La cultura del Restauro. Antologia di testi e fonti

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DI SIRACUSA TEORIE E STORIA DEL RESTAURO Arch. Maria Rosaria Vitale La cultura del restauro Antologia di testi e fonti Anno Accademico 2010-11

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Teorie e storia del restauro

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DI SIRACUSA

TEORIE E STORIA DEL RESTAURO Arch. Maria Rosaria Vitale

La cultura del restauro Antologia di testi e fonti

Anno Accademico 2010-11

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Indice

Francesco Petrarca Hortatoria a Cola di Rienzo e al popolo romano (1347) ................................................................................ 4

Leon Battista Alberti Il restauro degli edifici (1452) ........................................................................................................................ 5

Raffaello Sanzio Lettera a Leone X (1519) ................................................................................................................................ 7

Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy Restaurare (1832) ......................................................................................................................................... 10

Victor Hugo Guerre aux démolisseurs! (1832) .................................................................................................................. 12

Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc Restauro (1865) ............................................................................................................................................. 14

John Ruskin La lampada della memoria (1849) ................................................................................................................ 27

Voto del IV Congresso degli ingegneri ed architetti italiani (1883) .................................................................. 32 Camillo Boito

I restauri in architettura (1893) .................................................................................................................... 34 Carta di Atene (1931) ......................................................................................................................................... 39 Carta del restauro italiana (1931) ..................................................................................................................... 42 Istruzioni per il restauro dei monumenti (post 1938) ......................................................................................... 45 Gustavo Giovannoni

Restauro dei monumenti (1936) .................................................................................................................... 48 Alois Riegl

Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi (1903) ......................................................... 52 Roberto Pane

Il restauro dei monumenti e la chiesa di S. Chiara a Napoli (1944) ............................................................ 64 Cesare Brandi

Concetto del restauro (1963) ........................................................................................................................ 69 Renato Bonelli

Il restauro architettonico (1963) ................................................................................................................... 79 Carta di Venezia (1964) ..................................................................................................................................... 85 Carta del restauro M.P.I. (1972) ........................................................................................................................ 88 Gaetano Miarelli Mariani

Aspetti della conservazione fra restauro e progettazione (1983) .................................................................. 91 Amedeo Bellini

Istanze storiche e selezione nel restauro architettonico (1983) .................................................................... 95 Salvatore Boscarino

Storia e storiografia contemporanea del restauro (1984)............................................................................. 99 Marco Dezzi Bardeschi

La conservazione del costruito (1981) ........................................................................................................ 104 Giovanni Carbonara

Teoria e metodi del restauro (1996) ............................................................................................................ 107 Francesco La Regina

L’opera, l’attività, le istruzioni. Appunti su una definizione del restauro architettonico (1999)................ 111 Carta di Cracovia (2000) ................................................................................................................................. 115

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Francesco Petrarca Hortatoria a Cola di Rienzo e al popolo romano (1347)*

(...) Coloro per i quali voi avete tante volte sparso il vostro sangue, che avete nutrito con le vostre fatiche e i vostri patrimoni, che a prezzo della pubblica miseria avete elevato a private ricchezze, costoro non vi hanno neppure giudicato degni di essere liberi, e con ripetuti assalti hanno messo insieme nelle loro spelonche e nelle loro orrende grotte (...) le spoglie lacerate della Repubblica; né li trattenne la vergogna di sapere che i loro delitti erano divulgati presso gli altri popoli, né la pietosa commiserazione della patria infelice, ché anzi, dopo aver empiamente spogliato i templi di Dio, dopo essersi impossessati delle rocche, delle pubbliche ricchezze, dei quartieri della città, e dopo essersi divisi tra loro gli onori delle magistrature - in ciò solo concordi, in questo solo mostruoso delitto; per il resto turbolenti e faziosi, e in tutto discordi nel pensiero e nelle azioni - diedero l’assalto ai ponti, alle mura e persino alle lapidi innocenti.

E poi, infine, incrudelirono sui palazzi crollati per vetustà o per violenza, dimore, un tempo, di uomini illustri; poi sugli spezzati archi trionfali che videro forse la rovina dei loro antenati; né si vergognano di fare vile mercato e turpe guadagno dei frammenti della stessa antichità e della loro propria barbarie.

E così ora - dolore, vergogna! - le vostre marmoree colonne, le spoglie dei vostri templi cui convenivano devotamente sino a ieri le folle di tutto il mondo, le immagini dei vostri sepolcri sotto i quali riposavano le ossa venerande dei vostri padri, adornano Napoli neghittosa. E taccio il resto.

Così a poco a poco le rovine stesse se ne vanno, cosi se ne vanno ingenti testimonianze della grandezza degli antichi. E voi, tante migliaia di forti, taceste di fronte a pochi ladruncoli che infuriavano in Roma come in una città conquistata; taceste non dico come servi, ma come pecore, e lasciaste che si facesse strazio delle membra della madre comune (...).

* PETRARCA, Francesco, Hortatoria a Cola di Rienzo e al popolo romano, 1347, in DOTTI, Ugo (a cura di), Epistole di Francesco Petrarca, Torino, Utet, 1978, pp. 892-919.

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Leon Battista Alberti Il restauro degli edifici (1452)*

Poiché nelle pagine seguenti si dirà come porre riparo ai difetti degli edifici, occorre chiarire quali siano, e di che tipo, quei difetti che la mano dell’uomo può correggere. Allo stesso modo anche i medici dicono che l’efficacia dei rimedi dipende per la maggior parte dalla conoscenza che si ha della malattia.

I difetti degli edifici, siano essi pubblici o privati, posson essere quasi congeniti e connaturati, e provengono dall’architetto, ovvero derivare da cause esterne. Taluni, inoltre, con l’ingegno e il mestiere possono essere corretti; altri sono affatto irreparabili. Provenienti dall’architetto sono ad esempio quelli che abbiamo spiegato, quasi segnandoli a dito, nel libro immediatamente precedente. E tra questi ve ne sono di derivanti da errori d’intelletto ovvero da errori di esecuzione. Quelli d’intelletto riguardano la scelta, la divisione, la distribuzione, la delimitazione, quando queste vengano sconvolte, disperse, confuse; gli errori di pratica si hanno allorché l’apprestamento, la riunione, la messa in opera o la connessione dei materiali siano trascurate o in contraddizione tra loro o simili; errori, questi, in cui incorrono frequentemente persone sconsigliate o poco attente.

I guasti di provenienza esterna si possono – a mio avviso – passare in rassegna con difficoltà, tali sono il loro numero e la loro varietà. Ad alcuni di questi accennano le note sentenze: tutto è vinto dal tempo; e: sono insidiosi e assai potenti i mezzi d’assalto della vecchiaia; e ancora: i corpi nulla possono contro le leggi della natura che li condannano ad invecchiare. Sicché taluni sono dell’avviso che anche il cielo sia mortale, essendo esso un corpo. Ben si sente quanto potere abbiano il cocente sole, l’ombra diaccia, le gelate, i venti. Sotto la loro azione noi vediamo sfaldarsi e sbriciolarsi perfino le più dure selci; e da alti picchi staccarsi e precipitare giganteschi massi sotto l’urto delle bufere, traendo seco nel rotolare abbasso una gran parte della montagna. Vi sono poi i danni provocati dagli uomini... Perdio! a volte non posso far a meno di ribellarmi al vedere come, a causa dell’incuria – per non usare un apprezzamento più crudo: avrei potuto dire avarizia – di taluni, vadano in rovina monumenti che per la loro eccellenza e lo splendore furono risparmiati perfino dal nemico barbaro e sfrenato; o tali che anche il tempo, tenace distruttore, li avrebbe agevolmente lasciati durare in eterno. Si aggiungano le disgrazie improvvise: incendi, fulmini, terremoti, violente inondazioni, e i numerosi accidenti straordinari, imprevedibili, impensabili, provocati dalla forza prodigiosa della natura, e capaci di guastare e sconvolgere da un giorno all’altro qualsiasi bene ordinata concezione architettonica.

Narra Platone di un’isola, detta Atlantide, non meno estesa dell’Epiro, la quale sarebbe del tutto scomparsa. Apprendiamo dagli storici che Bura ed Elice furono l’una inghiottita dal terreno, l’altra spazzata via dalle onde; che la palude Tritonide si dileguò improvvisamente; che, viceversa, la palude Stinfalide presso Argo improvvisamente traboccò, che presso Teramene emerse d’un tratto un’isola con delle sorgenti termali, che dallo specchio d’acqua situato tra Terasia e Tera si sprigionò una volta un gran fuoco che ardendo per quattro giorni di seguito rese il mare incandescente, e che in seguito emerse un’isola, lunga dodici stadi, nella quale i Rodii costruirono un tempio dedicato a Nettuno protettore; che altrove vi fu una tale moltiplicazione di topi, che ne seguì una pestilenza; che dalla Spagna furono una volta inviati ambasciatori al senato a richiedere aiuto contro i danni inferti dai conigli; e molti altri fatti del genere, che noi abbiamo raccolto nell’operetta intitolata Teogenio.

* ALBERTI, Leon Battista, De re aedificatoria, 1452, trad. it. L’architettura, Milano, Il Polifilo, 1966, libro X, Il restauro degli edifici, pp. 868-1001.

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Non tutti i guasti provenienti dall’esterno, tuttavia, sono affatto irrimediabili; né, d’altra parte, i difetti dipendenti dall’architetto sono sempre tali da poter essere riparati. Giacché le costruzioni sbagliate da cima a fondo e sfigurate in ogni loro parte non permettono rimedio alcuno; e quelle in situazione tale da non poter essere migliorate se non sconvolgendone l’intero disegno, non val tanto la pena di modificarle quanto piuttosto di demolirle, per ricostruirle da capo. Ma su ciò non mi soffermerò oltre.

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Raffaello Sanzio Lettera a Leone X (1519)*

… considerando dalle reliquie, che anchor si ueggono per le ruine di Roma, la diuinitate di quelli animi antichi, non estimo for di ragione credere, che molte cose, di quelle che anoi paiono impossibile che adessi erano facilissime Onde essendo io stato assai studioso di queste tale antiquitati et hauendo posto non piccola cura in cercarle minutamente : et in misurarle con diligentia e leggendo di continuo di buoni auctori et conferendo 1opere con le loro scripture, penso hauer conseguito qualche notitia di quell’antiqua architectura ilche in un punto mi da grandissimo piacere per la cognitione di tanto excelente cosa : et grandissimo dolore, uedendo quasi el cadauero di quest’alma nobile cittate che e stata regina del mondo, cosi miseramente lacerato.

Onde se adognuno è debita la pietade uerso li parenti et la patria, mi tengo obligato di exponere tutte le mie piccole forze, azioche piu che si puo resti uiua qualche poco di inmagine e quasi un ombra di questa che inuero e patria uniuersale di tutti li Christiani : et per un tempo è stata tanta nobile : et potente che gia cominciauano glihomini a credere che essa sola sotto il cielo fosse sopra la fortuna, e contra ‘1 corso naturale, exempta dalla morte : et per durare perpetuamente, Onde parue che ‘1 tempo come inuidioso della gloria delli mortali, non confidatosi pienamente delle sue forze sole se accordasse con la fortuna : et con li profani : et scielerati Barbari, li quali alla edace lima : et uenenoso morso di quello aggionsero lempio furrore del ferro et del fuoco. Onde quelle famose opere che oggi di piu che mai sarebbon florente : et belle, fuorno dalla scielerata rabbia : et crudel’ impeto di maluagi huomini anzi fere, arse et distrutte, ma non pero tanto che non ui restassi quasi la machina del tutto, ma senza ornamenti, (et per dir così) 1ossa del corpo senza carne,

Ma perche ci doleremo noi de Gotti de Vandalli et d’altri tali perfidi inimici del nome Latino, se quelli che come padri et tuttori deueuano diffendere queste pouere reliquie di Roma, essi medesimi hanno atteso con ogni studio lungamente a distrugerle et a spegnerle, Quanti Pontefici, Padre Santo, quali haueuano el medesimo offcio che ha V. Santita ma non gia et medesimo sapere ne’1 medesimo ualore : et grandezza di animo, Quanti dico Pontefici hanno permesso le ruine et disfacimenti delli templi antichi delle statue delli archi et d’altri edificii gloria delli lor fondatori, Quanti hanno comportato che solamente per pigliare terra pozzolana si siano scauati i fondamenti! Onde in poco tempo poi li edificii sono uenuti a terra! Quanta calcina si è fatta di statue et d’altri ornamenti antichi! che ardirei dire che tutta questa noua Roma che hor si uede, quanto grande chella vi sia quanto bella quanto ornata di pallazi di chiese et de altri edificii sia fabricata di calcina fatta di marmi antichi, ne senza molta compassione posso io ricordarmi, che poi ch’io sono in Roma che anchora non sono dodici anni, son state ruinate molte cose belle, Come la meta ch’era nella uia alexandrina, l’archo che era alla entrata delle therme diocletiane : et el tempio di Cerere nella uia sacra, una parte del foro transitorio che pochi di sono fu arsa et distructa : e de li marmi fattone calcina, ruinata la magior parte della basilica del foro, oltra di questo tante colonne rotte et fesse pel mezzo tanti architraui tanti belli fregi spezzati che è stato pur una infamia di questi tempi lhauerlo sostenuto et che si potria dire ueramente ch’annibale non che altri fariano pio,

Non debbe adunche Padre Santo esser tra gliultimi pensieri di uostra Santita lo hauer cura che quello poco che resta di questa anticha matre della gloria et nome italiano, per testimonio di quelli Animi diuini che pur thalhor, con la memoria loro excitano et destano alle uirtu, li spiriti che hoggi di * RAFFAELLO SANZIO (?), Memoria a Leone X, 1519, ora in RAY, Stefano, Raffaello architetto, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 362-370.

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sono tra noi non sia extirpato in tutto e guasto dalli maligni et ignoranti, che pur troppo si sono in sino a qui facte ingiurie a quelli animi che col sangue loro, parturirono tanta gloria al mondo, et a questa patria et a noi, ma piu presto cerchi V. Santita lassando uiuo el paragono de li antichi aguagliarli et superarli, come ben fa con magni edificii et col nutrire : et fauorire le uirtuti : et risuegliare glingegni : dar premio alle uirtuose fatiche, spargendo el santissimo seme della pace tra li principi Christiani, Per che come dalla calamitate della guerra nascie la distrutione e ruina di tutte le discipline : et arti, Cosi dalla pace : et concordia, nascie la felicitate a popoli et il laudabile ocio per il quale adesse si puo dar opera et aggionger’ al coÌmo della excellentia. Come pur per el diuin consiglio et auctorita di V. Santita sperano tutti che s’habbia a pervenire al secol nostro, E questo è lo esser ueramente Pastore Clementissimo anzi Padre optimo di tutto el mondo.

Ma per ritornar’ adir’ di quello che poco auanti hotocco dico che hauendomi V. Santita comandato ch’io ponessi in disegno Roma anticha quanto cognoscier si puo, per quello, che oggi di si vede, con gli edificii che disé dimostrano tal reliqui, che per uero argumento si possono infallibilmente ridurre nel termine proprio, come stauano, facendo quelli membri che sono in tutto ruinati, ne si ueggono punto, conrespondenti a quelli che restano in piedi : e che si ueggono, Per il che ho usato ogni diligentia a me stata possibile acioche l’animo di V. Santita et di tutti glialtri che se delettavanno di questa nostra fatica restino senza confusione, ben satisfatti, E ben ch’io habbia cauato da molti auctori latini quello ch’io intendo di dimostrare tra glialtri non dimeno ho principalmente seguitato P. Victore et qual per esser stato de gliultimi puo dar piu particular notitia delle ultime cose, non pretermettendo anchor le antiche, et uedesi che concorda nel scriuer le regioni con alcuni marmi antichi nelli quali medesimamente son descripte,

E per che ad alcuno potrebbe parere che difficil fosse el cognosciere li edificii antiqui dalli moderni o li piu antichi dalli meno antichi, Per non lassar’ dubbio alcuno nella mente de chi uorra hauer questa cognitione, dico che questo con poca fatica: far si puo. Per che di tre maniere di edificij solamente si ritrouano in Roma, delle quali la una è di que buoni antichi che durorno dalli primi Imperatori sino al tempo che Roma fu ruinata e guasta dalli gotti et da altri Barbari, Laltra Durò tanto che roma fu dominata da Gotti et anchora cento anni di poi, Laltra da quel tempo sino alli tempi nostri, Li edificij adunqua moderni sono notissimi, si per esser noui, come per non essere anchora in tutto gionta ne alla excellentia ne a quella inmensa spesa che nelli antichi si uede, et considera, Che auegna che a di nostri Larchitectura sia molto suegliata : et ridutta assai proxima alla maniera delli antichi, come si uede per molte belle opere di Bramante, niente di meno, li ornamenti non sono di materia tanto pretiosa come li antichi, che con infinita spesa par che mettessero adeffetto cio che imaginarno, E che solo el lor uolere rompesse ogni difficultate, Li edificii poi del tempo delli Gotti sono talmente priui d’ogni gratia senza maniera alcuna, dissimili dalli antichi : e dalli moderni, Non è adunqua difficile cognosciere quelli del tempo delli Imperatori, li quali son li piu excellenti : e fatti con piu bella maniera e magior spesa et arte di tutti gli altri, E questi soli intendiamo di dimostrare, ne bisogna che nel animo di alcuno nasca dubbio, che tra li edificii antiqui, li meno antichi fossero men belli o men bene intesi o daltra maniera, Per che tutti erano duna ragione,

E benche molte uolte, molti edificii dalli medesimi antichi fossero ristaurati, (Come si legge che nel medesimo luoco dou’era la casa Aurea di Nerone di poi forono edificate le therme di Tito : e la sua casa, e ‘l’Amphitheatro, niente di meno erano facti con la medesima maniera e ragione che glialtri edificii anchor piu antichi che ‘1 tempo di Nerone e coetanei della casa Aurea) E ben che le lettere : la scultura la Pictura e quasi tutte laltre arti fossero longamente ite in declinatione et peggiorando fino al tempo de gliultimi Imperatori, Pur Larchitectura si osseruaue et manteneasi con bona ragione et edificauasi con la medesima maniera che prima; E fu questa tra le altre arti lultima che si perese, E questo cognoscier si puo da molte cose e tra laltre da larco di costantino il componimento del quale : è bello e ben fatto in tutto quel che appartiene allarchitectura. Ma le sculture del medesimo archo sono sciochissime senza arte o disegno alcuno, buono, Quelle che ui sono delle spoglie di traiano e di

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antonino pio sono excellentissime e di perffetta maniera[.] Ilsimile siuede nelle therme Diocletiane che lesculpture del tempo suo sono di malissima maniera et mal facte e le reliquie di pictura che ui si uegono, non hano che fare con quelle del tempo di Traiano : et di Tito : Et pur larchitectura è nobile et ben intesa. ma poi che Roma intutta dalli barbari fu ruinata arsa et distrutta parue che quello incendio et quella misera ruina ardesse et ruinasse in sieme con li .edificij anchora larte dello edificare, …

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Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy Restaurare (1832)*

Restaurare. Rifare a una cosa le parti guaste e quelle che mancano o per vecchiezza o per altro accidente.

I Francesi adoperano più frequentemente questa voce in materia di scultura che di architettura, almeno prendendola non nel senso puramente meccanico, ma nel suo rapporto con la reintegrazione di opere e monumenti antichi deteriorati dal tempo o da altri accidenti a cui sono stati esposti.

La parola restaurare è divenuta comune dall’epoca in cui le arti sono risorte, specialmente in Italia nel decimoquinto e decimosesto secolo. Si cominciò allora a ricercare tra le rovine di Roma antica e di alcune città gli avanzi delle statue mutilate, che il tempo e le vicende avevano sepolto sotto le ruine degli edifici, di cui formavano un tempo l’ornamento. Quasi tutte queste opere erano di marmo; quindi si cercò di rendere loro la integrità della forma primitiva, rifacendo colla stessa materia le parti guaste e le membra di cui erano mancanti: ed in ciò consiste propriamente il restaurare.

Fra il numero prodigioso delle statue, sottratte alla distruzione e alla barbarie, poche se ne sono rinvenute, le quali non abbiano avuto bisogno di restaurazione in qualche parte. L’arte del restauratore richiede un ingegno speciale, che non è certamente comune, perché di rado gli artisti abili e di rinomanza sonovi dedicati a questo genere di lavoro. Si ricordano però alcune statue antiche, le cui parti antiche sono state rifatte da Michelangelo e dal Bernini. Da poiché lo stile dell’antichità divenne più familiare, sonosi formati uomini abilissimi se non ad imitare almeno a contraffare nelle restaurazioni la maniera e per così dire la fisionomia dell’antico.

Si è del pari appropriata la parola restaurare, e l’idea non meno che il lavoro e le operazioni che esprime, all’architettura antica e ad una quantità dei suoi monumenti.

Quanto a quest’arte ed ai suoi lavori, bisogna confessare che le difficoltà e gli inconvenienti relativi ai processi della restaurazione, sono di minor conseguenza. Forse fino al presente si è paragonato molto abusivamente alle costruzioni più o meno deteriorate dell’antichità gli inconvenienti della restaurazione delle statue. Vogliamo dire di quel soverchio ed eccessivo rispetto, il quale non può che sollecitare o compiere la distruzione di non pochi monumenti.

L’architettura infatti si compone necessariamente nelle sue opere di parti similari che possono, mediante un’esatta osservanza delle misure, essere identicamente copiate o riprodotte. L’ingegno non entra in una simile operazione, la quale può ridursi al più semplice meccanismo. Si conosce benissimo la difficoltà, e fors’anche la impossibilità, nelle operazioni il cui scopo si è, come in una bella scultura antica, di adattare alla metà di un corpo di Apollo o di Venere, la metà che gli manca.

Ma no si comprende però qual pericolo potrebbe soggiagere un edificio mutilato, se venisse rinnovato, per esempio, il suo peristilio con una o più colonne fatte a somiglianza del loro modello e con la stessa materia, ed in eguali proporzioni. Tale si è, in moltissimi casi la natura dell’arte di fabbricare che simili addizioni possono farsi ad un fabbricato mezzo rovinato, senza recare alla parte conservata la minima alterazione.

Laonde si è veduto il Pantheon di Roma restaurato nel peristilio mediante il ricollocamento di una colonna di granito all’angolo e con il ristabilimento della trabeazione in questa parte, senza che il rimanente abbia sofferto per tale operazione il minimo danno in sé, ed in quanto all’opinione il più * QUATREMÈRE DE QUINCY, Antoine Chrysostome, Restaurer (ad vocem), in Dictionnaire historique d’architecture, Paris, Librarie d’Adrien Le Clère st C.ie, 1832, trad. it. Restaurare (ad vocem), in Dizionario storico di architettura, Mantova, Fratelli Negretti, 1842-44, vol. II, pp. 357-358.

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leggiero discapito. Chi mai difatti preferirebbe di vedere quel bellinsieme guasto da una così spiacevole motivazione? E chi per lo contrario, non ama meglio godere di tutta quella composizione, quando d’altronde la restaurazione di cui si tratta è di tale natura da non poter indurre chicchessia in errore?

Quanti monumenti antichi sarebbonsi conservati se qualcuno si fosse presa la cara di rimettere al loro posto i materiali caduti, o soltanto di sostituire una pietra ad un’altra pietra!

Per molto tempo ha dominato in questo particolare una prevenzione veramente ridicola: la quale vuolsi ripetere da una specie di mania generata dal sistema, preteso pittoresco del giardinaggio irregolare, il quale per la esclusione data nelle sue composizioni a qualunque fabbrica o costruzione intera, parve non volere ammettere nei suoi paesaggi che fabbriche diroccate o che ne avessero la appartenenza.

La pittura aveva anche precedentemente messo in voga il genere cosidetto di ruine. Da allora in poi qualunque progetto di ristabilire un monumento antico ruinato incontrò la disapprovazione dei seguaci del pittoresco.

Tuttavolta converremo che si può tenere una via di mezzo nella restaurazione degli antichi edifici più o meno rovinati.

Primieramente non si devono restaurare i loro avanzi, che nella vista di conservare ciò che è suscettibile di somministrazione all’arte dei modelli, o alla scienza dell’antico delle autorità preziose. Così la misura di queste restaurazioni deve dipendere dal maggiore o minor interesse che vi si associa e dal grado di deterioramento in cui si trova il monumento. Spesso anche non si tratta che di un puntellamento per assicurargli ancora parecchi secoli di sussistenza.

In secondo luogo, se si tratta di un edificio composto di colonne, con trabeazioni ornate di fregi scolpiti a fogliami, o riempiti di altre figure con profili intagliati dallo scalpello antico, basterà riportare insieme le parti mancanti, converrà lasciare nella massa i loro dettagli, di maniera che l’osservatore possa distinguere l’opera antica e quella riportata per completare l’insieme.

Quello che viene da noi qui proposto è messo in pratica a Roma da poco tempo rispetto al famoso arco trionfale di Tito, il quale è stato felicemente sgombrato da tutto quanto ne riempiva l’insieme ed anche restaurato nelle parti mutilate precisamente nel modo e nella misura che abbiamo indicato.

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Victor Hugo Guerre aux démolisseurs! (1832)*

Se le cose vanno ancora per qualche tempo in questo modo, presto non resterà alla Francia nessun altro monumento nazionale se non i “Voyages pittoresques et romantiques” dove rivaleggiano in armonia, immaginazione e poesia la matita di Taylor e la penna di Charles Nodier, del quale ci è ben consentito pronunciare il nome con ammirazione, così come egli ha talvolta pronunciato il nostro con amicizia. È venuto il momento in cui non è più consentito a nessuno rimanere in silenzio. Un grido universale deve finalmente chiamare la nuova Francia in soccorso dell’antica. Ogni sorta di profanazione, di degrado e di rovina minacciano ciò che ci resta dei pregevoli edifici medievali, nei quali è impressa l’antica gloria nazionale, nei quali è scritta sia la memoria dei Re che la tradizione del Popolo.

Mentre si costruiscono con grande dispendio economico non so quale genere di edifici bastardi, che, con la ridicola pretesa di essere Greci o Romani in Francia, non sono né romani né greci, altri edifici, interessanti ed originali, cadono senza che nessuno se ne interessi, e il loro solo torto è di essere francesi nelle loro origini, nella loro storia e nei loro ideali. A Blois, il Castello des États serve da caserma, e la bella torre ottagonale di Caterina De’ Medici crolla sepolta sotto la copertura di un quartier generale di Cavalleria.

A Orléans, le ultime vestigia delle mura difese da Giovanna d’Arco sono appena scomparse. A Parigi sappiamo quello che è stato fatto delle antiche torri di Vincennes, che facevano una sì magnifica compagnia al torrione. L’Abbazia della Sorbona, così elegante e decorata, cade in questo momento sotto i colpi di martello. La bella Chiesa romanica di Saint-Germain-Des-Prés, dalla quale Enrico IV osservava Parigi, aveva tre guglie, uniche nel loro genere che arricchissero la silhouette della Capitale. Due di queste guglie stavano per crollare. Bisognava puntellarle o abbatterle; si è trovato più conveniente abbatterle. Poi, per unire, per quanto possibile, questo venerabile monumento con il brutto portico in stile Luigi XIII, che ne maschera il portale, i restauratori hanno sostituito alcune delle antiche cappelle con piccole bomboniere con capitelli corinzi nello stile di quelli di Saint-Sulpice; e il resto lo si è colorato di un bel giallo verzellino.

La Cattedrale gotica di Autun ha subìto lo stesso oltraggioso trattamento. Quando siamo passati da Lione, nell’agosto 1825, due mesi fa, si stava ugualmente nascondendo sotto uno strato di tempera rosa la bella cromia colore che i secoli avevano conferito alla Cattedrale del primate dei Galli. Ancora, abbiamo visto demolire, nei pressi di Lione, il famoso Castello chiamato dell’Arbresle.

Io mi sbaglio, il proprietario ha conservato una delle torri, e la affitta al Comune: serve da prigione. Una piccola città storica, nel Forez, Crozet, cade in rovina insieme al castello dei d’Aillecourt, la dimora signorile dove nacque Tourville, e ad altri monumenti che avrebbero abbellito Norimberga. A Nevers, due Chiese dell’undicesimo secolo sono diventate scuderia. Ce n’era una terza della stessa epoca, non l’abbiamo potuta vedere: al nostro passaggio era già stata abbattuta. Ne abbiamo potuto ammirare soltanto, sulla porta di una capanna dove erano stati gettati, due capitelli romanici che testimoniavano, con la loro bellezza, quella dell’edificio di cui erano ormai rimaste le sole vestigia.

Si è distrutta l’antica Chiesa di Mauriac. A Soissons, si lascia crollare il ricco chiostro di Saint-Jean e le sue due guglie così leggere e ardite. È all’interno di questa magnifiche rovine che lo * HUGO, Victor, Guerre aux démolisseurs, in «Revue des deux mondes», 1 marzo 1832, tr. it. Guerre aux démolisseurs (1832), in «'ΑΝΑΓΚΗ», 33, marzo 2002, pp. 69-93.

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scalpellino sceglie i suoi materiali. Stessa indifferenza per l’interessante Chiesa di Braisne, la cui volta distrutta lascia cadere la pioggia sulle dieci tombe reali che essa stessa custodisce.

A la Charité-sur-Loire, vicino Bourges, vi è una Chiesa romanica che, per la grandiosità del suo impianto e la ricchezza della sua architettura, rivaleggerebbe con le più celebri Cattedrali d’Europa; ma è in parziale rovina. Cade pietra per pietra, tanto abbandonata quanto le pagode orientali nei loro deserti di sabbia. Lì passano sei diligenze al giorno. Abbiamo visitato Chambord, questo Alhambra di Francia. Vacilla già, minato dalle acque del cielo, che si infiltrano attraverso la pietra tenera dei suoi tetti privati del piombo. Lo affermiamo con dolore, perché se non ce ne occupiamo subito, nel giro di pochi anni la sottoscrizione, sottoscrizione che, certamente, meritava di essere nazionale, che ha restituito al Paese il capolavoro del Primaticcio, sarà stata inutile; e ben poca cosa resterà di questo edificio, bello come un palazzo delle fate, grande come un palazzo dei Re. Noi scriviamo in fretta, senza preparazione, e scegliendo a caso solo qualche ricordo che ci è rimasto di un rapido viaggio in una zona limitata di Francia. Che ci si rifletta, noi abbiamo sollevato solo un bordo della coperta. Non abbiamo citato che dei fatti, fatti che abbiamo verificato. Cosa succede altrove?

Ci si dice che gli Inglesi hanno acquistato per trecento franchi il diritto di imballare tutto ciò che vogliono delle rovine dell’ammirevole Abbazia di Jumièges. Così le profanazioni di Lord Elgin si rinnovano presso di noi, e noi ne traiamo profitto. I turchi vedevano solo i monumenti greci; noi facciamo di meglio, vendiamo i nostri. Si dice ancora che il chiostro così bello di Saint-Wandrille è venduto, pezzo a pezzo, da non so quale proprietario ignorante e avido, che non vede in un monumento altro che una cava di pietra. Proh pudor! Nel momento in cui scriviamo queste righe, a Parigi, in quel luogo chiamato Scuola di Belle Arti, una scalinata di legno, scolpita dai formidabili artisti del XIV secolo, serve da scala ai muratori; mirabili elementi lignei del Rinascimento, alcuni ancora dipinti, dorati e blasonati, dei paramenti lignei, delle porte toccate dallo scalpello tenero e delicato che ha lavorato il castello di Anet, sono ammucchiati là, distrutti, dispersi, al suolo, nelle soffitte, nei sottotetti, e perfino nell’anticamera dell’ufficio di un individuo che si è installato là, e che viene chiamato architetto della Scuola di belle Arti, e che ci cammina stupidamente ogni giorno sopra.

E noi andiamo a cercare lontano e a pagare così cari gli elementi decorativi per i nostri musei! Sarebbe finalmente tempo di metter fine a questi scempi, sui quali richiamiamo l’attenzione del Paese. Sebbene impoverita dai devastatori rivoluzionari, da avidi speculatori e soprattutto dai restauratori classici, la Francia è ancora ricca di monumenti francesi. Bisogna fermare il martello che mutila il volto del paese.

Una legge basterebbe; che la si faccia. Qualunque siano i diritti della proprietà privata, la distruzione di un edificio storico e monumentale non deve essere permessa a questi ignobili speculatori, il cui interesse acceca il loro onore; miserabili uomini, e così imbecilli che non comprendono che sono dei barbari! Ci sono due cose in un edificio, il suo uso e la sua bellezza; il suo uso appartiene al proprietario, la sua bellezza a tutti: distruggerlo è oltrepassare i propri diritti.

Una sorveglianza attenta dovrà essere esercitata sui nostri monumenti. Con leggeri sacrifici, si salveranno costruzioni che, indipendentemente dal resto, rappresentano capitali ingenti. La sola Chiesa di Brou, costruita verso la fine del XV secolo, è costata ventiquattro milioni in un’epoca in cui la giornata di un operaio costava due soldi. Oggi costerebbe più di centocinquanta milioni. Non ci vogliono più di tre giorni e di trecento franchi per distruggerla. E poi, un lodevole rimpianto s’impadronirebbe di noi, che vorremmo ricostruire questi prodigiosi edifici, ma non lo potremo più fare. Non possediamo più il genio di quei secoli. L’industria ha preso il posto dell’arte.

Terminiamo qui questa nota; anche se questo è un argomento che necessiterebbe un libro. Chi scrive di queste note ci tornerà spesso, a proposito e fuor di proposito; e, come quel vecchio Romano che diceva sempre: hoc censeo, et delendam esse Cartaginem, l’autore di questa nota ripeterà senza tregua: “questo io penso, che non bisogna demolire la Francia”.

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Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc Restauro (1865)*

La parola e la cosa sono moderne. Restaurare un edificio non è conservarlo, ripararlo o rifarlo, è ripristinarlo in uno stato di completezza che può non essere mai esistito in un dato tempo. Solo a partire dal secondo quarto del nostro secolo si è preteso di restaurare edifici di altra epoca, e noi non sappiamo che si sia data una definizione precisa di restauro architettonico. Forse è opportuno rendersi conto esattamente di ciò che si intende o di ciò che si deve intendere per un restauro, poiché sembra che si siano ingenerati numerosi equivoci sul senso che si attribuisce o che si deve attribuire a questa operazione.

Abbiamo detto che la parola e la cosa sono moderne, e in effetti nessuna civiltà, nessun popolo, nei tempi passati, ha inteso fare dei restauri come li intendiamo oggi.

In Asia, una volta come oggi, allorché un tempio o un palazzo subiva la degradazione del tempo, se ne innalzava o se ne innalza un altro a fianco. Non si distrugge perciò l’antico edificio, lo si abbandona all’azione dei secoli, che se ne impadroniscono come di una cosa di loro appartenenza, per corroderla a poco a poco. I Romani ricostruivano, non restauravano, e la prova è che il latino non ha una parola corrispondente alla nostra parola restauro, con il significato che le si attribuisce oggi. Instaurare, reficere, renovare, non significano restaurare, ma ripristinare, fare di nuovo. Quando ]imperatore Adriano pretese di rimettere in buono stato un gran numero di monumenti della Grecia antica o dell’Asia Minore, procedette in un modo che oggi gli solleverebbe contro tutte le società archeologiche dell’Europa, benché egli pretendesse di avere conoscenze di archeologia. Non si può considerare il ripristino del tempio del Sole a Baalbek come un restauro, ma come una ricostruzione, secondo il metodo seguito nel momento in cui questa ricostruzione aveva luogo. Gli stessi Tolomei, che si piccavano di arcaismo, non rispettavano assolutamente le forme dei monumenti delle antiche dinastie dell’Egitto, ma li ricostruivano secondo la moda del loro tempo. Quanto ai Greci, lungi dal restaurare, cioè dal riprodurre esattamente le forme degli edifici che avevano subito delle degradazioni, credevano evidentemente di far bene dando l’impronta del momento ai lavori che si erano resi necessari. Elevare un arco di trionfo come quello di Costantino a Roma con frammenti tolti all’arco di Traiano non è né un restauro, né una ricostruzione: è un atto di vandalismo, un saccheggio da barbari. Coprire di stucchi 1 architettura del tempio della Fortuna virile a Roma: neppure questo si può certo considerare un restauro, è una mutilazione.

Il medio evo non ebbe più che l’antichità il sentimento del restauro, lungi da ciò. Quando si presentava la necessità di sostituire un capitello rotto in un edificio del XII secolo, si poneva al suo posto un capitello del XIII, XIV, o XV secolo. Se su un lungo fregio di riccioli del XIII secolo un pezzo, uno solo, veniva a mancare, si inseriva un ornamento nel gusto del momento. Così è successo più volte, prima che lo studio attento degli stili fosse spinto ai limiti estremi, che si fosse indotti a considerare queste modificazioni come stranezze e si desse una falsa datazione a frammenti che si sarebbero dovuti considerare come delle interpolazioni in un testo.

Si potrebbe dire che vi è tanto pericolo nel restaurare riproducendo in fac-simile tutto ciò che si trova in un edificio, quanto nella pretesa di sostituire a forme posteriori quelle che dovevano esistere primitivamente, Nel primo caso, la buona fede, la sincerità dell’artista possono produrre i più gravi * VIOLLET-LE-DUC, Eugène Emmanuel, Restauration (ad vocem), in Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle, t. VIII, Paris, B. Bauce – A. Morel, 1854-68, trad. it. voce Restauro in VIOLLET-LE-DUC, Eugène Emmanuel, L’architettura ragionata, a cura di M.A. Crippa, Milano, Jaca Book, 1982, voce Restauro, pp. 247-271.

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errori, consacrando, per così dire, una interpolazione; nel secondo, la sostituzione di una forma primitiva a una forma esistente, riconosciuta posteriore, fa ugualmente sparire le tracce di una riparazione, la cui causa nota avrebbe forse permesso di constatare la presenza di una soluzione eccezionale. Spiegheremo questo fra poco.

Il nostro tempo, e il nostro tempo solo, a partire dai secoli storici, ha assunto nei confronti del passato un atteggiamento non usuale. Ha voluto analizzarlo, paragonarlo, classificarlo e formare la sua vera storia, seguendo passo passo il cammino, i progressi, le trasformazioni dell’umanità. Un fatto così strano non può essere, come suppongono alcuni spiriti superficiali, una moda, un capriccio, una malattia, perché il fenomeno è complesso. Couvier, con i suoi lavori sull’anatomia comparata, con le sue ricerche geologiche, disvela all’improvviso agli occhi dei contemporanei la storia del mondo prima del regno dell’uomo. L’immaginazione lo segue con ardore in questa nuova via. Dei filologi, dopo di lui, scoprono le origini delle lingue europee, scaturite tutte da una medesima sorgente. Gli etnologi indirizzano i loro lavori verso lo studio delle razze e delle loro attitudini. Vengono infine gli archeologi, che dall’India fino all’Egitto e all’Europa..paragonano, discutono, distinguono le produzioni d arte, rivelano le loro origini, le loro filiazioni, e arrivano a poco a poco con il metodo analitico a coordinarle secondo certe leggi. Vedere in ciò una fantasia, una moda, uno stato di malessere morale è giudicare con leggerezza un fatto di portata considerevole. Tanto varrebbe pretendere che i fatti rivelati dalla scienza da Newton in poi sono il risultato di un capriccio dello spirito umano, Se il fatto è notevole nel suo insieme, come potrebbe essere senza importanza nei particolari? Tutti questi lavori si concatenano in mutuo concorso. Se l’europeo è arrivato a quella fase dello spirito umano in cui, pur camminando a passo accelerato verso i destini avvenire, e forse per il fatto che cammina veloce,sente il bisogno di raccogliere tutto il passato come si raccoglie una ricca biblioteca per preparare futuri lavori, è ragionevole accusarlo di lasciarsi trascinare da un capriccio, da una fantasia effimera. E allora i ritardatari, i ciechi, non sono proprio coloro che disprezzano questi studi, con il pretesto di considerarli un inutile farraggine?

Dissipare pregiudizi, esumare verità dimenticate, non è, al contrario, uno dei mezzi più attivi di accelerare il progresso?

Se il nostro tempo non avesse da trasmettere ai secoli futuri che questo metodo nuovo di studiare le cose del passato, nell’ordine materiale come nell’ordine morale, avrebbe già ben meritato dalla posterità. Ma lo sappiamo meglio di quanto occorra: il nostro tempo non si contènta di gettare uno sguardo scrutatore dietro di sé: questo lavoro retrospettivo non fa che sviluppare i problemi che si porranno nell’avvenire e facilitare la loro soluzione. La sintesi segue l’analisi.

Gli scrutatori del passato, tuttavia, gli archeologi, riesumando pazientemente i più piccoli resti di arti che si supponevano perdute, si trovano a dover vincere pregiudizi conservati con cura dalla classe numerosa delle persone per cui ogni scoperta od ogni orizzonte nuovo significa la perdita della tradizione, cioè di uno stato molto comodo di quiete dello spirito. La storia di Galileo è di ogni tempo. Essa si innalza di uno o più gradini, ma la si ritrova sempre sugli scalini che l’umanità sale. Notiamo, incidentalmente, che le epoche caratterizzate da una grande spinta in avanti si sono distinte tra tutte per uno studio almeno parziale del passato. Il XII secolo, in Occidente, costituì un vero rinascimento politico, sociale, filosofico, artistico e letterario; in quello stesso tempo alcuni uomini agevolavano il movimento con ricerche nel passato. Il XVI secolo presentò il medesimo fenomeno. Gli archeologi, dunque, non hanno molto motivo di inquietarsi della pausa che si pretende di imporgli, poiché non solo in Francia, ma in tutta Europa le loro fatiche sono apprezzate da un pubblico avido di penetrare con loro nel segreto delle epoche remote. Se talvolta questi archeologi lasciano la polvere del passato per gettarsi nella polemica, non è tempo perso: Ia polemica genera le idee e spinge all’esame più attento delle questioni dubbie, la contraddizione aiuta a risolverle. Non accusiamo, dunque,, gli spiriti immobili nella contemplazione del presente o fortemente legati a pregiudizi mascherati da tradizioni, che chiudono gli occhi davanti alle ricchezze riesumate del passato e che pretendono datare l’umanità

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dal giorno della loro nascita, perché così siamo forzati a rimediare alla loro miopia e a mostrare più dappresso il risultato delle nostre ricerche.

Ma che dire di quei fanatici cercatori di tesori che non permettono che si frughi in un suolo che essi hanno negletto, che considerano il passato una materia da sfruttare con un monopolio, e che dichiarano ad alta voce che l’umanità ha prodotto opere degne di essere raccolte solo durante certi periodi storici definiti da loro stessi; che pretendono strappare capitoli interi dalla storia dell’attività umana; che si erigono a censori della classe degli archeologi, dicendo: «Tale vena è malsana, non la esplorate; se la mettete in luce, noi vi denunciamo ai contemporanei come corruttori». Venivano trattati in questo modo pochi anni fa gli uomini che passavano notti insonni per rivelare le arti, i costumi, la letteratura del medio evo. Se questi fanatici sono diminuiti di numero, coloro che persistono sono ancor più appassionati nei loro attacchi e hanno adottato una tattica molto abile per imporre le loro idee a persone poco disposte ad andare a fondo nelle cose. Essi ragionano così: «Voi studiate e pretendete di farri conoscere le arti del medio evo, dunque voi volete farei tornare al medio evo, ed escludete lo studio dell’antichità; se vi si lascia fare, vi saranno delle segrete in ogni galera e una stanza di tortura a fianco di ogni sezione di Tribunale. Voi ci parlate dei lavori dei monaci, dunque volete riportarci al regime dei monaci, alla decima, farei ricadere in un ascetismo debilitante. Ci parlate dei castelli feudali, dunque ce l’avete con i principi dell’89, e se vi si stesse ad ascoltare si ritornerebbe alle corvées». Il divertente è che questi fanatici (ripetiamo la parola) ci prodigano l’epiteto di esclusivi, probabilmente perché noi non escludiamo lo studio delle arti del medio evo e ci permettiamo di raccomandarlo.

Qualcuno potrà chiederci quali rapporti queste polemiche possano avere con il titolo di questa voce. Stiamo per dirlo. Gli architetti, in Francia, non hanno fretta. Già verso la fine del primo quarto di questo secolo gli studi letterari sul medio evo erano giunti ad un serio sviluppo, mentre gli architetti non vedevano ancora nelle volte gotiche che l’imitazione delle foreste della Germania (è una frase consacrata) e nell’ogiva che un’arte malata. L’arco acuto è spezzato, dunque è malato, questo è conclusivo. Le chiese del medio evo, devastate durante la Rivoluzione, abbandonate, annerite dal tempo, fatiscenti per l’umidità, apparivano come grandi sarcofaghi vuoti. Ecco l’origine delle frasi funebri di Kotzebue, ripetute dopo di lui. Gli interni degli edifici gotici ispiravano solo tristezza (è facile crederlo, nello stato in cui erano ridotti). Le guglie traforate che si stagliavano nella bruma suscitavano frasi romantiche, si de,scrivevano le trine di pietra, i pinnacoli eretti sui contrafforti, le eleganti nervature a fascio che sostengono le volte a spaventevoli altezze. Queste testimonianze della pietà (altri dicevano fanatismo) dei nostri padri riflettevano solamente una sorta di semimisticismo, semibarbarie, in cui il capriccio regnava sovrano. Inutile dilungarci qui su quello sproloquio banale che faceva rabbia nel 1825, e che ora si ritrova solo nelle appendici di giornali sorpassati. Comunque, queste frasi vuote fecero sì che con l’aiuto del Museo dei monumenti francesi, di alcune collezioni come quella del du Sommerard, parecchi artisti si mettessero ad esaminare con curiosità questi resti dei secoli d ignoranza e di barbarie.

Questo esame, dapprima un po’ superficiale e timido, provocava rimostranze abbastanza aspre. Ci si doveva nascondere per disegnare quei monumenti innalzati dai Goti, come dicevano alcuni dotti personaggi. Allora alcuni uomini,che, non essendo artisti, si trovavano fuori portata della ferula accademica, aprirono la campagna con lavori veramente notevoli per il tempo in cui furono fatti.

Nel 1830, Vitet fu nominato ispettore generale dei monumenti storici. Questo scrittore raffinato seppe portare nelle sue nuove funzioni, non grandi conoscenze archeologiche, che nessuno allora poteva possedere, ma uno spirito critico e analitico, che fece penetrare per la prima volta la luce nella storia dei nostri antichi monumenti. Nel 1831, Vitet indirizzò al Ministro degli Interni un rapporto lucido, metodico, sulla ispezione da lui fatta nei dipartimenti del Nord, che rivelò all’improvviso agli spiriti illuminati tesori fino allora ignorati, rapporto considerato ancora oggi un capolavoro in questo genere di studi. Ci permettiamo di citarne alcuni passi:

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«So, dice l’autore, che agli occhi di molte persone che fanno autorità, è un singolare paradosso parlare seriamente della scultura del medio evo. Secondo loro dal tempo degli Antonini fino a Francesco I non si può parlare di scultura in Europa, e gli scultori non sono stati altro che muratori incolti e rozzi. È sufficiente, tuttavia, avere occhi e un po’ di buona fede per far giustizia di questo pregiudizio e per riconoscere che alla fine dei secoli di pura barbarie si è sviluppata nel medio evo una grande e bella scuola di scultura, erede delle tecniche, e persino dello stile dell’arte antica, sebbene interamente moderna nello spirito e negli effetti; essa, come tutte le scuole, ha avuto le sue fasi e le sue rivoluzioni, cioè la sua infanzia, la sua maturità e la sua decadenza...

... Così bisogna dirsi felici quando il caso ci fa scoprire in un angolo ben riparato e non raggiunto dai colpi di martello alcuni frammenti di questa nobile e bella scultura.

E quasi a combattere l’influenza della terminologia sepolcrale, usata quando si trattava di descrivere i monumenti del medio evo, più avanti Vitet così si esprime a proposito della colorazione applicata all’architettura:

«In effetti, recenti viaggi; esperienze incontestabili, oggi non permettono più di dubitare che la Grecia antica aveva spinto il gusto del colore così avanti, da coprire di pitture perfino l’esterno degli edifici, e invece i nostri dotti sulla scorta di qualche pezzo di marmo stinto da tre secoli ci facevano immaginare questa architettura fredda e scolorita. Si è fatto altrettanto nei confronti del medio evo. Alla fine del XVI secolo, grazie al protestantesimo, al pedantismo, e a molte altre cause, la nostra fantasia diveniva ogni giorno meno viva, meno naturale, più opaca, per così dire. Ci si mise ad imbiancare quelle belle chiese dipinte, si prese gusto alle mura e ai rivestimenti di legno perfettamente spogli; se si dipingeva ancora qualche decorazione interna, fu solo, per così dire, in miniatura. Stando così le cose da due o trecento anni, ci si è abituati a concludere che era sempre stato così, e che quei poveri monumenti si erano visti in ogni tempo pallidi e spogli come lo sono oggi. Ma se li osservate con attenzione, scoprite ben presto qualche lembo della loro antica veste: ovunque l’intonaco dei muri si scrosti, ritrovate la pittura primitiva...»

Per chiudere il suo rapporto sui monumenti delle province del Nord visitate, Vitet, particolarmente colpito dall’aspetto imponente delle rovine del castello di Coucy, rivolge al ministro questa domanda, che oggi assume una pertinenza delle più pungenti:

«Terminando qui ciò che concerne i monumenti e la loro conservazione, lasciatemi dire ancora, signor ministro, qualche parola a proposito di un monumento più stupefacente e più prezioso forse di tutti quelli di cui ho appena parlato, e di cui qui mi propongo di tentare il restauro. In verità, è un restauro per il quale non saranno necessarie pietre, né cemento, ma solamente qualche foglio di carta. Ricostruire, o piuttosto ristabilire, nel suo insieme e nei suoi minimi particolari una fortezza del medio evo, riprodurre la sua decorazione interna e il suo arredamento, in una parola, renderle la sua forma, il suo colore, e, se oso dirlo, la sua vita primitiva, tale è il progetto che mi è venuto alla mente a tutta prima, entrando nella cinta del castello di Coucy. Quelle torri immense, quel torrione colossale sembrano sotto certi aspetti costruiti ieri. E nelle loro parti degradate, quante vestigia di pittura, di scultura, di distribuzioni interne! Quanti documenti per la fantasia! quanti punti di riferimento per guidarla con sicurezza alla scoperta del passato, senza contare gli antichi piani del du Cerceau, che, sebbene scorretti, possono essere, essi pure, di grande ausilio!

Finora questo genere di lavoro è stato applicato solo ai monumenti dell’antichità. Credo che nell’ambito del medio evo potrebbe condurre a risultati ancora più utili; infatti, le testimonianze hanno come base fatti più recenti e monumenti più integri; ciò che spesso non è altro che congettura per l’antichità, diventa una quasi certezza quando si tratta di medio evo e, per esempio, il restauro di cui parlo, messo a confronto col castello come è oggi, non incontrerebbe, oso crederlo, che ben pochi increduli».

Questo programma, tracciato in modo così vivo dall’illustre critico trentaquattro anni fa, lo vediamo realizzato oggi, non sulla carta, non in labili disegni, ma in pietra, in legno e in ferro per un

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castello non meno interessante, quello di Pierrefonds. Molti eventi si sono succeduti dal tempo del rapporto dell’ispettore generale dei monumenti storici del 1831, molte discussioni sull’arte sono state sollevate, tuttavia i primi semi gettati da Vitet hanno dato i loro frutti. Per primo Vitet si è preoccupato del restauro serio dei nostri antichi monumenti, per primo ha formulato a questo proposito idee pratiche, per primo ha fatto intervenire la critica in questa sorta di lavori. La via è stata aperta, altri critici, altri studiosi vi si sono gettati, e degli artisti dopo di loro.

Quattordici anni più tardi lo stesso autore, sempre intento all’opera che aveva iniziato così bene, faceva la storia della cattedrale di Noyon e proprio in questo notevole lavoro constatava le tappe percorse dagli studiosi e dagli artisti dediti allo stesso studio.

«In effetti, per conoscere la storia di un’arte, non è sufficiente determinare i diversi periodi che essa ha percorso in un dato luogo, bisogna seguire il suo cammino in tutti i luoghi in cui si è prodotta, indicare la varietà di forma che ha successivamente rivestito, e redigere un quadro comparativo di tutte queste varietà, prendendo in considerazione non solo ogni nazione, ma ogni provincia di uno stesso paese... Verso tale duplice scopo in questo spirito sono state dirette quasi tutte le ricerche intraprese fra noi da vent’anni sui monumenti del medio evo. Già verso l’inizio del secolo qualche studioso d’Inghilterra e di Germania ci aveva dato l’esempio con dei saggi particolarmente dedicati ad edifici di questi due paesi. I loro lavori erano appena penetrati in Francia e particolarmente in Normandia, che suscitarono una viva emulazione. In Alsazia, in Lorena, in Linguadoca, nel Poitou, in tutte le nostre province, l’amore di questi studi si propagò rapidamente ed ora dappertutto si lavora, dappertutto si cerca, si prepara, si ammassano materiali. La moda, che si insinua e si mescola alle cose nuove, molto spesso per guastarle, non ha purtroppo rispettato questa scienza nascente e ne ha forse un po’ compromesso i progressi. La gente ha fretta di godere, ha chiesto metodi sbrigativi per imparare a datare ogni monumento che vedeva. D’altro canto alcuni uomini di studio, trascinati dal troppo zelo, sono caduti in un dogmatismo privo di prove e irto di asserzioni recise, mezzo sicuro per rendere increduli coloro che si pretende convertire. Malgrado questi ostacoli, propri di ogni nuovo tentativo, i veri ricercatori continuano la loro opera con pazienza e moderazione. Le verità fondamentali sono acquisite, la scienza esiste, non si tratta più che di consolidarla e di estenderla, chiarendo qualche nozione ancora incerta, portando a termine qualche dimostrazione incompleta. Molto resta da fare, ma i risultati ottenuti sono tali, che a colpo sicuro lo scopo deve essere un giorno definitivamente raggiunto».

