La casa di Sveva di Francesca Panzacchi

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Sveva si ritrova suo malgrado rinchiusa nella sua stessa casa per mano di un uomo che viene da un passato lontano e che solo dopo qualche tempo riesce a riconoscere. Tra loro si crea un legame ambivalente e pericoloso che nel finale si traduce in un’inversione di ruolo tra i due protagonisti. Noir a sfondo psicologico la cui peculiarità risiede in un’attenta introspezione dei personaggi che emerge soprattutto dai dialoghi.

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Per merito di questo romanzo, il nome di Francesca Panzacchi è inserito fra i narrato-ri e poeti contemporanei presso il prestigioso archivio della Biblioteca Salaborsa, Comune di Bologna.

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FRANCESCA PANZACCHI

La casa di Sveva

Noir

ISBN eBook 978-88-97277-37-8

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Copyright © 2010 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2010 CIESSE Edizioni

La casa di Sveva di Francesca Panzacchi Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni ri-produzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 | Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN eBook 978-88-97277-37-8 Collana BLACK & YELLOW http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, av-venimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri te-

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lefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

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BIOGRAFIA DELL’AUTRICE

Francesca Panzacchi è nata a Bologna.

Si è laureata in Scienze Politiche presso

l’Università degli Studi di Bologna, collabora

come giornalista con la rivista Trendy - allegato

mensile del Resto del Carlino - con il magazine

di letteratura e d’arte Liberaeva e con Milano

Nera.

http://francescap.altervista.org

BIBLIOGRAFIA

Ha pubblicato due sillogi poetiche: Liriche So-

spese (2008) e Liriche d’amore (2009). Ha inol-

tre pubblicato un libro di filastrocche illustrate:

Incanto e sortilegio (2010) e una raccolta di rac-

conti Gialloerotico (2010), distribuita da Feltri-

nelli. Ha pubblicato con TREEBOOK Audiolibri

una raccolta di fiabe intitolata "FIABE STRE-

GATE" (2010).

Vincitrice del Concorso “Delitto in libreria” in-

detto dalla Libreria Mondadori di Rimini,

2008; seconda classificata al Concorso Interna-

zionale “Piccole Storie d’aria” indetto da Cultu-

raglobale, 2009; finalista al Premio di Poesia

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“Occhietti Neri”, 2009; finalista al Premio Na-

zionale di Haiku “La voce della natura rivela ciò

che penso”, 2009; finalista alla quarta edizione

di De Gustibus: Il Nocino, 2010; finalista al

Premio Letterario GIALLOMILANESE, edizio-

ne 2010.

È presente in numerose antologie, fra le quali:

Unico Indizio: La sciarpa gialla, Damster Edi-

zioni, 2009; Viaggiare con bisaccia e penna,

Lietocolle Edizioni, 2009; In treno, Giulio Per-

rone Editore, 2009; Amore 2.0, 9Muse Edizio-

ni, 2009; Dolce Natura almeno tu non menti,

Editrice Zona, 2009; Subdoli Voli, Edizioni

Pragmata, 2009.

È inoltre presente nell’e-book “Italians – una

giornata nel mondo”, a cura di Beppe Severgni-

ni, Rizzoli, 2008. Nel 2009 i suoi Racconti Brevi

sono stati letti su Radio Emilia Romagna,

all’interno della Rubrica “Racconti d’autore” a

cura di Claudio Bacilieri. Il 19 Maggio 2010 la

sua poesia “I tuoi occhi giurano amore” è stata

letta su RADIO1, all’interno del programma

“L’UOMO DELLA NOTTE” condotto da Mauri-

zio Costanzo.

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Membro di giuria durante la seconda edizione

del Concorso Letterario Nazionale “La Bibliote-

ca d’oro” (2010).

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"Un noir denso e appetitoso. Un romanzo psi-cologico nero e avvincente. La casa di Sveva è stato scritto in modo magistrale indagando profondamente la psicologia di una donna."

