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UNIVERSITÀ degli STUDI di MILANO FACOLTÀ di SCIENZE POLITICHE DIPARTIMENTO di STORIA della SOCIETÀ e delle ISTITUZIONI INSEGNAMENTO di STORIA dell’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA PROF.SSA MICHELA MINESSO “LA BUROCRAZIA ITALIANA: cultura, uomini e compiti dall’Unità al 1980” CALLEGARI DAVIDE

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UNIVERSITÀ degli STUDI di MILANO FACOLTÀ di SCIENZE POLITICHE DIPARTIMENTO di STORIA della SOCIETÀ e delle ISTITUZIONI INSEGNAMENTO di STORIA dell’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA PROF.SSA MICHELA MINESSO

“LA BUROCRAZIA ITALIANA:

cultura, uomini e compiti dall’Unità al 1980”

CALLEGARI DAVIDE

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Indice I. L’evoluzione dei compiti dell’amministrazione ……………………..p. 3 1. Profilo generale 2. Il caso dei beni culturali e ambientali e quello dell’igiene e sanità 2.1 Premessa 2.2 Il caso dei beni culturali e ambientali 2.3 Il caso dell’igiene e sanità II. Il mondo dei burocrati ……………………………………………..p. 13 1. Il primo ventennio dello Stato unitario

2. Gli anni ’80 e ’90

3. L’età giolittiana

4. Tra le due guerre mondiali 4.1 Il biennio rosso 4.2 La burocrazia fascista?

5. L’Italia repubblicana

Bibliografia …………………………………………………………...p. 25

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I. L’evoluzione dei compiti dell’amministrazione 1. Profilo generale

L’espansione dei compiti dell’amministrazione segue ovviamente ritmi ed intensità diversi a seconda dei vari momenti storici e dei singoli settori che via via perdono importanza o ne acquistano una nuova.

Ai primordi dell’unificazione lo Stato viene prevalentemente inteso come garante del mercato composto dai gruppi economico-finanziari più attivi; ne consegue un suo impegno particolare nel settore delle infrastrutture che dà luogo ad un’azione impetuosa ma dispersiva.

Anche in questa politica il ruolo dell’amministrazione appare tuttavia controverso all’interno della stessa classe dirigente liberal-democratica. Ne deriva quindi una diversità di concezioni nell’uso stesso della macchina statale, da chi intesa come elemento trainante attraverso la gestione diretta dei servizi di base e chi invece, nella gestione delle risorse, vede lo Stato in funzione esterna di sostegno dei gruppi imprenditoriali. In questo modo il blocco di comando appare diviso in consorterie regionali, tese a proiettare antiche solidarietà locali sulle occasioni fornite dalla gestione unificata delle risorse nazionali, mentre riesce nel contempo difficile amalgamare alle pedantesche prassi piemontesi quelle delle burocrazie degli ex Stati.

Anche la politica dell’ordine pubblico esprime la tutela del mercato non più dall’esterno, ma dall’interno, cioè attraverso la repressione, fino alla svolta giolittiana, di ogni movimento tendente ad alterare le condizioni di lavoro. Nel contempo, la delicata situazione internazionale in cui si trova lo Stato italiano con l’unificazione e la successiva politica di riarmo dopo l’accordo della triplice alleanza, mantengono elevato l’impegno del bilancio dello Stato per la difesa, sottraendo rilevanti quote di reddito nazionale agli obiettivi di sviluppo civile e facendo venir meno così consistenti afflussi ai due settori principali dell’economia, quello agricolo e quello industriale.

La concezione agricolturista-liberista caratterizza un atteggiamento astensionista dello Stato-amministrazione, rigido nel controllare gli organismi politici ed amministrativi ad esso sottoposti, ma lontano dalla consapevolezza di un’azione di sostegno dell’economia.

Vi è l’idea che la società civile, che è soprattutto società agricola, debba vivere una sua «autonomia»: ed anche quando si adottano atteggiamenti di supporto, come nei confronti dei comizi agrari, di fronte all’evidente debolezza di queste strutture sociali, la spinta per organismi più forti ma anche più istituzionalizzati, tipo camere di agricoltura, non progredisce, nel timore che le attività economiche vengano in qualche modo inglobate nell’apparato. Lo stesso Ministero dell’Agricoltura viene

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visto come un ufficio studi, più che come un centro di propulsione e di provvidenze, e riuscirà a sostenere l’importante iniziativa conoscitiva dell’inchiesta agraria, tenacemente voluta da Jacini, ma dalla quale non scaturiranno indirizzi di interventi capaci di caratterizzare una politica economica.

Si può cominciare a parlare di interventi sull’agricoltura da parte dell’apparato pubblico solo dopo la prima guerra mondiale, quando si affrontano tematiche come quella delle terre incolte e, in generale, dell’espropriazione a fini redistributivi in vista della creazione di una vasta classe di coltivatori diretti.

Dall’inizio del secolo si delinea sempre più intensamente l’impiego, attraverso l’amministrazione, delle risorse a scopo di controllo sociale, aumentando l’erogazione di servizi pubblici e le prestazioni sociali in funzione del consenso al sistema. Al cannone di Bava Beccaris si sostituisce ormai l’avvio dell’edilizia economica e sociale, così come, negli anni Trenta, il notevole sviluppo della previdenza sociale servirà da compensazione parziale della compressione salariale.

Questi nuovi impegni degli apparati si sviluppano in un contesto in cui si va anche perdendo fiducia nell’autoaggiustamento da parte del mercato e si acquisisce progressivamente coscienza di una allocazione guidata delle risorse. Le domande sociali penetrano all’interno dell’amministrazione attraverso la moltiplicazione di gruppi economici e sociali. La società civile entra nel sistema politico attraverso l’amministrazione prima ancora del suffragio elettorale generale maschile e l’amministrazione, da luogo «naturalmente» neutrale, perché il mercato è separato da essa e retto da automatismi, diventa un luogo parziale, in quanto retto da negoziazioni, che richiede perciò la canonizzazione formale di regole di imparzialità.

Dopo la prima guerra mondiale si comincia a determinare una contraddizione tra la spinta all’espansione dei servizi, che comporta un aumento del corpo amministrativo, e la richiesta di ridurre la presenza statale nella società. Le aspirazioni tecnocratiche del protofascismo, che avrebbero dovuto riqualificare l’amministrazione attraverso la valorizzazione delle competenze tecniche, vengono rapidamente riassorbite dalle strutture tradizionali. Per l’azione organica di sostegno la struttura tradizionale dell’amministrazione non è funzionale, soprattutto a causa delle procedure defatiganti e dei controlli legalistici.

Nei primi anni Trenta si diffonde una rete di amministrazioni parallele per enti. Taluni di essi perseguono fini politico-sociali di vario tipo, dall’assistenza alla previdenza sociale, di educazione fisica e di indottrinamento politico, di carattere ricreativo; altri perseguono finalità di protezione e direzione di settori ma nella pratica questi enti reggenti di settore diventano strumento degli interessati.

Si configura un tipo di società diretto-coltivatrice, assistita dall’amministrazione pubblica, che si sviluppa soprattutto nel secondo dopoguerra attraverso l’esperienza degli enti di riforma e di sviluppo, fino alla completa regionalizzazione di queste istituzioni. Il versante dei compiti dell’amministrazione statale attiene ormai alla gestione delle politiche agricole comunitarie e alla ripartizione di fondi predisposti sulla base di programmazioni nazionali formate con le Regioni.

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Parzialmente diverse le modalità di assunzione e sviluppo di compiti «industriali» da parte dell’amministrazione. L’industria appare costretta, fino al fascismo, in uno stesso ministero con l’agricoltura e a quest’ultima sacrificata in nome della libertà di commercio. Quando la spinta industrialista dei primi anni Settanta comincia a farsi sentire fino alle prime scelte di sostegno pubblico, l’amministrazione maggiormente interessata non è tanto quella impersonata dall’apposito dicastero, quanto quelle militari, per acciaierie e cantieri, nonché quella delle Finanze per le crescenti protezioni daziarie. I compiti non appaiono pertanto quelli di amministrazione industriale, ma di committenza e di agevolazione finanziaria e fiscale, neppure con seri controlli.

