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La censura teatrale a Parigi in età napoleonica di Veronica Granata Nel , in seguito a una momentanea soppressione della censura teatrale in Francia, venivano depositati presso gli Archivi nazionali i manoscritti di circa . opere teatrali accumulati in un arco di tempo compreso fra il e il dagli uffici incaricati dell’esame preventivo dei testi destinati alle compagnie parigine. Nel , un secondo versamento, dovuto questa volta alla definitiva abolizione delle strutture amministrative preposte a tale tipo di controlli, andava a integrare il precedente, aggiungendovi i verbali di censura redatti fra il Primo Impero e il dal personale im- piegato sotto i diversi regimi politici per vagliare i contenuti dei copioni adottati dai teatri della capitale francese . Questo lavoro si propone di esaminare l’attività dell’ufficio incaricato di filtrare il passaggio dei testi teatrali dai manoscritti alle rappresentazio- ni pubbliche nel decennio che vide Napoleone alla guida della Francia con il titolo di Imperatore (-). L’obiettivo è quello d’individuare, mediante le fonti archivistiche disponibili, le dinamiche e le modalità attraverso le quali il teatro assunse in quegli anni la funzione di terreno di contrapposizione e di confronto fra gli apparati del regime e il “paese reale”, fra strategie di governo limitative della libertà d’espressione e le voci del dissenso, fra la concezione di una forma d’arte come strumento d’educazione e d’indottrinamento e l’uso della stessa come mezzo di resistenza. Rilievo e funzioni del teatro nella società parigina d’età napoleonica Il sistema di controlli istituito all’inizio dell’Impero sulla produzione teatrale della capitale francese rappresenta a un tempo il sintomo e la con- seguenza del ruolo esercitato dal teatro nella società parigina del tempo. Studiare gli ingranaggi di tale meccanismo vuol dire prendere contatto con un mondo, quello del teatro appunto, che ci è ancora familiare ma di cui oggi difficilmente riusciamo a immaginare l’impatto su un pubblico dal Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. /

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La censura teatrale a Parigiin età napoleonica

di Veronica Granata

Nel , in seguito a una momentanea soppressione della censura teatrale in Francia, venivano depositati presso gli Archivi nazionali i manoscritti di circa . opere teatrali accumulati in un arco di tempo compreso fra il e il dagli uffici incaricati dell’esame preventivo dei testi destinati alle compagnie parigine. Nel , un secondo versamento, dovuto questa volta alla definitiva abolizione delle strutture amministrative preposte a tale tipo di controlli, andava a integrare il precedente, aggiungendovi i verbali di censura redatti fra il Primo Impero e il dal personale im-piegato sotto i diversi regimi politici per vagliare i contenuti dei copioni adottati dai teatri della capitale francese.

Questo lavoro si propone di esaminare l’attività dell’ufficio incaricato di filtrare il passaggio dei testi teatrali dai manoscritti alle rappresentazio-ni pubbliche nel decennio che vide Napoleone alla guida della Francia con il titolo di Imperatore (-). L’obiettivo è quello d’individuare, mediante le fonti archivistiche disponibili, le dinamiche e le modalità attraverso le quali il teatro assunse in quegli anni la funzione di terreno di contrapposizione e di confronto fra gli apparati del regime e il “paese reale”, fra strategie di governo limitative della libertà d’espressione e le voci del dissenso, fra la concezione di una forma d’arte come strumento d’educazione e d’indottrinamento e l’uso della stessa come mezzo di resistenza.

Rilievo e funzioni del teatro nella società parigina d’età napoleonica

Il sistema di controlli istituito all’inizio dell’Impero sulla produzione teatrale della capitale francese rappresenta a un tempo il sintomo e la con-seguenza del ruolo esercitato dal teatro nella società parigina del tempo. Studiare gli ingranaggi di tale meccanismo vuol dire prendere contatto con un mondo, quello del teatro appunto, che ci è ancora familiare ma di cui oggi difficilmente riusciamo a immaginare l’impatto su un pubblico dal

Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. /

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quale ci separa un secolo di profonde trasformazioni in campo culturale, politico, sociale e tecnologico quale è stato il Novecento.

In un’epoca in cui la circolazione di libri e gazzette era ancora for-temente limitata dall’elevato numero d’analfabeti, la rappresentazione teatrale, fondata sull’espressione orale e sull’effetto visivo, costituiva uno dei pochi intrattenimenti adatti indifferentemente a un pubblico colto e raffinato e a un pubblico illetterato. Verso la metà del XVIII secolo, nella capitale francese, la “democraticità” potenziale di tale mezzo d’espres-sione era diventata effettiva grazie alla nascita di una pluralità di teatri popolari che si erano andati ad affiancare ai preesistenti teatri d’élite, tenuti in numero artificialmente limitato e tutelati nel loro repertorio da monopoli legali sui generi teatrali considerati più elevati. L’incremento dell’offerta di spettacoli a Parigi, fenomeno in parte favorito da un potere regio preoccupato dalla crescente irrequietezza delle masse urbane della capitale, aveva consentito, già alla vigilia della Rivoluzione, l’accesso ai teatri di un pubblico nuovo, borghese e popolare, che finì col divenire la componente preponderante, e dunque la più influente, dell’uditorio dei teatri parigini del XIX secolo. Tali mutamenti, uniti alla quotidianità della frequentazione delle sale di spettacolo e al ruolo centrale attribuito al teatro dai partiti di origine rivoluzionaria nell’educazione politica dei cittadini, non tardarono a rendere tale forma d’arte il principale mezzo di formazione e d’informazione di buona parte della popolazione, risorsa di potere a un tempo utile e temibile agli occhi delle autorità costituite.

Le sale da spettacolo del tempo, occorre sottolinearlo, non erano affatto luoghi consacrati all’ascolto silenzioso. Le testimonianze dei contemporanei ritraggono un pubblico turbolento, chiassoso, che con-siderava principalmente il teatro come un luogo d’incontro, un abituale passatempo serale e come un’occasione per dare libero corso alla propria emotività: gli spettatori, soprattutto, ma non soltanto, nei teatri popolari, non esitavano infatti a farsi parte attiva delle rappresentazioni teatrali, reagendo con grida, commenti altisonanti, pianti incontenibili e persino atti di violenza irrefrenabili a quanto avveniva sui palcoscenici.

Assembramento di persone, esperienza collettiva di un gruppo collo-cato in uno spazio e in un tempo limitati e soggetto ad una molteplicità di stimoli emotivi, il teatro rappresentava dunque, in una situazione di forte restrizione delle pubbliche libertà, una potenziale valvola di sfogo non solo dei sentimenti individuali, ma anche delle passioni politiche, delle istanze collettive, degli scontri ideologici, sociali e culturali in atto nella società. Gli spettacoli, occasionando adunanze in un contesto in cui non era ammessa la libertà di riunione come mezzo di sollecitazione dei poteri pubblici, potevano favorire in particolare fenomeni d’identificazione e di raggruppamento politico, giacché consentivano una reazione istantanea

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e soprattutto collettiva degli astanti a tutte le allusioni, volontarie o invo-lontarie, alla realtà contingente. Sotto questo aspetto il teatro costituiva agli occhi degli autori uno strumento di manifestazione del pensiero dalle potenzialità eccezionali e per ciò stesso delicato e rischioso da gestire. Per l’autorità esso rappresentava invece uno dei più efficaci indicatori di ciò che in gergo poliziesco veniva allora definito esprit public, vale a dire l’insieme delle idee, delle informazioni, degli umori diffusi fra la popolazione o in certe categorie di essa.

Il potere della parola, l’immediatezza del gesto, la suggestione prodotta dalle scenografie e dai costumi, il carisma di certi interpreti e l’eterogeneità sociale del pubblico teatrale costituivano, nel contesto che abbiamo delineato, altrettante risorse per il governo, non soltanto sotto il profilo della propaganda politica, ma anche della diffusione e della tutela di determinati modelli sociali, culturali e di comportamento. Dalla consapevolezza delle enormi capacità di questo strumento di comunica-zione nasceva pure il timore che quest’ultimo potesse essere distolto dal suo ruolo di stabilizzatore politico e sociale per creare o alimentare, in maniera più o meno consapevole, fenomeni di dissenso. Di qui l’esigenza per il regime autocratico di Bonaparte di predisporre meccanismi volti a controllare tutti gli aspetti dell’attività teatrale.

Organizzazione e funzionamento degli uffici di censura

Va in primo luogo messo in evidenza che, contrariamente a quanto av-venne per la stampa non periodica, l’esistenza di controlli sistematici sui testi teatrali fu resa pubblica già nei primi mesi del Consolato. Il principio della libertà teatrale, non tutelato da un valore simbolico paragonabile a quello di cui era stata rivestita la libertà di stampa nel secolo dei Lumi e mal conciliabile, perfino agli occhi dell’opinione pubblica, con il ruolo formativo esercitato da un mezzo d’espressione che travalicava i confini fra le classi sociali e che si rivolgeva anche a categorie di pubblico consi-derate bisognose di particolare tutela morale, quali le donne e i giovani, fu infatti facilmente e apertamente sacrificato dal governo nato in seguito al colpo di Stato di brumaio.

Appannaggio del ministero dell’Interno durante i primi anni del regime napoleonico, la direzione della censura teatrale passò nel al ministero della Polizia che mantenne tale competenza per l’intero decen-nio dell’Impero. In quest’ultimo arco di tempo, l’ufficio addetto all’esame dei copioni trovò la propria sede dapprima all’interno della Segreteria generale del dicastero e successivamente nello stesso Gabinetto del mini-stro. Sotto la generica denominazione di Bureau de la presse esso esercitò,

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oltre alla censura teatrale, anche la sorveglianza dei giornali parigini e, fino al , quella delle opere politiche e letterarie. Al suo interno il ministro Joseph Fouché e il suo successore Jean-Marie René Savary, organizzarono un bureau de consultation composto da intellettuali e uomini di lettere incaricati di coadiuvare il capo del dicastero nell’esercizio della censura. Entrarono a far parte di questa commissione, lo storico Pierre-Édouard Lemontey, il giornalista Lacretelle jeune, il commediografo Jean-Louis Brousse-Desfaucherets, il poeta Joseph-Alphonse Esménard e il vaude-villiste Charles-Joseph Laeillard D’Avrigni.

La competenza del ministero della Polizia in materia di censura teatrale e l’esistenza stessa di controlli preventivi sui copioni furono ufficializzate mediante decreto solo nel giugno . Perdurò invece un totale vuoto legislativo in materia di crimini e delitti commessi attraverso il teatro, lacuna che rendeva estremamente mobili i confini dell’azione della censura. Quest’ultima elaborò di fatto col tempo una propria giu-risprudenza, lasciando autori e compagnie privi di tutela contro le sue decisioni. Fu proprio con l’avvento dell’Impero che le procedure relative all’esame dei copioni si stabilizzarono. Circa quindici giorni prima della rappresentazione di qualunque lavoro teatrale, nuovo o anche appartenen-te al repertorio classico, gli amministratori delle sale di spettacolo erano tenuti a depositare presso il Bureau de la presse due copie manoscritte dei testi che intendevano portare sulla scena. Le copertine dei libretti ancora sconosciuti al pubblico, in particolare, dovevano riportare il nome del teatro proponente ma non quello dell’autore, precauzione volta a favorire l’obiettività dei giudizi resi dalla commissione d’esame. Ogni testo veniva letto da un solo censore che evidenziava gli eventuali passaggi da soppri-mere direttamente sul manoscritto, segnalando successivamente le pagine o le scene interessate da tali interventi sulla copertina. Al termine della sua analisi l’esaminatore, a nome dell’intero ufficio, stilava un rapporto destinato al ministro della Polizia. Il verbale, redatto sulla colonna destra di un foglio e controfirmato dal resto della commissione, comprendeva il riassunto della trama, un commento del censore e una proposta indirizzata al capo del dicastero. Costui poteva ricevere il consiglio di autorizzare la rappresentazione dell’opera in esame, di rilasciare tale permesso a condizione che l’autore vi apportasse delle modifiche, oppure di aggior-nare o negare tout court la messa in scena della pièce. Il rapporto così formulato passava poi nelle mani del ministro che apponeva la propria risposta e la firma sul lato sinistro del medesimo foglio. L’amministrazione conservava una copia sia dei libretti approvati senza inconvenienti, sia di quelli autorizzati in seguito a parziali modifiche eseguite dagli autori su richiesta della censura. L’archiviazione di tali documenti aveva due scopi: consentire a ogni mutamento della situazione politica interna o

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internazionale un riesame dei testi già autorizzati e verificare la confor-mità dei versi declamati dagli attori e delle copie stampate ai manoscritti definitivamente approvati dal ministro, riscontro affidato all’ispettore dei teatri, agli ufficiali di polizia e al personale addetto al controllo del settore librario. I testi respinti dall’amministrazione venivano invece restituiti agli autori, cosicché l’unica traccia del loro passaggio attraverso gli uffici di censura, e sovente della loro stessa esistenza, è costituita dai verbali contenenti i giudizi a essi relativi.