Bisognerebbe citare la maggior parte di questo testo, per mostrare quanto l’autore fosse progredito nello studio e nella valutazione delle arti del medio evo e come si faccia luce nelle tenebre diffuse intorno ad esse. Dopo aver mostrato chiaramente che l’architettura di quei tempi è un’arte completa, con le sue nuove leggi e la sua ragione, «per non aver aperto gli occhi – dice Vitet – si trattano tutte queste verità come chimere e ci si rinchiude in una incredulità sdegnosa».

Allora Vitet aveva abbandonato l’Ispettorato generale dei monumenti storici. Dal 1835 le sue funzioni erano state affidate ad uno degli uomini più notevoli della nostra epoca, a P. Mérimée.

Sotto l’egida di questi due padrini si formò un primo nucleo d’artisti, giovani, desiderosi di penetrare nell’intima conoscenza di queste arti dimenticate. Per la loro saggia ispirazione, sempre sottoposta ad una critica severa, furono intrapresi molti restauri, dapprima con grande cautela, poi ben presto più arditamente e in maniera più estesa. Dal 1835 al 1848 Vitet presiedette la Commissione dei monumenti storici, e durante questo periodo in Francia un gran numero di edifici dell’antichità romana e del medio evo furono studiati, ma anche preservati dalla rovina. Bisogna dire che allora il programma di un restauro era una cosa completamente nuova. In effetti, senza parlare dei restauri fatti nei secoli precedenti e che non erano che sostituzioni, si era già tentato all’inizio del secolo di dare un’idea delle arti dei tempi passati per mezzo di composizioni un po’ fantasiose, ma che avevano la pretesa di riprodurre le forme antiche. Nel Museo dei monumenti francesi da lui ordinato, Lenoir aveva tentato di riunire in un ordine cronologico tutti i frammenti salvati dalla distruzione. Ma bisogna dire che in

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questo lavoro era intervenuta l’immaginazione del celebre conservatore piuttosto che la dottrina e la critica. Così, per esempio, la tomba di Eloisa ed Abelardo, oggi trasferita al cimitero dell’Est, era composta di archetti e colonnine provenienti da una navata laterale della chiesa abbaziale di Saint-Denis, di bassorilievi provenienti dalle tombe di Filippo e di Luigi, fratello e figlio di San Luigi, di mascheroni provenienti dalla cappella della Vergine di Saint-Germain des Prés, e di due statue dell’inizio del XIV secolo. Così, le statue di Carlo V e di Giovanna di Borbone, provenienti dalla tomba di Saint-Denis, erano poste su elementi rivestiti di boiseries del XVI secolo strappati dalla cappella del castello di Gaillon e sormontati da una edicola della fine del XIII secolo. La stanza detta del XIV secolo era decorata con un’arcata proveniente da una tribuna della Sainte Chappelle e con statue del XIII secolo addossate ai pilastri dello stesso edificio; in mancanza di un Luigi IX e di una Margherita di Provenza, le statue di Carlo V e di Giovanna di Borbone, che una volta decoravano il portale dei Celestini a Parigi, erano state battezzate col nome del re santo e di sua moglie. Poiché il Museo dei monumenti francesi era stato distrutto nel 1816, la confusione fra tanti monumenti trasferiti in maggioranza a Saint-Denis si accrebbe notevolmente.

Per volontà dell’imperatore Napoleone I, che in ogni cosa era in anticipo sul suo tempo e che comprendeva l’importanza dei restauri, la chiesa di Saint-Denis era destinata non solo a servire da sepoltura alla nuova dinastia, ma ad offrire una specie di saggio dei progressi dell’arte dal XIII al XVI secolo in Francia.

Dei fondi furono assegnati dall’imperatore a questo restauro, ma fin dai primi lavori l’effetto rispose così poco alla sua attesa, che l’architetto allora incaricato della direzione dell’opera dovette subire rimproveri assai vivaci da parte del sovrano, e ne fu colpito al punto, dicono, da morire di dispiacere.

Questa sfortunata chiesa di Saint-Denis fu come il cadavere su cui si esercitarono i primi artisti entrati nella via del restauro. Per trent’anni subì tutte le mutilazioni possibili, tanto che la sua stabilità ne fu compromessa; dopo spese considerevoli, dopo che le sue antiche disposizioni erano state modificate e sconvolti tutti i bei monumenti che contiene, fu necessario far cessare la costosa esperienza e ritornare al programma di restauro fissato dalla Commissione dei monumenti storici.

È tempo di spiegare questo programma, seguito oggi in Inghilterra ed in Germania, che ci avevano superato nella via degli studi teorici delle arti antiche, accettato in Italia e in Ispagna, che pretendono a loro volta di introdurre la critica nella conservazione dei loro antichi monumenti".

Tale programma dichiara per prima cosa in via di principio che ogni edificio od ogni parte di esso debbono essere restaurati nello stile che è loro proprio, non solamente come forma, ma anche come struttura. Vi sono pochi edifici, durante il medio evo soprattutto, che siano stati costruiti secondo una concezione assolutamente unitaria o, se lo sono stati, che non abbiano subito delle modificazioni notevoli, o per aggiunte, per trasformazioni o per cambiamenti parziali. È dunque essenziale, prima di ogni lavoro di riparazione, constatare esattamente l’epoca e il carattere di ogni parte, redigerne una sorta di processo verbale appoggiato su documenti sicuri, o con note scritte, o con rilievi grafici. Inoltre, in Francia, ogni provincia possiede uno stile che le è proprio, una scuola di cui bisogna conoscere i principi e le tecniche. Informazioni fornite da un monumento dell’Ile-de-France non possono dunque servire a restaurare un edificio della Champagne o della Borgogna. Queste differenze di scuole sopravvivono abbastanza tardi, si distinguono secondo una norma che non è seguita regolarmente. Così, per esempio, se l’arte del XIV secolo della Normandia sequana (bacino superiore della Senna) si avvicina molto a quella dell’Ile-de-France alla stessa epoca, il Rinascimento normanno differisce nella sua essenza dal Rinascimento di Parigi e dei suoi dintorni. In qualche provincia meridionale l’architettura detta gotica fu sempre solo un’importazione. Un edificio gotico di Clermont, per esempio, può essere frutto di una scuola e nella stessa epoca un edificio di Carcassonne di un’altra. L’architetto incaricato di un restauro deve dunque conoscere con esattezza non solo gli stili afferenti a ogni periodo dell’arte, ma anche quelli appartenenti ad ogni scuola. Infatti, queste differenze si possono

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osservare non solo durante il medio evo, lo stesso fenomeno appare nei monumenti dell’antichità greca e latina. I monumenti romani dell’epoca antonina che coprono il mezzogiorno della Francia differiscono per molti punti dai monumenti di Roma della stessa epoca. Lo stile romano delle coste orientali dell’Adriatico non può essere confuso con lo stile romano dell’Italia centrale, della Provenza o della Siria.

Ma per attenerci qui al medio evo, le difficoltà si accumulano in presenza del restauro. Spesso monumenti o parti di essi d’una certa epoca e di una certa scuola sono stati riparati a diverse riprese, e da artisti che non erano della provincia in cui si trova l’edificio. Di qui problemi considerevoli. Se si tratta di restaurare sia le parti primitive sia le parti modificate, bisogna non tener conto di queste ultime e ristabilire l’unità di stile compromessa o riprodurre esattamente il tutto con le modificazioni posteriori? È il caso in cui la scelta rigida di uno dei due criteri può presentare pericoli. È necessario, al contrario, non adottare in maniera assoluta nessuno dei due principi ed agire in ragione delle circostanze particolari. Quali sono queste circostanze particolari? Non potremmo indicarle tutte, sarà sufficiente segnalarne alcune fra le più importanti, per far apparire evidente il lato critico del lavoro. Innanzitutto, prima di essere archeologo, l’architetto incaricato di un restauro deve essere costruttore abile ed esperto, non solo da un punto di vista generale, ma dal punto di vista particolare, deve cioè conoscere i processi,costruttivi adottati nelle differenti epoche della nostra arte e nelle diverse scuole. Questi processi costruttivi hanno un valore relativo e non sono tutti ugualmente buoni. Qualcuno ha dovuto persino essere abbandonato, perché difettoso. Così, per esempio, un certo edificio costruito nel XII secolo, e che non aveva canali sotto le gronde dei tetti, ha dovuto essere restaurato nel XIII e dotato di scoli compositi. Tutto il coronamento è in cattivo stato, si tratta di rifarlo interamente. Si sopprimeranno i canali del XIII secolo per ristabilire l’antica cornice del XII, di cui si ritrovassero altrove gli elementi? Certamente no, bisognerà restaurare la cornice con i canali del XIII secolo, conservando la forma di quell’epoca, dal momento che non si potrebbe trovare una cornice con canali del XII secolo, e crearne una di fantasia, con la pretesa di conferirle il carattere dell’architettura dell’epoca, sarebbe commettere un anacronismo in pietra. Altro esempio: le volte di una navata del XII secolo, in seguito ad un accidente qualunque, sono state distrutte in parte e rifatte più tardi, non nella loro forma primitiva, ma secondo la moda di allora. Queste ultime volte in seguito minacciano di rovinare, bisogna ricostruirle.

Invece di restaurarle nella loro forma posteriore, si restaureranno le volte primitive? Sì, perché non vi è nessun vantaggio nel fare altrimenti, e ve ne è uno considerevole nel restituire all’edificio la sua unità. Non si tratta qui, come nel caso precedente, di conservare un miglioramento apportato ad un sistema difettoso, ma di considerare che il restauro posteriore è stato fatto secondo il metodo antico, che consisteva nell’adottare le forme in uso al momento in ogni rifacimento o restauro di un edificio, e che noi procediamo secondo un principio opposto, che consiste nel restaurare ogni edificio nello stile che gli è proprio. Ma queste volte di un carattere estraneo alle prime e che si devono ricostruire sono notevolmente belle, sono state l’occasione di praticare aperture ornate di belle vetrate, che sono state combinate in modo da armonizzare con tutto il sistema di costruzione esterna di grande valore. Si distruggerà tutto per togliersi la soddisfazione di restaurare la navata primitiva nella sua purezza? Si metteranno queste vetrate in magazzino? Si lasceranno senza motivo contrafforti e archi rampanti esterni che non avrebbero più niente da sostenere? No certo. È chiaro, dunque: in queste materie i principi assoluti possono condurre all’assurdo.

Si tratta di riprendere in sottomurazione i pilastri isolati di una sala che sono sottoposti a schiacciamento sotto carico, poiché i materiali impiegati sono troppo fragili e di sezione troppo ridotta. In epoche diverse alcuni di questi pilastri sono stati riparati e si sono date sezioni che non sono le primitive. Rimettendo a nuovo questi pilastri, dovremo copiare queste sezioni variate e attenerci alle altezze dei vecchi blocchi che sono troppo deboli? No, riprodurremo per tutti i pilastri la sezione orizzontale primitiva e li innalzeremo con grossi blocchi, per prevenire gli inconvenienti che sono la

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causa della nostra operazione. Ma la sezione di alcuni di questi pilastri è stata modificata in seguito ad un processo di cambiamento che si voleva far subire al monumento – cambiamento che dal punto di vista del progresso dell’arte è di una grande importanza – così come, per esempio, avvenne a Notre-Dame di Parigi nel XIV secolo. Distruggeremo sottomurando questa traccia così interessante di un progetto che non è stato eseguito interamente, ma che denota la tendenza di una scuola? No, noi li riprodurremo nella loro forma modificata, poiché queste modificazioni possono chiarire un momento della storia dell’arte. In un edificio del XIII secolo in cui le acque scolano in gocciolatoi, come ad esempio nella cattedrale di Chartres, nel XV secolo si è creduto bene di aggiungere dei doccioni ai canali per migliorare lo scolo. Questi doccioni sono in cattivo stato, bisogna sostituirli. Con il pretesto dell’unità metteremo al loro posto doccioni del XIII secolo? No, poiché distruggeremmo così le tracce di una interessante disposizione primitiva. Insisteremo, al contrario, sul restauro posteriore, conservandone lo stile.

Tra i contrafforti di una navata sono state aggiunte, a cose fatte, delle cappelle. I muri sotto le finestre di queste cappelle e i piedritti delle aperture non legano in alcun modo con i contrafforti più antichi e mostrano molto chiaramente che queste costruzioni sono state aggiunte in un secondo tempo. È necessario ricostruire sia i paramenti esterni di questi contrafforti, che sono rosi dal tempo, sia i serramenti delle cappelle. Dobbiamo rendere omogeneo lo stile di queste due costruzioni di epoche differenti e che restauriamo nello stesso tempo? No, conserveremo con cura il sistema costruttivo distinto delle due parti, le discordanze, affinché si possa sempre riconoscere che le cappelle sono state aggiunte tra i contrafforti in un tempo successivo.

Similmente, nelle parti nascoste dell’edificio dovremo rispettare scrupolosamente tutte le tracce che possono servire a far constatare aggiunte, modificazioni alle disposizioni primitive.

Esistono in Francia alcune cattedrali fra quelle rifatte alla fine del XII secolo che non avevano transetto. Tali sono, per esempio, le cattedrali di Sens, di Meaux, di Senlis. Nel XIV e XV secolo, sono stati aggiunti dei transetti alle navate, incorporando due campate. Queste modificazioni sono state fatte più o meno abilmente, ma per occhi esercitati esse lasciano sussistere tracce delle disposizioni primitive. In simili casi il restauratore deve essere scrupoloso sino all’eccesso e deve far risaltare, non dissimulare, le tracce di tali modificazioni.

Ma se si tratta di fare a nuovo delle parti di monumenti di cui non resta alcuna traccia, per necessità di costruzione o per completare una opera mutilata, l’architetto incaricato di un restauro deve ben penetrare lo stile proprio del monumento il cui restauro gli è affidato. Quel pinnacolo del XIII secolo copiato da un edificio dello stesso secolo sarà una stonatura se trasportato su di un altro. Quel profilo preso su un piccolo edificio striderà applicato ad uno grande. D’altronde, è un errore grossolano credere che un elemento architettonico del medio evo possa essere ingrandito o rimpicciolito impunemente. In questa architettura ogni elemento è proporzionato al monumento per il quale è composto. Cambiarne la proporzione equivale a rendere l’elemento difforme. A questo proposito faremo notare che la maggior parte dei monumenti gotici che si costruiscono oggi riproducono spesso in altra scala edifici noti. Quella chiesa sarà un diminutivo della cattedrale di Chartres, quell’altra della chiesa di Saint-Ouen di Rouen.

Ciò significa partire da un principio opposto a quello che affermavano con tanta ragione i maestri del medio evo. Se questi difetti colpiscono in edifici nuovi e tolgono loro ogni valore, sono mostruosi se si tratta di restauri. Ogni monumento del medio evo ha la sua scala relativa all’insieme, sebbene questa scala sia sempre rapportata alla dimensione dell’uomo. Bisogna dunque pensarci due volte, quando si tratta di completare le parti mancanti di un edificio del medio evo, e aver ben compreso la scala adottata dal primitivo costruttore.

Nei restauri bisogna sempre aver presente una condizione dominante, sostituire, cioè, ad ogni parte tolta solo materiali migliori e materiali più energici e più perfetti. Bisogna che a seguito dell’operazione effettuata l’edificio restaurato abbia per l’avvenire una durata più lunga di quella già

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avuta in passato. Non si può negare che ogni lavoro di restauro è per una costruzione una prova molto dura. Le armature, i puntelli, le rimozioni necessarie, le liberazioni parziali di murature causano all’opera una destabilizzazione, che talvolta ha determinato incidenti molto gravi. È dunque prudente tener conto che ogni costruzione rimasta ha perso una certa parte della sua forza in seguito a questi traumi e che si deve supplire a tale diminuzione di forze mediante la potenza delle parti nuove, il perfezionamento del sistema della struttura con catenamenti validi, resistenze più consistenti. Inutile dire che la scelta dei materiali entra in gran parte nei lavori di restauro. Molti edifici minacciano di rovinare per la debolezza e la mediocre qualità dei materiali impiegati. Ogni pietra destinata ad essere tolta deve essere sostituita da una pietra di qualità superiore. Ogni sistema di grappaggio che viene soppresso deve essere sostituito da un concatenamento continuo messo in luogo delle grappe; infatti, non si possono modificare le condizioni d’equilibrio di un monumento che ha sei o sette secoli d’esistenza senza correre dei rischi. Le costruzioni, come gli individui, assumono certe abitudini con le quali bisogna fare i conti. Esse hanno (se posso esprimermi così), il loro temperamento, che bisogna studiare e conoscere bene prima di intraprendere una cura regolare. La natura dei materiali, la qualità delle malte, il suolo, il sistema generale della struttura per punti d’appoggio verticali o per collegamenti orizzontali, il peso, la maggiore o minore concrezione delle volte, la maggiore o minore elasticità della fabbrica, costituiscono temperamenti differenti. In un edificio i cui punti d’appoggio verticali sono fortemente irrigiditi con colonne tagliate nel verso contrario, come in Borgogna ad esempio, le costruzioni si comportano in modo del tutto diverso che in un edificio della Normandia o della Piccardia, in cui tutta la struttura è fatta di bassi filari di pietra. I mezzi di ripresa, di puntellamento che qui avranno buon esito, altrove causeranno incidenti. Se si può riprendere impunemente per parti un pilone composto internamente di bassi filari, questo stesso lavoro eseguito dietro a colonne tagliate nel verso contrario sarà causa di crepe. Allora bisogna riempire i giunti di malta con l’ausilio di palette di ferro e a colpi di martello, per evitare ogni benché minimo abbassamento; bisogna persino, in certi casi, togliere i monostili durante le riprese dei filari per ricollocarli al loro posto dopo che tutto il lavoro in sottomuratura è finito ed ha avuto il tempo di assestarsi.

Se l’architetto incaricato del restauro di un edificio deve conoscere le forme, gli stili propri di questo edificio e della scuola da cui è uscito, deve ancora meglio, se possibile, conoscere la sua struttura, la sua autonomia, il suo temperamento, perché prima di tutto bisogna lo faccia vivere. È necessario che egli abbia compreso tutte le parti di questa struttura come se avesse lui stesso diretto i lavori e che, una volta acquisita tale conoscenza, abbia a disposizione parecchi mezzi per intraprendere un lavoro di ripresa. Se uno di questi mezzi vien meno, un secondo, un terzo, deve essere subito pronto.

Non dimentichiamo che i monumenti del medio evo non sono costruiti come i monumenti dell’antichità romana, la cui struttura deriva dall’opposizione di resistenze passive a forze attive. Nelle costruzioni del medio evo ogni elemento agisce. Se la volta spinge, l’arco rampante o il contrafforte controspingono; se un elemento portante crolla, non è sufficiente sostenerlo verticalmente, bisogna prevenire le spinte diverse che agiscono su di esso in senso inverso. Se un arco si deforma, non è sufficiente centinarlo, poiché esso funge da spinta ad altri archi che hanno un’azione obliqua. Se voi togliete un peso qualunque da un pilone, questo peso ha un’azione di pressione alla quale bisogna supplire. In una parola, voi non dovete mantenere forze inerti che agiscono solo in senso verticale, ma forze che agiscono tutte in senso contrario per creare un equilibrio; ogni parte tolta tende a turbare questo equilibrio. Questi problemi posti al restauratore sviano ed imbarazzano in ogni momento il costruttore che non ha fatto una stima esatta di tali condizioni di equilibrio, ma diventano uno stimolo per colui che conosce l’edificio da restaurare. Si tratta di una guerra, di un seguito di manovre che bisogna modificare ogni giorno, secondo una costante osservazione degli effetti che possono aver luogo. Abbiamo visto, per esempio, torri, campanili, eretti su quattro punti d’appoggio, in seguito a riprese in sottomuro portare i carichi ora su di un punto, ora su di un altro, e il loro asse cambiare il punto di proiezione orizzontale di qualche centimetro in ventiquattro ore.

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Sono gli effetti di cui l’architetto esperto non si preoccupa, alla sola condizione di avere sempre dieci modi invece di uno per prevenire un incidente, alla condizione di ispirare agli operai abbastanza fiducia da evitare che il panico possa vanificare i mezzi per fronteggiare ogni evenienza, senza ritardi, senza incertezze, senza manifestazioni di timore.

In questi casi difficili, che si presentano spesso durante i restauri, l’architetto deve avere previsto tutto, fino agli effetti più inattesi, e deve avere in riserva, senza fretta e senza emozione, i mezzi per prevenire conseguenze disastrose. Diciamo che in questo tipo di lavori gli operai, che da noi comprendono molto bene le manovre che si ordinano, mostrano tanta fiducia e devozione quando hanno avuto prova della preveggenza e del sangue freddo del capo, quanta sfiducia allorché scorgono la parvenza di un turbamento negli ordini dati.

I lavori di restauro, che dal punto di vista della serietà e della pratica appartengono al nostro tempo, gli faranno onore. Essi hanno forzato gli architetti ad estendere le loro conoscenze, ad informarsi sui mezzi energici, sbrigativi, sicuri, a mettersi in rapporto più diretto con le maestranze edili, ad istruirle anche, a formare dei nuclei, e in provincia e a Parigi, che forniscono, tutto sommato, i migliori operai nei grandi cantieri.

Grazie a questi lavori di restauro industrie importanti sono risorte, l’esecuzione dei lavori in muratura è diventata più accurata, l’impiego dei materiali si è diffuso. Infatti, gli architetti incaricati di lavori di restauro, spesso in città o villaggi sconosciuti, sprovvisti di tutto, hanno dovuto informarsi sulle cave, di necessità fame aprire di antiche, creare dei laboratori. Lontani da tutte le risorse che forniscono i grandi centri, hanno dovuto creare, foggiare degli operai, stabilire metodi regolari e come contabilità e come gestione dei cantieri. Così, materiali prima non sfruttati sono stati messi in circolazione, metodi regolari si sono diffusi nei dipartimenti che non ne possedevano, nuclei di operai divenuti esperti hanno fornito mano d’opera per un esteso raggio, l’abitudine a risolvere difficoltà di costruzione si è introdotta in popolazioni che sapevano appena costruire le case più semplici. La centralizzazione amministrativa francese ha meriti e vantaggi che noi non contestiamo, essa ha cementato l’unità politica, ma non bisogna dissimularne gli inconvenienti. Per non parlare qui che dell’architettura, la centralizzazione ha non solo tolto alle province le scuole, e con esse i procedimenti particolari, le industrie locali, ma anche la mano d’opera capace, che ha finito per essere assorbita da Parigi o da due o tre grandi centri, tanto che nei capoluoghi di dipartimento trenta anni fa non si trovava né un architetto, né un imprenditore, né un capo officina, né un operaio capace di dirigere e di eseguire lavori di una qualche importanza. Per avere la prova di quanto diciamo è sufficiente guardare di sfuggita le chiese, i municipi, i mercati, gli ospedali ecc., costruiti tra il 1815 e il 1835, e che sono restati in piedi nelle città di provincia (infatti molti hanno avuto durata effimera). I nove decimi di questi edifici (non parliamo del loro stile) denunciano una dolorosa ignoranza dei principi più elementari della costruzione. In fatto di architettura la centralizzazione conduceva alla barbarie. Il sapere, le tradizioni, i metodi, l’esecuzione materiale scomparivano a poco a poco dalla periferia del paese. Se ancora a Parigi una scuola diretta verso un fine utile e pratico avesse potuto fornire alle province lontane artisti capaci di dirigere dei cantieri, le scuole provinciali si sarebbero comunque esaurite, ma si sarebbero inviati nel territorio uomini che, come si vede nel genio civile, conservano ad un uguale livello tutte le costruzioni dei dipartimenti. La scuola di architettura, stabilita a Parigi e a Parigi solamente, mirava a tutt’altra cosa, formava dei laureati per l’Accademia di Francia a Roma, buoni disegnatori, nutriti di chimere, ma molto poco adatti a dirigere un cantiere in Francia nel XIX secolo. Questi eletti, rientrati sul suolo natale dopo un esilio di cinque anni, durante il quale avevano fatto il rilievo di alcuni antichi monumenti senza essere mai stati alle prese con le difficoltà pratiche del mestiere, preferivano restare a Parigi, in attesa che venisse loro affidata qualche opera degna del loro talento, alla fatica giornaliera offerta dalla provincia. Se qualcuno di loro ritornava nei dipartimenti, era per occupare posizioni di prestigio nelle nostre più grandi città. Le località secondarie restavano così escluse da ogni progresso dell’arte, da ogni forma di sapere, e si vedevano costrette ad affidare la

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direzione dei lavori municipali a capicantiere del genio civile, a geometri, e persino a maestri di scuola un po’ geometri. Certamente, i primi che pensarono a salvare dalla rovina i più begli edifici lasciatici in eredità dal passato sul nostro suolo e che organizzarono il servizio dei monumenti storici agirono puramente per ispirazione d’artista. Furono spaventati dalla distruzione che minacciava tutti questi resti così notevoli e dagli atti di vandalismo compiuti ogni giorno con la più cieca indifferenza, ma non poterono prevedere fin dall’inizio gli importanti risultati della loro opera dal punto di vista della pura utilità. Tuttavia, non tardarono a riconoscere che quanto più i lavori fatti eseguire da loro si trovavano in località isolate, tanto più l’influenza benefica di quei lavori si faceva sentire e si diffondeva. Dopo alcuni anni, località che non sfruttavano più delle belle cave, in cui non si trovava né un tagliapietre, né un carpentiere, né un fabbro capace di foggiare qualcosa di diverso dai ferri di cavallo, fornivano a tutte le circoscrizioni vicine operai eccellenti, metodi economici e sicuri, avevano visto sorgere buoni imprenditori, scalpellini ingegnosi, e inaugurare dei principi d’ordine e di regolarità nell’iter amministrativo dei lavori. Alcuni di questi cantieri videro la maggior parte dei loro tagliapietre fornire scalpellini a un gran numero di laboratori. Fortunatamente, se nel nostro paese l’inerzia regna talvolta sovrana alla sommità, è agevole vincerla alla base con perseveranza e cura.

I nostri operai, poiché sono intelligenti, comprendono solo la potenza dell’intelligenza. Tanto sono negligenti e indifferenti in un cantiere in cui il salario è la sola ricompensa e la disciplina il solo mezzo d’azione, tanto sono attivi e accurati là dove sentono una direzione metodica, sicura nei suoi comportamenti, dove ci si prende la pena di spiegare il vantaggio o lo svantaggio di un metodo. L’amor proprio è lo stimolo più energico in questi uomini addetti ad un lavoro manuale; si può ottenere tutto rivolgendosi alla loro intelligenza, alla loro ragione.

Con quale interesse, inoltre, gli architetti dediti all’opera di restauro dei nostri antichi monumenti seguivano di settimana in settimana i progressi di quegli operai che arrivavano a poco a poco ad affezionarsi all’opera alla quale collaboravano! Sarebbe ingratitudine da parte nostra, se non consegnassimo a queste pagine i sentimenti di disinteresse, la devozione manifestata molto spesso dagli operai dei nostri cantieri di restauro, la sollecitudine con la quale ci aiutavano a vincere difficoltà che sembravano insormontabili, i pericoli che affrontavano spensieratamente, una volta intravvisto il fine da raggiungere. Queste qualità le troviamo nei nostri soldati, è forse sorprendente che esistano nei nostri operai?

I lavori di restauro intrapresi in Francia, dapprima sotto la direzione della Commissione dei monumenti storici, e più tardi dal servizio degli edifici detti diocesani, non solo hanno salvato dalla rovina opere di incontestabile valore, ma hanno reso anche un servizio immediato. Il lavoro della Commissione ha combattuto in questo modo fino a un certo punto i pericoli della centralizzazione amministrativa in fatto di lavori pubblici, ha reso alla provincia ciò che la Scuola delle belle arti non era capace di darle. Alla luce di questi risultati, di cui non esageriamo l’importanza, se qualcuno di quei dottori che pretendono insegnare l’arte dell’architettura senza aver mai fatto posare un mattone, dal chiuso del suo studio decreta che gli artisti che hanno passato gran parte della loro esistenza in questa fatica pericolosa, penosa, da cui il più delle volte non si trae grande onore, né profitto, non sono degli architetti; se essi cercano di farli condannare ad una sorta di ostracismo e di allontanarli dai lavori insieme più onorevoli e più fruttuosi, e soprattutto meno difficili, i loro manifesti e i loro sdegni saranno dimenticati dal tempo, mentre quegli edifici, una delle glorie del nostro paese, preservati dalla rovina, resteranno ancora in piedi per secoli, a testimonianza della devozione di alcuni uomini, dediti più a perpetuare questa gloria che al loro interesse particolare.

Ci siamo limitati a far intravedere in maniera generale le difficoltà che si presentano ad un architetto incaricato di un restauro, a indicare, come abbiamo detto all’inizio, un programma d’insieme proposto da persone criticamente preparate. Queste difficoltà, tuttavia, non si limitano a fatti puramente materiali. Poiché tutti gli edifici di cui si intraprende il restauro hanno una destinazione, sono destinati ad un servizio, non si può trascurare questo aspetto di utilità, per chiudersi interamente nella parte del

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restauratore di antiche disposizioni fuori uso. Uscito dalle mani dell’architetto, l’edificio non deve essere meno comodo di quanto fosse prima del restauro. Molto spesso gli archeologi teorici non tengono conto di queste necessità e rimproverano aspramente all’architetto di aver ceduto alle necessità presenti, come se monumento affidatogli fosse cosa sua, come se non dovesse sottostare ai programmi che gli sono stati imposti.

Ma proprio in queste circostanze, che si verificano abitualmente, deve esercitarsi la sagacità dell’architetto. Egli ha sempre la possibilità di conciliare il suo impegno di restauratore con quello di artista incaricato di soddisfare necessità impreviste. D’altronde, il mezzo migliore per conservare un edificio è di trovargli una destinazione e di soddisfare così bene tutti i bisogni ispirati da tale destinazione, che non sia necessario apportarvi cambiamenti. È chiaro, per esempio, che l’architetto incaricato di far del bel refettorio di Saint-Martin des Champs una biblioteca per la Scuola di arti e mestieri doveva sforzarsi, pur rispettando l’edificio e restaurandolo, di organizzare i casellari in modo che non fosse necessario tornarvi mai sopra e alterare la disposizione di questa sala.

In circostanze analoghe, la cosa migliore è mettersi al posto dell’architetto primitivo e supporre ciò che egli farebbe, se, ritornando al mondo, gli si imponessero i programmi che sono posti a noi. Ma si comprende che allora bisogna possedere le risorse che possedevano quegli antichi maestri, che bisogna procedere come essi procedevano. Fortunatamente, l’arte del medio evo, limitata da coloro che non la conoscono a qualche formula ristretta, è, al contrario, quando la si comprenda, così duttile, così sottile, così estesa e liberale nei suoi mezzi d’esecuzione, che non vi è programma che essa non possa attuare. Essa si poggia su principi e non su un formulario, può essere di ogni tempo e soddisfare ogni bisogno, come una lingua ben fatta può esprimere ogni idea senza venir meno alla sua grammatica. Questa grammatica, dunque, bisogna possedere, e ben possedere.

Noi conveniamo che dal momento che non ci si attiene alla riproduzione letterale la china è ripida, che queste soluzioni non debbono essere adottate che in caso estremo, ma bisogna convenire anche che sono talvolta imposte da necessità imperiose alle quali non sarebbe ammesso opporre un non possumus. Che un architetto si rifiuti di far passare dei tubi del gas in una chiesa, per evitare mutilazioni e incidenti, lo si capisce, perché si può illuminare l’edificio con altri mezzi; ma che egli non si presti all’installazione di un calorifero, per esempio, con il pretesto che il medio evo non aveva adottato questo sistema di riscaldamento negli edifici religiosi, che egli obblighi così i fedeli a raffreddarsi per amore dell’archeologia, ciò finisce per cadere nel ridicolo.

Poiché questi mezzi di riscaldamento esigono tubi di camino, egli deve procedere come avrebbe fatto un maestro del medio evo, se fosse stato obbligato ad impiantarne, e soprattutto non cercare di dissimulare questo nuovo elemento, poiché gli antichi maestri, lungi dal mascherare una necessità, cercavano di rivestirla della forma che le conveniva, facendo di tale necessità materiale persino un motivo di decorazione. Dovendo rifare la copertura di un edificio, l’architetto respinge la costruzione in ferro perché i maestri del medioevo non hanno fatto strutture in ferro egli ha torto, a nostro parere, perché eviterebbe così le terribili occasioni di incendio che sono state tante volte fatali ai nostri antichi monumenti. Ma allora non si deve tener conto della disposizione dei punti di appoggio? Bisogna cambiare le condizioni di equilibrio? Se la struttura in legno da sostituire caricava uniformemente i muri, egli non deve cercare un sistema di struttura in ferro che offra gli stessi vantaggi? Lo deve certamente, e soprattutto si ingegnerà, perché questa copertura in ferro non pesi più di quella di legno. Questa è la cosa fondamentale. Troppo spesso si é dovuto rimpiangere di aver sovraccaricato antiche costruzioni, d’aver restaurato parti superiori di edifici con materiali più pesanti di quelli impiegati primieramente. Queste dimenticanze, queste negligenze hanno causato più di un sinistro. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: i monumenti del medio evo sono calcolati sapientemente, il loro organismo è delicato. Niente di troppo nelle costruzioni, niente di inutile. Se voi mutate una delle condizioni di questo organismo, modificate tutte le altre. Molti vedono in ciò un difetto, per noi è una qualità che trascuriamo un po’ troppo nelle nostre costruzioni moderne, da cui si potrebbe togliere più

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di un elemento senza comprometterne l’esistenza. In effetti, a che cosa debbono servire la scienza, il calcolo, se non, in fatto di costruzione, a mettere in opera solo le forze necessarie? Perché queste colonne, se possiamo toglierle senza compromettere la solidità dell’opera? Perché muri costosi spessi 2 metri, se dei muri di 50 centimetri, rinforzati a distanza regolare con dei contrafforti di un metro quadrato di sezione, presentano una stabilità sufficiente? Nella struttura del medio evo ogni parte dell’opera adempie ad una funzione ed esercita un’azione. Prima di intraprendere qualunque cosa l’architetto deve applicarsi a conoscere esattamente il valore dell’una e dell’altra. Egli deve agire come il chirurgo accorto ed esperto, che tocca un organo solo dopo aver acquisito una completa conoscenza della sua funzione ed aver previsto le conseguenze immediate o future dell’operazione. Se agisce affidandosi al caso, è meglio che si astenga. È meglio lasciar morire il malato piuttosto che ucciderlo.

La fotografia, che ogni giorno assume un ruolo più serio negli studi scientifici, sembra essere venuta al momento giusto per aiutare il grande lavoro di restauro degli edifici antichi di cui l’Europa intera si preoccupa oggi.

In effetti, quando gli architetti avevano a disposizione solo i mezzi ordinari del disegno, anche i più esatti, come la camera chiara, per esempio, era difficile non commettere qualche dimenticanza, non trascurare certe tracce appena evidenti. Di più, finito il lavoro di restauro, si poteva sempre contestare l’esattezza di una descrizione grafica, di ciò che si definisce stato attuale. Ma la fotografia presenta il vantaggio di redigere verbali irrecusabili e documenti che si possono consultare di continuo, persino quando i restauri mascherano le tracce lasciate dalla rovina. La fotografia ha condotto naturalmente gli architetti ad essere ancora più scrupolosi nel rispetto per i minimi resti d’una antica disposizione, a rendersi meglio conto della struttura, e fornisce uno strumento permanente per giustificare il loro operato. Nei restauri non si userà mai abbastanza della fotografia, poiché molto spesso si scopre su un negativo ciò che non si era scorto sul monumento stesso.

In fatto di restauro, un principio dominante da cui non bisogna allontanarsi mai e sotto nessun pretesto è il tener conto di ogni traccia che indichi una disposizione. L’architetto deve essere completamente soddisfatto e mettere gli operai all’opera, solo quando ha trovato la combinazione che si attaglia meglio e più semplicemente alla traccia restata in vista. Decidere una disposizione a priori, senza essere confortato da tutte le informazioni necessarie, significa cadere nell’ipotetico, e niente è più pericoloso dell’ipotesi nei lavori di restauro. Se avete la sfortuna di adottare su un punto una disposizione che si scosta dalla autentica, quella seguita originariamente, siete trascinati da un seguito di deduzioni logiche su una falsa strada, da cui non vi sarà più possibile uscire, e in questo caso tanto meglio ragionate, tanto più vi allontanate dalla verità. Analogamente, quando si tratta, per esempio, di completare un edificio caduto in parte in rovina, prima di cominciare bisogna scavare tutto, esaminare tutto, riunire i più piccoli frammenti, avendo cura di constatare il punto in cui sono stati scoperti, e mettersi all’opera solo quando tutti questi resti hanno trovato la loro logica destinazione e il loro posto, come i pezzi di un gioco di pazienza. Senza questa precauzione, si preparano le più incresciose delusioni, e un frammento che scoprite a restauro finito mostra chiaramente che vi siete ingannati. Per i frammenti che si raccolgono negli scavi, bisogna esaminare i letti di posa, i giunti, la dimensione; infatti, una certa cesellatura può essere stata fatta solo per produrre un certo effetto ad una certa altezza. Persino la maniera in cui questi frammenti si sono comportati cadendo è spesso un’indicazione del posto che essi occupavano.

In questi casi difficili di ricostruzione di parti di edifici demoliti, l’architetto deve dunque essere presente negli scavi ed affidarli a scavatori intelligenti; ricostruendo deve quanto più può riutilizzare gli antichi resti, anche se alterati: è una garanzia che dà e della autenticità e della esattezza delle sue ricerche. Abbiamo detto abbastanza per far comprendere le difficoltà che incontra l’architetto incaricato di un restauro, se prende sul serio le sue funzioni e se vuole non solo apparire sincero, ma portare a termine la sua opera con la coscienza di non aver lasciato nulla al caso e di non aver mai cercato di ingannare se stesso.

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John Ruskin La lampada della memoria (1849)*

AFORISMA 27 Bisogna conferire all’Architettura una dimensione storica, e conservargliela E se davvero sappiamo trarre qualche profitto dalla storia del passato, o qualche sollievo all’idea

di esser ricordati da quelli che verranno, che possano conferire convinzione alle nostre azioni, o pazienza alla nostra tenacia di oggi, vi sono due compiti che incombono su di noi nei confronti dell’architettura del nostro paese la cui importanza è impossibile sopravvalutare: il primo consiste nel conferire una dimensione storica all’architettura di oggi, il secondo nel conservare quella delle epoche passate come la più preziosa delle eredità […].

AFORISMA 28 La santità della casa per gli uomini probi Io dico che se gli uomini vivessero veramente da uomini, le loro case sarebbero come dei templi,

templi che noi non oseremmo tanto facilmente violare e nei quali diventerebbe per noi salutare privilegio poter vivere. Dev’essere una ben strana dissoluzione degli affetti naturali, una ben strana ingratitudine verso tutto quello che le nostre dimore ci hanno dato e i nostri genitori ci hanno insegnato, una ben strana coscienza della nostra infedeltà nei confronti dell’onore di nostro padre, oppure la consapevolezza che la nostra vita non è tale da render sacra la nostra dimora agli occhi dei nostri figli, quella che induce ciascuno di noi a desiderare di costruire per sé stesso, e a costruire soltanto per la piccola rivoluzione della sua vita personale. Io vedo quelle miserande concrezioni di calce e argilla che spuntano come una precoce fungaia nei campi limacciosi intorno alla nostra capitale, sui loro gracili e barcollanti gusci senza fondamenta di assi di legno a imitazione della pietra, disposte in quelle squallide file di una precisione freddamente regolare, senza differenze e senza alcun senso di fratellanza, tutte uguali e tutte isola1e in se stesse. Le guardo non solo con l’incurante repulsione della vista offesa, non solo col dolore che dà un paesaggio deturpato, ma con il doloroso presentimento che le radici della nostra grandezza nazionale debbono essere incancrenite ben in profondità dal momento che sono piantate in modo tanto instabile nella loro terra natia. Ho il presentimento che quelle dimore senza comodità e senza dignità siano il segno di uno scontento popolare che si va diffondendo; il presentimento che esse stiano a indicare un’epoca nella quale l’aspirazione di ciascun uomo è quella di entrare a far parte di un ceto in qualche modo più elevato di quello che è il suo ceto naturale, e per ogni uomo la propria vita passata è oggetto abituale di disprezzo, dal momento che gli uomini costruiscono con la speranza di abbandonare le costruzioni che hanno edificato e vivono nella speranza di dimenticare gli anni di vita che hanno vissuto; un’epoca in cui le comodità, la pace, la religione della casa non sono più sentite come tali, e le abitazioni affollate di una popolazione sempre in lotta e in movimento differiscono da quelle degli arabi o degli zingari per il solo fatto che sono meno salutarmente aperte di quelle all’aria del cielo e che la scelta del terreno su cui edificarle è stata meno felice. Questa gente ha sacrificato la sua libertà senza averne avuto in cambio una maggior quantità di riposo, e ha sacrificato la sua stabilità senza ottenere il privilegio del cambiamento […].

AFORISMA 29 La terra l’abbiamo ricevuta in consegna, non è un nostro possesso

* RUSKIN, John, The Seven Lamps of Architecture, London, 1849, trad. it. Le sette lampade dell’architettura, con presentazione di R. Di Stefano, Milano, Jaca Book, 1982, pp. 209-230.

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L’idea dell’abnegazione per amore dei posteri, l’idea di vivere oggi in economia per il bene dei nostri debitori che devono ancora nascere, di piantare oggi foreste perché i nostri posteri ne possano godere l’ombra, o di far sorgere città perché vi abitino i popoli del futuro; quest’idea, secondo me, trova mai spazio con qualche successo tra i motivi che pubblicamente riconosciamo a moventi delle nostre faticose azioni. Ciò nondimeno, questi sono i nostri doveri; e la nostra parte sulla terra non l’abbiamo recitata in modo acconcio se la portata di quanto abbiam fatto di utile con pieno intendimento e consapevolezza non include, oltre ai nostri contemporanei, anche quelli che ci succederanno nel nostro pellegrinaggio sulla terra. Dio ci ha prestato la terra per la nostra vita; ce l’ha data in consegna ma essa non ci appartiene. Essa appartiene allo stesso modo a quelli che devono venire dopo di noi e i cui nomi sono già scritti nel libro della creazione; e noi non abbiamo alcun diritto, con tutte le cose che facciamo o che trascuriamo, di coinvolgerli in sanzioni che potevano essere evitate, o di privarli dei vantaggi che era in nostro potere di lasciar loro in eredità. E ciò, a maggior ragione, perché una delle condizioni predeterminate della fatica dell’uomo è che il frutto sia tanto più maturo quanto più protratto è il tempo che intercorre tra la semina e il raccolto, e che dunque, in generale, quanto più lontano da noi collochiamo il nostro traguardo, e quanto meno aspiriamo a essere noi a vedere il frutto di ciò per cui ci siamo affannati, tanto più ampia e ricca sarà la misura del nostro successo. Gli uomini non possono beneficiare quelli che vivono accanto a loro quanto possono farlo con quelli che verranno dopo di loro; e di tutti i pulpiti da cui mai la voce umana viene diffusa, non ve n’è uno che riesca a farla giungere tanto lontano quanto la tomba […].

AFORISMA 30 Perché, invero, la gloria più grande di un edificio non risiede né nelle pietre né nell’oro di cui è

fatto. La sua gloria risiede nella sua età, e in quel senso di larga risonanza, di severa vigilanza, di misteriosa partecipazione, perfino di approvazione o di condanna, che noi sentiamo presenti nei muri che a lungo sono stati lambiti dagli effimeri putti della storia degli uomini. È nella loro imperitura testimonianza di fronte agli uomini, nel loro placido contrasto col carattere transitorio di tutte le cose; in quella forza che, attraverso lo scorrere delle stagioni, delle età, e il declino e il sorgere delle dinastie, e il mutare del volto della terra e dei limiti del mare, mantiene la sua bellezza scultorea per un tempo insormontabile, congiunge epoche dimenticate alle epoche che seguono, e quasi costituisce l’identità delle nazioni, così come ne attrae su di sé le simpatie. È in quella dorata patina del tempo che dobbiamo cercare la vera luce, il vero colore, e la vera preziosità dell’architettura. E finché un edificio non ha assunto questo carattere, finché non è stato consegnato alla fama e consacrato dalle imprese dell’uomo, finché i suoi muri non sono stati testimoni delle sofferenze e i suoi pilastri non si sono eretti sulle, ombre. della morte, non avverrà che la sua esistenza, destinata com’è a durare.più a lungo di quella degli oggetti naturali del mondo circostante, possa ricevere in dono almeno quel tanto di vita e di linguaggio di cui sono dotali quegli oggetti […].

Infatti, anche se fino a questo momento abbiamo continuato a parlare soltanto del sentimento che il tempo infonde nell’opera, vi è un’effettiva bellezza nelle impronte che esso vi lascia, una bellezza tale e di tale importanza che è diventata essa stessa non di rado l’oggetto di particolari scelte all’interno di certe scuole artistiche, e ha conferito a queste scuole il carattere che comunemente e genericamente è definito col termine di «pittoresco» […].

La caratteristica peculiare, tuttavia, che distingue il pittoresco dai caratteri di un altro soggetto che appartiene ai più alti livelli artistici (e questo solo è necessario determinare per il nostro attuale proposito), si può definire in breve e in modo netto. Il pittoresco, in questo senso, è sublimità parassitaria. Naturalmente, ogni forma di sublimità, così come ogni forma di bellezza è, in senso puramente etimologico, pittoresca: cioè adatta a diventare soggetto di una pittura; e ogni forma di sublimità è, anche nel senso specifico che sto cercando di spiegare, pittoresca, in quanto opposta alla bellezza; cioè a dire: vi è più pittoresco nei soggetti di Michelangelo che in quelli del Perugino, sproporzionatamente alla prevalenza dell’elemento sublime sul bello. Ma quella caratteristica il cui

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proposito ultimo si riconosce generalmente degradante per l’arte, è una sublimità parassitaria; cioè una sublimità che dipende da fattori accidentali o da caratteri meno essenziali degli oggetti ai quali essa appartiene; e il pittoresco si sviluppa specificamente in modo esattamente proporzionale alla distanza dal centro concettuale di quei tratti caratteristici sui quali fondata la sublimità. Due concetti, pertanto, sono essenziali per la definizione del pittoresco: il primo, quello di sublimità (infatti la pura bellezza non è affatto pittoresca, e diventa tale solo quando ad essa si mescola un elemento sublime); e il secondo, la condizione subordinata o parassitaria di tale sublimità. Qualsiasi carattere della linea o dell’ombra o dell’espressione produca quindi effetto di sublimità, finirà per produrre il pittoresco. Cosa siano questi caratteri, io mi sforzerò, qui di seguito, di mostrarlo esaurientemente; ma tra quelli che sono in genere riconosciuti, posso elencare le linee spigolose e spezzate, le decise contrapposizioni di luce e d’ombra, i colori cupi, intensi o in deciso contrasto; e tutti questi caratteri producono il loro effetto a un grado ancora più alto quando, per rassomiglianza o analogia, ci ricordano oggetti nei quali risiede un’effettiva ed essenziale sublimità, come rocce o montagne, oppure le nubi tempestose o i flutti marini. Ora, però, se questi caratteri, o altri ancora di sublimità più alta e astratta, dovessimo trovarli nel cuore stesso e nella sostanza di ciò che stiamo contemplando, come nel caso della sublimità di Michelangelo, che dipende molto più dall’espressione degli atteggiamenti mentali delle figure che dalle linee per quanto nobili della loro impostazione, l’arte, che rappresenta questi caratteri non può essere propriamente detta pittoresca; invece, se li trovassimo presenti in qualità accidentali o esteriori, si potrebbe parlare di pittoresco ben definito […].

AFORISMA 31 Il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni Né il pubblico, né coloro cui è affidata la cura dei monumenti pubblici comprendono il vero

significato della parola restauro. Esso significa la più totale distruzione che un edificio possa subire: una distruzione alla fine della quale non resta neppure un resto autentico da raccogliere, una distruzione accompagnata dalla falsa descrizione della cosa che abbiamo distrutto. Non inganniamo noi stessi in una questione tanto importante; è impossibile in architettura restaurare, come è impossibile resuscitare i morti, alcunché sia mai stato grande o bello, Ciò su cui ho appena insistito indicando come la vita del tutto, quello spirito che è reso solo dalle mani e dall’occhio dell’esecutore, non può esser mai fallo rivivere. Forse un’altra epoca potrà produrre un altro spirito, e si tratta allora di un nuovo edificio, ma non si può fare appello allo spirito degli esecutori che sono morti, e non gli si può comandare di guidare altre mani e altre menti. È un’impresa palesemente impossibile, quando si tratta di eseguirne una riproduzione fedele e sincera. Che riproduzione si può eseguire di superfici che sono consumate di mezzo pollice? Tutt’intera la rifinitura superficiale dell’opera stava proprio in quel mezzo pollice che se n’è andato; se provate a restaurare quella rifinitura, non potete farlo altro che arbitrariamente; se copiate quel che è rimasto, assicurando il massimo possibile di fedeltà (e quale attenzione, o meticolosità, o spesa,è in grado di garantirla?), come può la nuova opera essere migliore di quella vecchia? Eppure in quella vecchia vi era una qualche vitalità,una qualche misteriosa e suggestiva traccia di quel che essa era stata,e di quel che era andato perduto; una qualche soavità in quelle linee morbide modellate dal vento e dalla pioggia. E non ve ne può essere alcuna nella brutale durezza del nuovo intaglio. Guardate gli animali che vi ho presentato nella tavola XIV come esempio di un’opera viva, e immaginate come dovevano essere marcate le scaglie e i capelli prima che si logorassero, o le pieghe di quelle sopracciglia; e chi mai potrà restaurarle? La prima operazione del restauro, (e questo l’ho visto, ben più d’una volta, nel Battistero di Pisa, nella Ca’ d’Oro di Venezia, nella Cattedrale di Lisieux) consiste nel fare a pezzi l’opera originale; la seconda, di solito, consiste nel mettere in opera le meno preziose e più volgari imitazioni che non possano essere individuate come tali; ma in ogni caso, per quanto esse siano fedeli e elaborate, si tratta sempre di imitazioni, di fredde copie di quelle parti che possono essere modellate con aggiunte arbitrarie; e la mia esperienza finora mi ha offerto un solo

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esempio, quello del Palazzo di Giustizia di Rouen, in cui almeno questo, il più alto grado di fedeltà, sia stato realizzato,o per lo meno tentato.

Non parliamo dunque di restauro. Si tratta di una menzogna dal principio alla fine. Si può fare la copia di un edificio come 1a si può fare di un cadavere: la copia può avere dentro di sé la struttura dei vecchi muri, come il calco di un viso può averne lo scheletro; ma in nessuno dei due casi riesco a vedere con quale vantaggio; e non m’interessa. Ma il vecchio edificio è distrutto, e in questo caso in modo più definitivo e irrimediabile che se fosse sprofondato in un mucchio di polvere, o se fosse stato fuso in una massa di argilla: è più quello che si è riusciti a racimolare dalla desolazione di Ninive di quello che si potrà mai mettere insieme dopo la ricostruzione di Milano.