Anche nei confronti dell’industria leggera la politica industriale si svolge soprattutto sul piano della protezione daziaria.

A parte l’esperienza bellica, si può quindi dire che quello che può chiamarsi politica di sostegno industriale viene avviato al di fuori dell’amministrazione che ne reca l’intestazione e, con l’inizio del secolo, anche fuori dall’amministrazione tradizionale, secondo una linea che vede impegnata la Banca d’Italia nella crisi del 1907, la nascita del Consorzio sovvenzioni su valori industriali nel 1914, e quindi l’Imi e l’Iri negli anni Trenta fino alla Cassa per il Mezzogiorno degli anni Sessanta e alla GEPI (società Gestione E Partecipazioni Industriali) negli anni Settanta.

Ci si trova di fronte ad un pullulare di consorzi, enti pubblici economici, società per azioni, che agiscono secondo moduli completamente svincolati dalle procedure amministrative tradizionali.

Le politiche del lavoro vengono determinate in buona parte in relazione alle esigenze dell’industria.

A partire dagli anni Venti, tramontata l’idea che l’agricoltura possa sostenere il peso principale della produzione del reddito nazionale, ma data anche la precarietà di uno sviluppo industriale, si apre nel sistema un fronte aggiuntivo di tipo terziario, alimentato dalla diffusione del commercio al minuto. Si afferma così un nuovo gruppo sociale agguerrito, socialmente molto esteso, ma allo stesso tempo nutrito di una logica fortemente categoriale, che riesce a conquistare e difendere, fin dagli anni dello «Stato forte», discipline ispirate al conservatorismo dell’esistente, anche a scapito dell’interesse della gran massa dei consumatori e talvolta dello sviluppo stesso degli altri settori, ove si aggiunga la parte spettante al commercio all’ingrosso, appropriandosi di quote crescenti del reddito nazionale.

Un’altra vicenda che riguarda i cittadini è quella dell’assistenza; qui c’è un contrasto tra due amministrazioni facenti capo ad ordinamenti diversi: quello dello Stato e quello della Chiesa. Si tratta in buona parte di un confronto tra due concezioni di fondo, ma che ha rilievo nel modo di impostare un tipo di compito amministrativo da parte dello Stato, che arriva, alla fine di una lunga evoluzione, a considerare questi interventi in una prospettiva integrata di servizi sociali.

Lo scadimento storico dell’Amministrazione centrale dello Stato riguarda il rapporto con la tecnica, che non è certo quello che si può determinare con l’introduzione dell’automazione di determinate procedure amministrative.

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Ai tempi dell’unificazione l’Amministrazione centrale progetta le opere pubbliche attraverso i propri tecnici ed attiva stazioni agrarie. E sulla polemica per «tecnicizzare» l’amministrazione sanitaria vediamo giocarsi l’evoluzione di quell’apparato. Poi, progressivamente, i vari compiti tecnici vengono assunti da organismi «autonomi», mentre in alcuni casi assorbire organismi tecnici significa per l’amministrazione burocratizzarsi anziché tecnicizzarsi: e via via, ad esempio nel settore delle opere pubbliche, anche privati. È a questi vari organismi, pubblici e privati, che l’amministrazione è costretta ad attingere anche per dirigere e vigilare le varie attività, con problemi rilevanti in ordine alla privatizzazione dello Stato. 2. Il caso dei beni culturali e ambientali e quello dell’igiene e sanità 2.1 Premessa

Si è voluto scegliere, nell’ambito dei settori di sviluppo dei compiti dell’amministrazione pubblica, questi due casi perché per quanto riguarda i beni culturali e ambientali ritengo, nel corso tempo, che i governi non abbiano posto tra i loro obiettivi primari l’attenzione verso questo settore, nonostante la grande tradizione, il grande passato, il grande patrimonio dei nostri beni culturali da un punto di vista artistico.

Il caso invece dell’igiene e sanità è stato scelto perché si vuole mettere in evidenza come in questo settore, l’intervento dell’amministrazione fa registrare, più che altrove, il conflitto tra l’elemento tecnico e quello amministrativo.

Infine, si è scelto questi casi anche perché, soprattutto per quanto riguarda l’agricoltura e l’industria, gli altri settori sono stati già “toccati” nel profilo generale.

2.2 Il caso dei beni culturali e ambientali

Primo ventennio dello Stato unitario. Dopo l’unificazione il primo provvedimento in questo campo (1862) istituisce una consulta di belle arti. In questo primo decennio di unificazione progetti per una legge generale di tutela sui beni culturali e ambientali non riescono a trovare concreta realizzazione. Dal punto di vista dell’azione amministrativa le varie commissioni e ispettorati di persone competenti in materia archeologica ed artistica realizzano un decentramento organico e dispersivo, si proliferano gli organi, come le commissioni di belle arti

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nelle maggiori città e la giunta di belle arti, per informare il Ministro sullo stato delle gallerie e dei monumenti, senza disporre di una struttura sufficiente.

Nel 1875 viene istituita la Direzione Generale degli Scavi e Musei concepita come congegno per proporzionare all’inizio dell’anno le spese ai bisogni di ciascuna provincia e per unificare informazioni e metodi degli scavi secondo la scienza archeologica, nomina poi in ogni circondario un ispettore degli scavi e monumenti per avere degli informatori del Ministero.

Età crispina. Nel 1883 una relazione sul servizio archeologico si rivela come i restauri siano eseguiti tardivamente o senza idonei criteri storici ed artistici; le spese vadano a vantaggio non dei monumenti di vera importanza storica ed artistica ma di quelli di scarso interesse. Si sottolinea perciò l’esigenza di istituire uffici che provvedano alla tutela e conservazione del patrimonio artistico per regioni. Nel 1884 si nominano dei delegati regionali che, convenuti a Roma, propongono la costituzione di uffici regionali con l’incarico di rivedere e condurre a termine l’elenco dei monumenti.

Negli anni Ottanta si manifesta il massimo della resistenza conservatrice, che porta all’alienazione ed esportazione di intere gallerie. L’opposizione alla tutela dei beni viene sostenuta, tra l’altro, con l’argomento che nessuno la osserverebbe. In realtà il problema è che i vincoli “deprezzano” la proprietà e secondo le idee del tempo un quadro di Raffaello ed un paio di buoi vanno posti sullo stesso piano. Ed anche se non mancano sia amministratori, sia legislatori sensibili del bello, i secondi sono però anche proprietari, talvolta coinvolti in prima persona nell’emigrazione dei capolavori, e secondo loro, o si espropria con una giusta indennità per un grande interesse pubblico o non si può mettere la proprietà fuori commercio. È merito comunque dell’Avvocatura generale erariale sostenere in quel tempo il divieto di esportazione senza indennizzo, così come per i vincoli conservativi derivanti da regolamento edilizio.

Età giolittiana. Nel 1902, dopo un dibattito sulla tutela o meno dei beni artistici da parte dello Stato, si arriva alle legge Nasi. Essa è però carente nella tutela degli edifici monumentali nei fondi, nel regime degli scavi, nelle garanzie contro le esportazioni. Nel 1903 una successiva legge prevede il temporaneo divieto di esportazione. Nel 1909 una legge integra le deficienze della precedente per le opere di interesse storico, archeologico ed artistico.

Nel 1912, con la legge Credano, viene assicurata la tutela a ville, parchi e giardini non per il pregio che dà la natura ma per i ricordi storici. Con questa legge vengono assoggettate a vincolo di interesse artistico 443 ville in Italia sottraendole agli scempi edilizi ed avviando la legislazione di tutela di bellezze naturali e del paesaggio.

Il fascismo. Agli inizi degli anni Venti si viene consolidando la spinta per la tutela delle bellezze naturali, avviata agli inizi del secolo. Enti locali, associazioni specifiche e altri sodalizi (Touring e Cai), premono per l’istituzione dei primi parchi nazionali che infatti avviene qualche anno dopo.

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Nel 1922 si arriva alla prima legge per la tutela delle bellezze naturali, si tratta ancora di normativa di mera repressione e non di valorizzazione; inoltre la legge è generica ed indica senza definirli gli oggetti da proteggere. Dal 1927 si è previsto il parere delle sovrintendenze ai monumenti per le costruzioni di carattere stabile su aree demaniali e che ai concessionari di derivazioni idroelettriche si sono cominciati ad imporre taluni vincoli per esigenze turistiche.