Espressione della società e del sistema politico-istituzionale da cui deriva, la censura si basa essenzialmente su un’attività interpretativa, la quale, nel caso della censura teatrale, coinvolge simultaneamente, come in un gioco di specchi riflessi, autore, attori, pubblico e censore. Fra gli ultimi tre soggetti, in particolare, esiste necessariamente una cultura, intesa nel senso più ampio del termine, condivisa: si tratta in sostanza di quel complesso di conoscenze ed esperienze che, seppure a livello superficiale, accomunano persone che si trovano a vivere in un luogo e in un momento storico dati. Il censore era appunto chiamato a prevedere, alla luce di questo bagaglio comune, le reazioni degli spettatori all’opera sottoposta al suo esame. Quest’analisi poteva e, in certi casi, doveva prescindere dal significato letterale del copione o dalle intenzioni dell’au-tore per privilegiare la rappresentazione teatrale dell’opera, vale a dire il momento in cui il pubblico veniva messo in condizione di appropriarsi del significato del testo recitato. Entro certi limiti di senso, infatti, l’in-terpretazione di un medesimo copione varia inevitabilmente nel tempo e secondo l’uditorio, sull’onda dei mutamenti politici, sociali, culturali e di costume o anche semplicemente dei fatti di cronaca che si consumano al di fuori del teatro. Il pubblico, facendo penetrare fra le pareti della sala la realtà esterna, finisce col sovrapporre la vita reale alla situazione fittizia evocata sulla scena. Sotto il profilo politico tale deformazione fa sì che il testo recitato possa, talvolta anche indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, risultare costellato da allusioni alla situazione contingente o apparire impregnato di un determinato ideale. Questo meccanismo s’innesca tanto più velocemente quanto più il pubblico è cosciente della rigorosità della censura. In mancanza di libertà d’espressione, infatti, i canali della critica e del dissenso debbono essere forzatamente traversi: mediante un lavoro d’interpretazione anche l’opera più futile o scevra di qualsiasi riferimento politico può divenire, in presenza delle giuste condizioni, veicolo di propagazione d’un argomento proibito.

Lo studio dell’attività degli uffici preposti al controllo dell’attività teatrale parigina in età napoleonica costituisce di fatto un’analisi della dinamica di questo circolo vizioso. Posti al servizio di un regime autocra-tico, i censori del cosiddetto Bureau de la presse erano infatti consapevoli

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di operare in un paese in cui le fratture politiche e ideologiche emerse durante la Rivoluzione erano tutt’altro che cancellate e in cui un’am-biziosa politica estera dava luogo a crescenti fenomeni di dissenso. Le applications, i riferimenti alle circonstances, ovvero la disposizione, parti-colarmente accentuata nel pubblico teatrale dell’epoca, a sovrapporre a fatti e personaggi storici o immaginari nomi e avvenimenti appartenenti all’attualità, finivano col costituire in queste condizioni il principale og-getto dell’attenzione degli esaminatori. Tale chiave interpretativa, infatti, se da una parte favoriva, o avrebbe potuto favorire, la ricezione da parte degli spettatori dei messaggi propagandistici contenuti nelle opere di circostanza, dall’altra parte rischiava di trasformare gli spettacoli in au-tentici cavalli di Troia suscettibili di colpire il governo e i valori portanti del regime sotto l’apparenza innocua della storia o della fantasia.

Dalla coscienza del fenomeno derivavano le contromisure adottate dai censori: accertata la compatibilità del titolo, della trama, dei personaggi, delle situazioni, della collocazione spazio-temporale e del senso allego-rico di ogni opera con le esigenze del regime e della bienséance, costoro procedevano a isolare le singole frasi, i singoli versi che comparivano sui copioni e, estrapolandoli dal contesto in cui erano inseriti, tentavano di individuarne tutte le possibili interpretazioni. Entrambe le analisi, quella focalizzata sul fond e quella concernente i détails di ogni testo, venivano eseguite tenendo conto non soltanto dei gusti, della cultura e della psicolo-gia del pubblico per il quale esso era stato pensato, ma anche dell’uso che le diverse troupes parigine erano solite fare dei margini di libertà concessi dalla recitazione. In sostanza, i criteri di giudizio venivano adeguati di volta in volta all’uditorio abituale, allo stile e alle esigenze delle singole compagnie operanti nella capitale.

Prima di esaminare alcuni documenti che ben esemplificano questo modo di procedere dei censori, occorre spendere qualche parola sul per-sonale che, durante l’Impero, eseguì concretamente l’analisi dei copioni destinati a essere rappresentati sui palcoscenici parigini.

Due aspetti emergono chiaramente dalle biografie dei membri della commissione d’esame. Il primo è la provenienza dall’orizzonte politico realista con una propensione verso la monarchia costituzionale, atteg-giamento esplicitato, durante la Rivoluzione e la Restaurazione, dagli esaminatori più impegnati sotto il profilo politico. Il secondo è la comune appartenenza di questi personaggi al novero degli uomini di lettere. Il lavoro di censore, infatti, contrariamente a quanto avverrà durante la Monarchia di Luglio, non s’identificava all’epoca con l’attività gretta di un burocrate anonimo che mortifica i frutti di talenti appartenenti a un mondo, quello dell’arte e della cultura, cui egli è totalmente estraneo. Al contrario, gli impiegati del Bureau de la presse erano esponenti di

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spicco di quel mondo e la loro attività, lungi dall’essere concepita come un’onta o un ripiego, costituiva spesso la premessa di ulteriori successi personali: elezione all’Institut o all’Académie, nomina a posti prestigiosi nei quadri dell’amministrazione, nelle redazioni dei giornali e nei teatri. Il potere, fedele a una prassi risalente al secolo dei Lumi, aveva scelto in effetti consapevolmente di reclutare un personale che potesse essere con-siderato un valido interlocutore dagli autori teatrali e ciò nella speranza, o meglio nell’illusione, che questi ultimi avrebbero accolto con minore risentimento le osservazioni di celebri colleghi piuttosto che quelle di oscuri impiegati.

Ai fini del nostro studio risulta poi di non poco interesse il fatto che diversi censori svolgessero un’attività parallela d’autori teatrali. Ciò faceva presumere in primo luogo una certa competenza nel campo della letteratura teatrale, ma anche la consapevolezza delle tecniche utilizzate da autori e attori per far vibrare le corde dell’uditorio, nonché una conoscen-za diretta dei gusti e della psicologia delle diverse tipologie di pubblico che era possibile riscontrare nei teatri parigini. Ma non è tutto: nella loro veste di censori, i membri della commissione d’esame si trovavano nella condizione migliore per far prevalere le proprie idee in materia teatrale e politica e, dunque, per ostacolare eventualmente l’emergere di autori, generi e pièces che disapprovavano o di cui temevano la concorrenza. Nel loro ruolo di scrittori, viceversa, essi rischiavano a loro volta di ve-dere le proprie opere impigliarsi fra le maglie della censura. L’eventuale parzialità degli esaminatori trovava tuttavia un limite nella supervisione del ministro della Polizia e dell’Imperatore, la quale spiega pure come si potesse verificare il paradosso dei censori censurati. La valutazione del capo della haute police e di Napoleone sui testi teatrali sottoposti a esame era infatti di natura essenzialmente politica. Essa si fondava, oltre che sull’intuito e sul pragmatismo dell’uomo di governo, anche sulla conoscenza dei diversi aspetti della realtà del paese acquisita mediante le fonti d’informazione ufficiali e occulte di cui si avvaleva il potere per ottenere un quadro aggiornato di tutti quei fatti e avvenimenti che non avevano diritto di asilo in una stampa periodica costretta da una rigorosa censura a presentare l’immagine di una Francia tranquilla, prospera e unita intorno alla figura quasi mitica di un capo geniale. Ne derivava talvolta una discrepanza fra i criteri di giudizio utilizzati dagli uomini di lettere ingaggiati dalla polizia e quelli cui facevano ricorso i due vertici della censura politica. Tale diversità di vedute poteva, a seconda dei casi, tradursi in un’attenuazione del rigore dei pareri espressi da censori troppo zelanti o, viceversa, nella proibizione di lavori teatrali giudicati in un primo momento innocui dagli esaminatori del Bureau de la presse.

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L’attività della commissione d’esame

nelle fonti degli Archivi nazionali di Parigi

Lo scopo primario dei controlli esercitati dal Bureau de la presse sull’at-tività teatrale era quello di spuntare le armi degli oppositori del regime napoleonico, eliminando parimenti dai copioni qualunque elemento ca-pace di suggerire l’immagine dell’antica dinastia regnante e delle fazioni politiche di origine rivoluzionaria. Il rischio da prevenire era costituito dal verificarsi di fenomeni di riconoscimento e di raggruppamento poli-tico nel corso degli spettacoli, fenomeni che potevano sfociare in aperte manifestazioni di dissenso. A un episodio di tal sorta aveva dato luogo, a esempio, il dramma di Alexandre Duval, Édouard en Écosse, rappresen-tato presso il Théâtre-Français nel . La pièce, incentrata sulla figura di un erede degli Stuart perseguitato e costretto alla miseria, era stata prima approvata dalla censura e successivamente proibita per ordine espresso del Primo Console, il quale aveva avuto occasione di consta-tare personalmente come il pubblico realista ne avesse strumentalizzato alcuni passaggi per manifestare in maniera plateale la propria fedeltà ai Borboni in esilio. L’autore, travolto dagli avvenimenti, si era eclissato in Russia per un anno, per poi riconciliarsi nuovamente con il governo al suo ritorno in Francia.

Passarono sei anni da quel burrascoso esordio di Édouard, prima che il Théâtre-Français prendesse l’iniziativa di compiere le formalità necessarie per riabilitare l’opera di Duval. Nonostante il lungo intervallo di tempo, i membri del Bureau de la presse non avevano dimenticato l’errore di valu-tazione compiuto dai loro predecessori durante il Consolato. Ne derivò un rapporto di censura pieno di riserve, nel quale la consapevolezza che il significato della pièce era stato in passato monopolizzato dai legittimisti si accompagnava alla fiducia nel consolidamento del regime napoleonico dopo otto anni di stabilità interna e di successi militari: «Convient-il en-core – domandarono gli esaminatori al ministro – d’exciter sur la scène un vif intérêt en faveur d’un prince proscrit qui expose ses jours pour remonter sur le trône de son aïeul? D’un autre coté, un gouvernement ferme et puissant en abandonnant ces intrigues romanesques aux amu-sements du théâtre ne donne-t-il pas un témoignage utile de sa force et de son assurance? Ce sont là des questions que l’autorité suprême peut seule peser et résoudre». L’autorità suprema, nella persona di Fouché e probabilmente dello stesso Imperatore, preferì esimersi dal sondare fino a che punto il regime napoleonico godesse di un autentico consenso e aggiornò la rappresentazione di un’opera che continuava evidentemente a essere percepita come una miccia capace di rinfocolare passioni sopite,

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ma pur sempre presenti e minacciose. I timori legati al possibile ritorno del prétendent furono pure all’origi-

ne del rifiuto, nell’aprile , del melodramma Tulican ou Les Tartares. La pièce narrava le imprese di un guerriero mongolo che perveniva a conquistare, grazie alla forza del suo esercito, il trono dell’impero ci-nese. Alla figura dell’usurpatore, difficilmente ammissibile sulle scene francesi del periodo napoleonico, si aggiungevano in questo copione dettagli e passaggi allarmanti agli occhi della censura. L’amore del pro-tagonista per la figlia dell’imperatore cinese decapitato, il desiderio di vendetta dell’erede legittimo, la finale abdicazione del conquistatore e la conseguente rivolta dei suoi soldati, rischiavano segnatamente di far dimenticare la collocazione spazio-temporale della vicenda narrata, in favore di un’interpretazione politica del melodramma poco rassicurante per il governo. La pièce capitò infatti nelle mani dei censori cinque giorni dopo il matrimonio fra Napoleone e la figlia dell’Imperatore d’Austria, paese che aveva subito, nel , l’invasione degli eserciti francesi. A questi recenti avvenimenti si sommava l’esistenza di un erede legittimo al trono di Francia e di un partito, quello realista, per il quale notoria-mente la parola usurpateur designava ormai un individuo ben preciso: Napoleone Bonaparte.

