La comunicazione nei batteri -...

3
La comunicazione nei batteri Questi microrganismi «conversano» tra loro e con piante e animali, emettendo segnali chimici e reagendo a essi: il fenomeno aiuta a spiegare perché sintetizzino un'ampia schiera di composti di Richard Losick e Dale Kaiser UTOINDUTTORE • • PROTEINE COINVOLTE NELLA PRODUZIONE DI LUCE GENI PER LA LUMINESCENZA CELLULE BATTERICHE NELLORGANO LUMINOSO cefalopodo Euprymna scolopes (nella pagina a fronte) è stato aperto nella parte inferiore per metterne in evidenza l'organo luminoso (a forma di farfalla vicino al centro). L'or- gano emette luce perché è densamente colonizzato dal batte- rio Vibri° fischeri; i membri della colonia diventano lumine- scenti dopo aver ricevuto il segnale della molecola di autoin- duttore, un messaggero che passa da una cellula batterica all'altra. Un alto livello di autoinduttore porta all'attivazio- ne della proteina LuxR, la quale stimola i geni che sintetiz- zano le proteine responsabili della luminescenza e causa la produzione di un'ulteriore quantità di autoinduttore, che attiva sia la cellula che lo produce sia le cellule vicine. Il 4 giugno, al mattino, vidi una grande abbondanza di creature viventi; guardando di nuovo, nel pomeriggio dello stesso giorno, ne trovai una enor- me quantità in una sola goccia d'ac- qua... . Al microscopio apparivano co- me comuni granelli di sabbia visti a oc- chio nudo. C osì scriveva, nel 1676, il grande microscopista olandese Anton van Leeuwenhoek, descrivendo quella che probabilmente fu una delle prime osservazioni di batteri. L'appa- recchio rudimentale, a lente unica, di cui van Leeuwenhoek disponeva pote- va a malapena far discernere i micror- gani gmi. Oggi gli scienziati sanno che i batteri - organismi tra i più antichi e ab- bondanti sulla Terra - sono dotati di una struttura semplice: osservati al mi- croscopio elettronico, sembrano poco più che involucri rigidi contenenti DNA e un citoplasma amorfo. Per con- tro, le cellule della maggior parte degli organismi viventi hanno caratteristiche strutturali elaborate: un nucleo, un'im- palcatura interna e organelli che produ- cono energia, i mitocondri. La semplicità strutturale dei batteri non lascia presagire la loro straordina- ria capacità di manipolare l'ambiente. Questa versatilità è evidente soprattutto nel modo in cui i batteri comunicano l'uno con l'altro e con gli organismi su- periori. Talvolta le interazioni, che av- vengono tramite lo scambio di segnali chimici, danno luogo solo a modesti mutamenti nel comportamento degli in- terlocutori, mentre in altre occasioni le risposte sono eccezionali. I biologi sanno da tempo che i batteri vivono in colonie, ma ancora di recente si riteneva per lo più che i singoli mem- bri di una colonia fossero essenzial- mente rigidi individualisti, dediti solo a se stessi e ben poco comunicativi con i loro affini. Oggi sembra invece che la maggior parte dei batteri, se non tutti, comunichi con i propri vicini. In questo 70 LE SCIENZE n. 345, maggio 1997 articolo descriveremo brevemente alcu- ni tra gli esempi meglio studiati e più interessanti finora scoperti. C he i batteri siano in grado di comu- nicare per mezzo di sostanze chi- miche è emerso da indagini su batteri marini luminescenti. Nel 1970 Kenneth H. Nealson e John Woodland Hastings, della Harvard University, notarono che questi batteri in coltura non emettono luce con intensità costante; anzi, la lu- minescenza appare solo quando la den- sità della popolazione raggiunge valori elevati. I due ricercatori sapevano che l'e- missione di luce è dovuta a reazioni chimiche catalizzate da un enzima, la luciferasi, e supposero che questo enzi- ma fosse controllato non da un mecca- nismo intracellulare, ma da un messag- gero molecolare che si sposta da una cellula batterica all'altra. Una volta al- l'interno delle cellule bersaglio, il mes- saggero, che Nealson e Hastings deno- minarono autoinduttore, consente l'e- spressione dei geni che codificano per la luciferasi e per le altre proteine inte- ressate nella produzione di luce; in altre parole, l'autoinduttore può stimolare la sintesi delle proteine codificate e, per- tanto, l'emissione di luce. Questa teoria fu accolta con scetticismo, ma in segui- to è stata confermata e ampliata. Oggi si sa che l'autoinduttore in ef- fetti passa liberamente da una cellula batterica all'ambiente circostante e quindi ad altre cellule, dove attiva la proteina LuxR, che può stimolare l'e- spressione dei geni coinvolti nella lu- minescenza. Tuttavia bassi livelli di au- toinduttore non sono sufficienti: la luce si manifesta quando la concentrazione delle cellule è abbastanza alta da porta- re i livelli di autoinduttore nell'ambien- te oltre un valore soglia. A questo pun- to, l'autoinduttore fa in modo che LuxR stimoli l'espressione dei geni per la luciferasi e per le altre proteine che collaborano alla produzione di luce, co- me pure del gene che codifica per l'au- toinduttore stesso. Questa prima tornata di sintesi proteica crea un anello di re- troazione positiva che dà luogo a una maggiore produzione di autoinduttore, a una più intensa attività genica e, infi- ne, a un'esplosione di luce. In che modo si avvantaggiano i batte- ri luminescenti dall'avere un messagge- ro intercellulare che controlla la produ- zione di luce? Una risposta viene dal fatto che questi microrganismi sono re- sponsabili dell'emissione luminosa di certi pesci e cefalopodi marini. Si consideri il caso di Euprymna sco- lopes, un cefalopodo che ospita il batte- rio Vibrio fischeri nel proprio organo luminoso, escludendo tutte le altre spe- cie batteriche presenti in mare. Quando le cellule batteriche sono libere in ma- re, la loro concentrazione - e quindi quella dell'autoinduttore - è estrema- mente bassa; pertanto esse non emetto- no luce. Ma se il cefalopodo coltiva nel proprio organo luminoso una popola- zione di batteri estremamente densa, l'autoinduttore si accumula fino a con- centrazioni elevate e stimola la massi- ma produzione di luce. Euplymna scolopes, che va in cerca di cibo di notte, trae beneficio dalla pre- senza dei batteri luminescenti in quanto questi lo mimetizzano, nascondendolo ai predatori che si muovono più in profondità; la luminescenza, simile alla luce lunare, fa scomparire l'ombra che normalmente si formerebbe quando i raggi lunari colpiscono il cefalopodo dall'alto. Da parte sua, il batterio trae beneficio dal fatto che Euprymna gli fornisce un rifugio protetto e ricco di ci- bo. Il meccanismo dell'autoinduttore fa sì che i batteri consumino poca energia per la produzione di luce fino a quando non hanno raggiunto una densità eleva- ta; a questo punto, l'alta concentrazione dell'autoinduttore «comunica» alle cel- lule batteriche che sono addensate in uno spazio chiuso. Se ora esse comin- ciano a irradiare luce, l'energia che con- sumano per fornire luminescenza al ce- falopodo viene abbondantemente ripa- gata in cibo e protezione. L'autoinduttore appartiene a una fa- miglia di molecole di piccole dimensio- ni, i lattoni dell'omoserina, che vengo- no sfruttate da un'ampia varietà di bat- teri, insieme con altre molecole struttu- ralmente affini, come dispositivi per misurare la densità cellulare. Non è sempre chiaro perché le cellule valuti- no questa proprietà della colonia; ma, come nel caso di V. fischeri, le misura- zioni servono spesso a determinare il comportamento della comunità nel suo insieme, inducendola a seguire una via di sviluppo al posto di un'altra. I n V. fischeri la comunicazione inter- cellulare non conduce a un'altera- zione radicale della forma o del com- portamento delle cellule. L'emissione di segnali chimici nei mixobatteri, in- vece, fa sì che la struttura e l'attività di questi microrganismi subiscano sor- prendenti modificazioni. I mixobatteri sono batteri mobili, a forma di bastoncello, che vivono in tut- ti i suoli coltivati. Essi si sviluppano ti- picamente come singole cellule ma, quando l'acqua o le sostanze nutritive scarseggiano, migliaia di cellule di una stessa specie si riuniscono in strutture pluricellulari, i corpi fruttiferi. Alcune di queste sono così complesse che, in passato, i mixobatteri vennero classifi- cati come funghi. I corpi fruttiferi per- mettono a migliaia di spore (cellule dal rivestimento spesso che resistono al ca- lore, all'essiccamento e a una prolunga- ta carenza di sostanze nutritive) di esse- re prelevate come «pacchetti» dal ven- to, dall'acqua o da un animale di pas- saggio e trasportate in sedi più idonee per stabilire una nuova colonia. Incredibilmente, sembra che la mag- gior parte delle cellule che partecipano alla formazione dei corpi fruttiferi dei mixobatteri sacrifichi se stessa per far sì che altre cellule possano generare spore e sopravvivere fino a riprodursi. (Le singole cellule e spore sono micro- scopiche, mentre i corpi fruttiferi sono sufficientemente grandi da essere visi- bili anche a occhio nudo; essi appaiono come chiazze di color giallo, rosso o verde brillante nella vegetazione in de- composizione o sulla corteccia degli alberi.) Negli ultimi 10 anni è stato chiarito il complicato sistema di segnalazione che controlla la formazione dei corpi