Eppure, si dice, il restauro può rappresentarsi come una necessità. Certo. Guardiamola bene in faccia questa necessità, e cerchiamo di capirla nei suoi veri termini. È una necessità distruttiva. Accettatela, così; e allora demolite tutto l’edificio, spargetene le pietre negli angoli più remoti, fatene zavorra, o materiale da costruzione, se volete; ma fatelo onestamente, e non elevate un monumento alla menzogna, al loro posto. Guardatela bene in faccia, questa necessità, prima che venga, e potrete prevenirla. Il principio che vige oggi (un principio che sono convinto, almeno in Francia, è sistematicamente messo in atto dai muratori, al fine di trovare lavoro per sé, visto che l’Abbazia di Saint Ouen è stata demolita dalle autorità cittadine in modo da trovar lavoro ad alcuni vagabondi) consiste prima nel trascurare gli edifici per procedere poi al loro restauro. Prendetevi cura solerte dei vostri monumenti, e non avrete alcun bisogno di restaurarli. Poche lastre di piombo collocate a tempo debito su un tetto, poche foglie secche e sterpi spazzati via in tempo da uno scroscio d’acqua, salveranno sia il soffitto che i muri dalla rovina. Vigilate su un vecchio edificio con attenzione premurosa; proteggetelo meglio che potete e ad ogni costo, da ogni accenno di deterioramento. Contate quelle pietre come contereste le gemme di una corona; mettetegli attorno dei sorveglianti come se si trattasse delle porte di una città assediata; dove la struttura muraria mostra delle smagliature, tenetela compatta usando il ferro; e dove essa cede, puntellatela con travi; e non preoccupatevi per la bruttezza di questi interventi di sostegno: meglio avere una stampella che restare senza una gamba. E tutto questo, fatelo amorevolmente, con reverenza e continuità, e più di una generazione potrà ancora nascere e morire all’ombra di quell’edificio. Alla fine anch’esso dovrà vivere il suo giorno estremo; ma lasciamo che quel giorno venga apertamente e senza inganni, e non consentiamo che alcun sostituto falso e disonorevole lo privi degli uffici funebri della memoria.

xx. Di devastazioni più sfrenate e ignoranti è inutile parlare; le mie parole non potranno certo raggiungere coloro che. le commettono, e tuttavia, che mi ascoltino o no, non posso tacere la verità che, ancora una volta, la nostra decisione di conservare o no gli edifici delle epoche passate non è questione di opportunità o di sentimento; il fatto è che non abbiamo alcun diritto di toccarli. Non sono nostri. Essi appartengono in parte a coloro che li costruirono, e in parte a tutte le generazioni di uomini che dovranno venire dopo di noi. I morti hanno ancora i loro diritti su di essi: ciò per cui essi si sono affaticati, la gloria di un’impresa, l’espressione di un sentimento religioso o di qualunque altra cosa essi intendessero affidare per l’eternità a quegli edifici, sono tutte cose che non abbiamo il diritto di distruggere. Ciò che abbiamo costruito noi stessi, siamo liberi di demolirlo; ma i diritti di altri uomini su ciò per la cui realizzazione essi hanno profuso le loro energie, la loro ricchezza e la loro vita, non si sono estinti con la loro morte; e tanto meno è stato conferito a noi soltanto il diritto di usare a nostra discrezione di quanto essi ci hanno lasciato. Esso appartiene a tutti i loro successori. E può anche darsi che, in un futuro, sia motivo di dolore o causa d’offesa per milioni di persone il fatto che noi abbiamo tenuto conto dei nostri interessi del momento abbattendo gli edifici dei quali abbiamo deciso di fare a meno. Quel dolore, quella perdita, non abbiamo alcun diritto di infliggerli. Forse che la cattedrale di Avranches apparteneva alla plebaglia che la distrusse più di quanto non appartenesse a noi che oggi camminiamo con dolore avanti e indietro nelle sue fondamenta? Né vi è alcun edificio che appartenga a quella plebaglia che sfoga la sua violenza su di essa. Perché di plebaglia si tratta, e tale resterà sempre.

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Non conta che sia inferocita o in preda a una deliberata follia; che si tratti di una folla incontrollabile o che sia riunita in comitati. Il popolo che si abbandona alla distruzione di qualsiasi cosa senza una ragione è plebaglia, e l’Architettura finisce sempre distrutta senza una ragione. Un bell’edificio necessariamente vale il terreno sul quale sorge, e sarà così finché l’Africa Centrale e l’America non saranno diventate popolose come il Middlesex: e non vi sono al mondo cause valide di alcun genere come motivo per la sua distruzione. E se mai fossero state valide, certamente non lo sono ancora, ché il posto e del passato e del futuro, nelle nostre coscienze, è usurpato da un presente fatto di inquietudine e di scontento. La stessa pace della natura viene sempre più allontanata da noi; migliaia di persone che, un tempo costrette a viaggi necessariamente prolungati, erano soggette a una certa influenza proveniente dal cielo silenzioso e dai campi addormentati nella loro quiete; un’influenza più effettiva che consapevole o dichiarata, ora portano con sé anche il febbrile fervore senza sosta della loro vita: e lungo le arterie ferroviarie che percorrono il corpo del nostro paese, battono e scorrono gli impetuosi impulsi originati da questo fervore, ogni ora più ardenti e concitati. Tutta la vitalità si concentra attraverso queste palpitanti arterie nel cuore della città; la campagna è scavalcata come un mare da ponti angusti, e noi ci troviamo ricacciati indietro, in una folla sempre più numerosa che si accalca alle porte della città. L’unica influenza che possa in qualche modo prendere il posto di quella delle foreste e dei campi in un mondo come questo, è la forza dell’antica Architettura. Non staccatevi da essa per il gusto di avere una piazza di forma regolare, o un marciapiede alberato dietro la siepe, o una strada elegante o una banchina senza ostacoli. L’orgoglio di una città non risiede in queste cose. Lasciatele alla plebe; ma ricordatevi che vi sarà di sicuro qualcuno entro la cinta di queste mura che hanno perduto la loro quiete, che richiederebbe ben altri posti che questi, nei quali poter passeggiare, ben altre forme architettoniche che gli si offrissero cordialmente alla vista: come a colui che così spesso sedeva là dove il sole batteva da ponente, a osservare le linee della cupola di Firenze che si disegnavano sulla volta del cielo, o come a coloro che, suoi ospiti, quotidianamente, dalle stanze del loro palazzo, potevano rimirare i luoghi dove i loro padri giacevano in riposo, all’incrocio delle buie strade di Verona.

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Voto del IV Congresso degli ingegneri ed architetti italiani (1883)*

Considerando che i monumenti architettonici del passato non solo valgono allo studio dell’architettura, ma servono quali documenti essenzialissimi, a chiarire e ad illustrare in tutte le sue parti la storia:dei vari tempi e perciò vanno rispettati con scrupolo religioso appunto come documenti in cui una modificazione anche lieve, la quale possa sembrare opera originaria, trae in inganno e conduce via via a deduzioni sbagliate.

La prima sezione del III Congresso degli Ingegneri ed Architetti, presa cognizione delle circolari inviate dal Ministero della Pubblica Istruzione il 21 luglio 1882 ai Prefetti del Regno intorno ai restauri degli edifici monumentali, lodandone le disposizioni, raccomanda ad esso di prendere pure in esame le seguenti massime.

l. I monumenti architettonici, quando sia dimostrata incontrastabilmente la necessità di porvi mano, debbono piuttosto venire consolidati che riparati, piuttosto riparati che restaurati; ed in ogni modo si devono col massimo studio scansare le aggiunte e le rinnovazioni.

2. Nel caso che le dette aggiunte o rinnovazioni tornino assolutamente indispensabili per la solidità dell’edificio o per altre cause gravissime ed invincibili, e nel caso che riguardino parti non mai esistite o non più esistenti o delle quali manchi la conoscenza sicura della forma primitiva, le aggiunte o rinnovazioni si devono compiere nella maniera nostra contemporanea, avvertendo che possibilmente nell’apparente prospettiva le nuove opere non urtino troppo con l’aspetto del vecchio edificio.

3. Quando si tratti invece di compiere parti distrutte o non ultimate in origine per fortuite cagioni, oppure di rifare dei conci tanto deperiti da non poter più rimanere in opera, o quando nondimeno rimanga il tipo vecchio da riprodurre con precisione, allora converrà in ogni modo che i conci aggiunti o rinnovati, pur assumendo la forma primitiva, siano di materiale evidentemente diverso, o portino un segno inciso o, meglio, la data del restauro, sicché neanche in ciò possa l’attento osservatore venir tratto in inganno. Nei monumenti dell’antichità o in altri ove sia notevole l’importanza propriamente archeologica, le parti di compimento indispensabili alla solidità ed alla conservazione dovrebbero essere lasciate coi soli piani semplici e coi soli solidi geometrici dell’abbozzo, anche quando non appariscano altro che la continuazione od il sicuro riscontro di altre parti antiche sagomate ed ornate.

4. Nei monumenti che traggono la bellezza, la singolarità, la poesia del loro aspetto dalla varietà dei marmi, dei mosaici, dei dipinti, oppure dal colore della loro vecchiezza o dalle circostanze pittoresche in cui si trovano, o perfino dallo stato rovinoso in cui giacciono, le opere di consolidamento, ridotte allo strettissimo indispensabile, non dovranno scemare possibilmente in nulla codeste ragioni intrinseche ed estrinseche di allettamento artistico.

5. Saranno considerate per monumenti, e trattate come tali, quelle aggiunte o modificazioni che in diverse epoche fossero state introdotte nell’edificio primitivo, salvo il caso in cui, avendo un’importanza artistica e storica manifestamente minore dell’edificio stesso e nel medesimo tempo svisando e mascherando alcune parti notevoli di esso, si ha da consigliare la remozione o la distruzione di tali modificazioni od aggiunte. In tutti i casi nei quali sia possibile, o ne valga la spesa, le opere di cui si parla verranno serbate, o nel loro insieme o in alcune parti essenziali, possibilmente accanto al monumento da cui furono rimosse.

* Voto sul restauro dei monumenti del IV Congresso degli ingegneri ed architetti italiani, Roma, 1883, ora in BOITO, Camillo, Il nuovo e l’antico in architettura, a cura di M. A. Crippa, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 124-126.

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6. Dovranno eseguirsi, innanzi di por mano ad opere anche piccole di riparazione o di restauro, le fotografie del monumento, poi di mano in mano le fotografie dei principali stati del lavoro, e finalmente le fotografie del lavoro compiuto. Questa serie di fotografie sarà trasmessa al Ministero della Pubblica Istruzione insieme coi disegni delle piante, degli alzati e dei dettagli e, occorrendo, cogli acquarelli colorati, ove figurino con evidente chiarezza tutte le opere conservate, consolidate, rifatte, rinnovate, modificate, rimosse o distrutte. Un resoconto preciso e metodico delle ragioni e dei procedimenti delle opere e delle variazioni di ogni specie accompagnerà i disegni e le fotografie. Una copia di tutti i documenti ora indicati dovrà rimanere depositata presso le fabbricerie delle chiese restaurate, o presso l’ufficio incaricato della custodia del monumento restaurato.

7. Una lapide da infiggere nel monumento restaurato ricorderà la data e le opere principali del restauro.

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Camillo Boito I restauri in architettura (1893)*

«Si potrebbe a questo nostro dialogo piantare in testa per epigrafe una sentenza chinese: Vergogna ingannare i contemporanei; vergogna anche maggiore ingannare i posteri».

«Davvero? A me pare invece che il sommo dell’abilità nel restaurare un vecchio monumento consista per l’appunto nell’acconciarlo così che il nuovo sembri antico; sicché antico e nuovo si confondano insieme. Mi rammento le definizione del Viollet-le-Duc...».

«Lasciamo stare i Francesi». «E chi vuol ella citare, se non cita il grande storico e legislatore francese dell’architettura, accolto

per tale anche negli altri paesi, massime in Italia? Restaurer un édifice c’est le rétablir dans un état complet, qui peut n’avoir jamais existé à un moment donné. Egli seguì questa massima ne’ suoi restauri delle mura di Cargassona, del castello di Pierrefonds, d’altri insigni monumenti, e fu lodato a cielo».

«Lasciamo stare i Francesi, le torno a dire. In questi ultimi dieci o dodici anni la teoria sui restauri ha mutato faccia».

«V’è forse qualcosa che goda della lode di tutti, e che non muti faccia ai giorni nostri? Il punto sta nell’avere tanto acume e cosi larga dottrina da poter fare come il Viollet-le-Duc, quando aveva per le mani un monumento: mettersi nei panni del vecchio architetto, immaginando che cosa il valentuomo farebbe se, tornato oggi in questa terra mortale, gli fosse posto sul conto del suo edificio il nuovo problema di compimento o di restauro. Supposer ce qu’il ferait, si, revenant au monde...».

«Evocare lo spirito di Bramante, di Arnolfo, dei maestri comacini, dei monaci del medio evo, di cento altri artefici, le sembra poco? Rivivere nel loro tempo, nel loro animo, nel loro genio! Inviscerarsi le loro virtù, e anche i loro difetti! I difetti, no, pare, giacché il Viollet-le-Duc tirava a correggere. Ella si ricorda forse della grossa battaglia architettonica per gli archi arrampicanti o sproni volanti, come qualcuno li chiama, della cattedrale di Evreux. Ce n’erano due sovrapposti: ne venne fatto uno solo in ciascun valico, mutando forma ai contrafforti, ai pinnacoli, alle guglie; e il rapporto ufficiale del suo venerato legislatore diceva: Il serait puéril de reproduire une disposition éminemment vicieuse. È naturale. Nel cacciare forzatamente lo spirito dell’architetto antico entro la testa dell’architetto moderno, quello si adatta alle circonvoluzioni del cervello nuovo, ed il parto non riesce più né antico né moderno. Ma vuole che gliela spifferi? Quando i restauri sono condotti con la teoria del signor Viollet-le-Duc, la quale si può dire la teoria romantica del restauro, e fino a ier l’altro era universale, e tuttavia è seguita da molti, anzi dai più anche in Italia, io preferisco i restauri mal fatti ai restauri fatti bene. Mentre quelli, in grazia della benefica ignoranza, mi lasciano chiaramente distinguere la parte antica dalla parte moderna, questi, con ammirabile scienza ed astuzia facendo parere antico il nuovo, mi mettono in una sì fiera perplessità di giudizio, che il diletto di contemplare il monumento sparisce, e lo studiarlo diventa una fatica fastidiosissima».

«Oh questa è bella! Meglio dunque un asino di restauratore che un restauratore sapiente!». «Senta. Mesi addietro mi fermai in una cittaduzza, dove non ero mai stato, per vedere una chiesa

del milledugento, di quelle a piccoli ordini di colonne sovrapposti nella facciata, a capitelli pieni di mostri e fregi pieni di meandri. Avevo l’albo e la matita. La prima impressione, ad una certa distanza, fu buona; ma poi, esaminando, mi principiarono a nascere mille dubbi e sospetti. L’edificio era stato restaurato tanto sublimemente che non si distingueva il vecchio dal nuovo: gli stessi materiali, lo stesso * BOITO, Camillo, I restauri in architettura. Dialogo primo, in Questioni pratiche di Belle Arti, Milano, Hoepli, 1893, ora in BOITO, Camillo, Il nuovo e l’antico in architettura, a cura di M. A. Crippa, Milano, Jaca Book,1989, pp. 107-126.

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scarpello, la medesima tinta veneranda dei secoli. Vedo una mensola molto bizzarra, e comincio a fame lo schizzo; avevo l’animo inquieto; mi faccio dare una scala a piuoli, salgo fino in cima, tocco, picchio, gratto, raspo: era roba moderna. Il problema ch’io dovevo mettermi innanzi a ogni tratto era questo: vedo io una cosa del milledugento o di questi ultimi anni? Non c’erano vecchi disegni, non c’erano vecchie fotografie. I sagrestani, giovani, non avevano visto nulla; il prete, decrepito, non si ricordava di niente. Cacciai l’albo e la matita in tasca, e me ne andai difilato alla stazione per aspettare il treno che mi portasse via, maledicendo all’eccellenza del restauratore, e dandogli a tutto pasto del bugiardo, del truffatore, del falsario, del...»

[…] «Altro è un libro scritto sulle tavolette o sulla carta pecora, altro un monumento di marmi, di pietre e di mattoni. Se dentro a un tempio barocco giace una basilica cristiana, lo si sa, in nome di Dio, o il caso, presto o tardi, lo svela. Né io approvo i restauratori barocchi; anzi affermo che chi li volesse oggi imitare sarebbe un bel matto, Solo biasimo e abomino ancora più i restauratori romantici. Ripiglio il suo paragone: il monumento dunque è un libro, che io intendo di leggere senza riduzioni, aggiunte o rimaneggiamenti. Voglio sentirmi ben sicuro che tutto ciò che vi sta scritto uscì dalla penna o dallo stile dell’autore. Maledico all’Ossian del Cesarotti; e come caccierei volentieri in galera il falsificatore di vecchie medaglie, così vi manderei a marcire i falsificatori d’un vecchio edificio o di una parte di vecchio edificio. Quanti non sono stati in questo ultimo mezzo secolo i restauratori, i quali fecero in architettura qualcosa di simile alla medaglia bugiarda e famosa di Cesare col veni vidi vici, o di Menelao col cavallo troiano? Occorrerebbe che qualcuno si desse oramai per i restauri architettonici la briga che per le medaglie contraffatte o falsificate si diedero il Sestini, il Beauvais ed altri. Invoco un trattato sulla Menzogna architettonica, ovvero sulla Maniera di discernere in architettura le falsificazioni e contraffazioni dell’antico».

«In una parola, ella vuole conservare, non restaurare». «Ella dice bene: conservare, non restaurare». «Però, avverta, la distinzione fra le due parole, che a primo tratto sembra evidente e facilmente

attuabile, nella realtà delle cose s’imbroglia. In generale noi, che ragioniamo dell’arte, facciamo come quel zoccolante, il quale predicava bene e razzolava male; ma in nessuna cosa è forse tanto difficile l'operare e tanto facile il ragionare quanto in ciò che si riferisce al restauro [...]».

«Innanzi di venire a tante rinnovazioni, potevano forse tentare qualche ingegnoso espediente. Forse, per esempio, rifatto a nuovo il nucleo dei capitelli, sarebbe diventato possibile rimettere intorno ad esso i pezzi esterni dei capitelli antichi, con i loro fogliami e con le loro figurette ammirabili».

«Sì? E crede lei che codeste parti vecchie di capitelli già spezzati e sgretolati, ridotte, come ella vorrebbe, ad una sottile impiallacciatura, non si sarebbero, dopo qualche anno, disciolte in polvere? Una volta distrutte, chi le avrebbe ammirate più? Non è stato meglio riprodurle appuntino, e sostituire i capitelli nuovi ai capitelli irreparabilmente spaccati, serbando questi in una sala lì accanto, dove gli studiosi presenti e futuri potranno ricercarli a loro bell’agio? Si fa quel che si può a questo mondo; ma nemmeno per i monumenti s’è scoperta sinora la Fontaine de jouvence».

«Chi lo sa? Può darsi che un poco dell’acqua magica della Fontana di gioventù, la quale, nelle fantasie calde del medio evo, ridonava ai vecchi decrepiti la forza e la baldanza giovanile, si possa, anche per i monumenti, ritrovare nei prodigi della chimica; e qualcosa s’è oramai trovato. Però non nego che l'amore dell’antico diventi alle volte, segnatamente nei giovani, una passione piena di esagerazioni e d’egoismo; ma gli eccessi medesimi, alla stretta dei conti, recano il loro profitto. Alcuni anni fa, una cinquantina di pittori, scultori e architetti, fra i quali il Favretto ed altri valenti, fecero formale adesione ad un opuscolo sull’Avvenire dei monumenti in Venezia, scritto con fuoco, ricco di voli poetici e insieme di sottili avvertenze, nel quale si legge: Non c’illudiamo, è impossibile, impossibile come far rialzare un morto, il restaurar cosa qualsiasi, che fu grande e bella in architettura... Ci si opporrà: può venire la necessità di restaurare. Accordiamo. Guardisi bene in faccia a tale necessità e intendasi cosa significhi. È la necessità di distruggere. Accettatela come tale,

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gettate giù l’edificio, disperdetene le pietre, fate di esse zavorra o calce, se volete; ma fate ciò onestamente, e non ponete una menzogna al posto del vero».

«Come la chiama ella questa teoria molto semplice?». «Non saprei; la direi forse del pittoresco. Ma, data la premessa, è spietatamente logica. Non

potendo serbare incolume il monumento, accopparlo, o lasciarlo, senza nessun farmaco, spirare di consunzione, di cancrena o di carie. Il busilli sta in questo, che la società civile non si persuaderà mai di farsi complice in simili delitti, come non abolirà mai né i medici né i chirurghi. Ora, l’arte del restauratore somiglia a quella del chirurgo. Sarebbe meglio, chi non lo vede? che il fragile corpo umano non avesse mai bisogno di sonde, di bisturi e di coltello; ma non tutti credono che sia meglio veder morire il parente o l’amico piuttosto che fargli tagliare un dito o portare una gamba di legno».

«Tutto si riduce dunque, secondo lei, a tenere il monumento, in piedi, assicurandogli una lunga vita con i rincalzi, che la scienza e la pratica suggeriscono. Ogni altra opera diventa un falso in monumento pubblico».

«Sicuro. Con la teoria del Viollet-le-Duc non c’è sapienza, non c’è ingegno, che valgano a salvar dagli arbitrii; e l’arbitrio è una bugia, una falsificazione; una trappola tesa ai posteri e spesso anche ai contemporanei […].

Noi siamo andati via via accostandoci l’uno all'altro, sicché ora possiamo, io spero, metterci d’accordo, nelle due brevi sentenze, con le quali colui che tiene in mano i fili per farci gesticolare e parlare, concludeva la conferenza tenuta da esso nel giugno del 1884 a Torino durante la esposizione nazionale:

1.º bisogna fare l’impossibile, bisogna fare miracoli per conservare al monumento il suo vecchio aspetto artistico e pittoresco;

2.º Bisogna che i compimenti, se sono indispensabili, e le aggiunte, se non si possono scansare, mostrino, non di essere opere antiche, ma di essere opere d’oggi».

«Quasi quasi ci sto». «E questi precetti glieli replico in versi, se vuole, come gli antichi Greci facevano delle leggi, che

il banditore cantava; ma prometta di non canzonarmi: Serbare io devo ai vecchi monumenti L’aspetto venerando e pittoresco; E se a scansare aggiunte o compimenti Con tutto il buon volere non riesco, Fare devo così che ognun discerna Esser l’opera mia tutta moderna». [...] «Ella, da uomo prudente, mette avanti le mani per non battere il naso in terra, se incespica.

Però mi lasci dire come, secondo le sue opinioni, qui non si tratti d’arte, ma di sola archeologia, aiutata non dalla immaginazione, visto che ella esclude ogni svolgimento e persino, potendo, ogni compimento od aggiunta, bensì aiutata, ove occorra, dalla sagace scienza e pratica del costruttore modesto, il quale si contenti di teneré in piedi, e di consolidare, per amore dei nepoti, il vecchio edificio».

«Eppure l’arte ci entra, volere o non volere. Per attendere alla conservazione di un monumento abbisognano le mille cure sollecite e delicate dell’amore infiammato o dell’ardente carità, come ai malati l’assistenza di una sposa o di una suora. Vuol ella trovare codeste virtù nel petto di un ingegnere o d’un capomaestro? Non le sembra che sia necessario il fervido animo dell’artista? Ma mi lasci fare il pedante. Separerò, sminuzzerò, lambiccherò, adoprerò numeri, staffe, parentesi: sarò ineffabilmente noioso. E, per cominciare, avverto come nei monumenti architettonici prevalga ora l’una, ora l’altra delle seguenti tre qualità: l’importanza archeologica, l’apparenza pittoresca, la bellezza architettonica. Perciò, è lecito distinguere l’arte del restauro in

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Restauro archeologico (Antichità) Restauro pittorico (Medio evo) Restauro architettonico (Rinascimento, ecc.). [...] Il monumento dell’antichità greca, etrusca, romana e via via, ha in ogni sua parte una

importanza intrinseca, la quale risiede proprio in ciascuno dei pezzi di cui si compone o si componeva. Bisogna dunque negli scavi notare la posizione assoluta e la posizione relativa di ogni frammento; serbare i fedeli disegni, la scrupolosissima storia delle escavazioni e dei ritrovamenti; esaminare minutamente ad una ad una ogni membratura, starei per dire ogni scaglia. Non c’è rudero che non possa diventare essenziale allo studio dell’edificio, o preziosa indicazione per ricomporlo in tutto od in parte».

«Mi stupisce ch’ella parli di ricomposizione. Il ricomporre non è forse un arbitrio? Non conviene serbare le rovine come si sono trovate, senza impancarsi a rimetterle insieme?».

«Certo, se mancano i dati sicurissimi per poterlo fare. Ma quando ella trova sul muro di fondamento le basi delle colonne al loro posto, e accanto i rocchi dei fusti, e di qua i capitelli e di là gli architravi, e i pezzi di fregio e pezzi di cornice, perché non dovrà tirare in piedi l’ordine e goderselo intiero? E se nelle muraglie massicce, sotto alle volte rotte, si scorge la traccia non dubbia delle decorazioni architettoniche, perché non si potranno rimettere al loro luogo quegli ornati e quei rivestimenti, già caduti a terra? Ella, per esempio, trova i brani d’un libro latino o greco; li legge, li medita; s’accorge che compongono l’opera intiera o qualche capitolo di essa, e li riordina, e li ricopia l’un sotto l’altro, astenendosi dall’aggiungere di suo capo una sola parola, e, dove riscontra una lacuna, mette i puntini o inserisce una nota, sinceramente, modestamente, da uomo che non ama altro che il vero. Chi la potrà biasimare?» [...]

«Oh se si potesse affermare il medesimo sul conto della seconda categoria di restauri, quelli da lei chiamati pittorici o degli,edifici del medio evo! Quante castronerie, quante bestialità! La mente corre a Venezia, alla basilica di San Marco, di cui ella, profetando, mi dipinse le future rovine, preferibili ai restauri che vi stanno facendo».

«Dica che vi furono fatti e che ora, per quanto si può, si correggono; e gli errori di prima devono imputarsi non all’ignoranza, ma al metodo. Accolto il metodo, sembravano eccellenti; sicché il Viollet-le-Duc e tanti altri li lodarono senza restrizione».

«Me ne rammento. E i cacciatori di contraddizioni...». «Avrebbero buon giuoco, lo so. Ma quel che più importa al nostro ragionamento è il considerare

la maniera seguita nel ricostruire le murature interne e gli archi e le volte, lì dove minacciavano di cascar giù, e nel riappiccare poi solidamente alla ferma ossatura le lastre dei marmi variopinti, le fascie a meandri, gli archivolti a fogliami, gli ornati d’ogni sorta, i musaici, sicché l’aspetto di prima non apparisce menomamente mutato, e la gente che guarda sogghigna e brontola, senza volerlo, il massimo elogio al restauratore: “Valeva proprio la spesa di tenere in piedi così a lungo i ponti e gli assiti, per poi levarli senz’aver fatto nulla!”. Lo scheletro si fortifica, lasciando intatta la pelle con la sua polpa sotto e i suoi muscoli: la pelle abbrunita dal sole, corrugata dalle intemperie, screpolata qua e là e piena di ferite, e non di meno più seducente di qualsivoglia pelle morbida e rosea di bella dama».

«E come fanno?». «Con quell’affetto di sposa e carità di suora, di cui le parlavo. Già chiamano in aiuto la chimica,

provando l’azione dei fluosilicati sui marmi, adoperando l’ossicloruro di zinco per le stuccature, tentando l’uso della vaselina, un carburo d’idrogeno, per trattenere la malefica influenza della salsedine».

«Guardiamoci, per carità, dalle illusioni, tanto facili in queste prove, che richiedono animo calmo, innumerevoli esperimenti e tempo lunghissimo; guardiamoci dall’esagerare. A sentir lei si tocca la perfezione».

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«Perfezione, chi lo dice? E vi può essere perfezione in un’opera tanto spaventosamente ardua quant’è quella del rafforzare un corpo cosi ammirabile fuori e così logoro dentro? Il restaurare è un travaglio che consuma il cervello e che non lascia mai l’animo in pace. La grande impresa si compone d’infinite piccolezze, le quali, alla lunga, opprimono; e poi bisogna tenersi in preciso bilico tra le esigenze archeologiche e le pittoriche, tra quelle della statica e quelle dell’estetica [...]».

«E la terza categoria ce la dimentichiamo? Quella dei restauri propriamente architettonici, o degli edifici dal rinascimento in poi».

«Volevo dirle come in questi, che furono alzati in secoli prossimi al nostro, e che sopra tutto mostrano un organismo compiuto, più facile a intendersi da noi e ad imitarsi dall’arte odierna, i pezzi ad uno ad uno, salvo le eccezioni, scemino di valore archeologico e storico. Basta forse un semplice segno, un semplice ricordo, per indicare i rifacimenti; ma qui pure i compimenti e le rinnovazioni s’hanno a fuggire. Non tanto però che debba giudicarsi una truffa architettonica il sostituire alle membrature mancanti o troppo guaste membrature nuove nello stesso materiale e con la medesima lavoratura delle vecchie, sicché, non guardando molto per il sottile, possano avere aspetto di originali. Con due esempi io spero indicarle i limiti ne’ quali, a mio giudizio, dovrebbe mantenersi codesta libertà di restauro. Cerchiamoli a Milano. Ella conosce il palazzo Marino, nel quale ha sede la rappresentanza comunale, uno dei più robusti lavori del libero genio dell’Alessi. Passando dalla piana della Scala, ci si stupiva dianzi nel vedere che la ricca città lombarda tollerasse quell’immensa muraglia dell’edificio, tutta bucata da finestre irregolari, storpia, rozza, miserabile, indecente. A quella muraglia stette per lunghi anni appoggiato un intiero gruppo di case; ma il piano terreno e gli angoli mostravamo gli scompartimenti verticali ed orizzontali dell’architettura, simili in tutto alla nobile fronte, che guarda la statua di Alessandro Manzoni. Ora il Consiglio comunale, mentre avrebbe errato nel volere. impresso alla futura facciata il carattere di palazzo pubblico aggiungendovi concetti di cui non lasciò veruna traccia l’Alessi, deliberò all’incontro, con molta ragione, che sulle orme della vecchia la novella fronte venisse scrupolosamente tirata su. Fin qui dunque riesce lecito inoltrarsi, senza neppure offendere la religione di quegli artisti, che adorano nel monumento un feticcio; ma nel procedere più in là bisogna andare con i piedi di piombo [...]».

«E quali norme direttive si potrebbero stabilire nei differenti casi?». «Prevederli tutti, abbracciarli tutti in una legge riesce impossibile. Non è materia da regolamenti.

Si può affermare, in generale, che il monumento ha demone stratificazioni, come la crosta terrestre, e che tutte, dalIa profondissima alla superficiale, posseggono il loro valore e devonsi rispettare, Si può aggiungere, mon di meno, che le cose più vecchie sono, sempre in generale, più venerabili e più importanti delle meno vecchie; ma che, quando queste ultime appaiono più belle delle altre, bellezza può vincere vecchiaia. Ora il misurare la bellezza rispetto alla vecchiaia, e la vecchiaia rispetto alla bellezza, è affare delicato; e ci vogliono buoni occhi, buon criterio, buona esperienza, buona bilancia e molta buona volontà di pesar tutto, anche gli scrupoli, con animo spassionato e disinteressato. La vanità e l’ambizione del restauratore diventano anche più funeste al monumento di quello che possano riescire l’avidità e l’avarizia».

«Questo s’intende. Il ben restaurare può chiamarsi una annegazione di sé in faccia al passato. Quanto più l’artista d’oggi si inchina, s’inginocchia, si annichila di contro al monumento, tanto meglio compie il dover suo. Il giorno in cui, rizzandosi e sollevando là fronte, esclama: “Ci sono anch’io!” quel giorno il vecchio edificio trema».

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Carta di Atene (1931)*

I. La Conferenza, convinta che la conservazione del patrimonio artistico ed archeologico dell’umanità interessi tutti gli Stati tutori della civiltà, augura che gli Stati si prestino reciprocamente una collaborazione sempre più estesa e concreta per favorire la conservazione dei monumenti d’arte e di storia; ritiene altamente desiderabile che le istituzioni e i gruppi qualificati, senza menomamente intaccare il diritto pubblico internazionale, possano manifestare il loro interessamento per la salvaguardia dei capolavori in cui la civiltà ha trovato la sua più alta espressione e che appaiano minacciati; emette il voto che le richieste a questo effetto, siano sottomesse alla organizzazione della cooperazione intellettuale, dopo inchieste fatte dall’Ufficio internazionale dei musei e benevola attenzione dei singoli Stati. Apparterrà alla Commissione Internazionale della cooperazione intellettuale, dopo inchieste fatte dall’Ufficio internazionale dei musei e dopo aver raccolto dai suoi organi locali le informazioni utili, di pronunciarsi sulla opportunità di passi da compiere e sulla procedura da seguire in ogni caso particolare.

II. La Conferenza ha inteso la esposizione dei principi generali e delle dottrine concernenti la

protezione dei monumenti. Essa constata che, pur nella diversità dei casi speciali a cui possono rispondere particolari soluzioni, predomina nei vari Stati rappresentati una tendenza generale ad abbandonare le restituzioni integrali e ad evitarne i rischi mediante la istituzione di manutenzioni regolari e permanenti atte ad assicurare la conservazione degli edifici.

Nel caso in cui un restauro appaia indispensabile in seguito a degradazioni o distruzioni, raccomanda di rispettare l’opera storica ed artistica del passato, senza proscrivere lo stile di alcuna epoca.

La Conferenza raccomanda di mantenere quando sia possibile, l’occupazione dei monumenti che ne assicura la continuità vitale, purché tuttavia la moderna destinazione sia tale da rispettarne il carattere storico ed artistico.

III. La Conferenza ha inteso la esposizione delle legislazioni aventi per scopo nelle differenti

nazioni, la protezione dei monumenti d’interesse storico, artistico o scientifico; ed ha unanimemente approvato la tendenza generale che consacra in questa materia un diritto della collettività contro l’interesse privato.

Essa ha constatato come la differenza tra queste legislazioni provenga dalla difficoltà di conciliare il diritto pubblico col diritto dei particolari; ed, in conseguenza, pur approvandone la tendenza generale, stima che debbano essere appropriate alle circostanze locali ed allo stato dell’opinione pubblica, in modo da incontrare le minori opposizioni possibili e di tener conto dei sacrifici che i proprietari subiscono nell’interesse generale.

Essa emette il voto che in ogni Stato la pubblica autorità sia investita dal potere di prendere misure conservative nei casi d’urgenza. Essa augura infine che l’Ufficio internazionale dei musei pubblici tenga a giorno una raccolta ed un elenco comparato delle legislazioni vigenti nei differenti Stati su questo soggetto. * Carta di Atene, in La conservation des monuments d’art et d’histoire - Conclusions de la conference d’Athenes, Paris, Institut de Coopération Intellectuelle, 1933, ora in CARBONARA, Giovanni, Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti, Napoli, Liguori, 1997, pp. 648-651.

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IV. La Conferenza constata con soddisfazione che i principi e le tecniche esposte nelle differenti

comunicazioni particolari si ispirano ad una comune tendenza, cioè: Quando si tratta di rovine, una conservazione scrupolosa s’impone e, quando le condizioni lo

permettono, è opera felice il rimettere in posa gli elementi originali ritrovati (anastilosi); ed i materiali nuovi necessari a questo scopo dovranno sempre essere riconoscibili. Quando invece la conservazione di rovine messe in luce da uno scavo fosse riconosciuta impossibile, sia consigliabile, piuttosto che votarle alla distruzione, di seppellirle nuovamente, dopo, beninteso averne preso precisi rilievi.

È ben evidente che la tecnica dello scavo e la conservazione dei resti impongano la stretta collaborazione tra l’archeologo e l’architetto. Quanto agli altri monumenti, gli esperti riconoscendo che ogni caso si presenta con caratteri specifici, si sono trovati d’accordo nel consigliare, prima di ogni opera di consolidamento o di parziale restauro, una indagine scrupolosa delle malattie a cui occorre portare rimedio.

V. Gli esperti hanno inteso varie comunicazioni relative all’impiego di materiali moderni per il

consolidamento degli antichi edifici; ed approvano l’impiego giudizioso di tutte le risorse della tecnica moderna, e più specialmente del cemento armato.

Essi esprimono il parere che ordinariamente questi mezzi di rinforzo debbano essere dissimulati per non alterare l’aspetto ed il carattere dell’edificio da restaurare; e ne raccomandano l’impiego specialmente nei casi in cui essi permettono di conservare gli elementi in situ evitando i rischi della disfattura e della ricostruzione.

VI. La Conferenza constata che nelle condizioni della vita moderna i monumenti del mondo

intero si trovano sempre più minacciati dagli agenti esterni; e, pur non potendo formulare regole generali che si adattino alla complessità dei casi, raccomanda:

1) la collaborazione in ogni Paese dei conservatori dei monumenti e degli architetti coi rappresentanti delle scienze fisiche, chimiche, naturali per raggiungere risultati sicuri di sempre maggiori applicazioni;

2) la diffusione, da parte dell’Ufficio internazionale dei musei, di tali risultati, mediante notizie sui lavori intrapresi nei vari paesi, e le regolari pubblicazioni.

La Conferenza, nei riguardi della conservazione della scultura monumentale, considera che l’asportazione delle opere dal quadro pel quale furono create è come principio da ritenersi inopportuna. Essa raccomanda a titolo di precauzione, la conservazione dei modelli originali quando ancora esistono, e l’esecuzione di calchi quando essi mancano.

VII. La Conferenza raccomanda di rispettare nella costruzione degli edifici il carattere e la

fisionomia della città, specialmente nelle prossimità di monumenti antichi, per i quali l’ambiente deve essere oggetto di cure particolari. Uguale rispetto deve aversi per talune prospettive particolarmente pittoresche.

Oggetto di studio possono anche essere le piantagioni e le ornamentazioni vegetali adatte a certi monumenti o gruppi di monumenti per conservare l’antico carattere.

Essa raccomanda soprattutto la soppressione di ogni pubblicità, di ogni sovrapposizione abusiva di pali e fili telegrafici, di ogni industria rumorosa ed invadente, in prossimità dei monumenti d’arte e di storia.

VIII. La Conferenza emette il voto: 1) che i vari Stati ovvero le istituzioni in essi create o riconosciute competenti a questo fine,

pubblichino un inventario dei monumenti storici nazionali accompagnato da fotografie e da notizie;

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2) che ogni Stato crei un archivio, ove siano conservati i documenti relativi ai propri monumenti storici;

3) che l’Ufficio internazionale dei musei dedichi nelle sue pubblicazioni alcuni articoli ai procedimenti ed ai metodi di conservazione dei monumenti storici;

4) che l’Ufficio stesso studi la migliore diffusione ed utilizzazione delle indicazioni e dei dati architettonici, storici e tecnici così centralizzati.

IX. I membri della Conferenza, dopo aver visitato, nel corso dei loro lavori e della crociera di

studio eseguita, alcuni dei principali campi di scavo e dei monumenti antichi della Grecia, sono stati unanimi nel rendere omaggio al Governo ellenico, che da lunghi anni, mentre ha assicurato esso stesso l’attuazione di lavori considerevoli, ha accettato la collaborazione degli archeologi e degli specialisti di tutti i Paesi. Essi hanno in ciò veduto un esempio che non può che contribuire alla realizzazione degli scopi di cooperazione intellettuale, di cui è apparsa così viva la necessità nel corso dei loro lavori.

X. La Conferenza profondamente convinta che la migliore garanzia di conservazione dei

monumenti e delle opere d’arte venga dall’affetto e dal rispetto del popolo, e considerando che questi sentimenti possono essere assai favoriti da una azione appropriata dei pubblici poteri, emette il voto che gli educatori volgano ogni cura ad abituare l’infanzia e la giovinezza ad astenersi da ogni atto che possa degradare i monumenti e le inducano ad intenderne il significato e ad interessarsi, più in generale, alla protezione delle testimonianze d’ogni civiltà.

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Carta del restauro italiana (1931)*

Il Consiglio Superiore per le Antichità e Belle Arti, portando il suo studio sulle norme che debbono reggere il restauro dei monumenti, il quale in Italia si eleva al grado di una grande questione nazionale, è edotto della necessità di mantenere e di perfezionare sempre più il primato incontestabile che in tale attività, fatta di scienza, di arte e di tecnica, il nostro paese detiene;

convinto della multipla e gravissima responsabilità che ogni opera di restauro coinvolge (sia che si accompagni o no a quella dello scavo); con l’assicurare la stabilità di elementi fatiscenti; col conservare o riportare il monumento a funzione d’arte; col porre le mani su di un complesso di documenti di storia ed arte tradotti in pietra, non meno preziosi di quelli che si conservano nei musei o negli archivi; col consentire studi analitici che possono avere per risultato nuove impreviste determinazioni nella storia dell’arte e della costruzione;

convinto perciò che nessuna ragione di fretta, di utilità pratica, di personale suscettibilità possa imporre in tale tema manifestazioni che non siano perfette, che non abbiano un controllo continuo e sicuro, che non corrispondano ad una bene affermata unità di criteri, e stabilendo come evidente che tali princìpi debbano applicarsi sia ai restauri eseguiti dai privati, sia a quelli dei pubblici enti, a cominciare dalle stesse Soprintendenze preposte alla conservazione e alla indagine dei monumenti;

considerando che nell’opera di restauro debbano unirsi ma non elidersi, neanche in parte, vari criteri di diverso ordine; cioè le ragioni storiche che non vogliono cancellata nessuna delle fasi attraverso cui si è composto il monumento, né falsata la sua conoscenza con aggiunte che inducano in errore gli studiosi, né disperso il materiale che le ricerche analitiche pongono in luce; il concetto architettonico che intende riportare il monumento ad una funzione d’arte, e, quando sia possibile, ad una unità di linea (da non confondersi con l’unità di stile); il criterio che deriva dal sentimento stesso dei cittadini, dallo spirito della città, con i suoi ricordi e le sue nostalgie; e infine, quello spesso indispensabile che fa capo alle necessità amministrative attinenti ai mezzi e alla pratica utilizzazione;

ritiene che dopo oltre un trentennio di attività in questo campo, svoltasi nel suo complesso con risultati magnifici, si possa e si debba trarre da questi risultati un complesso di insegnamenti concreti a convalidare e precisare una teoria del restauro ormai stabilita con continuità nei deliberati del Consiglio superiore e nello indirizzo seguito dalla maggior parte delle Soprintendenze alle Antichità e all’Arte medioevale e moderna e di questa teoria controllata dalla pratica, enuncia i principi essenziali.

Esso afferma pertanto: 1) che al di sopra di ogni altro intento debba la massima importanza attribuirsi alle cure assidue di

manutenzione e alle opere di consolidamento, volte a dare nuovamente al monumento la resistenza e la durevolezza tolta dalle menomazioni o dalle disgregazioni;

2) che il problema del ripristino mosso dalle ragioni dell’arte e dell’unità architettonica strettamente congiunte col criterio storico, possa porsi solo quando si basi su dati assolutamente certi forniti dal monumento da ripristinare e non su ipotesi, su elementi in grande prevalenza esistenti anziché su elementi prevalentemente nuovi;

3) che nei monumenti lontani ormai dai nostri usi e dalla nostra civiltà, come sono i monumenti antichi debba ordinariamente escludersi ogni completamento, e solo sia da considerarsi l’anastilosi, cioè la ricomposizione di esistenti parti smembrate con l’aggiunta eventuale di quegli elementi neutri * Carta del restauro italiana, Consiglio Superiore per le Antichità e Belle Arti, dicembre 1931, ora in CARBONARA, Giovanni, Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti, Napoli, Liguori, 1997, pp. 651-654.

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che rappresentino il minimo necessario per integrare la linea e assicurare le condizioni di conservazione;

4) che nei monumenti che possono dirsi viventi siano ammesse solo quelle utilizzazioni non troppo lontane dalle destinazioni primitive, tali da non recare negli adattamenti necessari alterazioni essenziali all’edificio;

5) che siano conservati tutti gli elementi aventi un carattere d’arte o di storico ricordo, a qualunque tempo appartengano, senza che il desiderio dell’unità stilistica, e del ritorno alla primitiva forma, intervenga ad escluderne alcuni a detrimento di altri; e solo possano eliminarsi quelli, come le murature di finestre e di intercolumni di portici che, privi di importanza e di significato, rappresentino deturpamenti inutili; ma che il giudizio su tali valori relativi e sulle corrispondenti eliminazioni debba in ogni caso essere accuratamente vagliato, e non rimesso ad un giudizio personale dell’autore di un progetto di restauro;

6) che insieme col rispetto pel monumento e per le sue varie fasi proceda quello delle sue condizioni ambientali, le quali non debbono essere alterate da inopportuni isolamenti, da costruzioni di nuove fabbriche prossime invadenti per massa, per colore, per stile;

7) che nelle aggiunte che si dimostrassero necessarie, o per raggiungere lo scopo di una reintegrazione totale o parziale, o per la pratica utilizzazione del monumento, il criterio essenziale da seguirsi debba essere, oltre a quello di limitare tali elementi nuovi al minimo possibile, anche quello di dare ad essi un carattere di nuda semplicità e di rispondenza allo schema costruttivo; e che solo possa ammettersi in stile similare la continuazione di linee esistenti nei casi in cui si tratti di espressioni geometriche prive di individualità decorativa;

8) che in ogni caso debbano siffatte aggiunte essere accuratamente ed evidentemente designate o con l’impiego di materiale diverso dal primitivo, o con l’adozione di cornici di inviluppo, semplici e prive di intagli, o con l’applicazione di sigle o di epigrafi, per modo che mai un restauro eseguito possa trarre in inganno gli studiosi e rappresentare una falsificazione di un documento storico;

9) che allo scopo di rinforzare la compagine stanca di un monumento e di reintegrare la massa, tutti i mezzi costruttivi modernissimi possano recare ausili preziosi e sia opportuno valersene quando l’adozione di mezzi costruttivi analoghi agli antichi non raggiunga lo scopo; e che del pari, i sussidi sperimentali delle varie scienze debbano essere chiamati a contributo per tutti gli altri temi minuti e complessi di conservazione delle strutture fatiscenti, nei quali ormai i procedimenti empirici debbono cedere il campo a quelli rigidamente scientifici;

10) che negli scavi e nelle esplorazioni che rimettono in luce antiche opere, il lavoro di liberazione debba essere metodicamente e immediatamente seguito dalla sistemazione dei ruderi e dalla stabile protezione di quelle opere d’arte rinvenute, che possano conservarsi in situ;

11) che come nello scavo, così nel restauro dei monumenti sia condizione essenziale e tassativa che una documentazione precisa accompagni i lavori mediante relazioni analitiche raccolte in un giornale del restauro e illustrate da disegni e da fotografie, sicché tutti gli elementi determinati nella struttura e nella forma del monumento, tutte le fasi delle opere di ricomposizione, di liberazione, di completamento, risultino acquisiti in modo permanente e sicuro.

Il Consiglio convinto infine che in temi così ardui e complessi in cui ciascun monumento e

ciascuna fase del suo restauro presentano quesiti singolari, l’affermazione dei princìpi generici debba essere completata e fecondata dall’esame e dalla discussione sui casi specifici, esprime i seguenti voti:

a) che il giudizio del Consiglio superiore sia sistematicamente richiesto prima dell’inizio dei lavori per tutti i restauri di monumenti che escono dall’ordinaria attività conservatrice, sia che detti restauri vengano promossi e curati da privati, o da pubblici enti o dalle stesse Sovraintendenze;

b) che sia tenuto ogni anno in Roma un convegno amichevole (i cui atti potrebbero essere pubblicati nel «Bollettino d’Arte» del Ministero dell’Educazione Nazionale) nel quale i singoli

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Sovraintendenti espongano i casi e i problemi che loro si presentano per richiamare l’attenzione dei colleghi, per esporre le proprie proposte di soluzione;

c) che sia fatto obbligo della compilazione e della conservazione metodica dei suddetti giornali del restauro, e che possibilmente dei dati e delle notizie analitiche da quelli risultanti si curi la pubblicazione scientifica in modo analogo a quello degli scavi.

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Istruzioni per il restauro dei monumenti (post 1938)*

La Carta del restauro, elaborata dal Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti nel 1931 e rimasta allo stato di norma interna per l’attività dell’Amministrazione, fu oggetto di esame e di discussione al I Convegno dei Soprintendenti, tenuto a Roma nel luglio del ‘38. In quel Convegno veniva anche proposta la creazione di un Istituto Centrale per il Restauro delle opere d’arte: e la prassi dell’istituto assumendo ovviamente valore di esempio e di diretto concretamento pratico dei principi d’ordine generale con i quali lo Stato provvede, in questo settore del restauro, alla tutela del patrimonio artistico nazionale, è ovvio che il fatto nuovo influisca, nel senso di una più stretta unificazione dei criteri e di un più preciso rigore normativo, sulla determinazione del testo della Carta del restauro. In quell’occasione infatti, riconoscendo l’inevitabilità di un aggiornamento, S.E. il Ministro disponeva che un nuovo testo venisse elaborato e dichiarava di voler dare alla carta del Restauro forza e valore di legge. Elaborandosi frattanto la nuova legge sulla tutela del patrimonio artistico, una nuova condizione e un nuovo sostegno legali si offrivano alla difficile enunciazione della Carta; la quale oggi, dopo l’approvazione e l’entrata in vigore della nuova legge, può più organicamente articolarsi alla legge riformata in ordine ai più moderni criteri giuridici e tecnici.

Ad una prima revisione del testo attese una commissione ministeriale formata da S.E. Giovannoni, dal cons. naz. prof. Pace, dal gr. uff. prof. Lazzari, dal prof. Longhi, dal comm. La Feria, dall’arch. Calzecchi e dall’arch. prof. De Angelis. Tale commissione limitò tuttavia, secondo il mandato ricevuto, il proprio lavoro alla determinazione dei principi tecnici e scientifici per il restauro dei monumenti. Ma per le ragioni anzidette, si determinava necessariamente l’esigenza di un’enunciazione unica per i monumenti e le opere d’arte: di un’enunciazione, inoltre, che, corrispondendo ad una rigorosa unità di metodo, investisse al di là dei problemi particolari, un problema di carattere generale; poiché il restauro non è soltanto un procedimento tecnico, ma atto scientifico sul quale logicamente s’immettono interessi di cultura, che trascendono i limiti di qualsiasi specializzazione.

Perciò nello schema ora elaborato sono prospettate esigenze che, a prima vista, possono sembrare esorbitanti rispetto al problema del restauro propriamente detto; ma non corrispondendo questo nel solo momento pratico della messa in opera di procedimenti tecnici conservativi e investendo invece tutto il problema relativo alla salvaguardia dei valori autentici di un’opera d’arte, la formulazione stessa della Carta del restauro doveva necessariamente inglobare quanto è pertinente a tale salvaguardia, anche se invece di implicare azione, esige astensione di azione.

Lo stesso divieto, espresso dalla Carta, di ripristinare antichi monumenti o di costruire anche in zone libere da qualsiasi vincolo e prive d’interesse monumentale edifici in “stile” antichi non solo discende dalla convinzione che nessuna categoria stilistica esiste in astratto e che ogni nostra esperienza dell’arte antica è giudizio storico finito – e perciò intraducibile in pratiche imitazioni – di fatti artistici finiti e irriproducibili, ma anche del concetto che il rigore critico per il quale e col quale si procede a un restauro esclude la possibilità di riammettere, sia pure in altri settori, una qualsiasi legittimità di falsificazioni: le quali anche se per loro grossolanità e imprecisione, non riescano a essere tali in rapporto all’oggetto che vogliono imitare, riprodurre e evocare, tali son sempre, e con anche più

* Istruzioni per il restauro dei monumenti, Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, post 1938, ora in CARBONARA, Giovanni, Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti, Napoli, Liguori, 1997, pp. 651-654.

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grave vergogna, nei riguardi della nostra coscienza storica, che ugualmente situa nel giudizio l’arte più antica e la più recente.

L’ampliamento del problema del restauro, che si è detto investire un’esigenza generale della cultura, e l’affermazione della necessità di contenere gli interventi di restauro entro i limiti di una rigorosa conservazione portano di conseguenza che non soltanto lo Stato, ma tutti gli enti e gli stessi privati comunque interessati alla tutela del patrimonio artistico nazionale, devono provvedere, secondo le proprie possibilità e attivazioni, a garantire, con la più attenta manutenzione e con la più vigile ed attiva cura, la conservazione dei monumenti e delle opere d’arte: perché il primo e il miglior modo di restauro consiste certamente nel prevenire i deperimenti rimuovendone tutte le possibili cause.

E questo un sistema di cooperazione che può chiamarsi corporativo, in quanto, in un paese come il nostro, non v’è attività pubblica e privata che non incontri direttamente o indirettamente questioni artistiche: le quali pertanto rappresentano un coefficiente fisso in ogni azione che sia storicamente legittima: l’opera dello Stato non conclude o risolve il problema di una tutela artistica manovrata ed attiva, ma è soltanto il fulcro e il principio di moto di un complesso di azioni la cui somma agisce in modo essenziale nella determinazione del livello della cultura nazionale.