L’intervento della censura non si abbatteva tuttavia indiscrimina-tamente su ogni riferimento alla monarchia. Se i personaggi di sovrani stranieri venivano esaminati soprattutto sulla base del ruolo che essi giocavano nelle pièces, la rappresentazione di re francesi era valutata in primo luogo sotto il profilo della collocazione temporale. Più si andava indietro nella storia nazionale, più ci si allontanava dunque dal regno della dinastia borbonica, minori apparivano i rischi connessi alla loro rievocazione. Nel , a esempio, i censori difesero l’integrità di un copione nonostante esso contenesse una scena nella quale un sovrano francese del XIII secolo, Filippo Augusto, veniva accolto dal popolo festante con l’esclamazione «viva il re!». «Le bureau, qui a cru devoir appeler l’attention de Son Excellence sur cette circonstance, – riferì al ministro l’esaminatore del lavoro teatrale – croit aussi devoir lui obser-ver […] que Philippe Auguste, quoique remarquable dans la dernière dynastie, ne produit pas cependant des souvenirs bien profonds et bien puissants; que dans cette pièce il n’est pas le premier objet de l’intérêt et de l’action, qu’il n’est en quelque sorte que secondaire, et employé pour le dénouement et que l’éclat qui l’environne est dû plutôt à son titre qu’à sa personne».

Se il regime non consentiva che i teatri si trasformassero in strumenti di propaganda per i successori legittimi di Luigi XVI, ciò non vuol dire che la dignità reale e imperiale potesse essere deliberatamente oltraggiata

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sulle scene. Già alla vigilia della proclamazione dell’Impero, lo stesso Napoleone, in cerca di legittimità e di consensi, aveva caldeggiato la proliferazione d’opere teatrali che sostituissero ai tiranni sanguinari delle rappresentazioni in voga durante la Rivoluzione, re circondati da un’aura di saggezza e d’eroicità. L’idea di Bonaparte era che non si dovesse «por-tare sulla scena un re di Francia se non per farlo ammirare» e a questa direttiva si attennero i censori nell’esame delle opere teatrali.

Un’idea di quali fossero nella concezione dei censori le situazioni teatrali lesive della maestà reale, è fornita dal rapporto stilato il aprile a proposito della pièce Françoise de Foix, nella quale veniva attribuito al re Francesco I il progetto poco edificante di sedurre una dama per far dispetto al gelosissimo marito: «Les Rois – puntualizzarono gli esaminatori – ne sont guère du domaine de la comédie. L’aspect familier sur lequel on est obligé de les y montrer, blesse les idées de Majesté qu’il est important de maintenir. Ils n’y peuvent paraître que pour amener un dénouement comme les Dieux le font à l’Opéra. Cet inconvénient se fait surtout sentir dans une pièce où un Roi est entraîné par un caprice dans une intrigue galante qui montre toujours l’adultère en perspective. Les auteurs, il est vrai, ont fait beaucoup d’efforts pour sauver cette inconvenance morale. Il faudrait un excès de rigorisme pour condamner cette intrigue, si elle se passait entre des particuliers. Mais le personnage qu’on y fait figurer, le rend impraticable sur la scène».

Lo stesso esito sortì l’analisi di Vespasien dans l’île de Chypre, me-lodramma nel quale, a detta dei censori, la deferenza dovuta al titolo e al prestigio dell’Imperatore romano protagonista della storia, veniva messa in discussione da una trama che lo vedeva «dégradé, avili sur tous les rapports de chef de l’empire, de mari, de grand homme». La tutela della dignità reale comportava che anche nella finzione del teatro gli attentati all’incolumità di un sovrano dovessero essere puniti in maniera esemplare, come indica il rapporto redatto nel a proposito de La Jeunesse de Clovis le Grand, un melodramma nel quale il protagonista veniva segregato in un pozzo dal fratellastro e dal duca d’Aquitania allo scopo di ostacolarne l’ascesa al trono. I censori reclamarono la morte per i personaggi dei due traditori, contestando la clemenza dell’autore che aveva ritenuto sufficiente a soddisfare le esigenze della giustizia la sola rappresentazione del loro arresto. «Nous avons pensé: – riferirono al ministro – que l’arrestation des deux scélérates coupables de lèse-majesté ne suffisait pas à la morale de la pièce et que leur mort soit volontaire, soit légale était rigoureusement nécessaire».

Se la vigilanza della censura sui testi teatrali nei quali figuravano teste coronate aveva il doppio scopo di eliminare qualunque appiglio favorevole all’opposizione legittimista e di salvaguardare il prestigio del titolo di cui

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Bonaparte era investito, i riferimenti al decennio rivoluzionario e alle sue premesse culturali erano in ogni caso affrontati col massimo rigore dalle autorità. Tale fu, a esempio, il commento della commissione d’esame all’iniziativa del Théâtre-Français di riproporre Brutus, la celeberrima tragedia di Voltaire che tutti i teatri di Parigi avevano rappresentato una volta alla settimana durante il Terrore per ordine del governo: «L’en-semble de l’ouvrage est triste et douloureux […]. Le patriotisme, ou plutôt la férocité de Brutus font frémir. Nos mœurs douces et sensibles sympathisent mal avec cette affreuse rigueur. La représentation de cette pièce ne peut qu’augmenter le dégoût des Français pour ces cruels essais de républicanisme où il furent malheureusement précipités».

Lemontey, autore del rapporto e antimontagnardo convinto, vedeva nell’artefice della cacciata dei re Tarquini non un eroe, ma uno spauracchio utile ad accrescere l’attaccamento del pubblico all’uomo che aveva saputo porre fine alla guerra civile che aveva dilaniato la Francia per dieci anni. L’ex giacobino Fouché preferì invece vietare uno spettacolo che rischiava, evidentemente, di divenire un’occasione di aggregazione per un’opposi-zione repubblicana ch’egli sapeva ancora viva e attiva nel paese.

Bruto, è facile intuirlo, non fu l’unico personaggio costretto a disertare le scene parigine con l’avvento del regime napoleonico. Gli eroi repub-blicani, tanto celebrati dal teatro rivoluzionario, non ebbero più diritto di parola sui palcoscenici dell’Impero, come testimonia il rapporto stilato nel a proposito della pièce Hugo Grotius: «Il s’agit d’un prisonnier d’État, écrivain d’un grand nom et d’un grand mérite – scrisse il censore con non celata ammirazione – emprisonné pour avoir lutté, dans une république, contre l’autorité naissante du prince, et pour avoir défendu la liberté illimitée des opinions politiques et religieuses […]. La pièce – concluse l’esaminatore – […] paraît devoir être éloignée de la scène du moins pour quelque temps. On en éloigne bien Brutus, La mort de César, Rome sauvée, et d’autres ouvrages, dignes de la plus haute admiration, et qui ne présentent d’autre inconvénient que la nature même du sujet».

Il copione del dramma L’Indigent, che l’Odéon sottopose a esame nel , fornì, al pari di Brutus, l’occasione ai censori di scagliarsi contro la “setta” dei philosophes, additata come autentica ispiratrice e responsabile della Rivoluzione: «Le drame dont nous rendons compte a Son Excellence – esordirono nel loro rapporto gli esaminatori – appartient à cette école de fausse comédie fondée par La Chaussée et dénaturée depuis par des déclamateurs soi-disant philosophiques […]. Le fond ne nous a paru rien offrir de répréhensible, mais le dialogue en est tellement infecté de ces prétendues sentences dramatiquement emphatiques, moralement licencieuses, politiquement extravagantes et philosophiquement incen-diaires, qui pendant le dernier siècle ont corrompu les esprits dans les

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classes inférieures du peuple et préparé la subversion de l’état social que nous n’avons pas hésité à supprimer comme dangereux tous les passages indiqués». Il ministro Savary fu ancor più drastico dei suoi mèntori e scarabocchiò in margine al rapporto la seguente sentenza: «Refusé. Cela ne peut que produire un mauvais effet».

La guerra e i rapporti con le potenze straniere avevano costituito l’elemento fondante del regime napoleonico e fu sempre sui campi di battaglia che Bonaparte dovette giocarsi, durante i suoi quindici anni di governo, la permanenza al potere. Queste premesse facevano sì che fra gli argomenti affrontati con maggiore cautela dalla censura napoleonica figurassero proprio la guerra e le relazioni della Francia con le altre potenze europee.

Il mito dell’invincibilità degli eserciti napoleonici, mito sul quale poggiava l’autorità dell’Imperatore, non consentiva in particolare di alludere in teatro alla transitorietà della gloria militare e alla precarietà delle posizioni di forza nate dalla guerra. Il copione intitolato L’Habit de Catinat, sottoposto a esame nel luglio da Maurice Ourry e Jean-Toussaint Merle, fu, a esempio, accolto favorevolmente dai censori: «Il y a dans ce vaudeville – affermarono – beaucoup d’hommages rendus à la valeur française». Nondimeno da questo testo fu depennato un passaggio giudicato inopportuno:

Manfredi: De la guerre une longue étude / Décida vos nouveaux succès; / Et du triomphe l’habitude / Augmente aujourd’hui vos regrets. / Mais à son tour chacun réclame / L’amour d’un objet inconstant. / La victoire, puisqu’elle est femme / Peut quelquefois changer d’amant.

La frequenza delle campagne di guerra, la coscrizione obbligatoria, la perdita di vite umane sui campi di battaglia europei, rappresentarono per i francesi una realtà drammatica durante il periodo napoleonico. Le esigen-ze della politica estera di Bonaparte erano d’altro canto incompatibili con la diffusione fra la popolazione di un ideale pacifista o di riflessioni sulle conseguenze dolorose della guerra: era dunque ovvio che anche la censura teatrale venisse chiamata a fare la sua parte nel prevenire interventi di tal genere. Nel , a esempio, la tragedia del conte di Selve, Vitellie, fu in più punti decurtata, non solo perché offriva la visione (quasi profetica) della patria invasa e martirizzata da eserciti stranieri venuti per combattere un imperatore assetato di potere, ma anche perché la storia del prota-gonista, un capo militare divenuto sovrano assoluto grazie al sostegno dell’esercito, presentava evidenti analogie con l’avventura napoleonica. Al fine di attenuare tale somiglianza, i censori soppressero un passaggio che si prestava facilmente a essere letto come un’allusione al passato recente

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della Francia e ai rischi connessi all’ambizione di Bonaparte:

Helvidius a Vitellie: Ce n’est que de nos jours, depuis que les destins ont du joug de Neron delivré les Romains; depuis moins de deux ans, que du fond des provinces les soldats révoltés nous ont donné des princes; Galba, Vindex, Othon, Vespasien et vous, l’un de l’autre ennemi, l’un de l’autre jaloux, vous couvrez l’Italie et de sang et de crimes; ceux-là sont déjà morts, effroyables victimes d’un désir téméraire, autant qu’ambitieux. Voulez-vous imiter leur malheur à nos yeux? Sous les murs, dont l’enceinte à peine vous protège, voulez-vous essayer un combat sacrilège? Exposer la patrie au courroux des vainqueurs? attirer en son sein la guerre et ses fureurs? Abandonner la ville et ses temples aux flammes? Peut-être voir périre nos familles, nos femmes et tout ce qu’aux mortels les dieux ont rendu cher? Ah! Plutôt qu’à nos cris vous vous laissiez toucher!

Più aumentavano i sacrifici e le vittime imposti dalle guerre, più si allar-mavano i censori. Nel novembre , a esempio, nel momento stesso in cui centinaia di soldati francesi morivano di fame e di freddo sul suolo russo, essi ritennero opportuno cancellare dall’opéra-comique di Sewrin, L’Héritier de Pimpol, la battuta di un servo brontolone che la perdurante lontananza dei . uomini mobilitati per l’ultima campagna rischiava di trasformare in una protesta contro l’Imperatore:

Pierre, valletto, al suo padrone Hyppolite: Quitter une province / Où je vivais en prince, / Pour venir avec vous / Dans un pays de loups! / Faire très maigre chère, / Ne pas boire son sou, / Marcher la nuit entière, / Et se casser le cou! / Ah monsieur!… Ah Monsieur!… Il faut être bien fou!

Le relazioni della Francia con le diverse potenze europee costituivano un altro terreno sul quale i membri del Bureau de la presse dovevano muo-versi con circospezione. Se tali rapporti erano d’ostilità, come lo furono durante tutto il regime napoleonico quelli con l’Inghilterra, la censura teatrale era pronta a eliminare dai copioni qualunque elemento capace di far apparire sotto una luce positiva il nemico. Non stupisce dunque che dal testo della commedia Edgard, sottoposta a esame nel novembre del , siano spariti i seguenti versi:

Ema a Edgard, re d’Inghilterra: Le héros de l’Angleterre est aussi galant que valeureux. Air: Au champ d’honneur votre bras belliqueux / a recueilli le prix de la vaillance. / Au champ d’amour votre nom glorieux / de plus d’un cœur a troublé l’inno-cence. / Continuez, preux chevalier: / un double succès vous appèle; / Cueillez le myrte et le laurier / pour la gloire et pour votre belle.

