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1 LA COMUNICAZIONE EFFICACE E PERSUASIVA I concetti chiave per diventare convincenti ed assertivi Eros Tugnoli CUPER Srl

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LA COMUNICAZIONE

EFFICACE

E PERSUASIVA

I concetti chiave per diventare convincenti ed assertivi

Eros Tugnoli

CUPER Srl

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Sommario

- Comunicare con il cuore (pag. 3)

- I “Fondamentali” della Comunicazione (pag. 7)

- Le basi e le teorie della comunicazione non verbale (pag. 25)

- Gli insegnamenti dei grandi seduttori (pag.40)

- L’arte della menzogna (pag. 51)

- TEST: Capacità di persuasione (pag. 50)

- TEST: Fatto o deduzione? (pag. 61)

- Comunicazione interna e gestione dei gruppi di lavoro (pag. 62)

- SLIDE: LE BASI DELLA COMUNICAZIONE (pag. 79)

- SLIDE: LE ARMI DELLA PERSUASIONE (pag. 93)

- Bibliografia (pag. 102)

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COMUNICARE

CON IL CUORE

Lory Wood

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COMUNICARE CON IL CUORE

“L’intelligenza emotiva è una di quelle risorse che consentono di migliorare la

qualità della vita soprattutto sul piano delle relazioni, rendendole più autentiche

e gratificanti. Averne consapevolezza è il primo passo di un percorso di

riconciliazione con se stessi, che presuppone un lungo allenamento”

La maggior parte delle persone comunica prevalentemente (se non esclusivamente) con la testa mettendo a tacere il cuore, sede dei sentimenti e delle emozioni. In altri termini, costoro tendono a privilegiare l’intelligenza analitica, quella che, governata dall’emisfero cerebrale sinistro, interviene perlopiù quando si decide il proprio comportamento in base a parametri riconducibili esclusivamente agli interessi personali e si basa sul calcolo, sulla logica, sulla razionalità. E’ sempre l’intelligenza emotiva a consentirci di affermare senza inutile ansia, con calma e assertività il nostro punto di vista nel pieno rispetto di quello altrui senza perdere il controllo della situazione. Quando si è emotivamente intelligenti, si è in grado di comunicare con il cuore e non si sente il bisogno di umiliare, offendere, aggredire l’altro; non si pretende di primeggiare e vincere a tutti i costi alla ricerca di un potere che permette di mantenere sotto controllo la propria ansia e insicurezza. Comunicare con il cuore significa anche chiedere scusa e saper perdonare. EMPATIA E ASSERTIVITA’: IL MIX VINCENTE NELLA RELAZIONE CON GLI ALTRI Quando si comunica con intelligenza sociale ed emotiva, i rapporti migliorano, tutto avviene in maniera naturale e trasparente e gli equilibri razionali sono salvi! Quando, invece, ci si lascia guidare solo dalla razionalità, mettendo da parte il cuore e le sue ragioni, si finisce quasi sempre in una disputa senza fine in cui ognuno è ancorato rigidamente alle proprie posizioni. In questo modo, senza volerlo, si creano le premesse per un esito comunicativo reciprocamente insoddisfacente del tipo “muro contro muro” e non serve a mantenere una relazione reciprocamente gratificante e durevole nel tempo. Questa richiede solide basi come il rispetto reciproco, la tolleranza, l’orientamento al dialogo e l’accettazione dell’altro come partner comunicativo. Perciò è bene considerare che quando comunichiamo con la testa provando ansia da prestazione e da risultato, senza renderci conto di essere guidati dalla paura di perdere, allora ci stiamo avviando verso la sconfitta e il “gioco a somma zero”,

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che è una situazione di “trappola emotiva” paragonabile al nulla di fatto dalla quale sarà poi difficile se non impossibile uscire. Nessuno ci ha insegnato – né in famiglia né tanto meno a scuola – ad acquisire questa fondamentale competenza emotiva, indispensabile per comunicare bene in qualsiasi contesto e ambiente. Per questo risulta difficile operare una “inversione di tendenza”: richiede coraggio, capacità di mettersi in gioco e uno sforzo mentale non indifferente. L’essenza dell’intelligenza sociale ed emotiva consiste infatti nell’imparare a coniugare questi tre verbi (riconoscere, gestire ed esprimere) attraverso un comportamento che risulti emotivamente e socialmente intelligente nonché professionalmente corretto ed adeguato. Molti non sono disposti a compiere questo sforzo, pur sapendo che può migliorare la qualità della vita. Eppure, una volta intrapreso, è un viaggio entusiasmante perché rappresenta l’unica strada conosciuta dal cuore per farci stare bene con noi stessi e con gli altri . I SETTE PASSI PER COMUNICARE COL CUORE - Convincersi che comunicare con il cuore è possibile oltre che psicologicamente gratificante. Basta volerlo e cominciare subito a farlo con la consapevolezza che solo la pratica rende “perfetti”. Lo sforzo iniziale, che può rendere difficile la partenza, sarà largamente compensato dalla gioia dell’essere riusciti a diventare emotivamente più intelligenti. - Interessarsi agli altri. Più ci interessiamo agli altri e di quello che sta loro a cuore e più gli altri si interessano di noi. Ognuno in cuor suo vuole sentirsi importante, apprezzato e stimato; perciò cercare di capire gli obiettivi degli altri, le loro speranze, le loro paure, aiuta a comunicare meglio, bloccando già sul nascere molti dei possibili motivi di divergenza o fattori di conflitto interpersonale. - Abbandonare l’idea di essere infallibili. Nessuno è o potrà mai essere detentore di verità assolute; perciò chi riesce a mettere in conto l’eventualità di potersi sbagliare è più saggio di quanto non si pensi. Mette in pratica un principio cardine della P.N.L. (Programmazione Neurolinguistica): “ la mappa (le proprie convinzioni) non è il territorio (quelle dell’umanità intera)”. - Imparare ad ascoltare, saper ascoltare sembra facile ma non lo è, perché richiede empatia, cioè la capacità di mettersi nei panni degli altri, sforzandosi di vedere le cose dal loro punto di vista e di coglierne il vissuto emotivo. Senza buona capacità di ascolto empatico, è praticamente impossibile riuscire a comunicare con il cuore!

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- Considerare le emozioni una risorsa. Imparare a riconoscere, gestire ed esprimere i propri sentimenti senza soffocarli è una grande conquista personale, che promuove l’equilibrio interiore e predispone all’autorealizzazione. Intraprendere, a qualsiasi età, un percorso di alfabetizzazione emozionale è una scelta che può migliorare la qualità della propria vita affettiva, sociale e professionale. - Dire quello che si pensa senza temere il giudizio degli altri. Se dire quello che si pensa aiuta a sentirsi bene ed in pace con se stessi, farlo con un pizzico di tatto e diplomazia consente di apparire agli occhi degli altri più sicuri di sé e delle proprie convinzioni. Siate perciò “eleganti” nel linguaggio e nel modo di esporre ciò che pensate, anteponendo possibilmente al vostro pensiero espressioni del tipo “io credo..io ritengo che..” Lasciando aperta la porta del dubbio, risulterete più convincenti. - Chi vuole comunicare con il cuore deve far proprio il principio “win – win”, in base al quale si può vincere insieme (vinco io – vinci tu) senza entrare inutilmente in conflitto con l’altro. Conflitto che diventa così una buona occasione di confronto, utile alla propria crescita.

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I “FONDAMENTALI”

DELLA

COMUNICAZIONE

Eros Tugnoli - Francesco Bosio - Lina Di Lascio

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LA

COMU

NICAZION

E

INTERPERSO

NALE

Che cos’è la “comunicazione”? E cosa significa “comunicare”? Comunicare significa trasmettere, trasferire, far conoscere, inviare,

partecipare, unire, mettere in comune con gli altri ciò che è nostro. Comunicare significa, quindi, tante cose e può non significare nulla, dipende dallo scopo che vogliamo raggiungere e dal comportamento che teniamo per raggiungerlo.

Per comodità affermeremo che comunicare significa “trasmettere”. Secondo la definizione più classica la comunicazione è il trasferimento d'informazioni da un'emittente ad un ricevente.

Chi comunica è FONTE DI TRASMISSIONE Il mezzo che usiamo per comunicare è il VEICOLO DI

COMUNICAZIONE La strada attraverso cui passa la comunicazione è il CANALE DI

COMUNICAZIONE L’oggetto della comunicazione è il MESSAGGIO. Il messaggio è il

contenuto della comunicazione, è l'oggetto stesso del fenomeno di cui stiamo parlando. Se io entro in ufficio, dico "Buongiorno" al mio collega e questi mi risponde "Buongiorno!": ecco, il "buongiorno" è il messaggio. Nel primo caso, inoltre, io sono il trasmettitore di tale messaggio e il mio collega è il ricevente.

La persona cui indirizziamo il nostro messaggio è il DESTINATARIO A volte, tra la fonte di trasmissione e il destinatario, s'interpone

l’INTERFERENZA che può ostacolare la trasmissione e la ricezione di un messaggio; in pratica un messaggio riesce a giungere al destinatario senza distorsioni se non incontra interferenze o se, incontrandole, riesce a neutralizzarne gli effetti d'influenzamento.

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COMUNICAZIONE E’...COMUNICAZIONE E’...

� ...il trasferimento di informazioni da un “Emittente” ad un “Ricevente”

� …mettere “qualcosa” in “comune”

� ...l’essenza della nostra vita

Che cosa significa che la Comunicazione è l’essenza della nostra vita? Può

significare che attraverso la comunicazione riusciamo a creare delle relazioni umane, poiché ogni messaggio riesce a generare delle reazioni umane. Nella vita di ogni giorno, nelle aziende, negli uffici, nelle aule della scuola, nei panifici, nei bar, nelle discoteche, si parla e, se non si parla, si comunica lo stesso. Più precisamente possiamo assicurare che è inevitabile comunicare. I pragmatici della comunicazione, cioè coloro che studiano il rapporto tra il linguaggio e coloro che lo usano (es. Watzlawick, Beavin, Jackson, Bateson, Haley e altri), hanno postulato alcuni assiomi della comunicazione.

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Il primo e il principale di questi assiomi, che potremmo definire metacomunicazionale (cioè che va oltre i confini tradizionali, sta al di sopra) è:

“….Non si può non comunicare…”.

Secondo questi studiosi “…il comportamento non ha un suo opposto. In

altre parole non esiste un qualcosa che sia un non comportamento o, per dirla anche più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento….”,e qualsiasi tipo di comportamento ha una valenza comunicativa. Ne consegue che, in qualsiasi tipo di situazione ed interazione, con o senza un’azione, s'invia un messaggio. Per esempio se entrate in panetteria senza salutare alcuno dei vostri colleghi, oppure non guardate in faccia nessuno dei vostri clienti, il vostro comportamento ha già lanciato un messaggio preciso: non avete alcuna intenzione di avviare uno scambio verbale con i presenti.

Noi siamo immersi totalmente nel processo della comunicazione. Noi emettiamo segnali sempre, continuamente, automaticamente. E

percepiamo segnali, li valutiamo, li esaminiamo, li accogliamo perché significativi o li respingiamo perché fuorvianti.

E tuttavia fatichiamo a rendercene conto. Il processo avviene sotto il segno di un certo automatismo e di una generale inconsapevolezza.

Comunicare vuol dire innanzi tutto due cose: emettere segnali e riceverne.

Ma dire "segnali" è dire poco. I segnali sono, infatti, il tutto. E' un segnale un viso allegro, e viene recepito normalmente come simbolo di una buona disposizione d'animo da parte di chi lo emette. E' un segnale un gesto brusco, e tende infatti ad essere recepito come segno del nervosismo di chi lo emette, o in altri modi suggeriti dalla situazione.

Certe volte l'uomo riesce a comunicare anche con l'immobilità. Sono infatti diversi i messaggi che emette un corpo in posizione statica:

immaginiamo una persona ferma, attenta, tesa ad ascoltare un oratore che parla. Ed immaginiamo invece la rassegnata immobilità del poveraccio che chiede elemosina all'angolo del nostro palazzo.

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PERCEZIONEPERCEZIONE

Le diverse esperienze generano percezioni soggettive dello stesso problema e quindi

azioni e reazioni differenti

La percezione: le diverse esperienze generano percezioni soggettive dello

stesso problema e, quindi, azioni e reazioni differenti. Significa che, se tre soggetti diversi A, B, C, hanno tre percezioni diverse, utilizzano tre modi diversi di comunicare. In un gruppo, per esempio, io devo utilizzare una comunicazione standard che possa racchiudere l’anima del gruppo stesso. Ciò significa, teoricamente, che devo trovare un modo di comunicare non secondo i miei parametri e secondo il mio linguaggio perché in questo modo rischierei di non farmi capire: TUTTI POSSONO COMUNICARE, MA NON TUTTI SANNO FARSI CAPIRE! Ne deriva che prima di comunicare un messaggio, dobbiamo stabilire chi ne sarà il destinatario, valutarne il grado di cultura e adattare a lui il nostro linguaggio. Il protagonista non è più il trasmittente/comunicante, bensì il ricevente.

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IMPRINTINGIMPRINTING

“LA PRIMA VOLTA NON SI DIMENTICA MAI…”

la prima impressione determinerài futuri rapporti

(“Profezia che si autoavvera”)

IMPRINTING: la prima impressione determinerà i futuri rapporti

(“profezia che si autoavvera”). Quando comunichiamo determiniamo una relazione. In tale relazione è

molto rilevante il primo “contatto” giacché costituisce il primo dei rapporti tra noi e il nostro interlocutore. Tale rapporto costituirà l’inizio di una lunga serie basata su reciproca comprensione, fiducia e soddisfazione. Il contatto sarà stabilito al suo stesso livello culturale, come abbiamo già detto, in modo che ci sia “comprensione” e, contemporaneamente, dovremo fare appello al suo “cuore”, cioè all’emotività del nostro destinatario: sfrutteremo l’elemento simpatia perché egli sia ben disposto all’ascolto.

Riepilogando: comprensione e simpatia, cui dovrà seguire l’interesse. Qualunque cosa comunichiamo, anche se interessante per noi soli, dobbiamo trovare la forma adatta per renderla l’interessante per il destinatario.

Profezia perché ciò che il destinatario percepisce dal messaggio diventerà il parametro di misura. E’ un momento poco razionale ma molto emotivo, in cui la sensibilità soggettiva gioca un ruolo determinante: tutto ciò che è buono sarà percepito in modo eccezionale, tutto ciò che è scarso sarà percepito come un problema.

La profezia che si autoavvera, nella comunicazione, è “il dare la cosa per scontata”. Facciamo un esempio. Una persona che dà per scontato che “non piaccio a nessuno”, si comporterà sempre in modo aggressivo, sospettoso, difensivo. Chi stabilisce una relazione con lui reagirà sicuramente con antipatia a questo suo comportamento, confermando quella che era la convinzione iniziale, o meglio la premessa. La cosa più curiosa di tutto questo è che il soggetto in questione è convinto di reagire a quel comportamento e non di provocarlo. Quindi:

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Profezia che si autoavvera = comportamento che provoca negli altri una

reazione tale da far sembrare che quel comportamento stesso (cioè quello

iniziale del provocatore) ne sia la risposta.

Non posso parlare al mio interlocutore senza una teoria della personalità più o meno implicita che mi fa dire tra me e me: "Ah, bene. Tu sei di quelli che

così e così ... Bene ... Se occorre, ti risponderò per le rime". Ripeto. Ognuno di noi si costruisce le sue sicurezze sulla base di percezioni. Ognuno di noi ha dentro di sé, scritte da qualche parte, regole implicite che derivano dall'esperienza e che lo aiutano a rispondere, a decidere, a contrattaccare, a difendersi: in definitiva a non soccombere di fronte alla realtà. Regole di questo tipo sono quelle di chi dice: "Di solito, chi ha una faccia così prima o poi ti

frega!". Oppure: "Non mi sono mai fidato di persone dai modi così gentili:

nascondono qualcosa!": O ancora: "Mi basta un'occhiata per vedere se una

persona vale oppure no". E' vero che spesso l'uomo deve prendere decisioni sulla base di dati insufficienti. E' vero che certe volte è meglio una strategia mediocre che nessuna strategia. Ma è anche vero che spesso rimaniamo come imprigionati noi stessi nelle nostre mediocri strategie. Ci affezioniamo ad esse e non riusciamo più a liberarcene neanche quando si rivelano palesemente inadeguate. La realtà è spesso molto complessa. I meccanismi che ci siamo costruiti per comprenderla e per dominarla non devono prevalere sulla globalità delle nostre valutazioni.

Questi meccanismi, non privi di una loro funzionalità, devono essere da noi

conosciuti e smascherati. Non possiamo permettere che il loro automatismo semplicistico si sostituisca alla complessità delle nostre equilibrate valutazioni. Ne va del rapporto che instauriamo con le persone.

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INTERFERENZE NELLA COMUNICAZIONEINTERFERENZE NELLA COMUNICAZIONE“I FILTRI”

Nel processo di comunicazione interferiscono alcuni fattori che determinano una

DISTORSIONE DEL MESSAGGIO

intesa come distanza tra ciò che era mia intenzione dire e ciò che è stato percepito dal mio interlocutore

E

FILTRI

Rββββ

ββββ = ANGOLO DI DISTORSIONE

Nel processo di comunicazione interferiscono alcuni fattori che

determinano una distorsione del messaggio intesa come distanza tra ciò che era mia intenzione dire e ciò che è stato percepito dal mio interlocutore. Questi fattori sono indicati come “filtri”. Praticamente rappresentano il pericolo di un ostacolo che si frappone tra chi trasmette e chi riceve il messaggio. I filtri hanno natura diversa. Vediamone alcuni tra i più importanti:

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I FILTRII FILTRI1 TECNICO:

rumoriinterruzionicondizioni tecniche di colloquio:

ambiente, luce, temperatura, posizione

2 SOCIALE:barriere sociali e di status

(appartenenza a gruppi sociali o a classi sociali in conflitto o portatori di valori tra loro incompatibili)

3 PSICOLOGICO:situazioni di conflitto (intense emozioni)pregiudiziLogica Win/Lose (atteggiamenti di prevaricazione)Logica Lose/Win (atteggiamenti di difesa)incoerenza tra messaggi verbali e non verbaliSimpatia / Antipatia

1- tecnici: i rumori, le interruzioni, le condizioni tecniche di colloquio cioè

l’ambiente, la luce, la temperatura, la posizione. 2- sociali: barriere sociali e di status. L’appartenenza, cioè, a gruppi sociali

o a classi sociali diversi, magari in conflitto, o che siano portatori di valori incompatibili.