Transcript of La comunicazione nei batteri -...

La comunicazione nei batteriQuesti microrganismi «conversano» tra loro e con piante e animali,

emettendo segnali chimici e reagendo a essi: il fenomeno aiuta aspiegare perché sintetizzino un'ampia schiera di composti

di Richard Losick e Dale Kaiser

UTOINDUTTORE

•• • ••PROTEINE

COINVOLTENELLA

PRODUZIONEDI LUCE

GENIPER LA LUMINESCENZA

CELLULE BATTERICHENELLORGANO LUMINOSO

cefalopodo Euprymna scolopes (nella pagina a fronte) èstato aperto nella parte inferiore per metterne in evidenzal'organo luminoso (a forma di farfalla vicino al centro). L'or-gano emette luce perché è densamente colonizzato dal batte-rio Vibri° fischeri; i membri della colonia diventano lumine-scenti dopo aver ricevuto il segnale della molecola di autoin-duttore, un messaggero che passa da una cellula battericaall'altra. Un alto livello di autoinduttore porta all'attivazio-ne della proteina LuxR, la quale stimola i geni che sintetiz-zano le proteine responsabili della luminescenza e causa laproduzione di un'ulteriore quantità di autoinduttore, cheattiva sia la cellula che lo produce sia le cellule vicine.