Nel 1939 la nuova disciplina per i beni artistici e naturali prevede l’approvazione dei piani regolatori di concerto con l’amministrazione di tutela e l’aumento delle ammende ma non il ripristino. Si ha un ampliamento dell’oggetto della protezione: erano infatti esposte al pericolo di distruzione ville, giardini e parchi di non comune bellezza, esclusi sia dalla legge del 1912 perché non di interesse storico e artistico che da quella del 1922 perché propriamente non bellezze naturali. Per dichiarare la bellezza d’insieme l’amministrazione è chiamata a favorire il confronto fra gli interessi valutando le osservazioni coordinate delle associazioni di categoria. Viene anche emanato un regolamento che circoscrive ulteriormente la discrezionalità dell’amministrazione.

L’Italia repubblicana. Nell’immediato dopoguerra il Consiglio superiore delle antichità e belle arti propone una revisione legislativa. Nel dopoguerra i sovrintendenti non riescono ad opporre un valido baluardo alla pressione dello sviluppo economico. La composizione chimica dell’aria è cambiata creando contestualmente un’infinità di problemi per il complesso dei monumenti.

La creazione del Ministero dei Beni Culturali, se comporta la sicurezza di una certa quota di fondi, rischia di creare un’illusione dal momento che si è rifiutato per esso l’abbandono di una tradizionale normativa di contabilità. Dalla diatriba interesse pubblico-interesse privato si è passati al problema di organizzazione dei pubblici poteri. Sul piano della tutela alle insidie esterne del paesaggio interviene ora anche la Corte dei Conti, che condanna per danno erariale i funzionari che non hanno esercitato la dovuta sorveglianza e attenzione. 2.3 Il caso dell’igiene e sanità Primo ventennio dello Stato unitario. L’igiene e sanità è la branca di intervento dell’amministrazione che ha fatto registrare, più che altrove, il conflitto tra l’elemento tecnico ed amministrativo.

Alla legge d’igiene del 1865 si rimprovera di sancire la preponderanza assoluta dell’elemento amministrativo a detrimento di quello tecnico e stabilire in modo esorbitante la concentrazione dei poteri nella catena burocratica, regolamentando la materia come la pubblica sicurezza, perché il servizio sanitario è un ramo degli ordinari servizi amministrativi e deve essere affidato alle ordinarie attività

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amministrative, all’insegna di un concetto di difesa sociale dalle malattie contagiose, che non include però ancora la prevenzione, e quindi un ruolo adeguato dei tecnici.

Un’inchiesta viene ordinata nel 1865 dal Ministero di Agricoltura sulla potabilità delle acque nei comuni e ne viene fuori che esse sono la causa ordinaria di ogni genere di malattie infettive: inconveniente questo che si aggiunge all’assenza e al cattivo stato delle fognature.

I vari Consigli previsti dalla legge del 1865 appaiono inefficaci. In talune epidemie riescono a suggerire misure razionali ma i loro interventi sono fiacchi; quelli provinciali funzionano come Consigli di disciplina per gli esercenti sanitari ma non svolgono un’azione preventiva nel campo dell’igiene.

Taluni servizi, poi, come quello della vaccinazione, sono regolati da leggi che non hanno carattere generale. In altri settori, come le farmacie, esiste una varietà e diversità copiosa di leggi, che vedono l’esercizio talora libero, talaltra limitato.

Già l’anno successivo all’emanazione della legge del 1865 Ricasoli insedia un’apposita commissione che lavora per cinque anni, orientando la concentrazione piena dei servizi sanitari nel Ministero dell’Interno, che già ha assorbito i compiti di sanità marittima, tanto da prevedersi che del Consiglio Superiore Sanitario vengano a far parte anche degli ufficiali. Egli vuole però risolvere la questione generale di polizia sanitaria rispettando ad un tempo il più possibile la libertà privata, senza incagliare il libero esercizio della proprietà e della forza individuale. Concepisce perciò un ordinamento inidoneo a vincere tutte le resistenze che si oppongono ai miglioramenti igienici ed a organizzare efficacemente le difese contro le malattie ricorrenti.

Si comincia ad acquisire così con Nicotera (1876) consapevolezza di dare maggiore importanza all’elemento tecnico, con la previsione di medici e veterinari provinciali.

Il rilievo di fondo che si muove ai precedenti progetti è infatti sempre quello di far poco posto all’elemento tecnico, abbandonando l’esecuzione dei provvedimenti ad organi burocratici estranei alle discipline mediche ed ignari del linguaggio scientifico. Allo stesso tempo a chi vuole addirittura estromettere dai Consigli sanitari i non tecnici si obietta che questi organi adottano tra l’altro decisioni che richiedono cultura giuridica.

Dopo la successiva esperienza del colera a Napoli, Depretis sottolinea l’idea di fare del medico condotto un ufficiale del governo, con azione estesa dalla cura all’igiene e prevenzione, di creare ispettori circondariali e un Consiglio igienico provinciale, con componenti nominati dagli ufficiali sanitari; ma soprattutto al centro una direzione generale dell’igiene pubblica, che Depretis ipotizza, nel presentare il suo testo, possa essere diretta da un medico. Depretis viene tuttavia censurato dagli scienziati. La costruzione appare a taluni come una piramide rovesciata, di cui il ministro rappresenta la punta ed i medici condotti la base.

Età crispina.Il testo predisposto da Depretis viene rivisto, per incarico di Crispi, dal cattedratico Luigi Pagliani, che diventa il primo direttore generale della sanità e che imposta il progetto su tre capisaldi: 1) congegni amministrativi robusti, 2) prevenzione, 3) associazione di elementi amministrativi e tecnici. La necessità di

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organi esecutivi tecnici è stata a lungo misconosciuta, temendo di menomare l’attività di prefetti e sindaci col porre accanto ad essi un capo tecnico per il ramo sanitario; inoltre conservando i Consigli sanitari si vede negli uffici esecutivi tecnici una inutile duplicazione. Perciò si prevede l’ufficiale sanitario nel Comune e il medico provinciale in ciascun capoluogo.

I medici provinciali, scelti finalmente tra i migliori cultori di igiene, debbono rappresentare l’anello di congiunzione tra i corpi consultivi e l’amministrazione attiva. La necessità delle conoscenze scientifiche dei fatti è ritenuta essenziale sia per il lavoro di informazione e statistica che per applicare le misure tecniche. Si ritiene che la polizia sanitaria preventiva possa esercitarla solo il medico senza urtare i sentimenti dell’indipendenza individuale o del decoro cittadino. Ufficiali sanitari e medico provinciale devono stare liberamente e costantemente in diretta comunicazione per esporsi i fatti con rigore scientifico e tempestivamente, perché molte autorità locali, non avendo prestato fede ai loro avvertimenti, o avendoli ad arte nascosti, non hanno evitato gravi sciagure. Contemporaneamente nei vari organi collegiali i cultori di varie discipline devono concorrere ad introdurre i fondamenti scientifici dell’igiene nel servizio pubblico. Ormai provvedere all’igiene non è più ritenuto un diritto ma un dovere di privati e Comuni ed è dovere dello Stato costringerli a farlo quando lo trascurino, rimovendo le cause d’insalubrità. Quanto al rapporto tra tecnici ed amministratori si osserva che la scienza e la tecnica si adagiano sulle formule rigorose ma anche assolute, lasciando agli amministratori la difficoltà di applicazione e di conciliare le esigenze della salute pubblica con gli altri obiettivi sociali. Il maggior riguardo all’elemento tecnico e medico si rispecchia anche nel regolamento del 1889, che prevede non solo che gli amministrativi si avvalgano dei funzionari tecnici ma che essi possano delegare ad altro personale tecnico, anche estraneo all’amministrazione, l’incarico di coadiuvarli, con studi e interventi, sia pure senza diritto di voto, anche nei corpi deliberanti. Ed è altresì previsto che possano avvalersi del Consiglio Superiore e dei Consigli provinciali di sanità. Anche se alla riforma Crispi, pur indubbiamente modernizzante, non manca chi fa carico di non avere creato impiegati tecnici responsabili e di aver concesso troppo all’elemento burocratico, la gestione Pagliani in realtà è stata decisa non solo nel sostenere le esigenze dei tecnici nei riguardi degli amministrativi del ministero, ma nei confronti dei Comuni, ai quali impone di adempiere alle prescrizioni e agli oneri in materia di igiene, suscitando malcontento.