Si connette a questo principio, non meno che a quello, già enunciato, che ogni imitazione è piuttosto oltraggio che omaggio alla storia, il nuovo criterio dell’arbitrarietà della abusata traslazione dei monumenti: le quali rompono, nel modo più brutale e manesco, la tradizione storica relativa al monumento, sconvolgendo la continuità delle documentazioni relative, sottraggono al monumento il dato di un ambiente necessario ed integrativo, lo inquadrano in uno spazio storico che nella migliore delle ipotesi è insignificante e generico e nella peggiore contraddittorio, ed infine incidono, con l’inclusione di elementi antichi del tutto estranei, sulla chiarezza e la franchezza di soluzioni urbane che, per dignità di persone civili più ancora che per rigore di storici, si vogliono schiettamente, lucidamente, integralmente moderne. Dalla necessità di eliminare, dal costume più ancora che dalla prassi, ogni compromesso diretto a “conciliare” un’antichità e una “modernità”, già conciliate e concordi nel giudizio di chiunque sappia storicamente riflettere, dipende anche la dichiarata decadenza della presuntuosa intenzione di “valorizzare” i monumenti, come se essi non portassero in sé tutto il loro valore, attraverso ambientazioni scenografiche o comunque generiche: le quali rappresentano soltanto una presentazione enfatica ed oratoria del tutto superflua, e quindi dannosa.

In fatto di disposizioni di carattere particolare, lo schema ora presentato aggiunge al testo del 1931 soltanto un cenno relativo alla conservazione in situ degli elementi decorativi ritrovati nel corso degli scavi: i quali, per l’esperienza dei casi recentissimi, sappiamo degradarsi gravemente subito dopo lo scavo, nonostante i provvedimenti più attenti e più tecnicamente adatti. Si ritiene infatti che il concetto dell’integrità del complesso non basti a giustificare il rischio di un più rapido e irreparabile deperimento degli oggetti ritrovati; e che nessun conto possa farsi del vano sentimentalismo di voler rivivere, su quei documenti ben altrimenti significativi dal punto di vista storico, epoche e costumi remoti. Per questa coerenza e sistematicità tra i vari punti della carta si ritiene che essa, benché si riferisca ad argomento esclusivamente scientifico, possa essere materia di sana legislazione; e dar luogo ad un tempo alle più ampie specificazioni d’ordine tecnico per la quotidiana attività degli uffici artistici governativi.

1) Allo Stato, responsabile del patrimonio artistico nazionale, compete la direzione e il controllo

di ogni attività diretta alla tutela, alla conservazione e al restauro delle opere d’arte, siano esse di proprietà pubblica o privata.

Ogni restauro dovrà pertanto essere condotto o direttamente dagli organi tecnici del Ministero dell’Educazione Nazionale o sotto il controllo e secondo le direttive degli stessi.

2) Costituisce esigenza fondamentale il prevenire tempestivamente, attraverso un’attenta manutenzione, ogni causa di deperimento dei monumenti e delle opere d’arte; a tale garanzia

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preventiva, diretta alla conservazione del dato storico nella sua integrità, deve particolarmente indirizzarsi l’attività degli Uffici governativi preposti alla tutela del patrimonio artistico, con la partecipazione di tutti gli Enti pubblici e privati comunque interessati.

3) Nel restauro dei monumenti e delle opere d’arte è tassativamente da escludersi ogni opera di completamento o di ripristino o comunque l’aggiunta di elementi che non siano strettamente necessari per la stabilità, la conservazione e la comprensione dell’opera.

4) L’eventuale aggiunta o sostituzione consentita dall’enunciato precedente, deve essere contenuta nei limiti della più assoluta semplicità ed eseguita con materiali e tecniche che ne attestino la modernità ed evitino, con l’eliminazione di ogni ripresa decorativa o figurativa, ogni possibile confusione con l’antico.

5) Le integrazioni e le varianti anticamente subite da un monumento e da un’opera d’arte, quando abbiano per se stesse interesse artistico o costituiscano un documento significativo per la storia dell’opera, devono essere conservate nel restauro, che in nessun caso dovrà ispirarsi ad astratti concetti di unità stilistica o tradurre in pratica ipotesi sulla forma originaria dell’opera, anche se appoggiate a testimonianze figurative o letterarie.

6) Negli scavi e nelle esplorazioni che riportano in luce antiche opere, il lavoro di liberazione deve essere metodicamente ed immediatamente seguito dalla sistemazione e dal consolidamento dei ruderi e dalla stabile protezione di quelle opere d’arte che si ritenga opportuno conservare nel posto del ritrovamento. La conservazione in situ deve essere in ogni caso evitata quando si riconosca inefficace qualsiasi provvedimento conservativo.

In questa eventualità, la sostituzione con copie degli elementi asportati dovrà sempre contenersi nei limiti di una esatta documentazione e non tendere al completamento o al ripristino del complesso originario.

7) Posto che ogni monumento coordina alla propria unità figurativa lo spazio circostante, tale spazio è naturalmente oggetto delle stesse cautele e dello stesso rigoroso rispetto che il monumento stesso. È quindi categoricamente da escludersi, come arbitraria, la traslazione di edifici monumentali, l’alterazione di ambienti monumentali conservati nelle forme originarie e di quei complessi edilizi che, anche senza tener conto di particolari elementi artistici, assurgono, come soluzione urbanistica, ad un valore storico ed artistico.

L’isolamento di edifici monumentali, non più inseriti nel loro ambiente originario, deve essere ispirato al principio di una assoluta neutralità spaziale e prospettica, evitando così tutte le sistemazioni a carattere genericamente monumentale e scenografico.

8) Per ovvie ragioni di dignità storica e per la necessaria chiarezza della coscienza artistica attuale, è assolutamente proibita, anche in zone non aventi interesse monumentale o paesistico, la costruzione di edifici in «stili» antichi, rappresentando essi una doppia falsificazione, nei riguardi dell’antica e della recente storia dell’arte.

9) Di tutti i restauri dovrà essere curata una esauriente documentazione grafica e fotografica, accompagnata da una relazione sui procedimenti tecnici seguiti, sugli elementi storici eventualmente venuti in luce, sui risultati finali dei lavori.

Tali documentazioni, siano esse relative a monumenti o a opere d’arte, verranno conservate nell’Archivio Centrale del Restauro, presso l’Istituto Centrale del Restauro in Roma.

Il Ministero dell’Educazione Nazionale promuoverà la conoscenza e la divulgazione dei risultati scientifici raggiunti.

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Gustavo Giovannoni Restauro dei monumenti (1936)*

Il proposito di restaurare i monumenti, sia per consolidarli riparando alle ingiurie del tempo, sia per riportarli a nuova funzione di vita, è concetto tutto moderno, parallelo a quell’atteggiamento del pensiero e della cultura, che vede nelle testimonianze costruttive e artistiche del passato, a qualunque periodo esse appartengano, argomento di rispetto e di cura.

In pratica, le provvidenze che sono volte alla scoperta, alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio monumentale lasciatoci dai secoli si attuano in due tempi, vale a dire nello scavo e nel restauro propriamente detto.

Questi problemi raggiungono in Italia il valore essenziale di una questione nazionale per l’importanza e il numero delle opere architettoniche di tutti i tempi disseminate nelle varie regioni d’Italia, per il carattere multiplo di queste opere, per la gloria, la poesia, la bellezza che esse recano nelle nostre città, in molte delle quali tutto l’ambiente assume i1 carattere di monumento. A questo carattere risponde da un lato la legislazione italiana nel campo delle antichità e delle belle arti, la quale, nel fissare precise norme per la tutela delle opere d’aree pubbliche o private, ne ha fissato come oggetto non soltanto i monumenti maggiori, ma anche modesti edifici d importante interesse storico e artistico e gli elementi costituenti l’ambiente; d’altro lato vi rispondono la dottrina e la tecnica ormai affermate su questo tema, e l’attività concreta che negli ultimi cinquant’anni ha dato risultati di alta importanza, tanto che può dirsi essere questo dei restauri dei monumenti uno dei pochi caratteri ben determinati nella produzione architettonica. italiana di questo tempo.

Fino all’inizio del sec. XIX, pur non mancando esempî di edifici continuati secondo un disegno primitivo (come nelle cattedrali di Milano, di Firenze, di Orvieto) o di antichi monumenti adattati in rispondenza al primitivo concetto (Pantheon e tempio di Saturno a Roma, S. Apollinare nuovo di Ravenna, ecc.), il principio, normale era quello di sovrapporre l’arte del proprio tempo all’antica, o distruggendo, o mascherando o addossando. Primi restauri degni di tal nome furono, nel periodo tipicamente archeologico dell’impero napoleonico e della restaurazione papale, quelli volti alla liberazione e alla ricomposizione dei monumenti classici in Roma, come i templi dei Dioscuri e di Vespasiano, l’arco di Tito, la basilica Ulpia, il Colosseo.

In seguito i concetti si estesero a monumenti di altri periodi,. come in Francia a quelli del Medioevo, valorizzati dal pensiero romantico e dall’orgoglio nazionale, e ad applicazioni sempre più vaste praticamente e tecnicamente. Il Léon, nel tracciare la storia dei restauri francesi, distingue un periodo empirico, uno dottrinale, dominato dalla teoria del Viollet-le-Duc, e infine uno sperimentale, che tende a perfezionare la tecnica della stretta conservazione, mettendo in opera tutte le risorse offerte dai. materiali e dai procedimenti moderni.

Le numerose teorie svolte intorno al tema dei restauri hanno risposto a tendenze assai varie. Da parte degli archeologi e degli storici dell’arte è costante il concetto che, nel considerare

prevalentemente i monumenti come tema di studio e come documento storico, intende escludere ogni aggiunta e ogni diminuzione e vuole conservare tutte le fasi dello sviluppo, solo ammettendo provvedimenti statici di conservazione e di rinforzo. Talvolta il desiderio della conquista di cognizioni ha fatto prescindere quasi da simili preoccupazioni vitali; e infatti spesso gli scavi intrapresi con

* GIOVANNONI, Gustavo, Restauro - Restauro dei monumenti (ad vocem), in Enciclopedia Italiana di Scienze Lettere e Arti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondato da G. Treccani, 1936, vol. XXIX, pp. 127-130.

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soverchio entusiasmo hanno portato a rapide rovine, non seguiti dalla paziente, oscura, costosa opera di ripresa e consolidamento.

A questa tendenza quasi negativa spesso abbiamo visto associarsi scrittori romantici, come J. Ruskin, il quale pensa che i monumenti debbono lasciarsi serenamente morire, pur cercando di allontanare il giorno fatale con qualche onesta e semplice opera di provvisorio sostegno.

All’estremo opposto è la concezione che può dirsi architettonica, che vede nei monumenti la funzione d’arte, e soprattutto il valore unitario di massa e di stile. Si delinea cosi la figura del ripristino, pericoloso in quanto trascina quasi fatalmente nell’arbitrario e nel falso e perché fa spesso capo a tendenze egotistiche di committenti e di architetti.

Rappresentante massimo di queste tendenze fu il Viollet-le-Duc, il quale prendeva per temi i monumenti-tipo, rappresentanti di un’epoca e di uno stile, e si proponeva di riportarli alla loro integrità originale, quale era stata o quale avrebbe dovuto essere, sostituendo le parti mancanti con elementi nuovi desunti da monumenti similari e distruggendo le opere posteriori. In Francia, nella seconda metà del secolo XIX, oggetto di siffatta attîvità restauratrice furono, sotto il presidio della Commission des monuments historiques, le grandi cattedrali del sec. XIII; ma pur nelle altre nazioni le applicazioni sono state frequenti, ad es., nell’addossamento di nuove facciate in stile antico, a Colonia, a Firenze, ad Arezzo, o nella decorazione dell’interno, ad Aquisgrana e a Padova, o in complete ricostruzioni a Bologna, a Milano, a Messina.

Tra i due concetti antitetici ora esposti si è fatta strada una teoria intermedia, sostenuta in Italia da C. Boito e da G. Giovannoni. Essa propugna di dare la massima importanza alle opere di manutenzione e di consolidamento, volte a salvare l’organismo stesso della fabbrica; limita i casi del ripristino a quelli in cui sia dimostrata la legittimità e l’utilità, ma piuttosto che dell’unità architettonica, si preoccupa della salvaguardia, nel monumento, di tutte le opere di vario tempo che abbiano un carattere d’arte. Negli elementi aggiunti richiede che sia precisa la documentazione col segnare date e sigle, e con l’adottare nel completamento di antiche linee, materiali diversi dai primitivi e sagome d’inviluppo e ornati schematici in modo da ottenere un effetto sintetico senza l’inganno dell’imitazione precisa, secondo il classico esempio del restauro dell’arco di Tito eseguito da G. Valadier. Negli sviluppi di costruzione completamente nuova vuole che l’opera appaia tutta moderna, valendosi di espressioni semplici e aderenti alla costruzione, quasi elementi neutri che non aggiungano forme stilistiche né in armonia né in contrasto.

Questi criterî vanno maggiormente chiariti con alcune distinzioni. L’una è quella tra monumenti morti e monumenti vivi, lontani i primi dall’arte e civiltà moderne, rispondenti i secondi a un concetto e a una destinazione che ancora sussiste. Sono tra i primi i monumenti dell’antichità, per i quali è ordinariamente da escludersi una pratica utilizzazione e una trasformazione dallo stato di rudero con essenziali opere aggiunte. Tra i secondi si hanno palazzi e chiese, per i quali può praticamente, e spesso anche idealmente, apparire opportuno il riportarli a una funzione concreta non troppo diversa dalla primitiva, sicché il problema del ripristino, pur circondato di ogni garanzia, torna a presentarsi.

Un’altra classificazione può farsi nei riguardi dell’argomento prevalente nei restauri: restauri di consolidamento, in cui tutte le risorse della tecnica, e specialmente quelle modernissime delle strutture in ferro o in cemento armato, son chiamate a contributo per dare solidità e resistenza alle costruzioni stanche, fatiscenti, manchevoli; restauri di ricomposizione (anastilosi), quando gli elementi, ordinariamente in pietra da taglio, ritornano al proprio posto con le sole aggiunte di parti secondarie mancanti; restauri di liberazione, quando si tolgono masse amorfe che all’esterno o all’interno chiudono il monumento e questo riprende il suo aspetto d’arte, semplice o multiplo; restauri di completamento e di rinnovazione, in cui le aggiunte, rispondenti ai principî suindicati, tendono a reintegrare l’opera o a utilizzarla con elementi nuovi.

In Italia questo così vasto e significativo campo di attività ha un’organizzazione statale, la quale, con una preparazione specifica che in così delicata materia nessun altro ufficio tecnico potrebbe avere,

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ha il compito di sorvegliare, di guidare e promuovere, e attuare studî e lavori. Le sovrintendenze alle antichità e all’arte medievale e moderna hanno appunto tale ufficio, quali organi periferici della Direzione delle antichità e belle arti del Ministero dell’educazione nazionale, di cui il Consiglio superiore delle antichità e belle arti nelle sue sezioni 1a e 2a è l’organo di consulenza, al quale spetta dare il parere sui singoli casi, mantenendo unità di criterî e di giudizio.

In quest’unità può appunto rilevarsi la costanza da circa un venticinquennio, nell’applicazione pur adattata alle mutevoli e complesse esigenze della realtà, dei concetti della teoria intermedia che si è poc’anzi formulata. Essi sono stati recentemente concretati in una «Carta del restauro», che è, o dovrebbe essere, canone fondamentale per le sovrintendenze e per le iniziative da esse controllate.

I capisaldi di questa carta del restauro sono: 1. Che al disopra di ogni altro intento debba la massima importanza attribuirsi alle cure assidue di

manutenzione e alle opere di consolidamento, volte a dare nuovamente al monumento la resistenza e la durevolezza tolta dalle menomazioni o dalle disgregazioni.

2. Che il problema del ripristino mosso dalle ragioni dell’arte e della unità architettonica strettamente congiunte col criterio storico, possa porsi solo quando si basi su dati assolutamente certi forniti dal monumento da ripristinare e non su ipotesi, su elementi in grande prevalenza esistenti, anziché su elementi prevalentemente nuovi.

3. Che nei monumenti lontani ormai dai nostri usi e dalla nostra civiltà, come sono i monumenti antichi, debba ordinariamente escludersi ogni completamento; e solo sia da considerarsi l’anastilosi, cioè la ricomposizione di esistenti parti smembrate con l’aggiunta eventuale di quegli elementi neutri che rappresentino il minimo necessario per integrare la linea e assicurare le condizioni di conservazione.

4. Che nei monumenti che possono dirsi viventi siano ammesse solo utilizzazioni non lontane dalle destinazioni primitive, tali da non recare negli adattamenti necessarî alterazioni essenziali all’edificio.

5. Che siano conservati tutti gli elementi aventi un carattere d’arte o di storico ricordo, a qualunque tempo appartengano, senza che il desiderio dell’unità stilistica e del ritorno alla primitiva forma intervenga a escluderne alcuni a detrimento di altri; e solo possano eliminarsi quelli, come le murature di finestre o d’intercolunnî di portici, che, privi d’importanza e di significato, rappresentino deturpamenti inutili; ma che il giudizio su siffatti valori relativi e sulle rispondenti eliminazioni debba in ogni caso essere assolutamente vagliato, e non rimesso a un giudizio personale dell’autore di un progetto di restauro.

6. Che insieme col rispetto per il monumento e per le sue varie fasi proceda quello delle sue condizioni ambientali, le quali non debbono essere alterate da inopportuni isolamenti, da costruzione di nuove fabbriche prossime, invadenti per massa, per colore, per stile.

7. Che nelle aggiunte che si dimostrassero necessarie, o per ottenere il consolidamento, o per raggiungere lo scopo di una reintegrazione totale o parziale, o per 1a pratica utilizzazione del monumento, il criterio essenziale da seguirsi debba essere, oltre a quello di limitare tali elementi nuovi al minimo possibile, altresì quello di dare a essi un carattere di nuda semplicità e di rispondenza allo schema costruttivo, e che solo possa ammettersi in stile similare la continuazione di linee esistenti nei casi in cui si tratti di espressioni geometriche prive d’individualità decorativa.

8. Che in ogni caso debbano siffatte aggiunte essere accuratamente ed evidentemente designate o con l’impiego di materiale diverso dal primitivo, o con l’adozione di cornici d’inviluppo, semplici e prive di intagli, o con l’applicazione di sigle o di epigrafi, per modo che mai un restauro eseguito possa trarre in inganno gli studiosi e rappresentare una falsificazione di un documento storico.

9. Che allo scopo di rinforzare la compagine stanca di un monumento o di reintegrarne la massa, tutti i mezzi costruttivi modernissimi possono recare ausilî preziosi, e sia opportuno valersene, quando l’adozione di mezzi costruttivi analoghi agli antichi non raggiunga lo scopo; e che, del pari, i sussidî

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sperimentali delle varie scienze debbano esser chiamati a contributo per tutti gli altri temi minuti e complessi di conservazione delle strutture fatiscenti, nei quali ormai i procedimenti empirici debbono cedere il campo a quelli rigidamente scientifici.

10. Che negli scavi e nelle esplorazioni che rimettono in luce antiche opere, il lavoro di liberazione debba essere metodicamente e immediatamente seguito dalla sistemazione dei ruderi e dalla stabile protezione di quelle opere d’arte rinvenute, che possono conservarsi in situ.

11. Che come nello scavo, così nel restauro dei monumenti sia condizione essenziale e tassativa che una documentazione precisa accompagni i lavori mediante relazioni analitiche raccolte in un giornale del restauro e illustrate da disegni e da fotografie, sì che tutti gli elementi determinati nella struttura e nella forma del monumento, tutte le fasi delle opere di ricomposizione, di liberazione, di completamento risultino acquisiti in modo permanente e sicuro.

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Alois Riegl Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi (1903)*

I valori dei monumenti. Lo sviluppo storico dei valori Con monumento, nel senso più originale ed antico del termine, si intende un’opera della mano

dell’uomo, creata allo scopo determinato di conservare sempre presenti e vivi singoli atti o destini umani (o anche aggregati di questi) nella coscienza delle generazioni a venire. Può trattarsi di un monumento d’arte o della scrittura, a seconda che esso notifichi all’osservatore l’avvenimento da immortalare soltanto con il modo espressivo tipico dell’arte figurativa oppure con l’aiuto di una epigrafe. Più spesso ambedue i generi sono combinati tra loro. L’erezione e la tutela di tali monumenti «intenzionali», che possono essere rintracciate fin dai tempi più remoti e documentabili della cultura, non sono affatto cessate ai nostri giorni. Ma quando parliamo del culto moderno dei monumenti e della loro salvaguardia non pensiamo quasi mai ai monumenti «intenzionali», ma ai «monumenti storici e artistici», come recitava finora l’espressione ufficiale, almeno in Austria. Questo termine, del tutto legittimo secondo le idee dominanti dal Cinquecento all’Ottocento, oggigiorno potrebbe causare malintesi, considerando la concezione del carattere del valore artistico che si è venuta affermando in tempi più recenti. Per questo bisogna esaminare prima di tutto che cosa si è inteso finora con «monumenti storici e artistici».

Secondo la definizione corrente, opera d’arte è ogni opera umana tangibile, visibile e udibile, che presenti un valore artistico; un monumento storico è ogni opera analoga che possieda un valore storico. In questa trattazione possiamo fin da ora decidere di escludere i monumenti udibili (la musica), perché, se mai ci interessassero in questo contesto, dovrebbero essere classificati come monumenti della scrittura. Dunque, solo in.relazione alle opere tangibili e visibili dell’arte figurativa (nel senso più ampio, cioè comprendendo tutte le creazioni della mano dell’uomo) dobbiamo chiederei: che cos’è il valore artistico e che cos’è il valore storico?

Evidentemente il valore storico è quello più ampio e per questa ragione dobbiamo trattario per primo. Si chiama storico tutto ciò che è stato e che oggi non esiste più. Secondo i più moderni concetti noi con ciò chiamiamo in causa questo ulteriore modo di vivere: quello che è stato una volta non può più essere di nuovo e tutto ciò che è stato rappresenta l’anello insostituibile e inamovibile di una catena di sviluppo; oppure, in altre parole: tutto quello che ha avuto luogo dopo è condizionato da ciò che è stato prima e non avrebbe potuto verificarsi – così come è avvenuto in realtà – senza l’anello precedente. Il nocciolo di ogni concezione storica moderna è appunto l’idea dello sviluppo. Quindi, secondo i concetti moderni, qualunque attività e ciascun destino umano, del quale ci sia pervenuta una testimonianza o notizia, senza eccezione, può rivendicare un valore storico: in fondo ogni avvenimento storico vale per noi come insostituibile. Poiché, però, non sarebbe possibile prendere in considerazione l’infinità di avvenimenti di cui si sono conservate testimonianze dirette e indirette e che si moltiplicano continuamente nel costante divenire, finora ci si è limitati di necessità a rivolgere l’attenzione prevalentemente o soltanto a quelle testimonianze che ci sembrano rappresentare tappe particolarmente rilevanti nel processo evolutivo di un campo determinato dell’attività umana. La testimonianza può essere un monumento della scrittura, la cui lettura desta delle immagini già comprese nella nostra coscienza, oppure un monumento d’arte, il cui contenuto viene percepito direttamente. Ed ecco che è * RIEGL, Alois, Der moderne Denkmalkultus. Seine Wesen und seine Entstehung, Wien-Leipzig, Braunmüller, 1903, trad. it. Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, in SCARROCCHIA, Sandro, Alois Riegl, teoria e prassi della conservazione dei monumenti, Bologna, CLUEB, 1995, pp. 173-207.

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importante rendersi conto che qualunque monumento d’arte è, senza eccezioni, anche un monumento storico, perché rappresenta un certo stadio dello sviluppo dell’arte figurativa, del quale in realtà non può esser trovato una sostituzione assolutamente equivalente. E viceversa, ciascun monumento storico è indubbiamente anche un monumento d’arte, perché anche un monumento della scrittura, così secondario come per esempio un pezzo di carta strappata con brevi appunti trascurabili, contiene, oltre ad un valore storico per lo sviluppo della produzione della carta, della scrittura, dei materiali occorrenti per scrivere ecc., tutta una serie di elementi artistici: l’aspetto del foglio, la forma delle lettere e il modo della loro composizione. S’intende che questi ultimi sono elementi così insignificanti che saranno trascurati in molti casi, perché siamo in possesso a sufficienza di altri monumenti in grado di fornirci, in maniera anche più ricca e dettagliata, all’incirca le stesse informazioni. Se però il foglio nominato fosse l’unica testimonianza conservata dell’attività artistica del suo tempo, nonostante la sua povertà, dovremmo considerarlo come monumento d’arte del tutto indispensabile. Ma l’arte che qui riscontriamo ci interessa innanzitutto dal punto di vista storico: il monumento ci sembra anello indispensabile nella catena di sviluppo della storia dell’arte. Il «monumento artistico» quindi rappresenta in questo senso proprio un «monumento storico artistico». Il suo valore, da questo punto di vista, non è un «valore artistico», ma un valore storico». Donde risulterebbe che la separazione tra «monumenti artistici e monumenti storici» non sia appropriata, perché i monumenti artistici fanno parte di monumenti storici e germinano nel loro stesso ambito.

Ma è davvero soltanto il valore storico che apprezziamo nei monumenti d’arte? Se così fosse, tutte le opere d’arte dei tempi trascorsi, oppure anche tutti i periodi dell’arte, ai nostri occhi dovrebbero avere lo stesso valore e al massimo dovrebbero aumentare di interesse in ragione della loro rarità o della maggiore antichità.

In realtà talvolta apprezziamo opere più tarde in luogo di opere più antiche; un Tiepolo del Settecento, per esempio, si stima oggi più dei Manieristi del Cinquecento. Quindi, insieme all’interesse per quanto vi è di storico nell’opera d’arte antica, sicuramente ce ne deve essere ancora un altro fondato sulle qualità artistiche, cioè la qualità di concezione, di forma e di colore. Evidentemente, oltre al valore storico artistico che per noi possiedono tutte le opere antiche d’arte (cioè i monumenti) senza eccezione, c’è anche un puro valore artistico, il quale permane indipendentemente dalla posizione dell’opera d’arte nella catena dello sviluppo. Questo valore artistico è allora un valore dato nel passato altrettanto oggettivamente che quello storico, cosicché costituisce una parte essenziale del concetto di monumento, indipendentemente da quanto vi è di storico? Oppure è un valore soggettivo, inventato dal moderno osservatore, stabilito a suo piacimento, nel qual caso il valore artistico non avrebbe posto alcuno nel concetto di monumento come opera di valore in quanto memoria?

In base alla risposta a questa domanda oggi si individuano i seguaci di due opinioni: un’opinione antica non ancora superata e una nuova che si viene affermando. Dagli anni del Rinascimento, in cui, come sarà mostrato più avanti, il valore storico per la prima volta acquistò un’importanza riconosciuta, fino all’inizio del Novecento è valsa la concezione che esista un inviolabile canone artistico, un ideale artistico oggettivo assolutamente valido, cui tenderebbero tutti gli artisti, e che, però, quasi nessuno possa completamente raggiungere. Dapprima si riteneva che il mondo antico si fosse avvicinato maggiormente a quel canone, anzi si era del parere che rappresentasse in alcune sue creazioni l’ideale stesso. Finalmente l’Ottocento ha eliminato questa pretesa esclusiva dell’antico, e nello stesso tempo, ha emancipato quasi tutti gli altri periodi artistici conosciuti nel loro significato autonomo; ma per questo non ha abbandonato la fede in un ideale oggettivo dell’arte. Solo verso l’inizio del Novecento ci si è decisi a trarre dall’idea dello sviluppo storico la necessaria conseguenza e a spiegare tutte le creazioni per noi irreparabilmente trascorse e perciò in nessun modo rilevanti come canone. Se tuttavia non ci limitiamo all’apprezzamento artistico di opere moderne bensì valutiamo anche opere antiche in virtù della loro idea, della forma e del loro colore e se le preferiamo talvolta anche a quelle moderne, questo (a prescindere dal fattore estetico, continuamente presente, dell’interesse storico) si spiega per il

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fatto che certe opere d’arte antiche corrispondono al moderno Kunstwollen (4), anche se ad esso non corrispondono mai interamente, ma solo in alcuni elementi. Proprio una tale analogia di particolari in un contesto diverso conferisce ai primi una tale efficacia su noi contemporanei, quale un’opera d’arte moderna, che necessariamente deve rinunciare a quel contesto, non potrà mai sviluppare. Secondo le idee d’oggi non esiste quindi un valore artistico assoluto, ma solo un valore relativo, moderno.

Sicché anche la definizione del concetto di «valore artistico» deve essere diversa; essa dipende dal punto di vista che si sostiene, l’antico o il moderno.

Secondo l’opinione più arcaica un’opera d’arte possiede un valore artistico in, quanto essa corrisponde alle pretese di un’estetica ritenuta oggettiva e finora mai definita in modo ineccepibile. Secondo la concezione moderna il valore artistico di un monumento si valuta per quanto il monumento in questione viene incontro alle pretese del moderno Kunstwollen, pretese che, ovviamente, hanno trovato ancora meno una formulazione chiara e a rigore non potranno mai trovarla, perché cambiano sempre da soggetto a soggetto e di momento in momento.

È perciò una premessa essenziale per il nostro compito rendersi ben conto di questa differenza nella concezione del carattere del valore artistico, perché con ciò l’indirizzo principale della tutela dei monumenti viene influenzato in modo decisivo. Se esiste solo un valore artistico e moderno, e non uno eterno, allora il valore artistico di un monumento non è più un valore in quanto memoria, ma un valore contemporaneo. La tutela dei monumenti deve tener conto di questo, perché il valore artistico, che è in un certo qual modo un valore pratico fluttuante, pretende sempre più urgentemente considerazione in confronto al valore storico e in quanto memoria di un monumento; questo valore però è da eliminare dal concetto di «monumento». Se ci si dichiara per la concezione del carattere del valore artistico che si è sviluppato irresistibilmente negli ultimi tempi come risultato finale dell’attività complessiva di ricerca storico artistica, incalcolabile nelle sue specificazioni, compiuta nell’Ottocento, d’ora innanzi non si dovrà più parlare di «monumenti artistici e storici», ma soltanto di «monumenti storici» e solamente in tal senso questa espressione troverà in seguito applicazione.

I monumenti storici allora sono monumenti «involontari» in contrasto con quelli intenzionali; ma a priori è chiaro che tutti i monumenti intenzionali possono essere contemporaneamente anche involontari e rappresentano solo una piccola frazione di questi. Con le opere che ai nostri giorni sembrano monumenti storici i creatori di un tempo volevano soprattutto soddisfare certe esigenze pratiche o ideali di se medesimi, dei loro contemporanei e, al massimo, degli eredi prossimi e di regola, probabilmente, non pensarono di lasciare con ciò alle generazioni successive testimonianze della loro vita e della loro creazione artistica culturale. Per questo il termine «monumenti», che nonostante tutto attribuiamo abitualmente a queste opere, può essere inteso soltanto in senso soggettivo e non oggettivo. Il senso e il significato di monumenti non spettano alle opere in virtù della loro destinazione originale, ma siamo piuttosto noi, i soggetti moderni, che li attribuiamo ad esse. In tutti e due i casi – per i monumenti intenzionali e per quelli involontari – si tratta di un valore in quanto memoria, e per ciò parliamo di monumenti riferendoci a entrambi. In entrambi ci interessa, inoltre, l’opera nella sua forma originale non snaturata, così come discese dalla mano del suo creatore e in cui cerchiamo di vederla o almeno di ripristinarla concettualmente, moralmente o visivamente. Nel primo caso però il valore in quanto memoria ci è imposto dagli altri (cioè da quelli che ne furono i creatori), nel secondo è fissato da noi stessi […].

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Il rapporto dei valori in quanto memoria con il culto dei monumenti Dei monumenti abbiamo conosciuto tre diversi valori in quanto memoria e ora dobbiamo

esaminare quali richieste, nei confronti del culto dei monumenti, derivino dal carattere specifico di ciascuno di questi. Esamineremo poi tutti gli altri valori che un monumento può offrire all’uomo moderno; nel loro complesso, questi ultimi possono, come valori contemporanei, essere opposti ai valori del passato, ai valori in quanto memoria.

Conia discussione dei valori in quanto memoria bisogna partire dal valore dell’antico non solo perché è il più attuale e avanza anche delle pretese sul futuro, ma perché presenta un numero relativamente maggiore di monumenti.

Il valore dell’antico Il valore dell’antico di un monumento si rivela a prima vista in quanto apparenza non moderna.

Per l’esattezza, questo aspetto antiquato non si fonda tanto sulla forma stilistica, perché lo stile e il giudizio su di esso sarebbero quasi esclusivamente riservati alla cerchia, relativamente ristretta, degli storici dell’arte. Il valore dell’antico invece pretende di influire sulle grandi masse. Il contrasto con il presente, sul quale è fondato tale valore, si rivela piuttosto in una imperfezione, in una mancanza di organicità, in una tendenza al degrado della forma e dei colori. Queste qualità sono decisamente contrapposte alle qualità delle creazioni sorte di recente, cioè moderne. […]

La mancanza di organicità, quindi, nelle opere moderne ci disgusterebbe solamente: noi non costruiamo perciò rovine (eccetto che per falsificarle); una casa di recente costruzione, con l’intonaco fatiscente o coperto di fuliggine provoca nell’osservatore un’impressione sgradevole, perché in una casa nuova egli richiede una finitezza completa nella forma e nella composizione dei colori. I segni del trascorrere del tempo in ciò che è sorto in epoca recente non producono un effetto suggestivo ma, al contrario, irritante. Appena l’individuo (sia esso creato dall’uomo oppure dalla natura) è formato, comincia l’attività distruttiva della natura, cioè delle sue forze meccaniche e chimiche, che tentano ancora una volta di scomporre l’individuo nei suoi elementi e di combinarlo con la amorfa totalità della natura. Dalle tracce di questa attività si comprende che un monumento non è sorto in tempi recentissimi, bensì in un tempo più o meno passato, e sulla chiara possibilità di percepire le sue tracce si fonda perciò il valore dell’antico di un monumento. L’esempio più drastico è offerto, com’è già stato detto, dalle rovine che sono derivate dall’insieme concluso di un castello a causa di un lento distacco di parti rilevanti di materiale. Con maggiore efficacia, però, il valore dell’antico si impone per l’effetto, meno violento e ovviamente più ottico che tattile, della disgregazione della superficie (decomposizione, patina) e per l’effetto inoltre che procurano gli angoli e gli spigoli consumati o altre vicissitudini. Tutto ciò testimonia il lavoro di degrado operato dalla natura, degrado lento ma sicuro e ininterrotto, come un lavoro regolare e inarrestabile.

Quindi la legge estetica fondamentale del nostro tempo, che consiste nel valore dell’antico, si può definire nel modo seguente: dalla mano umana esigiamo la produzione di opere concluse come simboli del divenire necessario e regolare; dalla natura che agisce nel tempo esigiamo invece il degrado di quel carattere concluso come il simbolo dell’altrettanto necessario e regolare trascorrere. Nelle opere umane recenti disturbano i segni del trascorrere del tempo (di una decadenza prematura) nello stesso modo in cui nelle opere antiche ci disturbano i segni di un nuovo divenire (restauri vistosi). È piuttosto della limpida percezione del corso circolare e regolare del divenire e del trascorrere del tempo secondo la legge di natura che l’uomo moderno si rallegra, a cominciare dall’inizio del Novecento. In questo caso ogni opera umana viene intesa come un organismo naturale, nel cui sviluppo nessuno deve ingerirsi: l’organismo deve vivere liberamente e, tutt’al più, l’uomo ha il dovere di proteggerlo da un’estinzione prematura […].

Quindi il monumento stesso non deve essere sottratto all’effetto di degrado delle forze naturali, nella misura in cui questo effetto ha luogo in una continuità indisturbata e regolare, e non già in seguito

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ad una distruzione improvvisa e violenta, per quanto, in generale, ciò sia nel potere dell’uomo. Deve essere evitato, in ogni modo, dal punto di vista del valore dell’antico, l’intervento arbitrario della mano dell’uomo sulla consistenza raggiunta dal monumento; esso non deve subire né una addizione né una riduzione, né il completamento di quanto si è degradato coll’andar del tempo ad opera della natura, né l’eliminazione di quanto si è aggiunto al monumento deformandone al contempo la forma originale conclusa […]. In relazione a ciò, il culto del valore dell’antico non condanna soltanto ogni distruzione forzata del monumento ad opera dell’uomo come intervento sconsiderato nell’attività di degrado svolta dalla natura, per cui favorirebbe – in un certo senso – il mantenimento del monumento, ma, almeno in linea di principio, condanna anche ogni attività di conservazione, il restauro come non meno ingiustificato intervento nel dominio delle leggi naturali; per ciò il culto di detto valore è rivolto direttamente contro la conservazione del monumento. Poiché di ciò non si può dubitare: la libera attività delle forze della natura deve condurre inevitabilmente alla completa distruzione del monumento. Le rovine diventano sempre più pittoresche, quante più parti di esse cedono al degrado; con la dissoluzione crescente il loro valore dell’antico diventa certamente sempre più ridotto, diventa cioè un valore provocato da parti che diminuiscono; per questo stesso motivo, però, è sempre più intenso, cioè i frammenti che restano producono un effetto più efficace sull’osservatore. Ma questo processo ha anche un suo limite; perché se alla fine la capacità estensiva dell’effetto andrà completamente perduta, non resterà più neppure alcuna base per un effetto intensivo. Un semplice mucchio di sassi non è sufficiente per offrire un valore dell’antico: ci deve essere almeno ancora una chiara traccia della forma originale dell’opera umana antica, di un divenire ormai passato. Un mucchio di sassi invece rappresenta soltanto un frammento morto e senza forma della natura nella sua totalità senza traccia di un divenire che sopravvive.

Così il culto del valore dell’antico lavora alla sua stessa distruzione. I suoi assertori radicali non leveranno invero nessuna protesta contro questa conclusione. In primo luogo l’attività di degrado delle forze della natura è un’attività tanto lenta che anche i monumenti millenari probabilmente rimarranno per noi fruibili ancora per un tempo ragionevole – o meglio – per la prevedibile durata di questo culto. Anche il divenire ha il suo sviluppo costante e ininterrotto: quello che oggi è moderno e che, in corrispondenza alle leggi del divenire, si presenta come un insieme individuale, a poco a poco diventerà monumento e andrà a colmare il vuoto che le forze della natura dominanti nel tempo inesorabilmente lasceranno nel patrimonio monumentale che ci è stato tramandato. Dal punto di vista del valore dell’antico infatti non la conservazione dei monumenti di un divenire lontano deve essere mantenuta in eterno per opera dell’intervento umano, quanto piuttosto la perenne esposizione al pubblico del corso circolare del divenire e del trascorrere; tale esposizione è garantita anche se i monumenti oggi esistenti saranno sostituiti in futuro da altri monumenti.

Com’è già stato indicato prima, il valore dell’antico ha dunque un vantaggio su tutti gli altri valori ideali dell’opera d’arte: ritiene di potersi rivolgere a tutti e di essere valido per tutti senza eccezione. Afferma di essere al di sopra della diversità tra differenti livelli culturali, tra intenditori d’arte e persone completamente sfornite di conoscenze artistiche […]. Una moderna tutela dei monumenti dunque, in primo luogo, dovrà tener conto di questo valore. Ciò naturalmente non può e non deve impedire ad essa di verificare il diritto di esistenza degli altri valori di un monumento – valori in quanto memoria e valori contemporanei – quando ne incontra; né di valutarne la rispettiva legittimità in contrasto col valore dell’antico e di salvaguardare quelli quando questo dovesse risultare scarso.

Il valore storico Il valore storico di un monumento consiste nel fatto che ci rappresenta un grado preciso, per così

dire singolare, dello sviluppo di qualche campo creativo dell’umanità. Da questo punto di vista, del monumento non ci interessano le tracce degli effetti naturali del degrado, che si sono manifestate nel

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tempo trascorso dalla sua origine, ma ci interessa il suo stato iniziale in quanto opera umana. Il valore storico è tanto più alto quanto più è trasparente il grado in cui si manifesta lo stato originale concluso del monumento, posseduto al tempo della realizzazione. Per il valore storico, le alterazioni e le degradazioni parziali sono un’aggiunta, sgradita e di disturbo […]. Il compito dello storico è di riempire di nuovo con tutti i mezzi ausiliari disponibili i vuoti che coll’andar del tempo le influenze della natura hanno prodotto nella creazione originale. I sintomi del degrado, che per il valore dell’antico sono la cosa principale, dal punto di vista del valore storico devono essere eliminati con tutti i mezzi. Ma ciò non deve accadere al monumento originale, bensì ad una copia o soltanto con riflessioni o descrizioni. Quindi per principio anche il valore storico considera il monumento originale come intangibile, per una ragione completamente diversa dal valore dell’antico. Per il valore storico non si tratta di conservare le tracce dell’antico e le trasformazioni causate dalle influenze naturali nel tempo trascorso dalla realizzazione, che giudica almeno indifferenti se non moleste; ma, piuttosto, di conservare un documento quanto più inalterato possibile per una futura attività di integrazione della ricerca storico artistica. Il valore storico sa che tutte le speculazioni e le ricostruzioni umane sono esposte all’errore soggettivo; dunque il documento come l’unico dato certo deve rimanere conservato il più intatto possibile, perché le generazioni future possano controllare i nostri tentativi di ricostruzione ed eventualmente sostituirli con altri migliori e più fondati […].

Fortunatamente nelle questioni della pratica conservativa si verifica un’occasione esterna di conflitto tra il valore dell’antico e il valore storico assai più raramente di quanto possa sembrare a prima vista. Infatti entrambi i valori rivali sono inversamente proporzionali tra loro: più è grande il valore storico e più è scarso il valore dell’antico. Poiché il valore storico, più schietto, per così dire oggettivamente tangibile, si impone con forza, il valore dell’antico, più intimo, viene soffocato; il valore storico, specialmente nel caso di un monumento intenzionale, cresce fino a comportare la sopraffazione del valore dell’antico […].

Davanti alle colonne di Ingelheim (") nel cortile del castello di Heidelberg, ognuno pensa così prepotentemente al Palazzo di Carlo Magno, del quale una volta costituivano ornamento, che l’effetto di un’atmosfera di antico senza soluzione di continuità da questo raffronto viene quasi completamente soffocato. In tal caso non dovrebbero esserci problemi sul fatto che il trattamento del monumento debba accordarsi alle esigenze del culto storico e non a quelle dell’antico. E viceversa, in ogni caso in cui il valore storico (documentario) del monumento è un valore insignificante, il suo valore dell’antico si manifesterà tanto più unitariamente, e dovrà essere regolato in corrispondenza alle esigenze di quest’ultimo.

Ma non di rado si verifica il caso che il valore dell’antico debba richiedere l’intervento della mano dell’uomo nel corso della vita di un monumento, intervento che di solito viene proibito per principio. Ciò si verifica nel caso in cui il monumento diventa oggetto di una distruzione prematura da parte delle forze della natura, di una veloce e anormale degradazione del suo organismo. Se, per esempio, si osserva che un affresco minaccia di andar in rovina rapidamente davanti ai nostri occhi, oggi anche un fautore del valore dell’antico non potrà opporsi all’applicazione di una tettoia sopra l’affresco, sebbene ciò comporti, senza dubbio un intervento della mano dell’uomo moderno che ostacola il corso indipendente delle forze della natura […]. Gli interessi di entrambi i valori in tale caso vanno di pari passo, almeno apparentemente: sebbene al valore dell’antico importi soltanto un rallentamento, al valore storico invece un impedimento completo del processo di degrado. Per l’attuale tutela dei monumenti appunto rimane sempre come obiettivo principale evitare un conflitto tra tutti e due i valori […].

Tuttavia il conflitto non assumerà quasi mai forme assai acute nelle questioni di conservazione, grazie a provvedimenti esterni, nei quali entrambi i valori possono avanzare di pari passo, ma soprattutto in questioni di restauro, legate al cambiamento di forma e di colore; perché il valore dell’antico in tale ambito è molto più sensibile del valore storico. Se da una torre antica vengono tolte

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alcune pietre lesionate e sostituite da nuove, il valore storico della torre subirà un danno poco considerevole perché innanzitutto la forma fondamentale originale è rimasta la stessa e l’antico è stato conservato sufficientemente per la valutazione di tutti i problemi ad esso inerenti. Perciò le poche pietre sostituite possono essere considerate praticamente del tutto fuori questione, mentre per il valore dell’antico anche questi semplici materiali rappresentano una grave alterazione, specialmente quando risultano in modo stridente nella massa dell’antico per il loro colore «nuovo» (aspetto al quale, in quanto elemento relativo soggettivo all’interno della apparenza oggettiva di ciascuna cosa considerata nel suo complesso, il tempo moderno è particolarmente sensibile).

Infine si deve osservare che il culto del valore storico, sebbene riconosca solo allo stato originale di un monumento un valore completamente documentario, ciò nonostante annette un valore, benché limitato, anche alla copia, nel caso in cui l’originale (il documento) vada irrimediabilmente perduto. Un conflitto insolubile con il valore dell’antico si dà soltanto se la copia non si presenta in un certo modo come apparato ausiliario perla ricerca scientifica, ma come completo sostituto dell’originale con pretesa di apprezzamento storico estetico (il campanile di S. Marco). Finché tali casi si verificano, il valore storico non può essere considerato ancora come superato, e il valore dell’antico non può assurgere a unico valore estetico in quanto memoria del genere umano.

Il valore intenzionale in quanto memoria Già il valore storico aveva mostrato di fronte al valore dell’antico, che stima soltanto il passato in

quanto tale, la tendenza ad isolare dal passato un momento dello sviluppo storico e presentarlo in modo così nitido davanti ai nostri occhi come se fosse parte integrante del presente. In generale il valore intenzionale in quanto memoria ha sin dall’inizio, cioè dalla costruzione di un monumento, la funzione precisa di non permettere quasi mai che il monumento diventi passato, di conservarlo sempre presente e vivo nella coscienza dei posteri. Di conseguenza questa terza classe di valori in quanto memoria costituisce la transizione evidente ai valori contemporanei.

Mentre il valore dell’antico è fondato solamente sul passato e il valore storico da qui in avanti vuole impedirne il completo trascorrere – anche se, senza questo trascorrere, non avrebbe alcun diritto di esistenza – il valore intenzionale in quanto memoria avanza tout-court l’esigenza di intramontabilità, di eterno presente, di ininterrotto stato di formazione. Le forze della natura che provocano il degrado e che si oppongono al compimento di questa aspirazioni e perciò devono essere appassionatamente combattute, i loro effetti devono essere continuamente paralizzati. Una colonna monumentale per esempio, la cui iscrizione si sia cancellata col tempo, cesserebbe di essere un monumento intenzionale. Di conseguenza il postulato fondamentale dei monumenti intenzionali è costituito dal restauro […].

Questo conflitto implacabile tra valore dell’antico e valore intenzionale in quanto memoria comporta, però, meno difficoltà di quanto a prima vista si potrebbe pensare, perché il numero di monumenti «intenzionali» è relativamente ridotto di fronte alla grande massa dei monumenti puramente involontari.

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La relazione dei valori contemporanei con il culto dei monumenti La maggior parte dei monumenti possiede la capacità di soddisfare anche tali bisogni sensibili o

spirituali, per colmare i quali sarebbero altrettanto adatte (se non più adatte) creazioni moderne e nuove Il valore contemporaneo di un monumento si fonda proprio su quella capacità [...]. Dal punto di vista di questo valore, si è disposti fin dall’inizio a considerare il monumento non in quanto tale, bensì come creazione moderna or ora prodotta e, per ciò, anche a richiamare dal monumento (antico) l’apparenza esterna di ogni opera umana (nuova) nello stato originale di realizzazione; vale a dire l’impressione di totale compiutezza e integrità dalle influenze della natura apportatrici di distruzione [...]. Il trattamento di un monumento secondo i principi del culto del valore dell’antico – che, per principio sempre, e in pratica nella maggior parte dei casi, vorrebbe abbandonare le cose alloro destino naturale – in ogni circostanza in definitiva comporta un conflitto con il valore contemporaneo, che può concludersi unicamente con la rinuncia (completa o parziale) a uno dei due valori.

Come già detto, il valore contemporaneo ha le sue radici nel soddisfacimento dei bisogni naturali o intellettuali; nel primo caso parliamo del valore d’uso pratico o decisamente di valore d’uso, nel secondo caso del valore artistico. A proposito del valore artistico bisogna distinguere tra il valore elementare o valore di novità, che è fondato sul carattere compiuto di un’opera or ora condotta a termine, e il valore artistico relativo, che è fondato sulla concordanza con il moderno Kunstwollen [...].

Il valore d’uso La vita fisica è la premessa per ogni vita psichica e, proprio per questo, è più importante di

quest’ultima, perché la vita fisica può svilupparsi anche senza vita psichica superiore mentre non può accadere il contrario. Perciò, per esempio, un edificio antico che ancora oggi viene utilizzato, deve essere conservato in una condizione tale che possa alloggiare uomini senza metterne in pericolo la vita e la salute. Ogni lesione provocata dalle forze della natura deve essere sanata immediatamente; l’infiltrazione dell’umidità deve essere impedita o almeno bloccata, e così via. Dunque in generale si potrebbe dire che per natura il valore d’uso sia del tutto indifferente al trattamento subito da un monumento finché non venga intaccata la sua esistenza, ma che però assolutamente non possa fare alcuna concessione al valore dell’antico […]. Non c’è bisogno di provare che esistono monumenti laici ed ecclesiastici che ancora oggi sono idonei per l’uso pratico e sono effettivamente usati. Il sottrarli a questo uso ne implicherebbe nella maggior parte dei casi la sostituzione. Questa esigenza è talmente costrittiva che la contropartita del valore dell’antico di abbandonare i monumenti al loro destino naturale, potrebbe esser presa in considerazione solo alla condizione di voler creare delle opere sostitutive di valore equivalente per tutti i monumenti in questione. La realizzazione pratica di questa esigenza però è tuttavia possibile in pochi casi eccezionali; perché contro ciò si oppongono difficoltà insormontabili […].

Ugualmente ineluttabili d’altronde sono gli aspetti negativi del valore d’uso, che si manifestano quando la considerazione dei bisogni materiali umani comporta la eliminazione di un monumento, per esempio quando la degradazione naturale metta in pericolo l’incolumità fisica degli uomini (una torre che minaccia di crollare). Il tener conto del valore della incolumità fisica prevale alla fine, senza dubbio, su ogni possibile attenzione al bisogno ideale del valore dell’antico.

Supponiamo inoltre che per tutti i monumenti utilizzabili possa essere creato davvero un sostituto moderno, cosicché gli originali antichi senza interventi di restauro, e in conseguenza della sostituzione anche privi di alcuna utilità pratica, possano concludere la loro esistenza naturale. Così avremo davvero giovato in sommo grado alle richieste del valore dell’antico? La domanda non solo è pienamente giustificata ma implica anche una risposta decisamente negativa; perché una parte essenziale di quel gioco vivente delle forze della natura, la cui percezione è presupposto del valore dell’antico, andrebbe perduta irreparabilmente con la cessazione dell’utilizzo dei monumenti. Chi per esempio nella basilica di S. Pietro a Roma vorrebbe rinunciare alla presenza dei moderni visitatori e allo svolgimento di

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funzioni religiose? Analogamente anche il sostenitore più radicale del valore dell’antico troverà di disturbo, più che di stimolo, la vista dei resti dell’incendio di una casa distrutta da un fulmine, anche se le rovine potrebbero richiamare l’attenzione sull’antica origine dell’edificio. Analogamente accadrebbe per le rovine di una chiesa in una strada piena di vita. Si tratta infatti di opere che di solito vediamo pienamente utilizzate e che, quando non trovano più quella fruizione a noi familiare, suscitano l’impressione di una distruzione violenta, che risulta intollerabile anche al culto del valore dell’antico. Invece, resti di monumenti che per noi non hanno più significato pratico e nei quali di conseguenza non sentiamo la mancanza dell’attività umana come forza efficace della natura (come per esempio le rovine di un castello medievale in una erta selvaggia nelle montagne, oppure le rovine di un tempio romano anche nelle strade frequentate di Roma), sviluppano pienamente il fascino del valore dell’antico. Dunque non siamo ancora al punto di applicare uniformemente la pura misura del valore dell’antico per tutti i monumenti senza selezione di sorta […].

Se dunque l’utilizzazione pratica e continua di un monumento possiede anche per il valore dell’antico un significato importante e senz’altro spesso indispensabile, la possibilità di un conflitto tra detto valore e il valore d’uso, che finora appariva ancora come inevitabile, viene con ciò nuovamente a restringersi. A proposito delle opere dell’antichità e dell’alto medioevo, da noi relativamente rare, un tale conflitto certamente non può aver luogo, perché queste opere, tranne alcune eccezioni, da molto tempo sono comunque sottratte all’utilità pratica. Alle opere recenti, invece, il culto del valore dell’antico accorderà facilmente quelle concessioni alla manutenzione, le quali appunto dovrebbero garantire a quei monumenti l’idoneità alla circolazione e fruizione umana, auspicata anche dal punto di vista di questo valore. Per ciò la possibilità di un conflitto tra il valore d’uso e il valore dell’antico nel caso più immediato è data da quei monumenti che si trovano al limite tra quelli utilizzabili e quelli che non lo sono, tra medioevali e moderni; e in tali casi senza dubbio la vittoria spetterà a quei valori, le cui richieste sono conformi a quelle espresse dagli altri valori concomitanti [...].