Federica Favaro (Virtuose Magazine)

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Ma giammai amerà qualcuno come te, perché tu sarai parte di lui per sempre. (Paulo Coelho)

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Prefazione

di Bruno Elpis

scrittore e recensore

“Quando la sindrome di Stoccolma trasforma la principessa in un ranoc-

chio”

In questa lunga fiaba erotico-noir ho ritrovato temi a me molto cari. Di base, lo squilibrio psi-chico dei due protagonisti; a seguire, l’attività di ricerca delle cause, nella quale il lettore si sente coinvolto, e la tensione per l’interpretazione delle dinamiche, fino alla scena finale: un ritrat-to di normalità borghese, verrebbe da dire un quadretto di vita quotidiana, che rappresenta la sorprendente sintesi della follia strisciante e manifesta dei personaggi.

Sveva, vittima di una segregazione, evidente-mente ha le caratteristiche psicologiche adegua-te per trasformare un’esperienza di schiavitù in un’avventura di dominio.

Scrive per un giornale e crea fiabe per bambi-ni, ama il mare fuori stagione, le stelle e i gatti

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neri, è bella e si piace, eppure – interrogata sul-la sua condizione esistenziale – ammette di vi-vere per la maggior parte del tempo in uno stato di non-felicità, che è soprattutto nostalgia per l’infanzia, per una storia di amicizia fatta di ca-stelli di sabbia e di separazione prematura.

In altre parole, Sveva incarna – vivendo – la contraddizione del suo essere donna.

Nel corso della narrazione, le complesse di-namiche della sindrome di Stoccolma si man-tengono in equilibrio tra mistero iniziale, ”at-trazione fatale” in una relazione estrema, pro-gressivo scambio di polarità contrapposte.

“Finirò con l’ammalarmi di te” e “ucciderò i tuoi desideri, uno alla volta, fin quando sarò io il tuo unico desiderio” sono programmi più che minacce. Il desiderio di addomesticare l’altro (e qui la mente inevitabilmente corre all’episodio della volpe nel “Petit Prince”) e il progressivo aumento di dipendenze reciproche sono le pre-messe che trasportano Sveva, verso un epilogo alla “Tulipani di Harlem”.

E, chi non conosce il film di Brusati del 1970, parlo soprattutto ai giovani, non corra a legger-ne la trama: sarebbe un misero espediente per scoprire, con un paio di ore (tanto è durata la mia lettura!) d’anticipo, come va a finire la sto-

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ria di Sveva, la donna che con il proprio nome anticipa un’altra opera della nostra: “Il nor-manno”.

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Prologo

Il volume della musica era assordante. Lei, ogni tanto, volgeva distrattamente lo sguardo verso un uomo, a suo dire insignificante. Però, il modo in cui lui la fissava, aveva qualcosa di in-quietante e ossessivo. Ne ebbe quasi timore. Gli occhi di lei lanciarono una chiara sfida, voleva vedere fin dove si sarebbe spinto, se avrebbe continuato a guardarla o, peggio ancora, se a-vrebbe osato parlarle.

Lui se ne stava immobile, vicino alla colonna e continuava a fissarla. Il tempo sembrava dilata-to, infinitesimale. Il volto dell’uomo era avvolto dalla penombra, non riusciva a distinguere bene le sue fattezze, il volto, i contorni. Lui pensò che non era stato poi così difficile trovarla e sapeva che era giunto il momento di parlarle, non at-tendeva altro da anni.

Quando si mosse nella sua direzione il cuore di lei accelerò il battito. Si maledisse di averlo sfidato con lo sguardo, il timore ora era palpabi-le. Lo sconosciuto le parlò con gentilezza, ma il frastuono non le fece capire bene cosa volesse dirle. Lei lo allontanò con un pretesto, voleva li-berarsi di quell’individuo, del suo sguardo. Lui la turbava.

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La ragazza si volse da un’altra parte, non badò più a lui e iniziò a parlare con i suoi amici, an-che se il cuore ancora le impazziva nel petto a causa di quello strano incontro. Attese di cal-marsi e si voltò, convinta che l’uomo fosse anco-ra lì, a fissarla.

Lui, invece, era sparito. Era uscito dal locale stringendo i pugni, carico di rancore nei con-fronti di quella giovane donna, giurando a se stesso che sarebbe stata sua.