3- psicologici: situazioni di conflitto (le emozioni prendono il sopravvento), pregiudizi, logica win/lose (atteggiamenti di prevaricazione), logica lose/win (atteggiamenti di difesa), incoerenza tra il messaggio verbale e quello non verbale, simpatia e antipatia.

Queste interferenze, quindi, possono essere presenti sia nella fonte di

trasmissione, sia nel messaggio, sia nello strumento di ricezione o meglio ancora nello stesso destinatario.

L'emozione è, come noto, una naturale condizione in cui l'organismo si trova nel momento in cui avverte un pericolo, una minaccia, oppure una situazione gioiosa come l'amore, ma nella quale l'organismo è chiamato a reagire, intervenire, valutare, agire con tutte le risorse di cui dispone, o con una parte di esse. Possiamo dire che la condizione di chi è emozionato corrisponde a quella di un motore a pieno regime e intorno al massimo dei giri. Non si risolvono compiti importanti senza un adeguato stato di "eccitazione emozionale". La condizione di rilassamento è piacevole ma poco funzionale ad affrontare importanti compiti o situazioni delicate. L'emozione è quindi una condizione naturale in cui, entro certi limiti, l'organismo rende di più, la percezione è più acuta, la disposizione a reagire sia in termini fisici che mentali

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è più pronta. Niente di male dunque, anche se questa modalità viene spesso vissuta con disagio.

Ma dal punto di vista della comunicazione, la condizione in cui si trova l'interlocutore ha grande importanza. Non è opportuno entrare immediatamente in temi cruciali finché l'interlocutore non ha raggiunto una condizione di un certo agio, finché non ha superato le punte più acute dell'emozione o del disagio. Il capo che deve fare un rimprovero al suo collaboratore potrà iniziare il dialogo facendo alcune domande di carattere generale, prima di passare al tema fondamentale. Se attaccasse subito con il rimprovero rischierebbe prima di tutto di non essere ben capito. Poi di avere una reazione emotiva, che in seguito il suo collaboratore si sentirebbe in dovere di difendere, con conseguente irrigidimento ... e così via.

In condizioni di eccitazione la percezione è alterata. Pur variando molto gli effetti da persona a persona e da situazione a situazione, possiamo dire che condizioni di acuta emozione sono un serio ostacolo alla serena comprensione dei termini dei problemi complessi. E' troppo complicato tenere conto di tutti questi aspetti? Non ve la sentite di giudicare il vostro collaboratore troppo emozionato per intervenire ora, o troppo arrabbiato? Io credo che la società in cui viviamo ci ha specializzati un po' nel concentrarci su noi stessi. Io sto molto attento a quello che dico, a come lo dico, misuro le parole, in modo che non ci siano malintesi.

E il mio interlocutore? Che ne è di lui? E' rilassato e si muove con naturalezza; oppure appare impacciato e legnoso. Se è così, ho ben poche possibilità di farmi realmente capire da lui.

Posso fare la mia bella predica, dirgli chiaramente i miei punti di vista e considerare chiuso l'argomento. Ma che percentuale di quanto ho detto è stata correttamente recepita? Ho assistito a colloqui di parecchie decine di minuti in cui la comunicazione, come processo, neanche incominciava. Se il nostro interlocutore non è minimamente a proprio agio sarebbe meglio neanche entrare nei temi cruciali. Egli non ci ascolta. Non ci sente. Sarebbe una sceneggiata in cui faccio finta di spiegare, e lui fa finta di capire. Quante volte ci è capitato, dopo un colloquio aziendale, di tornare nel nostro ufficio con la deprimente sensazione di non aver realmente comunicato!

Parlare può essere facile, almeno per certe persone. Comunicare è più complesso.

Comunicare vuol dire parlare avendo continuamente la risposta e la conferma che quel che diciamo è capito ed è ben compreso, prima che accettato.

Ecco allora che ogni segnale di disagio del nostro interlocutore va colto come un problema di contenuti. Se il nostro interlocutore aggrotta la fronte ... meglio lasciar passare qualche secondo e attendere una richiesta di chiarimento.

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COMUNICAZIONE MONOCOMUNICAZIONE MONO--DIREZIONALEDIREZIONALE

COMUNICAZIONE BICOMUNICAZIONE BI--DIREZIONALEDIREZIONALE

EMITTENTE RICEVENTE

messaggio

EMITTENTE RICEVENTE

messaggio

FeedFeed--backback

Qual è la differenza tra i due tipi di comunicazione? Nella comunicazione

mono-direzionale, c’è un emittente che dà un messaggio ad un ricevente. L’attenzione si focalizza sul messaggio e sul come si dà tale messaggio. Nella comunicazione bi-direzionale c’è un elemento in più: il feedback. Cioè il messaggio parte dall’emittente, raggiunge il ricevente il quale, a sua volta, risponde mediante una sua reazione. Ecco che il punto focale non è più il come si dà il messaggio, ma il come si riceve. Il feedback (eco o retroazione) è una valutazione della ricezione, cioè aiuta il trasmittente a controllare se il suo messaggio è stato recepito dal suo interlocutore e in che modo è stato percepito.

Vediamone le caratteristiche più nello specifico.

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COMUNICAZIONECOMUNICAZIONEMONOMONO--DIREZIONALEDIREZIONALE

PIU’ VELOCE

PIU’ EFFICIENTE(se chiara)

TENDE AD ESSERE RELATIVAMENTE EFFICACE

DERESPONSABILIZZANTE

La comunicazione mono-direzionale è più veloce: prevede un solo

passaggio dall’emittente al ricevente. Se è chiara è più efficiente, ma se non lo è, non è neanche efficace. (A proposito della differenza tra le spesso confuse efficacia ed efficienza: L’EFFICACIA è un fattore qualitativo; consiste nella proprietà di ottenere l’effetto voluto. L’EFFICIENZA è un fattore quantitativo; consiste nella proprietà di ottenere la pienezza delle prestazioni).

Ritornando alla comunicazione mono-direzionale, se è chiara può

raggiungere i migliori risultati, ma se non lo è, può non produrre alcun effetto. E’ deresponsabilizzante sia per l’emittente sia per il ricevente, poiché sono sollevati da ogni responsabilità nel caso in cui il primo non abbia comunicato in modo efficace, e il secondo non abbia percepito in modo efficace. Si rischia che tra i due nascano delle forti incomprensioni e delle antipatiche reazioni.

Questo tipo di comunicazione può anche essere chiamata discendente o ascendente se fra le due diverse entità, la persona che parla e il gruppo che ascolta, vi è un rapporto non paritario: se chi parla viene investito di un'autorità (più teorica che effettiva, data dal fatto di stare magari seduto dietro un tavolo di presidenza o una cattedra) si parlerà di comunicazione discendente; viceversa, se chi parla si rivolge all'autorità, si tratterà di comunicazione ascendente.

La comunicazione monodirezionale è una comunicazione diretta, che non ammette repliche, che non si preoccupa particolarmente del risultato ottenuto in quanto non verificabile. La speranza per chi subisce questo tipo di comunicazione è che il messaggio sia esposto in maniera chiara e comprensibile.

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Un vantaggio di questa tipologia di comunicazione è sicuramente il tempo impiegato: essendo molto più breve rispetto a quello di una comunicazione a due vie, in certe situazioni è preferibile.

Nelle comunicazioni a una via sono anche annoverati tutti i messaggi

scritti: lettere, cartelli indicatori, divieti vari, messaggi appesi in bacheca, post-it, brevi note operative tra colleghi, ecc.

La comunicazione a una via semplifica le cose dal punto di vista

organizzativo e consente di inviare un messaggio univoco, ossia uguale per tutti. E' inoltre più impersonale e meno coinvolgente. Anche nel caso della comunicazione tra due persone possiamo usare la comunicazione a una via. Basta usare un tono e degli atteggiamenti che scoraggino nell'interlocutore la emissione del feedback.

Capita spesso nelle aziende di osservare comunicazioni a una via. Sono

comunicazione a una via il memorandum affisso in bacheca, il colloquio autoritario, la lettera personale. Dal punto di vista psicologico si tende ad usare il colloquio a una via quando inconsapevolmente si teme, o non si vuole accettare, o non si da grande peso al feedback. Naturalmente si corre il rischio di essere fraintesi. In altri casi vengono suscitati nei collaboratori sentimenti di disagio e di opposizione. Per il collaboratore è frustrante sia non comprendere in modo soddisfacente, sia essere messo nella condizione di non poter dire la propria opinione. La comunicazione a una via si rivela drammaticamente insufficiente soprattutto quando si delinea un conflitto. Ci sono cose che è facile chiarire immediatamente, nel corso di un franco colloquio a due vie; e cose che sono invece quasi impossibili da risolvere a mezzo lettera.

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COMUNICAZIONECOMUNICAZIONEBIBI--DIREZIONALEDIREZIONALE

PIU’ LENTA

EFFICIENTE (anche se relativamente chiara)

TENDE AD ESSERE PIU’ EFFICACE

RESPONSABILIZZANTE E FORMATIVA

La comunicazione bi-direzionale è più lenta (ricordiamoci che prevede un

passaggio ulteriore: il feedback). Anche se è relativamente chiara è efficiente e, comunque, più efficace di quella mono-direzionale.

E’ responsabilizzante per gli interlocutori, poiché sono in grado di capire se la comunicazione ha raggiunto lo scopo che si prefiggeva ed è, in quanto tale, formativa.

Generalmente il risultato della comunicazione, in termini di efficacia, è migliore in questo tipo di rapporto: si dialoga, si discute, ci si confronta. Soprattutto si partecipa e si è considerati come persona.

Esaminiamo per esempio questo caso: da una parte c’è un signore che parla ed esprime le sue opinioni o valutazioni a proposito di un certo argomento. Dall'altra chi lo ascolta annuisce quando è d'accordo, o è in grado di capire. Ma interrompe e chiede delucidazione quando non capisce bene o non è d'accordo. La comunicazione a due vie non è altro che il dialogo, una forma di comunicazione dove c'è continua interazione tra chi parla e chi ascolta, un continuo aggiustamento della reciproca comunicazione, un continuo controllo.

La comunicazione a due vie è un processo dove spesso va persa la rigida linearità della comunicazione a una via. Parlando a due vie si può essere messi in discussione più facilmente. Il clima consente e favorisce l'espressione delle idee e le richieste di chiarimento. Il risultato che ne consegue è un livello di comprensione reciproca indubbiamente più completo.

Certe volte la comunicazione a due vie è dispendiosa in termini di tempo. Tuttavia gli argomenti veramente cruciali, quelli sui quali non possiamo permetterci il lusso di fraintenderci vanno trattati, credo, a due vie.

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I VEICOLI DELLA COMUNICAZIONEI VEICOLI DELLA COMUNICAZIONE

C. VERBALE:la parola (orale o scritta)

C. PARA-VERBALE:l’uso della parolaVOLUME, TONO, RITMO, PAUSE, INFLESSIONI

C. NON VERBALE:LA GESTUALITA’: mimica facciale, braccia, gambe, corpo

GLI OGGETTI: vestito, ornamenti, strumenti utilizzati

- Comunicazione Verbale: la parola, scritta e orale. - Comunicazione Para Verbale: l’uso della parola; volume, tono, ritmo,

pause, inflessioni. - Comunicazione Non Verbale: la gestualità; mimica facciale, braccia,

gambe, corpo, gli oggetti (vestito, ornamenti, strumenti utilizzati). Secondo voi, quando comunichiamo, questi veicoli li usiamo tutti insieme

o separatamente? La risposta è: dipende dalle situazioni. Facciamo un esempio di CV scritta: il cartello VIETATO FUMARE. In

questo caso la CV esiste anche senza gli altri due tipi, e funziona. Facciamo un esempio di CPV: parlare con voce triste, o paurosa, affannosa,

isterica, ironica etc. Facciamo un esempio di CNV: si può stare anche zitti, non proferire parola,

ma comunicare lo stesso tramite l’atteggiamento del corpo, la mimica facciale, la sua gestualità o i suoi ornamenti.

Se torniamo alla domanda iniziale, ”insieme o separatamente?”, possiamo rispondere che, pur esistendo singolarmente, l’ideale è utilizzare tutti e tre i veicoli insieme. Per ottenere il 100% della potenzialità di una comunicazione gli sperimentatori attestano dopo numerosi studi, questi risultati:

7% CV

38% CPV

55% CNV

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La cosa più naturale e spontanea che pensiamo è che sia il contenuto, cioè ciò che diciamo, ad avere più rilevanza. Non è così! Ciò che ha più efficacia è la CNV con il 55%.

La percezione del ricevente varia secondo la CPV, nonostante la CV dell’emittente sia sempre la stessa.

Quando c’è coerenza tra i tre veicoli, la CPV e la CNV rinforzano quanto è stato detto.

Ma quando c’è contrasto, sono i segnali para-verbali e non-verbali ad essere percepiti e a rimanere impressi.

La non verbale è la più antica forma del comunicare ed è rimasta l'unica o la prevalente del regno animale. Il nostro corpo emette continuamente messaggi per mezzo delle posture; un certo modo di piegar la testa vuol dire sottomissione in tutti i Paesi. Un certo modo di fissare l'interlocutore, a busto eretto e torace gonfio, vuol dire sfida o confronto in tutte le culture e anche nel regno animale. Ma questi sono solo alcuni aspetti evidenti della comunicazione non verbale.

In realtà il linguaggio del nostro corpo è complesso e raffinato. Il corpo gioca un ruolo primario soprattutto nel comunicare sentimenti o comunque segnali legati alle emozioni.

Per esprimere "emozione", possiamo dire che siamo emozionati. Ed è un modo. Ma possiamo ansimare, sudare e ravviarci nervosamente i capelli. La prima modalità di esprimere l'emozione è verbale. La seconda è non verbale. Naturalmente non potremo mai esprimere concetti astratti come "personalità" o "filosofia" usando solo il corpo. La comunicazione non verbale ci aiuta a capire gli stati d'animo, le condizioni emotive, gli atteggiamenti.

Un'altra importantissima funzione della comunicazione non verbale è

quella di validare o invalidare i messaggi che derivano dalla comunicazione verbale. Quando una persona ci dice di essere incerta, onesta o aggressiva, noi ne prendiamo atto. Che poi gli crediamo o no, e in che misura, dipende da una intricata serie di interazioni tra quello che ci dice, i segnali che vengono dal suo corpo, i suoi atteggiamenti e le nostre precedenti esperienze a riguardo. La comunicazione non verbale è quindi un po' rozza, nel senso che non si intende di filosofia, ma è spontanea, immediata e incapace di mentire. Certe volte infatti possiamo mentire, ma non evitare di arrossire se veniamo smascherati.

La comunicazione verbale è invece l'ultima invenzione dell'uomo come

animale che comunica. Con la parola possiamo esprimere concetti che non potremmo esprimere in nessun altro modo. Possiamo parlare di lealtà e farci capire. Possiamo parlare di produttività e farci capire senza ricorrere, per il momento, a formule matematiche. Possiamo elaborare concetti di notevole

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complessità e trasmetterli con precisione. Possiamo anche mentire, naturalmente, o essere confusi e fumosi. La parola ce lo consente. La parola è uno strumento, e può essere usata in mille modi.

Abbiamo descritto entrambi i modi del comunicare perché chi lavora in

azienda li usi entrambi per "capire". Nella complessa società in cui viviamo abbiamo sempre più bisogno di comunicare e di farlo correttamente. Non possiamo permetterci il lusso di fallire nella reciproca interazione. Abbiamo l'obbligo morale di comprendere il più possibile il nostro interlocutore. Il conflitto è parte di noi, e non possiamo certo eliminarlo dalla nostra vita. Ma possiamo, attraverso un efficace processo del comunicare, riportarlo ai suoi limiti razionali ed oggettivi.

Eliminare l'incomprensione dai nostri rapporti di lavoro è possibile,

entusiasmante a livello individuale e redditizio sul piano economico.

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ASCOLTOASCOLTO� TACETE!

� SE NON CE LA FATE A TACERE, LIMITATE LA VOSTRA CONVERSAZIONE

� FATE PREVALENTEMENTE DOMANDE APERTE

� NON INTERROMPETE MAI L'INTERLOCUTORE

� CONCENTRATEVI SU CIO' CHE DICE

� ASCOLTATE LE IDEE, NON SOLO LE PAROLE

� DATE DEI "FEED-BACK" FREQUENTI

� PRENDETE APPUNTI

� "AMATE" L’INTERLOCUTORE, DATEGLI FIDUCIA: SARA' VOSTRO IN BREVE TEMPO...

Quante volte ci è capitato di dire: “io gliel’ho detto…..è lui che non ha

capito perché è….” e facciamo seguire gli aggettivi più coloriti! E quante volte, invece, ci siamo chiesti: “gliel’ho detto, ma come gliel’ho detto? Era comprensibile il mio messaggio? Mi sono espresso in modo chiaro e cordiale?”. C’è un motto che dice: se l’allievo non ha imparato, il maestro non ha insegnato.

Per sapere fino a che punto ci siamo fatti capire dobbiamo ascoltare gli altri. A volte preferiamo non ascoltare o capire i messaggi di incomprensione che gli altri ci inviano, per il semplice fatto che domandare loro se vi sia qualcosa di non chiaro, significa insicurezza e debolezza di noi stessi.

Non è per nulla così. Saper ascoltare significa raccogliere informazioni indispensabili a rendere efficace la nostra comunicazione. Significa dare spazio al nostro interlocutore, conoscere i suoi scopi e le sue idee, sapere quali aspetti delle nostre tesi sono condivisi e quali non apprezzati, capire se sta chiedendo aiuto, o se ha inteso la nostra richiesta di aiuto.

Ogni volta che si crea un’incomprensione, bisognerebbe fermarsi e ascoltare per capire se essa deriva dalla forma o dalla sostanza di ciò che abbiamo trasmesso. Com’è stato percepito? Le reazioni sono quelle desiderate?