Il 4 giugno, al mattino, vidi unagrande abbondanza di creature viventi;guardando di nuovo, nel pomeriggiodello stesso giorno, ne trovai una enor-me quantità in una sola goccia d'ac-qua... . Al microscopio apparivano co-me comuni granelli di sabbia visti a oc-chio nudo.

C

osì scriveva, nel 1676, il grandemicroscopista olandese Antonvan Leeuwenhoek, descrivendo

quella che probabilmente fu una delleprime osservazioni di batteri. L'appa-recchio rudimentale, a lente unica, dicui van Leeuwenhoek disponeva pote-va a malapena far discernere i micror-gani gmi. Oggi gli scienziati sanno che ibatteri - organismi tra i più antichi e ab-bondanti sulla Terra - sono dotati diuna struttura semplice: osservati al mi-croscopio elettronico, sembrano pocopiù che involucri rigidi contenentiDNA e un citoplasma amorfo. Per con-tro, le cellule della maggior parte degliorganismi viventi hanno caratteristichestrutturali elaborate: un nucleo, un'im-palcatura interna e organelli che produ-cono energia, i mitocondri.

La semplicità strutturale dei batterinon lascia presagire la loro straordina-ria capacità di manipolare l'ambiente.Questa versatilità è evidente soprattuttonel modo in cui i batteri comunicanol'uno con l'altro e con gli organismi su-periori. Talvolta le interazioni, che av-vengono tramite lo scambio di segnalichimici, danno luogo solo a modestimutamenti nel comportamento degli in-terlocutori, mentre in altre occasioni lerisposte sono eccezionali.

I biologi sanno da tempo che i batterivivono in colonie, ma ancora di recentesi riteneva per lo più che i singoli mem-bri di una colonia fossero essenzial-mente rigidi individualisti, dediti solo ase stessi e ben poco comunicativi con iloro affini. Oggi sembra invece che lamaggior parte dei batteri, se non tutti,comunichi con i propri vicini. In questo

70 LE SCIENZE n. 345, maggio 1997

articolo descriveremo brevemente alcu-ni tra gli esempi meglio studiati e piùinteressanti finora scoperti.

Che i batteri siano in grado di comu-nicare per mezzo di sostanze chi-

miche è emerso da indagini su batterimarini luminescenti. Nel 1970 KennethH. Nealson e John Woodland Hastings,della Harvard University, notarono chequesti batteri in coltura non emettonoluce con intensità costante; anzi, la lu-minescenza appare solo quando la den-sità della popolazione raggiunge valorielevati.

I due ricercatori sapevano che l'e-missione di luce è dovuta a reazionichimiche catalizzate da un enzima, laluciferasi, e supposero che questo enzi-ma fosse controllato non da un mecca-nismo intracellulare, ma da un messag-gero molecolare che si sposta da unacellula batterica all'altra. Una volta al-l'interno delle cellule bersaglio, il mes-saggero, che Nealson e Hastings deno-minarono autoinduttore, consente l'e-spressione dei geni che codificano perla luciferasi e per le altre proteine inte-ressate nella produzione di luce; in altreparole, l'autoinduttore può stimolare lasintesi delle proteine codificate e, per-tanto, l'emissione di luce. Questa teoriafu accolta con scetticismo, ma in segui-to è stata confermata e ampliata.

Oggi si sa che l'autoinduttore in ef-fetti passa liberamente da una cellulabatterica all'ambiente circostante equindi ad altre cellule, dove attiva laproteina LuxR, che può stimolare l'e-spressione dei geni coinvolti nella lu-minescenza. Tuttavia bassi livelli di au-toinduttore non sono sufficienti: la lucesi manifesta quando la concentrazionedelle cellule è abbastanza alta da porta-re i livelli di autoinduttore nell'ambien-te oltre un valore soglia. A questo pun-to, l'autoinduttore fa in modo cheLuxR stimoli l'espressione dei geni perla luciferasi e per le altre proteine checollaborano alla produzione di luce, co-me pure del gene che codifica per l'au-toinduttore stesso. Questa prima tornatadi sintesi proteica crea un anello di re-troazione positiva che dà luogo a una

maggiore produzione di autoinduttore,a una più intensa attività genica e, infi-ne, a un'esplosione di luce.

In che modo si avvantaggiano i batte-ri luminescenti dall'avere un messagge-ro intercellulare che controlla la produ-zione di luce? Una risposta viene dalfatto che questi microrganismi sono re-sponsabili dell'emissione luminosa dicerti pesci e cefalopodi marini.