Età giolittiana. Nel 1904 la normativa giolittiana tende a favorire i consorzi intercomunali per l’ufficiale sanitario, i laboratori di vigilanza igienica e le stazioni di disinfezione, anche se si arriva al T.U. del 1907 ancor privi di esaurienti precisazioni sulla posizione dei funzionari medici e sui servizi tecnici e di polizia sanitaria.

Qualche anno dopo (1911) l’acquisita coscienza che il problema della difesa igienica è un servizio sociale porta a superare l’ottica dell’ospedale visto esclusivamente in chiave di opera pia collegata al concorso spontaneo della carità privata per sostenere l’iniziativa locale in campo ospedaliero, estendendo i mutui di

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favore, le cui condizioni vengono progressivamente migliorate con crescenti accolli da parte dello Stato. Il fascismo. Dopo alcuni perfezionamenti (1923) la disciplina sanitaria confluisce nel T.U. del 1934, quel riordinamento appare inadeguato all’evoluzione scientifica e sociale, ignorando, tra l’altro, il problema della preparazione e dell’aggiornamento periodico del personale tecnico e sanitario. Il T.U. non fa inoltre menzione di enti con importanti compiti igienico sanitari, né delle attività di valore sanitario di altri ministeri precisando le intese che invece sono necessarie. In teoria tutto appare fare capo al Ministero dell’Interno; in pratica i servizi risultano non solo suddivisi tra i vari dicasteri ma affidati ad enti praticamente indipendenti. Si sanziona così la massima verticalizzazione in una materia che richiede il massimo del coordinamento. In conclusione, nel 1934 si riesce a coordinare le attribuzioni che investono direttamente la lotta contro le malattie infettive, ma non la direzione di tutte le attività concorrenti alla difesa della salute. In quell’anno tuttavia si istituisce l’Istituto di Sanità Pubblica, diretto dal direttore generale della sanità; nel 1941 si potenzia ulteriormente l’autonomia dell’organismo. L’Italia repubblicana. Nel 1945 si crea un Alto Commissariato per l’igiene e sanità che avrebbe dovuto ereditare più o meno le competenze sanitarie del Ministero dell’Interno, salva la vigilanza e tutela sugli enti assistenziali ospedalieri, cui attendono i prefetti come organi del Ministero dell’Interno, mentre per le altre attribuzioni sanitarie essi divengono organi dell’amministrazione sanitaria. Tuttavia se l’iniziativa configura per il settore sanitario una certa autonomia amministrativa sul piano centrale, medici provinciali, veterinari provinciali e ufficiali sanitari non passano alle dipendenze del nuovo organismo lasciandolo quindi assai monco. Solo nel 1958 si istituisce il Ministero della Sanità su iniziativa parlamentare. Il Consiglio di Stato, sollecitato dal Ministero dell’Interno che contesta la competenza sulla disciplina istituzionale degli enti ospedalieri, deve chiarire che sono ricompresi nella materia sanitaria trasferita al nuovo Ministero anche quei poteri di controllo sugli enti esclusivamente amministrativi, ma strumentalmente predisposti ad un fine sanitario. Lo stesso Consiglio ritiene però che il Ministero della Sanità non erediti una competenza generale sull’intera materia sanitaria, ma solo complessi di competenze elencate e non esposte con clausola generale.

Nel 1968 la successiva normativa sulla riforma ospedaliera preciserà meglio i poteri dell’amministrazione sanitaria sugli ospedali, che vengono creati come organismi con caratteristiche proprie, qualunque ne sia l’origine, staccati quindi dagli enti pubblici aventi altre finalità, in particolare assistenziale.

Nel 1978 il sistema che si imposta con il servizio sanitario nazionale rappresenta un modello con cui la funzione da un lato si va oggettivando ma dall’altro si salvaguardano numerose prerogative del livello centrale attraverso il piano sanitario nazionale, gestito in parte dal Consiglio sanitario nazionale, mentre una parte cospicua dell’azione del settore spetta al Ministero, che esercita anche con il Presidente del Consiglio le funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività regionali. Il sistema regionale e locale gestisce dunque non tutta la materia sanitaria

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ma soprattutto la submateria ex mutualistica anche se si vede riconosciuto un ruolo nella prevenzione.

Il Consiglio Superiore di Sanità deve coordinare meglio il proprio ruolo con quello del nuovo Consiglio. L’Amministrazione centrale deve seguire l’attuazione della riforma non dal punto di vista della mera emanazione della normativa, ma come indagine sull’andamento del servizio sanitario nazionale.

Restano inoltre all’Amministrazione sanitaria centrale compiti assai delicati relativi alla registrazione dei farmaci ed al controllo sui loro prezzi e la loro propaganda.

Viene inoltre opportunamente potenziato l’Istituto Superiore di Sanità, che costituisce la reale struttura tecnica continua dell’amministrazione sanitaria, alla quale si chiede ormai un impegno programmato nel campo della medicina preventiva, con un’attività non più limitata al rapporto tecnico-consultivo con il Ministero. Se il servizio sanitario nazionale persegue, a tutela della salute dell’uomo l’identificazione e l’eliminazione della cause degli inquinamenti atmosferici, delle acque e del suolo, il Ministero della Sanità, oltre ad interventi specifici in determinati settori è chiamato a proporre al Presidente del Consiglio i provvedimenti amministrativi di fissazione e periodica revisione dei limiti massimi di accettabilità delle concentrazioni e di esposizione relativi a inquinamenti di natura chimica, fisica e biologica e delle emissioni sonore negli ambienti di lavoro, abitativi e nell’ambiente esterno.

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II. Il mondo dei burocrati 1. Il primo ventennio dello Stato unitario

L’impiegato pubblico del 1861 è lo specchio fedele dell’Italia sabauda e piccolo-borghese: piemontese, monarchico, moderato, sostenitore degli ideali risorgimentali. La sua carriera si apre con un lungo periodo di apprendistato durante il quale deve sostenere sacrifici economici in proprio. Dopo il periodo del volontariato la promozione di un esame consente di diventare applicato di 4 a classe. La norma degli avanzamenti è una progressione lenta legata all’anzianità.

La spina dorsale del nuovo Stato è costituito dal modello piemontese e dal personale sabaudo, inoltre gli assetti amministrativi dello Stato costituzionale si consolidano sul criterio gerarchico. La legge del 1853 oltre a disciplinare i rapporti tra i vari uffici e razionalizzare l’organizzazione amministrativa istituisce il protocollo e l’archivio: il protocollo è la registrazione di atti dove la comunicazione scritta sostituisce completamente quella orale; l’archivio è la memoria storica dell’amministrazione e serve a consultare i casi precedenti.

Per la sua conformazione sociale, culturale e politica, la burocrazia appare dei valori sui quali costruire l’Italia borghese e moderata: il senso dello Stato, il rispetto dell’autorità costituita, l’organizzazione gerarchica dei rapporti tra gli uomini. È su questo terreno che le fratture interne alla burocrazia post-unitaria si ricompongono e nasce la classe dirigente amministrativa nazionale e si afferma la lingua dei burocrati.

Lo scambio tra carriere politiche e carriere amministrative è la norma per una classe dirigente che garantisce al paese competenza tecnica nel governo e sensibilità politica nell’amministrazione salvando così la moralità pubblica. L’identità culturale e sociale con il personale politico appare senza residui.