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LE BASI E LE TEORIE

DELLA

COMUNICAZIONE NON

VERBALE

Eros Tugnoli

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LE BASI E LE TEORIE DELLA

COMUNICAZIONE NON VERBALE Il nostro corpo parla, ma non solo con la voce. Ogni giorno emettiamo e riceviamo una miriade di messaggi attraverso canali di comunicazione che costituiscono parte integrante del nostro essere: i sensi. E' talmente primordiale e spontaneo questo modo di comunicare, che raramente ne siamo consapevoli. Ciò non significa, ovviamente, che non ne siamo influenzati. Nella vita sociale e nelle nostre relazioni interpersonali è impossibile sottrarsi ai messaggi della comunicazione non verbale, ossia corporea. Persino l'individuo che volge le spalle al gruppo non sfugge a questa dinamica, perché anch'egli sta comunicando qualcosa: la sua indisponibilità a comunicare. La comunicazione non è solamente scambio di informazioni, ma anche processo di influenzamento reciproco. In questo processo i messaggi non verbali giocano un ruolo determinante, perciò la conoscenza delle loro modalità ci permette di non subirli solo passivamente, ma anche di usarli più efficacemente con gli altri. La potenza dei messaggi non verbali consiste soprattutto nel fatto che vengono assorbiti dall'individuo per lo più in modo non consapevole, sfuggendo così al controllo razionale e alla capacità critica della mente. D'altronde l'emissione stessa dei segnali che danno origine a questi messaggi, è spesso inconsapevole, così come è molto difficile il loro controllo. E' da tener presente inoltre che la comunicazione non verbale accompagna costantemente quella verbale, dando origine a rinforzi, sovrapposizioni e, a volte, messaggi apparentemente incongruenti. Gran parte del feed-back tra gli interlocutori avviene tramite i segnali non verbali, così come la metacomunicazione, cioè che si vuol trasmettere al di là delle parole esplicitamente dette.

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APPROCCIO ALLO STUDIO DELLA COMUNICAZIONE

NON VERBALE

A partire dagli anni '60 la comunicazione non verbale è stata oggetto di numerose ricerche da parte di psicologi sociali, psichiatri, antropologi, ipnotisti ed altri specialisti. Alcune di queste ricerche hanno avuto origine da studi sulla comunicazione tra animali (per esempio Morris), altre da studi sulla patologia nella comunicazione umana (a partire da Freud, per proseguire con W. Reich e Lowen), altre ancora da studi su specifiche situazioni sociali (Goffman). I risultati di queste ricerche hanno mostrato l'importanza e la complessità della CNV. Si è riconosciuto unanimemente che chiarificare il sistema di comunicazione non verbale è un obiettivo fondamentale, se si vuole comprendere appieno il comportamento sociale dell'uomo. Michael Argyle, uno dei maggiori specialisti del settore della comunicazione non verbale, ha fatto notare che i risultati di queste ricerche hanno implicazioni di base per altre aree di studio interessate al comportamento dell'uomo, quali la linguistica, la filosofia, la politica e la teologia, per non parlare dell'arte nel suo complesso. Argyle afferma esplicitamente che "... nel passato è stata attribuita troppa

importanza al linguaggio... che il linguaggio è notevolmente dipendente e

strettamente intrecciato alla comunicazione non verbale e che vi sono molte

cose che non si possono esprimere adeguatamente con le parole..." (Argyle, "Il

corpo e il suo linguaggio”, Zanichelli, Bologna, 1978). Per verificare la concretezza di queste affermazioni è sufficiente considerare, per esempio, l'importanza che rivestono la gestualità e la dizione nella recitazione di un copione teatrale. E' l'espressione dell'attore, il tono e le sfumature della sua voce, la sua abilità mimica, che danno colore e corpo al testo drammatico, rendendo chiaro il significato di una frase altrimenti ambigua, o al contrario rendendo ambigua una frase apparentemente chiara. Ed è ovvio che la condizione dell'attore è paradigma di situazioni che ricorrono spesso nella vita quotidiana. Non è un caso che Ervin Goffman, uno dei più importanti sociologi viventi, abbia usato la metafora della rappresentazione teatrale per analizzare i modelli di presentazione del sé nell'interazione sociale. L'uomo è un animale sociale, ed in quanto animale si manifesta primariamente attraverso il proprio corpo. Ed è il corpo del neonato che comunica fin dalla nascita, apprendendo poi lentamente l'uso del linguaggio verbale. Il processo di apprendimento del linguaggio verbale va di pari passo con lo sviluppo della mente discorsiva, ossia di quella voce interiore che elabora i pensieri e parla con sé stessa. Il comportamento non verbale è quindi primordiale e sempre presente, costituendo la struttura di base dell'interazione sociale. Il campo della CNV è molto ampio e viene definito in questo modo da uno dei più originali e profondi studiosi dei nostri giorni, Paul Watzlavick:

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"... il termine deve includere le posizioni del corpo, i gesti, l'espressione del

viso, le inflessioni della voce, la sequenza, il ritmo e la cadenza delle stesse

parole, e ogni altra espressione non verbale di cui l'organismo sia capace, come

pure i segnali di comunicazione immancabilmente presenti in ogni contesto in

cui ha luogo un'interazione..." (Watzlavick ed altri, “Pragmatica della comunicazione umana”, Ubaldini, Roma, 1971) Altri ricercatori invece tendono a limitare la definizione di comunicazione agli elementi intenzionali del comportamento non verbale, non accettando il termine comunicazione per i segnali emessi in modo inconsapevole. Questa posizione è ormai desueta ed anacronistica, specie dopo gli studi e le esperienze "costruite" in laboratorio da Argyle, Bateson, Knapp ed altri. Si può osservare che i problemi e i disturbi della comunicazione interpersonale sono in stretta relazione con i sistemi di formazione e i processi di sviluppo del comportamento non verbale, ciò che abitualmente viene definita come “l'educazione”, ossia nient'altro che la storia dell'interazione dell'individuo con l'ambiente a partire dalla sua nascita. Ci riferiamo particolarmente alle norme sociali e alle convenzioni culturali che regolano e inibiscono il comportamento dell'individuo fin dalla sua nascita. A questo proposito Goffman sottolinea che: "... in realtà la repressione delle

emozioni non appropriate è così generale che dobbiamo guardare alle

violazioni di questa regola per renderci conto del suo normale funzionamento..." (Goffman, “Espressione e identità”, Mondadori, Milano, 1979) Fondamentale a questo proposito è stato il contributo di Freud per l'analisi degli atti mancati, casuali e sintomatici, soprattutto nella sua "Psicopatologia della

vita quotidiana". Di fatto, avviene che tentiamo di controllare la nostra capacità espressiva in

modo da non lasciar trapelare attraverso il comportamento informazioni e segnali "compromettenti", che potrebbero mettere a disagio noi o gli altri, turbando i precari equilibri stabiliti da un'ipotetica "norma sociale". Per poter attuare questo processo continuo di controllo del nostro corpo e delle nostre emozioni l'individuo si affida a quel meccanismo di difesa chiamato razionalizzazione. Giancarlo Trentini definisce così questo meccanismo: "... l'individuo che razionalizza è colui che trova delle giustificazioni di fronte a

sé e agli altri, operando una distorsione delle percezioni, delle idee, delle

motivazioni..." (Trentini, “Manuale del colloquio e dell'intervista”, Isedi, Milano, 1980). Per concludere riteniamo opportuno soffermarci su alcune distinzioni proposte da Argyle che ci permettono di chiarire alcuni termini fondamentali della problematica posta dalla CNV. Egli distingue tra comunicazione propriamente detta, in cui i segnali sono intenzionali e diretti ad un fine, e i segni, che sono semplicemente risposte

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comportamentali o fisiologiche (come il rossore ad esempio) da cui un osservatore può trarre informazioni. Argyle dice che nella comunicazione c'è la consapevolezza degli altri come esseri che comprendono il codice che si sta usando. Lo stesso Argyle ammette però che, sfortunatamente per questa bella teoria, è molto difficile decidere se un particolare segnale non verbale si propone di comunicare oppure no. Ci sono, infatti, comunicazioni pienamente motivate pur non essendoci una precisa consapevolezza dell'intenzione. Quindi lo stesso segnale si può usare sia come "comunicazione" che come "segno", ad esempio il tipico accento di una classe agiata. In conclusione Argyle ha una posizione non rigida, vedendo la distinzione tra segnali consapevoli ed inconsapevoli come una questione di grado, essendovi, di fatto, gradi intermedi di consapevolezza nel comportamento.

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L'INEVITABILITA' DELLA COMUNICAZIONE Al contrario di quanti fondano il concetto di comunicazione sulla distinzione tra comportamento intenzionale e comportamento involontario o inconsapevole, i pragmatici della comunicazione, (Bateson, Haley, Watzlavick, Beavin; Jackson e altri) sostengono che tutto il comportamento in una situazione di interazioni ha un valore comunicativo. Watzlavick, Beavin e Jackson hanno postulato alcuni assiomi della pragmatica della comunicazione in un'opera che si può senza dubbio definire storica per l'importanza che riveste nell'ambito dello studio della comunicazione e delle interazioni interpersonali, e il cui titolo è "Pragmatica della comunicazione

umana".

L'assioma principale su cui si fonda il loro studio è un assioma metacomunicazionale:

"... non si può non comunicare..."

Vediamo in che modo i pragmatici della comunicazione arrivano a postulare questo assioma fondamentale. Anzitutto questi studiosi affermano che: "... c'è una proprietà del comportamento che difficilmente potrebbe essere più

fondamentale e proprio perché è troppo ovvia viene spesso trascurata: il

comportamento non ha un suo opposto. In altre parole non esiste un qualcosa

che sia un non comportamento o, per dirla anche più semplicemente, non è

possibile non avere un comportamento...". E il comportamento è comunicazione, e la comunicazione a sua volta influenza ed è influenzata dal comportamento. In qualsiasi situazione di interazione, qualsiasi azione o non azione ha valore di messaggio. Per esempio è chiaro il valore di comunicazione che può avere entrare in ufficio senza salutare i colleghi di lavoro, o entrare in una chiesa senza togliersi il cappello. Così pure guardare o non guardare in faccia il passeggero che sta di fronte in treno, o cercare un tavolo completamente libero o parzialmente occupato in una mensa, sono tutti comportamenti che comunicano già l'intenzione di avviare o no uno scambio verbale con i presenti. E' un esperienza comune che le persone usualmente afferrano questo tipo di messaggi comportamentali altrettanto bene, per non dire meglio, di quelli verbali. Secondo il punto di vista pragmatico, quindi, si considera comunicazione anche il comportamento non intenzionale, inconscio o che non corrisponde a un codice condiviso. Vediamone ora alcune classificazioni. CLASSIFICAZIONE RIFERITA AI PROCESSI

PSICOTERAPEUTICI

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Ekman e Friesen hanno studiato il comportamento non verbale soprattutto in riferimento ai processi psicoterapeutici ed hanno elaborato alcune ipotesi di classificazione funzionale della CNV. Secondo questi studiosi il comportamento non verbale può essere considerato innanzitutto come un linguaggio di relazione e mezzo primario per la segnalazione di mutamenti di qualità nelle relazioni interpersonali. Una seconda funzione del comportamento non verbale è l'espressione e la comunicazione di emozioni, sia per la struttura fisiologica, sia per la priorità originaria che la CNV detiene rispetto al linguaggio negli anni formativi dello sviluppo della personalità. Una terza funzione della CNV è quella simbolica, cioè esprimere attraverso il linguaggio del corpo certi atteggiamenti che comunicano informazioni sull'immagine del sé. Si ritiene, infatti, che certi tipi di posture e di movimenti dell'individuo evidenzino gli atteggiamenti e le sensazioni basilari verso il proprio corpo e la realtà circostante. L'osservazione di questi atteggiamenti ricorrenti nel comportamento costituisce un mezzo per comprendere la struttura del carattere. Una quarta funzione particolarmente importante attribuita alla CNV è quella metacomunicativa. Il comportamento non verbale offre indubbiamente ulteriori elementi per definire una relazione e interpretare il significato delle comunicazioni verbali. Infatti, la CNV è meno soggetta del linguaggio alla censura inconscia, ed è più difficile la sua falsificazione consapevole. Una quinta funzione della CNV viene posta in relazione al discorso e suddivisa in cinque specifiche manifestazioni che riguardano il rapporto interlocutorio. - La prima è la ripetizione, quando la CNV esprime lo stesso significato delle parole ed è quindi congruente al linguaggio verbale. - La seconda, opposta alla precedente, è la contraddizione del messaggio verbale attraverso un comportamento incongruente. La contraddizione può essere intenzionale (p.es. un complimento pronunciato con un tono di voce sarcastico), o può essere inconsapevole (p.es. quando una persona dichiara di non essere arrabbiata battendo i pugni sul tavolo). - La terza manifestazione della CNV nei confronti del linguaggio è la complementarietà, ad esempio quando un sorriso accompagna una lode. - La quarta consiste nell'accentuazione del messaggio espresso verbalmente, come quando una minaccia viene rafforzata da gesti e toni di voce che vogliono incutere paura.

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- La quinta è stata riconosciuta nella regolamentazione e sincronizzazione del flusso comunicativo. In particolare vengono regolati i turni di eloquio attraverso la mimica facciale, i cenni del capo, lo sguardo, il paralinguaggio, CLASSIFICAZIONI IN TERMINI DI ZONA O ATTIVITA'

DEL CORPO

Altri autori hanno classificato il comportamento non verbale in termini di zona (la faccia, gli occhi, le mani, ecc.) o di attività del corpo (i gesti, il tono della voce, l'avvicinamento o l'allontanamento, ecc.). Tra questi, Knapp ha identificato le seguenti categorie: movimenti del corpo o comportamenti cinesici, espressioni facciali, caratteristiche fisiche, comportamenti oculari, comportamenti di contatto diretto, paralinguaggio, prossemica, artefatti e fattori ambientali. Duncan ha invece distinto gli elementi, non verbali in movimenti del corpo o comportamenti cinesici, paralinguaggio, prossemica, olfatto, sensibilità cutanea alla temperatura e al contatto, uso di artefatti. Altri come Scheflen propongono la distinzione tra modalità non linguistiche (che comprendono i comportamenti cinesici e posturali, le categorie tattile, olfattiva, territoriale, prossemica) e modalità vocali non lessicali cioè gli elementi paralinguistici. Argyle, oltre a distinguere gli elementi della comunicazione non verbale in termini di zona e attività del corpo, ha attribuito a loro tre funzioni principali: la gestione e il controllo dell'interazione sociale immediata tramite l'espressione degli atteggiamenti interpersonali, la funzione di sostegno e completamento del discorso, la funzione di sostituzione del linguaggio.

LA DECODIFICAZIONE DEI MESSAGGI NON VERBALI Il problema della decodificazione della CNV ci porta inevitabilmente ad esaminare e distinguere le varie origini del comportamento non verbale. Sulla matrice biologica ed emozionale del comportamento non verbale si sono sviluppati alcuni codici legati strettamente a caratteristiche di tipo etnico, razziale, sociale, fino al simbolismo artistico e mistico religioso. Ci troviamo di fronte a codici diversi che sono stati originati dall'osservazione e valutazione comune di varie modalità espressive e comportamentali legate al tessuto emotivo, e che sono una sorta di patrimonio collettivo della razza umana nel discernere i significati dei comportamenti interpersonali quali ad esempio l'odio e l'amore. Tuttavia la decodificazione dei segnali non verbali di natura

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emotiva rimane la più difficile, proprio per le caratteristiche peculiari di ogni individuo, e per il già menzionato problema della volontarietà o involontarietà di questo tipo di comunicazione. A ciò si aggiunga il ruolo della "corazza caratteriale" che costringe e censura il comportamento dell'individuo nell'ambiente sociale, o la notevole ambiguità che la CNV può assumere se abilmente manipolata. Di diversa origine sono altri codici di CNV legati a contesti sociali determinati, dove assumono il ruolo di un preciso linguaggio che non può dare adito ad equivoci. Ad esempio la gestualità legata ai rituali di vendita in una casa d'aste o alla Borsa. Questo tipo di segnali appartiene ad un codice stabilito per comunicare in un determinato luogo ed è di immediata comprensione. Altri segnali di CNV sono strettamente connessi alle usanze sociali di determinate popolazioni o classi. In questo caso si può parlare di veri e propri gesti "rituali", che scandiscono determinati momenti o rappresentazioni della vita quotidiana, ad esempio i gesti di saluto negli incontri. E' opportuno rilevare che tra popolazioni diverse anche quella che noi consideriamo "educazione elementare" varia a seconda dei costumi etnici. Il tanto deprecato "rutto" ad esempio è considerato un modo simpatico per comunicare all'ospite di aver gradito il pranzo, presso diverse popolazioni (Marocco ed altri Paesi Arabi). Presso alcune tribù africane è ancora in vigore la reciproca stretta scrotale come gesto di fraterna amicizia. Altri codici non verbali hanno origine dai gruppi, per esempio i saluti di riconoscimento tra i membri di movimenti politici. Altri ancora, come accennato, hanno precisi significati in determinati rituali di tipo religioso, come la Santa Messa. Per tentare una decodificazione dei segnali non verbali legati all'espressione di stati emotivi sono stati ideati diversi metodi. Il metodo delle variabili esterne, definito anche "encoding", è praticato soprattutto dagli psicologi sociali. Consiste principalmente nell'individuare le relazioni tra determinati aspetti e segnali del comportamento non verbale e altre variabili. Vengono posti dei soggetti in situazioni sperimentali che suscitano atteggiamenti interpersonali e stati emotivi. Dal comportamento di questi soggetti si cerca di determinare il significato e la funzione di un'attività non verbale specifica, o di un particolare segnale, mettendola in rapporto ad altre classi di eventi (come i tratti di personalità, altri segnali non verbali, il contenuto dell'eloquio, ecc...). Altri metodi encoding si basano sul "gioco del ruolo", dove viene chiesto al soggetto di assumere un certo ruolo o un atteggiamento nei confronti di un interlocutore reale o immaginario. Il metodo encoding è stato criticato da Von Cranach, secondo il quale l'uso di paradigmi standard di ricerca restringe l'arco dei possibili comportamenti dei soggetti, provocando reazioni artificiali in situazioni non naturali, il che porta a falsare i risultati stessi degli esperimenti. Tuttavia si deve alla sperimentazione

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di questo metodo la maggior parte delle "scoperte" specifiche che riguardano la CNV e il movimento. Un altro metodo sperimentale è il decoding o comunicativo, che ha lo scopo di individuare il significato che il comportamento non verbale trasmette a degli osservatori. In pratica consiste nel sottoporre al giudizio di alcuni osservatori determinati aspetti della CNV, facendo uso particolarmente di audiovisivi e fotografie. Agli osservatori viene chiesto di valutare il significato di un singolo segnale non verbale o di un atteggiamento interpersonale, o di trarre inferenze dal comportamento non verbale per giudicare le caratteristiche di personalità dei soggetti in interazione. Questo metodo viene definito comunicativo perché valuta i giudizi degli osservatori per determinare il significato che il comportamento comunica agli altri. L'uso del termine comunicativo non implica però che la persona agente ed emittente abbia effettivamente l'intenzione di comunicare qualcosa col comportamento esaminato. Al segnale non verbale ed al comportamento viene attribuito valore comunicativo in quanto coloro che osservano si trovano d'accordo sul significato espresso dall'altro. Questo accordo tra gli osservatori sul significato di un certo comportamento non garantisce comunque l'esattezza dell'interpretazione. Alcuni ricercatori hanno cercato di ovviare alle carenze dei metodi encoding e decoding mediante l'uso combinato di entrambi.