Si consideri il caso di Euprymna sco-lopes, un cefalopodo che ospita il batte-rio Vibrio fischeri nel proprio organoluminoso, escludendo tutte le altre spe-cie batteriche presenti in mare. Quandole cellule batteriche sono libere in ma-re, la loro concentrazione - e quindiquella dell'autoinduttore - è estrema-mente bassa; pertanto esse non emetto-no luce. Ma se il cefalopodo coltiva nelproprio organo luminoso una popola-zione di batteri estremamente densa,l'autoinduttore si accumula fino a con-centrazioni elevate e stimola la massi-ma produzione di luce.

Euplymna scolopes, che va in cercadi cibo di notte, trae beneficio dalla pre-senza dei batteri luminescenti in quantoquesti lo mimetizzano, nascondendoloai predatori che si muovono più inprofondità; la luminescenza, simile allaluce lunare, fa scomparire l'ombra chenormalmente si formerebbe quando iraggi lunari colpiscono il cefalopododall'alto. Da parte sua, il batterio traebeneficio dal fatto che Euprymna glifornisce un rifugio protetto e ricco di ci-bo. Il meccanismo dell'autoinduttore fasì che i batteri consumino poca energiaper la produzione di luce fino a quandonon hanno raggiunto una densità eleva-ta; a questo punto, l'alta concentrazionedell'autoinduttore «comunica» alle cel-lule batteriche che sono addensate inuno spazio chiuso. Se ora esse comin-ciano a irradiare luce, l'energia che con-sumano per fornire luminescenza al ce-falopodo viene abbondantemente ripa-gata in cibo e protezione.

L'autoinduttore appartiene a una fa-miglia di molecole di piccole dimensio-ni, i lattoni dell'omoserina, che vengo-no sfruttate da un'ampia varietà di bat-teri, insieme con altre molecole struttu-

ralmente affini, come dispositivi permisurare la densità cellulare. Non èsempre chiaro perché le cellule valuti-no questa proprietà della colonia; ma,come nel caso di V. fischeri, le misura-zioni servono spesso a determinare ilcomportamento della comunità nel suoinsieme, inducendola a seguire una viadi sviluppo al posto di un'altra.

I n V. fischeri la comunicazione inter-cellulare non conduce a un'altera-

zione radicale della forma o del com-portamento delle cellule. L'emissionedi segnali chimici nei mixobatteri, in-vece, fa sì che la struttura e l'attività diquesti microrganismi subiscano sor-prendenti modificazioni.

I mixobatteri sono batteri mobili, aforma di bastoncello, che vivono in tut-ti i suoli coltivati. Essi si sviluppano ti-picamente come singole cellule ma,quando l'acqua o le sostanze nutritivescarseggiano, migliaia di cellule di unastessa specie si riuniscono in strutturepluricellulari, i corpi fruttiferi. Alcunedi queste sono così complesse che, inpassato, i mixobatteri vennero classifi-cati come funghi. I corpi fruttiferi per-mettono a migliaia di spore (cellule dalrivestimento spesso che resistono al ca-lore, all'essiccamento e a una prolunga-ta carenza di sostanze nutritive) di esse-re prelevate come «pacchetti» dal ven-to, dall'acqua o da un animale di pas-saggio e trasportate in sedi più idoneeper stabilire una nuova colonia.

Incredibilmente, sembra che la mag-gior parte delle cellule che partecipanoalla formazione dei corpi fruttiferi deimixobatteri sacrifichi se stessa per farsì che altre cellule possano generarespore e sopravvivere fino a riprodursi.(Le singole cellule e spore sono micro-scopiche, mentre i corpi fruttiferi sonosufficientemente grandi da essere visi-bili anche a occhio nudo; essi appaionocome chiazze di color giallo, rosso overde brillante nella vegetazione in de-composizione o sulla corteccia deglialberi.)

Negli ultimi 10 anni è stato chiaritoil complicato sistema di segnalazioneche controlla la formazione dei corpi

CELLULA DENUTRITA

111 ../

FATTORE A 11

I",

BASSA DENSITÀ II M. XANTHUSDI FATTORE A • NEL SUOLO

fruttiferi in una specie davvero interes-sante, Myxococcus xanthus. Circa quat-tro ore dopo che hanno cominciato a ri-sentire la carenza di cibo, le cellule ba-stoncellari di M. xanthus si mettono inmoto da varie parti della comunità peraggregarsi in punti focali. Alla fine, incorrispondenza di ognuno di questipunti si accumulano circa 100 000 cel-lule che formano un monticello dorato,in grado di raggiungere un'altezza diun decimo di millimetro (lo spessore diun capello) e visibile a occhio nudo. A20 ore dall'inizio della carenza alimen-tare, alcune cellule cominciano a diffe-renziarsi in spore e, circa quattro oredopo, l'assemblaggio della struttura dibase è completo.

Fra i messaggeri chimici che control-lano la formazione dei corpi fruttiferi inM. xanthus, due dei meglio studiati so-no il fattore A e il fattore C. Il primo ènecessario per far aggregare le cellulein un punto focale, mentre il secondoserve a far completare l'aggregazione ead avviare la produzione di spore.