Se era proibito elogiare l’Inghilterra sui palcoscenici, gli attacchi e le

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critiche contro questa nazione erano accolti con particolare favore dagli esaminatori, come dimostra il rapporto relativo alla pièce Les Trois Mou-lins: «Cette allégorie – commentò il censore – est très simple, et il fallait ainsi pour le genre de spectateurs à qui elle est destinée. Il y a autant plus d’esprit que de gaîté et la pluie de sarcasmes qui tombe sur les Anglais est très vive».

I mutamenti di alleanze, i cambiamenti di fronte, costituivano altret-tante complicazioni per l’ufficio di censura. Il caso della Svezia e della Russia può servire da esempio: divenuti potenze amiche della Francia dopo la vittoria di Napoleone sulla quarta coalizione, i due paesi si erano trasformati, nel , in strenui avversari dell’Imperatore.

Particolarmente indicativi dell’influenza esercitata da tali cambiamen-ti della politica estera sui giudizi dei censori sono i due rapporti redatti rispettivamente nel dicembre del e nell’ottobre del a proposito di una stessa pièce, Marguerite de Waldemar. In quest’opéra-comique l’omonima regina danese vissuta a cavallo fra il XIV e il XV secolo veniva indotta dal suo amore per un generale dell’esercito regio a sbarazzarsi della moglie di costui facendola rinchiudere in prigione. Alla fine della storia i protagonisti fronteggiavano una congiura ordita da un gruppo d’aristocratici svedesi intenzionati a emancipare il proprio paese dall’in-fluenza danese. La regina, salvata dalla coppia che aveva perseguitato, domandava perdono in una scena di riconciliazione generale. Il rapporto stilato a proposito di questo copione nel si concludeva con la pre-cisazione che l’autore, su consiglio della commissione di censura, aveva provveduto ad attribuire all’arresto della moglie del generale una par-venza di giustizia, onde evitare che un provvedimento arbitrario, dettato esclusivamente dalla gelosia, rendesse odioso agli occhi del pubblico il personaggio della sovrana. I censori si erano poi limitati, al termine di questo primo esame, a domandare altri lievi ritocchi al copione in vista del rilascio di un’autorizzazione definitiva.

Ma, nel , i rapporti fra la Francia e la Svezia non erano più quelli di un anno prima: schierandosi a fianco della Russia, il maresciallo francese Bernadotte, dal successore designato al trono svedese, aveva infatti scelto apertamente di stare nel campo degli avversari di Napoleone. Quando, nell’ottobre di quell’anno, i censori si ritrovarono fra le mani la versione corretta di Marguerite de Waldemar, dovettero constatare che la situazione internazionale rendeva necessario un nuovo approccio al testo. A destare le preoccupazioni degli esaminatori era soprattutto il riferimen-to a un complotto svedese: «Une mention quelconque de la Suède dans les circonstances actuelles – scrissero nel loro rapporto al ministro – nous a paru avoir de l’inconvénient. Son Excellence saura bien mieux juger que nous des considérations politiques qui nous arrêtent». La proposta

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di aggiornare la rappresentazione della pièce, originata probabilmente dalla necessità d’evitare durante lo spettacolo commenti sulla condotta del maresciallo Bernadotte e sulla politica estera dell’Imperatore, venne approvata dal ministro ed entrambe le copie manoscritte dell’opera furono restituite all’autore.

L’inizio del conflitto con la Russia e la Svezia provocò di fatto un riesame sistematico di tutti i testi in cui si faceva menzione dei due paesi. In quest’opera di revisione il Bureau de la presse fu agevolato da diversi collaboratori volontari. Onde prevenire l’intervento della censura repres-siva sulle repliche dei loro lavori teatrali, gli scrittori che un tempo si erano ispirati alla storia delle due ex alleate della Francia, si affrettarono infatti in molti casi ad adattare i propri copioni alle nuove circostanze.

La reazione simultanea della censura e degli autori di fronte ai mu-tamenti intervenuti nei rapporti con la Russia e la Svezia è ben illustrata dalla vicenda della pièce Le Triomphe des Femmes. Il copione di questo lavoro teatrale portava originariamente il titolo Charles XII in omaggio all’omonimo re svedese, ed era stato sottoposto nell’inverno del alla commissione d’esame che aveva preteso dall’autore alcune modifiche. Il rapporto stilato il dicembre a proposito della nuova versione dell’opera ci informa che, proprio in quei giorni, i censori avevano rice-vuto dal ministro della Polizia l’incarico di riesaminare diversi copioni contenenti dei riferimenti alla Russia e che la situazione internazionale aveva indotto il Bureau de la presse a bandire parimenti dai palcoscenici le pièces ispirate alla storia del regno di Svezia. Dando prova di lungimi-ranza, l’autore di Charles XII aveva tuttavia provveduto, nell’intervallo di tempo trascorso fra il primo e il secondo esame del copione, a modificare di propria iniziativa titolo, personaggi e ambientazione dell’opera. «L’au-teur […] – riferirono i censori al ministro – a choisi son héros parmi les Polonais. Jean Sobieski, le libérateur de Vienne, a été substitué dans son plan à Charles XII […] En choisissant un héros polonais l’auteur de cet opéra, M. Emmanuel Dupaty, a conçu qu’il lui serait possible de faire quelques allusions soit au caractère généreux de cette nation, soit à nos derniers succès».

Una delle principali funzioni della censura in un paese caratteriz-zato da un regime dittatoriale è quello d’impedire che le istituzioni e le alte autorità siano esposte alle critiche o alla derisione del pubblico. La commissione preposta all’esame delle opere teatrali durante l’Impero non si sottrasse a tale compito. I membri del Bureau de la presse, occorre ricordarlo, erano impiegati del ministero della Polizia; non deve dunque stupire che tutti i riferimenti a quest’istituzione venissero considerati con particolare attenzione dalla censura. Simili precauzioni non erano immotivate: sotto la direzione di Fouché e di Savary la polizia aveva as-

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sunto le caratteristiche di un potere temibile, invadente, per molti aspetti arbitrario, che non godeva affatto delle simpatie della popolazione.

La necessità di tutelare la rispettabilità della polizia e dei suoi agenti indusse a esempio gli esaminatori a esigere delle modifiche nel testo della commedia di Jean-Toussaint Merle e Nicolas Brazier, Le Petit Fifre ou La Noce Flamande. In questa pièce alcuni ufficiali di polizia sulle tracce di un assassino, venivano indotti a ubriacarsi dai complici del ricercato, facilitandone così la fuga. «Les spectateurs – commentarono i censori – pourraient croire qu’on livre au ridicule et qu’on leur présente comme des hommes odieux les officiers et les soldats de Maréchaussée. Il se présenterait un autre inconvénient si ces prétendus exempts étaient remplacés par des agents de la police qui seraient bafoués de la même manière». Per ovviare a queste difficoltà, la commissione d’esame pro-pose al ministro d’invitare l’autore a sostituire gli ufficiali di polizia con i servitori del nobiluomo ucciso per mano del fuggitivo, consiglio che venne puntualmente seguito.

Anche le facili ironie sulla perenne sospettosità della polizia e su comportamenti poco edificanti dei suoi membri non potevano incontrare il favore dei censori. Questo spiega la cancellazione di un’aria apparen-temente priva d’interesse dalle pagine della folie Monsieur Pataut ou La Journée Vénitienne:

M. Dindoni: C’est moi qui fait la police.Air: Chaque habitant de la ville / grâce à mes soins est tranquille. / Des voleurs, des filous / je suis chargé de les garder tous / Et dans ma prudence extrême / je commence par moi-même / Je suis sans pitié pour les voleurs, / et si je me surprenais / la main dans la poche d’un autre / je me ferais arrêter.

La polizia non era l’unica istituzione a dover temere il giudizio del pub-blico: anche l’amministrazione della giustizia, fortemente condizionata com’era dalle ingerenze del governo, lasciava adito alle critiche e alle proteste. Era dunque naturale che i censori tentassero d’evitare la rap-presentazione di testi capaci di mettere in dubbio l’imparzialità e l’auto-revolezza dei magistrati. È utile ricordare, a tale proposito, il rapporto di censura concernente la pièce Les Amans Généreux, sottoposta dall’Odéon nel . Questo lavoro teatrale intendeva narrare la drammatica vicenda di un maggiore prussiano colpito da false accuse e costretto a provare la propria innocenza. «Un grand intérêt se réunit sur sa personne – segna-larono gli esaminatori a proposito di questo personaggio –. S’il arrivait qu’en effet quelques généraux français fussent traduits en jugement, il serait possible que plusieurs passages de cette pièce fussent détournés par des allusions où la malignité aurait plus de part que la justice. La prudence ordonne qu’on s’abstienne de cette épreuve». I censori avevano

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forse sentito riecheggiare nelle loro menti le polemiche sollevate nel dal processo celebrato contro i generali Pichegru e Moreau e il realista Cadoudal, accusati d’aver ordito con la complicità del governo inglese una congiura volta a riportare sul trono di Francia un Borbone. Conclusosi con la misteriosa morte in cella di Pichegru, l’esilio di Moreau e l’esecuzione di Cadoudal, il processo aveva diviso l’opinione pubblica francese, già scossa dalla fucilazione del duca d’Enghien, il principe borbonico di cui era stato sospettato, ma non provato, il coinvolgimento nel complotto.

Ogni riferimento all’iniquità dei magistrati o alle tare del sistema giudiziario, in qualunque contesto si trovasse, veniva soppresso dagli esaminatori. Così, a esempio, nella commedia Monsieur Dulitige, che rac-contava le disavventure d’un ricco borghese cui una sentenza sottraeva i beni in favore del fratello, i censori cancellarono questi brevi passaggi:

La Pierre, valletto di M. Dulitige: La justice, Monsieur, fait bien des injusti-ces…M. Dulitige: Si je perds cette nouvelle cause, je publie un pamphlet qui n’est point à l’eau rose: et là, juges, greffiers, huissiers et procureurs seront peints dépouillant à l’envi les plaideurs […].

La censura era altrettanto vigile nel difendere l’autorevolezza di un’isti-tuzione, che nel preservare la reputazione e la rispettabilità di singoli titolari di cariche di rilievo. Era dunque vietato agli autori attribuire a personaggi teatrali, soprattutto se ridicoli o poco edificanti, i cognomi di persone in vista quali, a esempio, i membri dei massimi organi dello Stato, dell’amministrazione, della diplomazia e della nobiltà. La sola menzione di una carica prestigiosa in un contesto giudicato non appro-priato, poteva essere causa di un intervento censorio. Ne è un esempio il rapporto concernente la pièce Constance et Théodore. L’autore di questo lavoro teatrale, precisarono i censori, aveva indicato nel preambolo del suo manoscritto che la storia narrata si svolgeva nella Mantova del XVIII secolo ma, di fatto, tali coordinate non erano in alcun modo desumibili dal dialogo dei personaggi. Una maggiore chiarezza circa il tempo e il luogo dell’azione era tanto più auspicabile agli occhi degli esaminatori, in quanto la trama prevedeva la commissione di un abuso di potere da parte di un ministro: «Comme l’emprisonnement d’une femme pour n’avoir pas voulu épouser le fils d’un ministre n’est point dans les habitudes du gouvernement français, – precisarono i censori – il est bon de ne pas laisser incertain le lieu de la scène».

Ancor più cauto era il Bureau de la presse quando le opere sottoposte al suo esame rischiavano di evocare, seppure in maniera involontaria, gli stessi componenti della famiglia imperiale. È quanto emerge dal verbale

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redatto a proposito de Les Sœurs de la Charité, una storia nella quale una principessa decideva di prendere i voti dopo aver assistito un infortunato in un convento di suore. «La scène est à Paris; – riferirono gli esaminatori – rien n’annonce qu’elle se passe à une époque antérieure à la notre, le personnage et le caractère de la princesse sont purement de fantaisie. Cependant on ne peut se dissimuler que la qualité de princesse repose maintenant sur un nombre de têtes tellement circonscrit, qu’on ne peut plus la considérer comme une de ces dénominations générales qui ap-partiennent au théâtre sans inconvénient et sans allusion». Ora, il titolo di principessa competeva alle sorelle dell’Imperatore, Elisa e Paolina, le cui avventure galanti erano sulla bocca di tutti. Il testo in esame era destinato al popolare Théâtre des Variétés, ragione di più per temere che la pièce esponesse queste auguste persone alla maldicenza e agli scherni del pubblico. Fu così che la protagonista della storia, su consiglio del Bureau de consultation, venne degradata a marchesa.