In ogni caso.

A ogni costo.

Nessuno dei due, però, avrebbe mai potuto immaginare che quello strano incontro avrebbe cambiato, così profondamente e per sempre, le loro stesse vite.

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Otto minuti

Sveva impiegò i soliti otto minuti per raggiun-gere l’edicola in bicicletta e ritornarsene a casa. Comprò il giornale come quasi tutte le mattine, sempre alla stessa ora. Doveva verificare che i pezzi che aveva scritto fossero stati pubblicati, che fosse stato dato loro il giusto risalto e che non ci fossero refusi. Erano due giorni che non sentiva la redazione, tutto era tranquillo e noio-so, come la cittadina di villeggiatura dove ades-so si trovava. Era il cinque di Ottobre e non c’erano più turisti, gli ultimi se ne erano andati in Settembre. Sveva amava molto il mare fuori stagione, amava il silenzio delle notti e il lan-guore dei giorni che scorrevano lenti. Qui aveva tempo per scrivere, non solo per il giornale. Lei scriveva fiabe per bambini, soprattutto. Le scri-veva perché voleva che nessun bambino si sen-tisse solo come si era sentita sola lei da piccola ed era convinta che ogni libro che scriveva po-tesse colmare un piccolo vuoto.

Sveva non chiudeva mai il cancello, lo lasciava accostato, perché pensava che in otto minuti nulla potesse succedere. Non nel suo piccolo mondo perfetto fuori stagione. Anche le finestre

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erano spalancate perché credeva che tanto a nessuno sarebbe mai venuto in mente di ar-rampicarsi fin lassù in mansarda dove lei dor-miva da sola ogni notte.

Varcò di nuovo il cancello richiudendolo alle sue spalle, posò la bici, attraversò il piccolo giardino e cominciò a salire la ripida scala che portava al primo piano. Agata, la sua gatta, prendeva il sole sull’ampio terrazzo. Si chiese come avesse fatto a uscire e per un attimo rima-se interdetta, ma poi pensò che l’avesse seguita quando era uscita da casa. Varcò la soglia e but-tò il giornale sul grande tavolo di mogano. Fu in quel momento che una finestra sbatté forte al piano di sopra. Sveva trasalì come faceva quand’era piccola. Non era abituata a vivere da sola ma sua sorella si era trasferita a Roma or-mai da diverse settimane e al momento Agata era la sua unica coinquilina.

Aprì il giornale, controllò meticolosamente i suoi tre articoli e ne fu soddisfatta. All’improvviso le venne voglia di scrivere, così si arrampicò sulla scala a chiocciola che portava in mansarda, chiuse la finestra che sbatteva e uscì sul terrazzo. Davanti a lei una grande pineta de-serta e selvaggia e tutto intorno niente. La casa più vicina distava almeno un centinaio di metri. Chiuse gli occhi e respirò a fondo, poi rientrò. Il

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vento era caldo, troppo caldo per essere ottobre e tutta la casa era inondata di aria e di luce. All’orizzonte nubi nere ancora lontane prean-nunciavano pioggia. Si raccolse i capelli come faceva sempre prima di mettersi al pc. Si sedette davanti allo schermo. Le sembrò di vedere un’ombra passarle accanto e si girò di scatto. Niente. Rimase qualche attimo in ascolto. Nien-te. Accese il computer, poi si girò di nuovo. Aga-ta l’aveva seguita e ora se ne stava sdraiata ai piedi della grande specchiera. Sveva le si avvici-nò per accarezzarla, poi si soffermò sulla pro-pria immagine riflessa. Indossava un paio di je-ans scuri e una camicia azzurra che le aderiva sul seno. Era bella e si piaceva. Si aggiustò di nuovo i capelli e poi si sedette concentrandosi sulla scrittura. Riuscì a scrivere quasi venti ri-ghe prima che le mani di un uomo le si posasse-ro sulle spalle circondandole il collo.

“Non voltarti” le ordinò una voce roca e sco-nosciuta.

Sveva ubbidì, paralizzata com’era dalla paura e dallo stupore.