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IL METODO PRAGMATICO A differenza di questi approcci che hanno luogo per lo più in situazioni di laboratorio, l'approccio pragmatico tende a ricercare il significato comunicativo del comportamento non verbale sulla base degli effetti che esso produce. In questo caso l'obiettivo non è più codificare o decodificare dei significati costanti di determinati aspetti del comportamento, ma piuttosto si cerca di individuare gli effetti pragmatici ridondanti e ripetitivi. Si mira perciò ad individuare delle regole e dei modelli di comportamento, senza farne delle categorie stereotipate. Watzlavick, Beavin e Jackson hanno illustrato questo approccio servendosi del concetto di scatola nera: la mente umana viene considerata come una scatola nera di cui è impossibile esaminare la struttura interna. Ne consegue che si dovranno studiare esclusivamente i suoi rapporti specifici di ingresso-uscita. Si studierà quindi la funzione del dispositivo, cioè della scatola nera, nel sistema più grande di cui fa parte. Il vantaggio euristico che questo metodo presenta viene sottolineato dai pragmatici in questi termini: "... non abbiamo bisogno di ricorrere ad alcune

ipotesi intrapsichica (che è fondamentalmente inverificabile) e possiamo

limitarci ad osservare i rapporti di ingresso-uscita, cioè la comunicazione... lo

studio del comportamento umano, sulla base del concetto di scatola nera, ci

porta a considerare l'uscita di una scatola come l'ingresso di un'altra... " (Watzlavick ed altri, opera citata). Il metodo proposto è in questo caso l'osservazione diretta della comunicazione tra l'individuo e le persone che contano nella sua vita, osservando le interazioni delle coppie come uno spettatore che cerca di scoprire le regole del gioco degli scacchi assistendo ad alcune. Attraverso questo metodo quindi non si ricercano significati simbolici, né si cerca di risalire a cause legate al passato o a motivazioni inconsce, ma piuttosto ad osservare i modelli di interazione nel loro svolgimento presente, "qui ed ora". LA CLASSIFICAZIONE DEI SEGNALI NON VERBALI La classificazione dei segnali non verbali principali è molto semplice. Non si basa sull’analisi di determinate zone del corpo, ma piuttosto sull’osservazione degli aspetti principali del comportamento non verbale. Questa classificazione è estremamente utile per isolare e portare alla consapevolezza alcuni modi abituali di comunicare, mettendo in luce le modalità di influenzamento reciproco tra i soggetti di un’interazione.

1. SEGNALI ESPRESSI DAL VOLTO

Esibizione di atteggiamenti interpersonali ed emozioni

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Segnali convenzionali correlati al discorso Caratteristiche della personalità

2. SGUARDO

Atteggiamenti interpersonali Informazioni retroattive

3. GESTI E MOVIMENTI Convenzionali Emotivi Espressivi della personalità Rituali Collegati al discorso

4. POSTURA

Atteggiamenti interpersonali Emozioni e personalità

5. CONTATTO CORPOREO

Nelle relazioni interpersonali e in contesti sociali

6. IL COMPORTAMENTO SPAZIALE

7. L’ASPETTO ESTERIORE

8. I FENOMENI PARALINGUISTICI:

a) vocalizzazioni espressive di emozioni ed atteggiamenti interpersonali b) la voce come indicatore della personalità c) fenomeni connessi al discorso

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IL FATTORE INFLUENZAMENTO NEI PROCESSI DI CNV

Come abbiamo visto, la comunicazione implica un rapporto di interdipendenza tra i soggetti che interagiscono, per quanto possa essere breve e superficiale. Questa interdipendenza è causa ed effetto di processi di influenzamento reciproco. Sono stati individuati dalla ricerca psicologica attuale alcuni modelli teorici che permettono di descrivere, sia pure in modo riduttivo, i processi di influenzamento che avvengono durante l'interazione tra due persone. Tali modelli non vanno intesi ed applicati meccanicamente, ma piuttosto come schemi di comportamento ricorrenti che vanno compresi ed assumono significato nella totalità del contesto. Infatti, come afferma Asch: " ... noi ci influenziamo l'un l'altro non come fa il

parametro modificando chimicamente l'ambiente che lo circonda, né come

fanno le formiche a mezzo dell'odorato, ma a mezzo di emozioni e di pensieri

che ci pongono in correlazione con le emozioni e i pensieri degli altri..." (Asch S., “Psicologia sociale”, Sei, Torino, 1968). I modelli più rilevanti che sono stati individuati nei processi di influenzamento interpersonale sono: l'imitazione, il rinforzo e l'equilibrio.

Imitazione Secondo quanto affermano Canestrari e Ricci Bitti, le ricerche sull'imitazione nell'interazione tra due persone hanno dimostrato che alcune modalità e caratteristiche comportamentali dell'intervistato sono da attribuire al fatto che questi si adegua e fa propri alcuni comportamenti dell'intervistatore: "... in

particolare tale rilievo è stato verificato per alcuni elementi comportamentali:

la durata dell'espressione verbale; l'uso delle interruzioni e dei silenzi; il tipo di

espressioni verbali usate; le parole utilizzate; i gesti e le posture ecc..." (Canestrari, Ricci Bitti, “Il colloquio clinico, Il manuale del colloquio e

dell'intervista”, Isedi, Milano, 1980). E' stato rilevato anche che i comportamenti non verbali di assenso dell'intervistatore alle risposte dei soggetti sollecitano analoghi comportamenti da parte dell'intervistato. Argyle ha dimostrato che l'imitazione si verifica con più probabilità in particolari condizioni: quando il soggetto che imita è premiato per questo suo comportamento; quando il soggetto che viene imitato occupa una posizione di potere rispetto all'altro o appare gratificato dalla imitazione; quando il soggetto che imita è piuttosto incerto sul comportamento da adottare.

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Rinforzo L'effetto del rinforzo è stato evidenziato sul piano sperimentale in numerose ricerche con particolare riferimento a quelle sul comportamento nel corso dell'intervista. E' stato rilevato che se un certo atto o comportamento del soggetto intervistato è seguito da un rinforzo o un premio da parte dell'intervistatore, il primo produrrà quel particolare tipo di comportamento con più intensità e frequenza. Secondo Argyle l'effetto del rinforzo si è dimostrato più rilevante in rapporto al tipo di rinforzo usato. In particolare i segnali non verbali si sono rivelati più efficaci di quelli verbali: sorriso, cenni di assenso col capo, sguardo attento ed interessato, ecc... possono influenzare numerosi aspetti del comportamento dell'interlocutore quali l'ammontare dell'eloquio, il tipo di opinioni espresse, la verbalizzazione su specifici argomenti, le risposte di movimento, ecc... Altre variabili che aumentano l'effetto del rinforzo sono legate allo status dell'intervistatore, al sesso (si ottiene un effetto maggiore quando soggetto ed intervistatore sono di sesso opposto) e alla personalità del soggetto (l'effetto è maggiore in soggetti ansiosi e con alto bisogno di approvazione sociale). Da quanto detto il rinforzo appare come un processo di influenzamento usato da soggetti che adottano uno stile di comportamento dominante con soggetti che assumono un comportamento di tipo subordinato.

Equilibrio Numerosi autori hanno applicato ai processi di interazione la teoria dell'equilibrio, secondo la quale per ogni relazione interpersonale esiste un punto di equilibrio che risulta dall'integrazione armonica di tutte le componenti che intervengono nel processo. Quando una coppia di individui, o un piccolo gruppo sociale, hanno elaborato tecniche sociali sincronizzate in grado di soddisfare in una certa misura i bisogni di ciascuno, allora si svilupperà una resistenza a qualsiasi cambiamento di questo stato di cose. Ogni modificazione di questa situazione di equilibrio produrrà una condizione di instabilità accompagnata da uno stato di tensione, finché non verrà trovato un nuovo punto di equilibrio. Ad esempio se A si comporta in modo più aggressivo e meno amichevole del solito, ciò darà luogo a reazioni negative da parte di B, finché A comincerà a temere di venir respinto ed escluso da futuri incontri. Così A sarà portato a modificare il suo comportamento mostrandosi per un certo periodo di tempo insolitamente simpatico e cordiale. Ancora si può osservare che se A parla troppo e più del solito, ciò darà luogo ad interruzioni e reazioni negative da parte di B, in seguito alle quali egli osserverà per qualche tempo il silenzio, a meno che non

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intenda rompere la situazione di equilibrio per mutarla a proprio favore o per porre fine alla relazione con B. Si parla di equilibrio anche a proposito delle numerose variabili che agiscono nell'espressione degli atteggiamenti interpersonali. Ad esempio una maggiore vicinanza fisica ed argomenti molto personali vengono equilibrati da un minor uso di contatto visivo. In relazione al grado di intimità presente fra due persone, quando una delle diverse componenti dell'intimità risulta modificata o alterata, si avranno mutamenti complementari nelle altre componenti al fine di ristabilire l'equilibrio.

CONCLUSIONI Dall'analisi dei processi di influenzamento emerge il fatto che il comportamento di un soggetto varia in risposta alla situazione, ma la situazione stessa consiste nel comportamento del secondo soggetto interagente che, a sua volta, dipende dal comportamento del primo e così via. Cogliere questo aspetto circolare dei processi di influenzamento è quanto mai importante per comprenderne le dinamica. La scelta delle strategie di influenzamento dipenderà necessariamente dal contesto interattivo. Infatti se A controlla formalmente la situazione potrà usare espliciti segnali verbali per dire a B come vuole che si comporti. In altre situazioni i segnali verbali possono essere inaccettabili o controproducenti: non è facile dire ai propri amici o colleghi di parlare meno o di essere meno dominanti. E' in tali situazioni che Argyle sottolinea l'efficacia della comunicazione non verbale: "... in queste situazioni vengono usati normalmente segnali non verbali

di contrattazione; questi hanno il vantaggio di essere degli accenni, dei tentativi

che si possono facilmente ritirare o a cui si può ricorrere per saggiare altre

possibili relazioni senza imbarazzo; essi inoltre, operano eludendo l'attenzione

cosciente di entrambi i soggetti interagenti..." (Argyle, “Il comportamento

sociale”, Il Mulino, Bologna, 1979). Si può quindi affermare che la comunicazione non verbale gioca un ruolo primario e fondamentale nei processi di influenzamento che avvengono durante le interazioni sociali. L'obiettivo di comunicare nel modo più efficace possibile passa quindi per la non facile strada di una sempre più ampia presa di consapevolezza del comportamento non verbale nostro e altrui. Il metodo per espandere questa consapevolezza è duplice: osservare i processi comunicativi nel loro svolgersi "qui ed ora" e trovare una maggior confidenza col nostro corpo permettendogli di esprimersi al meglio delle sue possibilità.

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GLI INSEGNAMENTI

DEI GRANDI

SEDUTTORI

Eros Tugnoli

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GLI INSEGNAMENTI DEI GRANDI SEDUTTORI

L’innamoramento è spontaneo, e scocca quando due persone sono predisposte a iniziare un’altra fase della loro vita. Ciascuno intravede nell’altro una possibilità di esistenza superiore, in cui realizzare i propri desideri più reconditi. Come è possibile, allora, la seduzione, cioè riuscire a far innamorare qualcuno volontariamente?

Lasciamo da parte i divi dello spettacolo o della canzone, i campioni sportivi, sempre circondati da fans adoranti. Parliamo di quegli uomini e quelle donne che, anche senza essere ricchi e famosi, hanno una straordinaria capacità di suscitare fascino, desiderio e amore.

La prima cosa che colpisce nei grandi seduttori è l’assoluta fiducia in loro

stessi. Sono certi di riuscire. Sono autorevoli e rassicuranti. Hanno gesti e parole pacati, convincenti, ipnotici. E gli altri si abbandonano.

Quando sono interessati a qualcuno gli si dedicano completamente. Non si fermano di fronte alle difficoltà, ma inventano nuovi modi per

restare in rapporto, per continuare il dialogo seduttivo. Con leggerezza, senza stancare, senza irritare, senza annoiare.

Isadora Duncan, parlando di D’Annunzio, diceva che, quando una donna

era con lui, si sentiva bellissima, una dea. E si trasformava fisicamente. Diventava veramente più bella, radiosa. Per valorizzare una persona, però, non basta dirle “Sei bella”, “Sei magnifica”, mille volte. Questo, anzi, le dà noia.

Bisogna creare situazioni in cui lei possa sentirsi bella e ammirata. Per esempio facendone la regina di una festa. O presentandola in pubblico in modo che tutti ne restino incantati. Non basta applaudire, occorre anche suscitare l’applauso.

Un altro modo per abbassare le sue difese è farla ridere, farla divertire. E

aprire così la strada alle parole poetiche che arrivano al cuore. Il seduttore sa che la persona predisposta a innamorarsi è stanca della sua

vita quotidiana e aspira a un mondo superiore. Egli perciò la porta in ambienti nuovi, le fa intravedere modi di vita straordinari.

Chi sta per innamorarsi, inoltre, vuol realizzare le parti nascoste represse di se stesso. Il seduttore crea situazioni che gli consentono di realizzare desideri proibiti.

Chi si innamora vuol anche vedere nell’amato tutti gli esseri che ha sognato.

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Il seduttore perciò deve saper impersonare diversi ruoli. Essere ardito o tenero, allegro o triste, un guerriero o un poeta, a volte anche solo un ragazzo bisognoso di tenerezza.

Se ci pensate bene, il seduttore agisce come un innamorato pazzo,

intelligente e creativo. Si trasforma, cerca mille strade senza mai demordere. Trasmette gioia, entusiasmo, tormento, esultanza. Pensa solo alla sua donna ed escogita tutto ciò che può farle assaporare una

vita migliore. Si fa in quattro per renderla ancora più bella ed ammirata. E’ pronto a fare mille chilometri in macchina per darle un bacio o a stare alzato tutta la notte per vederla uscire di casa il mattino.

Si trasforma in giullare per divertirla, in guerriero per difenderla e in amante appassionato per conquistarla.

Il grande seduttore, però, ha un vantaggio: non si lascia mai prendere dal

pessimismo o da crisi di sconforto. Chi è innamorato, perciò, dovrebbe imparare da lui a fare altrettanto.

Francesco Alberini (Corriere della Sera)

Rielaborazione di Eros Tugnoli

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Diapositiva 1

1 HA FIDUCIA IN SE STESSO

2 E’ AUTOREVOLE E RASSICURANTE

3 SA IMPERSONARE VARI RUOLI

4 QUANDO E’ INTERESSATO A QUALCUNO GLI SI DEDICA COMPLETAMENTE

5 CREA SITUAZIONI PER FAR SENTIRE BELLA E AMMIRATA LA PERSONA DA SEDURRE

IL GRANDE SEDUTTORE...IL GRANDE SEDUTTORE...

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Diapositiva 2

6 FA RIDERE E DIVERTIRE L’INTERLOCUTORE

7 CREA SITUAZIONI CHE ESCONO DALLA ROUTINE, MAGARI REALIZZANDO I DESIDERI PROIBITI DELL’ALTRO

8 NON SI FERMA DI FRONTE ALLE DIFFICOLTA’ MA INVENTA NUOVI MODI PER CONTINUARE IL RAPPORTO SEDUTTIVO

9 TRASMETTE EMOZIONI, SOPRATTUTTO POSITIVE: GIOIA, ESULTANZA, ENTUSIASMO; MA ANCHE TORMENTO, COMPRENSIONE

IL GRANDE SEDUTTORE...IL GRANDE SEDUTTORE...

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LA FORZA SOTTILE

DEI COMPLIMENTI

Eros Tugnoli

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LA FORZA SOTTILE DEI COMPLIMENTI I complimenti: ci piace riceverli. Magari non sempre sappiamo come

rispondervi, ma sono fra gli aspetti più apprezzati delle nostre conversazioni e della nostra vita sociale.

Ci fanno sapere che siamo apprezzati, ci fanno sentire contenti di noi stessi. E ci piace farne: ci rendono simpatici, si ottengono dei favori.

Ma i complimenti hanno anche il loro lato negativo. Possiamo reagirvi

male se pensiamo che non siano sinceri o che mirino a farci fare qualcosa che non ci piace.

Di solito non apprezziamo le lodi di persone che giudichiamo prive di gusto o poco intelligenti. E la frequenza con la quale i complimenti sono usati nella nostra cultura aumenta il problema della credibilità.

Anche quando la lode è sincera possiamo trovare difficile rispondervi. I sociologi Ronny Turner e Charles Edgley hanno intervistato 245 soggetti che erano stati osservati mentre ricevevano dei complimenti: i due terzi circa dichiaravano di essersi trovati in imbarazzo, sulla difensiva o del tutto increduli verso i complimenti di cui erano oggetto.

Le difficoltà e contraddizioni associate ai complimenti ne fanno un tema quanto mai interessante: pur essendo un fenomeno di cui la gente sembra potenzialmente affamata, una forma di comportamento che ha effetti sensibili e positivi sulla nostra vita personale e professionale, un aspetto della comunicazione che incontriamo quotidianamente, eppure continua a crearci dei problemi.

Di certo non mancano i lavori scientifici sul ruolo della lode come metodo di rinforzo sociale, ma ci ha meravigliato vedere quanto fossero scarsi quelli centrati sull'uso delle lodi nelle interazioni della vita quotidiana e sulle reazioni che suscitano.

Gli studi effettuati su questo tema evidenziano solo un'idea molto generale

di quello che è l'oggetto dei complimenti. Le linguiste Nessa Wolfson e Joan Manes hanno analizzato 950 complimenti, trovando che gli argomenti "spaziano

dalla pettinatura alla perdita di peso, alla casa e alla automobile, dalla cucina e

dai ricevimenti alle fotografie e alle relazioni accademiche, dal giardino ai

bambini e agli animali domestici". Turner ed Edgley, in un altro studio, concludono dal loro studio che i

complimenti generalmente sono rivolti all'aspetto, alle prestazioni o ai possessi. E' stato riscontrato che si possono dividere in 4 categorie:

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- prestazioni: riconoscimento di abilità o competenze individuali; - aspetto fisico/abbigliamento: complimenti per attributi fisici o vestiti,

gioielli e simili; - personalità: lodi di specifiche qualità, come il coraggio, o considerazioni

più generali sulla persona nel suo complesso; - possessi: apprezzamento degli oggetti di proprietà, ma anche di coniuge

e figli. I soggetti dell'indagine citavano più di rado complimenti a proposito della

loro personalità, ma li giudicavano comunque i più significativi fra tutti. La stragrande maggioranza dei complimenti raccolti aveva a che fare con

l'aspetto fisico e l'abbigliamento (41%) o con le prestazioni (43%). I complimenti per l'aspetto fisico erano quelli che più spesso venivano contraccambiati, probabilmente perché il rischio è minimo: è molto improbabile che l'interlocutore contesti un apprezzamento sul suo aspetto o abbigliamento. Anzi, per alcune persone frasi del genere sono diventati un rituale di saluto, da non prendere assolutamente alla lettera:

"Buon giorno. Stai bene oggi". "Grazie, anche tu". Il tipo di complimenti, inoltre, era legato all'età: le persone sotto i trent'anni

facevano più spesso osservazioni a proposito dell'aspetto fisico o dell'abbigliamento, mentre i complimenti sulle prestazioni e, più di rado, sulla personalità erano più frequenti da parte di persone di età superiore.

