Jeans e cioccolato

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Simona Giorgino, Sentimentale, Young Adults

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SIMONA GIORGINO

JEANS e CIOCCOLATO

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JEANS e CIOCCOLATO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-426-0 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Aprile 2012 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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RINGRAZIAMENTI In primo luogo, ringrazio la Casa Editrice Zerounoundici Edizioni per aver permesso al mio sogno più grande di diventare una meravigliosa realtà. Ringrazio i miei stupendi genitori e tutta la mia famiglia, le persone e gli amici che hanno gioito con me alla favolosa notizia di questa pub-blicazione. E dedico un ringraziamento speciale a: - Pierluigi, il mio fidanzato, che mi ha sostenuto in questo sogno sin dal momento in cui “Jeans e cioccolato” non esisteva se non nella mia testa e al quale, in realtà, devo molto più di un semplice grazie, tanto che qualsiasi parola io decida di usare risulta sempre inadeguata e tende a sminuire l’importanza di ciò che vorrei dirgli; - mia sorella Daniela che, con il suo entusiasmo, la sua stima nei miei confronti, il suo dare importanza al mio progetto e le sue lacrime di commozione di fronte alla primissima copia finita nelle sue mani, ha saputo rendere tutto ancora più speciale; - Marialuisa, la mia amica sempre presente che, con il suo sostegno e la sua fiducia in me, mi ha dato la giusta spinta per continuare a sognare. Infine, ringrazio tutti i miei lettori ai quali auguro di trovare in questo libro una piacevole compagnia! P.S. Un ultimo e altrettanto importante ringraziamento va alle persone che, dopo aver letto il libro, decideranno di mandarmi un commento all’indirizzo e-mail [email protected]. Con i vostri giudizi e le vo-stre impressioni potrò capire molte cose e migliorarmi sempre più!

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1 Credo che quest’uomo abbia finto di non sentirmi. Mi ha praticamente ignorato. È sordo? O forse non parla la nostra lingua? Beh, anche se non parlasse la nostra lingua, avrebbe potuto mostrare un minimo d'in-teressamento al muoversi del mio labiale, avremmo potuto comunicare a gesti! Invece no. Mi sta appositamente ignorando. Cos’ha contro le giardiniere? Ammetto di non essere sicuramente la donna più sexy del mondo in questo grembiule verde extralarge e con i gambali ai piedi, ma ciò non gli dà il diritto di trattarmi così. O sì? Faccio un respiro profondo nel tentativo di ritrovare la calma interiore. D’altronde, mi sono data a un corso di Yoga una settimana fa e sto cer-cando di ricordarmi quello che il maestro ci ha detto al proposito di mantenere la calma e la concentrazione. Chiudo leggermente gli occhi e inspiro... Ok, non funziona, non se un uomo che non conosco e dall’espressione da macho man ha appena piantato i quarantadue centimetri del suo pie-de nell’aiuola su cui sto lavorando. «Lei ha un piede dove non dovrebbe stare!» gli ripeto seccata per la se-conda volta, indicando con la mano il pezzo di aiuola in cui si è pianta-to. Lui si volta leggermente a guardarmi (allora ci sente!) e, senza dire una parola, indietreggia di un passo e strizza un occhio. Mi ha fatto l’occhiolino. Vuole corrompermi con uno stupido occhiolino? Dev’essere stato odio a prima vista, lo ammetto. Così come esiste l’amore, perché non può esistere l’odio a prima vista? Amore e odio sono due sentimenti di così simile natura, dopotutto. Infatti, mi rendo conto che questo ragazzo m’infastidisce solo a guar-darlo. È il tipico uomo alto (sarà almeno 1.80) con corpo asciutto e car-nagione scura e magari si fa pure le lampade! Odio gli uomini che si fanno le lampade e odio i suoi capelli neri arruffati appositamente, co-me per darsi uno stile particolare da abbinare al suo elegante abito, e