Così come l'autoinduttore e gli altrilattoni dell'omoserina, anche il fattoreA è un segnale di densità della popola-zione cellulare: viene liberato nell'areacircostante e induce l'aggregazione so-lo se raggiunge una concentrazione so-glia. Possiamo immaginarlo come unsegnale di SOS, che indica che una cel-lula sta per morire di fame. Se viene li-berato solo da alcune cellule di una co-munità, la concentrazione globale risul-ta bassa e la comunità ne deduce chel'ambiente circostante contiene risorseadeguate per la crescita delle singolecellule. Se, viceversa, una quantità suf-ficiente di cellule emette segnali diSOS, allora l'intera comunità è in peri-colo: le cellule cominciano a riunirsi in

72 LE SCIENZE n. 345, maggio 1997

un corpo fruttifero. A conferma di que-sta supposizione, il numero di celluleche devono secernere il fattore A per in-nescare la produzione del corpo fruttife-ro è il minimo necessario per dare origi-ne a un organo sporigeno completo.

Il fattore C, che è una proteina di pic-cole dimensioni, entra in gioco dopoche è stata valutata la gravità della ca-renza alimentare ed è cominciata l'ag-gregazione in corrispondenza di un pun-to focale. Diversamente dal fattore A,esso rimane fissato alla cellula che loproduce e sporge dalla sua superficie. Sinoti che le cellule sono costrette a muo-versi perché il messaggio del fattore Cche segnala la formazione di spore siatrasmesso da cellula a cellula in un ag-gregato in via di formazione. Ci si è in-terrogati a lungo sul perché sia necessa-rio questo movimento a grande scala,ma esperimenti compiuti da uno di noi(Kaiser) e da Seung K. Kim, Brian M.Sager, Frank J. Slack e Lotte Sogaard--Andersen della Stanford Universityhanno contribuito a risolvere l'enigma.

La risposta sta nella necessità del-l'organismo di essere trasportato in unluogo dove sia di nuovo disponibile ci-bo. La probabilità che un corpo fruttife-ro venga portato lontano e stabiliscauna nuova e prospera colonia aumentavia via che crescono il numero di spo-re e la densità dell'impaccamento al-l'interno del corpo fruttifero. Perché lecellule bastoncellari possano aggregarsi

Un corpo fruttifero aperto di Myxococ-cus xanthus, a forte ingrandimento, ri-vela le spore nell'interno. La formazio-ne di spore è innescata da una sostanzachiamata fattore C.

più strettamente, devono entrare in con-tatto lungo i fianchi e agli apici e, perfar questo, devono muoversi.

Quando viene raggiunto un allinea-mento idoneo, il fattore C che sporgedalle cellule in contatto tra loro comu-nica ad altre cellule che l'operazione èriuscita. Un'abbondanza di segnali di Cinforma la comunità che è stata realiz-zata un'aggregazione ottimale (cioèuno stretto impaccamento). A questopunto, le cellule cessano di muoversi eattivano i geni necessari per la forma-zione delle spore. In altre parole, ilmessaggio di C segnala l'elevata den-sità delle cellule e l'adeguato completa-mento delle prime fasi di formazionedel corpo fruttifero.

Un'intensa trasmissione di segnali èstata scoperta anche in un'altra fami-glia di batteri del suolo, gli streptomi-ceti, ampiamente utilizzati dai farmaco-logi come fonte di antibiotici e di altricomposti importanti per la medicina,quali l'avermectina (un antiparassita-rio) e l'FK506 (somministrato per im-pedire il rigetto immunitario di organitrapiantati).

Le colonie di streptomiceti si svilup-pano in una rete ramificata di lunghecellule fibriformi, o ife, che ricorda certifunghi filamentosi. Le ife penetranonella vegetazione degradandola e ali-mentandosi del materiale in decomposi-zione. Quando le risorse alimentari di-minuiscono, la colonia, come accade inM. xanthus, collabora nella produzionedi spore: in questo caso si forma unastruttura specializzata, il micelio aereo.

Un osservatore che guardasse la co-struzione del micelio aereo vedrebbeinnanzitutto molte ife levarsi dalla co-lonia e puntare verso l'alto; questestrutture danno alla comunità l'aspettodi una lanugine bianca. Dopo parecchigiorni, ciascuna delle ife aeree, consi-stenti all'inizio di una singola lungacellula, diventa settata e si differenziain una lunga catena di spore dal robustorivestimento (simile a un filo di perle).Spesso le spore diventano pigmentatevia via che maturano, rendendo alla fi-ne colorata la superficie lanuginosadella colonia.

Molte osservazioni indicano che, al-l'interno della comunità, uno scambioattivo di segnali chimici regola l'innal-zamento delle ife aeree. Una fra le me-glio studiate di queste sostanze è ancorauna volta simile ai lattoni dell'omoseri-na; presumibilmente questo segnale pro-muove la formazione di ife aeree quan-do un numero sufficiente di batteri chevivono nel suolo avverte una riduzionedelle risorse alimentari disponibili.

Le cellule della comunità battericacooperano anche secernendo SapB, unapiccola proteina che si accumula copio-

samente all'esterno delle cellule. Sem-bra che questa sostanza partecipi diret-tamente alla costruzione delle ife aeree,come ha scoperto nel 1990 Joanne Wil-ley di Harvard. Essa riveste la superfi-cie della colonia, aiutando forse i fila-menti posti più in alto a vincere la ten-sione superficiale e a sollevarsi da ter-ra. Così, l'innalzamento delle ife aereeè una specie di impresa comunitaria, incui le cellule coordinano le loro attivitàattraverso lo scambio e l'accumulo divarie sostanze chimiche.