Il caso dell’organizzazione dei servizi statistici, alla cui direzione viene chiamato dal 1872 Luigi Bodio è un esempio di apporto tecnico maturato all’esterno dell’apparato burocratico statale. Bodio è un tipico esponente della nuova èlite amministrativa d’avanguardia, laureato in giurisprudenza, soggiorna a Parigi maturando una solida formazione economica e statistica, insegna statistica ed economia in diversi istituti, viene nominato docente alla Scuola superiore di commercio di Venezia e poi chiamato a dirigere i servizi statistici del Regno. L’ambizione più significativa appare quella di inserire nella cultura dell’amministrazione una specialistica preparazione economico-statistica. Il tentativo di Bodio fallirà. Nel Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio (quello di Bodio) matura una leva di amministratori attenti al rapporto Stato-società, dotati di una cultura non esclusivamente formalistico-giuridica: oltre agli uomini di Bodio si possono ricordare

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figure come quella di Nicola Miraglia, Vittorio Ellena, Filippo Grisolia e Antonio Teso.

La massa della piccola burocrazia è attraversata da un disagio crescente, sia per i rigori dell’autoritarismo gerarchico sia per l’insufficienza dello stipendio mensile. Circa la metà degli impiegati pubblici guadagnano meno dei muratori e dei manovali. Il ceto burocratico intermedio comincia ad assumere coscienza della propria specifica collocazione sociale subalterna.

Di questo impiegato modesto e mediocre, rassegnato e fedele all’angustia della sua vita d’ufficio, eroe oscuro e disprezzato dell’amministrazione pubblica, Vittorio Bersezio ha tracciato un proverbiale ritratto nella sua commedia Le miserie di Monssù Travet. Nella commedia viene descritto l’impiegato vecchio stampo, pedante, formalista, di poca levatura, modesto e cocciuto, il tipo-Travet appunto: «il cappello a cilindro in ragione del grado e dello stipendio del Funzionario, la cravatta nera di seta o di lana, l’abito nero o di colore molto cupo, di taglio antiquato in ritardo sulla moda del giorno. I pantaloni neri con disegni a quadrettini o a righe. Il gilè che poteva essere in velluto di seta, in raso o in stoffa di seta di colore nero o colori sobri. Era usato anche il gilè bianco, di cascimir o di piquet. In inverno un ombrello monumentale spesso color verde pistacchio, in estate il bastone d’india o di zucchero o perfino d’ebano per i gradi più elevati con pomo d’osso, d’avorio, d’argento e raramente d’oro». Nella figura di Travet vengono al pettine i nodi e le contraddizioni che attraversano la collocazione sociale del burocrate. Innanzitutto il contrasto tra la percezione dell’impiegato regio di adempiere una funzione privilegiata e le sue miserie economiche; poi, come osserva Romano, la polemica di coloro che criticavano il sentimento di falso decoro e di spirito di corpo che spingeva i funzionari del tempo a tenere a distanza come diversi ed inferiori i ceti attivi degli artigiani, dei ricchi bottegai e dei commercianti. I secondi vedevano l’inizio di una nuova epoca di sviluppo economico capitalistico moderno che doveva segnare il tramonto del burocratismo e dei rapporti sociali connessi, i burocrati invece tenevano a distanza tali personaggi e li consideravano come diversi e inferiori. Elemento non secondario nel personaggio e nella storia l’attaccamento a quei valori che rappresentano il codice morale del burocrate dell’età liberale valido anche per un’intera classe sociale medio e piccolo-borghese. Questi valori sono: la famiglia, il dovere, la lealtà verso le istituzioni, l’obbedienza ai superiori, il decoro, il senso dell’onore, l’onestà.

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2. Gli anni ’80 e ’90

Con gli anni ‘80 e ‘90 l’impiegato cambia, si confonde con i rappresentanti della grande borghesia, l’abbigliamento e i costumi di vita debbono riflettere i tratti e i valori della nuova borghesia nazionale. Si atteggia a uomo elegante seguendo i dettami della moda trovando nell’abbigliamento il modo per mimetizzarsi nella classe media in ascesa.

Con la “riforma dello Stato” di Crispi la pubblica amministrazione in base alla professionalità e al sapere amministrativo tende a sollecitare una precisa rivendicazione di autonomia rispetto alla politica. Emerge nel periodo crispino una nuova preparazione burocratica, accanto a quella generica ed unitaria se ne affianca una più professionalizzante, più specifica e più tecnica che va a correggere la tradizionale preparazione giuridico-amministrativa. Emerge un interlocutore sinora assente, che impone la propria influenza per il controllo dell’amministrazione: l’alta burocrazia dei ministeri. La riforma crispina, con l’accentramento del potere sotto il controllo di un esecutivo “forte”, deve necessariamente far leva su un personale amministrativo che sia posto al riparo dall’ingerenza parlamentare e acquisisca nuove specifiche competenze. La riforma generale dei ruoli organici e degli stipendi ha ridotto la forbice tra i redditi delle diverse categorie di impiegati, introdotto notevoli miglioramenti economici, riequilibrato la condizione del burocrate di Stato rispetto a quella di altre fasce di lavoratori privati.

Con gli ultimi anni Ottanta si afferma una supremazia di fatto del Ministero degli Interni, emerge cioè la leadership di una burocrazia-guida. Questo era anche il ministero del Presidente del Consiglio che oltre a governare polizia e funzioni di intelligence, teneva rapporti con i notabili locali tramite i prefetti e controllava i poteri locali. È evidente in questo caso l’influenza bismarkiana di Crispi.

Le tensioni sollevate dal rapido e disordinato sviluppo delle città trovano un utile correttivo nella moltiplicazione dell’impiegato, figura sociale intermedia la cui sola presenza può stemperare lo scontro di classe, ridurre il tasso di proletarizzazione dei grandi centri urbani, costituire fiducia nelle istituzioni di fronte alla minacciosa crescita dei “ceti sovversivi”.

Assistiamo in questi anni ad un fenomeno: la meridionalizzazione dell’impiego pubblico, infatti Ernesto Ragionieri colloca proprio nell’età di Crispi la fase d’avvio della meridionalizzazione dell’amministrazione pubblica. Con l’incremento della partecipazione meridionale ai ranghi amministrativi si afferma definitivamente una cultura burocratica essenzialmente umanistico-giuridico e retorica, nonché – come ricorda Cassese – influenzata dalla visione dello Stato proprio dell’hegelismo napoletano e poi dell’idealismo di Croce e Gentile: «Nell’uno e nell’altro caso – osserva Cassese – non si tratta dell’apporto di pensatori isolati, ma di una cultura diffusa e tipicamente meridionale, che certamente ha influenzato il personale amministrativo che proveniva dal Sud. Nell’uno e nell’altro caso, questa cultura si

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oppone a una diversa «cultura» del Nord, il positivismo nel primo caso, il giolittismo nel secondo». Questione burocratica e questione meridionale tendono a divenire, da ora, due aspetti di una stessa contraddizione: ancora una volta il tema della burocrazia si incrocia con l’arduo problema della costruzione del consenso, questa volta in quell’area del Paese, il Mezzogiorno, nella quale più acutamente si avvertono i limiti del processo di unificazione nazionale.

Nel suo vademecum Zambrino Mazzei traccia un perfetto identikit dell’impiegato modello come lo si deduce dai regolamenti ministeriali alla fine del secolo. I valori fondamentali, «i doveri e virtù indispensabili» del buon impiegato dello Stato sono per Mazzei «religione, modestia, attività, solerzia, serietà, lealtà, probità, fedeltà, illibatezza, incorruttibilità, morigeratezza, zelo, abnegazione, sacrificio, merito o valore civile, cavalleria, affetto alle istituzioni, ai colleghi (cameratismo), ai Superiori, al Capo dello Stato, alla Sua Famiglia, alla Patria, loro difesa, amore dell’ordine, condotta irreprensibile, vestire decente, studio e lavoro indefessi». Nell’Italia umbertina (1878-1900), ormai distante dagli entusiasmi risorgimentali, l’impiegato tratteggiato da Mazzei rappresenta la dignità e l’autorità dello Stato, una sorta di eroe borghese, non molto dissimile da quegli altri italiani che, qualche anno prima, Edmondo De Amicis aveva proposto nel suo libro più riuscito, quel Cuore attraversato anch’esso dagli stessi sentimenti patriottici, dalla stessa morale piccolo-borghese che dominano le più modeste ed aride pagine dei Principi di officietica. Le qualità di quest’uomo senza qualità sono l’ordine, la compostezza, il culto della regola. La giornata del burocrate deve necessariamente uniformarsi alla stessa meticolosa, ossessiva ripetitività dei comportamenti dell’ufficio.