La repressione degli abusi dell’immagine dei privati cittadini era tuttavia un principio che la censura poneva, di fatto, a tutela anche della gente comune, come testimonia un rapporto concernente una pièce nella quale comparivano i gestori di un noto caffè parigino: «Jamais – sottoli-nearono gli esaminatori – le Bureau de la Presse n’eut proposé d’autoriser une représentation où des particuliers sont mis en scène, quoique d’une façon qui n’est point injurieuse. L’auteur, qui a prévu cette difficulté, a rapporté le consentement de la partie intéressée».

I riferimenti alla vita quotidiana della popolazione e ai fatti di cronaca avevano anch’essi un posto importante fra gli argomenti che i censori erano tenuti a considerare con attenzione. Tutti i canali della propaganda napoleonica, giornali in testa, avevano infatti il compito di accreditare l’immagine di un paese tranquillo, prospero e unito da un sentimento di riconoscenza intorno alla figura dell’Imperatore. Queste accortezze non servivano tuttavia a evitare la percezione da parte della popolazione di disagi e difficoltà e non ingannavano i lettori coscienti dell’inattendibilità e della parzialità della stampa periodica. Un esempio del modo di proce-dere dei censori nei confronti di lavori teatrali che ponevano l’accento sui problemi maggiormente avvertiti dalla popolazione, è fornito dal rapporto stilato nell’aprile del a proposito del manoscritto intitolato Les Dieux Pèlerins. In quest’opera Mercurio e Amore venivano condannati dal dio Giove a restare sulla terra fino a quando non avessero trovato un regno felice e ben governato. Dopo aver lungamente viaggiato senza esito, i due si ritrovavano a Parigi, nella fastosa cornice degli Champs-Élysées. Persuasi di aver finalmente trovato il luogo idilliaco tanto cercato, Mercu-rio e Amore venivano però subito disillusi dalle testimonianze dei locali: «Par malheur – riferì l’esaminatore del copione – il ne se présente à eux

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que des mécontents, un poète dont on a supprimé la satyre, une lingère qui n’aime pas le sucre de raisin et que ruinent les nouvelles modes; un procureur à qui le code a rongé les ongles; une jeune fille dont l’amant est à la guerre». Nel finale della pièce l’autore aveva goffamente tentato di rimediare alla cattiva piega assunta dalla trama, rappresentando entusiasti e felici i parigini insoddisfatti delle scene precedenti, pur senza fornire al pubblico una spiegazione plausibile di tale mutato atteggiamento. In-curante di questa illogicità, lo scrittore aveva concluso la propria opera con il ritorno dei protagonisti nell’Olimpo. Dal canto suo, il censore non mancò di percepire i rischi insiti nelle lacune di questa trama: «On sent d’abord combien cette conception est fausse – affermò – et si quelquefois on peut introduire un mécontent dans une pièce où ce contraste amène un éloge plus piquant et plus varié, il est bien peu sensé de fonder toute une pièce sur ce moyen épisodique […]. Les bonnes intentions de l’au-teur ont été trompées». L’ovvia conseguenza di questo giudizio, fu la proibizione di un testo che si soffermava di fatto su alcuni dei punti di maggiore debolezza del regime: la negazione della libertà d’espressione, con l’inevitabile corollario della censura (istituzione che il verbale appena citato include implicitamente fra gli argomenti vietati), gli effetti dannosi del blocco continentale e la ricorrenza delle guerre. In quell’anno la Francia stava inoltre attraversando un periodo di grave recessione economica e la pièce conteneva argomenti tali da strappare delle proteste persino al pubblico benestante del Théâtre de l’Odéon, a quei notabili cioè, che cominciavano proprio allora a avvertire chiaramente come i loro interessi non coincidessero più con quelli del regime napoleonico.

Durante l’Impero il governo non limitò le proprie ingerenze nel cam-po della stampa periodica alla censura, ma creò anche le condizioni per imporre ai principali esponenti di questo strumento di comunicazione una totale dipendenza dallo Stato, al fine di ottenerne una più completa sottomissione politica. È dunque naturale che il potere fosse interessato a difendere, anche attraverso la censura teatrale, la credibilità e il seguito di pubblico dei periodici che utilizzava per scopi propagandistici. Ecco, a esempio, quale fu l’obiezione sollevata dagli esaminatori a proposito della pièce Le Charme de la Voix: «Elle n’offre d’autre aliment à la cen-sure qu’un passage qui tendrait mal à propos à discréditer le Journal du Mercure dont le gouvernement fait les frais».

Un’attenzione tutta particolare era poi riservata a salvaguardare da distorsioni o violazioni i principi ispiratori del Code Napoléon, lo strumen-to cui era affidato il compito di regolare la struttura stessa della società, l’opera più grandiosa del regime. Il fatto che il governo pretendesse che tali principi venissero rispettati anche nella finzione delle opere teatrali è testimoniato dal rapporto redatto nel a proposito della commedia

LA CENSURA TEATRALE A PARIGI IN ETÀ NAPOLEONICA

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Les Projets de Divorce. L’autore di questo copione aveva imprudente-mente inserito nella trama un passaggio nel quale si lasciava intendere che la lettera di un ministro fosse sufficiente a sciogliere un matrimonio. I censori si guardarono bene dal lasciar passare allo scrittore una simile inesattezza: «Le Bureau de la presse – riferirono al ministro – lui a fait représenter qu’il y avait de l’inconvenance à calomnier si grossièrement notre Législation sur le divorce et à le faire dépendre d’un acte si arbi-traire. L’auteur d’après cet avis, a renoncé à ce mauvais moyen».

La disciplina del divorzio, come l’intero codice che la conteneva, era improntata al principio della subordinazione assoluta della moglie al marito e più in generale della donna all’uomo. Si trattava di un’impo-stazione che ricalcava la concezione che Napoleone stesso aveva della famiglia, dell’autorità paterna e del ruolo femminile; non stupisce dunque che alla letteratura e al teatro non fosse consentito proporre modelli ed esempi capaci di mettere in discussione tale visione dei rapporti uomo-donna. Questo spiega la soppressione di un’aria del vaudeville Louise Charly ou Le Capitaine Loys, brano che l’autore pensava di far cantare alla protagonista, una sorta d’amazzone decisa a rifiutare il matrimonio per dedicarsi ad attività tipicamente maschili quali la guerra e la poesia: «Retenant en vain leur ardeur / On restreint les femmes à plaire. / Devant elles parfois l’honneur / Ouvre une plus noble carrière / comme sous les drapeaux d’amour / Sous les étendards de la gloire / La France les vit à leur tour / Enchaîner souvent la victoire». Alla condanna di una scelta di vita considerata contraria alla morale e all’ordine sociale, si aggiungeva senz’altro nella mente dei censori la riprovazione per l’accenno presente in questi versi alla Pulzella d’Orléans, l’eroina dall’incrollabile fede monarchica le cui gesta ispirarono, non a caso, numerose opere teatrali nell’età della Restaurazione.

Se il regime difendeva lo stereotipo della donna madre e moglie docile e sottomessa, il contrario avveniva per il cliché del francese frivolo e ma-nieroso. L’immagine della Francia patria della leziosità e della galanteria contrastava infatti con l’esigenza del governo di accreditare, all’interno e all’estero, l’immagine di un popolo temibile e naturalmente predisposto alla guerra e alla dominazione. Fu questa consapevolezza a indurre i censori a domandare un cambiamento di rilievo nel vaudeville Le Niais Espiègle. Tale lavoro teatrale si fondava sulla metafora, assai sfruttata dagli autori dell’epoca, della rivalità fra un francese e un inglese in campo senti-mentale. Introducendosi nella casa della bella Ophélie sotto i panni di un maestro di danza, il francese protagonista della storia riusciva a persuadere il tutore della fanciulla a dare il proprio assenso al loro matrimonio e a sventare così le nozze fra la sua innamorata e un presuntuoso baronetto inglese. Questo canovaccio, apparentemente innocuo, presentava, agli

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occhi dei censori, il grave difetto di ridicolizzare il carattere nazionale francese: «Le moyen employé par l’auteur pour introduire le Français dans la maison du Lord Formel en le faisant passer pour un maître de danse – affermarono – nous a paru jeter sur le caractère national un air de frivolité qui touche au ridicule et qui n’est pas exempt d’inconvénients, quoique l’auteur, dont les intentions sont d’ailleurs très louables, en ait su tirer quelque fois un parti assez adroit…». L’autore del vaudeville si vide così restituire il manoscritto accompagnato dall’invito di attribuire un carattere più dignitoso e virile al rivale dell’aristocratico inglese.

Alla vigilia del concordato del Bonaparte aveva affermato: «Il faut une religion au peuple. Il faut que cette religion soit dans les mains du gouvernement», e in effetti egli arrivò a sottomettere la Chiesa di Fran-cia allo Stato attribuendole una funzione essenzialmente sociale. Non stupisce dunque che la difesa della rispettabilità di questa istituzione e dei suoi rappresentanti rientrasse fra i compiti della censura teatrale. Tale tutela si tradusse nel divieto per gli autori di popolare le scene di ecclesiastici. Così, a esempio, nella pièce Les Plaisirs de l’Hospitalité, esaminata nell’aprile del , i censori appuntarono la loro attenzione sul personaggio di uno scroccone codardo e goloso cui l’autore aveva attribuito un passato da frate. Il copione risultava costellato di battute sarcastiche sulla vita monastica: «Il a fallu adoucir ces plaisanteries qui ne sont plus de saison, – affermò l’esaminatore del testo – et surtout établir dès le commencement de l’ouvrage que le personnage ridicule dont il s’agit n’a jamais été revêtu d’un caractère religieux».

All’esigenza di preservare i risultati della pacificazione religiosa si accompagnava, nell’opera dei censori, anche l’intento di evitare che il teatro alimentasse la credulità popolare, accreditando, soprattutto fra le classi più basse della società, pregiudizi e superstizioni. Questo partico-lare aspetto del ruolo “pedagogico” della censura viene evidenziato in un rapporto relativo a un testo ispirato alla leggenda dell’ebreo errante, un personaggio che rischiava, fra l’altro, di risultare fuori luogo sui pal-coscenici del paese in cui, per iniziativa dello stesso Imperatore, stava proseguendo il processo di cauta emancipazione politica e civile degli ebrei iniziato con la Rivoluzione: «Il y a sans doute quelque inconvénient à donner de la consistance aux erreurs vulgaires – asserirono i censori –. Mais la pièce actuelle est-elle bien dans ce cas? La fable du juif errant n’est elle pas la risée même de la populace des villes? Il faudrait pénétrer dans des villages lointains pour lui trouver quelques crédules partisans. Il semble d’ailleurs qu’une pièce de boulevards est une mauvaise voie pour établir une croyance superstitieuse. Votre Excellence voudra bien peser dans sa sagesse ces considérations». Chiamato in questione, il ministro optò per la rappresentazione del testo, ritenendolo evidentemente ina-

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datto a essere preso sul serio dallo smaliziato pubblico parigino.Di fatto, il contesto in cui venivano inseriti personaggi ed eventi

fuori dall’ordinario, costituiva un criterio importante per la loro ammis-sione sulle scene. Nell’ottobre , a esempio, in occasione dell’esame del divertissement La Comète, i censori ricordarono al ministro di aver recentemente proposto l’aggiornamento di un’opera sullo stesso tema perché suscettibile di produrre «une impression générale de danger». Il nuovo testo non presentava questo pericolo «d’ailleurs – osservarono gli esaminatori nel loro rapporto – le vulgaire s’est bien familiarisé avec cet astre vagabond».

Alla censura “passiva” destinata a tutelare il governo, le istituzioni e i personaggi di riguardo, si affiancava dunque una censura “attiva” che si attribuiva paternalisticamente il compito di educare il pubblico mediante lo smascheramento dei pregiudizi, la salvaguardia del buon costume, la difesa della sensibilità degli spettatori e l’eliminazione dai palcoscenici di esempi capaci di corrompere la morale, il linguaggio e il comportamen-to. Il buon gusto, ma anche le esigenze del regime, richiedevano infatti l’adozione di dispositivi volti a filtrare il contenuto dei copioni al fine di consentire la soppressione di elementi percepiti come inadeguati a un pubblico numeroso ed eterogeneo come quello teatrale. Un esempio dell’esercizio di tale tipo di censura è il verbale stilato a proposito della pièce Théodore le Fataliste: «Le principal personnage […] – spiegò il censore al ministro – n’a pas moins tué son oncle et sa femme, il ne l’a pas fait exprès […] mais c’est toujours un assassin». Se il personaggio principale dell’opera aveva le mani sporche di sangue, la protagonista femminile, incurante del proprio onore e delle convenzioni sociali, non esitava ad abbandonare i genitori per raggiungere Théodore, un uomo – sottolinea il rapporto di censura – conosciuto la mattina innanzi e di cui per giunta la fanciulla non ignorava i crimini: «Il se peut que tant de belles choses réunies existent, – osservò l’esaminatore – mais il faut les laisser dans le silence, pourquoi en ranimer le souvenir par une action théâtrale? Pourquoi présenter au peuple un rôle tel qu’un assassin pour le rendre excusable et heureux? Si on ne l’amuse pas il ne faut pas le pervertir, jeter dans son imagination de fausses idées, et c’est un présent dangereux à lui faire que de pareils exemples». Certi di dover impedire l’accesso a quella “scuola del popolo” che era il teatro di un testo nel quale venivano giustificate e coronate da un epilogo felice le gesta di un assassino e di una fanciulla ribelle, i membri del Bureau de la presse proposero il rifiuto della pièce, etichettandola come un dramma «qui outrage la morale publique».