Il valore artistico Come vuole la concezione moderna, ogni monumento per noi possiede un valore artistico, in

quanto corrisponde alle esigenze del moderno Kunstwollen. Si tratta anzi, a questo proposito, di due esigenze di specie diversa. La prima, il valore artistico la condivide con quella dei periodi artistici precedenti in quanto anche ogni opera d’arte moderna, come ogni recente creazione, deve apparire come conclusa, non caduta in degrado né nella forma né nel colore. In altre parole: ciascuna opera nuova solo in virtù di questa novità possiede già un valore artistico che si può denominare valore artistico elementare o brevemente valore di novità. La seconda esigenza, che non rivela ciò che lega il moderno Kunstwollen agli esempi di Kunstwollen precedenti, bensì ciò che lo separa da quelli, riguarda lo stato specifico del monumento sotto l’aspetto della concezione della forma e del colore. La cosa migliore sarebbe usare, perciò, l’espressione «valore artistico relativo», perché questa esigenza non rappresenta niente di oggettivo, niente di immutabile, bensì appare inserita in un processo costante di cambiamento. È chiaro fin da principio, che un monumento non può corrispondere completamente a una delle due esigenze.

Il valore di novità Poiché ogni monumento, secondo la sua età e altre circostanze, deve avere provato in grado

maggiore o minore l’effetto di degrado delle influenze della natura, il carattere concluso di forma e di colore, che è richiesto dal valore di novità, è per il monumento senza dubbio irraggiungibile. Per questo motivo, in ogni epoca e fino all’età contemporanea si sono considerate le opere d’arte vistosamente invecchiate come poco soddisfacenti per il moderno Kunstwollen, che muta continuamente. La conseguenza è evidente: se un monumento che porta con sé le tracce della degradazione deve piacere al volere moderno come noi lo abbiamo descritto, allora deve essere liberato dalla traccia dell’antico e,

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attraverso un ampio completamento in forma e colore, deve riguadagnare il carattere di novità tipico delle nuove creazioni. Per ciò il valore di novità può essere conservato in un solo modo, che è in contraddizione assoluta con il culto del valore dell’antico.

Si presenta allora la possibilità di un conflitto con il valore dell’antico, che, per acutezza ed inconciliabilità, supera tutti i conflitti esaminati precedentemente. Il valore di novità infatti è l’avversario più formidabile del valore dell’antico.

Il carattere concluso del nuovo, dell’appena sorto, che si manifesta nella caratteristica più semplice – di forma continua e policromia intatta – può essere giudicato da chiunque, anche se privo di qualsiasi formazione culturale. Per questo il valore di novità da sempre è stato il valore artistico delle masse meno colte; mentre il valore artistico relativo, almeno dall’inizio dell’epoca moderna, poteva essere apprezzato solo dalle persone con una formazione estetica. Alla massa da sempre ha procurato piacere ciò che visibilmente si presenta come nuovo; nei manufatti ha desiderato vedere quindi solo la creatività vittoriosa della forza umana e non l’attività distruttiva della forza della natura, avversaria dell’opera umana. Solo il nuovo e l’intero secondo le idee della massa è bello; l’antico, il frammentato, lo scolorito è brutto […]. Ma ancora di più tutta la tutela dei monumenti dell’Ottocento si fondava essenzialmente su questa concezione tradizionale; l’intima fusione del valore di novità con il valore storico. Ogni traccia evidente del degrado dovuto alle forze della natura doveva essere eliminata; l’incompleto, il frammentario doveva essere completato, in modo da ristabilire un insieme uniforme e concluso, Nell’Ottocento la reintegrazione del documento nello stato originale è stata la meta ammessa e propugnata apertamente e con entusiasmo di tutta la tutela razionale dei monumenti.

Solo il sorgere del valore dell’antico, verso la fine dell’Ottocento, ha causato la contraddizione e i conflitti, che si osservano, da alcuni anni a questa parte, in quasi tutti i luoghi dove sono monumenti da tutelare. Al centro della controversia, che attualmente viene condotta quasi sempre con acutezza intorno al trattamento dei monumenti, si trova proprio il contrasto tra valore di novità e valore dell’antico […]. Là dove si tratta di monumenti che non possiedono un valore d’uso, il valore dell’antico è già prevalso ed è riuscito a far valere i suoi principi circa il trattamento dei monumenti. Le cose però stanno in modo diverso là dove contemporaneamente sono in gioco le esigenze del valore d’uso; perché tutto ciò che è in uso ancora oggi agli occhi della grande maggioranza vuole apparire recente e pieno di forza, nel suo stato originale e tende a negare le tracce dell’antico, della degradazione e del venir meno delle forze […].

Proprio da questo punto di vista diventa chiaro quanto il culto del valore dell’antico ancora oggi richieda la preliminare opera di sfondamento del valore storico. Al culto del valore storico devono essere convertiti ancora ceti sociali molto ampi, prima che, con il loro aiuto, la grande massa sia matura per il culto del valore dell’antico […]. Per fortuna oggi questo compito è reso meno difficile di quanto a prima vista potrebbe forse sembrare. Il diritto di esistenza del valore di novità di per sé non viene negato nemmeno con il culto del valore dell’antico. Viene negato solo ai monumenti, cioè alle opere con un certo valore in quanto memoria. Alle nuove opere, invece, sorte recentemente, non viene solo concesso esplicitamente, ma viene richiesto in modo più forte e unilaterale oggi rispetto agli ultimi decenni […]. S’intende che così si esprime la tendenza inconfondibile a separare, nel modo più severo possibile, il valore di novità dal valore dell’antico […].

Dal lato estetico il valore di novità corrisponde al valore d’uso: di conseguenza il culto del valore dell’antico, di per sé, almeno al grado attuale del suo sviluppo e almeno in opere utilizzabili dell’età moderna, deve condiscendere in certa misura al valore di novità. Se per esempio in un municipio gotico, da una parte in vista si fosse staccato il coronamento di un baldacchino, il culto del valore dell’antico certamente preferirebbe contentarsi della conservazione intatta di questa traccia dell’antico, ma oggi certamente non ci sarebbero delle difficoltà notevoli, se il valore di novità nel nome del decorum esigesse l’eliminazione di questo danno che provoca una spiacevole sensazione, ed il rinnovo del coronamento nella forma originale (precisamente conosciuta). Le controversie violente, condotte tra

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i sostenitori dell’uno e dell’altro valore, si collegano piuttosto con un’altra conclusione tratta nell’Ottocento dal valore di novità, in favore del valore storico.

Essa riguarda i monumenti che non sono conservati completamente nello stato originale, ma che con l’andar del tempo hanno subito certe modificazioni stilistiche. Siccome il valore storico si basa sul riconoscimento chiaro dello stato originale, allora, nei tempi in cui il culto del valore storico di per sé era molto importante, si ritenne naturale rimuovere tutte le modificazioni posteriori (pulitura, ripristino) e ristabilire le forme originali che erano state alterate, sia che fossero documentate con precisione oppure no; perché solamente qualcosa di simile all’originale, anche se si fosse trattato di un’invenzione moderna, sembrava tuttavia al culto del valore storico più soddisfacente della precedente aggiunta, autentica ma estranea allo stile. Con questa esigenza del valore storico si collega il culto del valore di novità, in quanto l’originale, che si voleva ripristinare, come tale avrebbe dovuto mostrare anche un aspetto concluso, e in quanto ogni aggiunta non appartenente allo stile originale si percepiva come una rottura dell’unità, come un sintomo di degrado. Ne risultò il postulato dell’unità stilistica, che alla fine condusse a non eliminare solo quelle parti che in origine non vi erano affatto e che solo in un periodo stilisticamente successivo erano state aggiunte in modo completamente nuovo, ma anche a rinnovare tali parti in una forma adatta allo stile del monumento originale. Con ragione si può dire che il trattamento dei monumenti dell’Ottocento si basò essenzialmente sui postulati dell’originalità dello stile (valore storico) e dell’unità stilistica (valore di novità) [...].

Il valore artistico relativo Sul valore artistico relativo si basa la possibilità di apprezzare le opere delle generazioni

precedenti non solo come testimonianze del superamento della natura per mezzo della creatività umana, ma anche in relazione alla loro particolare concezione, forma e colore. Dal punto di vista moderno, secondo cui non esiste un canone artistico oggettivamente valido, sembra normale che un monumento possa non avere un valore artistico per le generazioni a venire […]. Insegna però l’esperienza che spesso valutiamo le opere d’arte più antiche come più grandi di quelle moderne […]. Circa trent’anni fa per questo fenomeno si possedeva ancora una spiegazione semplice: in quel tempo si credeva ancora all’esistenza di un valore artistico assoluto, per quanto si considerasse difficile definirne esattamente i criteri. La maggior valutazione dei monumenti più antichi si spiegava in base alla considerazione che quei tempi remoti si fossero avvicinati nella loro produzione artistica al valore artistico assoluto più di quanto, nonostante l’impegno, fossero in grado di fare gli artisti moderni. All’inizio del Novecento ci siamo già prevalentemente convinti che non esiste un tale Valore artistico assoluto […]. Che le opere d’arte antiche vengano talvolta da noi apprezzate più di quelle moderne si spiega per un motivo diverso dal criterio di un fittizio valore artistico assoluto. Possono sempre darsi singoli aspetti dell’opera d’arte antica in comune con il moderno Kunstwollen; ma allo stesso tempo debbono sempre esserci altri determinati aspetti che se ne differenziano; perché si suppone impossibile che l’antico Kunstwollen possa essere completamente identico a quello d’oggi e questa differenza appunto si deve rivelare in certi registri artistici […]. Dopo tutto non esiste un tempo che, essendo pienamente convinto di poter trovare liberazione estetica per mezzo dell’arte figurativa, possa fare a meno dei monumenti di periodi precedenti. Si provi solamente a immaginare che le opere di scultura dell’antichità e le pitture del Quattrocento fino al Seicento vengano a mancare nel nostro bagaglio culturale e si calcoli quale impoverimento subiremmo in relazione alla capacità di colmare il nostro moderno bisogno artistico […].

Dunque in generale si deve rispondere negativamente e senza esitazione alla domanda se il monumento possa avere un valore di novità, cioè un valore artistico basato sulla compiutezza dello stato originale; mentre il secondo tipo possibile del valore artistico contemporaneo – il valore artistico relativo – non si deve in nessun modo negare al monumento come tale. Con ciò si dovrà opportunamente distinguere tra una valutazione positiva e una negativa.

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Se il valore artistico relativo è un valore positivo, e il monumento con le sue proprie qualità di concezione, forma e colore concede dunque soddisfacimento al nostro moderno Kunstwollen, ne segue necessariamente il desiderio di non lasciare che questo significato si indebolisca, il che accadrebbe se, in conformità alle pretese del valore dell’antico, lo si abbandonasse al naturale degrado ad opera delle forze della natura. Di più, ci si può sentire indotti a revocare in certo modo il processo della natura che è durato finora e a togliere le tracce dell’antico (pulitura di un quadro), a far ritornare il monumento nel suo stato originale, non appena ci sia motivo di supporre che il monumento nel suo stato originale e non invecchiato corrisponda al nostro Kunstwollen in misura notevolmente maggiore rispetto alla condizione in cui ci si presenta, che ha naturalmente subito dei mutamenti. Il caso positivo del valore artistico relativo di regola richiederà dunque la sua conservazione nello stato a noi pervenuto, ma talvolta richiederà anche perfino una restauratio in integrum e con ciò entrerà apertamente in contrasto con le richieste del valore dell’antico […].

Molto minore è il pericolo di un conflitto con il valore dell’antico nel caso di una versione negativa del valore artistico relativo. Questa non è priva di valore ed indifferente per il moderno Kunstwollen, ma addirittura rappresenta un’indecenza per quest’ultimo. Perché l’essere senza valore potrebbe rappresentare solo un valore positivo infinitamente piccolo, perciò consentirebbe il trattamento dei monumenti secondo le richieste del valore dell’antico. L’indecenza, la mancanza di stile e la bruttezza di un monumento dal punto di vista del moderno Kunstwollen conducono però direttamente alla richiesta della distruzione intenzionale del monumento stesso. Così ancora oggi, soprattutto per qualche monumento barocco, valgono espressioni come «non lo si può proprio sopportare» e «meglio non vederlo» (benché da vent’anni a questo proposito le nostre concezioni si siano notevolmente moderate). Con una accelerazione del degrado del monumento per intervento dell’uomo, si agisce, allo stesso tempo, contro le richieste del valore dell’antico, come quando si ritarda artificialmente la degradazione per mezzo di un restauro.

S’intende che oggi avviene più raramente che un monumento possa venire distrutto soltanto per motivi inerenti al suo valore artistico relativo (oppure detto più esattamente, al suo non valore artistico); ma nella tutela dei monumenti non si dovrà dimenticare anche il caso negativo del valore artistico relativo, e precisamente per il fatto che se si aggiunge ad un ulteriore conflitto con un altro valore contemporaneo (il valore d’uso oppure il valore di novità} nello stesso monumento, esso può contribuire in modo essenziale a provocare una decisione a svantaggio del valore dell’antico.

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Roberto Pane Il restauro dei monumenti e la chiesa di S. Chiara a Napoli (1944)*

[…] Il restauro, inteso quale conservazione e difesa dei monumenti e non soltanto adattamento pratico di essi a nuove destinazioni, è cosa del tutto moderna, la cui storia risale a poco più di un secolo. L’antichità, ignorò il problema del restauro estetico; l’età del Rinascimento rilevò amorosamente l’antico, ma piuttosto che conservarlo lo sfruttò all’occasione come cava di marmi e di pietre; l’età barocca nutrì per le forme del passato una sorridente indifferenza, e nel suo sconfinato produrre non esitò neppure dinanzi ai più gravi pericoli di contaminazione. Bisogna giungere ai primi decenni dell’Ottocento per incontrare vere e proprie teorie del restauro come quelle espresse dal Quatremère de Quincy e dal Viollet le Duc, tanto famoso quest’ultimo, quanto vasta e spesso deleteria ne è stata l’opera e l’influenza […]. Nel suo Dictionnaire raisonné il teorico francese scrive: “Le mieux est de se mettre à la piace de l’architecte primitif et de supposer ce qu’il ferait si, revenant au monde, on lui posait les programmes qui sont posés à nous-même”. Tale antistorica supposizione apparve così legittima da costituire il fondamento dei molti restauri che, nella seconda metà dell’Ottocento ed oltre, furono eseguiti sia in Francia che negli altri paesi d’Europa. Non è qui il caso di mostrare come, ancora oggi, una simile mentalità raziocinante e non estetica si ritrovi in diverso sembiante in quella storiografia dell’architettura che continua a procedere secondo schemi e tipi di evoluzione […].

Fortunatamente gli errori del passato hanno giovato alla educazione dei moderni restauratori, e la cultura critica ed estetica, in Italia più avanzata che altrove, ha fortemente contribuito alla formazione di una matura coscienza dei problemi in questione. Di tale progresso è prova, fra l’altro, quell’insieme di norme, relative ai criteri da seguire per la tutela dei monumenti, che anni or sono è stato formulato mercé l’intervento degli organi preposti alla tutela medesima e cioè le soprintendenze ai monumenti ed agli scavi. Tale insieme costituisce un documento di vivo interesse e, sebbene abbia l’infelice titolo di Carta del restauro, avrà certamente migliore fortuna di molte altre analoghe Carte, perché appare, nel complesso, dettato da un sano ed illuminato senso dell’arte e della storia. Nella sua fondamentale impronta esso mostra di ispirarsi ad una concezione nettamente antitetica a quella predicata dal Viollet le Duc. Infatti il restauro di ripristino, fondato su analogie stilistiche, vi è senz’altro bandito ed è solo ammesso in quei casi in cui risulta fondato su basi assolutamente attendibili. Riferendosi alle opere delle età antiche, tali norme stabiliscono che sia escluso il completamento delle parti mancanti; anche nel caso che sia possibile desumere con certezza i particolari elementi di queste e ciò perché il gusto formale di una moderna esecuzione non potrebbe in nessun caso giungere a comporre in unità:stilistica l’antico e il nuovo. È ammessa solo l’anastilosi e cioè la meccanica ricomposizione di parti smembrate, come potrebbero essere, ad esempio, gli sparsi rocchi di una colonna dorica o i blocchi di una muratura isodomica. Nella eventualità che risulti necessaria, per ogni genere di restauro, l’esecuzione di parti nuove, è suggerito che queste siano limitate all’indispensabile e, in ogni caso, che siano eseguite, o con materiale diverso da quello originario o con l’adozione di superfici di inviluppo in cui la ricorrenza con la forma antica sia raffigurata in modo schematico. Tutto questo nel giusto intento di distinguere la parte antica dalla nuova e cioè, come s’è già accennato; in un senso precisamente opposto a quello praticato dal Viollet le Duc.

Un’altra norma degna d’interesse è quella che afferma la necessità di conservare di un monumento tutti gli elementi aventi carattere di arte o di storico ricordo “a qualsiasi tempo * PANE, Roberto, Il restauro dei monumenti e la chiesa di S. Chiara a Napoli, in «Aretusa», 1, 1944, ora in ID., Attualità e dialettica del restauro, antologia a cura di M. Civita, Chieti, Solfanelli, 1987, pp. 23-37.

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appartengano; senza che il desiderio dell’unità stilistica e del ritorno alla primitiva forma intervenga ad includerne alcuni à detrimento di altri e solo possono eliminarsi quelli come le murature di finestre o di intercolunni di portici che, privi di importanza e di significato, rappresentino deturpamenti inutili”. In linea di massima anche questo può essere considerato come legittimo. Tuttavia a me pare che non possa escludersi in maniera assoluta un criterio di scelta, per la stessa ragione per cui noi non possiamo sentire storicamente il nostro passato dando a tutto lo svolgimento di esso la stessa importanza. Qui sorge il dubbio che l’estrema imparzialità, suggerita dalla norma suddetta, adombri una certa preoccupazione circa il giudizio futuro che, col mutare dei gusti e delle tendenze, può essere pronunziato sul nostro operare. Preoccupazione giusta soltanto se limitata ad ispirare uria seria e prudente consapevolezza del compito da assolvere; altrimenti essa rischierebbe di ridurci ad una sterile neutralità non meno condannabile del restauro artistico secondo Viollet le Duc.

In altre parole, pur rispettando la norma in questione, si tratterà di giudicare se certi elementi abbiano o no carattere di arte, perché, in caso negativo, ciò che maschera o addirittura offende immagini di vera bellezza sarà del tutto legittimo abolirlo e per conseguenza compromettersi con una predilezione ispirata da una vera e propria valutazione critica. Certamente anche il brutto appartiene alla storia, ma non per questo gli si dovranno dedicare le stesse cure di cui il bello merita di essere oggetto. Né mi pare che tale osservazione debba essere sostenuta da esempi: ciascun lettore avrà visto monumenti nei quali la contaminazione apportata da un cattivo rifacimento lo avrà indotto a ricordare per chiara analogia la ridipintura eseguita da qualche mestierante sulla tela di un grande maestro, e, a stretto rigore di termini, anche questa ridipintura, che noi all’occasione non esitiamo a cancellare, ha il suo storico interesse. In definitiva simili considerazioni debbono indurci a riconoscere come non possa essere dettata in questo campo una regola fissa, perché altrettanto varrebbe dettarla all’attività dello spirito critico.

Ogni monumento dovrà, dunque, essere visto come un caso unico, perché tale è in quanto opera d’arte e tale dovrà essere anche il suo restauro.

Ma è possibile che basti al restauratore avere sensibilità e cultura di critico? Se pensiamo che già la sola superficie di un intonaco e l’apparente neutralità di un tono di raccordo possono impegnare il gusto creativo e che il più scrupoloso rispetto delle migliori esperienze può portare, malgrado tutto, ad un risultato negativo, dobbiamo concludere che non bastano. Per quanto si possa procedere esclusivamente sul cammino tracciato dagli elementi più controllati e sicuri, verrà sempre il momento in cui sarà necessario gettare un ponte, operare una congiunzione, e ciò potrà essere fatto soltanto grazie ad un atto creativo nel quale chi opera non troverà altro aiuto se non in sé stesso, né potrà, come avveniva una volta, illudersi che gli stia accanto a guidarlo il fantasma del primitivo creatore.

Ma un diverso atteggiamento di fronte ai compiti che l’attuale restauratore sarà chiamato ad assolvere è suggerito non tanto dalla complessità dei nuovi problemi quanto dal loro carattere di necessità. In altre parole, una condizione totalmente nuova apparirà determinata dal fatto che, mentre prima il ripristinare, o comunque il modificare l’aspetto di un monumento, nasceva quasi sempre dal desiderio più o meno giustificato di ridare ad opere, che non erano né mutilate né pericolanti, la primitiva impronta di autenticità e di bellezza, oggi si tratta di salvare i resti di forme preziose il cui abbandono non sarebbe inconciliabile con la vita di una società colta e civile. Vero è che non sono mancati coloro ai quali tale abbandono, o addirittura la totale distruzione di fabbriche difficili da conservare, è sembrata l’unica soluzione degna di essere attuata. Sostituiamo, si è detto e si dirà ancora, i monumenti nuovi ai danneggiati monumenti antichi, senza troppe nostalgie per il passato; il che vale quanto dire: cancelliamo le glorie di un tempo e produciamone delle nuove. Cosa che potrebbe anche essere degna di un sorriso di simpatia, se fosse soltanto ispirata da un candido ed ingenuo fervore, ma che produce un vivo senso d’allarme se si pensa che, assai più verosimilmente, essa è dettata da una molto attivistica e pratica ambizione. Del resto anche questo atteggiamento ha, per modo di dire, un suo presupposto teorico che conviene esaminare. Esso consiste nel credere che l’attuale e diffuso rispetto

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per le opere del passato e le cure e gli studi di cui queste sono fatte oggetto, testimoniano della scarsa capacità artistica dei nostri tempi, e che tale rispetto non sarebbe da noi sentito se fossimo animati da un più vivo e fecondo impulso creativo. Un simile giudizio può apparire scusabile quando è pronunziato da artisti, ma non lo è affatto quando a pronunziarlo sono, come talvolta avviene, gli scrittori ed i critici d’arte. In altre parole esso vuol significare che, non potendo fare dell’arte, ci si contenta di scriverne la storia e la critica; come se si trattasse non di cose diverse ma di due gradi di una medesima attività spirituale di cui uno veramente essenziale e sovrano, l’altro subordinato e non necessario […].

All’inizio della guerra un grande quotidiano pubblicò un referendum tra gli architetti italiani circa il problema del restauro monumentale e, fra le molte proposte che furono avanzate, era anche quella già accennata. La grande disparità dei giudizi espressi in questa occasione provava come ciascuno avesse esteso ai casi più diversi un suo giudizio o un suo gusto particolare, senza troppo pensare che, prima di por mano a così vasta materia, occorreva rifarsi alle idee generali, rimettendo in questione i fondamenti storici ed estetici del lavoro da intraprendere.

Data l’imprevedibile varietà dei casi particolari, appare chiaro che vi sarà modo di compiere tutte le più diverse esperienze; da quella del puro consolidamento statico e della ricomposizione di sparsi frammenti sino all’opera completamente nuova che dovrà sostituire la parte distrutta di una fabbrica, creando un felice contrasto invece che una falsa imitazione. E qui si noti che, mentre un interno o una facciata riescono espressivi in virtù di una fondamentale unità stilistica, quello che noi chiamiamo un ambiente, e cioè quanto è raccolto nella prospettiva di una piazza o di una strada, esige invece varietà di forme, perché in questo caso non si tratta di un’opera sola, anche quando, negli esempi migliori, il ritmo concorde di diverse tendenze formali dà l’impressione di una perfetta ed ideale fusione; e in simili casi nessun ostacolo dovrà essere opposto al manifestarsi di un’architettura nuova […].

Qualche esempio di quanto ho detto sopra può essere fornito dal complesso dei lavori che si dovranno eseguire in Napoli, nella chiesa di S. Chiara, in quella di S. Eligio ed altrove.

L’impossibilità di ricomporre l’interno barocco di S. Chiara appare evidente al primo sguardo. Nelle condizioni presenti, data la scomparsa della volta e di quasi tutte le, decorazioni settecentesche, il restauro offre una sola possibilità dal punto di vista dell’indirizzo formale: quella che consiste nel ripetere le linee trecentesche continuando a scoprire ciò che il fuoco ha già parzialmente scoperto. Tuttavia, significativi avanzi del rifacimento settecentesco potranno essere conservati come le sculture sepolcrali in alcune cappelle ed il pavimento che, sebbene molto danneggiato, non sarà difficile ricomporre, dato il suo prevalente carattere geometrico. Non potranno essere conservati, invece, la pilastratura di stucco e le cornici delle finestre, perché è venuto a mancare a tali parti ogni legame organico di ricorrenza, in seguito alla scomparsa della volta e dei pilastri tra le cappelle. Del resto la conservazione di codesto rivestimento, che costituiva il motivo fondamentale ed il pretesto architettonico della trasformazione dalla forma gotica a quella barocca, non sarebbe possibile anche perché le parti stesse risulteranno tagliate dal ripristino degli antichi finestroni, e questo non potrà non tornare a pieno vantaggio della prospettiva interna, perché contribuirà più d’ogni altro elemento a ridare un pieno sviluppo verticale alla navata.

In onore della verità e non per voler ritrovare a tutti i costi, in mezzo a tanta rovina, un motivo di consolazione, va riconosciuto che, pur nella vastità e audacia del programma decorativo, il Settecento napoletano non aveva raggiunto in S. Chiara una delle sue espressioni più felici. Gli affreschi, le dorature, la,volta, che nel suo sesto fortemente depresso non riusciva a mascherare la finzione strutturale, e soprattutto lo stridente contrasto fra tutto questo ed il gusto formale dei monumenti angioini, dominanti sullo sfondo, davano al visitatore un senso di perplessità e di insoddisfazione che solo era superato quando l’occhio, rinunziando alla visione d’insieme, passava a considerare le opere d’arte ed i documenti di storia che cinque secoli avevano accumulato in questo grandioso interno. Ciò non toglie, ad ogni modo, che anche S. Chiara barocca sia degna di rimpianto e che il suo ricordo

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susciti in noi un sentimento di nostalgia, non tanto per l’immagine perduta quanto perché il ricordo di questa è associato, negli animi di molti di noi, a quello degli anni di giovinezza ed al loro vago e dolce immaginare. In tal senso l’antitesi tra la chiesa settecentesca, così ricca e profana, e quella austera e nuda che risorgerà dal restauro, significherà in simbolo l’antitesi tra il tempo passato e quello che ci attende.

Circa la sorte di alcune altre opere particolari della chiesa va ricordato che anche l’altar maggiore, con i suoi fastosi intarsi marmorei e le sue volute, può dirsi completamente perduto.

Nelle chiese napoletane del Seicento e Settecento l’altare appare abitualmente come il pezzo di forza del virtuosismo, e quello di S. Chiara non faceva eccezione. A me pare che tale perdita meriti meno delle altre di essere deplorata, sia per la sua scarsa importanza artistica sia perché, incorporato nella muratura dell’opera barocca e quindi risparmiato dal fuoco, resta tuttora il primitivo altare gotico, dall’ornamentazione delicata e preziosa e di una grandezza che, mentre è proporzionata alla figura del sacerdote officiante ed in perfetta armonia con l’ambiente gotico, lascia pienamente dominare il monumento di re Roberto e gli altri che lo fiancheggiano, Ma qui potrebbe sorgere il dubbio che forse meglio sarebbe, data la loro attuale condizione di rovina, se quei monumenti non più dominassero la visuale della navata, mentre, a render più acuta la pena, sopraggiunge il ricordo del perfetto stato di conservazione in cui le sculture dei Bertini, di Tino di Camaino e del Baboccio erano giunte sino a noi; e, quasi non bastasse, le fotografie eseguite dopo l’incendio mostrano parti ancora conservate che poi, per l’impossibilità di una immediata protezione e per le sopraggiunte intemperie, sono successivamente crollate. Ad ogni modo sembra chiaro che parte dei frammenti potrà essere ricomposta in sito e che il resta dovrà essere raccolto e conservato, insieme con le parti superstiti di altre opere, in quelle sale del convento che, convenientemente restaurate, potranno essere destinate a museo della chiesa. Concepito in pura funzione statica il restauro dovrà limitarsi a rifare, là dove occorra, qualche elemento portante in forma riassuntiva e schematica, in maniera che esso appaia riconoscibile dal resto per il suo diverso carattere, pur collaborando a ricostituire una visione d’insieme e giovando a proteggere ciò che resta da una successiva rovina. Ora, che questa visione d’insieme possa essere raggiunta pare molto probabile; ma risulterà certa solo (quando, raccolte ed esaminate, le sparse membra, si delineerà quel ripristino grafico che dovrà precedere il lavoro esecutivo.

All’età angioina appartengono quasi tutte le maggiori chiese di Napoli, fra cui quello, di Donnaregina, che è stata oggetto di uno dei migliori restauri compiuti in Italia in questi ultimi decenni. Con lo stesso gusto e lo stesso rispetto, sebbene il compito sia ancora più arduo, sarebbe desiderabile veder ricostruita S. Chiara e la chiesa di S. Eligio. Quest’ultima mostra ora alcuni elementi nuovi di grande interesse tra cui le belle crociere in pietra viva che fiancheggiavano l’abside e che il neutro ed indifferente rimaneggiamento del Travaglini, lo stesso che altrove inventava dorature gotiche, aveva mascherata con squallide pareti di intonaco. Qui, ancora più che in S. Chiara, il compito del restauratore è chiaramente indicato, sia all’interno che all’esterno, dagli organici e pregevoli resti della fabbrica gotica. Le finestre murate saranno così riaperte per ridare luce e ritmo all’unica navata.

Ma la maggiore difficoltà non consisterà nella sistemazione delle parti superstiti dei monumenti, alle quali soccorreranno i numerosi mezzi che la moderna tecnica pone a nostra disposizione, bensì nell’attribuire una forma estetica a tutto il vasto insieme; cosa che, procedendo con la maggiore sobrietà e cautela, dovrà pur essere compiuta. Ora è proprio in questo senso che, anche seguendo il concetto di “nuda semplicità e di rispondenza allo schema costruttivo” opportunamente raccomandate dalle suddette norme del restauro, dovrà essere realizzata un’opera che, nel suo dar nuova vita alla chiesa, riesca insieme antica e moderna. I vincoli del restauro imporranno i loro giusti e rigorosi limiti al gusto ed alla fantasia, ma saranno sempre e soltanto questi ultimi a fornire una soddisfacente soluzione del problema. Ora, se ciò è vero, quale conclusione è legittimo trame? Che il restauro è esso stesso un’opera d’arte sui generis; conclusione già implicita in quanto si è detto più sopra, ma che non lo è affatto nelle ricordate norme; anzi si direbbe che nella mente di coloro che le hanno redatte sia

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stata soprattutto presente l’intenzione di negare ogni funzione creativa all’intervento del restauratore, e ciò per il plausibile timore delle pratiche conseguenze che un diverso atteggiamento avrebbe potuto apportare. Ne è prova, fra l’altro, il passo in cui è detto che solo possa ammettersi “la continuazione di linee esistenti nei casi in cui si tratti di espressioni geometriche prive di individualità decorativa,”. Ma non esistono in architettura linee geometriche prive di individualità decorativa, poiché se un’individualità è presente nell’opera, essa è tale anche per virtù di quelle parti che, isolatamente considerate, possono apparire come indifferenti dal punto di vista espressivo. D’altra parte la già ricordata disposizione di porre in evidenza con materiali diversi e linee d’inviluppo la parte nuova, dovuta al restauro è, sebbene inconsapevole, un’implicita ammissione della natura artistica del restauro, mentre l’antica tendenza dell’imitazione che conduceva al falso documento negava l’arte in quanto sostituiva ad essa un generico virtuosismo.

Con queste considerazioni ho inteso di chiarire e, in certo senso, spingere sino alle loro estreme conseguenze estetiche i dettami delle più moderne concezioni del restauro […].

La distruzione di tante opere d’arte ci fa sentire oggi quanto sia vera la massima leonardesca che le cose belle appartengono a coloro che le amano. Questa è potuta sembrare una espressione un po’ retorica, sino a quando non abbiamo constatato a nostre spese che era invece un’affermazione di verità positiva e concreta.

Restaurare e proteggere i nostri monumenti dovrà essere uno dei compiti peculiari del nostro futuro, malgrado il giudizio dei cosiddetti uomini pratici, i quali credono che lo scopo di una società umana sia già soddisfatto dal raggiungimento di un pratico benessere. Ma alla nostra difficile opera di persuasione verso costoro, le argomentazioni logiche gioveranno assai meno di quelle ispirate dall’amore verso i frutti più preziosi della nostra civiltà; allo stesso modo per cui, non la logica, ma un sentimento è ciò che dà impulso alla nostra vita morale.

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Cesare Brandi Concetto del restauro (1963)*

S’intende generalmente per restauro qualsiasi intervento volto a rimettere in efficienza un prodotto dell’attività umana. Si avrà dunque un restauro relativo a manufatti industriali e un restauro relativo all’opera d’arte: ma se il primo finirà per porsi come sinonimo di risarcimento o di restituzione in pristino, il secondo ne differirà qualitativamente, in quanto che il primo consisterà nel ristabilimento della funzionalità del prodotto, mentre per il secondo, seppure tale ristabilimento rientrerà in certi casi, come per le architetture, negli scopi secondari o concomitanti al restauro, il restauro primario è quello che riguarda l’opera d’arte in quanto tale.

Ma lo speciale prodotto dell’attività umana a cui si da il nome di opera d’arte, lo è per il fatto di un singolare riconoscimento che avviene nella coscienza, e solo dopo tale riconoscimento si eccettua in modo definitivo dalla comunanza degli altri prodotti. Questa è la caratteristica peculiare dell’opera d’arte in quanto non si indaghi nella sua essenza, ma in quanto entra a far parte del mondo della vita, e cioè nel raggio di esperienza individuale.

Da tale premessa discende un corollario basilare: qualsiasi comportamento verso l’opera d’arte, ivi compreso l’intervento di restauro, dipende dall’avvenuto riconoscimento o no della opera d’arte come opera d’arte. Perciò anche la qualità e la modalità dell’intervento di restauro, sarà strettamente legata all’avvenuto riconoscimento, e pur la fase di restauro, che eventualmente l’opera d’arte può avere in comune con altri prodotti dell’attività umana, non rappresenta che una fase supplementare rispetto alla qualificazione che l’intervento riceve dal fatto di dover essere attuato su un’opera d’arte. Di qui l’opportunità di eccettuare il restauro, come restauro dell’opera d’arte, dall’accezione comune del restauro, e di articolarne il concetto non già in base ai procedimenti pratici con cui si attua, ma in relazione all’opera d’arte in quanto tale da cui si riceve qualificazione.

Tuttavia l’opera d’arte, pur eccettuandosi da tutti gli altri prodotti dell’attività umana, conserva la caratteristica, rispetto alle cose di natura, di essere un prodotto dell’attività umana. E come opera d’arte e come prodotto pone allora una duplice istanza: l’istanza estetica, che corrisponde al fatto basilare dell’artisticità per cui l’opera è opera d’arte; l’istanza storica che rispecchia la sua emergenza come prodotto umano in un certo tempo e in un certo luogo. Inoltre il fatto di presentarsi al riconoscimento di una coscienza in un certo tempo e in un certo luogo, conferisce all’opera d’arte una seconda storicità che via via si trasferisce nel tempo.

A questo punto si può dare la definizione di restauro, in quanto restauro dell’opera d’arte, nei termini seguenti: il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella sua consistenza fisica e nella duplice polarità estetico-storica, in vista della sua trasmissione al futuro.

Da tale definizione emerge che l’imperativo del restauro, come quello più generale della conservazione (che tuttavia si presenta come un restauro preventivo), si rivolge in primo luogo alla consistenza materiale in cui si manifesta l’immagine. Si pone quindi il primo e fondamentale assioma: si restaura solo la materia dell’opera d’arte.

Ma i mezzi fisici ai quali è affidata la trasmissione dell’immagine non sono affiancati a questa; sono anzi a questa coestensivi: non c’è la materia da una parte e l’immagine dall’altra. E tuttavia, per quanto coestensiva all’immagine, non in tutto e per tutto tale coestensività potrà dichiararsi intrinseca * BRANDI, Cesare, Restauro – Concetto del restauro (ad vocem), in Enciclopedia Universale dell’Arte, Venezia-Roma, 1963, vol. XI, coll. 323-332.

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all’immagine. Una certa parte di codesti mezzi fisici funzionerà ad esempio da supporto, così le fondamenta per le architetture, la tavola o la tela o il muro per una pittura.

Se allora le condizioni dell’opera d’arte si rivelino tali da esigere, per la sua conservazione, il sacrificio o la sostituzione di una certa aliquota dei mezzi fisici con cui fu estrinsecata, l’intervento dovrà essere compiuto secondo che esige l’istanza estetica. Ma d’altro canto non potrà neppure essere sottovalutata l’istanza storica, e questa, per di più, non s’arresta alla prima storicità, ossia a quella che si fondava all’atto della formulazione dell’opera, ma dovrà tenere conto anche della seconda storicità, che prende l’avvio subito dopo l’atto della formulazione e si protrae fino al momento e luogo in cui avviene il riconoscimento nella coscienza.

Il contemperamento fra le due istanze rappresenta la dialetticità del restauro proprio in quanto momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte come tale. Donde il secondo principio di restauro: il restauro deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, purché sia possibile raggiungere ciò senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo.

La materia dell’opera d’arte. Se soggettivamente si restaura solo la materia dell’opera d’arte, com’è postulato nel primo

assioma, la materia, in quanto rappresenta contemporaneamente il tempo ed il luogo dell’intervento di restauro, richiederà una definizione che non potrà essere mutuata alle scienze naturali, ma ricavata per via fenomenologica. Sotto questo aspetto la materia si intende come «quanto serve all’epifania dell’immagine». Riportata e circoscritta all’epifania dell’immagine, esplicita lo sdoppiamento fra struttura ed aspetto. Si faccia l’esempio di un dipinto su tavola, in cui la tavola sia talmente tarlata da non offrire più un supporto conveniente: la pittura sarà allora la materia come aspetto, la tavola la materia come struttura, ancorché la divisione possa risultare assai meno netta, in quanto che, per il fatto di essere dipinta su tavola, la pittura acquisisce particolari. caratteristiche che potrebbero scomparire, una volta trasferita su un altro supporto. E dunque la distinzione fra aspetto e struttura si rivela assai più sottile di quello che può parere di primo acchito, né ai fini pratici sarà sempre possibile mantenere una rigida separazione. Si faccia un altro esempio: un edificio gettato a terra da un terremoto, e che, nella grande quantità di elementi superstiti e nelle testimonianze autentiche, si presti tuttavia ad una ricostruzione od anastilosi. In questo caso l’aspetto non può essere considerato solo la superficie esterna dei conci, ma questi dovranno rimanere conci, non solo in superficie. Tuttavia la struttura muraria interna potrà cambiare per garantirsi da futuri eventi sismici, e perfino la struttura interna delle colonne se ve ne siano, o delle travature. È il caso della ricostruzione della Chiesa di S. Pietro ad Alba Fucense. Invece il caso è inverso per la ricostruzione del tempio E di Selinunte, i cui rocchi delle colonne giacevano a terra da molto più di un millennio, con una consunzione del tutto diversa da quella che avrebbero subito se fossero rimasti in opera; ciò ha determinato proprio l’impossibilità di ricondurre all’aspetto originario le parti superstiti del monumento. Infatti i rocchi, corrosi e di colore diverso dalla parte su cui giacevano rispetto a quella esposta all’aria e al sole, non arrivano a ricostruire l’unità monolitica che postula la colonna, anche se la struttura apparentemente sia restata quella antica.

In realtà anche la struttura ha dovuto essere violentemente alterata col cemento armato, e con ciò non si è soddisfatta né l’istanza estetica, né l’istanza storica, per la quale, in tal caso, il monumento andava ormai conservato nelle reliquie e nello stato nel quale era stato trasmesso dal tempo.

Molti errori funesti e distruttivi sono proprio discesi dal fatto che non si era indagata la materia dell’opera d’arte nella sua bipolarità di aspetto e di struttura. Così una radicata illusione, che, ai fini dell’arte, potrebbe dirsi illusione d’immanenza, ha fatto considerare come identici, ad esempio, il marmo ancora non resecato di una cava e quello che, della stessa cava, è divenuto statua: mentre il marmo non resecato possiede solo una composizione chimica identica, il marmo della statua ha subito la trasformazione radicale d’essere veicolo d’un’immagine, si è storicizzato per dato e fatto dell’opera

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dell’uomo, e fra il sussistere come marmo e il suo essere immagine, si è aperta un’incolmabile discontinuità. Che dunque la materia possa essere la stessa, non è sufficiente per autorizzarci a completare un monumento incompiuto o manomesso, poiché la storicizzazione che acquisterebbe la materia per la nuova utilizzazione non deve risultare retrodatata o si fa un falso storico oltreché estetico. È evidente che, in base a tale chiarificazione, l’avere ricostruito la stoà di Attalo ad Atene con lo stesso marmo con cui era stato edificato quello originario aggrava l’errore, mentre la ricostruzione ottocentesca di alcune campate del Colosseo in mattoni, solo per garantire la statica delle parti originali superstiti, testimonia un probo intervento, assolutamente ligio all’istanza storica, ancorché, esteticamente, la diversità di colore sia troppo forte. Perfetta invece deve ritenersi la soluzione del Valadier per le parti mancanti dell’arco di Tito, cromaticamente accordato alle parti superstiti e variato nella materia impiegata (travertino invece che marmo).

Pertanto la materia dell’opera d’arte non è mai unica anche quando l’opera risulta di una materia omogenea – legno, marmo, bronzo – ma va indagata come struttura e come aspetto, e in tal caso va previsto e attuato l’intervento di restauro.

L’opera d’arte come unità Il secondo principio postulato per il restauro contempla il ristabilimento dell’unità potenziale

dell’opera d’arte. Perciò il concetto di unità, in quanto riferito all’opera d’arte, esige un sostanziale chiarimento. E allora, posto che l’opera d’arte vada riconosciuta come unità, quale unità le spetta, quella dell’intero o quella totale? E posto che le spetti l’unità dell’intero, sarà questa da concettualizzarsi come l’unità organico-funzionale che caratterizza il mondo fisico dal nucleo atomico all’uomo?

Prima di tutto si sottolinea che, seppure sembri che la prima domanda riguardi l’essenza dell’opera d’arte, in realtà è domanda che si pone solo «a posteriori», quando l’opera è nel mondo e ne avviene la ricezione in una coscienza. È solo allora, e tanto più dovendosi attuare un intervento tecnico come quello del restauro, che sorge il problema se sia da attribuirsi all’opera d’arte l’unità dell’intero, la, vera unità, o l’unità del totale. Se infatti l’opera d’arte non dovesse concepirsi come un intero, dovrebbe considerarsi come un totale, e in conseguenza risultare composta di parti: ciò equivarrebbe a riproporre per l’opera d’arte il concetto geometrico che già, per il bello, fu refutato da Piotino.

Ma l’opera d’arte può effettivamente presentarsi come composta da parti, fin al punto che, come per un polittico, queste parti possono materialmente staccarsi l’una dall’altra, in quanto originariamente concepite come separate. Tuttavia, anche in questo caso è giocoforza concludere che le parti non sono veramente autonome ma che la partizione ha valore di ritmo, e nel contesto se ne perde il valore individuo per essere fuso e riassorbito in un’opera sola. Altrimenti, se le parti restano ognuna per suo conto, e solo materialmente accostate, l’opera che ne risulta è una silloge, e quella riunione avrà solo una ragione storica, ma non una validità estetica.

Appare allora come necessaria illazione che la speciale attrazione che esercita l’opera d’arte sulle sue parti, quando si presenti composta di parti, è già la negazione implicita delle parti come costitutive dell’opera d’arte. Ma si faccia il caso di un’opera di arte che, ben più di un polittico o di un pezzo di oreficeria, sia composta di parti, le quali prese ciascuna a sé, non abbiano nessun particolare valore di forma, ma solo, al più, siano fonte di un generico edonismo collegato alla bellezza della materia, alla purezza del taglio e così via. Si prenda il caso limite, cioè, delle tessere del mosaico, e dei conci di un’architettura. Senza esplicitarne ora il valore di ritorno, che sarebbe un riportarsi all’assenza, rimane dal punto di stazione assunto, che è quello della ricezione dell’opera d’arte, che tanto le tessere musive quanto i conci, una volta sciolti dalla concatenazione formale in cui l’autore li dispone, rimangono inerti e non trattengono nessuna traccia, o appena una traccia scarsa, dell’unità in cui erano stati cementati dall’artista. È dunque il mosaico e la costruzione fatta di conci, il caso che più eloquentemente dimostra l’impossibilità per l’opera d’atte di essere concepita come un totale, quando

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invece deve realizzare un intero. E tuttavia questa unità dell’intero che deve attribuirsi all’opera d’arte, non può ulteriormente essere concettualizzata sulla falsariga dell’unità funzionale o organica del mondo della natura, che si può sperimentare e ricondurre a leggi universali, in quanto che l’opera d’arte è ogni volta chiusa in sé, e non si può sperimentare ma solo contemplare. Cosi, se un animale è senza un arto, o è mutilato o è deforme, ma l’immagine di un animale a cui non si veda un arto non è né mutilata né deforme, è solo l’immagine che si vede. Un gatto d’angora potrà avere in realtà un occhio azzurro e uno verde, e solo se si veda di profilo si supporrà, sulla base statistica, che abbia dello stesso colore anche l’occhio che non si vede, ma un gatto d’angora dipinto di profilo, non ha l’altro occhio né dello stesso colore, né di un altro, semplicemente non ha l’altro occhio, perché nell’immagine dipinta sta come gatto solo per un valore semantico limitatamente a quanto l’immagine ha prelevato, non nella sua unità organico-funzionale per cui un gatto ha due occhi.

Le proposizioni che precedono assumono un’importanza fondamentale proprio per il restauro, in quanto che stabiliscono dei limiti invalicabili all’intervento stesso di restauro, e garantiscono al contempo l’estensione dell’intervento legittimo.

Si deduce infatti che se l’unità che compete all’opera d’arte è quella dell’intero e non quella del totale, anche se fisicamente frantumata, dovrà continuare a sussistere potenzialmente come un tutto in ciascuno dei suoi frammenti, e questa potenzialità sarà esigibile in proporzione diretta alla traccia formale superstite nel frammento.

In secondo luogo, si inferisce che, se la forma di ogni singola opera d’arte è invisibile, ove materialmente l’opera d’arte risulti divisa, si potrà cercare di sviluppare la potenziale unità originaria che ciascuno dei frammenti trattiene proporzionalmente alla sopravvivenza formale ancora recuperabile di essi.

Con questi due corollari si viene a negare che si possa intervenire nell’opera d’arte mutilata e ridotta in frammenti «per analogia», perché il procedimento per analogia esigerebbe come principio l’equiparazione dell’unità intuitiva dell’opera d’arte all’unità organica o funzionale con cui si pensa la realtà esistenziale sulla base dell’esperienza.

Conseguentemente l’intervento di restauro volto a rintracciare l’unità originaria, sviluppando l’unità potenziale, immanente nei frammenti, deve essere contenuto a svolgere solo i suggerimenti impliciti nei frammenti stessi o suffragati in testimonianze autentiche dello stato originario dell’opera. Ma tale intervento integrativo cade naturalmente sotto l’istanza estetica e sotto quella storica, che, nel reciproco contemperamento, dovranno determinare il momento in cui si dovrà arrestare l’intervento e il modo di contemperarlo per evitare sia un’offesa estetica che un falso storico. Sulla necessità di questo contemperamento si basano tre principi fondamentali. Col primo di questi si esige che l’integrazione debba essere sempre e facilmente riconoscibile. Quindi l’integrazione dovrà restare invisibile alla distanza a cui l’opera d’arte deve essere guardata, ma immediatamente riconoscibile, e senza bisogno di speciali sussidi, non appena si venga ad una visione appena ravvicinata. Il secondo principio si ricollega a quanto è stato detto della materia dell’opera d’arte, e cioè che questa è insostituibile solo in quanto collabori direttamente alla figuratività dell’immagine, in quanto è aspetto e non per tutto quanto è struttura. Inane, nel terzo principio, si prescrive che ogni intervento di restauro non deve rendere impossibili, anzi deve poter facilitare gli eventuali interventi futuri. Resta tuttavia un caso che non si sussume automaticamente ai tre principi suesposti, in quanto è il caso in cui, o per lo stato di frammentarietà estremo dell’opera, o per una prevalenza dell’interesse storico su quello estetico si preferisce non addivenire a completamento alcuno. In altri termini si pone il problema delle lacune. È evidente, infatti, che, anche rinunziando a sviluppare la residua figuratività dell’immagine, difficilmente l’opera d’arte mutila potrà essere lasciata nello stato in cui la tradizione degli anni l’ha consegnata. Si pone cosi, al di fuori del ristabilimento dell’unità potenziale dell’immagine, il problema delle lacune.

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Il problema delle lacune. Anche questo problema si pone unicamente dalla parte del fruitore dell’opera d’arte, anzi è

specificatamente il problema della ricezione storica dell’opera d’arte senza intervento attuale o col minimo intervento.

Una lacuna, per quanto riguarda l’opera d’arte, è, fenomenologicamente, un’interruzione nel tessuto figurativo, come una interruzione è nel testo di un’opera trasmesso non integralmente. Ma quel che stacca la lacuna dell’opera d’arte dalla lacuna del testo, è che la lacuna dell’opera d’arte assume un’importanza a sé, come una figuratività negativa. La lacuna infatti avrà una conformazione, per fortuita che sia, e potrà avere anche un colore, se sarà un’interruzione della sola materia come aspetto. Ad esempio, se consisterà nella sola caduta della pellicola pittorica o del rivestimento marmoreo di un’architettura. In quanto tale, con la conformazione (o anche col colore) che ostende a vista, s’inserisce nel tessuto figurativo come figura rispetto a un fondo, e istantaneamente fa recedere il tessuto figurativo da fondo a figura che è. Donde alla mutilazione dell’immagine si aggiunge una svalutazione intrinseca all’immagine per cui ne soffrono anche le parti intatte.

Dall’avere intuito confusamente quel che qui è esposto in termini di «gestaltpsychologie», derivò la prima soluzione empirica della «tinta neutra», quando, cioè, si rifiutarono le integrazioni di fantasia o di analogia. Con la tinta neutra si cercava di spengere l’emergenza di prima cola della lacuna, e si cercava di metterla in sordina con una tinta il più possibile priva di timbro. Il ripiego era onesto, ma empirico e insufficiente.

Fu facile infatti obbiettare che non esiste tinta neutra, che qualsiasi presunta tinta neutra in realtà veniva ad influenzare la distribuzione cromatica del dipinto, in cui ogni colore non vale per sé isolatamente ma per il contesto cromatico dove si trova inserito. La soluzione non poteva partirsi dalla scelta di un colore, ma dalla spazialità del dipinto, in quanto che nella retrocessione della pittura a fondo che veniva a determinare la lacuna, occorreva ottenere che fosse la lacuna a diventare – per la percezione – fondo alla pittura.

Non si trattava dunque di spengere la lacuna o diluirne i margini che era soluzione di tutte la peggiore, con cui si diluiva tutta la pittura superstite, ma occorreva scegliere, rispetto al contesto cromatico in cui la lacuna si inseriva, una tinta che non avanzasse ma retrocedesse, e dove la statica del colore lo permetta, stabilire alla lacuna un livello più basso rispetto alla superficie del dipinto. A questo modo senza illudersi di abolire la lacuna, si ottiene che la lacuna non si proietta in avanti e non si inserisce, nel contesto pittorico: simbolicamente rimane come lo spazio bianco del verso dove sia caduta la parola. La soluzione, invece, con cui si ricostituisce la continuità figurativa del contesto pittorico, soluzione che dovrà essere riconoscibile a occhio nudo, si assimila alla parola o alle parole fra parentesi quadre, con cui la filologia letteraria propone di ricostituire la continuità di senso in un testo mutilo.

La probità e la convenienza alla percezione del metodo suggerisce allora soluzioni di volta in volta semplicissime e adeguate, come la messa in evidenza della tela o del legno originario in una pittura, delle strutture murarie o dell’arriccio per un affresco, dell’ordito per un arazzo o per un tappeto.

In quale dei tempi dell’opera d’arte debba cadere l’intervento del restauro. Già è stato chiarito che duplice è la storicità dell’opera d’arte, ed ora può essere puntualizzato con

maggiore precisione che tre sono i tempi da tenere in considerazione affinché l’intervento di restauro possa inserirsi legittimamente sull’opera d’arte.

Il primo tempo consiste nella durata dell’estrinsecazione dell’opera d’arte mentre viene formulata dall’artista. Il secondo tempo abbraccia l’intervallo che intercede fra la fine del processo creativo (senza pregiudizio del punto, di finito o non finito, a cui l’opera sia stata lasciata dal suo autore) e il momento in cui la nostra coscienza attua la ricezione dell’opera d’arte. Il terzo tempo consiste infine nella ricezione medesima della coscienza.