Oltre a comunicare con i conspecifi-ci, le cellule batteriche intratten-

gono spesso elaborate conversazionichimiche con organismi superiori. Ilbatterio luminescente V. fischeri è unottimo esempio: abbiamo già descrittocome le sue cellule cooperino per pro-durre luminescenza. Oltre a questo,però, i microrganismi stimolano anchela maturazione dell'organo luminosodell'ospite. Quando un giovane esem-plare di E. scolopes viene fatto crescerein acqua marina sterile, le sacche chenell'adulto diventeranno l'organo lumi-noso non si sviluppano. È presumibil-mente un segnale chimico provenientedal batterio a indurre questo sviluppo,ma la specifica sostanza attiva deve an-cora essere isolata.

Si conoscono invece molto più a fon-do i meccanismi di segnalazione batte-rici che promuovono lo sviluppo di al-cune piante. Certi batteri del suolo sta-biliscono una relazione simbiotica (cioècaratterizzata da reciproci benefici) conle leguminose. Questi batteri apparten-gono al genere Rhizobium e la loro as-sociazione con le leguminose è parte diuna storia biogeochimica molto piùampia: il ciclo dell'azoto tra atmosferae biosfera terrestre.

Tutte le forme viventi dipendonodall'azoto ma, benché l'atmosfera ter-restre sia ricca di questo gas, sono po-chi gli organismi che possono assimi-larlo direttamente nei loro tessuti. Per-

ché l'azoto atmosferico possa essere in-corporato nel materiale cellulare, i fortilegami chimici che tengono riuniti incoppie i suoi atomi devono essere in-franti, in un processo che richiede unnotevole apporto di energia: la fissazio-ne dell'azoto. In natura, questo proces-so viene effettuato soltanto da alcunigeneri specializzati di batteri. Senza ibatteri fissatori di azoto, la vita sullaTerra sarebbe estinta da molto tempo,perché questi microrganismi fanno sìche l'azoto possa continuare a rimanerein ciclo. L'azoto fissato viene infine re-stituito all'atmosfera da altri microrga-nismi che lo liberano in forma gassosadecomponendo i tessuti di piante e ani-mali morti. Il processo di fissazione na-turale è ancora oggi fondamentale, an-che se l'industria chimica, incorporan-do azoto nei fertilizzanti, incremental'opera dei batteri.

Il Rhizobium libero non è in gradodi effettuare la fissazione dell'azoto:compie questa funzione essenziale soloquando colonizza una leguminosa. Nelsuolo, esso invade i minuscoli peli radi-cali delle leguminose, quindi migra inprofondità nei tessuti della radice, inse-diandosi in noduli specializzati prodottidalla pianta. Nei noduli radicali i batte-ri subiscono cambiamenti spettacolaridi forma e dimensione, diventando ro-tondeggianti e più grandi via via che sidifferenziano in quelle «fabbriche azo-tofissatrici» che sono i batteroidi. Inquesta associazione simbiotica, i batte-roidi forniscono all'ospite una forma diazoto facilmente assimilabile (ammo-niaca) mentre la pianta rifornisce i bat-teri di cibo (carboidrati).

I profondi cambiamenti che si in-staurano sia nel microrganismo sia nel-la pianta ospite derivano da una «con-versazione» molecolare che cominciaancora prima che i due organismi entri-no in contatto tra loro. La pianta emetteun flavonoide, un segnale chimico sco-perto negli anni ottanta da Sharon R.Long e collaboratori a Stanford. Il fla-vonoide penetra nelle cellule batterichee stimola una proteina che, a sua vol-ta, attiva diversi geni, i quali inducono

Il corpo fruttifero del mixobatterioChondromyces crocatus è più comples-so di quello di M. xanthus. All'inizio, C.crocatus segue la stessa via di M.xanthus, ma, anziché formare sporequando le cellule hanno costituito unmonticello, produce un gambo; quindisviluppa rami che, alla fine, sosterran-no alla sommità circa 20 pacchetti con-tenenti spore. Questa complessità sot-tolinea la capacità organizzatrice dellacomunicazione tra cellule batteriche.

LE SCIENZE n. 345, maggio 1997 73

I batteri della specie Myxococcus xanthus, che vivono nel suolo, formano solo pic-coli gruppi di cellule, a meno che le risorse nutritive comincino a scarseggiare.Quando il nutrimento è insufficiente, essi segnalano la loro condizione secernendoil cosiddetto fattore A. Una bassa densità di questo fattore (riquadro a) ha unoscarso effetto sulla colonia, ma quando la sua densità supera un valore soglia (b),l'innalzamento segnala un malessere diffuso e stimola le cellule batteriche a riunir-si (c) per cominciare a formare un corpo fruttifero (sequenza di microfotografie). Icorpi fruttiferi possono contenere 100 000 spore, cellule in grado di sopportare lacarenza di nutrimento. Il sento o un animale di passaggio può quindi trasportarel'intero carico di spore in un territorio più favorevole, dose esse germineranno epotranno fondare una nuova colonia.