Dall’esame dei verbali redatti dalla commissione di censura risulta che una buona parte degli interventi sui copioni era finalizzata a eliminare

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dai testi calembours, trivialités e equivoques. La battaglia condotta dagli esaminatori per una progressiva purificazione dell’idioma usato sulle scene popolari non era tuttavia senza quartiere. Vi era infatti la consapevolezza che le pièces scritte per questi teatri si reggevano spesso unicamente su una certa libertà di linguaggio e su situazioni comiche o piccanti. Ne derivava talvolta un atteggiamento tollerante da parte degli esaminatori: «Quelques expressions qui approchent du calambourg peuvent néanmoins passer pour des jeux de mots – segnalarono a esempio i censori a proposito del copione intitolato L’Ogresse –. La ligne qui sépare ces deux ingrédients des pièces du théâtre des Variétés est si délicate, que dans le doute on a penché pour l’indulgence».

Al pari della mancanza di gusto, anche la povertà di talento poteva, in determinate circostanze, essere causa di divieti, come testimonia il rapporto concernente un’opera proposta nel dal Théâtre-Français in onore della coppia imperiale: «L’intention de l’auteur est pure et louable – riconobbe l’esaminatore del copione – mais l’exécution est faible et froide […]. L’auteur n’est-il pas resté trop au dessous des circonstances qu’il a voulu célébrer? Et avant tout, Sa Majesté daigne-t-elle agréer cet hommage?». «Ajourné» fu la risposta del ministro.

La maggioranza dei personaggi che entrarono a far parte del Bureau de consultation durante l’Impero era composta da autori d’opere teatrali. Nel novero del personale adibito in quegli stessi anni al controllo della stampa periodica figuravano pure degli scrittori che si dedicavano episo-dicamente al teatro. Essendo consentito l’esercizio simultaneo delle due attività, poteva accadere, di fatto, che gli stessi impiegati del ministero della Polizia divenissero vittime del sistema di sorveglianza per il quale lavoravano. In effetti, anche le loro opere erano soggette ai controlli ordinariamente effettuati sui testi teatrali. Sebbene in tali casi l’identità dell’autore fosse nota alla censura, va evidenziato che simili scritti non venivano risparmiati da critiche e soppressioni. Sull’imparzialità del Bureau de la presse e sugli errori di valutazione politica commessi dagli esaminatori nella loro veste di autori vigilavano, infatti, il ministro della polizia e lo stesso Imperatore, le autorità dalle quali dipendeva la carriera dei censori nell’amministrazione, nelle accademie, presso le redazioni dei giornali e nei teatri più prestigiosi. Un caso clamoroso di divieto imposto su un’opera scritta da un dipendente del ministero della Polizia fu quello della commedia l’Intrigante. Questo lavoro teatrale era stato composto niente di meno che da Charles-Guillaume Etienne, capo della terza divi-sione del dicastero e caporedattore del “Journal de l’Empire” per nomina governativa. Ciò nonostante la commedia aveva attraversato, all’inizio del , l’iter consueto della censura. Alcuni riferimenti alla gloria delle armate francesi, appena uscite sconfitte dal duello con la Russia, ai troni

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rovesciati dall’avvento di Napoleone e ai conterranei dell’Imperatrice Maria Luisa erano stati considerati inopportuni e segnalati al ministro dagli esaminatori. Eccettuati questi pochi elementi il testo di Etienne non presentava, secondo i colleghi, altri inconvenienti e, di fatto, l’Intrigante venne autorizzata e sottoposta al pubblico nel mese di marzo. Dopo es-sere stata più volte rappresentata al Théâtre-Français, la pièce approdò a corte per espresso desiderio dell’Imperatore. Le conseguenze di questo spettacolo furono però tutt’altro che positive per l’autore: la commedia fu vietata e persino le copie pubblicate furono sequestrate presso i librai che le vendevano. «Il faut dire – ricordò in seguito Etienne – que ce n’est pas la Censure, mais Napoléon lui-même qui défendit l’Intrigante. Quel est donc cet ouvrage si dangereux pour la société et les constitutions de l’Europe? […] Il n’en est guère de plus moral, de plus étranger à la politique […]. Où est le poison? Où est l’attentat? Le mot de cour est souvent prononcé. La cour est montrée de loin dans la coulisse; c’est le ressort caché de l’action dramatique. Ce mot, l’Empereur l’a pris pour lui, malgré l’intention et les sentiments de l’auteur». Oltre al ritratto poco lusinghiero dei costumi di corte, la commedia parve contenere anche delle allusioni ai matrimoni fra le esponenti dell’antica nobiltà ed i parvenus del nuovo regime. Onde evitare scandali e polemiche, l’Imperatore si risolse a bandire l’opera di Etienne, il quale sperimentò così per una volta la sanzione che sovente aveva contribuito a infliggere ai suoi colleghi scrittori e giornalisti.

Anche a Etienne de Jouy, ex censore del “Publiciste”, capitò di doversi scontrare con il sistema di sorveglianza delle opere teatrali. Nel , infatti, lo scrittore sottopose al ministro della Polizia una tragedia ispirata alla vicenda della resistenza opposta dall’eroico Tippo-Saëb alla dominazione inglese. Lo scopo dell’opera era quello di denunciare gli abusi e le nefandezze perpetrate dai più acerrimi nemici della Francia nei confronti degli indiani. Di fronte alle prime difficoltà sollevate dall’uffi-cio di censura, Jouy ricorse all’intermediazione del soprintendente degli spettacoli, il conte di Rémusat, che raccomandò l’opera al ministro della Polizia. Esprimendo in una lettera il proprio rincrescimento per non poter esaudire gli auspici di un così autorevole protettore, Savary spiegò che la tragedia rischiava di produrre un effetto contrario a quello per il quale era stata concepita, giacché, di fatto, essa finiva col mettere in risalto il ruolo di grande potenza coloniale assunto dall’Inghilterra: «Je ne doute point des intentions patriotiques de l’auteur […] – affermò il ministro – mais je pense qu’une tragédie dont le sujet n’est au fond et ne peut être que le triomphe de nos éternels ennemis et l’affermissement de la puis-sance coloniale des Anglais dans le continent de l’Inde serait aujourd’hui déplacée sur la scène française». A questo primo inconveniente se ne

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aggiungeva un altro: l’avvenimento rievocato dalla tragedia era troppo recente. «Des personnes vivantes encore y ont contribué; – fece osservare Savary – il réveille à la fois, et le souvenir de Louis XVI, allié de Tippo-Saëb, et le souvenir du parti révolutionnaire, qui avait envoyé des agents dans l’Inde». Jouy non si rassegnò a questo primo giudizio sfavorevole e insistette presso le autorità competenti finché, dopo ben due anni di attesa, non riuscì a ottenere l’autorizzazione necessaria per rappresentare la sua tragedia d’ambientazione esotica presso il Théâtre-Français.

I nuovi lavori teatrali non costituivano l’unico oggetto dell’attenzione degli uffici di censura: in effetti, una porzione importante del repertorio dei cosiddetti grands théâtres, e soprattutto della Comédie-Française, era formata dai classici del teatro nazionale. I capolavori nati durante il secolo di Luigi XIV, così come tutta la produzione teatrale precedente all’instaurazione del Consolato potevano infatti, al pari delle nuove pièces, offrire agli spettatori l’occasione di sovrapporre ad avvenimenti e figure storici o immaginari, situazioni e personaggi contemporanei. Abbiamo visto con quali strumenti la censura fosse solita intervenire sui testi per ovviare ai problemi connessi a questo genere d’interpretazione: soppressioni, divieti e richieste di apportare modifiche alle trame o ai passaggi incriminati. Se l’utilizzo di simili espedienti non comportava alcun problema nel caso di copioni ancora sconosciuti al pubblico, la “correzione” dei classici del teatro francese si presentava al contrario come un’operazione assai delicata. Una buona parte dell’uditorio abi-tuale dei teatri più prestigiosi, complice la pubblicazione e la messa in circolazione dei copioni, conosceva infatti a memoria questi testi, cosa che faceva passare difficilmente inosservati tagli e modifiche apportati nei punti salienti di opere ormai considerate immortali. Il rischio non era tanto quello d’indignare gli spettatori più colti presentando loro un capolavoro alterato rispetto alla sua versione originale, o comunque più nota, quanto quello di attirare l’attenzione di un tale uditorio proprio sui brani cassati. «Luce de Lancival, l’auteur d’Hector et d’Achille à Scyros, et, peu après, Esménard, auteur du poème de La Navigation, – ammise la moglie del soprintendente degli spettacoli nelle sue memorie – furent chargés de corriger Corneille, Racine et Voltaire. Mais, n’en déplaise à cette précaution d’une police trop minutieuse, les vers retranchés […] étaient d’autant plus marquants qu’on les avait fait disparaître».

Le autorità erano perfettamente coscienti di quanto potesse essere controproducente intervenire sulle opere rappresentate con successo durante l’Antico Regime, specie nei casi di lavori suscettibili d’essere strumentalizzati dall’opposizione legittimista rappresentata nel bel mondo prerivoluzionario che era tornato a far mostra di sé nei grands théâtres dell’Impero. Era questo, a esempio, il caso della tragedia Zelmire, portata

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sulla scena per la prima volta da Dubelloy nel . In questa pièce l’an-ziano e saggio re di Lesbos, Polidore, vedeva il proprio trono usurpato dal figlio Azor, eroico condottiero dal grande carisma. Consumato il tradimento, il giovane sovrano moriva per mano del principe Antenor, uomo scaltro e spregiudicato, intenzionato a guadagnarsi la fiducia del popolo e la considerazione dei posteri attraverso una falsa deferenza nei confronti delle istituzioni religiose, dei nobili e delle masse. Solamente la data in cui era stata scritta poteva scagionare di fatto la tragedia di Dubel-loy dall’accusa di creare un parallelo fra i personaggi dei due usurpatori e Napoleone e, dunque, d’essere un’arma forgiata espressamente per servire agli scopi del partito legittimista. Restava, tuttavia, il rischio di un uso politico del testo: «La représentation pourrait aujourd’hui produire des effets dangereux – ammonirono i censori in un rapporto sull’opera del marzo – et il faudrait pour les prévenir faire des grands changemens dans le fonds de la pièce et dans le dialogue de plusieurs scènes. Ce travail même […] donneroit peut-être un résultat peu heureux en ramenant l’attention sur les choses supprimées».

Le difficoltà sollevate dal ripristino delle opere teatrali del passato facevano sì che proprio in questa materia si verificasse più frequentemente un contrasto fra il giudizio espresso dai censori e quello reso dal ministro. Ne è un esempio l’opéra-comique di André-Modeste Grétry L’Amitié à l’épreuve, pièce che aveva raccolto un grande successo di pubblico in occasione dell’ultima ripresa avvenuta nel . Nel la commissione di censura si pronunciò in favore della sua rappresentazione avendo riscontrato un unico passaggio suscettibile di soppressione. La notorietà di cui godeva l’opera si rivelò tuttavia fatale: «Il vaut mieux ajourner la pièce, – scrisse il ministro Savary in margine al rapporto – tout le monde l’aura à la main et verra la suppression».