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Anche in questo caso, dal non avere ben definito i tempi relativi all’opera d’arte sono derivati interventi di restauro presuntuosi inopportuni, dannosi. La confusione più facile è quella che mira ad interpretare il tempo dell’opera d’arte col presente storico, in cui l’artista, il riguardante o entrambi vivono.

Ma una volta distinta nelle sue tre fasi la temporalità dell’opera d’arte, in quanto è entrata a far parte del mondo della vita, una confusione del genere diventa impossibile. È chiaro dunque che in nessun modo può l’intervento di restauro reinserirsi nel momento della formulazione dell’opera, retrodatarsi e cangiarsi da restauro in creazione. È tale il restauro di fantasia. Problemi sottili propone invece il secondo momento della temporalità dell’opera d’arte, quando si consideri l’intervallo che si frappone fra il termine del processo creativo e la ricezione dell’opera. Sembrerebbe infatti che questo lasso di tempo non possa rientrare nella considerazione dell’opera d’arte come oggetto estetico, perché questa è ormai c]!venuta immutabile e invariabile, ma, cosi argomentando, si trascurerebbe il fatto basilare della fisicità dell’opera d’arte: tale fisicità può essere minima ma non può mai mancare. Riguardo all’intervento di restauro, è proprio questa fisicità che può aver subito particolari alterazioni. Ma oltre a questo caso, c’è il fatto del!e alterazioni, modificazioni che l’onera può aver subìto a varie riprese lungo la trasmissione del tempo.

Tanto le prime alterazioni che le seconde dovranno essere considerate alla luce delle due istanze, storica ed estetica, ma non potranno mai dar luogo alla pretesa di inserire l’intervento di restauro in questo secondo tempo, sempre anteriore alla ricezione attuale. Naturalmente, così chiarito, si risolverebbe in una pretesa assurda, dato che !1 tempo è irreversibile, e tuttavia è la pretesa che sta alla base del ripristino ottocentesco,

Escluso dunque il primo e il secondo tempo per l’intervento di restauro, l’unico momento legittimo per l’azione di restauro è quello del presente stesso della coscienza ricevente. Il restauro per rappresentare un’opera legittima, non dovrà presumere né il tempo come reversibile né l’abolizione della storia. L’azione di restauro inoltre, e per la medesima esigenza che impone il rispetto della complessa storicità che compete all’opera d’arte, non dovrà porsi come segreta e quasi fuori dal tempo, ma dare modo di essere puntualizzata come evento storico quale essa è, per il fatto di essere un’azione umana e di inserirsi nel processo di trasmissione dell’opera d’arte al futuro. Nell’attuazione pratica questa esigenza storica dovrà tradursi non solo nella differenza delle zone integrate, ma nel rispetto della patina e nella conservazione di campioni dello stato precedente al restauro.

Problemi del restauro secondo l’istanza storica. Se il contemperamento dell’istanza storica e dell’istanza estetica rappresenta la dialetticità del

restauro, né questo può essere legittimamente attuato senza quel contemperamento, occorre tuttavia rilevare i problemi particolari che si pongono dall’una e dall’altra parte, per valutare fino a che punto il contemperamento possa venire senza arbitrio o sopraffazione. Dal punto di vista dell’istanza storica sarà necessario allora iniziare la considerazione dal limite estremo e cioè da quando il sigillo formale impresso alla materia possa risultare pressoché scomparso, e il monumento stesso quasi ridotto ad un mero residuo della materia con cui fu composto.

Il primo grado, dunque, da considerare nell’opera d’arte ai fini dell’istanza storica, è dato dal rudere. Tuttavia sarebbe un errore credere che dalla effettuale realtà del rudere possano trarsi le norme stesse della conservazione del rudere, poiché col rudere non si definisce una vera realtà empirica, ma si enuncia una qualifica che compete a cosa pensata simultaneamente sotto l’angolo della storia e della conservazione, e cioè non solo e limitatamente alla sua consistenza astante, ma nel suo passato, da cui trae l’unico valore quella presenza attuale in sé priva o scarsissima di valore, ‘e nel futuro, a cui deve essere assicurata: in quanto vestigia o testimonianza d’opera umana e punto di partenza dell’azione di conservazione. Rudere sarà dunque tutto ciò che testimonia della storia umana, ma in un aspetto assai diverso e quasi irriconoscibile rispetto a quello originario.

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È questo l’unico caso in cui, per la degradazione dell’opera d’arte nel rudere, può essere assimilato al rudere di opera d’arte anche il rudere che opera d’arte mai non fu, e neppure opera dell’uomo, ma che, sebbene elemento naturale, rientra in una testimonianza storica: come il tronco secco della quercia del Tasso a S. Onofrio a Roma da assicurare al futuro come fosse il rudere di una scultura in legno.

È evidente che il restauro, in quanto rivolto al rudere, non può consistere che nel consolidamento e nella conservazione della materia di cui il rudere consta. Tuttavia non deve credersi ovvio il giudizio di quando l’opera d’arte scompare quasi per divenire rudere – com’era la «meta sudans» a Roma – e quando invece le superstiti vestigia formali la riscattino dall’essere definita rudere, e permettano un intervento di restauro non limitato alla pura conservazione. È discutibile ad esempio se la Chiesa di S. Chiara a Napoli, completamente distrutta nella sua meravigliosa ricreazione (non restauro, si badi bene) settecentesca, e riapparsa dopo i bombardamenti, come chiesa gotica angioina, per altro con mutilazioni gravissime e irrimediabili, che non potevano neppure contare sulla sopravvivenza di soluzioni architettoniche analoghe fosse meglio si conservasse come rudere invece di venire riportata ad una forma, che, così come ora si vede dopo l’intervento innovativo (non restauro e non ricreazione), certamente non ebbe mai. La conservazione come rudere avrebbe mantenuto, quel che è certo, al monumento un’efficacia evocativa infinitamente più ricca di quanto permettano le schematiche e rigide integrazioni che ha ricevuto.

Ma il problema cruciale, secondo l’istanza storica, consiste nella conservazione o nella rimozione delle aggiunte, e, in secondo luogo, nella conservazione o nella rimozione dei rifacimenti. Naturalmente, mentre a proposito del rudere, pressoché unica sarà, il più delle volte, l’istanza storica, in questo caso delle aggiunte e dei rifacimenti, il problema non è solo storico ma anche estetico. E tuttavia il problema va esaminato in sede storica in prima istanza.

Dal punto di vista storico, l’aggiunta e l’interpolazione subita da un’opera d’arte non è che una nuova testimonianza del fare umano e del transito dell’opera d’arte nel tempo: in tal senso l’aggiunta non differisce, per essenza, da quello che è il ceppo originario ed ha gli stessi diritti ad essere conservata. Invece la rimozione, seppure risulti ugualmente da un atto compiuto ad un determinato momento e s’inserisca egualmente nella storia, in realtà distrugge un documento e non documenta a vista se stessa, donde potrebbe portare alla distruzione e quindi all’obliterazione di un trapasso storico in futuro importante, e comunque alla falsificazione di un dato.

Perciò, dalle considerazioni precedenti, discende che la conservazione dell’aggiunta deve ritenersi regolare, eccezionale la rimozione. Tutto il contrario di quello che l’empirismo ottocentesco e i sempre rinascenti vandali (si veda, ad esempio, il recente, e cosiddetto, restauro del S. Domenico di Siena) consiglierebbero per i restauri.

La patina secondo l’istanza storica. Vi è tuttavia un caso in cui l’aggiunta reperibile sull’opera d’arte non si presenta necessariamente

come il prodotto di un fare, e cioè quell’alterazione o soprammissione che ha ricevuto il nome di patina.

La patina non rappresenta una concezione romantica inserita nell’Ottocento nel gusto della pittura antica, ma si trova già come nozione articolata e definita nel Seicento dal Vocabolario delle arti del disegno del Baldinucci, dove trovò naturale approdo dalle botteghe o studi degli artisti. Anche prima del Seicento sarebbe arbitrario asserire che non venisse identificata e gli artisti non vi contassero, nelle modificazioni, sempre ben note seppure non esattamente prevedibili, che il passaggio nel tempo fa subire alla materia di cui consta l’opera d’arte. In certi casi, come per la pittura e la scultura greca, taluni procedimenti documentati storicamente, anche se ignoti «in re», attestano che l’abbassamento di tono, lo spengimento di una materia troppo brillante, era voluto, senza aspettare l’opera del tempo, nei procedimenti dello «atramentum» di Apelles e nella «ganosis» delle statue. Ma dovendo esaminare la

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patina nella sua legittimità o illegittimità per il restauro, e non già entro determinate tradizioni storico-artistiche, dal punto di vista storico si deve riconoscere che è un modo di falsificare la storia nelle sue testimonianze (come lo sono anche le opere d’arte), se queste vengono depurate della loro antichità, se cioè si costringe la materia ad acquistare una freschezza, un taglio netto, un’irruenza che contraddica all’antichità che l’opera attesta. Un qualsiasi privilegio della materia sull’attività dell’uomo che l’ha foggiata non può essere ammesso dalla coscienza storica, visto che l’opera vale per l’attività umana che l’ha foggiata non per il valore intrinseco della materia; valore commerciale che è irrilevante alla ricezione dell’opera come opera d’arte. Dal punto di vista storico pertanto, la conservazione della patina, come conservazione di quel particolare offuscamento che la novità della materia riceve attraverso il tempo ed è quindi testimonianza del tempo trascorso, non solo è auspicabile, ma tassativamente richiesta.

Problemi del restauro secondo l’istanza estetica. Sottoponendo gli stessi problemi, che sono stati esaminati alla luce dell’istanza storica, all’istanza

estetica, risulterà evidente che il rudere non possa essere trattato che come rudere, e l’intervento di restauro svolgersi dunque in direzione unicamente conservativa e non integrativa. A questo primo grado, quindi, dell’azione di restauro non può esservi materia di contenzioso fra istanza storica e istanza estetica.

La situazione cambia quando si passa al problema della conservazione o della rimozione delle aggiunte e dei rifacimenti, poiché questi ben di rado saranno superfetati su dei ruderi, ma il più delle volte su opere perfettamente vitali, per le quali b tentazione di un ripristino può agire in modo fortissimo.

Come affermazione generale, per quanto riguarda l’istanza estetica, l’aggiunta dovrebbe essere rimossa. Si capovolge quindi il problema rispetto a quanto veniva riconosciuto in base all’istanza storica. Ma la contraddizione, il più delle volte, sarà più apparente che reale. Infatti l’imperativo della rimozione dell’aggiunta non può essere tassativo che nel caso di una aggiunta che sia stata perpetrata senza una rielaborazione dell’intero testo o pittorico o scultoreo o architettonico, ma come un’intrusione irriguardosa al monumento, unicamente dovuta a grossolana utilitarietà o velleitaria moda.

Dovunque l’aggiunta o la modificazione sia stata fatta invece in modo tale da rifondere il testo precedente in una nuova unità formale, oppure rappresenti un innesto formalmente elaborato in modo da conciliare due figuratività teoricamente discordanti, l’imperativo della conservazione sarà per l’istanza estetica altrettanto perentorio che per l’istanza storica.

Si faccia il caso della facciata di S. Maria in Cosmedin a Roma, squisitamente rielaborata nel Settecento, e stolidamente cancellata, quando il monumento, nella sua edizione più antica, non aveva nessuna prelazione sulla nuova forma ricevuta. Tanto più sarebbe questo il caso dell’interno di S. Giovanni Laterano, nella meravigliosa veste plastica che gli dette il Borromini. E l’esemplificazione potrebbe essere infinita, dato che, il più delle volte, modestissime e provinciali architetture romaniche o gotiche, a cominciare dal Rinascimento e fino a tutto il Settecento sono state trasformate in monumenti di notevole, talora di altissimo valore architettonico.

Neppure per una pittura od una scultura si può asserire che l’aggiunta o il rifacimento debba sempre venire rimosso. Si faccia l’esempio della Madonna di Lippo Dalmasio al Baraccano a Bologna, ridipinta e completata dal Cossa, oppure quello della Madonna del Bordone di Coppo di Marcovaldo (Chiesa dei Servi, Siena), ridipinta in parte circa un cinquantennio dopo da uno scolaro di Duccio di Buoninsegna, e, fra le sculture, quella del pergamo di Nicola Pisano a Siena, ricomposto, con le aggiunte elaboratissime, dal Riccio. Sono tutti casi per i qua!i la rimozione delle aggiunte sarebbe una follia, anche per l’istanza estetica.

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Perfino in quei casi in cui sembra evidente che si debba promuovere senza esitazione alcuna Ia rimozione di una aggiunta, come per le corone imposte alle sacre immagini spesso con grave deturpamento materiale di chiodi e abrasioni, si deve talora soprassedere. L’esempio più tipico è fornito dal famoso Volto Santo di Luca (S. Martino), il cui plurisecolare addobbo fa parte dell’immagine non meno dei merli nel sepolcro di Cecilia Metella o nell’arco di Augusto a Rimini. Le nuove entità ibride avvincenti, che ne risultano, hanno il diritto di essere rispettate anche per l’istanza estetica.

Se poi si sposta il problema delle aggiunte ai rifacimenti, ancorché non sempre si possa mantenere netta la distinzione, non c’è dubbio che il rifacimento per la dose o larga o piccola di arbitrarietà e di fantasia che contiene, dovrebbe poter essere eliminato sempre che tuttavia la sua eliminazione possa dar luogo ad una restituzione nello stato «quo ante». Ma disgraziatamente questa restituzione non sarà quasi mai possibile, sia che si tratti di architettura o di scultura, in quanto che il rifacimento avrà alterato i punti del contesto antico a cui si collegava, sicché la rimozione del rifacimento lascerebbe l’opera con una mutilazione nuova, spesso più nociva, alla vista, del rifacimento stesso. Ciò si dica in special modo per l’uso invalso fino all’Ottocento, di completare le statue antiche mutile con pezzi aggiunti ed elaborati ex-novo. Per applicare questi pezzi nuovi la vecchia frattura doveva essere resecata o pareggiata o addirittura adattata ad incastro, sicché rimuovendo ora il pezzo aggiunto, quel taglio meccanico che viene in luce costituirà sicuramente come una mutilazione nuova, mentre era agevole espungere il rifacimento o l’aggiunta mentalmente.

Cosi è accaduto per l’Apollo del Belvedere in Vaticano, e cosi accadrebbe se de!le statue dei frontoni di Egina (Monaco, Antikensammlungen), venissero rimossi i pezzi aggiunti dal Thorvaldsen. Ed errore è stato ricomporre, al di fuori che con i calchi, il Laocoonte secondo una versione congetturalmente più aderente alla concezione originaria, in quanto che il gruppo, prima dell’ultimo intervento, era quello inteso nel Cinquecento da Michelangelo al Montorsoli, e aveva acquistato la sua cittadinanza nella storia del l’arte.

La patina secondo l’istanza estetica. Sembrerebbe che, per l’istanza estetica, in un sol caso dovesse risultare legittima la

conservazione della patina, quando cioè l’assestamento dell’eccessiva vivacità dei colori, sotto il velo del tempo, fosse stato previsto esplicitamente dall’autore. Ma sarebbe un grave errore di limitare la conservazione della patina a questi casi fin troppo rari ad accertarsi per poter essere qualcosa di più di un’eccezione. In realtà il problema della conservazione della patina, dal punto di vista estetico, va risolto sulla base stessa della fenomenologia dell’opera d’arte.

La chiave per la soluzione sarà offerta dalla materia di cui consta l’opera d’arte. Posto che la trasmissione dell’immagine avviene per dato e fatto della materia, e che il ruolo della materia è di essere trasmittente, permettendo all’immagine di giungere allo spettatore, la materia in sé e per sé non dovrà mai fare aggio sull’immagine, ma restare ad essa subordinata. Pertanto la patina, dal punto di vista estetico, è quella impercettibile impalpabile sordina posta dal tempo alla materia, che si vede costretta a tenere il suo rango più modesto in seno all’immagine. Con ciò viene legittimata, anche dal punto di vista estetico, la conservazione della patina. Solo allora, in seconda istanza, si può scendere dal nudo enunciato teorico a indicare quella classe di casi nei quali la patina non costituisce soltanto l’attutimento della materia nell’epifania dell’immagine, ma addirittura un potenziamento cromatico, così nelle architetture. Sono più di quattro secoli ormai che è stato riconosciuto questo apporto di bellezza del tempo ai monumenti, riconosciuto da poeti e da pittori, che hanno fatto tesoro del flusso cromatico della patina, e che ad esempio, e non sono molti anni, la costosa e irrispettosa lavatura del Colosseo volle distruggere.

Infine bisogna rilevare l’estremo pericolo e l’estrema difficoltà che per un dipinto, implica la rimozione della patina, così continuamente legata a vernici e a velature da provocare una rovina, se trattata baldanzosamente, come se tutto ciò che asportano solventi di media potenza dovesse

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considerarsi, per le pitture antiche, una indebita soprammissione. Il clamore destato, ma invano purtroppo, dalle strazianti puliture perpetrate alla National Gallery di Londra ad alcuni dei più grandi capolavori della pittura italiana e fiamminga, sta a dimostrare i danni incalcolabili e irrimediabili che l’empirismo paludato di falso scientismo, non meno nel restauro che altrove, produce.

Il restauro preventivo. Restauro preventivo è dizione inconsueta che potrebbe anche indurre nell’errore di credere che

possa esservi una specie di profilassi che, attuata come una vaccinazione possa immunizzare l’opera d’arte nel corso del tempo. Viceversa, per restauro preventivo deve intendersi tutto ciò che miri a prevenire la necessità di un intervento di restauro, sicché il restauro preventivo si pone non meno importante del restauro effettivo. E al restauro preventivo dovrebbero indirizzarsi le autorità preposte alla conservazione delle opere d’arte. L’importanza del restauro preventivo, come prevenzione e salvaguardia, si trova naturalmente affermata nella definizione del restauro, identificato nel momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte e non già in base ai procedimenti tecnici ai quali è demandato l’intervento di restauro.

Come prevenzione e salvaguardia dell’opera d’arte, il restauro preventivo si dirama nelle direzioni più varie, e la definizione di queste direzioni dovrà essere dedotta dalla natura dell’opera d’arte. In quanto l’opera d’arte si definisce in primo luogo nella sua duplice polarità storica ed estetica, la prima direttiva d’indagine sarà quella relativa a determinare le condizioni necessarie per il godimento dell’opera e come opera d’arte e come monumento storico.

In secondo luogo l’opera d’arte si definisce nella materia o nelle materie di cui consta: e qui l’indagine dovrà essere portata sullo stato di consistenza della materia, e successivamente sulle condizioni ambientali, in quanto ne permettano, ne rendano precaria, o direttamente ne minaccino la conservazione.

È chiaro, a questo punto, che non meno che nel restauro effettivo dovranno confluire nel restauro preventivo i risultati, le scoperte, le invenzioni scientifiche che abbiano riferimento ai campi che interessano la sussistenza dell’opera d’arte: dalle ricerche sulla luce e sugli effetti della luce alla scelta delle sorgenti luminose, e cosi per il calore, l’umidità, le vibrazioni, i sistemi di condizionamento, di imballaggio, di sospensione, di disinfestazione. In tal senso l’elenco non potrà mai risultare definitivo, ma richiederà aggiornamenti continui.

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Renato Bonelli Il restauro architettonico (1963)*

[...] Nella rinnovata teoria, impropriamente detta «restauro scientifico», il tratto saliente risulta quello della conservazione: «Tutti gli elementi aventi carattere d’arte o di ricordo storico, a qualunque tempo appartengono, devono essere conservati, senza che il desiderio dell’unità stilistica e del ritorno alla primitiva forma intervenga ad escludere alcuni a detrimento di altri». Ma l’înteresse maggiore risiede nelle premesse recate a giustificare una tale norma: «Nell’opera di restauro devono unirsi, ma non elidersi, vari criteri di diverso ordine: le ragioni storiche che non vogliono cancellata nessuna delle fasi attraverso cui si è composto il monumento, né falsata la sua conoscenza con aggiunte che inducano in errore, né disperso il materiale che le ricerche analitiche pongono in luce; il concetto architettonico che intende riportare il monumento ad una funzione d’arte e ad un’unità di linea; il criterio che deriva dal sentimento dei cittadini, dallo spirito della città, coi suoi ricordi e nostalgie; e quello delle necessità amministrative attinenti ai mezzi occorrenti ed alla pratica utilizzazione», E’ evidente che questa impostazione poggia sopra un concetto dell’arte e dell’architettura, che per aver posto sullo stesso piano fatti pratici ed atti creativi può dirsi, empirico e su di un criterio storiografico che per aver definito il processo storico dell’architettura come svolgimento tipologico e stilistico, risulta filologico ed evoluzionistico. Cosicché, questo tipo di restauro, assimilando l’opera architettonica al documento, la considera quale testimonianza da salvaguardare, perché essa costituisce la prova della presenza di un certo tipo edilizio o forma stilistica in quel determinato momento e luogo e delle loro «cause» e «derivazioni».

Il restauro scientifico (che dovrebbe invece denominarsi filologico) rivela la propria inadeguatezza nel 1943-1945, allorché si devono affrontare le conseguenze delle distruzioni dovute alla guerra; la entità dei danni ne rende inapplicabile il metodo ed origina un ripensamento dei motivi spirituali e dei moventi culturali relativi al complesso di operazioni rese necessarie. La posizione filologica che vuoi considerare il monumento come testimonianza storica, ma ne ignora invece il valore artistico, è dichiarata inaccettabile: un’opera architettonica non è solo un documento, ma è soprattutto un atto che nella sua forma esprime totalmente un mondo spirituale e che essenzialmente per questo assume importanza e significato. Essa rappresenta per la nostra cultura il grado più alto proprio per il suo valore artistico e appunto da questa fondamentale considerazione sorge il nuovo principio informatore del restauro: assegnare al valore artistico la prevalenza assoluta rispetto agli altri aspetti e caratteri dell’opera, i quali devono essere considerati solo in dipendenza ed in funzione di quell’unico valore.

La nuova moderna teoria muove da un procedimento logico che applica al tema l’estetica spiritualistica: se l’architettura è arte, e di conseguenza l’opera architettonica è opera d’arte, il primo compito del restauratore dovrà essere quello di individuare il valore del monumento, e cioè di riconoscere in esso la presenza o meno della qualità artistica. Ma questo riconoscimento è atto critico, giudizio fondato sul criterio che identifica nel valore artistico, e perciò negli aspetti figurali, il grado d’importanza ed il valore stesso dell’opera; sopra di esso è basato il secondo compito, che è di recuperare, restituendo e liberando, l’opera d’aite, vale a dire l’intero complesso di elementi figurativi che costituiscono l’immagine ed attraverso i quali essa realizza ed esprime la propria individualità e spiritualità. Ogni operazione dovrà essere subordinata allo scopo di reintegrare e conservare il valore * BONELLI, Renato, Restauro - Il restauro architettonico (ad vocem), in Enciclopedia Universale dell’Arte, Venezia-Roma, 1963, vol. XI, coll. 344-351.

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espressivo dell’opera, poiché l’intento da raggiungere è la liberazione della sua vera forma. Al contrario, quando le distruzioni siano mai gravi da avere grandemente mutilato l’immagine, non è assolutamente possibile tornare ad avere il monumento; esso non si può riprodurre, poiché l’atto creatore dell’artista è irripetibile.

Da questa impostazione derivano i criteri da adottare, i quali costituiscono una radicale trasformazione ed un rovesciamento del metodo filologico: la necessità di eliminare quelle sovrapposizioni e aggiunte, anche ragguardevoli e di pregio linguistico e testimoniale, che possano intaccare o guastare l’integrità architettonico-figurativa, alterandone la visione; il divieto di ricostruire dove le distruzioni abbiano causato la perdita dell’unità figurata; la legittimità di ricostruzioni, purché assolutamente sicure e soprattutto non sostanziali, completando le parti mancanti in modo da ridare la veduta autentica, piuttosto che designare alla vista le aggiunte. Il rigore di applicazione di queste norme potrà essere attenuato proporzionalmente alla diminuita o imperfetta qualità formale, allorché il monumento non raggiunge la pienezza espressiva e sia da definire come manifestazione di linguaggio, confermandosi però che la prevalenza dev’essere sempre data ai valori figurativi. Definito in tal modo, il restauro coincide con l’azione critica, dato che per l’intera durata dell’operazione la precisa coscienza dell’atto che si compie ed il completo controllo dei suoi risultatî non devono mai venire meno. Ma quando il ripercorrimento della immagine condotto sulla forma figurata risulta interrotto da distruzioni o ingombri visivi, il processo critico è costretto a valersi della fantasia per ricomporre le parti mancanti o riprodurre quelle nascoste e ritrovare infine la compiuta unità dell’opera, anticipando la visione del monumento restaurato. In tal caso, la fantasia da revocatrice diventa produttrice, e si compie il primo passo per integrare il procedimento critico per la creazione artistica. Questa interviene poi direttamente nel caso che gli elementi rimasti non siano sufficienti a fornire la traccia per restituire una o più parti mancanti dell’edificio, cosicché il restauratore si trovi a doverle sostituire con elementi nuovi, per ridare all’opera una propria unità e continuità formale, giovandosi di una libera scelta creatrice. Restauro come processo critico e restauro quale atto creativo sano dunque legati da un rapporto dialettico, in cui il primo definisce le condizioni che l’altro deve adottare come proprie intime premesse, e dove l’azione critica realizza la comprensione architettonica, che l’azione creatrice è chiamata a proseguire ed integrare.

Questo sistema di concetti e di criteri che ne dipendono, e che prende il nome di e restauro critico», rompe l’isolamento e trasforma radicalmente il carattere già analitico ed érudito del restauro, dotandolo di un’apertura culturale che provoca anzitutto il superamento del filologismo. Poi la teoria del restauro critico si sviluppa ampliandosi e, richiamando il principio originario e più generale di rendere nuovamente viva ed attuale l’opera architettonica, la considera come un momento formale di vita, che può attingere l’espressione, ma può anche essere commista di motivi pratici, estrinsecazione di una vitalità che torna ad essere attiva e vivente nella nostra azione critica. Perciò il criterio filologico della conservazione, applicato a tutte le fasi edilizie del monumento, con le limitazioni apportate dal principio della prevalenza dei valori artistici sugli altri, assume qui diverso significato; non è più diretto ad assicurare la permanenza di un documento, ma a permettere di «attualizzare» un atto creativo, fissato nella forma, in tutta la sua validità. Ed in questo procedere al riconoscimento del valore che la cultura assegna al monumento, si unisce la consapevolezza del bisogno di ridargli quèlla validità e quella pregnanza che il tempo e le vicende trascorse hanno via via consumato e ridotto, e di adeguare perciò la forma alle richieste della nuova fruizione culturale ed artistica.

Quindi, nel restauro critico, due diversi impulsi si contrappongono: quello di mantenere un atteggiamento di rispetto verso l’opera in esame, considerata nella sua conformazione attuale, e l’altro di assumere l’iniziativa e la responsabilità di un intervento diretto a modificare tale forma, allo scopo di accrescere lo stesso valore del monumento. En tale contrasto il primo obbedisce ad una valutazione testimoniale dell’edificio quale documento, ma anche al riconoscimento del valore sub-storico degli elementi concettuali, etici e psicologici che lo hanno originato e lo caratterizzano, e che in esso

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divengono immagine individuata e prodotto di gusto, forma vivente carica di tutta l’umana ricchezza di un incombente passato, il secondo è mosso dal desiderio di possedere compiutamente il monumento, di farlo proprio partecipando alla ricreazione della sua forma fino ad aggiungere o togliere alcune parti di esso ed è sollecitato dall’intento di pervenire a quella qualîtà formale che corrisponde all’ideale architettonico del tempo presente. La seconda posizione costituisce la logica conseguenza e l’inevitabile superamento della prima; entrambe riconoscono il valore storico e formale dell’opera, e se l’una accentua la valutazione nel rispetto del monumento cosi come si trova, l’altra muove da quella stessa valutazione per affermare la necessità di intervenire, sovrapponendo il presente al passato, nello sforzo di fondere in una vera unità l’antico al nuovo.

Nel quadro della cultura attuale il restauro, inteso come valutazione critica, si identifica con la storia artistica ed architettonica, ne assume i principi ed i metodi e ne costituisce un caso particolare: quello in cui l’azione critica si prolunga nella esecuzione pratica dei provvedimenti diretti a rendere evidente e completa la valutazione, .e culturalmente operante la poetica del linguaggio caratterizzato. Nel considerare il restauro atto creativo, si arriva alla constatazione che il vaglio critico, intimo e determinante presupposto della creazione che il restauro stesso aggiunge e componente fondamentale dell’odierna cultura architettonica, definisce l’opera del restauratore come quella che è veramente completa e rispondente al carattere di tale cultura. L’integrazione fornita, dalla critica quale indispensabile premessa all’opera artistica, ed il vincolo rappresentato dalla presenza formale del monumento che vi riporta e vi attualizza il passato, sono tali da modificare sostanzialmente le condizioni nelle quali la creazione è chiamata ad estrinsecarsi, e giungono fino al fondere in un atto unico il concetto concretizzato nel giudizio e l’intuizione espressa nell’immagine. Il restauro costituisce dunque un’attività nella quale l’odierna cultura attua pienamente se stessa e che risulta più rappresentativa della stessa architettura contemporanea, poiché dimostra una cosciente continuità col passato ed una consapevolezza del momento storico che l’edilizia moderna non possiede.

Un ulteriore ampliamento e approfondimento della teoria del restauro è dovuto all’estensione del campo applicativo, prima dai monumenti maggiori all’ambiente urbano, poi oltre i limiti dell’attività linguistica e formale, in rapporto allo sviluppo del concetto stesso di architettura. Il passaggio della tradizionale concezione dell’opera architettonica come edificio singolo ed isolato a quella odierna dell’architettura come letteratura e linguaggio, intesi quale creazione continua nel tempo, liberamente situata nello spazio come forma aperta, crescente e mai compiuta, segna la scoperta del valore formale e storico dell’ambiente antico. Dall’ultimo decennio dell’Ottocento questo processo si svolge in modo lento e discontinuo, e l’attenzione degli studi architettonici passa gradualmente dai monumenti principali al loro ambiente (inteso come fondale visibile), ai monumenti meno importanti, agli edaci piccoli e modesti, poi ai complessi edilizi più singolari ed ai nuclei storici meglio caratterizzati, fino a comprendere l’intera città antica. Questa viene ora definita come immagine figurata e vivente di una realtà storica, espressa nei modi del linguaggio architetturale, diversificata e mutevole nel tempo, in cui ogni edificio o elemento costituisce un momento formale di vita. Cosicché il suo valore è quello di una «presenza formale» vivente ed attiva che attualizza la storia, mentre la vita stessa, nelle sue vicende edilizie, si storicizza nella qualità della forma ed esprime ogni volta il significato del pensiero e l’ideale etico di quel momento storico. Donde il valore imparagonabile ed insostituibile del centro antico di una città, che è parte essenziale ed immagine della sua e nostra storia, linguaggio ed ambiente formale della nostra odierna esistenza, alimento alla capacità creativa ed alla vita spirituale.

Di conseguenza il restauro, in quanto operazione critica diretta all’intendimento ed alla conservazione, investe e comprende nel proprio campo l’intero ambiente urbano e tutta la città antica, trasformandosi in «restauro urbanistico». E questa trasformazione è contrassegnata da un corrispondente ampliamento di concetti: se nel restauro architettonico (che tratta opere d’arte o singole espressioni di linguaggio) per l’assoluta esigenza espressiva che richiede il distacco della realtà pura da quella esistenziale, l’uso pratico e la funzione dell’edificio non possono influire sul giudizio critico e

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quindi determinare il modo del restauro, nel restauro urbanistico (che tratta l’ambiente urbano) interviene il rapporto tra figurazione e motivo realistico, per cui entrambi i termini formano oggetto di valutazione. Nei cosiddetti centri storici, che si configurano secondo lo spontaneo atteggiarsi della forza vitale guidata da interiore coerenza, quest’impulso della vitalità, compenetrato nella forma e fuso in essa, non costituisce più realtà pratica, ma vita tradotta in forma e forma pregnante di vîta; ed è in tale complessa realtà storica e sub-storica che il restauro deve incidere.

Perciò la problematica del restauro è tenuta a svilupparsi, articolandosi e distinguendo posizioni diverse secondo casi teoreticamente distinti. Di fronte all’opera d’arte, od a monumenti singoli, forme architetturali in cui spiccano i valori artistici, valgono i criteri del restauro quale processo critico ed atto creativo; diversamente, quando l’operazione da intraprendere assume il carattere di piano di conservazione di un ambiente antico, l’originario orizzonte del gusto e della letteratura si allarga a comprendere il mondo della storia e della vitalità, vagliati per mezzo della critica storica nella sua accezione più generale. Con questo il processo critico si amplia a comprendere un intero quadro storico e sub-storico concretizzato nella forma, in cui coesistono valori artistici ed extra artistici e cioè pratici, concettuali e psicologici; nel confronto, gli uni e gli altri devono essere dialetticamente rapportati, onde pervenire ad un giudizio complessivo ed unitario. Lo scopo è quello di cogliere nella polivalente complessità della formazione ambientale, l’impulso maggiore e dominante che si traduce nel motivo saliente, l’istanza che si rivela storicamente valida e viva. Lo stesso giudizio, quindi, determina la scelta che occorre operare fra valori formali, letterari e linguistici da un lato e valori etici e psicologici dall’altro, attualizzati nella sfera pratica come fatto individuale e sociale; e poiché quel motivo dominante e saliente è spesso un valore extra-artistico, in tal caso il criterio che deve guidare il restauro ha per fine di conservare, liberare o restituire un atto contraddistinto dalla propria natura non formale.

I due rami del restauro critico marcano pertanto un evidente parallelismo di problemi e di metodi; ma quello urbanistico comporta una più varia complessità di problemi di valutazione, per il bisogno di distinguere i valori artistici da quelli letterari e poi questi e gli altri da quelli pratici. La distinzione dev’essere sviluppata e perfezionata col delimitare il campo spaziale, dimensionale e prospettico-visivo proprio a ciascun motivo caratterizzante, e cioè con l’individuare, definire e circoscrivere ogni «ambiente» vero e proprio, inteso in senso architettonico e figurativo. Per giungere a questo è necessario uno studio svolto in fasi successive: quella della preparazione filologica, che comprende la ricostruzione delle fasi cronologiche, dei periodi costruttivi e delle diverse trasformazioni edilizie, condotta sull’esame dei documenti ed attraverso il rilievo metrico e l’analisi delle strutture degli edifici e con la determinazione stilistica degli elementi e la datazione comparata dei fabbricati e delle loro parti; l’altra della rievocazione intuitiva ed unitaria di tutte queste premesse come processo vivo e presente, vale a dire come vera storia della città; e infine il giudizio, che deve essere valutazione artistica e letteraria del complesso figurale e valutazione storica dei motivi di vita permanenti ed attuali.

Con questo il restauro si trova a dover aggiungere, accanto ai fini della conservazione o restituzione dell’immagine, quelli del mantenimento del volto della città in quanto forma significante e vivente, composta di motivi evocatori di fatti psicologici e di sentimento, Questi possono essere forme ambientali complesse, come una visuale consueta ed ormai issata dalla tradizione, od un profilo panoramico dove quel volto si ritrova, rievocando la storia cittadina che si trasfonde di continuo nella vita odierna; oppure sono forme ambientali semplici, edifici privi di valore artistico, ma così strettamente legati al passato della città da diventare una forma «rappresentativa» e carica di significato (una chiesa o un campanile, un castello, un ponte, una torre civica, un palazzo pubblico, ecc.). E la critica storica e insieme artistica è tenuta a rispondere alla domanda se queste «presenze» devono essere considerate essenziali alla città come organica formazione storica ed in rapporto alla sua immagine visiva e se, in caso di distruzione totale o parziale, esse devono essere ricostruite per restituire all’ambiente urbano la propria integrità formale e funzionale.

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A questo ampliamento del piano culturale, consegue la necessità che il restauro urbanistico, in quanto restauro dell’antica città storica, provveda a coordinare strettamente i propri criteri e programmi ai corrispondenti metodi di studio e di operazione dell’urbanistica, poiché un intervento di tale portata non può prescindere dalla pianificazione urbana e territoriale. Perciò il restauro è ormai obbligato ad operare nell’ambito ed in armonia con le direttive e le disposizioni del piano regolatore generale, che a sua volta è tenuto a qualificare il nucleo storico come organo dotato di una propria e ben definita funzione nella vita di quel complesso integrato che costituisce la città. Su questo piano il restauro non può ignorare gli aspetti sociali ed economici, e deve perciò considerare la vita che si svolge negli antichi quartieri, con tutti i suoi problemi: la struttura e la composizione delle collettività che v’i abitano; i loro bisogni psicologici e materiali, la loro consistenza e fisionomia sociale, le loro risorse economiche e capacità produttive, la possibilità e convenienza di un loro spostamento in altre residenze. E deve anche prevedere che in dipendenza di ciò, le opere edilizie da eseguire presuppongono tali problemi, predisponendone la soluzione. Quest’ultimo sviluppo trasforma il restauro in operazione socialmente e culturalmente completa, in un restauro totale dell’aggregato edilizio nella sua forma, struttura e funzione ed in una riforma delle condizioni di esistenza della stessa comunità che vi risiede; restauro della città e della sua vita.

Nell’ambito di questa concezione, e per conseguire la sua traduzione operativa, il decennio 1953-1962 è stato dedicato anche allo studio e alla definizione degli aspetti tecnico-edilizi, giuridici ed economia del restauro urbanistico. Entro la regola del rispetto assoluto rivolto a conservare la città antica nella sua forma attuale, i criteri assunti sono: considerare il centro storico nel quadro del piano regolatore urbano, per assegnare ad esso una determinata e specifica funzione entro l’organismo della città, e in rapporto al dimensionamento, coordinamento ed ubicazione degli altri insediamenti e servizi urbani; riportare la città antica ad assolvere compiti adeguati alle sue caratteristiche dimensionali ed alla sua struttura edilizia, in armonia con le sue qualità ambientali, col trasferire altrove le sedi direzionali, commerciali e degli affari, per difenderla dall’eccessivo addensamento e dal conseguente traffico motorizzato; assicurare però al centro storico la permanenza di quelle sedi ed attività che ne determinano la fisionomia e ne definiscono, insieme ai valori storici-formali, il ruolo di centro ideale e «cuore» della città, alimentando la sua forza vitale ed evitandone il decadimento; abbandonare la politica dei vincoli e la conseguente azione di repressione e difesa passiva ed adottando una politica attiva e programmata di pieno intervento diretta a realizzare il risanamento strutturale ed igienico dei centri storici, mediante una grande operazione di restauro estesa a tutto il nucleo antico, classificare, infine tale operazione, dettagliatamente progettata in appositi «piani di risanamento conservativo», come un vero e proprio programma di pianificazione urbanistico territoriale, e pertanto parte integrante ed essenziale dei piani generali di sviluppo comunali, comprensoriali e regionali.

Ma le difficoltà che si frappongono alla realizzazione del restauro urbanistico cosi concepito sono grandissime: il costo elevato dell’operazione, che non è mai attiva sul piano economico; la mancanza di strumenti giuridici, opportunamente coordinati con la legislazione economica ed urbanistica, che prevedono tale pianificazione; l’assenza di organi pubblici per la previsione, il potenziamento, la progettazione ed il controllo, dotati dei poteri e delle competenze culturali e tecniche necessarie a programmare ed attuare i piani di risanamento conservativo. V’è inoltre la presenza delle collettività residenti nei centri storici, che si sovrappongono ai valori architettonici ed ambientali in modo causale e disarmonico, vivendo in maniera non formale, ignorando e trasformando o distruggendo per bisogni pratici la struttura e la forma della città antica. Le continuità che dovrebbe legare il passato al presente (che è presente critico e perciò intendimento e valutazione) resta troncata, poiché in generale e salvo rare eccezioni, gli abitanti dei quartieri antichi non sentono il richiamo delle qualità ambientali di quei luoghi, e di conseguenza non avvertono il bisogno psicologico e formale di restarvi.

La natura dell’ambiente è così intimamente connessa al mondo della vitalità, alle mutazioni della vita pratica e a quelle del gusto corrente ed in continuo consumo e rinnovamento, da esigere in ogni

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caso, quale condizione per rimanere un «vivente», la condizione di tale processo di sviluppo e di riformazione, nel quale risiede la sua origine vitale. Un ambiente non è tale se non è abitato; se non è ricco di vita, di sovrapposte forme mutevoli, di attività individuai e collettive; ma occorre che questa vita, nelle sue varie e complesse manifestazioni, si trovi in rapporto diretto, in corrispondenza ed in armonia con l’ambiente edilizio, e cioè che il quadro formale costituisca veramente la premessa alla vita degli abitanti. Questo non avviene, ed il motivo risiede nello stesso carattere della civiltà contemporanea, che ha assorbito nelle manifestazioni della vita pratica ed economica la quasi totalità delle umane energie, privando l’uomo del bisogno e della capacità di intendere i valori figurali dell’architettura e dell’ambiente urbano, deteriorando l’esigenza espressiva e diluendola e tramutandola nel desiderio e nel consumo di volgari surrogati dell’arte, nelle forme e nei modi propri ai mezzi edonistici pubblicitari, Per queste ragioni il restauro urbanistico rimane azione incompleta, che si arresta alle fasi del risanamento conservativo e del restauro critico ed esclude l’opera di ricostituizione e di nuova formazione delle comunità ospiti.

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Carta di Venezia (1964)*

Le opere monumentali dei popoli, recanti un messaggio spirituale del passato, rappresentano, nella vita attuale, la viva testimonianza delle loro tradizioni secolari. L’umanità, che ogni giorno prende atto dei valori umani, le considera patrimonio comune, riconoscendosi responsabile della loro salvaguardia di fronte alle generazioni future. Essa si sente in dovere di trasmetterle nella loro completa autenticità.

È essenziale che i princìpi che presiedono alla conservazione ed al restauro dei monumenti vengano prestabiliti e formulati a livello internazionale, lasciando tuttavia che ogni Paese li applichi, tenendo conto della propria cultura e delle proprie tradizioni.

Definendo per la prima volta questi princìpi fondamentali, la Carta di Atene del 1931 ha contribuito allo sviluppo di un vasto movimento internazionale, che si è particolarmente concretato in documentazioni nazionali, nell’attività dell’ICOM e dell’UNESCO, e nella creazione ad opera dell’UNESCO stessa del Centro Internazionale di Studio per la conservazione ed il restauro dei Beni Culturali. Sensibilità e spirito critico si sono rivolti su problemi sempre più complessi e variati; è arrivato quindi il momento di riesaminare i princìpi della Carta, al fine di approfondirli e di ampliarne l’operatività in un documento nuovo.

Di conseguenza, il Secondo Congresso Internazionale degli Architetti e Tecnici dei Monumenti, riunitosi a Venezia dal 25 al 31 maggio 1964, ha approvato il testo seguente:

Definizioni: Art. 1) La nozione di monumento storico comprende tanto la creazione architettonica isolata

quanto l’ambiente urbano o paesistico che costituisca la testimonianza di una civiltà particolare, di un’evoluzione significativa o di un avvenimento storico. Questa nozione si applica non solo alle grandi opere ma anche alle opere modeste che, con il tempo, abbiano acquistato un significato culturale.

Art. 2) La conservazione ed il restauro dei monumenti costituiscono una disciplina che si vale di tutte le scienze e di tutte le tecniche che possano contribuire allo studio ed alla salvaguardia del patrimonio monumentale.

Scopo: Art. 3) La conservazione ed il restauro dei monumenti mirano a salvaguardare tanto l’opera d’arte

che la testimonianza storica. Conservazione: Art. 4) La conservazione dei monumenti impone innanzi tutto una manutenzione sistematica. Art. 5) La conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni

utili alla società: una tale destinazione è augurabile ma non deve alterare la distribuzione e l’aspetto dell’edificio. Gli adattamenti pretesi dall’evoluzione degli usi e dei costumi devono dunque essere contenuti entro questi limiti.

* Carta di Venezia, in ICOMOS, Il monumento per l’uomo – Atti del II Congresso internazionale degli architetti e tecnici dei monumenti, (Venezia, 25-31 Maggio 1964), Padova, Marsilio, 1971, ora in CARBONARA, Giovanni, Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti, Napoli, Liguori, 1997, pp. 658-661.

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Art. 6) La conservazione di un monumento implica quella delle sue condizioni ambientali. Quando sussista un ambiente tradizionale, questo sarà conservato; verrà inoltre messa al bando qualsiasi nuova costruzione, distruzione e utilizzazione che possa alterare i rapporti di volumi e colori.

Art. 7) Il monumento non può essere separato dalla storia della quale è testimone, né dall’ambiente in cui si trova. Lo spostamento di una parte o di tutto il monumento non può quindi essere accettato se non quando la sua salvaguardia lo esiga o quando ciò sia giustificato da cause di eccezionale interesse nazionale o internazionale.

Art. 8) Gli elementi di scultura, di pittura o di decorazione che sono parte integrante del monumento non possono essere separati da esso che quando questo sia l’unico modo atto ad assicurare la loro conservazione.

Restauro: Art. 9) Il restauro è un processo che deve mantenere un carattere eccezionale. Il suo scopo è di

conservare e di rivelare i valori formali e storici del monumento e si fonda sul rispetto della sostanza antica e delle documentazioni autentiche. Il restauro deve fermarsi dove ha inizio l’ipotesi: sul piano delle restituzioni congetturali qualsiasi lavoro di completamento, riconosciuto indispensabile per ragioni estetiche e tecniche, deve distinguersi dalla progettazione architettonica e dovrà recare il segno della nostra epoca. Il restauro sarà sempre preceduto e accompagnato da uno studio archeologico e storico del monumento.

Art. 10) Quando le tecniche tradizionali si rivelino inadeguate, il consolidamento di un monumento può essere assicurato mediante l’ausilio di tutti i più moderni mezzi di struttura e di conservazione, la cui efficienza sia stata dimostrata da dati scientifici e sia garantita dall’esperienza.

Art. 11) Nel restauro di un monumento sono da rispettare i contributi che definiscono l’attuale configurazione del monumento, a qualunque epoca appartengano, in quanto l’unità stilistica non è lo scopo di un restauro. Quando in un edificio si presentano parecchie strutture sovrapposte, la liberazione di una struttura sottostante non si giustifica che eccezionalmente, e a condizione che gli elementi rimossi siano di scarso interesse, che la composizione architettonica rimessa in luce costituisca una testimonianza di grande valore storico, archeologico o estetico, e che il suo stato di conservazione sia ritenuto sufficiente. Il giudizio sul valore degli elementi in questione e la decisione sulle eliminazioni da eseguirsi non possono dipendere dal solo autore del progetto.

Art. 12) Gli elementi destinati a sostituire le parti mancanti devono integrarsi armoniosamente nell’insieme, distinguendosi tuttavia dalle parti originali, affinché il restauro non falsifichi il monumento, sia nel suo aspetto artistico, sia nel suo aspetto storico.

Art. 13) Le aggiunte non possono essere tollerate se non rispettano tutte le parti interessanti dell’edificio, il suo ambiente tradizionale, l’equilibrio della sua composizione ed i rapporti con l’ambiente circostante.

Ambienti monumentali: Art. 14) Gli ambienti monumentali devono essere l’oggetto di speciali cure, al fine di

salvaguardare la loro integrità ed assicurare il loro risanamento, la loro utilizzazione e valorizzazione. I lavori di conservazione e di restauro che vi sono eseguiti devono ispirarsi ai princìpi enunciati negli articoli precedenti.

Scavi: Art. 15) I lavori di scavo devono essere eseguiti conformemente a norme scientifiche ed alla

«Raccomandazione che definisce i princìpi internazionali da applicare in materia di scavi archeologici» adottata dall’UNESCO nel 1956.

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Saranno assicurate l’utilizzazione delle rovine e le misure necessarie alla conservazione ed alla stabile protezione delle opere architettoniche e degli oggetti rinvenuti. Verranno inoltre prese tutte le iniziative che possano facilitare la comprensione del monumento messo in luce, senza mai snaturarne i significati.

È da escludersi «a priori» qualsiasi lavoro di ricostruzione, mentre è da considerarsi solo l’anastilosi, cioè la ricomposizione di parti esistenti, ma smembrate. Gli elementi di integrazione dovranno sempre essere riconoscibili e limitati a quel minimo che sarà necessario a garantire la conservazione del monumento e ristabilire la continuità delle sue forme.

Documentazione e pubblicazione: Art. 16) I lavori di conservazione, di restauro e di scavo saranno sempre accompagnati da una

documentazione precisa con relazioni analitiche e critiche, illustrate da disegni e da fotografie. Tutte le fasi dei lavori di liberazione, di consolidamento, di ricomposizione e di integrazione, come gli elementi tecnici e formali identificati nel corso dei lavori, vi saranno incluse. Questa documentazione sarà depositata in pubblici archivi e verrà messa a disposizione degli studiosi. La sua pubblicazione è vivamente raccomandata.

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Carta del restauro M.P.I. (1972)*

Relazione La coscienza che le opere d’arte, intese nell’accezione più vasta che va dall’ambiente urbano ai

monumenti architettonici a quelli di pittura e scultura, e dal reperto paleolitico alle espressioni figurative delle culture popolari, debbano essere tutelate in modo organico e paritetico, porta necessariamente alla elaborazione di norme tecnico-giuridiche che sanciscano i limiti entro i quali va intesa la conservazione, sia come salvaguardia e prevenzione, sia come intervento di restauro propriamente detto. In tal senso costituisce titolo d’onore della cultura italiana che, a conclusione di una prassi di restauro che via via si era emendata dagli arbitrî del restauro di ripristino, venisse elaborato già nel 1931 un documento che fu chiamato Carta del Restauro, dove, sebbene l’oggetto fosse ristretto ai monumenti architettonici, facilmente potevano attingersi ed estendersi le norme generali per ogni restauro anche di opere d’arte pittoriche e scultoree.

Disgraziatamente tale Carta del Restauro non ebbe mai forza di legge, e quando, successivamente, per la sempre maggiore coscienza che si veniva a prendere dei pericoli ai quali esponeva le opere d’arte un restauro condotto senza precisi criteri, si intese, nel 1938, sovvenire a questa necessità, sia creando l’Istituto Centrale del Restauro per le opere d’arte, sia incaricando una Commissione ministeriale di elaborare delle norme unificate che a partire dall’archeologia abbracciassero tutti i rami delle arti figurative; tali norme, da definirsi senz’altro auree, rimasero anch’esse senza forza di legge, quali istruzioni interne dell’Amministrazione, né la teoria o la prassi che in seguito vennero elaborate dall’Istituto Centrale del Restauro furono estese a tutti i restauri di opere d’arte della Nazione.

Il mancato perfezionamento giuridico di tale regolamentazione di restauro non tardò a rivelarsi come deleterio, sia per lo stato di impotenza in cui lasciava davanti agli arbitrî del passato anche in campo di restauro (e soprattutto di sventramenti e alterazioni di antichi ambienti), sia in seguito alle distruzioni belliche, quando un comprensibile ma non meno biasimevole sentimentalismo, di fronte ai monumenti danneggiati o distrutti, venne a forzare la mano e a ricondurre a ripristini e a ricostruzioni senza quelle cautele e remore che erano state vanto dell’azione italiana di restauro. Né minori guasti dovevano prospettarsi per le richieste di una malintesa modernità e di una grossolana urbanistica, che, nell’accrescimento delle città e col movente del traffico, portava proprio a non rispettare quel concetto di ambiente, che, oltrepassando il criterio ristretto del monumento singolo, aveva rappresentato una conquista notevole della Carta del Restauro e delle successive istruzioni. Riguardo al più dominabile campo delle opere d’arte, pittoriche e scultoree, sebbene, anche in mancanza di norme giuridiche, una maggiore cautela del restauro abbia evitato danni gravi quali le conseguenze delle esiziali puliture integrali, come purtroppo è avvenuto all’Estero, tuttavia l’esigenza dell’unificazione di metodi si è rivelata imprescindibile, anche per intervenire validamente sulle opere di proprietà privata, ovviamente non meno importanti, per il patrimonio artistico nazionale, di quelle di proprietà statale o comunque pubblica.

* Carta del restauro 1972, Consiglio superiore delle Antichità e Belle Arti, marzo 1972, ora in CARBONARA, Giovanni, Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti, Napoli, Liguori, 1997, pp. 661-679.

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Carta del restauro Art. 1) Tutte le opere d’arte di ogni epoca, nell’accezione più vasta che va dai monumenti

architettonici a quelli di pittura e scultura, anche se in frammenti, e dal reperto paleolitico alle espressioni figurative delle culture popolari e dell’arte contemporanea a qualsiasi persona o ente appartengano, ai fini della loro salvaguardia e restauro, sono oggetto delle presenti istruzioni che prendono il nome di «Carta del Restauro 1972».

Art. 2) Oltre alle opere indicate nell’articolo precedente vengono a queste assimilati, per assicurarne la salvaguardia e il restauro, i complessi di edifici d’interesse monumentale, storico o ambientale, particolarmente i centri storici; le collezioni artistiche e gli arredamenti conservati nella loro disposizione tradizionale; i giardini e i parchi che vengono considerati di particolare importanza.