L'analisi del contenuto delle risposte ai complimenti ha messo in luce

quattro categorie generali: accettazione, accettazione emendativa, nessun avviso di ricevimento,

negazione. Esaminiamoli: Quanto all'accettazione semplice, ne sono state evidenziate di tre tipi:

- ritualistica: il ricevente dà atto del complimento, di solito con un "grazie" o un sorriso, senza soffermarsi ulteriormente sulla cosa;

- compiaciuta: la lode è accettata esprimendo piacere per l'oggetto del complimento o per il giudizio lusinghiero ("Mi fa piacere", "Sono contento che

ti sia piaciuto"); - imbarazzata: il ricevente arrossisce, balbetta o dice qualcosa come

"Lascia perdere". L'accettazione emendativa ha quattro varietà:

- accettazione temperata: il complimento è accolto con un'espressione che tende a minimizzare ("Grazie, ma è mia moglie che l'ha comprato", "Sì, ma

devo perdere altri 5 Kg.");

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- complimento ricambiato: il ricevente risponde con un altro complimento ("Anche tu");

- accettazione esagerata: il ricevente viola deliberatamente la convenzione che vieta di lodarsi, probabilmente per evitare di rispondere direttamente al complimento ("Non sono bravo, sono un campione");

- richiesta di conferma: chi riceve il complimento ne chiede ancora (in risposta a "Come sono buoni questi biscotti!", la risposta è "Davvero?", oppure "Ne vuoi un altro?").

Il mancato ricevimento, quando il destinatario del complimento continua a

parlare ignorandolo, è raro; così com'è rara la negazione, in cui il complimento viene contraddetto in maniera esplicita: "Ma sei cieca!", "Non scherzare, non

sono davvero il più bravo a tennis".

Oltre la metà dei complimenti analizzati suscitava una risposta di

accettazione di un tipo o dell'altro, mentre un terzo delle risposte conteneva qualche forma di correzione.

I complimenti ricambiati erano poco frequenti (44 casi su un totale di 768), ma quando comparivano rispondevano quasi sempre a complimenti sull'aspetto fisico o l'abbigliamento. Il mancato ricevimento era molto raro e di solito compariva in risposta a complimenti relativi alle prestazioni. Le risposte di accettazione temperata erano più frequenti quando il complimento era indirizzato alla persona nel suo complesso.

Descrivendo come vengono recepiti i complimenti, Anita Pomerantz,

linguista della Temple University, nota che le risposte variano dall'accettazione diretta a varie forme di rifiuto. Talvolta accettiamo il complimento con un semplice "Grazie" o altro segno di assenso, a volte dichiarandoci d'accordo con l'interlocutore ("Sembra anche a me", "Sì, è proprio bello"), oppure minimizziamo il complimento. Secondo la Pomerantz, quest'ultima risposta è dovuta al desiderio di accettare la lode senza dare l'impressione di magnificare noi stessi. Un modo consiste nel rilevare qualche difetto "E' un vestito che ha

tanti anni ormai". Un altro è quello di ridurre la propria parte di responsabilità "Non è tutto merito mio".

A volte, nota la Pomerantz, correggiamo la valutazione positiva: "Ho avuto

solo la fortuna di trovarmi al posto giusto al momento giusto". Questa correzione spesso induce altre lodi, con l'interlocutore che si affretta a ribadire il complimento iniziale in termini ancora più lusinghieri.

Turner e Edgley rivelano che il contraccambio è un'altra forma molto

comune di risposta alle lodi. L'interessato dà atto solo indirettamente del contenuto specifico del complimento, ma lo accetta implicitamente con un

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complimento indirizzato all'interlocutore o a una terza persona: "Anche John ha

una bella casa, non ti pare?". Ci sono molte ragioni che possono spiegare questo tipo di risposta. Talvolta non sappiamo come fare per accettare una lode senza sembrare

vanitosi. In altri casi cerchiamo di spazzare via qualunque apparenza di superiorità nei confronti di chi ci ha rivolto il complimento. Oppure possiamo avere dei sospetti sulle sue motivazioni, o vediamo il complimento come un preludio alle critiche, o temiamo di non riuscire a mantenerci all'altezza dell'alta opinione espressa su di noi.

Il modo di rispondere ai complimenti dipende anche dall'autostima di chi li riceve. Accettiamo più facilmente le lodi che corrispondono al nostro giudizio su noi stessi. Naturalmente, possono farci piacere anche se abbiamo dei sospetti sulla loro esattezza o sulle motivazioni che ci sono dietro.

Considerando i fattori che influiscono sullo scambio di complimenti, una

parte importante nel fenomeno la svolge la vicinanza di età e di posizione sociale e, in misura minore, l'appartenenza allo stesso sesso e l'intimità del rapporto personale. Per esempio, dividendo i soggetti in due fasce di età (10-29 anni e dai 30 in su), fra i più giovani il 77% e fra i più anziani il 74% dei complimenti era indirizzato a persone dello stesso gruppo d'età.

Lo stesso valore per la posizione sociale: chi rivolgeva un complimento aveva una posizione pari a quella del destinatario nel 71% dei casi, superiore nel 22% e inferiore solo nel 7%.

Nel confronto fra i due sessi, i complimenti erano altrettanto frequenti da parte di uomini e donne , ma il 60% era rivolto a persone dello stesso sesso. In realtà gli uomini lodavano indifferentemente persone dei due sessi, mentre le donne indirizzavano i complimenti soprattutto ad altre donne. Esiste, inoltre, una forte relazione fra il sesso del destinatario e il tipo di complimenti: le donne ricevevano molto più spesso degli uomini lodi per il loro aspetto fisico (78% contro il 22%), mentre non c'erano quasi differenze fra i due sessi nelle lodi per le prestazioni o le doti di personalità.

Infine, le persone fra cui avviene lo scambio di complimenti sono legate

generalmente da rapporti piuttosto stretti. Classificando il materiale raccolto in base al tipo di relazioni esistenti fra gli interlocutori, si ottiene questa suddivisione: amici 30%, partner e parenti 26%, colleghi, conoscenti e vicini 28%, estranei e clienti 8%, superiori e subordinati 8%.

Per vedere se i soggetti attribuissero motivazioni diverse ai complimenti

formulati da loro stessi o dagli altri, fu chiesto loro di spiegare le ragioni dei complimenti fatti e ricevuti. Le risposte sono state classificate in tre gruppi: complimenti manipolativi (fatti per altri scopi), normativi (fatti per gentilezza o perché l'altro se l'aspetta) e complimenti meritati (riconoscimenti sinceri).

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Non è stata trovata nessuna differenza significativa fra le motivazioni dei complimenti fatti e ricevuti: i due terzi dei soggetti pensavano che entrambi fossero sinceri e meritati.

Agli intervistati fu anche chiesto che cosa avevano provato facendo e ricevendo dei complimenti. Le risposte sono state divise in positive, negative e neutre ("Stavo facendo il mio lavoro, nulla di più"). In più dei tre quarti dei casi il complimento, fatto o ricevuto, era stato un'esperienza positiva e nessuno ha espresso sentimenti negativi.

La differenza più vistosa fra questi risultati e quelli di ricerche precedenti riguarda proprio i sentimenti che la gente prova nello scambio di lodi e complimenti: non è stato trovato alcun indizio di reazioni negative o di sospetti circa motivazioni occulte. I complimenti in generale sembrano accolti positivamente in maniera chiara e diretta. Sicché, malgrado le parole di Victor Hugo, "Un complimento è come un bacio attraverso un velo", l'opinione corrente a quanto pare è: sempre meglio che nulla.

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L'ARTE DELLA

MENZOGNA

Eros Tugnoli

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L'ARTE DELLA MENZOGNA LA FUGA DI INFORMAZIONI "NON-VERBALI"

Nella nostra vita sociale ci sono molte occasioni in cui vorremmo

nascondere i nostri veri sentimenti, ma in un modo o in un altro finiamo col tradirci.

Di una madre in lutto che tenta di nascondere il suo dolore ai figli diciamo che "fa la faccia" della serenità, proprio come se portasse una maschera di false espressioni sopra quelle vere. Ma quando l'inganno fallisce in che modo trapelano le informazioni sui nostri reali sentimenti? Qual è la causa delle "confessioni non-verbali" e come facciamo a sapere se qualcuno sta mentendo?

Nel caso della madre in lutto l'inganno si svela perché non esiste una forte pressione nel verso contrario. Anzi, da tale fallimento ella trae un positivo vantaggio, in quanto se riuscisse troppo bene a nascondere il suo dolore verrebbe accusata di mancanza di sentimento, mentre se non mostrasse una qualche visibile inibizione all'espressione del suo cordoglio, si direbbe che manca di coraggio e soprattutto di autocontrollo.

Il suo è dunque un esempio di pseudo-inganno, dove il soggetto è contento di essere smascherato. Consciamente o inconsciamente, vuole che il suo sorriso forzato sia interpretato come tale.

Ma che cosa avviene quando la pressione che porta all'inganno e maggiore? L'imputato accusato di omicidio il quale sa di essere colpevole ma protesta

disperatamente la propria innocenza, ha un estremo bisogno che il suo inganno funzioni. Le sue dichiarazioni verbali sono menzogne ed egli deve accompagnarle con azioni fisiche altrettanto convincenti. Come lo fa? Può controllare le parole, ma è in grado di controllare il corpo?

Egli può controllarne certe parti meglio di altre. Le parti facili da disciplinare sono quelle delle cui azioni è più consapevole nella comunicazione non-verbale quotidiana. Egli conosce i suoi sorrisi e i suoi cipigli (gli è capitato di vederli riflessi nello specchio) e le espressioni facciali sono al primo posto nella sua classifica di consapevolezza.

Quindi è con la faccia che si può mentire meglio.

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Le posture generali del corpo possono aprire qualche falla, perché egli non è sempre del tutto conscio del proprio grado di rigidezza, rilassamento o tensione da vigilanza; tuttavia il loro valore è fortemente ridotto dalle regole sociali che associano a determinati contesti certe pose abbastanza stereotipate.

Dall'imputato di un processo per omicidio, per esempio, ci si aspetta che stia in piedi o seduto in maniera piuttosto rigida, sia esso colpevole o innocente, e ciò può facilmente agire da blocco del segnale posturale.

Indizi più utili ci vengono dati dai movimenti e dalle posture delle mani,

perché il nostro assassino ne sarà meno consapevole e di solito non esistono regole che possano soffocarne l'espressività. Certo, se si trattasse di un interrogatorio davanti ad una corte militare, i segnali manuali dell'imputato sarebbero bloccati dalla rigida etichetta militare: il dover stare sull'attenti fa sì che ad un soldato sia più facile mentire che ad un civile. In ogni caso vi saranno delle gesticolazioni che, se guardate con attenzione, possono smascherare l'inganno.

Di particolare interesse sono le gambe e i piedi, perché questa è la parte del corpo delle cui azioni il soggetto è meno consapevole. Spesso però rimangono nascosti alla vista, così che, in pratica, la loro utilità ne risulta fortemente limitata. Mobilio permettendo, sono comunque zone importanti per quanto riguarda la "fuga" di informazioni.

E' uno dei motivi per cui in un colloquio di lavoro, in una trattativa d'affari o di vendita, ci si sente molto più a nostro agio dietro a un tavolo o una scrivania che faccia da schermo alla parte inferiore del corpo. Questo fatto talora viene sfruttato nelle assunzioni competitive ponendo la sedia del candidato da esaminare in mezzo alla stanza, così che il corpo della "vittima" sia completamente visibile.

Riassumendo, il modo migliore per ingannare consiste nel limitare i nostri

segnali alle parole e alle espressioni del viso. A questo scopo dobbiamo nascondere il resto del corpo, oppure tenerlo così occupato in complicate procedure meccaniche che tutte le possibili "fughe" siano bloccate dalla necessità di destrezza fisica. In altre parole, se dovete mentire, fatelo per telefono od occhieggiando da sopra un muretto; oppure mentre mostrate un folder di vendita o parcheggiando l'auto in garage.

Se gran parte del vostro corpo è visibile e non avete alcun compito meccanico da assolvere, allora dovete cercare di coinvolgere nell'inganno l'intero corpo, non soltanto il viso e la voce.

Mentire con il corpo riesce difficile alla maggior parte di noi, perché manchiamo di pratica. Nella vita di tutti i giorni raramente siamo costretti a inganni deliberati e continuati.

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Certo possiamo mentire a noi stessi, e ognuno di noi recita inconsciamente un certo ruolo, ma queste sono cose del tutto diverse dal disporsi scientificamente a ingannare altre persone.

Quando diciamo una bugia deliberatamente siamo spesso così maldestri che soltanto la scarsa capacità di osservazione dei nostri compagni ci salva dall'essere smascherati.

Tuttavia spesso gli altri sono più osservatori di quanto crediamo, anche se non ce lo lasciano capire. Le loro menzogne sono state intese come tali, ma non sono state smentite. I possibili motivi di questo comportamento sono due: o i nostri compagni sono troppo imbarazzati per svergognarci oppure sono troppo confusi dalle nostre azioni per identificare la natura esatta della menzogna. Nel primo caso, sanno perfettamente di cosa si tratta ma trovano più comodo accettare l'inganno, piuttosto che distruggere la facciata che ci siamo costruiti.

Questo vale soprattutto per le piccole bugie che si dicono nelle occasioni sociali informali. Se ad un pranzo la padrona di casa ci invita a servirci una seconda volta di un piatto di cattivo gusto, rifiutiamo con una educata menzogna: invece di dirle la verità, possiamo chiaramente dire che siamo sazi, oppure che stiamo seguendo una dieta. Se la nostra ospite si accorge che stiamo mentendo e capisce perché, probabilmente lascerà perdere, per non correre il rischio di introdurre una nota d'attrito nella sua serata. Invece di smentirci, comincerà a parlare di diete, tentando di adattare i suoi pensieri espressi a quelli del suo educato ospite. Ora entrambi stanno mentendo ed entrambi lo sanno, ma lasciano che il gioco abbia il suo corso, perché ognuno vuole che l'altro sia contento. E' la menzogna "cooperativa", che ha un ruolo di estrema importanza in molte riunioni sociali.

Il secondo motivo per cui una persona può non smascherare apertamente

una menzogna è l'incapacità di identificarla. Le azioni del mentitore sono troppo confuse perché i suoi compagni sappiano come comportarsi. Essi si rendono conto che non dice la verità, perché le sue azioni non concordano tra loro o con i suoi segnali verbali, ma, pur notando l'incongruenza, non riescono a determinare la verità che l'altro cerca di nascondere. Quando una persona simile entra in una stanza, il suo comportamento fa sentire i compagni a disagio. Se soltanto potessero scoprire la verità che sta dietro l'inganno fallito saprebbero come regolarsi (ossia se smascherarlo o cooperarvi), ma poiché non riescono a individuarla si trovano come intrappolati.

Un buon esempio di questa situazione è la riunione sociale in cui un ospite ha appena subito un disastro personale, ma cerca di comportarsi come se non fosse successo niente divertendosi un mondo. Via che i suoi veri sentimenti montano e recedono dentro di lui, la sua capacità di inganno ondeggia e fluttua, spesso passando da un estremo all'altro. Anche se per tutta la durata della riunione i compagni evitano di smascherarlo per non provocare una crisi, non c'è

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chi non tiri un sospiro di sollievo quando se ne va, permettendo agli altri di rilassarsi e far congetture sul suo problema.

La nostra riluttanza a smascherare apertamente le menzogne degli altri fa sì

che la qualità delle comuni menzogne sociali non sia quella che potrebbe essere. Non solo non facciamo abbastanza pratica, ma quando la facciamo non

siamo sottoposti a prove abbastanza severe. Il risultato è che, in maggioranza, siamo dei cattivi mentitori che avrebbero molto da imparare da quei gruppi che si possono definire i professionisti della finzione.

Questi ultimi sono persone che sanno mentire senza fughe di informazioni non-verbali, le cui attività implicano inganni ripetuti, prolungati e, ciò che è più importante, aperti alla smentita. A meno che non siano capaci di mentire bene e di sostenere tali menzogne, sono destinati all'insuccesso nelle loro professioni; quindi devono diventare abilissimi nella manipolazione contestuale (scegliere il momento giusto per mentire) e nel coinvolgere tutto il corpo nell'inganno.

Ciò può richiedere anni di addestramento, ma alla fine, nei più abili si può davvero vedere la finzione elevata ad arte. Non mi riferisco solo agli esempi più ovvi, come i grandi attori, ma anche quei super bugiardi che sono i diplomatici e i politici di professione, gli avvocati, i maghi, gli illusionisti, gli ingannevoli dispensatori di fortuna e i venditori di automobili usate. Per tutti costoro mentire è un sistema di vita, una superba abilità che viene continuamente perfezionata e rifinita, finché diviene così splendida che il resto della gente gode a farsi ingannare.

L'abisso tra i bugiardi comuni e i professionisti è enorme, molto maggiore di quanto creda il non-professionista medio.

Spesso lo sentiamo dire che "chiunque potrebbe fare del cinema" o che "i

diplomatici non hanno nient'altro da fare che bere champagne e andare avanti a

ricevimenti". Ma mettetelo alla prova e mostrerà subito la sua inettitudine. Chiedetegli

per esempio di camminare lentamente con naturalezza da un capo all'altro di un palcoscenico, sotto gli occhi di un vasto pubblico, e state a vedere cosa succede. Poi confrontate la sua andatura rigida e goffa con il modo di camminare che normalmente tiene per strada in compagnia di un amico, e la bravura dell'attore professionista salterà immediatamente agli occhi.

Osservato da un vasto pubblico, il non-professionista è tutto tranne che tranquillo e, per quanto si sforzi, non può costringere il suo corpo a trasmettere segnali di tranquillità. Anzi, più si sforza, peggiore è il risultato.

Passando dal soggetto che mente a quello che scopre la menzogna, quali

sono le chiavi specifiche che gli permettono di mangiare la foglia? Una serie di esperimenti effettuati da ricercatori americani ha permesso di

individuare alcune risposte.