Conclusioni

Tracciati i principali limiti entro i quali furono costretti a operare gli autori teatrali che scrissero per le compagnie parigine nei primi quindici anni del XIX secolo, occorre fare una breve riflessione sul ruolo di questi scrittori e sul loro rapporto con la censura napoleonica. Il primo aspetto che emerge dalla lettura dei copioni che figuravano nell’archivio del Bureau de la presse è la generale mediocrità e ripetitività delle trame, lo scarso spessore psicologico dei personaggi e l’inconsistenza dei dialoghi. Se è vero che queste tare, lamentate dagli stessi censori, sembrano inte-ressare prevalentemente i testi concepiti per i teatri secondari, bisogna sottolineare che proprio questi ultimi costituivano il maggiore sbocco per le opere contemporanee. I teatri più prestigiosi, e segnatamente il Théâtre-

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Français, possedevano infatti per statuto un repertorio che comprendeva un gran numero di testi risalenti ai due secoli precedenti. Se, tuttavia, si escludono i capolavori classici del teatro francese si noterà che anche le pièces scritte per i grands théâtres in età napoleonica sono per lo più scom-parse rapidamente dai cartelloni dei teatri francesi insieme ai nomi dei loro autori. La povertà di contenuti e lo scarso valore letterario di questi testi rappresenta l’inevitabile corollario del regime autocratico instaurato da Bonaparte: la negazione della libertà d’espressione e l’azione combinata del personale e degli organismi amministrativi e polizieschi preposti al controllo dell’attività teatrale avevano finito col soffocare questa forma d’arte svuotandola d’ogni apporto autentico e originale. Scrivere opere teatrali entro gli angusti confini imposti dal governo voleva dire infatti creare involucri privi di contenuto, trattenere nella penna ogni riflessione sincera e profonda sull’uomo, sulla politica e sulla società.

La consapevolezza dei controlli preventivi e repressivi esercitati dalle autorità sugli spettacoli teatrali influenzava, è ovvio, le scelte creative degli autori. Un governo in perpetua lotta contro le fazioni politiche d’origi-ne rivoluzionaria e contro ogni manifestazione di dissenso si ergeva di fronte a essi come giudice di ogni loro scritto e, in ultima analisi, come unico arbitro del loro destino nel mondo del teatro e della letteratura. Impossibilitati ad appellarsi all’opinione pubblica o ai tribunali contro le sentenze emesse dalle autorità sulle loro opere, gli autori teatrali erano sovente indotti ad adottare precauzioni che sfociavano nell’autocensura. Quest’ultima, lo abbiamo visto, poteva intervenire nel momento stesso della scrittura dei copioni oppure successivamente alla loro approvazio-ne, generalmente in seguito a un cambiamento della situazione interna o internazionale.

La lettura dei verbali di censura conservati presso gli Archivi nazio-nali conferma l’immagine di una produzione teatrale tendenzialmente scevra di velleità sovversive, provocatorie o polemiche nei confronti del regime napoleonico. Tale idea è suggerita dal fatto che i censori non arrivavano pressoché mai ad attribuire a un autore intenti sediziosi o antigovernativi. Al contrario, nei loro rapporti ricorrono espressioni quali «les bonnes intentions de l’auteur ont été trompées», «les auteurs ont fait beaucoup d’efforts pour sauver cette inconvenance» o ancora «l’auteur avait lui-même pressenti ces inconvénients». Dagli stessi do-cumenti emerge pure una generale disponibilità degli autori teatrali a modificare i propri testi conformemente alle indicazioni ricevute dalla commissione d’esame nonché l’esistenza di spazi di dialogo e di confronto fra esaminatori e scrittori.

Malgrado l’autocensura praticata dagli scrittori e nonostante la consapevolezza che i loro colleghi del Bureau de la presse avevano di

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questo comportamento, accadeva che un numero elevato di copioni non passasse indenne il filtro della censura preventiva. Tagli, modifiche e divieti erano imposti spesso per motivi politici sui manoscritti, senza che i rispettivi autori venissero criminalizzati dai censori. A tali constatazioni si debbono aggiungere gli episodi, verificatisi frequentemente durante il Consolato e l’Impero, di lavori teatrali vietati, decurtati o sospesi nonostante la nota fedeltà al regime dei loro autori, episodi di cui i casi di censori censurati appaiono l’esempio più clamoroso. Questi dati non cancellano l’esistenza di tentativi volti a utilizzare consapevolmente il teatro come canale di propagazione di idee, principi e valori contrari a quelli sui quali poggiava il regime napoleonico, ma pongono in luce il fatto che nella stragrande maggioranza dei casi alle autorità non fosse dato di riscontrare una coincidenza fra la potenziale “pericolosità” del testo censurato e le reali intenzioni dell’autore. Si tratta di una contraddizione solo apparente. La presenza di un’opposizione politica e di un dissenso serpeggiante, uniti alla negazione della libertà d’espressione, accentuava-no la propensione del pubblico a usare il teatro come una tribuna dalla quale far udire la propria voce. Questo particolare risvolto delle riunioni pubbliche occasionate dagli spettacoli è evidenziato efficacemente da un rapporto del prefetto di polizia di Parigi al ministro Fouché: «Les théâtres – vi si legge – en général sont les lieux sur lesquels en cas de trouble, les ennemis de l’ordre établi commencent par jeter les yeux pour faire prononcer contre cet ordre les oisifs ou les malveillants. Un des moyen les plus en usage est celui que l’on tire des applications que peut fournir le texte d’un ouvrage dont l’auteur n’a ni prévu ni pu prévoir le sens qu’il plait à la malveillance d’en tirer». I dissidi in materia politica, religiosa e filosofica, le situazioni di disagio economico e sociale e i fatti di cronaca andavano in sostanza a riempire il vuoto di testi inconsistenti, trasformandoli in canali di trasmissione di messaggi sovversivi. Il ruolo dell’autore, già fortemente condizionato dalla consapevolezza del rigore della censura, usciva ulteriormente sbiadito da questo processo inter-pretativo che sovente finiva per travalicarlo. Se infatti l’uso consapevole dello strumento teatrale per scopi sediziosi trovava un limite pressoché invalicabile nei vari filtri della censura, la neutralità o anche l’appoggio manifesto al governo preservavano gli scrittori da persecuzioni e messe al bando, ma sovente non tutelavano l’integrità delle loro opere.

Lo scarso valore letterario dei testi rappresentati nei teatri parigini dell’età napoleonica trova un contrappeso nell’interesse storico dei versi che non furono mai pronunciati su quelle stesse scene. Criteri, protagoni-sti e modalità della selezione avvenuta negli uffici di censura dell’Impero degli elementi ammessi e di quelli vietati sui palcoscenici parigini, costi-tuiscono infatti una fonte d’informazione privilegiata per entrare nella

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dinamica dei rapporti intercorrenti fra le autorità costituite e le diverse categorie sociali e ideologiche rappresentate in seno al pubblico teatrale dell’epoca. I verbali di censura, segnatamente, forniscono una testimo-nianza importante del modo in cui il potere percepiva, interpretava e tentava di gestire quel complesso e nebuloso insieme di idee, conoscenze, sensazioni e informazioni che esso definiva esprit public. Non è tutto: di fronte all’inattendibilità della stampa periodica francese dell’Impero e alla parzialità di alcune fra le fonti principali di informazione utilizzate dal governo napoleonico, prime fra tutte i rapporti di polizia, i verbali di censura, con i loro riferimenti alla politica, all’economia, alla società, alla cultura e ai semplici fatti di cronaca, rappresentano uno strumento utile al fine di una più approfondita conoscenza della Parigi del tempo. Si tratta, infatti, di atti prodotti all’interno e a uso esclusivo dell’ammini-strazione e stilati da un personale d’eccezione: uomini di lettere collocati in una posizione intermedia fra gli apparati di regime e la società civile, impiegati dalla cui obiettività nel contemplare problemi e fermenti del “paese reale”, dipendeva l’efficacia del sistema di censura preventiva posto a tutela del governo.

Note

. O. Krakovitch, Les pièces de théâtre soumises à la censure (-): inventaire, Archives Nationales, Paris .

. A partire dalla seconda metà del XVIII secolo e fino ai lavori di ristrutturazione della capitale pianificati dal barone Haussmann un secolo dopo, i maggiori fulcri dell’attività teatrale parigina furono il Boulevard du Temple, sede principale dei teatri popolari, e l’area compresa fra le Tuileries, il Palais-Royal e i grands boulevards, dove figuravano le sale di maggior prestigio. Resi accessibili anche alla piccola e media borghesia in seguito alla fine dell’oligopolio dei teatri privilegiati, gli spettacoli divennero, nella seconda metà del Settecento, un’occasione eccezionale di osmosi fra i membri delle diverse classi sociali. La Rivoluzione accentuò il rinnovamento dell’uditorio dei teatri parigini favorendovi l’in-gresso di un pubblico popolare, incolto e numericamente più vasto rispetto a quello dei decenni precedenti. La legge del - gennaio , inoltre, abolendo il sistema dei privilegi in materia teatrale, incrementò la moltiplicazione delle sale. Nel , all’alba del regime napoleonico, la “Revue des Théâtres” ne annoverava nella capitale e un totale di ben opere rappresentate nell’arco dell’anno (ricordiamo che Parigi contava all’epoca circa . abitanti). Nei teatri del Consolato e dell’Impero, al pubblico popolare e piccolo borghese formatosi in età rivoluzionaria, si affiancarono gradualmente gli esponenti delle vecchie e nuove élites sociali. Onde consentire un più rigoroso controllo degli spettacoli, il luglio un decreto fissò un maximum di sale a Parigi ( grands théâtres e teatri minori) imponendo la chiusura immediata delle altre esistenti al momento dell’adozione del provvedimento. Tale misura rimase in vigore fino al crollo dell’Impero. Nello studio intitolato The Parisian stage, pubblicato dall’Università dell’Alabama nel , Charles Wicks ha individuato un totale di circa . pièces rappresentate sui palcoscenici parigini durante l’età napoleonica. Sui teatri parigini del XVIII secolo cfr. H. Lagrave, Le théâtre et le public à Paris de à , Librairie C. Klincksiek, Paris ; J. Lang, L’État et le théâtre, Pichonet Durand-Auzias, Paris ; M. de Rougemont, La vie théâtrale en France au XVIIIe siècle, Champion-Slatkine, Paris . Per quanto concerne i teatri parigini dell’età

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napoleonica e la legislazione a essi relativa, cfr. L. de Laborie, Les petits théâtres de Paris sous le Consulat et l’Empire (-), in “Le Correspondant”, t. , a. XXIV, Paris , pp. -; H. Lecomte, Napoléon et le monde dramatique, Daragon, Paris .

. Cfr., a esempio, l’articolo della “Gazette de France” dell’ aprile in cui viene annunziata l’istituzione di una censura teatrale sistematica e palese, in sostituzione di quella occulta praticata nelle fasi del decennio rivoluzionario in cui i controlli preventivi sui copioni erano stati ufficialmente aboliti.

. Sulle garanzie formali adottate dal governo napoleonico nei confronti della stampa non periodica cfr. B. Vouillot, La Révolution et l’Empire: une nouvelle réglementation, in R. Chartier, H.-J. Martin (éds.), Histoire de l’édition française, vol. II, Promodis, Paris .

. All’indomani del colpo di Stato del novembre la censura teatrale era stata momentaneamente affidata al Bureau des Mœurs et des Opinions publiques operante presso il Bureau Central du Canton de Paris, l’ufficio allora incaricato di esercitare la pubblica sicurezza nella capitale. Nell’aprile del il controllo dei copioni passò nelle compe-tenze del ministero dell’Interno che mantenne tale prerogativa durante tutto il Consolato. Luciano Bonaparte, ministro dell’Interno fino all’autunno , assegnò l’esame dei testi teatrali al Bureau des Beaux-Arts, diretto dal giornalista e idéologue Amaury Duval e nel quale lavorava col ruolo di censore lo scrittore Félix Nogaret. Jean Antoine Chaptal, successore di Luciano, pose il poeta François-Nicolas-Vincent Campenon a capo di un apposito Bureau des théâtres operante presso la IV divisione del ministero. Nel marzo la censura teatrale passò nelle competenze del dipartimento della Pubblica istruzione da poco istituito all’interno del Dicastero. Tale unità amministrativa operò prima sotto la direzione del consigliere di Stato Pierre-Louis Roederer, poi del chimico Antoine-François Fourcroy il quale affidò la direzione dell’ufficio dei teatri al giornalista Fabien Pillet. Nell’autunno , infine, la censura teatrale fu affidata al Bureau des Beaux-Arts della III divisione del ministero (Archives Nationales, Paris, F b I ).