L’uomo si chinò su di lei e le bendò gli occhi.

“Vieni con me” le disse con voce ferma pren-dendola per mano e spingendola verso il letto.

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Quattro piccole cicatrici

“Chi sei?” riuscì a chiedere con un filo di voce.

Silenzio.

Sveva era in piedi di fronte al letto, con gli oc-chi bendati e il cuore che le scoppiava.

“Ti prego dimmi chi sei?” chiese ancora.

“Sono uno che ti vuole. A modo mio.”

La voce era lontana, Sveva pensò che l’uomo dovesse essersi seduto nella poltrona in fondo alla stanza. Si girò in direzione della voce.

“Perché mi stai facendo questo?”

“Piccola, non ti ho ancora fatto niente” rispose sogghignando.

“Ascolta…” ora la voce era più vicina.

“Sai meglio di me che se ti metti a urlare qui nessuno può sentirti. Non hai nessuna via di fu-ga. Nessuna. Se fai quello che ti dico magari non ti succede nulla di male ma se mi fai arrabbiare, se piangi o se provi a scappare, non uscirai più da questa casa e sarebbe un peccato.”

Sveva non disse nulla, si morse le labbra per non piangere.

Lui dovette accorgersene perché carezzandole una guancia col dorso della mano, le disse: “Brava la mia piccola.”

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Con la stessa mano la spinse forte all’indietro, così Sveva si ritrovò sul letto. Lui le sfilò le scar-pe gettandole vicino alla specchiera. “Di queste non avrai più bisogno per un po’.”

Il cellulare di Sveva iniziò a suonare. Lui cercò la borsa, la aprì e lo spense.

“Neanche questo ti serve più” disse riponen-dolo sullo scaffale più alto della libreria.

“Mi cercheranno ancora” disse lei con aria di sfida. “I miei amici e quelli del giornale. Capi-ranno che mi è successo qualcosa.”

“Non preoccuparti Sveva, ci penserò io a ri-spondere al posto tuo. Anche a me piace scrive-re, scriverò tanti sms molto convincenti.”

“Come sai il mio nome?” chiese con la voce che le tremava.

“So tante cose di te, piccola.”

Si sdraiò accanto a lei, ora poteva avvertirne il respiro a pochi centimetri dal suo viso.

“Oggi facciamo conoscenza, tu ed io. Voglio lasciarti il tempo di abituarti all’idea che adesso tu sei una cosa mia.”

Con la mano sinistra cominciò ad accarezzarle il corpo, con lentezza, partì dal collo e poi scese sul seno e sul ventre, sui fianchi e poi di nuovo sul ventre. Le slacciò i jeans, un bottone alla volta e poi glieli sfilò con delicatezza. Lei lo la-

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sciò fare. Le accarezzò le gambe chiuse con le sue mani grandi e pesanti, poi le spalancò le gi-nocchia con un gesto deciso.

“Ti prego, non voglio.”

“Non dirlo mai più” le intimò con voce diver-sa.

“Scusa” disse la ragazza serrando i pugni.

L’uomo riprese ad accarezzarla con movimen-ti circolari lunghi e lenti, facendo scorrere le di-ta all’interno delle cosce, risalendo fino all’inguine.

“Non ti farò niente oggi, se sarai brava” le dis-se all’orecchio.

“Sarò brava” disse lei in un sussurro.

L’uomo le infilò la lingua nell’orecchio, le morse il lobo e poi le leccò le labbra, senza ba-ciarla. Le slacciò la camicia, le scoprì le spalle e gliele baciò facendo scorrere la lingua fino al collo. Lei non si oppose, ma lui si fermò e si staccò da lei per un attimo.

“Cosa stai facendo?” chiese Sveva.

“Ti sto guardando.”

“Anch’io vorrei poterti guardare.”

“Non provare a toglierti la benda o sarò co-stretto a ucciderti.”

Sveva rabbrividì. Si lasciò sfilare la camicia e poi si sdraiò di nuovo. Questa volta lui le si stese

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sopra. Il suo peso la schiacciava, non le era pos-sibile il minimo movimento.

“Sei bella Sveva e sarai mia.”