/ La pianta secerne molecole di flavonoide

FLAVONOIDE

RHIZOBIUM •• •

FLAVONOID

2 II flavonoide stimolale cellule batteriche a produrreil fattore Nod, un messaggeroad alto contenuto glucidicoche induce le cellule radicalia dividersi e a formare noduli

CARBOIDRATI

BATTERIO

3 In seguito i batteri inducono i peli radicalia formare filamenti di infezione simili a gallerie,e i carboidrati presenti sulla loro superficie consentonoai microrganismi di penetrarvi fino a raggiungerele cellule radicali

~011,

NODULOIN VIADI FORMAZIONE

FATTORE Nod

BATTEROIDE

CE

4 I batteri nellecellule del nodulo,forse sollecitatida un segnaledella pianta,si differenzianoin batteroidifissatori di azoto

FILAMENTODI INFEZIONE

CELLULA• /RADICALE

-PELI RADICALI

RADICE

Echiaro che molti fra i metabolitisecondari intervengono nella lotta

che i batteri ingaggiano contro i mi-crorganismi con cui sono in competi-zione: sono proprio queste sostanzeche ci hanno fornito molti antibiotici.Ma alcuni di questi metaboliti sononormalmente sintetizzati a livelli trop-po bassi per poter avere una funzioneprotettiva. Supponiamo, dunque, chemolte di queste sostanze secondariesiano utilizzate per comunicare. Inol-tre, la necessità di avere svariate formedi comunicazione può benissimo con-tribuire a spiegare perché, nel corsodella storia della Terra, i batteri abbia-no continuato a produrre una vastagamma di sostanze apparentemente discarsa utilità.

È interessante il fatto che alcuni la-vori lascino intendere come un sotto-insieme di metaboliti secondari pos-sa avere un duplice ruolo: difensivoa livelli elevati e di comunicazione alivelli più bassi. Per esempio, JulianDavies e Charles J. Thompson, che

5 all'epoca lavoravano entrambi all'In-stitut Pasteur di Parigi, hanno stabi-lito che taluni antibiotici liberati dacellule batteriche, quando sono pre-senti in dosi troppo basse per inibirela crescita di microrganismi bersaglio,possono stimolare l'espressione di ge-ni in altre cellule dello stesso ti-po. Forse altri metaboliti secondari di-mostratisi privi di effetti antibiotici co-nosciuti sono in realtà molecole di se-gnalazione anziché agenti di una lottabiochimica.

Ascoltare le conversazioni che i bat-teri intrattengono con i loro vicini do-vrebbe fornirci nuove conoscenze sulletattiche di sopravvivenza dei più sem-plici organismi terrestri e, se prestere-mo loro molta attenzione, potrà forserivelarci l'esistenza di preziose sostan-ze ancora sconosciute.

I noduli sulle radici di una pianta di pi-sello (sopra) contengono batteri del ge-nere Rhizobium che fissano l'azoto,convertendolo in una forma utilizzabiledalle piante. In cambio, i batteri otten-gono un luogo sicuro e ricco di nutri-mento dove vivere, I noduli radicali siformano in seguito a «conversazioni»chimiche che si svolgono tra le radici ei microrganismi (schema nella pagina afronte). Nella microfotografia a destranodulo di una radice di erba medica.

la pianta a sviluppare i noduli radicali.Altri ricercatori hanno poi descritto

più in dettaglio come i geni per la for-mazione di noduli nelle cellule di Rhi-zobium inducano una reazione nellapianta. Le proteine prodotte da alcuni diquesti geni sono enzimi che sintetizzanouna molecola ad alto contenuto glucidi-co, il fattore Nod; quest'ultimo «con-versa » con la pianta, dando inizio alladivisione cellulare necessaria a formarei noduli destinati a ospitare i batteroidi.

In seguito, quando le cellule di Rhizo-bium entrano in contatto con i peli radi-cali, i batteri stimolano questi ultimi aprodurre passaggi simili a gallerie, i co-siddetti filamenti di infezione. I carboi-drati di Rhizobium consentono quindi aimicrorganismi di penetrare in questi fi-lamenti e di insediarsi nella radice. Nonsarebbe sorprendente scoprire che i no-duli reagiscono producendo segnali an-cora da identificare, capaci di indurre latrasformazione dei batteri invasori inbatteroidi azotofissatori. Comunque, inquesto caso i segnali procedono lungodue vie; il batterio e il suo ospite si spro-nano reciprocamente a compiere le tap-pe successive di un percorso che regolalo sviluppo di entrambi gli organismi.

Non tutti i processi di segnalazionetra batteri e organismi superiori

operano a beneficio di entrambi. Comei batteri simbionti, le specie patogene

trasmettono segnali chimici che dannoistruzioni alle cellule perché alterino illoro comportamento. Ma, in questo ca-so, i segnali trasmessi provocano rispo-ste nocive per l'ospite che compromet-tono le sue difese e consentono agli a-genti patogeni di acquisire una posizio-ne di vantaggio. Tra questi agenti dan-nosi, uno che adotta una tattica partico-larmente ingegnosa è Yersinia pestis,l'organismo responsabile della pestebubbonica che decimò gran parte dellapopolazione europea tra il XIV e il XVsecolo.