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Essi hanno chiesto a un gruppo di allieve infermiere tanto di mentire quanto di dire la verità riguardo a riprese di filmate di interventi chirurgici impressionanti, come l'amputazione di un arto, o di scene innocue e piacevoli. Durante più sedute, esse dovevano descrivere ciò che avevano visto, a volte sinceramente, altre mentendo, mentre ogni loro gesto ed espressione veniva registrato da cineprese nascoste. Così fu possiblie analizzare in dettaglio tutte le azioni che accompagnavano sia le dichiarazioni sincere sia quelle deliberatamente false, studiando la differenza fra le une e le altre.

Le allieve infermiere si sforzavano di mentire nel migliore dei modi, perché si era detto loro che la capacità di ingannare era un attributo importante per la futura carriera. Bisogna infatti saper convincere un paziente ansioso che ormai è in via di guarigione, o che un intervento chirurgico rischioso è in realtà del tutto sicuro, o che i medici in difficoltà per la diagnosi sanno benissimo di cosa soffre, tenendo conto del fatto che, mentre chiede tali rassicurazioni, il malato è acutamente sensibile al più lieve segno di malcelato pessimismo. Per diventare una brava infermiera bisogna dunque imparare a mentire in modo convincente.

Quindi l'esperimento era qualcosa di più di una semplice esercitazione accademica; ed effettivamente in seguito risultò che le allieve migliori di ogni classe erano proprio quelle i cui corpi mentivano meglio nei test filmati.

Tuttavia anche le migliori bugiarde non erano perfette e gli sperimentatori hanno potuto individuare una serie di differenze chiave nelle azioni fisiche che accompagnavano le dichiarazioni sincere e quelle false.

Tali differenze sono:

1. quando mentivano le infermiere tenevano più ferme le mani.

Le azioni manuali che avrebbero normalmente usato per enfatizzare le loro espressioni verbali - cioè per rafforzare un' argomentazione o sottolineare un punto importante - erano ridotte in misura significativa. La ragione di ciò è che le azioni manuali, le quali hanno la funzione di "illustrare" le parole espresse, non sono gesti identificati. Sappiamo che "muoviamo le mani" quando siamo impegnati in una conversazione interessante, ma non abbiamo idea di quali siano i loro esatti movimenti. Il fatto di sapere che le nostre mani fanno qualcosa, ma non esattamente cosa, ci rende sospettosi riguardo alla possibile trasparenza di tali azioni. Inconsciamente sentiamo che potrebbero tradirci a nostra insaputa, quindi provvediamo a sopprimerle. Ma questa non è una cosa facile. Possiamo nascondere le mani, sedercisi sopra o ficcarle in tasca (dove magari riescono ancora a smascherarci facendo tintinnare qualche monetina) o, meno drasticamente, stringere un palmo con l'altro, in modo che le mani si trattengano a vicenda. Ma l'osservatore esperto non si lascerà ingannare da questi espedienti, poiché sa benissimo che se le mani vengono così "congelate" c'è sicuramente qualcosa che non quadra.

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2. Quando mentivano le allieve infermiere aumentavano la frequenza dei contatti mano-faccia. Noi tutti ci tocchiamo ogni tanto il viso durante le conversazioni, ma il numero delle volte in cui queste azioni semplici vengono effettuate aumenta in misura notevolissima quando si tenta di ingannare. Alcune azioni mano-testa preferiti dai mentitori troviamo: sfregarsi il mento, far pressione sulle labbra, coprirsi la bocca, toccarsi il naso, strofinarsi una guancia, grattarsi un sopracciglio, tirarsi il lobo di un orecchio e accomodarsi i capelli. Nei tentativi di inganno ognuna di queste azioni può aumentare in maniera marcata, ma due in particolare diventano frequentissime: COPRIRSI LA BOCCA e TOCCARSI IL NASO.

L'atto di coprirsi la bocca è più facile da capire. Da essa stanno uscendo parole menzognere e il soggetto, con quella parte del suo cervello che si sente a disagio in proposito, invia alla mano il messaggio di "coprire", ossia di nascondere ciò che egli sta facendo. Inconsciamente, il mentitore alza la mano quasi volesse usarla come bavaglio, ma in qualche modo deve lasciare che le parole continuino a uscirgli dalla bocca. L'altra parte del suo cervello non può permettere che la copertura funzioni. Le menzogne verbali devono continuare a fluire. Il risultato è una copertura abortita, con l'azione mano-bocca ridotta a un contatto parziale che assume parecchie forme tipiche: per esempio le dita a ventaglio sulle labbra, l'indice sul labbro superiore, la mano di fianco alla bocca.

E' importante aggiungere che se vedete qualcuno effettuare questa parziale copertura della bocca, ciò non significa che stia sicuramente mentendo. E' solo più probabile.

Nell'atto di coprirsi la bocca c'è una visibile debolezza: il suo messaggio è troppo trasparente. A volte, quando viene effettuato goffamente da un bambino, porta ad aperte dichiarazioni d'incredulità come: "Smettila di borbottare con la mano davanti alla bocca... che cosa stai cercando di nascondere?". Le azioni mano-bocca più abilmente deviate dagli adulti possono evitare questa reazione, ma rimangono lo stesso un po' troppo rivelatrici. Per ovviare a questo inconveniente è necessario aumentare l'elemento deviazione, il che ci porta all'altra importante azione chiave: toccarsi il naso.

Molti osservatori hanno notato che questo gesto si accompagna spesso alla

menzogna, ma non si sono azzardati a dire perché. Ora sembra esservi una duplice risposta. Innanzitutto, la mano che si alza per bloccare la menzogna deve essere deviata e il naso è convenientemente vicino. Certo, si potrebbe scegliere il mento o la guancia, ma nel primo caso la mano si fermerebbe prima della bocca e nel secondo dovrebbe spostarsi di lato. Il naso, invece, essendo prominente e proprio sopra la bocca, si trova nella posizione ideale, perché la mano non ha che da allungare di poco il suo movimento e continua a coprire in parte la bocca, pur dirigendosi verso il naso.

Come copertura della bocca camuffata, l'azione di toccarsi il naso è diventata il gesto più sfruttato dai mentitori, ma la sua popolarità ha un'altra

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motivazione. Quando arriva il momento della menzogna deliberata, c'è, anche nei bugiardi più sperimentati, un lieve aumento di tensione. Questo aumento produce piccoli mutamenti fisiologici, alcuni dei quali possono incidere sulla sensibilità del rivestimento interno della cavità nasale, provocando una sensazione di prurito. Anche se questa è quasi impercettibile può far sì che il naso "attiri" la mano. Non dà necessariamente inizio all'azione, ma contribuisce a dirigerla verso quell'organo, una volta che la mano si è mossa per coprire la bocca e deve essere deviata.

3. Quando mentivano, le infermiere muovevano di più il corpo.

Un bambino che si contorce sulla sua sedia sta ovviamente morendo dalla voglia di scappare e qualunque genitore riconosce a prima vista questi sintomi d'inquietudine. Negli adulti, essi vengono attenuati e soppressi, ma non scompaiono. Se lo si osserva con attenzione, si può vedere il bugiardo adulto effettuare piccoli, residuali spostamenti del corpo, e ciò con molta più frequenza di quando dice la verità.

Non sono contorcimenti; soltanto lievi variazioni nella postura di riposo del tronco, mentre il soggetto cambia la sua posizione sulla sedia.

Questi discreti spostamenti del corpo dicono: "Vorrei essere altrove". 4. Quando mentivano, le allieve infermiere facevano maggior uso

dell'azione di scuotere la mano. Mentre la frequenza delle altre gesticolazioni diminuiva, questa diventava più comune. Era come se le mani stessero declinando ogni responsabilità riguardo alle dichiarazioni verbali.

5. Quando mentivano, le allieve infermiere mostravano espressioni facciali

quasi indistinguibili da quelle associate alla sincerità. Quasi, ma non del tutto, perché anche sui volti più auto-consapevoli apparivano micro-espressioni che lasciavano trapelare la verità. Queste micro-espressioni sono così lievi e rapide (non durano più d'una frazione di secondo) che in principio gli osservatori non erano in grado di vederle, ma poi, grazie a uno speciale addestramento con sequenze al rallentatore, impararono a individuarle anche nei filmati a velocità normale. Dunque, agli occhi di un osservatore addestrato, nemmeno il volto può mentire.

La causa di queste micro-espressioni è la fin troppo rapida efficienza con cui la faccia registra i sentimenti interiori.

Quando un cambiamento d'umore cerca espressione, entro assai meno d'una frazione di secondo si avrà un'alterazione dei muscoli facciali. Il contro-messaggio del cervello, che ordina alla faccia di "stare zitta", spesso non raggiunge in tempo il messaggio primario di mutamento d'umore. Il risultato è che l'alterazione dei muscoli comincia e poi, una frazione di secondo più tardi, viene bloccata dal contro-messaggio. Così, in quella frazione di secondo di

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ritardo, appare un piccolo, fuggevole accenno di espressione. Questa viene soppressa con tale rapidità che la maggior parte della gente non riesce a vederla, ma, se ci si aspetta che compaia e si sta molto attenti, è possibile individuarla, ed essa diventa allora una delle chiavi migliori per scoprire se una persona sta mentendo.

A questo esperimento si può fare una seria critica. I ricercatori americani hanno elaborato un test di laboratorio che, entro i suoi limiti, ottiene lo scopo.

Esso ci dice chiaramente che cosa avviene quando un individuo cerca di mentire, ci mostra come le azioni del corpo falliscano nel loro tentativo d'inganno totale e ci permette di individuare i piccoli atti che tradiscono il mentitore. Ma, limitandosi al test della menzogna controllata, non chiarisce se questa sia l'unica circostanza in cui si presentano detti mutamenti di comportamento. Prova che ci sono un aumento degli auto-contatti mano-faccia e una diminuzione delle gesticolazioni, ma non esclude la possibilità che il mentire sia soltanto una delle condizioni che producono tali effetti. In altri termini, la menzogna è la chiave o solo parte della chiave?

Gli studi finora condotti in tale campo indicano che la risposta giusta è la seconda.

Facciamo un esempio: due persone stanno parlando, quando all'improvviso

una di esse esplode in un tagliente insulto. Non aspettandoselo, la persona insultata non riesce subito a replicare. Rimane ammutolita per parecchi secondi, mentre il fiume di insulti continua, poi, quando finalmente risponde, lo fa con freddezza e padronanza di sè. Durante questo scambio verbale si ha un momento di estrema tensione: quello dell'insulto iniziale. Ed è precisamente allora che la mano della persona insultata si alza a toccare un lato del naso. E' la stessa azione che già sappiamo presentarsi nei momenti in cui si mente. Ma questo soggetto non può mentire, perché tace. Molto prima che apra bocca la mano ha lasciato il naso e, quando comincia a rispondere, egli è di nuovo freddo e composto.

Un altro esempio: un uomo ne sta intervistando un altro. Dapprima fa domande facili e ottiene risposte immediate. Poi pone una questione difficile e complessa. Esitante, l'intervistato comincia a rispondere e le sue dita si alzano a toccare il naso. Ma non si appresta affatto a mentire. La domanda non è tale da richiedere una risposta falsa, è semplicemente una questione complicata sulla quale deve riflettere.

In questi due esempi non c'è inganno, eppure il gesto di toccarsi il naso ricorda fortemente l'azione associata alla menzogna.

Che cosa hanno in comune queste situazioni? Tutte includono un momento

iniziale di tensione. La personalità insultata si tocca il naso senza parlare, ma la sua mente è

scossa dall'impatto dell'attacco inatteso.

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Il suo cervello è in ebollizione, ma esteriormente egli rimane composto. Il comportamento interiore, ovvero i suoi pensieri, e quello esteriore, ovvero la sua inattività, non concordano. Allo stesso modo, la persona cui viene posta all'improvviso una domanda difficile sperimenta una frattura fra i suoi pensieri e le sue azioni. Tenta di rispondere con calma e facilità, ma il suo cervello sta furiosamente lavorando per far fronte alla complessità della questione. Anche qui, i suoi pensieri e le sue azioni esteriori non corrispondono.

Confrontando queste due situazioni con un caso di emergenza ci appare chiaro, ora, che hanno molto in comune.

L'essenza dell'inganno deliberato è appunto che quanto avviene nel cervello non si riflette nel comportamento verbale esteriore. Pensiamo una cosa e ne diciamo un'altra. Per cui, affermando che l'azione di toccarsi il naso è un segno di menzogna, semplifichiamo forse eccessivamente il caso.

Ciò che si dovrebbe dire, invece, è che il toccarsi il naso ed altre azioni analoghe sono il riflesso di una scissione forzata tra pensieri ed azioni.

Questa frattura può essere definita inganno soltanto in un senso molto generale, di cui la menzogna attiva è soltanto un caso particolare.

Quando ci sforziamo di apparire calmi, allorché mentalmente annaspiamo per far fronte a un insulto o a una domanda difficile, stiamo in un certo senso ingannando chi ci sta di fronte, ma non si può dire che mentiamo. In altri termini, vi sono altre forme di insincerità, oltre al dichiarare il falso. Quindi, se elaboriamo un esperimento basato soltanto sulla menzogna, rischiamo di non comprendere il significato generale dei dati comportamentali così ottenuti.

Ciò che sta dietro la fuga d'informazione non-verbale, dunque, non è

semplicemente la menzogna, ma un basilare e acuto conflitto tra l'interiore e l'esteriore, dove i pensieri e le azioni non concordano in un momento di tensione.

Ma, anche se in questo modo non possiamo essere certi che chi si tocca il naso stia mentendo, abbiamo però la sicurezza che nel suo cervello sta accadendo qualcosa che egli manca di esteriorizzare e di comunicarci verbalmente. Può non mentire in senso stretto, ma ci sta senza dubbio nascondendo parte dei suoi pensieri e quel gesto di toccarsi il naso ce lo rivela suo malgrado.

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CAPACITA’ DI PERSUASIONE RISPONDETE ALLE DOMANDE SCEGLIENDO TRA LE SEGUENTI QUATTRO L’OPZIONE CHE MEGLIO DESCRIVE IL VOSTRO COMPORTAMENTO:

A = MAI B = A VOLTE C = SPESSO D = SEMPRE

1. Mentre sono intento a persuadere, fornisco esempi di persone che in passato hanno riposto fiducia

in e /o nella mia organizzazione?

2. Cerco di dare un’immagine autorevole ed efficace di me nei primi minuti di un incontro?

3. Utilizzo volutamente il linguaggio del corpo per influenzare gli altri?

4. Osservo ed interpreto costantemente il linguaggio non verbale dei miei interlocutori?

5. Vario i ritmi del mio parlato ed utilizzo pause per suscitare l’interesse altrui e produrre un impatto

più forte?

6. Uso un tono di voce basso quando voglio suggerire autorevolezza?

7. Quando vendo le mie idee, tendo a sottolineare consapevolmente i vantaggi?

8. Ricorro ad antitesi quando voglio realizzare una presentazione particolarmente efficace?

9. Mentre persuado, volutamente “vendo” il fatto che le mie affermazioni e le mie idee sono uniche?

10. Faccio ricorso a metafore, analogie e racconti per mettere in risalto i miei “punti chiave”?

11. Utilizzo l’umorismo, laddove risulti adeguato, per aumentare il coinvolgimento e l’impegno?

12. In una presentazione, catturo l’attenzione del mio pubblico attraverso un’apertura dinamica?

13. Termino le mie presentazioni con frasi ad effetto ed inviti all’azione?

14. Utilizzo esempi relativi a situazioni originali ed intense che restino nella memoria?

15. Quando cito statistiche, faccio in modo che siano precise e rammentabili?

16. Nelle discussioni incoraggio molto il feedback per favorire l’autopersuasione?

17. Prediligo le domande piuttosto che le affermazioni per dirigere le discussioni?

18. Analizzo i miei interlocutori prima di decidere la mia strategia persuasiva?

19. Enfatizzo i punti di convergenza che ho con coloro che voglio influenzare?

20. Metto in risalto di proposito aspetti positivi degli altri per accrescere la mia influenza su di loro?

VALUTAZIONE DELLA CAPACITA’ PERSUASIVA

A= 1 PUNTO B = 2 PUNTI C = 3 PUNTI D = 4 PUNTI DA 50 A 60 SEI UN OTTIMO PERSUASORE DA 40 A 50 LE CAPACITA’ DI PERSUASIONE SONO BUONE

DA 30 A 40 LE CAPACITA’ PERSUASIVE SONO DA RAFFORZARE MENO DI 30 LE CAPACITA’ PERSUASIVE SONO INSUFFICIENTI: C’E’

MOLTO DA LAVORARE

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FATTO O DEDUZIONE ?

LEGGETE CON ATTENZIONE QUESTO EPISODIO

Bianchi, capo servizio della MAXI s.p.a., ha in programma, alle ore 10,

una riunione nell'ufficio di Rossi, per discutere di una grave questione

sindacale.

Recandosi alla riunione, Bianchi scivola su un pavimento incerato di

fresco e si sloga malamente un'articolazione.

Nel momento in cui Rossi viene avvertito dell'incidente, Bianchi sta

già andando all'ospedale per farsi fare una radiografia. Rossi

telefona all'ospedale per avere notizie, ma nessuno sembra sapere

alcunché di Bianchi.

Può darsi che Rossi abbia telefonato all'ospedale sbagliato.