. Almanach Impérial pour l’an XIII [l’an , l’an ] présenté à Sa Majesté l’Empe-reur par Testu, Testu, Paris , , . Lemontey era nato a Lione nel . Avvocato, pubblicista e deputato presso l’Assemblea legislativa, aveva partecipato all’insurrezione lionese del ed era poi emigrato in Svizzera. Tornato in Francia nel , era stato as-sunto al ministero della Polizia nel . Conservò il posto di censore sotto la Restaurazione e, grazie al suo Essai sur l’établissement monarchique de Louis XIV fu eletto all’Académie française nel . Morì nel . Jean Charles-Dominique Lacretelle era nato a Metz nel . Collaboratore del “Journal des Débats”, allo scoppio della Rivoluzione si era schierato con i Foglianti. Giornalista presso diverse testate realiste, aveva partecipato all’insurrezione del vendemmiaio anno III. Arrestato dopo il fruttidoro anno V, aveva scritto in carcere il Précis de l’Histoire de la Révolution française. Liberato per intercessione di Fouché, entrò al ministero della Polizia nel . Dal al fu caporedattore del “Publiciste”. Eletto all’Académie nel , ottenne l’anno successivo la cattedra di storia presso la facoltà di Lettere di Parigi. Durante la Restaurazione mantenne il posto di censore d’opere teatrali ma ciò non gli impedì d’indurre l’Académie a schierarsi contro le forti limitazioni alla libertà di stampa prospettate dal progetto di legge Peyronnet (), atteggiamento che gli costò la perdita dell’impiego. Morì nel . Esménard era nato in Provenza nel . Collaboratore di diverse gazzette moderate della capitale, aveva lasciato la Francia dopo la caduta della monarchia. Legatosi al regime napoleonico, dedicò la sua opera più celebre, il poema La Navigation, all’Imperatore. Nel fu nominato membro del Bureau de la presse e caporedattore della “Gazette de France”. Nel fece rappre-sentare il Triomphe de Trajan, celebrazione del regime imperiale. Eletto all’Académie nel , cadde in disgrazia l’anno seguente per una leggerezza commessa nell’esercizio della sua funzione di censore. Morì in Italia nel . Brousse-Desfaucherets era nato a Parigi nel . Membro del direttorio del dipartimento di Parigi nel e amministratore degli ospizi della capitale dopo il termidoro, fu anche autore d’opere teatrali. Morì nel . D’Avrigni era nato in Martinica nel . Autore teatrale, lavorò soprattutto per l’Opéra-

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Comique. Durante l’Impero pubblicò raccolte poetiche ispirate alle glorie napoleoniche. Nel fu nominato censore, incarico che mantenne durante la Restaurazione. Morì nel . Sulla vita e le opere degli scrittori appartenenti alla commissione d’esame, cfr. J.-M. Quérard, La France littéraire ou dictionnaire bibliographique des savants, historiens et gens de lettres de la France, Firmin Didot, Paris , voll.; H. Welschinger, La censure sous le Premier Empire, Perrin, Paris , pp. -; La Grande Encyclopédie: inventaire raisonné des sciences, des lettres et des arts, Lamirault, Paris .

. O. Krakovitch, Silence consenti, silence imposé? L’évolution de la législation et de l’exercice de la censure théâtrale au XIXe siècle, in “”, n. , Paris , pp. -.

. Sul personale addetto alla censura teatrale durante la Monarchia di Luglio cfr. O. Krakovitch, Hugo censuré: la liberté au théâtre au XIXe siècle, Calmann-Lévy, Paris .

. A.-C. Thibaudeau, Mémoires sur le Consulat, Ponthieu, Paris , p. .. Archives Nationales, Paris, F . . Ivi, F . La pièce, destinata al Théâtre de la Gaîté, è stata esaminata il aprile

. . Ivi, F . . M. Fazio, François Joseph Talma primo divo, Leonardo Arte, Milano , p. . . L. H. Lecomte, Napoléon et le monde dramatique, Daragon, Paris , p. .. Archives Nationales, Paris, F . Il testo era stato scritto da Emmanuel Dupaty

per l’Opéra-Comique.. Ivi, F . . Ivi, F . Il testo, destinato al Théâtre de la Gaîté, fu respinto dal ministro

Savary.. Sul teatro della Rivoluzione cfr. P. Bosisio, Lo spettacolo nella Rivoluzione francese,

Bulzoni, Roma ; J. Hérissay, Le monde des théâtres pendant la Révolution (-), Perrin, Paris ; J. Schlanger, L’Enjeu et le débat, in “Médiations”, n. , Denoël-Gon-thier, Paris .

. Archives Nationales, Paris, F . Il rapporto è datato marzo .. Ivi, F .. Ivi, F (corsivi nel testo).. Ivi, F .. Ricordiamo che il e il maggio Napoleone aveva riportato due vittorie contro

i prussiani e i russi e che il giugno era stato concordato un armistizio di due mesi.. L’Habit de Catinat, p. del manoscritto. Archives Nationales, Paris, F .. Vitellie, atto I, ivi, F .. L’annuncio ufficiale della disfatta francese in Russia arrivò a Parigi il dicembre.

La pièce in questione venne rappresentata all’Opéra-Comique undici giorni dopo.. Archives Nationales, Paris, F .. Edgard, atto I, scena II. Ivi, F . La commedia era stata scritta da Louis-Charles

Caigniez per il Théâtre du Vaudeville. . Ivi, F . Il testo era stato scritto per il Théâtre de la Gaîté.. Ivi, F . Il lavoro teatrale in questione era stato scritto da Saint-Félix per

l’Opéra-Comique. . Ivi, F . . Ibid. Il copione era destinato all’Opéra-Comique.. Sulla polizia dell’età napoleonica cfr. E. Hauterive, Napoléon et sa police, Flam-

marion, Paris ; L. Madelin, Fouché: -, Plon, Paris .. Si tratta della polizia a cavallo.. Archives Nationales, Paris, F . Il rapporto è del .. Monsieur Pataut, atto I. Ivi, F .. Monsieur Dulitige, scena . Ivi, F . Questa commedia era destinata al Théâtre

de l’Impératrice.. Ivi, F . Il rapporto è datato luglio .

LA CENSURA TEATRALE A PARIGI IN ETÀ NAPOLEONICA

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. Ivi, F . . Ivi, F . . Col decreto del gennaio il governo consolare aveva soppresso dei

giornali politici pubblicati nel dipartimento della Senna. Continuamente minacciate di soppressione e di sequestro, le gazzette parigine autorizzate furono poste, a partire dal , sotto la sorveglianza di caporedattori nominati dal ministro della Polizia. Dopo l’attuazione di una serie di fusioni fra testate imposta dal governo, nel lo Stato confiscò tutti i giornali politici parigini superstiti senza indennizzarne i proprietari. Le azioni delle gazzette politiche autorizzate vennero spartite fra il ministero della Polizia e uomini fedeli al regime. Sulla censura della stampa periodica parigina cfr. A. Cabanis, La presse sous le Consulat et l’Empire, Bibliothèque d’histoire révolutionnaire, III série, n. , Société des Études Robespierristes, Paris ; G. Le Poittevin, La liberté de la presse depuis la Révolution (-), Rousseau, Paris ; F. Mitton, La presse française, t. II, Le Prat, Paris .

. Archives Nationales, Paris, F . . V. nota .. Archives Nationales, Paris, F . Il rapporto, datato giugno , è firmato

da Lemontey, Lacretelle jeune ed Esménard. Una lettera dello scrittore Joseph Joubert datata ° settembre rivela l’identità delle persone che beneficiavano della generosità del governo: il Mercure, vi si legge, «a pour censeur M. Legouvé, et pour coopérateurs, payés, dit-on, par le gouvernement, MM. Lacretelle ainé, Esménard, et le chevalier de Bouflers […]» (E. Hatin, Histoire politique et littéraire de la presse en France, Poulet-Malassis et Debroise, Paris -, vol. VII, pp. -). Gli autori del rapporto di censura non erano dunque soltanto animati dal desiderio di tutelare un organo di propaganda del governo, ma anche di difendere il proprio lavoro e quello dei parenti (il Lacretelle citato nella lettera era il fratello maggiore del censore) dalle critiche dell’opinione pubblica e dello stesso governo.

. Archives Nationales, Paris, F .. Ivi, F .. Ivi, F . Il rapporto è del marzo .. A.-C. Thibaudeau, Mémoires sur le Consulat, Ponthieu, Paris , p. .. L. Bergeron, L’épisode napoléonien, vol. I, Aspects intérieurs -, Seuil, Paris

.. Archives Nationales, Paris, F . La pièce era destinata al Théâtre des Va-

riétés.. Ivi, F . Il rapporto è datato dicembre .. Ivi, F . Il testo era destinato al popolare Théâtre des Variétés.. Ibid. La pièce in questione era destinata al Théâtre du Vaudeville.. Ibid. Il rapporto è del maggio .. Archives Nationales, Paris, F .. Ivi, F . Il rapporto è datato marzo . . Welschinger, La censure, cit., p. .. V. Hallays-Dabot, Histoire de la censure théâtrale en France, Dentu, Paris ,

pp. -; Welschinger, La censure, cit., pp. -.. Durante il XVIII secolo la pubblicazione di opere teatrali e la domanda di questo

genere letterario da parte soprattutto dei lettori delle classi più elevate della società fran-cese avevano conosciuto una tendenza all’aumento. (Cfr. W. Kirsop, Nouveautés: théâtre et roman, in Chartier, Martin (éds.), Histoire de l’édition française, cit., vol. II). In età na-poleonica il divieto di rappresentare un’opera teatrale non precludeva automaticamente la possibilità di darla alle stampe. Vista la diversità del pubblico teatrale rispetto a quello dei lettori sia dal punto di vista numerico che sociale e considerato il diverso impatto di un testo letto in solitudine o in un salotto rispetto a un testo rappresentato in un luogo pubblico, la censura poteva autorizzare la pubblicazione e la circolazione della versione

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originale di copioni modificati in vista della rappresentazione teatrale o addirittura vietati alle compagnie di attori. Non bisogna inoltre dimenticare il ruolo della stampa clandestina che immetteva sul mercato non solo edizioni contraffatte a prezzi economici ma anche testi proibiti.

. Il fatto di sopprimere o riscrivere interi passaggi, e addirittura intere scene d’opere classiche, costituiva una pratica assai usata da compagnie e interpreti. Presso la Biblioteca della Comédie-Française sono a esempio conservati diversi copioni rimaneggiati dal più celebre attore francese dell’epoca, François Joseph Talma. Gli interventi sui testi rispon-devano generalmente in questi casi all’esigenza di arricchire l’interpretazione di nuove sfumature, di abbreviare gli interventi degli attori meno brillanti e di valorizzare quelli delle celebrità. Il testo teatrale era dunque considerato dagli stessi artisti come un materiale mo-dellabile a piacimento a seconda delle necessità di chi era chiamato a interpretarlo. Questo tipo d’intervento prescindeva da considerazioni di carattere politico ma ciò non esclude che gli attori dei teatri privilegiati attuassero un’autocensura volta a favorire le esigenze di un governo che si mostrava estremamente prodigo di danaro nei loro confronti.

. C.-E.-J. Gravier de Vergennes comtesse de Rémusat, Mémoires de Madame de Rémusat -, Calmann-Lévy, Paris , voll., vol. II, p. .

. Archives Nationales, Paris, F . . Ivi, F .. Sugli autori e la letteratura teatrali dell’età napoleonica cfr. C.-M. Des Granges,

Geoffroy et la critique dramatique sous le Consulat et l’Empire (-), Bouillon, Paris ; H. Lecomte, Napoléon et l’Empire racontés par le théâtre, Jules Raux, Paris ; M. Jones, Le théâtre national de à , Klincksieck, Paris ; T. Muret, L’Histoire par le théâtre -, Amyot, Paris ; C. Wicks, The Parisian Stage, University of Alabama, Alabama .

. Il fondo degli Archivi nazionali di Parigi non comprende, per quanto concerne l’età napoleonica, la totalità dei copioni sottoposti a esame e dei verbali a essi relativi. Tale lacuna è originata dalla restituzione immediata agli autori dei copioni respinti in toto e dalla distruzione in un incendio di una parte dei documenti archiviati dall’ufficio di censura. Il suddetto fondo contiene attualmente copioni relativi all’età napoleonica e circa verbali redatti fra il e il . I rapporti di censura oggi disponibili presso gli Archivi sono suddivisi per teatri (F -): si va da un minimo di a un massimo di ver-bali per compagnia. Di qui l’impossibilità di fornire dati numerici complessivi sulle opere respinte, approvate e modificate su richiesta della censura. I rapporti inerenti all’attività dei teatri Vaudeville, Variétés, Gaîté e Opéra-Comique, i soli per i quali disponiamo di documenti che coprono l’intero arco di tempo -, forniscono tali indicazioni: i testi respinti variano dallo zero al %, quelli approvati dal al %, mentre quelli per i quali sono state richieste modifiche più o meno rilevanti costituiscono il -%.

. Archives Nationales, Paris, F . . R. Cobb, La protestation populaire en France (-), Calmann-Levy, Paris

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LA CENSURA TEATRALE A PARIGI IN ETÀ NAPOLEONICA

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