“Perché in questo modo?” riuscì a dire.

“Perché mi piace così. Perché non voglio che tu abbia scelta. Perché non posso essere uno fra tanti. Perché non potevo accettare un tuo no. Perché nessuno ti avrà mai come ti avrò avuto io!”

“Ho voglia di piangere” singhiozzò.

“Non farmi incazzare.”

“Scusami.”

“Adesso girati” le ordinò.

Lei ubbidì, si girò, spostò i capelli di lato e ap-poggiò la testa sul cuscino.

“Vediamo se mi ricordo dove tieni il tuo olio preferito, quello che sa di cocco e vaniglia.”

Lo sconosciuto entrò nel piccolo bagno in fondo alla stanza e ne uscì con una bottiglietta bianca. Sveva si rese conto che sapeva molte co-se di lei e questo incrementò la sua paura. Si chiedeva da quanto tempo la stesse spiando e quante volte si fosse introdotto in casa sua. L’uomo le slacciò il reggiseno e prese a massag-giarle la schiena cosparsa di olio profumato.

“Vediamo se così ti rilassi” disse con voce ro-ca.

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“Ti piace Sveva?”

“Sì.”

“Sì cosa?”

“Sì, mi piace, mi piace tanto.”

“Che cosa ti piace?”

Le mani di lui si avvicinarono al collo, strinse-ro un po’ di più.

Il cuore di lei batteva veloce.

“Mi piace come mi tocchi, adesso.”

“Brava!”

Le mani allentarono la presa e scivolarono fi-no ai glutei.

“Chiedimi di non smettere!”

“Ti prego non smettere.”

“Brava piccola. Tranquilla, non smetto.”

Le afferrò i piedi, li baciò e prese a massag-giarli uno alla volta.

Il vento ora era più fresco e riempiva la stan-za.

“Ho freddo” disse piano la ragazza.

L’uomo si alzò dal letto e chiuse la portafine-stra.

“Sta per piovere” disse mentre si dirigeva di nuovo verso il letto.

“Dov’è la mia gatta?”

“Dunque vediamo… eccola qui!”

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Agata miagolò due volte.

“Temevo che fosse rimasta chiusa fuori, ha paura dei temporali.”

“E tu di cosa hai paura Sveva?”

“Di molte cose. Di te soprattutto, di come an-drà a finire tutto questo.”

“Dipende da te come andrà a finire! Quand’eri piccola di cosa avevi paura?”

“Di me stessa.”

“Strana come risposta. Perché avevi paura di te stessa?”

“Facevo cose che nessuno sapeva. Bruciavo gli insetti, ad esempio.”

“Non è una cosa insolita.”

“Li bruciavo ogni giorno. Dovevo. Tu non ca-pisci.”

Lui rimase turbato da quella risposta.

“Cos’altro facevi Sveva?”

“Mi facevo dei tagli, dove nessuno poteva ve-derli, ho ancora le cicatrici.”

“Mostramele.”

“No!”

“Mostramele, subito!”

“No!”

“Attenta!”

“Non posso.”

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“Ti sei inventata tutto?”

“No!”

“Non le hai mai fatte vedere a nessuno?”

“A nessuno!”

“Hai mai raccontato queste cose a qualcuno?”

“No, la gente ha paura di queste cose di soli-to.”

“Io non ho paura. Fammele vedere, altrimenti le troverò io.”

Sveva sollevò le gambe e gli indicò l’incavo del ginocchio.

Lui vide le quattro piccole cicatrici. Le baciò.

“Grazie” le disse.

“Le altre sono qui” gli disse indicandogli il gomito.

Baciò anche quelle, leccandole una a una.

“Hai ancora freddo?” le chiese.

“Sì, posso coprirmi?”

“Mettiti sotto” le disse scostando la coperta.

Lei si distese e si coprì avvolgendosi addosso le lenzuola. Lui si spogliò e gettò i vestiti a terra. Quando le fu accanto si rese conto che era nudo. Infilò le mani sotto il lenzuolo e finì di spogliar-la. Le lasciò solo la benda sugli occhi e nient’altro.