ORA CONSIDERATE LE SEGUENTI 7 AFFERMAZIONI: BARRATE LA CASELLA "F" SE LE CONSIDERATE "FATTI" O LA CASELLA "D" SE LE CONSIDERATE "DEDUZIONI"

1 Bianchi è un uomo F D

2 Bianchi deve incontrarsi con Rossi F D

3 Bianchi deve partecipare ad una riunione per le ore 10 F D

4 L'incidente a Bianchi si è verificato nei locali della Maxi spa F D

5 Bianchi è all'ospedale per farsi fare una radiografia F D

6 All'ospedale, che Rossi ha chiamato, nessuno sa nulla F D

7 Rossi ha chiamato l'ospedale sbagliato F D

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COMUNICAZIONE

INTERNA

E GESTIONE

DEI GRUPPI DI LAVORO

Stefano Donati

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COMUNICAZIONE INTERNA Quali sono gli obiettivi della comunicazione interna? Le sue finalità si possono sintetizzare in due concetti fondamentali: 1) far conoscere e spiegare gli obiettivi della vostra impresa, soprattutto nelle fasi di cambiamento delle strutture organizzative (ad esempio in una grande azienda: fusioni, ristrutturazioni, acquisizioni) 2) promuovere e tutelare un buon clima organizzativo. Accertatevi che tra i vostri dipendenti regni l'armonia, infatti, come si può lavorare bene nel malumore e nella disorganizzazione? Le tecniche di comunicazione interna sono fondamentali nel contesto organizzativo dell'impresa come premessa di qualità globale. Ma attenzione, perché "tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare": infatti, sviluppare un'efficace comunicazione aziendale non è così facile come potrebbe sembrare. Come migliorare la comunicazione interna? Motivazione: la forza di un'azienda vincente. Per prima cosa, convincete i dipendenti della qualità dei prodotti/servizi offerti dall'azienda, solo in tal modo riuscirete a comunicarla anche all'esterno. Soprattutto se la vostra azienda opera nel settore commerciale, non vi siete mai chiesti l'importanza della motivazione di un venditore e quanto questa incida sul risultato della vendita? Trasmettete, allora, a tutti i dipendenti gli obiettivi generali e i progetti strategici dell'impresa, al fine di sviluppare spirito di coesione, rafforzare coinvolgimento e motivazione, consentire a tutto il personale di identificarsi nella vostra azienda. La comunicazione interna va in due direzioni: 1) Top-down: cioè comunicare informazioni dall'alto (manager, dirigenti, quadri) verso il basso (impiegati, dipendenti, collaboratori). Come? Servitevi di cartelli, Intranet e organizzate riunioni che rendano possibile l'incontro diretto tra manager e collaboratori. Lo scopo è di diffondere le informazioni e di condividere gli obiettivi tra tutti i soggetti che danno vita ad una società. 2) Bottom-up: cioè un ritorno della comunicazione dal basso verso l'alto (feedback). Allora formulate questionari, sollecitate colloqui individuali per ascoltare eventuali richieste. Dunque non solo informare, ma anche ascoltare: infatti, coinvolgere tutti intorno ad un progetto rappresenta un grande beneficio per la vostra azienda. Nelle piccole e medie imprese la comunicazione dall'alto verso il basso (e viceversa) è più diretta. In una piccola azienda, che conta ad esempio una ventina di dipendenti, potete comunicare con un vostro dipendente seduti comodamente davanti ad un caffè senza ricorrere a riunioni o questionari.

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METODOLOGIA Quando si parla di comunicazione interna è opportuno seguire le stesse norme utilizzate a livello di marketing, al fine di minimizzare la possibilità di errore nell'elaborazione del messaggio, nell'individuazione del/i mezzi da utilizzare, nella determinazione della audience e degli obiettivi da conseguire. Ecco perché risulta opportuno ricorrere alle procedure proprie di un processo circolare che approssimi sempre più il risultato delle azioni poste in essere al raggiungimento delle finalità prospettate. Ecco un modello di riferimento: Analisi dei bisogni. È il momento nel quale si determina l'ambito di intervento della attività di comunicazione interna. È buona norma convocare ed interpellare il proprio team di per essere certi di identificare il problema in modo preciso. Pianificazione. In questa fase vanno specificati: - dimensioni qualitative e quantitative dell'audience - effetti che si intendono ottenere - tempi di realizzazione Sempre in questa fase si decide quale/i media debbono essere utilizzati Realizzazione del piano. La sua efficacia è determinata dal grado di precisione delle fasi precedenti Controllo degli effetti Tre sono gli aspetti da valutare: 1 - N° riceventi audience 2 - capacità di stimolare il feed-back 3 - possibilità di valutare gli effetti

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STRUMENTI DI COMUNICAZIONE INTERNA

PER

SONAL I Z

ZAZ I ON

E

Comunicazioni “face to face”

Riunioni Telefonate Posta elettronica Fax

Lettere Annotazioni scritte

Formazione Questionari

Report Bacheca

Conferenze

Convention House organ

Circolari News

Videocassette

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LA SOLUZIONE DEI PROBLEMI DI GRUPPO

Un tipico metodo d'approccio organizzativo e gestionale, nella comprensione e soluzione dei problemi, è rappresentato dalla metodologia basata sul processo del «problem setting». Il problem setting è un processo teorico e pratico che serve a trasformare un disagio in un problema ovvero in una questione ben definita. Il problem setting precede il “problem solving”, che trasforma invece il problema ben definito in un progetto da gestire secondo le tecniche del project management. Il problem setting risponde alla domanda: che cosa fare? Il problem solving risponde alla domanda: come fare? Ma quando si deve ricorre al problem setting? Quando le cose vanno male, no, perché il problema è già emerso (tuttavia ciò che è emerso potrebbe essere il sintomo, non la causa). Quando le cose vanno bene, perché porsi problemi? (tuttavia questo è ciò che normalmente fa o dovrebbe fare il manager e il ricercatore eccellente). Prima del problema c'è la percezione di un disagio, di una carenza. C'è un bisogno da soddisfare, in altre parole, c'è uno stato ansioso di fronte a minacce indefinite quand'anche la rapida mutazione del mercato, l'evoluzione della domanda e l'azione della concorrenza non rappresentassero, di per sè, delle minacce quotidianamente percepite dall'impresa. Il problem setting ci aiuta ad affrontare il disagio, a individuare il bisogno, a passare dallo stato ansioso alla visione chiara del problema da risolvere. Le situazioni problematiche possono derivare da cause che riguardano la propria organizzazione: introduzione di nuove tecnologie, innovazioni nei processi produttivi, concorrenza, comunicazione interna, ecc. Ogni manager pratica tutti i giorni il problem setting; l'impresa moderna, orientata al problema e alle conoscenze, diventa «learning organization» cioè impresa che genera conoscenze e che è sempre pronta a mettersi in discussione, ad ascoltare e a cambiare, anticipando ove e quanto più possibile la domanda del mercato e l'azione della concorrenza e con ciò a mettere in discussione e a rivedere continuamente la propria organizzazione interna. Il problem setting si applica con risultati positivi a qualsiasi attività, in ogni tipo di organizzazione, dal lavoro personale ai grandi progetti che impegnano parecchie imprese per un lungo periodo. In modo più ampio la metodologia di gestione può essere così descritta brevemente:

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Fase 1: • problem finding - rendersi conto del disagio; • problem setting - definire il problema; • problem analysis - scomporre il problema principale in problemi secondari.

Fase 2: • problem solving - eliminare le cause; • decision making - decidere come agire;• decision taking - passare all'azione.

Ma come si può procedere in modo corretto nell'implementazione quotidiana di questa metodologia? Dove e come acquisire le informazioni e i dati che possano mettere in condizione l'impresa di auto-comprendere e apprendere in tempo reale le necessità del cambiamento o della revisione di alcuni processi o del proprio posizionamento di mercato? È tramite il corretto reperimento e gestione delle informazioni che il processo di riorganizzazione può ottenere il suo massimo scopo di efficienza. Parte del processo fondamentale e prioritaria è costituito dunque dal knowledge management. Il knowledge management gode ormai di una fama internazionale ed è al centro delle attività di molte aziende, anche se una vera e propria definizione è ben lontana dall'essere data. È infatti la stessa natura del knowledge management a renderne difficile una formalizzazione efficace. Un punto d'inizio per cercare di spiegare in cosa consiste questa nuova disciplina può essere una delle definizioni date da Karl Wiig in LIEBOWITZ (1999): «Il knowledge management è la sistematica, esplicita e deliberata

organizzazione, applicazione e rinnovamento della conoscenza interna di un

azienda al fine di massimizzarne l'efficacia della base conoscitiva e i relativi

benefici».

Nella realtà dei fatti quello che il knowledge management si pone come obiettivo è rendere esplicita, e quindi fruibile ai più, la conoscenza tacita ed implicita che ogni figura professionale all'interno dell'azienda ha maturato con il suo lavoro, affinché l'impresa ne tragga un vantaggio economico. Il concetto di conoscenza, nonostante la sua intangibilità, è stato al centro di molte ricerche che hanno portato a diverse formalizzazioni dei suoi concetti. Se infatti consideriamo la conoscenza dal punto di vista dell'accessibilità possiamo arrivare a queste tre definizioni: • implicita: accessibile attraverso alcuni quesiti e colloqui mirati, ma deve prima

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essere individuata e in seguito comunicata; • esplicita: accessibile prontamente, ad esempio documentata e organizzata con

gli strumenti adatti; • tacita: indirettamente accessibile e con difficoltà solo attraverso la

formalizzazione della conoscenza e l'analisi delle abitudini. A questo primo punto di vista è però necessario affiancarne un altro per riuscire a focalizzare al meglio il problema. In particolare è bene osservare la conoscenza dal punto di vista della sua organizzazione gerarchica. Si tratta, in buona sostanza, di trasformare capitali intangibili, come quello intellettuale, in beni e servizi per i quali la gente sarebbe disposta a pagare, inventando un modo per la valutazione di qualunque valore aggiunto ai dati e all'informazione. Ma nell'era dell'informazione siamo già abituati alla ricerca del valore aggiunto resa concreto nel generalizzato accumulo di informazioni. Ciò che si propone il knowledge management è invece una razionalizzazione di questo processo, una maggiore attenzione ai meccanismi cognitivi e alla centralità della risorsa umana. Il knowledge management si configura certamente come uno strumento per accrescere le capacità di un'azienda, ma più spesso diventa anche una filosofia lavorativa. Lo svolgere le attività da lui previste permette la diffusione di un senso di collaborazione e condivisione delle informazioni senza le quali anche gli strumenti utilizzati risulterebbero inutili.

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COMUNICAZIONE ASSERTIVA

La comunicazione è stata studiata da molti punti di vista, e molte sono le classificazioni che sono state fatte dai diversi approcci (analisi transazionale, programmazione neurolinguistica, teoria dei sistemi, teoria dell’informazione, ecc.). L'approccio della comunicazione assertiva propone una classificazione che comprende tre stili di comunicazione. Lo stile assertivo si basa sulla presa di distanze da comportamenti sia aggressivi sia passivi, e sulla volontà di cooperare nella comunicazione per ottenere risultati "a somma variabile" cioè che prevedano un successo personale non basato sulla "sconfitta" altrui bensì sulla valorizzazione dell'interlocutore. Occorre precisare che ognuno si adegua ad uno dei tre stili a seconda delle situazioni e degli interlocutori. Non si tratta quindi di caratteristiche personali, ma di caratteristiche dei comportamenti di comunicazione. E' naturale che alcune inclinazioni di personalità possano portare a produrre più frequentemente l'uno o l'altro comportamento, ma ciò non deve trarre in inganno, poiché se una persona ha uno stile - ad esempio - aggressivo, può imparare a monitorare i propri comportamenti ed essere più assertivo. E' utile apprendere la distinzione fra comportamenti di comunicazione aggressiva, passiva ed assertiva, poiché riconoscendo, in noi stessi o negli altri, lo stile di quel momento e di quella occasione, possiamo meglio governare la comunicazione. L’assertività prende le distanze dai comportamenti aggressivi e da quelli passivi; la voglia di collaborare, di generare valore per tutti gli interlocutori, è ciò che caratterizza lo stile assertivo. Quali sono le caratteristiche dello stile aggressivo? Il presupposto su cui si basa il comportamento aggressivo è quello della ridotta importanza dell'altro; esiste quindi un egocentrismo che porta ad una - malintesa, eccessiva - autostima. La comunicazione aggressiva si basa su un "gioco a somma zero" (solo uno dei due può vincere, se io vinco tu perdi). Vi è quindi un marcata tendenza a sopravvalere sull'altro, a condizionarne - o manipolarne - i comportamenti. Generalmente l’aggressivo si manifesta tale per acquisire un potere sociale - ricevere conferme ed influenzare gli altri -, apparire forte, incutere soggezione. Talvolta la volontà di apparire forte nasconde una fondamentale insicurezza o timidezza.

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I comportamenti tipici dello stile aggressivo sono molti; tra di loro, i seguenti sono molto frequenti: � comandare, imporre la leadership in un gruppo � non mettere in discussione in proprio modo di vedere � sminuire i meriti altrui � criticare, emettere sentenze � interrompere, non lasciare esprimere � essere violenti Quali sono le caratteristiche dello stile passivo? Lo stile passivo ha il seguente presupposto implicito: io sono meno importante agli altri - o voglio manifestarmi come tale. In base a questo presupposto si tende quindi ad imitare e conformarsi agli altri, a lasciarsi condizionare, ad evitare di prendere posizione e di decidere; nei contenuti della comunicazione, il protagonista è l’altro, cui va la maggior parte dell’attenzione. Chi adotta uno stile passivo può farlo perché ha la necessità di essere accettato - da una persona o da un gruppo - e pensa che la maggiore attenzione all’altro o agli altri possa aiutarlo in questo. Oppure può trattarsi di una volontà di evitare di essere oggetto di aggressività da parte degli altri, o della paura di essere coinvolto in un conflitto; oppure ancora di una mancata conoscenza dei propri diritti, che porta ad accettare supinamente ciò che gli altri dettano; o ancora del sentirsi inadeguato ad una situazione. Comportamenti passivi sono ad esempio: � lasciare che altri decidano � non assumersi dei rischi � stare in disparte � dare ragione al più forte � cercare l’approvazione altrui � non reagire alle critiche Che cosa caratterizza lo stile assertivo? Lo stile assertivo prende le distanze sia dai comportamenti aggressivi, sia da quelli passivi. L’attenzione dei contenuti della comunicazione spazia sia al sé, ritenuto importante, sia all’altro, ritenuto altrettanto importante. Se entrambi gli interlocutori rivestono la stessa importanza, è coerente ricercare vantaggi per entrambi nella comunicazione; l’atteggiamento è quindi collaborativo, tendente ad impostare un gioco a somma variabile. Lo stile assertivo si distingue anche per la propositività e l’essere rivolto al futuro; i vantaggi per entrambi non risiedono infatti nel rivangare il passato, ma nell’essere rivolti al futuro. Chi manifesta comportamenti assertivi generalmente lo fa per manifestare stima dell'altro senza sminuire l'autostima, e per ottenere un successo di sé assieme agli altri.

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Comportamenti tipici dell’assertività sono: � ascoltare attivamente, chiedere, approfondire � assumersi le proprie responsabilità � approfondire la conoscenza dei bisogni altrui, ma anche dei propri � esprimersi liberamente (opinioni, emozioni, ecc.) � saper rifiutare � proporre � ammettere i propri errori, accettare critiche Riepilogo delle caratteristiche dei tre stili Stile aggressivo Stile passivo Stile assertivo Scarica le responsabilità Impone e pretende, senza diritto Non si preoccupa di dare spiegazioni razionali Tende a generalizzare, ad interpretare Tende a giudicare

Rinuncia, accetta decisioni altrui Evita il conflitto, non manifesta il dissenso Subisce Non affronta i problemi, ne rimanda la soluzione

Si assume le proprie responsabilità Rispetta i diritti altrui e propri Esprime desideri, dissenso, sentimenti, ecc Ragiona sulla base di fatti Ammette i propri errori

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MEDIAZIONE E GESTIONE DEL CONFLITTO

I conflitti si pongono come dei problemi, delle insoddisfazioni cui cerchiamo di dare una risposta. Le cause dei conflitti sono molte e complesse, e molto della loro possibilità di gestione costruttiva dipende dalle nostre capacità di analisi e di azione. Spesso litighiamo, ma apparentemente per cose futili e a volte cadiamo in un vortice che fa andare le cose sempre peggio e ci fa stare sempre peggio. Grande importanza nei conflitti ha la capacità di vivere nelle differenze e a volte nella sofferenza. Ma per scardinare alcuni comportamenti consolidati e alcuni luoghi comuni spesso errati, si può iniziare chiarendosi le dinamiche e la realtà in cui stiamo vivendo. Per questo può essere utile darsi alcuni strumenti di analisi delle situazioni conflittuali e un lessico comune. I quattro tipi di azione conflittuale: 1- Il primo tipo è quello di persone che vogliano perseguire fini diversi. Se sono persone indipendenti, questo non è un problema; lo diventa se invece sono per qualche ragione vincolati. Questo può verificarsi in tutte le situazioni in cui si richiede un'azione collettiva o coordinata. Un possibile sviluppo del conflitto, e una conseguente "escalation", è la perdita di cooperazione. Si chiama DIVERGENZA. Per esempio, due coniugi che vadano in vacanza insieme, ma preferiscano mete diverse. 2- Il secondo tipo accade in situazioni in cui più agenti concorrano per lo sfruttamento di una risorsa limitata. In questi casi il conflitto è definito di CONCORRENZA. Per esempio quando più allevatori sfruttano una zona libera di pascolo. 3- Quando un agente dirige la sua azione contro un'azione dell'altro agente questa può essere chiamata OSTACOLAMENTO e tende ad impedire all'altro il raggiungimento del suo obiettivo. 4- Quando invece l'azione è diretta contro l'altro agente, non più alla sua azione, può essere definita AGGRESSIONE/COMPETIZIONE (concorrenza + ostacolo): nella realtà spesso succede che due agenti non solo concorrono verso l'obiettivo, ma per assicurarsi il successo compiono atti di ostacolo o aggressione. Due candidati in un concorso concorrono, ma non competono (non agiscono l'uno sull'altro) come invece fanno due squadre di calcio. Se poi un giocatore compie anche atti di "aggressione" allora commette fallo.

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Non sempre è facile distinguere aggressione, ostacolo o competizione. Le categorie qui elencate si mischiano nella realtà complessa. Questi tipi non sono separati in modo netto: si tratta piuttosto di punti focali di una linea continua che va da una situazione di orientamento a uno scopo esterno, proseguendo via via verso un aumento dell'intervento sull'azione altrui, fino ad arrivare là dove lo scopo originario finisce per avere un ruolo secondario di fronte alla volontà di agire su e contro l'agente, in altre parole là dove l'aggressione è il fine stesso. Questo processo graduale corrisponde al fenomeno dell'escalation. Possono essere viste tre grandi fasi di evoluzione dei conflitti: • vincente/vincente: aspetti cooperativi preponderanti, rimane preponderante la contraddizione oggettiva, l'insieme delle questioni che dividono le parti • vincente/perdente: si crede che il conflitto possa essere risolto solo a beneficio di una parte, atteggiamenti e percezioni assumo una importanza preponderante • perdente/perdente: danneggiamento dell'altro anche a costo di sofferenze per sé, entra in gioco la violenza. La teoria dei giochi la teoria dei giochi ha avuto la sua prima formulazione intorno all'anno 1944. Si trattava attraverso un ardito espediente matematico di tentare di prevedere il comportamento degli esseri umani in una situazione di negoziazione. Vengono chiamati giochi perché vi prendono parte più agenti e le loro decisioni sono interdipendenti. Al termine delle scelte rispetto al gioco, a ogni giocatore viene attribuito un punteggio. Naturalmente i limiti di questa teoria sono enormi, dovuti a tutta una serie di assunzioni (ad esempio il supporre di trovarsi di fronte a soggetti assolutamente razionali e intelligenti), ma nonostante questo ci permette di fare interessanti considerazioni. Questi sono giochi di STRATEGIA in quanto le scelte di ogni attore dipendono da una interazione con la controparte: le mie azioni sono determinate da una previsione delle tue azioni. Il dilemma del prigioniero Qui viene presentato il dilemma in una ambientazione differente da quella classica che vedeva due prigionieri affrontare separatamente un interrogatorio. Ecco un esempio di sperimentazione negoziale col “Dilemma del Prigioniero”.