Nelle pagine del Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi la prevedibilità dell’ufficio rappresenta per il suo personaggio (che è un dipendente pubblico), il riparo contro l’imprevedibilità del mondo esterno; il silenzio e l’ordine del lavoro si contrappongono al clamore di una società che egli sente ostile e dalla quale cerca di sfuggire. La sua sicurezza di copista contrasta con le sue insicurezze di uomo fragile.

Nel mondo chiuso dell’amministrazione persino la disposizione degli spazi, il posto occupato dai mobili, le differenti distanze tra le scrivanie, la comodità o la scomodità delle sedie concorrono a stabilire in partenza i rapporti gerarchici. I locali burocratici sono concepiti come stanze separate per un lavoro che deve restare essenzialmente individualistico e separato, la distanza da un ufficio all’altro nello stesso Ministero, marcata dagli interminabili corridoi, rende gli ambienti incomunicabili tra di loro. Le scalinate d’accesso incutono al cittadino l’immagine severa di un’amministrazione irraggiungibile, ma rendono obiettivamente più lento il fluire dell’attività amministrativa. Con il crescere delle dimensioni dei ministeri si accentua il carattere di isolamento e di separatezza tipico dell’amministrazione pubblica.

La fine del secolo rappresenta per il mondo burocratico una svolta decisiva. Vengono gradualmente meno le condizioni che avevano reso possibile i legami tra carriere politiche e carriere burocratiche. È in questi anni, tra l’ultimo scorcio del

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secolo e gli inizi del decennio giolittiano, che il burocrate italiano scopre definitivamente una propria identità culturale distinta e distante dal mondo della politica, il rapporto politica-amministrazione cambia, non c’è più l’osmosi degli anni precedenti ma vi è una burocrazia che muta al mutare della domanda politica e sociale. 3. L’età giolittiana

Agli inizi del secolo la diffusione e lo sviluppo dell’organizzazione sindacale nel pubblico impiego rappresentano un fattore di trasformazione della mentalità e della cultura del burocrate. Agli albori del sindacalismo amministrativo possiamo ricordare le Associazioni generali degli impiegati che avevano scopi mutualistici, ricreativi e organizzavano attività sociali, culturali e di formazione. Abbiamo poi le associazioni degli impiegati delle amministrazioni centrali, i c.d. «centralisti» che pongono al centro del loro programma e che diverrà la rivendicazione chiave di tutto il movimento sindacale del primo quindicennio del ‘900: la riforma dell’organico. Forme organizzative più mature sono tuttavia le Camere federali e le Federazioni nazionali degli impiegati che si pongono come obiettivi chiave: l’organico, i miglioramenti retributivi, la tutela del dipendente dall’arbitrio gerarchico, la difesa della libertà sindacale, lo stato giuridico.

Nelle Federazioni matura anche un nuovo tipo di militanza sindacale: alla figura di un organizzatore improvvisato si sostituisce una leva di impiegati-sindacalisti generalmente orientati in politica verso il socialismo riformista di Turati, lettori e collaboratori dell’«Avanti! » e di «Critica Sociale». Antonio Campanozzi è un protagonista di questa trasformazione culturale. A 15 anni entra nell’amministrazione Postelegrafica e diventa presto funzionario modello che unisce una aggiornatissima preparazione tecnica alla sensibilità per i problemi di funzionamento dei servizi e del rapporto amministrazione-cittadino. La sua formazione si completa con una laurea in scienze naturali e con la passione per la letteratura. Dal 1907 Campanozzi diverrà consigliere comunale di Roma per il partito socialista. Ma molti altri giovani funzionari si orientano verso le idee socialiste.

Nasce quindi, già nei primi anni del 900, una diversa cultura burocratica, largamente influenzata dalla propaganda sindacale e socialista, ma il fenomeno resta minoritario e circoscritto a una sola parte dell’amministrazione italiana non riuscendo così a scalfire le roccaforti ideologiche tradizionali. Importanti strumenti sindacali sono la stampa sindacale e i congressi di categoria.

Sulle pagine della stampa sindacale l’impiegato medio può conoscere la legislazione che lo riguarda, discutere i problemi della carriera e della retribuzione, venire a contatto con la propria categoria.

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I congressi di categoria sono occasioni importanti, nelle quali vengono a contatto impiegati di amministrazioni e di regioni diverse e dai quali emerge una sintesi delle rivendicazioni e un’analisi unitaria della realtà amministrativa.

È utile ricordare il caso delle ferrovie. Nel 1905 viene nazionalizzato il settore che ha un’amministrazione che ricalca la struttura delle grandi società private, è un ente pubblico dotato di larga autonomia operativa, con un proprio bilancio, non soggetto ai normali controlli vigenti nella amministrazione statale ritenuti inadatti a una impresa destinata a svolgere un’attività economica. Nasce il modello inedito dell’azienda autonoma, è chiamato a inventare e organizzare questo modello il manager industriale Riccardo Bianchi, ricco di un’esperienza direttiva nelle compagnie ferroviarie private. Bianchi è il precursore dei futuri imprenditori pubblici destinati a dirigere gli enti di Stato. Di uomini della tempra di Bianchi è ricca in questo primo quindicennio del 900 anche l’amministrazione centrale dello Stato. Sabino Cassese ha ricordato più volte i nomi: Alberto Beneduce, Vincenzo Giuffrida, Eliseo Jandolo, Carlo Petrocchi, Meuccio Ruini. A ripercorrere la biografia di questi funzionari si intravedono alcune costanti particolarmente significative. In primo luogo esiste tra questi uomini un fitto reticolo di interrelazioni reciproche il cui fattore unificante sono le idee e le esperienze riformatrici. Al centro del gruppo Francesco Saverio Nitti ebbe un ruolo essenziale come punto di riferimento di tutta una serie di iniziative e studi. La seconda costante è rappresentata dall’intreccio tra carriera burocratica e responsabilità politica: alcuni (Ruini, Giuffrida) giungeranno alla poltrona ministeriale, altri graviteranno nei paraggi della politica, ispirando tra l’altro gli interventi alla Camera e al Senato degli esponenti politici loro vicini. Ma la costante più emblematica sta forse nel fatto che in quasi tutti i casi la formazione di questi burocrati si differenzia profondamente da quella retorica-umanistica a base giuridica che anche nel primo 900 è tipica dell’impiegato pubblico italiano.

Le suggestioni aziendalistiche restano però, per quanto significative, largamente minoritarie. Predomina una più consolidata cultura dell’autorità, della gerarchia e l’accettazione dei valori-guida dell’obbedienza, della subordinazione, dell’irresponsabilità.

La figura dell’impiegato statale, durante il periodo giolittiano, diventa una componente fondamentale di quella dialettica tra gruppi ed interessi su cui si fonda il disegno di mediazione politica e sociale di Giolitti. L’età giolittiana è forse il momento più alto dell’identificazione tra funzionario e funzione, tra burocrate e Stato.

Agli inizi del secolo, cultura dell’amministrazione e cultura del diritto amministrativo tendono a coincidere senza alcun residuo. Le discipline giuridiche assumono ora una ancor più netta centralità. Come l’intellettuale-giurista diventa il titolare di un sapere specialistico, il burocrate-legista può, proprio in ragione della sua formazione giuridica, assurgere al ruolo di depositario dello stesso sapere specialistico.

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È significativo il caso del Ministero dei Lavori Pubblici, un’amministrazione che dovrebbe dotarsi di un personale specificamente preparato a svolgere funzioni “tecniche” o “industriali”. In questo Ministero invece la formazione del burocrate dei Lavori Pubblici si fa più giuridica. Il funzionario pubblico nell’Italia giolittiana è essenzialmente un interprete di leggi e regolamenti. La sua maturazione professionale ruota attorno a due poli ben individuati: gli studi in giurisprudenza all’Università ed il tirocinio pratico nell’amministrazione.