Y. pestis, che provoca ancora oggiepisodi isolati della malattia, infetta itessuti linfoidi dell'uomo, compromet-tendo l'attività difensiva dei linfoci-ti. Per portare a termine la sua mis-sione, il batterio deve prima di tuttosfuggire all'ingestione da parte deimacrofagi, le cellule spazzine del si-stema immunitario che inglobano edistruggono i batteri patogeni e contri-buiscono ad attivare altre componen-ti del sistema immunitario. Y. pestis e-vita questa minaccia producendo pro-teine che penetrano nei macrofagi e lidisattivano: alcune di queste protei-ne danneggiano direttamente la cel-lula immunitaria, mentre altre, comeYopH, prevengono l'attacco interfe-rendo con la rete di comunicazioni in-terne del macrofago.

Analogamente alle colonie batteri-

che, gli organismi pluricellulari supe-riori hanno sistemi di segnalazionecomplicati, che consentono alle celluledi comunicare l'una con l'altra. Mole-cole di segnalazione di vari tipi, comegli ormoni, si legano a recettori situatialla superficie di una cellula bersaglio.I recettori inviano il messaggio a mole-cole che si trovano all'interno della cel-lula e che lo ritrasmettono al nucleo,dove sono localizzati i geni. Il segnalealtera quindi l'andamento dell'espres-sione genica, modificando l'attivitàdella cellula. La catena di eventi checollega la superficie della cellula al nu-cleo viene definita via di trasduzionedei segnali.

Una componente chiave di molte viedi trasduzione dei segnali, tra cui quellepresenti nei macrofagi, è l'addizioneenzimatica di gruppi fosfato a specifi-che proteine della catena di segnalazio-ne: cambiamento che tipicamente attivaproteine quiescenti e consente loro dimantenere in funzione la catena. JackE. Dixon, quando era alla Purdue Uni-versity, scoprì che la YopH appartienea una classe di enzimi che rimuovono ifosfati aggiunti. È facile immaginarecome questa rimozione da parte dellaYopH possa disturbare le vie di trasdu-zione nei macrofagi e bloccare la lororisposta a Y. pestis.

Certe specie di Yersinia, inoltre, siimpadroniscono con la forza dei siste-

mi di trasduzione dei segnali di altri ti-pi di cellule, utilizzandoli per i proprifini. Per esempio, i batteri di alcunespecie di Yersinia devono attraversarele cellule intestinali per colonizzare ilinfonodi dell'intestino dell'ospite, espesso attivano vie di trasduzione deisegnali presenti nelle cellule intestinaliper far sì che queste li inglobino.

Essi mettono in moto le vie di tra-sduzione dei segnali esibendo una pro-teina, l'invasina, che si lega a un recet-tore sulla superficie delle cellule ospiti.L'invasina potrebbe quindi far parte delmeccanismo grazie al quale queste spe-cie di Yersinia sono in grado di attra-versare strati di cellule per raggiungeretessuti dell'ospite situati più in profon-

RICHARD LOSICK e DALE KAI-SER studiano entrambi le imprevedibilicapacità di comunicazione dei batteri.Losick è Maria Moors Cabot Profes-sor e preside del Dipartimento di biolo-gia molecolare e cellulare della HarvardUniversity; Kaiser è Wilson Professordi biochimica alla School of Medicinedella Stanford University. Per le sue ri-cerche di microbiologia quest'anno haricevuto un premio da parte della Ab-bott-American Society.

delle cellule. Da anni gli scienziati sichiedono perché i batteri producanouna vasta schiera di questi composti.

dità. Che l'invasina possa avere unruolo di primo piano in questo fenome-no è stato dimostrato da un brillan-te esperimento di Ralph Isberg dellaSchool of Medicine della Tufts Uni-versity. In laboratorio, le cellule delbatterio Escherichia coli non sono in-vasive; ma, quando vengono modifica-te affinché sintetizzino l'invasina diYersinia, riescono a penetrare nellecellule di mammifero.

Le molecole di segnalazione prodot-te dai batteri appartengono a un gruppopiù ampio di sostanze, i metaboliti se-condari. Contrariamente ai metabolitiprimari come gli amminoacidi e le vita-mine, quelli secondari non sono essen-ziali per il mantenimento e la crescita

WILLEY J., SANTAMARIA R., GUIJARRO J., GEISTLICH M. e LOSICK R., ExtracellularComplementation of a Developmental Mutation Implicates a Small SporulationProtein in Aerial Mycelium Formation by S. coelicolor, in «Cell», 65, n. 4, 17 mag-gio 1991.

McFALL-NGAI M. J. e RUBY E. G., Symbiont Recognition and Subsequent Morpho-genesis as Early Events in an Animal-Bacterial Mutualism in «Science», 254, pp.1491-1494, 6 dicembre 1991.

KAISER D. e LOSICK R., How and Why Bacteria Talk to Each Other in «Celi», 73,n. 5, 4 giugno 1993.

BLISKA J. B., GALAN J. E. e FALKOW S., Signal Transduction in the MammalianCeli during Bacterial Attachment and Entry, op. cit., pp. 903-920.

LONG S. R. e STASKAWICZ B. J., Prokaryotic Plant Parasites, op. cit., pp. 921-935.

LE SCIENZE n. 345, maggio 1997 7574 LE SCIENZE n. 345, maggio 1997