Voi siete un trafficante di diamanti e vi siete accordato con un acquirente

per una vendita. Dati i rischi di un incontro aperto, per sicurezza

decidete che lo scambio avverrà nel modo seguente: in un punto

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all'interno di un bosco isolato voi lascerete una valigia coni diamanti. In

tutt’altro punto l'acquirente lascerà una valigia con i soldi. Ognuno di

voi si recherà nel luogo dove l'altro ha lasciato la valigia, così

l'acquirente avrà i diamanti, voi i soldi e l'affare è fatto. Cooperando

ottenete entrambi il vantaggio della transazione.

Pensate però che cosa succederebbe se lasciaste nel posto convenuto una

valigia vuota, o piena di vetro, e di andarvene con i soldi. Il vantaggio

sarebbe molto maggiore. Avete soldi e diamanti.

Però anche al vostro cliente può venire in mente la stessa cosa: lasciare

una valigia piena di carta e prendersi i diamanti.

Solitamente gli scambi sono ripetuti più volte e i punteggi possono cambiare da partita a partita con la possibilità di avere brevi incontri per effettuare una trattativa. La combinazione più probabile, almeno nella nostra cultura occidentale, è quella della sfiducia/sfiducia con il gioco che termina con le parti in forte passivo. I principali aspetti che caratterizzano i comportamenti sono: • la miopia: si tratta della difficoltà di intendere un rapporto sul lungo periodo: ho la possibilità di prendere un vantaggio sull'altro e lo faccio senza pensare a cosa succederà dopo, a come reagirà l'altro • "loro ci fregheranno di sicuro": sono talmente convinto che l'altro defezionerà, che la cosa più ragionevole che troviamo da fare è attaccare per primi. È una classica profezia che si autoavvera • il valore del negoziato: è fondamentale il valore che le due parti attribuiscono a questo strumento; se la prima trattativa è stata disattesa la seconda è praticamente inutile • i falchi vincono: all'interno di un gruppo è più facile vedersi riconosciuta la leadership proponendo guerra contro un nemico comune esterno, piuttosto che proponendo una strategia di collaborazione. Giochi a somma zero Si considera gioco “a somma zero” un gioco nel quale ciò che un partecipante vince viene perso dall'altro; ad esempio il gioco del poker: se uno vince 10, l’altro perde 10. La differenze percepita sarà 20. Le caratteristiche psicologiche sono: • i partecipanti sentono di essere contro • gli scambi di informazioni vengono vissuti come pericolosi • tendo a vedere la mia perdita come la somma della mia perdita con la vincita dell'altro e spesso si instaurano meccanismi legati alla vendetta.

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Giochi a somma diversa da zero Non esiste un rapporto diretto tra vincite e perdite, anzi si potrebbe dire che non esistono sconfitti: ad esempio il gioco della tombola. Le caratteristiche psicologiche sono: • non esiste un rapporto di interrelazione tra vincite e perdite • gli agenti non sono contro • non è necessario ridurre il flusso di informazioni, anzi può essere vantaggioso • chi non vince, non sente necessariamente di aver perso Il dilemma del prigioniero è un classico gioco a somma diversa da zero e rappresenta molta parte delle situazioni della vita reale. La soluzione trovata tramite l'analisi di soluzioni strategiche razionali ed egoiste non rappresenta in realtà la soluzione migliore, anche in senso egoistico. In questo caso (e quindi in molti casi), razionale non corrisponde a ottimale. Spesso nel giocare queste situazioni si instaurano meccanismi conflittuali (del tipo divergente) e si osserva una escalation dei comportamenti verso atteggiamenti più violenti. È qui che sarebbe quindi opportuno attuare alcune delle strategie distensive che, se usate con competenza, potrebbero ottenere buoni risultati. Minacce e promesse esplicite Nel caso di un conflitto comunemente inteso la contrattazione si articola in sostanza in atti di coercizione e gesti di concessione, come le minacce, gli avvertimenti e le promesse. Negoziando è sempre più sano concentrarsi sugli interessi piuttosto che sulle posizioni. Bisogna ridare significato a queste parole, ad esempio minaccia: una minaccia ha successo ha successo quando il minacciante non è costretto ad attuarla, poiché mettere in atto la minaccia significa fare qualcosa di spiacevole anche per sé, non solo per l'altro. E' il caso dello sciopero, dove attuandolo entrambe le parti vengono penalizzate. Utilizzare consapevolmente questi strumenti, o interpretarli in modo corretto quando se ne è oggetto, restituisce valore ed efficacia alla contrattazione. Alcuni testi definiscono il gioco cooperativo come quel gioco in cui i giocatori possono effettuare promesse vincolanti (e sfruttare a pieno la contrattazione). Gestione costruttiva dei conflitti Per tentare di gestire un conflitto è necessario: • la consapevolezza di essere in uno stato di conflitto • la volontà di terminare il conflitto

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Accenni a strategie utili alla gestione del conflitto • Disarmo unilaterale e GRIP (Graduate and Reciprocated Initiatives in Tension Reduction: Osgood 1962) Si tratta di una strategia che intende rendere cooperativo l'orientamento motivazionale prevalente tra attori in conflitto. Una parte annuncia di voler ridurre la tensione, iniziando una azione conciliatoria unilaterale, e invitando l'altra parte a fare altrettanto. Anche se questa non risponde all'invito, viene effettuato un nuovo gesto di distensione. Nel caso in cui la controparte reagisca in maniera aggressiva vengono annunciate misure limitate di ritorsione, senza revocare le decisioni distensive già prese. In particolare il "disarmo unilaterale" in situazioni interpersonali dovrebbe essere: • "pulito" nelle azioni che si compiono • ripetuto più volte: se ci si ferma alla prima quasi sicuramente non funzionerà • chiaro nell'espressione delle intenzioni. Nella simulazione del gioco del prigioniero ripetuto più volte spesso si cade nella situazione permanente di sfiducia/sfiducia. Questa strategia si potrebbe attuare nei momenti previsti per la contrattazione dichiarando chiaramente che nelle prossime tre partite si coopererà, qualunque sarà la risposta dell'altro giocatore, prima di cadere eventualmente nella situazione peggiore di sfiducia/sfiducia. A questa dichiarazione l'altro giocatore potrebbe essere portato a ricominciare a cooperare, vedendone utilità e fattibilità. Cooperazione La Cooperazione è mettere su un piatto comune parte delle proprie risorse ed interessi per un vantaggio collettivo (positivo anche per il singolo). L'armonia si realizza più semplicemente quando interessi e scopi si integrano. • l'altruismo è differente dal cooperare • l'egoismo non corrisponde all'individualismo • si può essere egoisti e cooperativi. I conflitti sono normalmente caratterizzati dal legame tra processi cooperativi e processi competitivi. La cooperazione è un elemento molto interessante: essa propone soluzioni creative ai problemi, generando nuova "ricchezza" a volte inaspettata. Se concepita in modo spontaneo è ancor più interessante in quanto può unire gli elementi di libertà e realizzazione del singolo in una logica di utilità a breve, ma anche a lungo periodo.

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Fiducia La fiducia è un certo grado di sicurezza nella propria previsione del comportamento di un altro agente o del mondo esterno. La fiducia svolge un ruolo importante nella cooperazione. Riesce spesso a sostituire l'effetto delle norme e delle punizioni previste nel caso di contravvenzione. Si realizza in modo più elastico ed efficace. Le condizioni perché si possa parlare di fiducia sono: • non controllabilità • assenza di coercizione • libertà La fiducia è comunque caratterizzata da un certo fattore di rischio. I giochi ripetuti Nella realtà le interazioni sociali non sono eventi sporadici e con soggetti sempre diversi. Si parla quindi di giochi ripetuti. Simulando la realtà e semplificandola alquanto ne risulta che le migliori strategie sono caratterizzate dai seguenti comportamenti: • correttezza: il primo passo è cooperativo e si defeziona solo come risposta a una defezione • perdonanti: la rappresaglia punitiva non continua se l'altro ricomincia a cooperare Queste strategie sono considerate strategie evolutive stabili (ESS), ossia sono destinate a sopravvivere nel tempo se a loro è attribuita una possibilità di sopravvivenza pari ai loro risultati relativi. Le strategie defezionatrici rovinano l'ambiente stesso da cui traggono vantaggio, succhiandone le risorse e non permettendo ai soggetti che attuano altre strategie, e quindi successivamente anche a chi defeziona, di sopravvivere. Le strategie che guadagnano cooperando favoriscono l'instaurarsi di un ambiente a loro favorevole e stabile nel tempo.

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LA

COMU

NICAZION

E

INTERPERSO

NALE

Eros Tugnoli

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Diapositiva 2

COMUNICAZIONE E’...COMUNICAZIONE E’...

� ...il trasferimento di informazioni da un “Emittente” ad un “Ricevente”

� …mettere “qualcosa” in “comune”

� ...l’essenza della nostra vita

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Diapositiva 3

PERCEZIONEPERCEZIONE

Le diverse esperienze generano percezioni soggettive dello stesso problema e quindi

azioni e reazioni differenti

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Diapositiva 4

NELLA COMUNICAZIONE NELLA COMUNICAZIONE L’IMPORTANTE E’ L’IMPORTANTE E’ IL RISULTATOIL RISULTATO

IL RISULTATOIL RISULTATODETERMINA LA RELAZIONEDETERMINA LA RELAZIONE

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Diapositiva 5

IMPRINTINGIMPRINTING

“LA PRIMA VOLTA NON SI DIMENTICA MAI…”

la prima impressione determinerài futuri rapporti

(“Profezia che si autoavvera”)

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Diapositiva 6

INTERFERENZE NELLA COMUNICAZIONEINTERFERENZE NELLA COMUNICAZIONE

“I FILTRI”

Nel processo di comunicazione interferiscono alcuni fattori che determinano una

DISTORSIONE DEL MESSAGGIO

intesa come distanza tra ciò che era mia intenzione dire e ciò che è stato percepito dal mio interlocutore

E

FILTRI

Rββββ

ββββ = ANGOLO DI DISTORSIONE

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Diapositiva 7

COMUNICAZIONE MONOCOMUNICAZIONE MONO--DIREZIONALEDIREZIONALE

COMUNICAZIONE BICOMUNICAZIONE BI--DIREZIONALEDIREZIONALE

EMITTENTE RICEVENTE

messaggio

EMITTENTE RICEVENTE

messaggio

FeedFeed--backback

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Diapositiva 8

COMUNICAZIONECOMUNICAZIONEMONOMONO--DIREZIONALEDIREZIONALE

PIU’ VELOCE

PIU’ EFFICIENTE(se chiara)

TENDE AD ESSERE RELATIVAMENTE EFFICACE

DERESPONSABILIZZANTE

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Diapositiva 9

COMUNICAZIONECOMUNICAZIONEBIBI--DIREZIONALEDIREZIONALE

PIU’ LENTA

EFFICIENTE (anche se relativamente chiara)

TENDE AD ESSERE PIU’ EFFICACE

RESPONSABILIZZANTE E FORMATIVA

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Diapositiva 10

I VEICOLI DELLA COMUNICAZIONEI VEICOLI DELLA COMUNICAZIONE

C. VERBALE:la parola (orale o scritta)

C. PARA-VERBALE:l’uso della parolaVOLUME, TONO, RITMO, PAUSE, INFLESSIONI

DIALETTALI

C. NON VERBALE:LA GESTUALITA’: mimica facciale, braccia, gambe, corpo

GLI OGGETTI: vestito, ornamenti, strumenti utilizzati

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Diapositiva 11

NON SI PREOCCUPI, I NOSTRI COMPUTER SONO

PRATICAMENTE INDISTRUTTIBILI: LE “ROTTURE”

O I “GUASTI” TOCCANO SOLO L’OTTO PER CENTO

DEL TOTALE.

COMUNQUE, IN CASO DI MALFUNZIONAMENTO,

INTERVERREMO IN 1 O 2 GIORNI AL MASSIMO E

LE RISOLVEREMO LE DIFFICOLTA’.

QUINDI NON SI DEVE ALLARMARE: RISOLVEREMO

I SUOI PROBLEMI E NON CI SARANNO LAMENTELE

O RECLAMI DA PARTE SUA.

“…A PROPOSITO: COME SIETE ORGANIZZATI CON “…A PROPOSITO: COME SIETE ORGANIZZATI CON L’ASSISTENZA?”L’ASSISTENZA?”

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Diapositiva 12

PAROLE A VALENZA IPNOTICA

NEGATIVA DI DUBBIO

“Spero di riuscire”“Cercherò di preparargliela in tempo”“Forse riusciremo a consegnargliela oggi”

TERMINI DI DUBBIO

SE, FORSE, MAGARI, SFORZO

VALENZA IPNOTICA DELLA PAROLAVALENZA IPNOTICA DELLA PAROLA

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Diapositiva 13

VALENZA IPNOTICA DELLA PAROLAVALENZA IPNOTICA DELLA PAROLA

PAROLE A VALENZA NEGATIVA

“Le rubo solo un minuto”“Non l’annoierò”“Non vorrei disturbare”“Ha un momento da dedicarmi?”“Disturbo?”“Ho un problema”“Sono in difficoltà”“Spero di non sbagliare”

TERMINI AMPIAMENTE NEGATIVINO, PROBLEMA, DIFFICOLTA’ CARENZE, SACRIFICI, SBAGLI

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Diapositiva 14

ASCOLTOASCOLTO� TACETE!

� SE NON CE LA FATE A TACERE, LIMITATE LA VOSTRA CONVERSAZIONE

� FATE PREVALENTEMENTE DOMANDE APERTE

� NON INTERROMPETE MAI L'INTERLOCUTORE

� CONCENTRATEVI SU CIO' CHE DICE

� ASCOLTATE LE IDEE, NON SOLO LE PAROLE

� DATE DEI "FEED-BACK" FREQUENTI

� PRENDETE APPUNTI

� "AMATE" L’INTERLOCUTORE, DATEGLI FIDUCIA: SARA' VOSTRO IN BREVE TEMPO...

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LE ARM

I DELLA

PERSUA

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E

Eros Tugnoli

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Diapositiva 2

Eros TugnoliLE ARMI DELLA PERSUASIONELE ARMI DELLA PERSUASIONE

CONTRACCAMBIO

COERENZA

RIPROVA SOCIALE

SIMPATIA

AUTORITA’

SCARSITA’

CONFRONTO

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Diapositiva 3

Eros TugnoliSSIIMMPPAATTIIAA

APPLICAZIONIRAPPORTI INTERPERSONALI

ATTENZIONE A:• BELLEZZA• SOMIGLIANZA• COMPLIMENTI• FAMILIARITA’

SOLUZIONI

•SEPARARE I CONTENUTI DALL’INTERLOCUTORE

•CONCENTRARSI SU VANTAGGI E SVANTAGGI DELLA PROPOSTA

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Diapositiva 4

Eros TugnoliCCOONNTTRRAACCCCAAMMBBIIOO

APPLICAZIONI

VENDITA E OMAGGI

(senza impegno)

FAVORI

(politici, mafiosi, arbitri, ecc.)

SOLUZIONI

•DECLINARE

•SMASCHERARE

•VALUTARE IL “PESO” DEI FAVORI

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Diapositiva 5

Eros TugnoliRRIIPPRROOVVA A

SSOOCCIIAALLEE

APPLICAZIONI

•COMPRA-VENDITA•MOTIVAZIONE DEI

COLLABORATORI•MODA SOLUZIONI

•PERSONALIZZARE

•“PER TUTTI, FORSE:

MA PER ME?”

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Diapositiva 6

Eros Tugnoli

SSCCAARRSSIITTAA

APPLICAZIONI

...NUMERO LIMITATO

..SOLO ENTRO IL...

...LO STANNO PRENOTANDO GIA’ ALTRI

SOLUZIONI

•“…LO DIA PURE AGLI ALTRI.”

•PRENDERE SEMPREIL TEMPO PER RIFLETTERE

‘‘

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Diapositiva 7

Eros TugnoliCCOONNFFRROONNTTOO

APPLICAZIONI

•COMPRA-VENDITA

•TECNICA “SANDWICH”

SOLUZIONI

•INFORMARSI SUL REALE VALORE

•VALUTARE SOLO L’ULTIMA PROPOSTA

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Diapositiva 8

Eros Tugnoli

AAUUTTOORRIITTAA

APPLICAZIONI•MARKETING

•IMMAGINE

•VENDITA

•POLITICA

SOLUZIONI

•VEDERE OLTRE L’ABITO

•“E’ VERAMENTE UN……?”

•EVITARE LA SOTTOMISSIONE‘‘

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Diapositiva 9

Eros Tugnoli

CCOOEERREENNZZAA

APPLICAZIONI

COMPRA-VENDITA

RICHIESTA DIFAVORI

SOLUZIONI

•ATTENZIONE AI PICCOLI REGALI O QUANTITATIVI

•VALUTARE SOLO L’ULTIMA PROPOSTA

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COMUNICAZIONE PERSUASIVA

Bibliografia - R. Dilts J. Grinder Bandler PROGRAMMAZIONE NEUROLINGUISTICA Astrolabio - R.B. Cialdini LE ARMI DELLA PERSUASIONE Giunti – Firenze - Eros Tugnoli

VA’ DOVE TI PORTA IL BUDGET Full Vision

- A. Conquet SAPER ASCOLTARE Gribaudi - M. Argyle IL CORPO E IL SUO LINGUAGGIO Zanichelli - Eric Berne A CHE GIOCO GIOCHIAMO Bompiani - E. Bonicelli - A.M. Comari I SEGRETI DELLA COMUNICAZIONE Il Sole 24 Ore - Manuela Pompas I POTERI DELLA MENTE Rizzoli - Christian H. Godefroy LA DINAMICA MENTALE Sugar - Oberto Airaudi IPNOSI E AUTOIPNOSI Gr. Ed. Muzzio - M. E. Erickson Ernest L. Rossi TECNICHE DI SUGGESTIONE IPNOTICA Astrolabio - M. Cundiff KINESICA: IL POTERE DEL COMANDO SILENZIOSO Siad - J. Kirschner L'ARTE DI INFLUENZARE GLI ALTRI Acanthus - H. Cohen COME OTTENERE QUELLO CHE VUOI Arnoldo Mondadori - A. Schopenhauer L'ARTE DI OTTENERE RAGIONE Adelphi