La politica giolittiana verso gli impiegati si muove nella duplice direzione di ridurre le sperequazioni più stridenti negli uffici e di consolidare contemporaneamente il potere dell’alta burocrazia nei ministeri. Inizieranno ad esserci dei rapporti non del tutto chiari e trasparenti tra deputati e alti burocrati. Gaetano Salvemini scriverà che il governo Giolitti è il governo dei burocrati e che tutti i deputati hanno rinunciato a un serio controllo sull’opera dei burocrati in cambio di favori personali, è bene ricordare che l’alta dirigenza, grazie al controllo della selezione, è in grado di gestire l’ingresso nella corporazione. Man mano che dal vertice si discende verso la base degli impiegati l’adesione all’ideologia burocratica è meno consapevole, è più una filosofia spicciola dell’impiego.

L’interesse governativo è rivolto anche al problema della casa degli impiegati, tradotto in questi stessi anni in un’accorta politica di sviluppo edilizio alle cui origini possono riconoscersi intenti di più ampia portata: depotenziare le contestazioni nascenti nel mondo burocratico, allargare la base di consenso del governo nella piccola borghesia, rafforzare a Roma, in alternativa alla paventata «industrializzazione» della città e alla crescita di classi sociali «sovversive», una componente legata ai valori ideologici dello Stato liberale. La politica della casa agli impiegati si inserisce in un disegno più generale.

Come scrive Guido Melis in Burocrazia e socialismo nell’Italia liberale: «Il declino del progetto riformista nelle amministrazioni pubbliche corrisponde, in fondo, alla contemporanea involuzione politica della piccola borghesia burocratica, passata da posizioni di simpatia per il movimento operaio a un’adesione sempre maggiore ai valori dello Stato, cui corrisponde l’impronta sempre più antisocialista dell’ideologia dei burocrati. Scomparsa la figura del travet alla piemontese, povero ma onesto, il burocrate giolittiano, spesso d’estrazione meridionale, appartiene ad una piccola borghesia urbana in bìlico tra l’adesione ai partiti democratici e le suggestioni della protesta corporativa; la sua cultura essenzialmente retorica e umanistica è il riflesso di una profonda soggezione ideologica nei confronti della classi egemoni». Infatti sul finire dell’età giolittiana anche gli impiegati, come più in generale i ceti medi delle città, sono attratti nell’orbita di quell’involuzione a destra che coincide con l’apparire nel nazionalismo come forma nuova e specifica di organizzazione di massa della piccola borghesia. Perbenismo piccolo-borghese, patriottismo filo-sabaudo, retorica dannunziana hanno fermentanto a lungo nel grande corpo della burocrazia: ora (tra il 1912 e il 1914), esaurite le spinte riformiste, sindacali e persino

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socialiste del primo Novecento, i caratteri tipici della cultura burocratica ritornano in piena evidenza e alla crisi del sindacalismo di matrice turatiana corrisponde la nuova collocazione della burocrazia nelle file del blocco conservatore. 4. Tra le due guerre mondiali 4.1 Il biennio rosso

La cultura della burocrazia subisce negli anni dell’immediato dopoguerra l’urto di due nuovi fenomeni: 1) la radicalizzazione della coscienza sindacale nell’impiego pubblico e 2) l’ingresso massiccio della donna nelle amministrazioni .

Nel periodo 1918-21 si ricostituiscono rapidamente le Camere federali e le Federazioni di categoria, questa volta non più sotto l’egemonia turatiana ma con la guida della corrente massimalista e, in certi casi, di quella comunista. Le piattaforme sindacali rivendicano soprattutto stipendi più alti, lotta al caro-viveri, controllo dei ritmi di lavoro. Cortei nei corridoi dei ministeri e nelle strade, scioperi, manifesti sindacali, comizi, assemblee, riunioni con i parlamentari e gli organizzatori socialisti: sono tutte espressioni nuove, ignote al burocrate dell’anteguerra. Nei settori più sindacalizzati nasce il burocrate immerso nella vita sindacale che si trasforma a volte in organizzatore ed agitatore politico sul posto di lavoro. La stagione delle agitazioni sarà però abbastanza effimera, destinata a subire il contraccolpo della sconfitta operaia alla fine del 1920.

Il secondo elemento di rottura è costituito dall’incremento dell’occupazione femminile negli uffici. La presenza femminile cresce in particolare nei quattro anni della guerra mondiale, sia per il ruolo di supplenza che la donna è chiamata ad esercitare in occasione della mobilitazione bellica, sia in concomitanza con la diffusione della dattilografia nelle amministrazioni dello Stato. La donna assume nell’amministrazione una collocazione decisamente subalterna, l’ultimo posto nella scala gerarchica.

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4.2 La burocrazia fascista?

Il clima di benevola attesa che accompagna tra la fine del 1922 ed il 1923-24 la cosiddetta “riforma fascista dell’amministrazione” deriva anche dalla sensazione che Alberto De Stefani saprà restituire all’amministrazione l’agilità e la razionalità che sinora le sono mancate, avvicinandola ai modelli di funzionalità rappresentati dalla grande azienda capitalistica.

Ettore Lolini scrivendo sulle pagine del Popolo d’Italia manifesta le speranze del fascismo intransigente e la sua ambizione di una riforma profonda della cultura burocratica. Protagonista della riforma, pensa Lolini, dovrà essere una nuova élite di dirigenti dotata di responsabilità e capacità individuali, un’aristocrazia burocratica consapevole dei propri compiti storici nella rivoluzione fascista, strettamente collegata alle direttive del potere politico, capace allo stesso tempo di iniziativa personale. Un burocrate in camicia nera: un impiegato nel quale la coscienza politica dei fini dello Stato dovrà tradursi in professionalità manageriale, in efficientismo, in razionalizzazione delle funzioni.

Il modello di impiegato pubblico codificato dalla legislazione del 1923-24 sarà tuttavia assai diverso da quello che si immaginavano i sostenitori dell’amministrazione fascistizzata. Questo perché, non solo le misure di semplificazione sono ispirate all’obiettivo generale della riduzione della spesa pubblica, ma soprattutto perché si rafforzano “la gerarchicizzazione dell’apparato” e gli elementi di rigidità organizzativa accrescendo ulteriormente il potere dell’alta dirigenza e consolidando gli assetti tradizionali. La burocrazia dello Stato fascista sarà la stessa del vecchio Stato liberal-borghese.

Gli ultimi anni Venti rappresentano per la cultura dell’efficienza amministrativa l’amara stagione delle disillusioni: quando nel 1929 la commissione De Stefani presenterà a Mussolini in persona il suo progetto di riforma dell’amministrazione pubblica, il Capo del Governo preferirà accantonare la proposta pur di non turbare gli equilibri interni del mondo burocratico. In pratica la riforma De Stefani proponeva di passare dalla responsabilità collegiale alla responsabilità individuale del funzionario, ma questo avrebbe comportato la revisione di tutto l’impianto teorico sul quale si è finora fondato il rapporto di pubblico impiego nello Stato di diritto e richiederebbe una volontà politica rivoluzionaria che il fascismo, nonostante le sue affermazioni, non è capace di esprimere.

Cresciuta nell’amministrazione giolittiana, la burocrazia degli anni Venti resta largamente impermeabile alle spinte della fascistizzazione. Consapevole della propria funzione di garante della continuità e dell’autorità dello Stato, il burocrate tradizionale diviene durante il regime il perno fondamentale di quello Stato amministrativo che trova proprio nel fascismo la sua compiuta e raffinata realizzazione. Lo stesso Mussolini considerava la burocrazia statale il vero e più

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sicuro elemento di stabilità del regime. È il governo dei direttori generali chiamati alla collaborazione diretta con il capo del Governo.

