessoestremismo. Ormai non è più tempo per il montaggio lineare, tutto è già visto, giàfatto. Bisogna sconvolgere a tutti i costi per avere la possibilità di restare più ditrenta secondi nell’alluvionato flusso comunicativo. C’è inoltre da considerare chel’avvento del montaggio digitale ha reso in pratica una bazzecola decostruire unastoria: non sono più necessarie notti intere in oscure salette di montaggio in cuitagliuzzare fotogramma dopo fotogramma per poi vedere sorgere un novelloFrankestein.Al di là della tecnica, un film in cui si può percepire una qualche eredità beniana è“2046” , l’ultimo film del maestro del cinema di Hong Kong Wong Kar Wai. Questofilm è diretto innegabilmente con grande maestria e un labor limaeimmenso, con la solita ricerca sulle superfici riflettenti, sui dettagli umani, suiconfini della pellicola, che abbiamo già visto in altre opere del regista come “In themood for love”(2000). Questa non-storia si esplicita non grazie ad una strutturanarrativa logicamente consequenziale, ma attraverso una messa in scena che sifa veicolo profondo e prezioso di una continuità emotiva, che è poi il principiofondante di tutto il cinema di Wong Kar Wai. Tornando a “2046”, esso è  il titolodel suo decadente ed erotico romanzo di fantascienza. Ma 2046 è il posto doveva a finire la memoria, è anche in un certo senso quel buco in cui Chowsussurrava il suo segreto. E' un luogo senza spazio fatti di volti e di ricordi. Qui, inquesto claustrofobico luogo, che fa tornare alla mente ogni set di Carmelo Bene, ilmelodramma non nasce da un racconto, ma da un’atmosfera, creata da un

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sovrapporsi  immagini, suoni, colori. In un certo senso “2046” è il risultato finale ditutti gli esperimenti estetici tentati in precedenza dal cineasta, e perciò si rivelaben presto quale “opera summa”, film-limite, esperienza sensoriale prima di ognialtra cosa.Come dicevamo in precedenza, un montaggio decostruito, l’assenza di una vera epropria storia da narrare sono caratteristiche riscontrabili anche in forme videodiverse dal lungometraggio, come il video-clip, il cortometraggio o la pubblicità .Queste forme brevi, non avendo a disposizione i tempi di un film, sviluppano lanarrazione (quand’anche essa esista) attraverso colpi di scena, quadri espressivi.Il loro obiettivo non è raccontare, ma mostrare. Il registro linguistico divieneinadeguato: lasciamo  che i nostri occhi siano abbacinati da tali espressioni visivefino in fondo.“Carmelo Bene ha anticipato –come tutti i grandi poeti dell’inattualità  artistica chesi muovono sulla tragica soglia di un negativo che possa condurre al costruttivo-ridondanti culture della visione, densi attentati formali e curatissimi decentramentidel gusto” .

                         Sipario

 

 Appendice

“Antologia di fotogrammi”

  

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Il rituale delle cadute volontarie; Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi (1968). Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi (1968).

     

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Lo specchio e l’immagine cristallo;Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi (1968).Carmelo Bene e Lydia Mancinelli in Nostra Signora dei Turchi (1968).     

Immagine fissa e immagine movimento;Lydia Mancinelli in Don Giovanni (!970).Lydia Mancinelli in Don Giovanni (!970).

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Ancora un’immagine cristallo;Carmelo Bene in Don Giovanni (1970).     

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LA DEMOLIZIONE DELL'IMMAGINE nel CINEMA di CARMELO BENE

  Primo rituale di seduzione: la cerimonia del thè; Carmelo Bene e Lydia Mancinelliin Don Giovanni (!970).Secondo rituale di seduzione: il teatro dei burattini; dettaglio di fata in DonGiovanni(!970).

        

        Terzo rituale: i doni di Don Giovanni;Gea Marotta in Don Giovanni (1970).Ultimo rituale: Travestirsi da Gesù Cristo; Carmelo Bene in Don Giovanni (1970). Bibliografia        A. Amendola “Carmelo Bene. Un’avanguardia tra reinvenzione e riscritturasimbolica” in Quaderni del dipartimento di Scienze della Comunicazione n.2Simboli, linguaggi e contesti, Carocci editore, Roma 2002;A. Amendola “Dell’eterno ritorno. Totò nell’avanguardia scenica tra Leo DeBernardinis e Carmelo Bene” in Quaderni del dipartimento di Scienze dellaComunicazione n°3 Linguaggi e maschere del comico, Carocci editore, Roma2002;A. Aprà “Bene oltre lo shermo” in Per Carmelo Bene Linea d’ombra, Milano 1995;C. Bene “autografia di un ritratto” in Opere, Bompiani 1995;C. Bene “Nostra Signora dei Turchi” in Opere, Bompiani 1995;C. Bene “La voce di Narciso” in Opere, Bompiani 1995;C. Bene “Sono apparso alla Madonna in Opere, Bompiani 1995;C. Bene–G. Deleuze “Sovrapposizioni” Feltrinelli, Milano 1975;C. Bene-G. Dotto “Vita di Carmelo Bene” Bompiani, Milano 1988;J. Narboni, “Carmelo Bene: Nostra Signora dei Turchi”, Cahiers de Cinema n.206, 1968, Parigi;R.Censi (speciale a cura di) “Giocare col fuoco” in  Cineforum 437 fascicolo n.7Agosto/Settembre 2004;G. Deleuze “L’immagine-tempo”, Ubulibri, Milano 1989;A. Di Caccia-M. Recalcati “Jacques Lacan” Mondadori, Milano 2000; E. Ghezzi “Il cinema che non si vede” in Film critica, fascicolo n.524 Aprile 2000;L. Esposito “Il cinema Bene non esiste” in Film critica, fascicolo n.524 Aprile 2000;M. Grande (speciale a cura di) “Carmelo Bene, il circuito barocco” inBianco&nero  n.11-12 Settembre/Ottobre 1973;M. Morandini “Il Morandini dizionario dei film” Zannichelli, Bologna 2003;P. Bertetto “Il cinema d’avanguardia” Saggi Marsilio, Venezia, 1983;F. Quadri (speciale a cura di) “Don Chisciotte di Bene,barocco della crudeltà” in Sipario n.278- 279, 1969, Milano;I. Moscati “Una rivoluzione che parte dal teatro” in Sipario n.270, 1968, Milano; G. Bartolucci “Il trittico-immagine” in  Scrittura scenica n.3, 1971, Roma.C. Saba, Carmelo Bene, Milano, 1999, Il castoro cinema. Filmografia“ Nostra Signora dei Turchi” 1968;“Capricci” 1969;“Don Giovanni” 1970;“Salomè” 1972;“Amleto di meno” 1973.Interventi televisiviMaurizio Costanzo Show “Uno contro tutti” 27 Giugno 1994;Maurizio Costanzo Show “A dispetto di tutti” 23 Ottobre 1995.

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