Art. 3) Rientrano nella disciplina delle presenti istruzioni, oltre alle opere definite agli artt. 1 e 2, anche le operazioni volte ad assicurare la salvaguardia e il restauro dei resti antichi in rapporto alle ricerche terrestri e subacquee.

Art. 4) S’intende per salvaguardia qualsiasi provvedimento conservativo che non implichi l’intervento diretto sull’opera: s’intende per restauro qualsiasi intervento volto a mantenere in efficienza, a facilitare la lettura e a trasmettere integralmente al futuro le opere e gli oggetti definiti agli articoli precedenti.

Art. 5) Ogni Soprintendenza ed Istituto responsabile in materia di conservazione del patrimonio storico-artistico e culturale compilerà un programma annuale e specifico dei lavori di salvaguardia e di restauro nonché delle ricerche nel sottosuolo e sott’acqua, da compiersi per conto sia dello Stato sia di altri Enti o persone, che sarà approvato dal Ministero della Pubblica Istruzione su conforme parere del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti.

Nell’ambito di tale programma, anche successivamente alla presentazione dello stesso, qualsiasi intervento sulle opere di cui all’art. 1 dovrà essere illustrato e giustificato da una relazione tecnica dalla quale risulteranno oltre alle vicissitudini conservative dell’opera lo stato attuale della medesima, la natura degli interventi ritenuti necessari e la spesa occorrente per farvi fronte.

Detta relazione sarà parimenti approvata dal Ministero della Pubblica Istruzione, previo, per i casi emergenti o dubbi e per quelli previsti dalla legge, parere del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti.

Art. 6) In relazione ai fini ai quali per l’art. 4 devono corrispondere le operazioni di salvaguardia e restauro, sono proibiti, indistintamente, per tutte le opere d’arte di cui agli artt. 1, 2, 3:

1) completamenti in stile o analogici, anche in forme semplificate e pur se vi siano documenti grafici o plastici che possano indicare quale fosse stato o dovesse apparire l’aspetto dell’opera finita;

2) remozioni o demolizioni che cancellino il passaggio dell’opera attraverso il tempo, a meno che non si tratti di limitate alterazioni deturpanti o incongrue rispetto ai valori storici dell’opera o di completamenti in stile che falsifichino l’opera;

3) remozione, ricostruzione o ricollocamento in luoghi diversi da quelli originari; a meno che ciò non sia determinato da superiori ragioni di conservazione;

4) alterazione delle condizioni accessorie o ambientali nelle quali è arrivata sino al nostro tempo l’opera d’arte, il complesso monumentale o ambientale, il complesso d’arredamento, il giardino, il parco ecc.;

5) alterazione o remozione delle patine. Art. 7) In relazione ai medesimi fini di cui all’art. 6 e per tutte indistintamente le opere di cui agli

artt. 1, 2, 3, sono ammesse le seguenti operazioni o reintegrazioni: 1) aggiunte di parti accessorie in funzione statica e reintegrazione di piccole parti storicamente

accertate attuate secondo i casi o determinando in modo chiaro la periferia delle integrazioni, oppure adottando materiale differenziato seppure accordato, chiaramente distinguibile a occhio nudo in particolare nei punti di raccordo con le parti antiche, inoltre siglate e datate ove possibile;

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2) puliture che, per le pitture e le sculture policrome, non devono giungere mai allo smalto del colore, rispettando la patina e eventuali vernici antiche; per tutte le altre specie di opere non dovranno arrivare alla nuda superficie della materia di cui constano le opere stesse;

3) anastilosi sicuramente documentate, ricomposizione di opere andate in frammenti, sistemazione di opere lacunose, ricostituendo gli interstizi di lieve entità con tecnica chiaramente differenziabile a occhio nudo o con zone neutre accordate al livello diverso dalle parti originarie, o lasciando a vista il supporto originario, comunque mai integrando ex novo zone figurate e inserendo elementi determinanti per la figuratività dell’opera;

4) modificazioni e nuove inserzioni a scopo statico e conservativo della struttura interna o nel sostrato o supporto, purché all’aspetto, dopo compiuta l’operazione, non risulti alterazione né cromatica né per la materia in quanto osservabile in superficie;

5) nuovo ambientamento o sistemazione dell’opera, quando non esistano più o siano distrutti l’ambientamento o la sistemazione tradizionale, o quando le condizioni di conservazione esigano la remozione.

Art. 8) Ogni intervento sull’opera o anche in contiguità dell’opera ai fini di cui all’art. 4 deve essere eseguito in modo tale e con tali tecniche e materie da potere dare affidamento che nel futuro non renderà impossibile un nuovo eventuale intervento di salvaguardia o di restauro. Inoltre ogni intervento deve essere preventivamente studiato e motivato per iscritto (ultimo comma art. 5) e del suo corso dovrà essere tenuto un giornale, al quale farà seguito una relazione finale, con la documentazione fotografica di prima, durante e dopo l’intervento. Verranno inoltre documentate tutte le ricerche e analisi eventualmente compiute col sussidio della fisica, la chimica, la microbiologia ed altre scienze. Di tutte queste documentazioni sarà tenuta copia nell’archivio della Soprintendenza competente e un’altra copia inviata all’Istituto Centrale del Restauro.

Nel caso di puliture, in un luogo possibilmente liminare della zona operata, dovrà essere conservato un campione dello stadio anteriore all’intervento, mentre nel caso di aggiunte, le parti rimosse dovranno possibilmente essere conservate o documentate in uno speciale archivio-deposito delle Soprintendenze competenti.

Art. 9) L’uso di nuovi procedimenti di restauro e di nuove materie, rispetto ai procedimenti e alle materie il cui uso è vigente o comunque ammesso, dovrà essere autorizzato dal Ministero della P.I. su conforme e motivato parere dell’Istituto Centrale del Restauro, a cui spetterà anche di promuovere azione presso il Ministero stesso per sconsigliare materie e metodi antiquati, nocivi e comunque non collaudati, suggerire nuovi metodi e l’uso di nuove materie, definire le ricerche alle quali si dovesse provvedere con un’attrezzatura e con specialisti al di fuori dell’attrezzatura e dell’organico a sua disposizione.

Art. 10) I provvedimenti intesi a preservare dalle azioni inquinanti e dalle variazioni atmosferiche, termiche e igrometriche, le opere di cui agli artt. 1, 2, 3, non dovranno essere tali da alterare sensibilmente l’aspetto della materia e il colore delle superfici, o da esigere modifiche sostanziali e permanenti dell’ambiente in cui le opere storicamente sono state trasmesse. Qualora tuttavia modifiche del genere fossero indispensabili per il superiore fine della conservazione, tali modifiche dovranno essere fatte in modo da evitare qualsiasi dubbio sull’epoca in cui sono state eseguite e con le modalità più discrete.

Art. 11) I metodi specifici di cui avvalersi come procedura di restauro singolarmente per i monumenti architettonici, pittorici, scultorei, per i centri storici nel loro complesso, nonché per l’esecuzione degli scavi, sono specificati agli allegati a, b, c, d, alle presenti istruzioni.

Art. 12) Nei casi in cui sia dubbia l’attribuzione delle competenze tecniche o sorgano conflitti in materia, deciderà il Ministero sulla scorta delle relazioni dei Soprintendenti o capi d’Istituto interessati, sentito il Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti.

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Gaetano Miarelli Mariani Aspetti della conservazione fra restauro e progettazione (1983)*

Esporrò poche e schematiche note sopra alcuni aspetti del rapporto fra restauro e progettazione; un argomento che assume una particolare evidenza ogni qualvolta si abbia occasione di riflettere sulla natura, gli scopi e gli ambiti del Restauro, sia esso inteso come disciplina che come operazione determinata […].

La tendenza degli architetti-compositori i quali pongono con tutta evidenza il problema del restauro in termini di sostanziale unità con la «Composizione architettonica», limitandone conseguentemente, ogni sua specificità disciplinare; una posizione […] ove è possibile verificare anche la frantumazione esistente in questo campo e il largo successo che riscuote l’equivoco del giorno; quello di identificare il Restauro con il cosidetto «riuso».

La posizione propria dei restauratori i quali, viceversa, mostrano una netta propensione a considerare le attività del Restauro come assolutamente distinte dalla progettazione architettonica giungendo così a sostenere – più o meno esplicitamente – la sua sostanziale e completa autonomia disciplinare. Ed è singolare dover constatare come la separazione fra Restauro e progettazione costituisca una sorta di costante comune anche a tendenze notevolmente diversificate fra loro.

Questo diffusissimo atteggiamento trova un riscontro puntuale anche nella Carta di Venezia ove – pur con le sfumature diverse che si possono constatare nel testo traslato nelle varie lingue – si può leggere che i lavori di completamento, riconosciuti indispensabili per ragioni tecniche ed estetiche, devono distinguersi dalla progettazione architettonica e devono altresì recare il segno della nostra epoca, pur integrandosi armoniosamente nell’insieme.

In sostanza, la Carta di Venezia, non solo afferma la distinzione fra restauro e progettazione, ma – stranamente – sostiene anche la possibilità di formulare un’opera architettonica prescindendo da un processo di formatività architettonica che, al contrario, è assolutamente indispensabile […].

Progettare significa ideare e studiare un’azione, un’opera in rapporto alle possibilità ed ai modi di attuazione e di esecuzione. In architettura, progettazione indica i procedimenti attraverso i quali si predetermina la formazione di opere; cioè quelle attività che, per consuetudine comune, si considerano proprie della «Composizione architettonica».

Operazioni che consistono, in sostanza, nel sistemare – in modo più o meno definitivo – determinati elementi all’interno di una struttura già esistente, sia essa architettonica che, più genericamente, antropica. Si tratta cioè di comporre quello che c’é con quello che si fa ricostituendo, di volta in volta, l’equilibrio, nell’ambiente o nella singola opera architettonica.

Non c’è alcun dubbio che, pur con modi molto diversificati fra loro, questa sia stata sempre l’operazione condotta dagli architetti sulle preesistenze; sia quando il rapporto con esse e sfato caratterizzato da un legame di sostanziale continuità, sia dopo che – spezzatosi questo legame, a partire dalla fine del XVIII secolo – gli interventi sulle preesistenze hanno imposto il possesso di una capacità critica consapevolmente fondato sulla storia e di procedure originali; ma pur sempre incluse – come è naturale.– in un processo formativo.

Si tratta quindi di azioni che, all’interno del territorio dell’architettura, sono necessariamente comuni a tutte le sue articolazioni disciplinari. * MIARELLI MARIANI, Gaetano, Aspetti della conservazione fra restauro e progettazione, in Il restauro in Italia e la Carta di Venezia - Atti del Convegno ICOMOS (Napoli-Ravello, 28 Settembre-1 Ottobre 1977), in «Restauro», VI, 33-34, 1977, pp. 61-71.

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Nel secolo scorso il Restauro, modernamente inteso, ha avuto enunciazioni dottrinarie fondamentali – pur se ovviamente ormai superate; questi sviluppi, in perfetta sincronia con la cultura del tempo, ne hanno definito i contenuti, i fini, i campi ed i procedimenti, senza peraltro mettere mai in dubbio la sua completa appartenenza all’architettura.

E la sostanziale identità fra Architettura e Restauro può essere facilmente rilevata in tutte indistintamente le formulazioni teoriche, comprese quelle più mature; quelle cioè che, a buon diritto, possono essere considerate le premesse dirette delle attuali riflessioni sulla nostra disciplina.

Questo stretto legame emerge con evidenza anche nella pratica del tempo che vede numerosi esponenti della storia del Restauro operosi sia in questa attività che nella progettazione di nuove opere con uguale impegno e coerenza tanto che sarebbe abbastanza agevole – a patto di rinunciare a rozzi, quanto sterili determinismi – individuare con chiarezza, nell’attività di ogni protagonista, non soltanto una ovvia relazione fra le sue convinzioni storiografiche e le idee sul Restauro ma altresì fra queste concezioni e le sue predilezioni estetiche e linguistiche.

Successivamente, un graduale e legittimo potenziamento, nel Restauro, delle componenti storiche, filosofiche e critiche; una progressiva divaricazione fra il movimento moderno e le tendenze tradizionali ed accademiche dell’architettura, nonché la prassi, sempre più generalizzata, di demandare le attività di restauro ad organismi specializzati, ma estranei al dibattito architettonico, hanno portato a ritenere – in modo non altrettanto giusto e fondato – queste operazioni sostanzialmente diverse – nella natura e nella qualità – dalla progettazione architettonica; e conseguentemente a rivendicare, alla «disciplina Restauro» una propria autonomia, Questo significa, di fatto, una sostanziale separazione fra le tradizionali competenze dell’architetto che viene, implicitamente, anche ad operare importanti distinzioni concettuali nell’architettura; un campo disciplinare che viceversa – per la molteplicità dei suoi compiti – ammette articolazioni funzionali, in relazione alle diverse specializzazioni, ma non sopporta più le divisioni stabili e concettuali del passato, concernenti sia le scale d’intervento che le competenze […].

La tesi di una assoluta autonomia del Restauro, sottintesa soprattutto attraverso la sua postulata separazione dalla progettazione, cioè dall’attività propria e costitutiva dell’architettura, appare immediatamente forzata se si pensa che il Restauro prevede attività specifiche ed originali, per i fini e per carattere, rispetto a quelle più proprie di altre articolazioni dell’architettura, ma è altrettanto vero che esso postula anche operazioni che, non di rado, devono avvalersi di azioni caratteristiche di altri settori dell’architettura.

Se si accettano queste schematiche considerazioni – che mirano ad escludere una vera e propria autonomia del Restauro e, conseguentemente, a considerarlo all’interno dell’architettura – si deve accettare fra le sue attività caratteristiche anche la progettazione.

D’altra parte chiunque abbia condotto esperienze dirette sa bene che anche gli interventi di più pura e semplice conservazione impongono scelte che si basano – o dovrebbero basarsi – sul giudizio critico ma anche – al tempo stesso, ed indivisibilmente – sull’ideazione; vale a dire sopra operazioni di vera e propria progettazione.

E questo non può non essere vero anche per quelle azioni cui si riferisce la Carta di Venezia, cioè ai lavori di completamento i quali dovranno sempre, e giustamente, recare il segno della nostra epoca.

Giunti a questo punto è però necessario chiarire – per non dare luogo ad equivoci – che le osservazioni precedenti non vogliono significare, e di fatto non significano, una adesione a quella che altrove ho chiamato la «cultura dei compositori, consistente nel negare al Restauro un ruolo specifico, singolare ed indispensabile; né queste notazioni tendono a definire le sue attività come atti di progettazione pura ed indifferenziata.

Il Restauro difatti possiede, all’interno dell’architettura, precisi caratteri distintivi che gli derivano dai suoi scopi originali, dai metodi che gli sono propri nonché dalla peculiarità dei suoi

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processi caratterizzati, soprattutto, da un continuo ed oggettivo riferimento dei dati esistenti con quelli di progetto.

I fini precipui del Restauro sono quelli – com’è noto – di garantire la tutela e la conservazione integrale dei valori, identificati dell’ambiente dell’uomo, in vista della loro trasmissione al futuro.

A questo proposito si può osservare – come, di fatto, è stato osservato – che, se è vero che ogni azione propria della disciplina Restauro deve avere il suo carattere distintivo nella difesa delle preesistenze, è altrettanto certo che questa esigenza può – ancorché non deve – trovare soddisfacimento pure nelle ulteriori articolazioni dell’architettura, come la Composizione e l’Urbanistica.

Tuttavia, per fugare ogni dubbio sulla specificità disciplinare del Restauro, basta riflettere sulla differenza sostanziale che intercorre fra una azione, per esempio, quella di tutela, intesa come attività specifica, cioè irrinunciabile e caratteristica, quale essa è nel restauro e la stessa azione intesa come attività subordinata, cioè soltanto possibile, quale essa di fatto, è nella Composizione architettonica, nell’Urbanistica ed in molti altri settori disciplinari.

Passando dai fini ai metodi, mi limito ad osservare, sempre su questo punto, che il Restauro, diversamente dalle altre attività dell’Architettura, trae la propria legittimità da un riconoscimento di valori, pertanto si definisce come l’esito operativo di una azione critica.

Questo corrisponde a dire che il Restauro non può basarsi – come tutte le altre articolazioni dell’architettura – sopra una interpretazione, cioè sopra una valutazione di quel che già esiste, legata al gusto de! tempo e alla persona che la esegue. Viceversa esso esige di fondare la propria operatività su un giudizio, cioè sopra una definizione oggettiva – demandata alla responsabilità collettiva – che colga il valore precipuo della preesistenza, vale a dire che ne operi il riconoscimento, attraverso criteri e metri interni all’opera stessa.

Affermata, sia pure molto schematicamente, l’originalità del Restauro e – in quanto tali – di tutte le azioni che gli sono proprie, resta da considerare il carattere precipuo del suo processo formativo sulla cui natura, a mio avviso, non si è meditato abbastanza ed, anche per questa ragione, non posso far altro che proporre alcune prime e rudimentali considerazioni.

Innanzitutto devo dire che la singolare scarsezza di riflessioni relative al rapporto fra progettazione e Restauro dipende – almeno a me pare – dall’esistenza del rilevantissimo problema che questo rapporto sottende: quello riguardante la legittimità, nel Restauro, degli aspetti creativi.

Devo francamente dire che su questo tema mi sembrerebbe più utile che la «cultura del Restauro» definisse esattamente gli ambiti dei tratti innovativi piuttosto che impegnarsi a sostenere una loro impossibile soppressione.

A questo proposito credo di potere intanto dire che l’atto creativo sotteso dalla progettazione non può essere tale da connettersi direttamente a quello – o a quelli – che hanno determinato la formulazione dell’opera, oggetto dell’intervento di Restauro, né svolgersi in maniera analoga.

Non si tratta quindi di sostenere una impossibile sintesi fra cose fondamentalmente diverse né di accettare, come lecito, l’atto creativo che investa opere d’altri e di altri tempi, sovrastandone e distruggendone l’autenticità.

Al contrario e più modestamente, si tratta di ammettere la legittimità, se ed in quanto indispensabile, di azioni innovative programmate – ripeto – attraverso una responsabilità collettiva, che riguardino parti ed aspetti limitati e che – ancorché liberi – siano finalizzati agli esclusivi interessi dell’opera su cui si inseriscono, senza pretendere di darne interpretazioni personali e per di più definitive.

Anche sutura natura della «progettazione architettonica» nel restauro mi è solo possibile formulare qualche breve e schematica notazione.

Com’è naturale, la riflessione critica è presente, quale elemento indispensabile, nell’intera operosità dell’uomo che infatti si realizza attraverso il pensare ed il fare; questa presenza non ammette eccezioni, tuttavia essa mostra una ricca pluralità di aspetti.

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Seguendo le elaborazioni del Pareyson, si può dire che il pensiero è presente ed attivo, come attività subordinata e costitutiva, in tutte le manifestazioni dell’operare umano mentre si specifica, come attività intenzionale e prevalente, soltanto nella riflessione critica vera e propria, ove esso è perseguito ed esercitato come «fare» autonomo.

Finalizzando il discorso ai nostri scopi, si può osservare che la formatività – cioè quel tal fare che è, contemporaneamente ed indivisibilmente, produzione ed invenzione – costituisce l’attività specificata, vale a dire prevalente ed intenzionale, della Composizione architettonica nella quale il pensiero critico, pur presente ed operante, resta finalizzato alle necessità formative, cioè non si concretizza in operazioni proprie e determinate. Diversamente, nella indagine scientifica, nella speculazione filosofica e niella riflessione critica, il pensiero costituisce l’attività resa intenzionale e prevalente, alla quale perciò si subordinano tutte le altre.

Ora a me sembra assolutamente necessario che, nelle operazioni di Restauro, lo svolgimento dell’operatività sia costantemente stimolata e guidata non soltanto dal pensiero interno ed essa, ma altresì da un parallelo ed inscindibile processo di comprensione e di giudizio storico-critico, tale da costituire una sorta di meccanismo di continua ed oggettiva commisurazione del «da fare» al «già fatto».

Infine, poiché nei nostro caso l’operatività non è altro che formatività, risulta evidente che il Restauro deve necessariamente avvalersi del contemporaneo e solidale apporto della formatività architettonica, cioè della progettazione architettonica e della riflessione critica cioè del Giudizio entrambi assunti come attività intenzionali e prevalenti. In altre parole il Restauro deve avvalersi – simultaneamente ed in modo rigorosamente finalizzato – delle competenze che sono proprie dell’architetto e dello storico.

Questa circostanza ci permette di mettere in evidenza non soltanto il particolare carattere dell’attività progettuale propria del Restauro, ma credo serva anche a chiarire che la contrapposizione fra storici, restauratori ed architetti non ha, in realtà, nessuna ragione di esistere e, parimenti, non appare fondata l’eterna e spesso dura polemica fra architetti-restauratori e storici dell’arte se soltanto si sposta l’attenzione dalle figure professionali alle competenze che queste sottintendono le quali, nel caso specifico, possono o no coesistere nella stessa persona.

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Amedeo Bellini Istanze storiche e selezione nel restauro architettonico (1983)*

Tra i problemi che si sono affacciati alla discussione di questa assemblea, alcuni sembrano destare particolare preoccupazione: quello della opportunità di un aggiornamento della Carta di Venezia anche in rapporto a un esame critico della sua scarsa attuazione e quello della estensione, che qualcuno sembra giudicare eccessiva, del concetto di «patrimonio», cioè della definizione del complesso di beni da sottoporre a salvaguardia.

I problemi sono in realtà più connessi di quanto non sembri, perché una adeguata difesa di ciò che il passato ci ha lasciato non può affatto condursi come tale, in un’ottica cioè passiva e vincolistica, di difesa appunto, ma può realizzarsi soltanto attraverso un generale atteggiamento di conservazione delle risorse, delle testimonianze culturali, che non può non avere come tale un amplissimo campo di applicazione.

D’altronde non è un caso che le tesi più rigorosamente favorevoli alla conservazione, quelle di Ruskin, abbiano come loro fondamentali componenti proprio il riconoscimento del carattere ineliminabile del valore del passato e la funzione speciale che l’arte, di ieri e di oggi deve svolgere, a partire da una valutazione spiritualistica della sua realtà.

Se è dunque vero che nessuna tesi aprioristica sul restauro può essere applicata integralmente o nelle sue estreme conseguenze, e che non è opportuno in una Carta giungere a precisazioni di dettaglio che troverebbero smentite assai più frequenti delle conferme, è bene tuttavia che interpretazioni e commenti accentuino i principi di conservazione che a Venezia furono espressi e che si operi perché indirizzi di politica culturale ed economica favoriscano manutenzione e conservazione dei manufatti edilizi.

Molte critiche alla Carta sono nate dalla sua identificazione come documento che ripropone tesi di vecchia matrice positivistica e filologica, che sembrano contraddire quella realtà di valori spirituali che sono propri dell’arte. Nei fatti, ed ancora Ruskin è richiamo immediato, la conservazione delle testimonianze storiche nella loro integrità fisica non è tesi che debba necessariamente essere legata ad una concezione puramente materiale dell’opera. Ruskin vi giunse attraverso una considerazione dei valori dell’arte che trascende l’esperienza empirica, ma che si realizzano tuttavia nella materia, nelle sue vicende, nel passaggio nel tempo.

Lo storicismo classificatorio di matrice positivista, negli stessi anni, malamente inteso e spesso coniugato con superficiali apprezzamenti sentimentali dei valori dell’arte, non giunse a comprendere il valore del documento e le sue esigenze di autenticità. Il filologismo più avveduto, nel nostro secolo, arriva a quest’attenzione soprattutto attraverso la valutazione delle molteplicità del carattere testimoniale dell’architettura, e come risultato quindi del suo migliore sbocco: quello che voleva vedere nell’arte la più compiuta testimonianza di ogni aspetto della civiltà.

Tuttavia il restauro filologico, anche nelle sue migliori espressioni, non ha evitato radicali interventi di trasformazione, il cui obiettivo diveniva la documentazione delle trasformazioni dell’opera, secondo un’ipotesi che teneva nel contempo presenti la successione temporale e valutazioni di relativa importanza.

* BELLINI, Amedeo, Istanze storiche e selezione nel restauro architettonico, in «Restauro», XII, 68-69, 1983, pp. 147-158.

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Il superamento delle ipotesi filologiche è stato proposto in maniera esauriente esclusivamente da una posizione sul restauro che si è affacciata nel dopoguerra e che pone l’operazione nella prospettiva di un restauro come «… dialettica fra storia e progetto, fra critica e creatività …» (R. Bonelli).

Questa complessa asserzione vuole in definitiva dichiarare che alla base di ogni restauro sta un momento primario, perché preliminare e perché fondamentale, che elabora un giudizio, storico e critico, il quale permette di individuare i criteri da adottare per la conservazione o meno di un’opera, di una fabbrica o di sue parti. Il giudizio critico è anche matrice dell’intervento, guida di un progetto, di un atto creativo teso a ricuperare l’immagine figurata, veicolo di tutti i valori espressi dall’opera. Il restauro, è stato detto con sintetica espressività diviene il braccio secolare della storia. È evidente il riferimento ad una concezione neo-idealistica e storicistica della realtà anche se non mancano allineamenti a sostegno di questa via a partire da considerazioni di tipo fenomenologico. Questa tesi, definitasi di .restauro critico, ha avuto approfondimenti molto complessi in rapporto alle opere d’arte oggetto dell’intervento di restauro, e ha guardato con minore interesse alle, opere che non sono considerate «arte », oggetti privi di esteticità, considerate frutto di attività pratiche, in cui l’espressività non ha superato e fuso in una unità di forma e contenuto, i dati empirici.

Le architetture, o gli oggetti edilizi, che si trovano in questa condizione, la cui eventuale importanza risieda nel loro essere documenti storici, possono essere restaurati, all’interno di questa tesi, secondo principi filologici, criteri di valutazione comparativa dei diversi valori e aspetti testimoniali […].

Queste posizioni, espresse dapprima in forma prima molto radicale e poi parzialmente attenuate nelle conseguenze pratiche, destano alcune perplessità, nonostante il rigore con cui sono state esposte sia in rapporto alle premesse, sia in relazione alle conseguenze che ne sono state tratte […].

Se l’opera d’arte è in qualche modo un assoluto, se essa si distingue in quanto tale dagli oggetti che tali non sono (conclusioni alle quali si è pervenuti anche al di fuori dell’estetica neoidealista e della coincidenza tra estetico ed artistico) non è assoluto il suo rapporto contestuale, il modo del suo apprezzamento, scontata la compresenza nell’opera, in quanto partecipe del mondo storico, di valori relativi

Non sembra dunque possibile definire un sistema o una gerarchia di valori a partire dall’indagine storiografica, che, a parte ogni dubbio sui criteri gerarchici tra i valori, sovvertibili anche se consolidati nella coscienza, il diverso tipo di indagine storiografica muterebbe. Non esiste una istanza storica, esistono istanze storiche, e, nella continuità, esistono istanze storiche poste dal futuro e non soltanto dal passato. L’indagine storica, cioè la conoscenza acquisita come riflessione di dati della storiografia, può quindi essere al limite definita irrilevante ai fini dell’intervento diretto sull’edificio, oggetto di conservazione, se non in quanto fornisca notizia da cui dedurre provvedimenti tecnici, rimanendo tuttavia fondamentale per la provvisoria valutazione dell’edificio e per la sua collocazione nel «progetto» che si attua nella funzione, nella collocazione in un nuovo contesto fisico in senso lato, nella realizzazione delle migliori condizioni esterne per la fruizione estetica.

L’affermazione di una supremazia dell’immagine figurata come esaustiva nella sua realtà dell’espressione dei dati di contenuto è proposizione che, anche se accettata sul piano critico, non può comportare di per sé l’alterazione dell’immagine storicamente pervenutaci, quella stessa su cui si è formato il giudizio. Ciò non soltanto perché in linea generale non si può ammettere l’alterazione del documento, ma anche perché quella superiorità, quella esaustività, sono relative alla formazione del giudizio estetico e sono tra l’altro per esso sufficienti se esso è stato dato. Una teorica possibilità di perfezionamento, dell’apprezzamento tramite l’immagine, non consente una censura alla storia, un impoverimento dei dati, una sottrazione alla conoscenza se non eccezionalmente. Non è quindi accettabile la possibilità, per il recupero dell’immagine, del sacrificio di parti anche rilevanti dell’opera. Affermare che l’istanza storica, o le istanze storiche, considerate come elementi disomogenei rispetto all’artisticità assoluta, come testimonianza della nascita di una opera in un certo tempo e luogo,

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possono essere contrapposte alla singolarità dell’opera d’arte che non dipende dalla sua storicità, non ci sembra legittimo, perché ciò significherebbe istituire categorie privilegiate tra eventi storici, e l’opera d’arte è tale, simile a quelle categorie (come decadenza, progresso, etc.) che il pluralismo storico rifiuta. L’opera d’arte può essere un «assoluto» come sintesi di forma e contenuto, ma è anche struttura materiale che si modifica nel tempo, nella materia, nell’immagine, nell’apprezzamento della coscienza, nelle relazioni con il contesto, la cui conoscenza richiede comunque uno sforzo riflesso che si fonda sulla sua storicità, che non può essere alterata, delusa, ripristinata ove perduta, limitata al dato figurativo.

È vero che il suo significato è inscindibile dall’immagine, ma anche dalla storicità, dall’autenticità della materia. L’una e l’altra subiscono modificazioni che comportano l’esigenza di una ricostruzione critica, che, se ammettessimo irrealizzabile di fronte ad una parziale perdita o ad un parziale cambiamento, dovremmo ritenere sempre irriconoscibile.

In sostanza un approccio all’opera d’arte in senso spiritualistico, storicista, per una valutazione critica, non necessita di norma dell’integrità dell’immagine o della sua sopravvalutazione rispetto alle altre componenti presenti nell’opera […].

Né d’altronde è possibile in architettura recuperare un’immagine originaria o unitaria, se non come prevalente o, più spesso ancora, come somma di frammenti di opere, ciascuna delle quali non può essere trattata a sé perché i suoi significati storici e artistici sono connaturati con il contesto, che documenta e chiarisce l’apprezzamento nel passato, l’uso, il valore variabile assunto nella coscienza storica.

Non sussiste insomma nell’arte uno spirituale idealisticamente o materialisticamente inteso, separato dalla materia con la quale si è espresso, dalle vicende fisiche che sono riflesso esse stesse di vicende spirituali e dalla ineliminabile dimensione costruita dal tempo.

Altri argomenti consigliano ancora di assumere la conservazione integrale come dato fondamentale del restauro. Non soltanto sono di interesse storico e di apprezzamento estetico i significati intenzionali voluti, dell’oggetto artistico o del segno, ma anche i significati non intenzionali, o quelli assunti da oggetti non creati e talora neppure modificati, come avviene per il paesaggio incontaminato. L’esteticità può dunque essere propria non dell’oggetto, ma dell’intenzione dell’osservatore; le categorie dell’artistico e dell’estetico non coincidono e la seconda è di gran lunga potenzialmente più vasta, anche se non v’è dubbio che viceversa oggetti che hanno avuto significato d’arte non sono più percepibili come tali oggi, né talora sono oggetto di considerazione sui piano estetico […].

Tutti quegli oggetti dunque che sono documenti essenziali della storia nella sua molteplicità di aspetti, documenti di cultura materiale, di dati quantitativi, di quella storia tesa a ricostruire la realtà dell’uomo nel mondo nella sua concretezza quotidiana e materiale, non rappresentano soltanto documenti storici insopprimibili, ma anche momenti di conoscenza, attraverso la forma e la consistenza materica, di una storia che è storia della spiritualità in tutte le sue manifestazioni, dello sforzo intellettivo e materiale del dominio sulla natura, della lotta per la vita, del continuo superamento delle condizioni materiali. Oggetti la cui esperienza è fonte di emozioni, di stati d’animo, di conoscenza e logica ed intuitiva, anche attraverso il richiamo a quelle stratificazioni di memoria connaturate con l’uomo ed espresse, concretizzate, nei modi di esecuzione degli oggetti […].

Il documento ha in realtà in quanto tale significato molto più ampio di quello che gli era assegnato dal filologo o da una valutazione meramente positivistica; trascende i valori puramente testimoniali di fatti materiali, coinvolge la spiritualità dell’uomo nella totalità dei suoi aspetti. La conservazione del documento è conservazione dell’autenticità, della possibilista di molteplici apprezzamenti estetici, conservazione di contenuti per nuove realtà che non possono fondarsi sulla falsificazione. Tanto più un documento è «minore», tanto più la sua autenticità deve essere garantita;

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tanto meno gli sono inerenti ed intrinseci valori estetici ed espressivi, tanto più la sostituzione di parti, l’alterazione della sua fisicità lo distruggono.

La ricostruzione dell’immagine parzialmente o totalmente perduta, se ristabilita attraverso la falsificazione (o il modello al vero…), come è avvenuto in larga misura, per esempio, dopo le distruzioni belliche, può ristabilire l’esteticità nella sua componente fondamentale (non.certo nella sua totalità) ma comporta la perdita di valori che non consentono l’operazione come atto volontario.

Porre il problema del restauro in termini complessivi di conservazione non significa affatto avere una posizione di immobilismo. Anzi, da un lato essa implica sul piano culturale la più profonda attenzione verso le possibilità che alla cultura offrono le sopravvenienze del passato; sul piano politico, secondo l’ideale posizione ruskiniana, il rifiuto del consumo fine a se stesso, del dissidio fra passato e futuro, la volontà di non perdere alcuno dei valori della storia; sul piano pratico: atteggiamenti di profonda riforma nella ricerca storica per il restauro; una appropriata ricerca scientifica, che, per essere finalizzata deve avere un mercato proprio, e richiede quindi determinazioni economiche; necessita di un cambiamento radicale nella prassi del cantiere di restauro, che ancora oggi si basa inutilmente sulla distruzione e ricostruzione di ciò che dell’architettura è arbitrariamente definito secondario. Rivendica dunque quella coincidenza tra utile sociale e cultura che è nei fatti e nelle idee, ma che non trova spazio nell’organizzazione politica, comportando con ciò stesso lo spreco delle risorse, termine che deve esprimere un concetto che non si esaurisce nell’uso o nella considerazione economica, ma che comprende tutte le potenzialità del passato nel definire il futuro possibile.

Va da sé che la conservazione integrale di tutto ciò che ha interesse è concetto che portato all’estremo limite conduce ad insanabili contraddizioni come ogni tesi espressa sul restauro, e forse ogni tesi in assoluto.

Nessuno conserverà una manciata di calce che un pazzo avesse buttato su un Raffaello, né il tavolato grezzo che abbia otturato una finestra senza serramento in attesa di un intervento definitivo. Né si può portare il concetto fino alla difesa del provvisorio che comporterebbe, limite estremo, l’intangibilità del ponteggio, pur ovviamente non potendosi escludere, anzi dovendosi sostenere la conservazione di ciò che è attuale al pari di ciò che appartiene al passato […].

Il compito che ci dovrebbe vedere impegnati è fondamentalmente un altro: quello di affermare le esigenze culturali della conservazione in tutte le sedi, consci che l’affrontare il problema quantitativamente è un modo, il migliore, per farlo anche qualitativamente, e per elevare la qualità stessa dei più singolari interventi.

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Salvatore Boscarino Storia e storiografia contemporanea del restauro (1984)*

Questo studio sulla storia e la storiografia contemporanea del restauro sarà condotto secondo l’ottica del restauro, considerato, come afferma l’Argan, «una scienza autonoma, con una propria base teorica, una propria metodologia e una propria tecnica»; esso avrà quindi una costante finalizzazione al “campo” di interesse di tale disciplina che è caratteristicamente formato per “oggetti” singoli, anche quando questi costituiscono un insieme o un luogo di vita, e ha al centro l’architettura, non intesa in senso lato, ma negli aspetti relativi alla sua realtà fisica, fatta di materiali, strutture e forme, alle sue caratteristiche corporee, agli elementi costruttivi più o meno pesanti, compatti e resistenti e ai nessi statici che costituiscono il suo scheletro portante. Ne risulta quindi una costante attenzione alla fabrica e ai problemi della sua fisicità tangibile e della sua materia autentica, e una preferenza metodologica per l’analisi, con l’obiettivo della loro conservazione (tramite un processo di carattere eccezionale, detto restauro), ritenuta necessaria perché esse sono considerate testimonianza, documento e immagine di singole civiltà, culture e capacità creative [...].

Evidentemente il titolo di questo studio, in cui compaiono i termini “storia”, intesa come ricostruzione ordinata di eventi (res gestae), “storiografia”, come lavoro dello storico criticamente e metodologicamente consapevole (historia rerum gestarum), e “ restauro”, qui considerato soltanto come restauro dei monumenti si presta a diverse interpretazioni, poiché quest’ultimo può essere inteso nella doppia accezione di disciplina e di attività operativa. In questa sede prenderemo in considerazione la prima accezione, cioè quella di disciplina, e tenteremo quindi di esaminare i rapporti del “restauro” non con la sua storia e la sua storiografia, come probabilmente vorrebbe il titolo, ma con la storia e la storiografia dell’architettura [...].

Definizioni Di fronte a una storia dell’architettura che ha visto dilatare i propri organici e la propria

produzione culturale e scientifica come non mai, e i cui metodi si sono affinati mentre i suoi indirizzi si moltiplicavano in maniera inusitata, c’è il restauro dei monumenti con i suoi quadri numericamente limitati, con il suo sistema di pensiero non unitario, e con le sue enormi responsabilità specialistiche. L’esame di queste due discipline, dei loro rapporti, delle polemiche recenti e non, ed anche delle vicende burocratiche universitarie (ancora non completamente risolte) e legislative, ci obbliga a un chiarimento anche per evitare che il dibattito sul restauro scivoli sempre più «verso un inammissibile tecnicismo, in cui la funzione della “Storia” è sostanzialmente negata» (G. Spagnesi) [...].

Se si volessero ricercare in modo tradizionale le origini del restauro, bisognerebbe rifarsi al rinnovamento culturale operato dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese, e all’affermarsi della cultura industriale, che determinavano una concezione idealizzata del monumento storico-artistico e ne proclamavano, sulla spinta di esigenze prettamente culturali (il culto dell’antico, l’antiquaria, l’archeologia, il collezionismo, e così via), la conseguente azione di tutela e di conservazione. Se invece per restauro intendiamo gli interventi architettonici su edifici esistenti, determinati dall’uso e dalle vicende dell’uso, dobbiamo riconoscere che questi ci sono sempre stati. Nel primo caso gli interventi hanno dato luogo sostanzialmente a due atteggiamenti opposti - oltre s’intende a un numero infinito di posizioni intermedie -, come è stato chiarito dal De Angelis d’Ossat: «(...) o si è guardato al * BOSCARINO, Salvatore, Storia e storiografia contemporanea del restauro, in SPAGNESI Gianfranco, (a cura di), Storia e restauro dell’architettura. Proposte di metodo, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1984, pp. 51-62.

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monumento con rispetto, oppure si è assunta una posizione sprezzante, autonoma; perciò o l’architetto ha creduto di sottomettere la propria personalità allo spirito e alla presenza dell’antico monumento, ovvero lo ha dominato».

Evidentemente la nostra riflessione e la nostra operatività devono essere indirizzate sul restauro inteso nel senso avanti indicato, che nasce come atto di cultura da esigenze esclusivamente culturali, per cui i suoi interventi sulle preesistenze architettoniche, intellettualmente idealizzate, non possono essere condotte che con il primo atteggiamento, quello di umiltà. Il secondo occorre lasciarlo ad altri: agli architetti che vogliono riprogettare sull’antico, a coloro che vogliono lasciare il segno della propria creatività, ai sostenitori del diritto sociale al “consumo” dei beni architettonici piuttosto che del diritto all’educazione estetica, ai fautori del recupero generalizzato di tutto e di ogni cosa e a quelli che sostengono la riappropriazione della civiltà materiale delle classi subalterne, ai tecnico-politici che guardano ai soli aspetti economici e quantitativi dei centri storici.

Il nostro restauro quindi non può essere semplicemente architettonico e non può ammettere la suddivisione in restauro architettonico e urbano, sostenuta e promossa dalla burocrazia universitaria, ministeriale e dagli esperti cooptati. Il nostro restauro è quello che con termine antico, ma comprensibile e compreso in tutto il mondo, viene detto “dei monumenti” e che si è formato attraverso l’elaborazione della scuola italiana del restauro - che conta ormai cento anni di vita e si riconosce in Boito, Giovannoni, Sanpaolesi, Pane, De Angelis, Bonelli, Grassi e Di Stefano e negli apporti fondamentali di Argan, Brandi, Bianchi-Bandinelli, Longhi, Calvesi, e via dicendo – alla quale apparteniamo, pur nella diversificata, dialettica, dinamica, rispettabile posizione di ciascuno.

Evidentemente, però, oggi dobbiamo anche registrare l’estensione che ha avuto il termine “monumento”, che è diventato talmente vasto da comprendere un grande numero di oggetti e di cose, sino ad arrivare all’ambiente urbano e naturale, per cui l’etichetta di fautori dell’accademismo monumentalista, che ci viene continuamente attribuita, appare ingiustificata. Tuttavia bisogna chiaramente affermare che questa estensione del termine non può comprendere tutto il costruito, il continuum edificato sul territorio.

Analogamente non possono essere accettate le estensioni derivate dalla definizione antropologica di bene culturale o da quella sociologica, che portano a non riconoscere la differenza dell’edilizia storico-artistica dall’insieme di quella esistente e per le quali il restauro non è più la conservazione, e quindi la corretta, compatibile e sempre auspicabile utilizzazione dei manufatti, ma finisce con il diventare quel complesso di operazioni che tende a adeguare le preesistenze antiche alle esigenze moderne o ad auspicare un’assoluta conservazione di tutto e di ogni cosa, che diventa poi irrealizzabile nei fatti. Per questo campo di oggetti, che viene ancora oggi indicato con la parola “monumento”, così complesso, così diramato e variegato, così angosciante per i connessi problemi di sviluppo e di sopravvivenza per le comunità sociali direttamente interessate, si è tutti, o quasi tutti, teoricamente d’accordò sulla necessità della sua conservazione, della conservazione soprattutto della sua materialità, che è l’unica che ne garantisce l’autenticità e quindi la verità. Ma la conservazione implica la conoscenza di ciò che si vuole conservare, che è storica, scientifica, tecnica, e dunque la definizione o il riconoscimento del valore, di quello che si vuole conservare, che nel caso dei monumenti è dato dalla cultura, intesa come «la consapevolezza che una comunità umana possiede del proprio vivere storico, e con la quale essa tende ad assicurare la continuità e lo sviluppo di se medesima».

È indispensabile che questa precisazione sia formulata, perché da essa dipende il rapporto che il restauro ha con la storia dell’architettura, o meglio con la storiografia, e la possibilità di stabilire se i restauratori si devono separare dagli storici per meglio progredire o devono operare e lavorare insieme a loro. Il rapporto suddetto è dunque imperniato sulla definizione di valore che per lo storico, come afferma l’Argan, «(...) non è una deduzione dalla critica e storia dell’arte, è in toto la critica e la storia dell’arte» e quindi anche dell’architettura, mentre per il restauratore costituisce, dentro il. sistema di conoscenze che egli deve stabilire sull’oggetto da restaurare, la lama affilatissima della consapevolezza

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critica del suo operare, la quale per la natura di questo operare affonda nel vivo della “materia” architettonica. La definizione di valore per il restauratore non può diventare una licenza di demolizione, come è stata qualche volta intesa, ma nella sua provvisorietà soggettiva e relatività conseguente deve essere ritenuta indispensabile per la formazione del giudizio critico, il quale solo gli consente quella operatività imposta dallo status dell’oggetto da conservare, che è il suo compito primario e senza il quale non vi è il restauro. Operatività nel restauro da svolgere però nella consapevolezza che non si tratta di interpretare una partitura musicale o di leggere un manoscritto d’autore, giacché un errore, un errore qualsiasi, è una perdita definitiva la cui entità non è valutabile oggi e tanto meno in futuro.

Vi è inoltre un’implicita rinuncia alla definizione di valore da parte di quei restauratori che, non volendo essere condizionati, non ammettono l’esistenza di una soggettività storica, prima ancora che individuale, quando si interviene su un monumento, e che non si vogliono proporre neppure quella oggettività delle “cose” che affrontano, che resta sempre il necessario, e spesso illusorio, dovere di chiunque ambisca a fare cultura nel restauro. Dovere che è reso poi più stringente di fronte alla vastità, per numero e qualità, degli oggetti di cui si interessa oggi il restauro, che non sono più i soli capolavori, le sole emergenze, e si inscrivono perciò in un contesto di attualità e spesso di necessità che è per eccellenza effimero e relativo, in quanto è dato da un nostro rapporto più superficiale con la realtà architettonica e ambientale che ci si presenta. D’altronde questi oggetti, e tutti quelli di cui si interessa il restauro, hanno una loro utilità o “utensilità” e quindi delle ineludibili motivazioni di carattere economico, che si aggiungono a quelle culturali e spirituali di testimonianza e di documento irrinunciabile di civiltà, di storia, di arte, che sono le motivazioni peculiari e primarie e per le quali tali oggetti vanno considerati patrimonio dell’intera comunità umana e risorse collettive.

«Il guaio è però», come ci ammoniva fin dal 1973 R. Pane, «che per conservare bisogna restaurare e quindi esporre l’opera - che altrimenti sarebbe votata alla distruzione attraverso il progressivo disfacimento - al rischio», e per ridurre questo rischio occorre conoscere l’opera a fondo. E su questa affermata necessità di conoscenza dell’opera, che è contemporaneamente espositiva, valutativa e storica, il restauratore poggia la prima fase del suo lavoro, simile a quella con cui inizia l’opera del critico letterario e che il De Sanctis definisce con semplicità «un lavoro sopra un altro lavoro». Esso consiste nel ripercorrere il “processo produttivo” dell’architetto e delle maestranze o quello “genetico” dell’architettura e delle trasformazioni d’uso richieste attraverso il tempo, che sono presenti soltanto dentro l’opera sino al più piccolo frammento: ripercorrere tale processo è indispensabile per poterla conservare.

Si può fare a meno della storia, della conoscenza storica (come del resto delle altre conoscenze) nel restauro dei monumenti, quando questo ha come obiettivo la conservazione e come strumentazione per una operatività minima, possibile, indispensabile, il giudizio critico? Riteniamo che non sia possibile sottrarsi alla conoscenza storica, né trasformare il restauro in una operazione tecnica o cosiddetta scientifica, e quindi asettica, neutrale e metastorica, giacché esso tocca la storia, entra nel vivo di essa, della storicità “effettuale”, quella autentica, voluta e scritta dagli uomini con le pietre.

Necessità della storia dell’architettura nel restauro dei monumenti Il restauro dei monumenti, che ha accettato di operare sulle preesistenze architettoniche e

ambientali, criticamente riconosciute, con l’atteggiamento di umiltà anzidetto, deve avere la convinzione che, non occupandosi di un costruito generico e di spazi naturali qualsiasi, non può fare a meno, prima e durante l’intervento operativo, degli apporti di tutte le conoscenze che riguardano il “monumento” da conservare, tra le quali vi sono certamente quelle storiche, quelle scientifiche e quelle tecniche. Date le responsabilità culturali e sociali del restauro, tutti questi apporti di conoscenze relative al “monumento” vanno assunti con pari dignità, perché contribuiscono alla sua salvaguardia e alla sua integrazione nel quadro della vita culturale, sociale ed economica della comunità umana. Tali

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conoscenze, tramite il giudizio critico, vengono riportate dal restauratore a un’operazione unitaria, detta restauro, che, per le finalità anzidette, diventa un’operazione culturale.

Anche le conoscenze storiche, derivate dall’analisi storico-critica del “monumento”, partecipano quindi alla formazione della conoscenza “globale” di questo; esse soltanto, quasi indagassero i significati, le pagine, le parole di un testo scritto, insegnano a leggere il “monumento”. È compito della storia dare questa conoscenza? Assistendo al dibattito attuale saremmo propensi a rispondere negativamente, ma se pensiamo a quello che si studiava trent’anni fa la risposta diviene affermativa. In quei tempi, ormai remoti, vigeva il pensiero crociano secondo il quale «(...) il giudizio di un libro di storia deve farsi (...), unicamente secondo la sua storicità (...) E la storicità si può definire un atto di comprensione e di intelligenza, stimolato da un bisogno della vita pratica il quale non può soddisfarsi trapassando in azione se prima i fantasmi e i dubbi e le oscurità contro cui si dibatte, non siano fugati». Lo stesso si potrebbe dire se ripensiamo all’insegnamento di Argan: «(...) affermare che lo studio scientifico della storia dell’arte ha un unico fine, la conservazione delle cose di interesse artistico, non ne diminuisce la dignità culturale: obbiettivamente gli storici dell’arte non fanno mai e non possono fare altro».

Oggi, però, non pare che sia più così: la storia dell’architettura nella versione di progetto storico o di lavoro storico e quella attenta alle dimensioni sociologiche, psicoanalitiche, antropologiche, filosofiche, simboliche, linguistiche, rivendica la sua assoluta autonomia e la sua estraneità a qualsiasi contaminazione operativa. E non si tratta di quella autonomia disciplinare legittima che la ricerca storica invoca, trattandosi di uno dei momenti della conoscenza. Infatti la ricerca storica, «(...) come tutte le conoscenze, si attua con propri processi critici e prescinde da una eventuale utilizzazione: tanto che dallo stesso momento di conoscenza possono dipendere, ad esempio, più ipotesi progettuali, anche alternative da porsi a confronto». La ricerca storica attuale, invece, sembra indirizzata a dare la conoscenza di una “realtà” culturale completamente staccata da quella fisica relativa all’architettura da restaurare. Probabilmente non interessa più a nessuno seguire le modalità di costruzione, i principi generatori tecnico-statici, la scelta dei materiali di una architettura, dentro cui si inverano poi le esigenze funzionali e la “struttura” stessa della forma costruita. Ma un restauratore può fare a meno di tutto questo? Gli può bastare che la produzione storica diventi soltanto stimolo e presa di coscienza o indicatrice di strategie di indagine per penetrare e comprendere tutta la complessità del reale?

[...] Il restauratore deve avere la convinzione che, soltanto tramite l’operazione primaria di conoscenza generale del “monumento”, analoga a quella dell’anamnesi nella medicina, il suo “fare” tecnico, il suo operare, la sua metodologia di intervento e gli aspetti progettuali possono acquisire l’indispensabile fondamento che trasforma un’operazione professionale, alla quale sono chiamati con pari dignità storici, scienziati e tecnologi, in una culturale. Infatti, solo la conoscenza globale preliminare e, dentro di essa, quella storica consentono di individuare in quali termini il “monumento”, da studiare oggi per la sua conservazione nel futuro, si poneva e si formava nelle intenzioni della comunità e del committente che lo volevano, dell’architetto e delle maestranze che lo realizzavano, fino a cogliere, mediante le modificazioni anche d’uso verificatesi attraverso il tempo, il ruolo e la funzione che il “monumento” stesso deve avere ai nostri giorni, la sua presenza o “flagranza” delle nostre coscienze.

La conoscenza generale e, quindi, quella storica consentono di ricondurre mentalmente il “monumento” nelle condizioni del suo tempo e di ricercare non soltanto l’unità logica della sua immagine, la sua interna disciplina, i “caratteri” della sua utilità, ma anche i significati puntuali delle sue strutture materiali e fisiche, il loro comportamento statico e, se vi sono, gli eventuali “quozienti” letterari. Alla storia dell’architettura, e in generale a quella dell’arte, appartengono i testi, gli oggetti, i materiali su cui lavora il restauratore, tanto è vero che allo storico, a nostro giudizio, spetta il compito di dipanare criticamente, anche con l’ausilio di altre strumentazioni, la processualità dell’iter ideativo, realizzativo del “monumento” e delle sue diverse trasformazioni nonché delle operazioni di restauro

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che si sono verificate nel passato e che lo hanno interessato. Ci sembra riduttiva la ricerca storica aliena dalla cultura materiale, da quella individuante le singole fasi costruttive, dai fatti tecnici operativi, soprattutto se essa è finalizzata a un intervento di restauro. Analogamente riteniamo ingiusto che la ricerca storica, quando è indirizzata alle operazioni di restauro, finisca con il privilegiare i contenuti (simbolici, sociologici, psicoanalitici, antropologici, filosofici, letterari) e i valori di pura immagine, che certamente vi sono nell’architettura, rispetto agli apporti desumibili dalla sua fisicità e dalla manualità realizzativa che, per tanta parte degli interventi restaurativi su architetture del passato, sono invece fondamentali [...].