Le istanze per la modernizzazione degli apparati e per una cultura amministrativa più prossima ai modelli industriali trasmigrano, all’inizio degli anni ’30, in quella che Sabino Cassese ha chiamato «la seconda burocrazia». La fuga dall’amministrazione dei ministeri, ormai divenuta troppo rigida, conduce alla creazione di altre amministrazioni pubbliche: gli enti pubblici a partecipazioni statale. La storia di questa «seconda burocrazia» riguarda il ruolo di uomini e di gruppi maturati nell’esperienza dell’imprenditorialità privata ed ora chiamati a costituire il nerbo della dirigenza degli enti pubblici economici (Oscar Sinigaglia e Arturo Osio) e insieme anche la vicenda di consistenti frange dell’élite amministrativa dei ministeri, coinvolte direttamente nella costituzione e nella gestione dell’amministrazione per enti: è il caso di Alberto Beneduce, il ministro segreto di Mussolini, presidente dell’IRI e di una quarantina tra enti pubblici e privati; e di Arrigo Serpieri, intellettuale-tecnico proveniente dalla carriera accademica e collaboratore di Nitti nell’amministrazione prefascista. Con gli enti pubblici abbiamo la realizzazione di assetti più agili sul tipo delle organizzazioni industriali ma nel contempo si allontano prospettive di riforma per le burocrazie tradizionali che invece diventano sempre più autoritarie e gerarchiche. 5. L’Italia repubblicana

Per quanto riguarda gli atteggiamenti, la mentalità, la quotidianità e la cultura dei burocrati nel passaggio dal fascismo alla democrazia repubblicana fino agli anni Settanta la storiografia offre scarsissimi dati di conoscenza. Tra il 1968 e i primi anni Ottanta abbiamo una maggiore attenzione al fenomeno burocratico ma rimane comunque impossibile una analisi della cultura, dei modi di vita, dei valori, del mondo degli impiegati italiani tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Comunque sia Melis pone l’attenzione su alcuni problemi.

Il primo periodo da prendere in considerazione è quello racchiuso tra il 25 luglio 1943 ed il 18 aprile 1948. La prima data apre per l’amministrazione una fase incerta e contraddittoria, nella quale, per lo meno inizialmente, si profilano la possibile rottura del tradizionale ordine burocratico e l’avvento di modelli d’organizzazione interna alternativi. La seconda data, invece, segna la conclusione del processo di «normalizzazione» politica e, attraverso la partecipazione dei ceti medi burocratici al nuovo blocco elettorale democristiano, anche il pieno recupero della burocrazia statale agli equilibri moderati dell’Italia repubblicana. Qual è l’atteggiamento del burocrate di fronte al 25 luglio? In una delle testimonianze relative a questo periodo si può leggere un’efficace rappresentazione di questa profonda crisi della continuità burocratica: «si valorizza, perché mancano gli

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archivi e diviene materialmente impossibile ricostruire i precedenti di ogni pratica, l’intuizione e la responsabilità dei singoli impiegati». Non si può escludere, specie tra l’autunno del ’43 e la costituzione del primo Governo Bonomi (18 giugno 1944), che la rinata amministrazione badogliana subisca confusamente le suggestioni che provengono da altre tradizioni burocratiche come quella americana. Sono carenti gli studi adeguatamente validi sulla burocrazia durante la Resistenza, ma forse è legittimo immaginare, per lo meno come ipotesi interpretativa, che il «vento del Nord» abbia costituito, tra il 1943 ed il 1945 e poi nei mesi immediatamente successivi alla liberazione, un’alternativa concreta all’amministrazione tradizionale con i Comitati di Liberazione Nazionale (CLN).

Nella storia delle idee e degli atteggiamenti che caratterizzano in questi anni la cultura burocratica merita un capitolo a parte la vicenda dell’epurazione. In termini generali sembra convincente la tesi di Claudio Pavone secondo la quale, proprio sul terreno dell’epurazione la continuità dello Stato celebrò uno dei suoi maggiori successi: di fronte al rischio immanente di mettere in discussione l’intero apparato amministrativo, e cioè di intaccare i codici interni che da sempre presiedono al suo funzionamento, si preferì ripiegare sulla distinzione tra la massa dei fedeli servitori dello Stato, degni comunque di rispetto, e i pochi servi sfacciati e corrotti del fascismo in quanto tale. L’ideologia della burocrazia come corpo adioforo rispetto alla politica fu così utilizzata per insabbiare l’opera depuratrice. Per quanto la storiografia concordi nel sottolineare la scarsa incidenza della campagna epurativa ciò non significa che essa non abbia però lasciato la sua traccia nella memoria burocratica né che non abbia prodotto conseguenze politiche anche profonde. Si diffonde nelle amministrazioni un atteggiamento vittimistico, si rafforza l’antico pregiudizio che la politica è sinonimo di faziosità, mentre il pubblico impiegato è sospinto definitivamente a fare quadrato intorno ai valori tradizionali della spoliticizzazione e della neutralità della funzione di Stato. I rapporti tra burocrazia e politica sono in realtà, specie durante i primi governi a base ciellenistica, potenzialmente conflittuali. Sarà Alcide De Gasperi ad interpretare acutamente lo stato d’animo della burocrazia statale e, superando la discriminante antifascista, istituirà un collegamento durevole con la psicologia dell’impiegato pubblico del dopoguerra: la base ideologica e di massa del centrismo degasperiano nasce anche su questo terreno.

Nel triennio che precede il 18 aprile 1948 le simpatie politiche dell’impiegato italiano oscillano tra l’Uomo Qualunque, qualche non trascurabile nostalgia fascista, ma soprattutto il nuovo polo d’attrazione costituito dalla DC, vi è la piena adesione dei ceti medi burocratici al fronte elettorale moderato. Nasce ora quella «elettiva affinità tra i nuovi dirigenti cattolici e le strutture dello stato liberale», quell’«alleanza tra ceto di governo e burocrazia». Quando, alla fine del ’47, l’Assemblea Costituente conclude i suoi lavori, la restaurazione degli antichi assetti all’interno dell’amministrazione è praticamente compiuta.

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Gli anni Cinquanta si aprono nel segno di un pieno recupero dell’amministrazione dello Stato a quel ruolo di mediazione e ricomposizione tra gli interessi che le era stato proprio soprattutto a partire dall’età giolittiana. Il coinvolgimento della burocrazia statale nel nuovo blocco di potere si manifesta anche nelle caratteristiche assunte dall’iniziativa governativa verso l’amministrazione: mentre i progetti di riforma amministrativa percorrono lentamente un iter che li conduce verso esiti paralizzanti, prolifera una microlegislazione particolare tesa a premiare questa o quella categoria, questo o quel settore del pubblico impiego.

Il profilo di burocrate che emerge negli anni Sessanta non contiene novità sostanziali rispetto a quello delineato per il decennio precedente. Le indagini condotte nel corso degli anni Sessanta registrano l’accentuarsi di tendenze che, pur presenti anche in precedenza, si manifestano ora con un carattere di più forte radicalizzazione: così la femminilizzazione massiccia delle qualifiche inferiori; così la crescente insoddisfazione dell’impiegato per il proprio lavoro, cui spesso si accompagna del resto l’assenza di specifiche motivazioni al momento dell’assunzione; così, infine, l’ulteriore perdita di professionalità che investe indiscriminatamente le amministrazioni centrali. I tentativi di porre riparo alla crisi della cultura burocratica, anche attraverso la Scuola superiore di pubblica amministrazione (1963), si rivelano nel tempo sostanzialmente vani. Rientra in questo quadro la caduta di prestigio che investe la figura sociale del burocrate.

Gli anni ’70 si aprono all’insegna di una profonda crisi d’identità, alla quale corrispondono i significativi anche se talvolta contradditori processi di politicizzazione dei primi anni Settanta: le mobilitazioni degli impiegati nelle manifestazioni dei sindacati unitari, la sindacalizzazione sul posto di lavoro, l’accentuazione della conflittualità nelle amministrazioni. Nonostante i mutamenti intervenuti negli ultimi decenni, i modelli culturali della burocrazia tuttavia resistono e si traducono quotidianamente in prassi amministrativa. La cultura del burocrate degli anni Ottanta riproduce assai da vicino quella dell’impiegato pubblico di Cavour.

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Bibliografia Per sviluppare questa relazione sono stati utilizzati e/o visionati i seguenti libri e saggi: 1) a cura di Sabino Cassese, L’amministrazione centrale in STORIA DELLA SOCIETÀ DALL’UNITÀ A OGGI, Utet, 1980, i saggi:

- L’evoluzione dei compiti dell’amministrazione di Piero Calandra - La cultura e il mondo degli impiegati di Guido Melis

2) Guido Melis, Burocrazia e socialismo nell’Italia liberale, il Mulino, Bologna, 1980 3) Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati, Laterza, Bari, 1992