Da questo contatto con il reale il restauratore e lo storico dell’architettura, associati in un’operazione di restauro dei monumenti, guadagneranno la convinzione, avranno la certezza che il processo creativo dell’architettura, che essi percorrono a ritroso tramite la strumentazione storico-critica e quella scientifico-tecnica, si compie nel reale, si incorpora nel mezzo che lo estrinseca, anche se ad esso, mantenendo coscienza di sé, non rimane mai asservito. Entrambi avranno la consapevolezza che il “monumento” si articola e si realizza in un processo organizzativo e in un’interna disciplina senza la conoscenza dei quali non è possibile proporre alcun programma d’intervento. L’analisi storico-critica e quella scientifico-tecnica di un monumento servono anche, con tutte le loro numerose trascrizioni, a confermare che esso si “possiede”, quando sui fogli di carta, nei grafici, nei calchi, nelle riproduzioni, nei disegni, e via dicendo, se ne sono fermati tutti gli aspetti e le questioni possibili.

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Marco Dezzi Bardeschi La conservazione del costruito (1981)*

Ancor oggi – malgrado tante oneste dichiarazioni di buone intenzioni – la figura del restauratore è più facilmente assimilabile, nei segreti recessi del cantiere transennato e sottratto alla vista di occhi indiscreti, a quella di un Infedele che, inseguendo una propria idea interna d’affezione, sogna antistorici ripristini e realizza – con la complicità dell’attuale rigido meccanismo imprenditoriale – tranquille sostituzioni di parti e di materiali degradati, piuttosto che non a quella del conservatore attento ad arrestare il degrado al suo primo manifestarsi, dell’analista paziente in camice bianco che in tempestiva collaborazione interdisciplinare con altri tecnici della conservazione (chimici, fisici, biologi), si impegna in una battaglia scientifica volta ai assicurare la trasmissibilità alle future generazioni di quel patrimonio architettonico diffuso in cui si identificano le radici stesse della nostra stratificata cultura materiale.

Oggi ancor più che ai tempi di Boito e del suo dialogo immaginario fra un intellettuale romantico e un preteso filologo, la parola d’ordine deve essere “conservare, non restaurare”.

Il nodo è dunque quello di assicurare che non sia alterato per mano dell’uomo quel contesto materico che costituisce l’autenticità stessa della fabbrica.

Ricordiamo la non sospetta riflessione di Walter Benjamin, cioè di un intellettuale esterno al “campo” e sicuramente non compromesso con la disciplina del “restauro”: «Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova. Ma proprio su questa esistenza, e in null’altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo durare. In quest’ambito rientrano sia le modificazioni che essa ha subito nella sua struttura fisica nel corso del tempo, sia i mutevoli apporti di proprietà in cui può essersi venuta a trovare. La traccia delle prime può essere reperita soltanto attraverso analisi chimiche e fisiche che non possono venire eseguite sulla riproduzione; quella dei secondi è oggetto di una tradizione la cui ricostruzione deve procedere dalla sede dell’originale.

“L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità ... L’intiero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica” E ancora: “L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dalla origine di essa, può venir

tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, la virtù di testimonianza della cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa”.

E’ senza dubbio significativo il fatto che, mentre Benjamin scriveva queste parole (nel lontano 1938), il restauro di Stato celebrava i propri più perversi fasti. Malgrado l’affinarsi del dibattito specifico che tentava di fissare i criteri e la ‘normativa’ per un intervento corretto (la carta di Atene è del ’31 e le istruzioni alle Soprintendenze sono appunto del ’38), sotto le mani dei restauratori gli edifici uscivano stravolti, anzi si assisteva (e purtroppo, in certe ‘aree’ arretrate si continua ad assistere) ad una manomissione sistematica che risultava tanto più massiccia e prevaricatrice quanto più noto e rappresentativo era il monumento toccato. Sopraintendeva in effetti agli interventi una pellicolare e frivola estetica voyeristica, in base alla quale si pensava che l’immagine accreditata sui Sacri testi di * DEZZI BARDESCHI, Marco, Presentazione, in DEZZI BARDESCHI, Marco – SORLINI, Claudia, (a cura di), La conservazione del costruito. I materiali e le tecniche, Milano, CLUP, 1981, pp. 5-11.

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storia dell’arte (in genere la facciata come ‘facies’ o specchio del monumento) riassume in se stessa indipendentemente dal contesto fisico che la esprimeva – il significato “culturale” {ma dovremmo piuttosto dire: cultuale) dell’oggetto. Nessuna attenzione, salvo rari e sporadici casi da “manuale”, era riservata, malgrado tutto, ai problemi reali della conservazione della cultura materiale.

Nasceva sì l’Istituto Centrale del Restauro, ma in modo tutto finalizzato a un’ideologia di tipo idealistico: dell’opera andava “salvata” soprattutto l’aura originaria, primigenia possibilmente da ritrovare libera da imbarazzanti successivi “inquinamenti” (si pensi alla fortuna – tutta strumentale – di un termine come “superfetazione”): era insomma il trionfo dell’apparire sull’essere, dell’icona come presunta invariante atemporale sulla sofferente e peribile fisicità dell’opera, dell’immagine adamantina, non offuscata sulla materia bruta ritenuta ancora – si consulti la “teoria” del restauro di Brandi – un supporto volgare, trascurabile, accidentale e dunque tranquillamente sostituibile e rinnovabile.

Il ritorno d’attenzione al contesto materico, della cui facile “vulnerabilità” si era già mostrato tanto consapevolmente preoccupato proprio Benjamin, è in definitiva recente ed è soprattutto legato alla ricorrente riflessione sui massicci esiti distruttivi della disciplina, sulla considerazione cioè che la storia del restauro risulta (come un imponente cimitero d’autori) cosparsa di inimmaginabili “cadaveri eccellenti”.

In effetti tutto sembra ancor oggi cospirare contro la conservazione della consistenza materica in sé considerata, Se il primo colpevole è – ovviamente – l’abbandono, dunque la perdita progressiva d’uso e di significato, che provoca l’accelerata irreversibile ruderizzazione di un manufatto, anche l’eccessivo ritorno d’interesse può risultare altrettanto prevaricatore. Dopo che si sia giunti infatti alla perdita di identità di un’opera o di un brano edilizio degradato, l’improvvisa riscoperta “passionnée” di un insieme architettonico ormai fortemente pregiudicato dall’abbandono fa sì che quella stessa consistenza materica precaria, ridotta a fantasma che ha accesso gli animi degli uomini di cultura, finisca per essere definitivamente travolta da un intervento inevitabilmente massiccio, sovvertitore.

È insomma ancora la stessa riflessione che faceva Ruskin: “quando la guida Murray vi dice che è stato magnificamente restaurato potete tranquillamente passarvi davanti senza degnarlo d’attenzione, perché non una sola pietra sarà rimasta al suo posto”.

Oggi l’esperienza purtroppo insegna che tra tutti i nemici dell’opera costruita il più prevedibile ed onesto – come nei vecchi proverbi - è proprio ancora il Tempo: ogni operazione di “restauro”, quando sia condotta tardivamente su un organismo edilizio notevolmente degradato scarica una inammissibile violenza sul contesto fisico che si vorrebbe salvaguardare, si traduce cioè in un intervento traumatico il cui risultato perverso è proprio quello – paradossalmente – di sottrarre materia all’opera che invece si vorrebbe preservare dall’autodistruzione. Nel migliore dei casi così l’intervento riesce solo ad assicurare una pallida, sbiadita ri-produzione (ricorrendo a disinvolte tecniche costruttive impiegate di solito in un cantiere di produzione e non alle specifiche tecniche di conservazione, come richiederebbe la materia: nuovi componenti sostituiscono disinvoltamente gli elementi più degradati); nel peggiore si risolve in arbitrarie avventure morfologiche, in improbabili re-invenzioni e in assurde proiezioni e rivisitazioni nelle morte stagioni della storia degli Stili (magari con la complicità di approssimativi pseudo-manuali “tipologici”).

Oggi il cerchio delle consolatorie quanto gratuite aggettivazioni che via via si è data la teoria della disciplina in almeno un secolo e mezzo di tormentata ricerca di identità (dal restauro “stilistico” a quello “storico”, “critico”, “tipologico”) sembra alla fine che si sia chiuso mentre i nodi, con sempre maggior imbarazzo, vengono al pettine dei nuovi operatori.

Si reclama ormai a gran voce e con crescente insistenza (ora che il restauro è diventato un rilevante problema sociale) che il ciabattino stia alla scarpa, ossia che il restauratore si limiti solo a fare correttamente il proprio mestiere: che cioè operi all’unico fine di assicurare la conservazione dell’autenticità dell’opera, che costituita da tutti gli apporti materici che le si sono stratificati addosso e che appunto rappresentano – come scriveva Benjamin quell’insostituibile e irripetibile hic et nunc che

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caratterizza e distingue in modo specifico quella e non altra fabbrica: perduto e compromesso il quale è perduto e compromesso tutto il resto, il valore di testimonianza e le stessa credibilità dell’oggetto (l’“autorità della cosa”, appunto).

Il fatto è – ce lo ricorda un Ruskin lapidario – che “un edificio qualsiasi non appartiene a quei vandali che gli recano violenza. Perché sono vandali, e tali saranno sempre; non importa se nell’ira o per deliberata follia; se innumerevoli o assisi in comitati: quelli che distruggono qualcosa senza motivo sono considerati vandali; e l’architettura viene sempre distrutta senza motivo”.

Il problema di fondo del restauro (architettonico e non) è oggi dunque di garantire la effettiva conservazione del peculiare “status” in cui l’opera è pervenuta fino a noi e con ciò la trasmissibilità integrale della fabbrica che l’intervento non può neppur parzialmente impoverire: occorre semmai aggiungere, non sottrarre, materia al contesto, anche per minimizzare, parallelamente, i costi e la conservazione ha il compito di affinare le tecniche specifiche che portano a tale obiettivo,

La scienza della conservazione si occupa dunque di analizzare il degrado dei componenti, di prevenirlo, individuandone il ciclo di evoluzione, di arrestarlo infine con la messa a punto delle più corrette e idonee strategie d’intervento.

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Giovanni Carbonara Teoria e metodi del restauro (1996)*

Origini del restauro Il restauro è una disciplina relativamente giovane, che affonda le sue radici tanto nella moderna

ricerca storica quanto nelle tradizionali pratiche di manutenzione tese a preservare un oggetto, al quale si riconosceva un valore (artistico, di memoria, economico) dal degrado.

Proprio nel valore di memoria e nel riconoscimento storico-artistico meglio si possono individuare le più autentiche ragioni del restauro e della tutela dei beni culturali, nella fattispecie di quelli architettonici.

Le origini storiche della conservazione (atteggiamento, secondo alcuni, costitutivamente diverso dal restauro) intesa quale esigenza di mantenere e trasmettere al futuro gli antichi oggetti, così come ci sono pervenuti, nella loro integrale originalità materiale, risalgono già ad alcune forme di collezionismo del passato, ma assumono maggiore chiarezza e coscienza teorica nell’età della Controriforma, non a caso in relazione al rinnovato culto delle “reliquie” cristiane. Ridatano a quei tempi, fra Cinque e Seicento, in riferimento a personaggi di formazione letteraria e non artistica, i primi casi di attenta, reale conservazione di beni o frammenti, nel nostro caso, architettonici: arredi sacri d’età medievale, iconostasi e parti di scholae cantorum che alcuni, come l’abate di San Paolo fuori le Mura, a Roma, rimuovevano dall’interno delle loro chiese in ossequio letterale ai dettati del Concilio di Trento e altri, come il cardinal Cesare Baronio, recuperavano per rimontarli in altre chiese, non certo per concrete ragioni d’uso o d’economia, ma per rispetto della loro “veneranda antichità” e dei valori spirituali di cui erano riconosciuti portatori. Non recupero a fini pratici quindi, né volontà di rinnovo o d’adeguamento “artistico” ai canoni estetici del tempo, ma autentico rispetto e vera conservazione. Ricordiamo ancora una volta che tali conservatori erano piuttosto persone di cultura storico-letteraria che non artisti o architetti, per loro natura più portati al rinnovamento e alla modifica che alla tutela delle preesistenze.

Gli architetti hanno semmai pensato in termini di “restauro”, inteso più come “mutazione” che “conservazione” dell’oggetto, il quale sembrava comunque dover essere riplasmato e abilmente “segnato” dal gesto e dalle mani dell’artista, piuttosto che mantenuto nella sua flagranza di testimone autentico. Pensiamo ad esempio a quante chiese medievali, in tutta Europa, sono state imbarocchite; in tali casi non si può parlare di conservazione e forse neanche di restauro o d’integrazione, ma piuttosto di libero rinnovamento.

Quando arriviamo alle soglie del XIX secolo le anticipazioni conservative, di cui s’è detto, assumono maggiore rigore e chiarezza. La conservazione e il restauro, modernamente intesi, tendono a confluire in un tipo d’attività che assume su di sé, anche se in modi da luogo a luogo e nel tempo diversi, la volontà e la responsabilità della perpetuazione delle testimonianze storico-artistiche, i cosiddetti monumenti. Siamo all’incirca in età napoleonica e il processo definitivo di maturazione è abbastanza rapido e contraddistinto dalla piena coscienza che gli antichi oggetti si conservano, con le speciali cure che il restauro postula, non perché “utili”, ma in quanto memorie storiche o espressioni di qualità artistica. Questo è il dato fondante e iniziale di tutta la vicenda successiva, fino ad oggi.

In quegli anni furono condotti restauri che possiamo tuttora considerare validi, tanto giudicandoli con gli occhi del nostro tempo, quanto, di più, con criterio storico; sono i risultati d’una concezione * CARBONARA, Giovanni, Teoria e metodi del restauro, in Trattato di restauro architettonico, diretto da G. Carbonara, Torino, Utet, 1996, vol. I, pp. 3-16.

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ormai matura, che presenta aspetti di straordinaria novità. Ci si riferisce allo sperone meridionale del Colosseo (R. Stern) e all’arco di Tito (R. Stern e G. Valadier). Interventi esemplari condotti su ruderi archeologici, residui d’architettura privi di qualunque pratico valore, privi di uso, “inutili” appunto, se non in termini esclusivamente culturali e di memoria, ivi comprese le esigenze del turismo, allora certamente non di massa.

Un architetto del secolo scorso, nel restaurare un monumento come l’arco di Tito, sapeva invece di riproporre, con maggiore o minore rigore, un paradigma di bellezza, un modello per la contemporanea produzione artistica (si pensi agli archi napoleonici parigini o milanesi); era guidato quindi da motivazioni d’ordine culturale e spirituale, autonome, diremmo oggi, e non eteronome rispetto alla fenomenologia architettonica stessa.

Il riconoscimento di valore storico-artistico […] Si consideri il caso d’una vecchia automobile, come si suol dire, d’epoca, perché risalente a

cinquanta o sessant’anni fa. Essa suscita una questione per molti aspetti simile a quelle di salvaguardia degli oggetti industriali, cui fa riferimento Brandi in apertura della sua Teoria (1977), per altri già propriamente di restauro.

Se il proprietario di un’automobile vecchia di solo cinque o anche dieci anni ha problemi di rimessa in efficienza, perché essa non funziona a dovere, non dovrà far altro che affidare la vettura a un buon meccanico, che la riparerà opportunamente. Se invece possedesse una macchina già vecchia di trent’anni (come si dice, in gergo specialistico, “classica” pur se non “d’epoca”) e nel contempo avesse coscienza che essa, oltre che per la funzione d’uso, può essere apprezzata per la sua incipiente “antichità”; oppure, con maggiore evidenza, se fosse un amatore d’auto d’epoca, vedrebbe la stessa macchina in una prospettiva diversa. Indiscutibilmente la medesima macchina, in tutto e per tutto, ma resa diversa da un giudizio differente. Nel caso poi d’una vettura d’inizio secolo, la necessità di tale differente ottica risulterebbe chiara subito a tutti; non si cercherebbe un meccanico qualsiasi, ma soltanto un esperto, che possa garantire l’impiego di pezzi originali, sì da conservare autenticità e singolarità. Pur con tutte le differenze che il prodotto industriale induce rispetto a quello tradizionale e artigianale, il concetto d’autenticità rimane ugualmente valido, sicché nell’esempio riportato sussiste già, in nuce, tutto il discorso sul restauro, ivi compresa la sua distinzione dal recupero.

In termini concettuali potremmo dire che per quel particolare oggetto (a motivo della sua antichità e della conseguente rarità) s’è attuato un peculiare “riconoscimento di valore”, non di valore economico (anche se questo è implicito nei meccanismi di mercato legati alla sua rarità) ma già embrionalmente culturale: quella macchina è vista come un pezzo “storico” o comunque di antiquariato, il che induce a un comportamento restaurativo e conservativo.

Ricercando l’esperto di carrozzerie o di motori antichi, si vorrebbe la garanzia che egli abbia confidenza con tali vecchie testimonianze, che abbia la consuetudine di ben documentarsi e informarsi presso le case produttrici o in archivio o almeno su pubblicazioni specializzate, che conosca i disegni originali e sappia orientarsi di fronte a sopravvenute alterazioni o parti mancanti. È richiesta in altre parole una certa preventiva indagine storica, mentre non costituisce più una fondamentale preoccupazione lo spendere una cifra forse maggiore di quanto si farebbe rivolgendosi al meccanico sotto casa. Tutto ciò significa aver riconosciuto a quell’oggetto un valore particolare, come fosse una sorta di “monumento” industriale da tutelare per ragioni di memoria, prima ancora che pratiche ed economiche.

Le motivazioni del restauro Abbiamo tentato di chiarire che, quando si conserva, la prima intenzione non è mai economica,

anche se questa interviene pur sempre e a maggior ragione nel caso in cui, come per il restauro architettonico, si debbano impegnare ingenti fondi, privati e soprattutto pubblici.

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Rappresentanti politici e amministratori di comunità locali sono portati a identificare, per deformazione professionale e senza tante sottigliezze, i beni culturali con quelli economici. Si tratta, a giudizio di molti, di riserve o “giacimenti” da sfruttare; mentre non si tiene conto che i giacimenti sono in massima parte costituiti da risorse non rinnovabili, si erede di trovare così una scorciatoia per problemi edilizi, abitativi, urbanistici, occupazionali rimasti irrisolti. Altre volte, i cosiddetti beni culturali sono visti come giacimenti da sfruttare e valorizzare in termini turistici.

È vero che bisogna dimostrarsi concreti, specie quando si faccia professione di politica e di pubblica amministrazione, ma è pur evidente che, dietro questa concretezza e il gran parlare che si fa della tutela, si nascondono, nel migliore dei casi, una confusione d’idee così profonda da aver fatto dimenticare il perché stesso della conservazione, nel peggiore, interessi economici che vedono nell’intervento sui beni architettonici nient’altro che la versione aggiornata della vecchia speculazione edilizia, ridimensionata ma non sconfitta.

Rammentiamo che per ogni monumento danneggiato o perduto, a causa d’interventi impropri, non c’è rimedio; si potrà effettuare una riparazione o anche una copia al vero, ma in questo campo, per definizione costituito da oggetti unici e irripetibili, l’originalità di ciò che s’è perso rimarrà per sempre irrecuperabile. Ripetiamo, quindi, che nei riguardi dei beni culturali l’atteggiamento dev’essere in primo luogo conservativo, il che non vuol dire rinunciatario sul piano del progetto, ma implicante al contrario un approccio, se non d’amore e reverenza, almeno di grande impegno e rispetto. I monumenti richiedono un atteggiamento particolare, molta pazienza e disponibilità, né possono essere visti come occasioni professionali qualsiasi. Ci si deve accostare loro con sicurezza di metodo, rilevandoli possibilmente di persona (come ogni architetto dovrebbe saper fare) poi studiandoli e capendoli nelle loro trasformazioni e stratificazioni, nella loro struttura, conformazione e nei loro materiali. Si dovrà poi discutere e progettare un adeguamento prudente e delicato, che nasca dalla conoscenza preventiva, ben approfondita, dell’edificio e delle sue “vocazioni” funzionali. S’interverrà dunque con tecniche commisurate alle reali necessità e rispettose della materia antica. Anche per questo sarebbe quanto mai opportuno che rilevatore, progettista e direttore dei lavori s’identificassero nella stessa persona.

Se è vero che il restauro costituisce un atto a base storico-critica, è anche vero che esso, a differenza della pura storia dell’architettura, non si limita a parlare dell’oggetto, ma deve confrontarsi materialmente con esso, operando controllate trasformazioni, ma pur sempre operando. Da qui la grande responsabilità dell’architetto restauratore e la sua innegabile implicazione in scelte di progetto, tanto più corrette quanto più indirizzate su rigorosi binari metodologici e vivificate da una fantasia al tempo stesso attenta e sollecita verso la preesistenza.

C’è una fase del progetto che rispecchia i dati assunti nell’indagine preliminare; un’altra che si attua quotidianamente in cantiere, di fronte alle imprevedibili novità e sorprese che esso offre. Ma sempre più tale progetto dovrà essere spinto e vagliato nel senso di aumentare la qualità degli interventi minimizzandone la quantità.

Intorno al restauro Quando si parla di restauro in senso stretto, s’intende un’operazione, in prevalenza conservativa

ma alle volte “rivelativa”, che può comportare problemi di “reintegrazione delle lacune” e di “rimozione delle aggiunte” e che comunque tocca la materia antica. Chiamiamo invece “tutela” e “restauro preventivo” quelle operazioni che trascendono il diretto intervento fisico, che non toccano, in altre parole, la materia ma controllano o modificano in senso migliorativo le condizioni “al contorno” (disinquinamento dell’atmosfera, rimozione del traffico, aree di rispetto, provvidenze urbanistiche ecc.).

Esistono poi operazioni che vanno oltre il restauro e sono quelle che investono il monumento e lo trasfigurano, rinnovandolo e riprogettandolo completamente, o riducendolo a mero sfondo, quale pezzo d’arredo o semplice citazione dall’antico, di una espressione architettonica o urbanistica totalmente

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moderna. In questo caso non si tratta più di restauro perché della materia antica resta poco o nulla ed essa non è rispettata, in sé, per i suoi propri “valori” ma ridotta a spunto d’una diversa e nuova esercitazione progettuale.

In qualche modo è come se si fosse utilizzata un’antica pittura su tavola quale semplice base per ridipingervi sopra liberamente, lasciando sì e no affiorare qualche traccia dell’originale.

Ci sono poi operazioni che vanno situate “accanto al restauro”, ma che non sono in sé restauro; è il caso del menzionato recupero o del cosiddetto recycling, che al restauro si apparentano per il fatto di investire comunque le preesistenze.

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Francesco La Regina L’opera, l’attività, le istruzioni.

Appunti su una definizione del restauro architettonico (1999)*

[…] Come sempre accade nei momenti di grandi trasformazioni e relativi sbandamenti culturali, non appare superfluo il richiamo alle istanze primarie, essenziali e fondanti della disciplina preposta alla salvaguardia e conservazione dell’architettura costruita. Tanto più questo è necessario, nel momento in cui il fermento in atto sembra favorire i fenomeni di confusione e sovrapposizione degli orientamenti, dei metodi e delle procedure tecniche, quali si manifestano attraverso una proliferazione di indirizzi teorici e pratici che molto spesso ben poco hanno a che fare con la cultura del restauro. Il rischio maggiore, in una situazione del genere, è quello di privilegiare la prassi e disattendere l’indispensabile ruolo della teoria, dando per scontate cose che scontate non sono, esaltando i primati della urgenza e della quantità su quelli della idoneità e della qualità degli interventi. In questi casi il prezzo di una attività tanto intensa quanto approssimativa ed errata è interamente pagata dalle stesse fabbriche e città storiche che vengono letteralmente investite dalla virulenza incontrollata di una prassi cieca ed inconsulta.

Ne consegue la necessità di porre l’accento sulle premesse e sugli obiettivi di ogni attività, sia essa meramente teoretica o prevalentemente pratica, che in modo mediato o immediato sia rivolta alle consistenze architettoniche ed urbane ereditate. La forza del restauro e del suo bagaglio disciplinare è tutto qui, nel suo porsi come concreta risposta operativa ad una più generale domanda ideale del mondo civile. Il restauro nasce sin dall’inizio con un delicato ma preciso compito, quello di contribuire a soddisfare una insopprimibile istanza etica e culturale dell’uomo moderno. Un compito che per poter trovare un suo adeguato compimento deve fare affidamento su indirizzi base verificati e ben collaudati, su princìpi e metodi chiari e semplici, su tecniche operative affidabili e congruenti con gli scopi citati.

Il concetto è stato bene espresso da Gaetano Miarelli Mariani, allorché definisce l’oggetto del restauro come “la conservazione delle preesistenze, in vista della loro trasmissione al futuro, non la definizione di nuovi assetti” e la sua attività come “un insieme di operazioni finalizzato a garantire la permanenza degli «oggetti di storia» attraverso il massimo rispetto delle consistenze ereditate, senza tuttavia escludere, in linea di principio, la legittimità, se e in quanto necessarie, di azioni innovative che riguardino parti limitate e che – ancorché libere – siano finalizzate agli esclusivi interessi dell’opera senza pretendere di dame «aggiornamenti», interpretazioni, valorizzazioni; in altre parole, senza sottrarre l’opera al suo mondo storicamente determinato per fame un prodotto attuale”.

Questa definizione è di estrema rilevanza, nella sua articolata sintesi di una attività complessa come quella del restauro […]. L’oggetto resta la massimizzazione delle attività di conservazione delle “consistenze ereditate”, al fine di garantire la loro permanenza documentaria nel mondo vivo ed operante degli uomini. Il che porta, evidentemente, ad escludere:

a) ogni tentativo volto a restituire all’opera un diverso assetto costruttivo, più o meno riconducibile ad assetti originari e/o assoluti, ipotetici o documentati, posti al di fuori di ogni correlazione e processualità temporale e spogli di ogni manifestazione di ispessimento storico-culturale, assetti comunque presunti e simulati in base a ricostruzioni ideali di condizioni scomparse. Rientrano in tale categoria tutti i tentativi di riproporre il ripristino (totale o parziale) di opere

* LA REGINA, Francesco, L’opera, l’attività, le istruzioni. Appunti su una definizione del restauro architettonico, in «Palladio», 24, 1999, pp. 81-88.

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scomparse, come azioni legittimate da motivazioni varie (ricostruzione “filologica” o “tipologica” o varianti dell’orientamento teorizzato come realizzazione differita) i cui fondamenti sono da ricercare nella convinzione/illusione che l’architettura sia un linguaggio i cui tratti andati perduti possono essere riproposti negli stessi termini che in un passato più o meno remoto hanno costituito quel linguaggio in un determinato modo e non in un altro. Pervenendo a negare con la storia la evidenza stessa delle evoluzioni e delle trasformazioni che hanno sempre caratterizzato le manifestazioni della civiltà costruttiva;

b) qualsiasi intento di riprogettazione e manipolazione dell’opera allo scopo di sottrarla al suo mondo storico per fame il mero supporto materico o dettaglio vuoto di un prodotto attuale, stravolgendone e cancellandone ogni valore storico, poiché il fine del restauro non è l’uso strumentale della preesistenza per realizzare nuove architetture ma quello di conservare l’opera nella sua immagine e consistenza fisica, nella sua ricchezza polistratificata di tracce significative, nel suo sistema di relazioni spaziali ed ambientali.

C’è un altro aspetto, nella definizione di Miarelli Mariani, che merita il dovuto approfondimento, laddove si esclude anche il rifiuto tassativo di eseguire interventi innovativi, se e in quanto necessari, sulla preesistenza […]. La decisione sulla opportunità o meno di tale apporto o innesto di elementi e parti nuove non può essere messa in discussione, semmai deve essere rigorosamente suffragata da una vasta ed approfondita conoscenza dell’opera ed effettuata sulla scorta di una chiara e denunciata assunzione di responsabilità culturale, secondo soluzioni adottate sulla scorta di imprescindibili e motivati giudizi di valore [...].

Su un piano strettamente operativo, l’attività architettonica si esprime nella progettazione e nella esecuzione di interventi che possiamo grossolanamente distinguere come conservativi e come innovativi. Va da sé che nessun intervento sulla realtà costruita è mai completamente conservativo o, all’opposto, completamente innovativo, la stessa distinzione rischia di essere ambigua e può ingenerare equivoci. Nel campo del restauro il consolidamento strutturale di una fabbrica in muratura è un intervento conservativo o innovativo? Il ricorso a resine stabilizzanti per contenere manifestazioni di decadimento fisico di superfici materiche come può essere interpretato? In realtà tutti gli interventi sono da considerassi, in un certo senso “innovativi”, se mai esiste la distinzione ha valore soltanto per i fini che si propone. Un intervento eseguito oggi possiede i caratteri della attualità, esprime istanze e lascia tracce del mondo contemporaneo, anche quando appare contenuto nei limiti fisici e formali della preesistenza, oppure si sforza di camuffarsi e di assumere le sembianze della tradizione. La sua qualità è nella rispondenza piena ed efficace agli scopi che l’hanno evocato, all’ordine delle cose, ai valori ed alle manifestazioni concrete della realtà in atto, viva palpabile e verificabile in ogni momento. Se tale corrispondenza non esiste, se il sistema operativo adottato è estraneo alla situazione che vuole modificare, il provvedimento in questione si rivela inadeguato, dannoso, contrario agli intendimenti iniziali dell’attività di restauro.

Quindi, più che argomentare di operazioni conservative ed innovative, sarebbe opportuno spostare il discorso sulla liceità, sulla indispensabilità, sulla entità, sulla efficienza, sulla compatibilità, sulla distinguibilità e sulla auspicabile reversibilità dell’intervento da progettare ed eseguire. Senza una adeguata e calibrata attività di restauro – dalla semplice manutenzione ordinaria sino ad interventi di vasta portata – l’opera è destinata a morire, a disperdere la sua immagine e la sua materia nella più generale fenomenologia del ‘ritorno alla natura di ogni prodotto della civiltà, allorché viene abbandonato all’azione incontrastata. e permanente del laboratorio ambientale. Ora, i criteri da seguire al fine di stabilire la validità o meno di un progetto e di un intervento di restauro vanno ben oltre la distinzione vaga, approssimativa ed indeterminata fra conservazione ed innovazione. Essi criteri debbono necessariamente rivolgersi agli aspetti qualitativi e quantitativi dell’intervento in oggetto ed affidarsi al sapere scientifico come a quello tecnologico, alla cultura estetico-valutativa come a quella storiografica, senza escludere l’apporto delle altre forme utili ed avanzate del sapere e dell’agire […].

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Ciò premesso, appare opportuno ricondurre il discorso sul tema delle ‘istruzioni per il restauro’, che tanto sembra preoccupare il mondo degli operatori e dei responsabili istituzionali. Anche queste, ovviamente, non possono essere neutrali, in quanto costituiscono l’aspetto prescrittivi-normativo-procedurale di una ben determinata idea del restauro […].

Il criterio più consolidato di intervento sull’architettura costruita era e resta quello consistente nella riprogettazione e manipolazione dell’opera allo scopo di sottrarla al suo mondo storico per fame il mero elemento di dettaglio e supporto materico-decorativo di un prodotto attuale. Gli architetti della modernità non si sono mai occupati di restauro, se l’hanno fatto hanno generalmente considerato la esistenza delle preesistenze come un vero e proprio “incidente di percorso”. La loro ambizione, spesse volte tradottasi in realtà, è sempre stata quella di cancellare la testimonianza antica e realizzare qualcosa di nuovo al suo posto. Laddove ciò è apparso impossibile o sconveniente, hanno operato in modo da ‘naturalizzare’ l’antico, riconducendolo alla condizione di oggetto disponibile alla fase progettuale ed esecutiva volta a rivoluzionare completamente gli originari significati, attualizzandoli con trasformazioni radicali e decisive. In tale logica, tuttora perdurante presso settori del mondo professionale ed imprenditoriale, non ha nemmeno senso parlare di ‘istruzioni per il restauro’, poiché la conservazione dell’opera esistente è una preoccupazione del tutto assente nella cultura e nell’agenda dell’operatore. L’assetto ideale in questo caso è costituito dall’assorbimento del vecchio manufatto nel più generale ed esclusivo assetto del nuovo.

La crisi della modernità ed il profondo sbandamento che ha investito l’intera cultura architettonica contemporanea, ha visto il riemergere dell’attenzione nei confronti del passato e delle sue testimonianze materiali […]. Il dominio pressoché assoluto della ideologia e dei criteri metodologici ed operativi del Movimento Moderno si è progressivamente incrinato e dissestato, fino a lasciare il campo ad una proliferazione di indirizzi teorico-operativi largamente condizionati – a meno di qualche rara eccezione – dalla ossessione storicistica della ‘presenza del passato’ […].

Il panorama italiano fornisce numerosi esempi concreti di equivoci neostoricistici, basti pensare alla diffusa simpatia delle amministrazioni comunali verso gli strumenti di pianificazione urbanistica per il ‘recupero’ dei centri storici (Bologna, Brescia, Venezia, Palermo e da poco persino Napoli, per citare solo i maggiori), fondati sulla metodologia impropriamente definita “tipologica” e consistenti essenzialmente nella individuazione, all’interno del tessuto urbano, di tipi costruttivi riconoscibili e ricorrenti per la loro particolare articolazione e distribuzione planimetrica (raramente spaziale, per ragioni facilmente comprensibili) e per i peculiari criteri di aggregazione, atti a suscitare interpretazioni schematiche e riduttive, ma estremamente suggestive nella loro semplificazione del reale, dei rapporti fra tipologia edilizia e morfologia urbana […].

Non si può nemmeno parlare di “istruzioni”, ma di una vera e propria precettistica operativa contenuta nei vari “Manuali per il recupero” del patrimonio edilizio ed urbano. In questa manualistica si ritrova, in genere, una sistematica classificazione e rappresentazione in scala delle “tipologie edilizie esistenti” e degli interventi da eseguire in cantiere al fine di ricostruire “filologicamente” o “tipologicamente” l’intera opera oppure gli elementi costruttivi scomparsi o non riutilizzabili: parti murarie, volte, solai, cornici, scale, camini, decorazioni ed arredi, finiture ed altro ancora. In tal modo l’operatore viene esentato da qualsiasi apporto progettuale, per intervenire nel cantiere gli è sufficiente fare ricorso al ricettario del manuale, già pronto ed a disposizione per ogni bisogna. L’architettura rinuncia a sé stessa, abdicando alla propria identità culturale e alla propria formatività, per spegnersi e dissolversi nel ricettario prestampato e disponibile all’acquisto anche nei supermarkets. Con essa si spegne e si dissolve anche il restauro, che ne costituisce parte integrante ed indissolubile, laddove correttamente inteso come espressione viva ed operante della civiltà costruttiva e quindi della cultura, della tecnica, della esperienza professionale.

La fortuna dei citati orientamenti è direttamente proporzionale all’involgarimento del gusto ed alla definitiva cattura del patrimonio architettonico ed ambientale nei programmi di acquisizione e

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riutilizzo da parte del grande capitale, che ormai da tempo ha intravisto nella appropriazione e manipolazione dei centri storici, dei beni monumentali e dei siti naturali una fondamentale opportunità di investimento e guadagno. La codificazione tipologica del patrimonio edilizio ed urbano, sgombrando la complessa attività di ‘recupero’ dai molteplici problemi connessi al rispetto ed alla conservazione della irriproducibile fragranza ed irregolarità della antica materia autentica, nella sua rozza semplificazione apre la strada alla riproduzione autorizzata dell’architettura costruita […]

Sulla possibilità di opporsi efficacemente a tale situazione è bene non farsi eccessive illusioni, tuttavia il gramsciano richiamo al pessimismo della intelligenza ed all’ottimismo della volontà è sempre valido. Rivendicare il rispetto della autenticità dell’opera, e quindi la necessità di assicurare la sua permanenza nel mondo e la sua trasmissione al futuro massimizzando la conservazione della consistenza ereditata, è il primo e fondamentale caposaldo per opporsi a tutti i tentativi di distruggere il patrimonio architettonico […]. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, la consolidata definizione dell’oggetto del restauro: la conservazione dell’opera, può e deve essere meglio precisata e diversamente articolata. Oggetto del restauro è l’opera, la cui sussistenza nel mondo d’oggi e la sua proiezione al futuro devono essere affidate ad una idonea e corretta attività di conoscenza e progettazione […]. La “salvezza” dell’opera non è legata né al suo isolamento ideale, né alla sua dissoluzione in altro da sé, ma ai criteri ed ai modi attraverso cui l’architetto è in grado di individuare i termini e la collocazione di una attività prudente e nello stesso tempo coraggiosa, che sappia applicare e mettere in luce le possibilità intrinseche alle tecniche ed agli strumenti usati […].

Per raggiungere il proprio obiettivo, il progettista si avvale degli esiti dell’analisi architettonica, della ricerca storiografica, di quella strutturale, urbanistica, estetica, geologica, funzionale e così via, al solo scopo di acquisire tutti gli elementi utili per affermare il valore primo della disciplina di cui si avvale al fine di rispondere all’incarico affidatogli.

Questa considerazione è estremamente importante, in quanto chiarisce il ruolo della conoscenza intesa come sapere in divenire e mette in luce il nodo del rapporto fra il cantiere della conoscenza ed il cantiere degli interventi esecutivi. Il quadro informativo costruito dall’insieme delle indagini compiute sull’opera e sulle fonti che la riguardano, mette in chiaro e in ordine gli elementi della conoscenza dello stato di fatto e ci fornisce indicazioni essenziali sui vari aspetti e problemi e sui possibili procedimenti operativi da seguire per il restauro dell’opera. Non ci dice, tuttavia, quali di questi procedimenti sono migliori o peggiori, non ci fornisce ricette per le scelte progettuali esecutive. Spetta soltanto a noi prendere queste decisioni, che saranno tanto più oculate e responsabili quanto più approfondita ed ampia sarà stata la fase della conoscenza dell’opera e delle sue condizioni reali. Guida principale all’azione sarà la ricerca di congruenza con lo scopo primo del restauro: l’architettura costruita, la cui continuità temporale, efficienza, affidabilità sono garantite da una idonea e corretta attività che si avvale dell’apporto di tutti i ritrovati e di tutti gli strumenti della scienza e della tecnica, ma il cui dominio culturale ed operativo appartiene per intero alla disciplina costruttiva.

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Carta di Cracovia (2000)*

Ringraziando le persone e le istituzioni che, durante tre anni, hanno partecipato alla preparazione della Conferenza Internazionale sulla Conservazione “Cracovia 2OOO” e della sua sessione plenaria finale “Cultural Heritage as the Foundation and the Development of Civilisation”, noi, partecipanti alla Conferenza Internazionale sulla Conservazione “Cracovia 2000”, consapevoli dei profondi significati connessi al patrimonio culturale, sottoponiamo i seguenti principi ai responsabili de! patrimonio, affinché possano essere di guida nell’impegno verso la sua tutela.

Preambolo Agendo nello spirito della Carta di Venezia, tenendo presenti le raccomandazioni internazionali e

sollecitati dalle sfide derivanti dal processo di unificazione europea alle soglie del nuovo millennio, siamo consapevoli di vivere in un periodo in cui le identità, pur in un contesto generale sempre più allargato, si caratterizzano e diventano sempre più distinte. L’Europa del momento è caratterizzata dalla diversità culturale e quindi dalla pluralità dei valori fondamentali in relazione al patrimonio mobile, immobile ed intellettuale, dai diversi significati ad esso associati e conseguentemente anche da conflitti di interesse. Questo impone a tutti i responsabili della salvaguardia del patrimonio culturale il compito di essere sempre più sensibili ai problemi ed alle scelte che essi devono affrontare nel perseguire i propri obiettivi. Ciascuna comunità, attraverso la propria memoria collettiva e la consapevolezza del proprio passato, è responsabile dell’identificazione e della gestione del proprio patrimonio. Questo non si può definire in modo fisso. Può essere definito solo il modo in cui il patrimonio può essere individuato. La pluralità nella società comporta anche una grande diversità del concetto di patrimonio come concepito dall’intera comunità. I monumenti, come singoli elementî del patrimonio, sono portatori di valori che possono cambiare nel tempo. Questa variabilità dei valori individuabili nei movimenti costituisce, “di volta in volta”, la specificità del patrimonio nei vari momenti della nostra storia. Attraverso questo processo di cambiamento, ogni comunità sviluppa la consapevolezza e la conoscenza della necessità di tutelare i singoli elementi del costruito come portatori dei valori del proprio patrimonio comune. Gli strumenti ed i metodi sviluppati per giungere ad una corretta salvaguardia devono essere adeguati alle diverse situazioni, soggette ad un continuo processo di cambiamento. Il particolare contesto di selezione dì questi valori necessita della predisposizione di un piano di conservazione e di una serie di decisioni. Queste devono essere codificate in un progetto di restauro redatto in base ad appropriati criteri tecnici e strutturali. Consci del profondo valore della Carta di Venezia, e perseguendo gli stessi obiettivi, proponiamo i seguenti principi per la conservazione e restauro nel nostro tempo del patrimonio costruito.

Scopi e metodi 1. Il patrimonio architettonico, urbano e paesaggistico, così come i singoli manufatti di questo, è

il risultato di una identificazione associata ai diversi momenti storici ed ai vari contesti socio-culturali. La conservazione di questo patrimonio è il nostro scopo. La conservazione può essere attuata attraverso differenti modalità di intervento come il controllo ambientale, la manutenzione, la riparazione, il restauro, il rinnovamento e la ristrutturazione.

* Carta di Cracovia, Conferenza Internazionale Cultural Heritage as Foundation of Development Civilisation, ottobre 2000, ora in CRISTINELLI, Giuseppe (a cura di), La Carta di Cracovia 2000. Principi per la conservazione e il restauro del patrimonio costruito, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 181-188.

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Ogni intervento implica decisioni, selezioni e responsabilità in relazione al patrimonio nella sua totalità, anche per quelle parti che attualmente non hanno un particolare significato, ma che potrebbero assumerne uno in futuro.

2. La manutenzione e riparazione sono una parte fondamentale del processo di conservazione del patrimonio, Queste operazioni devono essere organizzate tramite la ricerca sistematica, le ispezioni,il controllo, il monitoraggio e le prove. Il possibile degrado deve essere previsto e descritto nonché sottoposto ad appropriate misure di prevenzione.

3. La conservazione del patrimonio costruito si attua attraverso il progetto di restauro, che comprende le strategie nella sua conservazione nel tempo. Questo progetto di restauro deve essere basato su una serie di appropriate scelte tecniche e preparato all’interno di un processo conoscitivo che implichi la raccolta di informazioni e l’approfondita conoscenza dell’edificio o del sito. Questo processo comprende le indagini strutturali, le analisi grafiche e dimensionali e la identificazione del significato storico, artistico e socio-culturale; il progetto necessita del coinvolgimento di tutte le discipline pertinenti, ed è coordinato da una persona qualificata ed esperta nel campo della conservazione e restauro.

4. La ricostruzione di intere parti “in stile” deve essere evitata. La ricostruzione di parti limitate aventi un’importanza architettonica possono essere accettate a condizione che siano basate su una precisa ed indiscutibile documentazione... Se necessario per un corretto utilizzo dell’edificio, il completamento di parti più estese con rilevanza spaziale o funzionale dovrà essere realizzato con un linguaggio conforme all’architettura contemporanea. La ricostruzione di un intero edificio, distrutto per cause belliche o naturali, è ammissibile solo in presenza di eccezionali motivazioni di ordine sociale o culturale, attinenti l’identità di un’intera collettività.

Differenti tipi di patrimonio costruito 5. A causa della particolare vulnerabilità del patrimonio archeologico, ogni intervento riguardante

lo stesso deve essere strettamente relazionato al suo contesto, al territorio ed al paesaggio. La caratteristica distruttiva degli scavi deve essere limitata il più possibile. I manufatti archeologici devono essere compiutamente documentati ad ogni scavo. Come per gli altri casi, l’intervento di conservazione di ritrovamenti archeologici deve seguire il principio del minimo intervento, e deve essere eseguito da specialisti con tecniche e metodologie strettamente controllate.

6. L’obiettivo della conservazione dei monumenti e degli edifici storici, in un contesto urbano o rurale, è il mantenimento della loro autenticità ed integrità anche nei loro spazi interni, negli arredamenti o nelle decorazioni, nelle finiture ed in ogni connotazione architettonica e documentale. Tale conservazione richiede un appropriato “progetto di restauro”che definisce i metodi e gli obiettivi; in molti casi, questo presuppone un uso appropriato compatibile con gli spazi ed i significati architettonici esistenti. Gli interventi sugli edifici devono prestare particolare attenzione a tutti i periodi del passato testimoniati in essi.

7. Le decorazioni architettoniche, le sculture ed i manufatti artistici strettamente connessi con il patrimonio costruito devono essere conservati attraverso uno specifico progetto connesso con quello generale. Questo presuppone che il restauratore possieda la competenza e la formazione appropriata oltre alla capacità culturale, tecnica ed operativa, che gli permetta l’interpretazione dei risultati delle indagini relative agli specifici campi artistici. Il progetto di restauro deve garantire un corretto approccio alla conservazione dell’intero assetto, delle decorazioni e delle sculture, nel rispetto delle tecniche artigianali tradizionali e della loro necessaria integrazione come parte sostanziale del patrimonio costruito.

8. La città ed i villaggi storici, nel loro contesto territoriale, rappresentano una parte essenziale del nostro patrimonio universale, e devono essere visti nell’insieme di strutture, spazi ed attività umane, normalmente in un processo di continua evoluzione e cambiamento. Questo coinvolge tutti i settori

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della popolazione e richiede un processo di pianificazione integrata all’interno del quale si colloca una grande varietà di interventi. La conservazione nel contesto urbano ha per oggetto insiemi di edifici e spazi scoperti che costituiscono parti di aree urbane più vaste, o di interi piccoli nuclei insediativi urbani o rurali, comprensivi dei valori intangibili. In questo contesto, l’intervento consiste nel riferirsi sempre alla città nel suo insieme morfologico, funzionale e strutturale, come parte del suo territorio, del suo contesto e del paesaggio circostante. Gli edifici nelle aree storiche possono anche avere un elevato valore architettonico in se stessi, ma devono essere salvaguardati per la loro unità organica, per le loro connotazioni dimensionali, costruttive, spaziali, decorative e cromatiche che li caratterizzano come parti connettive, insostituibili nell’unità organica costituita dalla città. Il progetto di restauro delle città e dei villaggi storici deve prevedere la gestione delle trasformazioni e una verifica di sostenibilità delle scelte, considerando gli aspetti patrimoniali insieme con gli aspetti sociali ed economici. In tal senso risulta ad esso preliminare lo studio dei corretti metodi per la conoscenza delle forze di cambiamento e degli strumenti di gestione del processo oltre che la conoscenza dei manufatti. Il progetto di restauro delle aree storiche assume gli edifici del tessuto connettivo nella loro duplice funzione: a) di elementi che definiscono gli spazi della città nell’insieme della loro forma, e b) di sistemi distributivi di spazi interni strettamente consustanziali all’edificio stesso.

9. Il paesaggio inteso come patrimonio culturale risulta dalla prolungata interazione nelle diverse società tra l’uomo, la natura e l’ambiente fisico. Esso testimonia del rapporto evolutivo della società e degli individui con il loro ambiente. La sua conservazione, preservazione e sviluppo fa riferimento alle caratteristiche umane e naturali, integrando valori mentali ed intangibili. È importante comprendere e rispettare le caratteristiche del paesaggio ed applicare leggi e norme appropriate per armonizzare le funzioni territoriali attinenti con i valori essenziali. In molte società il paesaggio è storicamente correlato ai territori urbani. L’integrazione tra la conservazione del paesaggio culturale, lo sviluppo sostenibile nelle regioni e località contraddistinte da attività agricole e le caratteristiche naturali, richiede la comprensione e la consapevolezza delle relazioni nel tempo. Ciò comporta la formazione di legami con l’ambiente costruito delle metropoli e delle città. La conservazione integrata del paesaggio archeologico e fossile e lo sviluppo di un paesaggio molto dinamico, coinvolge valori sociali,culturali ed estetici.

10. Il ruolo delle tecniche nell’ambito della conservazione e del restauro è strettamente legato alla ricerca scientifica interdisciplinare sugli specifici materiali e sulle specifiche tecnologie utilizzate nella costruzione, riparazione e restauro del patrimonio costruito. L’intervento scelto deve rispettare la funzione originale ed assicurare la compatibilità con i materiali, le strutture ed i valori architettonici esistenti. I nuovi materiali e le nuove tecnologie devono essere rigorosamente sperimentati, comparati e adeguati alle reali necessità conservative. Quando l’applicazione in situ di nuove tecniche assume particolare rilevanza per la conservazione della fabbrica originale, è necessario prevedere un continuo monitoraggio dei risultati ottenuti, prendendo in considerazione il loro comportamento nel tempo e la possibilità della eventuale reversibilità. Dovrà essere stimolata la conoscenza dei materiali e delle tecniche tradizionali e per la loro conservazione nel contesto della moderna società, essendo di per se stesse una componente importante del patrimonio.

Gestione 11. La gestione del processo di cambiamento, trasformazione e sviluppo delle città storiche, così

come del patrimonio culturale in generale, consiste nel costante controllo delle dinamiche del cambiamento stesso, delle scelte appropriate e dei risultati. Deve essere inoltre data particolare attenzione all’ottimizzazione dei costi di esercizio. Come parte essenziale del processo di conservazione, vanno identificati i rischi ai quali il patrimonio può essere soggetto anche in casi eccezionali, e devono essere previsti gli opportuni sistemi di prevenzione e i piani di intervento e di emergenza. Il turismo culturale, oltre che per il suo positivo influsso sull’economia locale, deve essere

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considerato come un fattore di rischio. La conservazione del patrimonio culturale deve essere parte integrante della pianificazione e del processo di gestione di una comunità, e deve quindi contribuire allo sviluppo sostenibile, qualitativo, economico e sociale della comunità.

12. La pluralità di valori del patrimonio e la diversità degli interessi, necessita di una struttura di comunicazione che assicuri la reale partecipazione degli abitanti a tale processo oltre a quella degli specialisti e degli amministratori. È responsabilità della comunità lo stabilire appropriati metodi e strutture per assicurare la reale partecîpazione degli individui e delle istituzioni a tale processo decisionale.

Formazione e educazione 13. La formazione e l’educazione nella conservazione del patrimonio costruito necessita di un

processo di coinvolgimento sociale e deve essere integrata nei sistemi nazionali di educazione a tutti i livelli. La complessità del progetto di restauro o di ogni altro intervento di conservazione che coinvolge aspetti storici, tecnici, culturali ed economici, presuppone la nomina di un responsabile di adeguata formazione. La formazione dei conservatori deve essere di tipo interdisciplinare e prevedere accurati studi di storia dell’architettura, di teoria e tecniche di conservazione. Essa deve assicurare l’appropriata preparazione necessaria a risolvere problemi di ricerca necessari per .realizzare gli interventi di conservazione e restauro in modo professionale e responsabile. I professionisti e tecnici nelle discipline della conservazione devono conoscere le metodologie adeguate, le tecniche opportune oltre che acquisire il dibattito corrente sulle teorie e sulle politiche conservative. La qualità della manodopera specializzata tecnicamente ed artisticamente per la realizzazione del progetto di restauro deve anche essere accresciuta attraverso una migliore preparazione degli operatori nel campo dei mestieri professionali.

Misure legali 14. La protezione e la conservazione del patrimonio costruito può essere meglio realizzata se

vengono prese opportune misure legali ed amministrative. Ciò può essere raggiunto assicurando che il lavoro di conservazione sia affidato, o posto sotto la supervisione, di professionisti della conservazione. Le norme legali possono anche prevedere periodi di esperienza pratica all’interno dî programmi strutturali. Particolare considerazione deve essere data ai conservatori neo-formati che stiano per ottenere il permesso per lo svolgimento della libera professione, anche attraverso la supervisione di un libero professionista della conservazione.

Allegati-definizioni Il comitato redazione della “Carta di Cracovia” ha usato i seguenti concetti fondamentali nel

modo come qui sotto espresso. a. Patrimonio: Il patrimonio culturale è quel complesso di opere dell’uomo nelle quali una

comunità riconosce i suoi particolari e specifici valori e nei quali si identifica. L’identificazione e la definizione delle opere come patrimonio è quindi un processo di scelta di valori.

b. Monumento: Il monumento è una singola opera del patrimonio culturale riconosciuto come un portatore di valori e costituente un supporto della memoria. Questa riconosce in esso i rilevanti aspetti attinenti il fare ed il pensare dell’uomo, rintracciabili nel corso della storia ed ancora acquisibili a noi.

c. Per Autenticità di un monumento si intende la somma dei suoi caratteri sostanziali, storicamente accertati, dall’impianto originario fino alla situazione attuale, come esito delle varie trasformazioni succedutesi nel corso del tempo.

d. Per Identità si intende il comune riferimento di valori presenti, generati nel contesto di una comunità e di valori passati reperiti nell’autenticità del monumento.

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e. Conservazione: La conservazione è l’insieme delle attitudini della collettività volte a far durare nel tempo il patrimonio ed i suoi monumenti. Essa si esplica in relazione ai significati che assume la singola opera, con i valori ad essa collegati.

f. Restauro: Il restauro è l’intervento diretto sul singolo manufatto del patrimonio, tendente alla conservazione della sua autenticità ed alla acquisizione di esso da parte della collettività.

g. Progetto di restauro: Il progetto come consequenzialîtà di scelte conservative è lo specifico procedimento con il quale si attua la conservazione del patrimonio costruito e del paesaggio.