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questa smorfia che fa con l’angolo delle labbra, come se gli fosse rima-sto impigliato tra i denti un pezzo di arachide. Eccola, la sta facendo di nuovo. Com’è odioso! Ok. Credo di essermi mantenuta fin troppo calma. Al diavolo lo Yoga! «Lei chi crede di essere?» mi rivolgo a lui in tono litigioso. «Bastano una giacca e una cravatta per farle credere di essere chissà chi?» Continua a guardarmi per qualche istante con un sorrisetto sulle labbra, come stesse prendendosi gioco di me, poi mi dice con il tono più pacato del mondo: «Non mi ero accorto di aver messo il piede là dentro.» Il piede là dentro? Ma giudicate voi se “là dentro” non è un’offesa i-nammissibile! Ma con chi crede di parlare? Là dentro è un’aiuola, una bellissima aiuola, fatta con le mie mani, ci ho impiegato una settimana per farla venire così! E ora arriva lui con il suo “là dentro”! Ma stamat-tina si è alzato con la mirata intenzione di venire qui e rovinarmi la giornata con le sue offese colossali? Pretendo delle scuse. Sono così arrabbiata – e lui è così odioso nella sua giacca lucida – che farei qualsiasi cosa pur di vederlo strisciare ai miei piedi. Ma prima che io possa riaprire bocca, lui si allontana con passo incerto verso le scale che conducono all’interno del vivaio e io sento salire in me una rabbia furiosa. Forse potrei corrergli dietro per pren-derlo a pugni o per fargli lo sgambetto. No, devo stare calma. Tanto chi lo rivede più? Come minimo dopo que-sto avvenimento cambierà vivaio. E poi ho già capito che tipo è: sbat-terci la testa non ne vale proprio la pena. E non ho tempo per queste stupidaggini, perché ho preso un permesso stamattina e, una volta finito di sistemare questa aiuola, devo correre via. Ho un appuntamento alle undici: un colloquio di lavoro molto speciale, per la precisione. Ora che ci penso, è probabilmente l’emozione che mi ha reso così irascibile. La verità è che non sopporto più questo lavoro, che faccio ormai da tre anni nonostante fare la giardiniera non sia mai stato il sogno della mia vita. Qui mi ci sono trovata praticamente per caso e per pura necessità economica. È successo quando l’avvocato al quale facevo da segretaria cambiò città e io rimasi senza lavoro. Man-dai il mio curriculum a un sacco di aziende, ma l’unica che aveva preso in considerazione la mia richiesta fu questo vivaio: il Garden Paradise. In tempi di crisi, non ci si può mica tirare indietro se ti fanno un’offerta, no? Ed eccomi qui in gambali di gomma, guanti in lattice e rastrelli a creare aiuole artistiche per clienti sempre insoddisfatti.

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Cercando di ritornare alla calma e di rigettare indietro il mio turbamen-to, mi rimetto al lavoro dopo essere rimasta sola. E sarà meglio che mi sbrighi se non voglio far tardi. Ho ottenuto il permesso a patto che rie-sca a terminare entro le dieci. Per quell’ora, devo essermi già tolta di dosso questo grembiule orrendo ed essere in macchina in direzione ca-sa, dove indosserò il mio nuovo tailleur comprato proprio per l’occasione. Non sono una che ama mettersi in ghingheri e con l’estetica non ci perdo mai troppo tempo. I tacchi sono un optional mol-to alla remota per me. Preferisco la comodità di un paio di stivaletti a suola piatta, che almeno mi proteggono dal rischio di calli post-taccum. Comunque, aver comprato un tailleur è una novità bella grossa a cui chi mi conosce potrebbe stentare a credere e questo lascia intendere l’importanza che sto attribuendo al colloquio di oggi. Se fosse stato un colloquio qualsiasi, probabilmente mi ci starei presentando con quei so-liti jeans che, a furia di metterli, non si capisce più quale sia il loro co-lore originale. Il fatto è che mi sono invaghita del titolare. Ecco, l’ho ammesso. Non sono certo il tipo che s’innamora del primo che capita, ma agli occhi verdi di Paolo non ho proprio saputo resistere, sin dalla prima volta! La posizione di Paolo in tutta questa storia è un po’ particolare. È il ti-tolare del Garden Paradise (che però lascia gestire a suo zio Franco, con la conseguenza che purtroppo lui non ci mette quasi mai piede qui), di un grande centro commerciale e di un paio di punti vendita in paesi li-mitrofi. In più, pare adesso stia realizzando il progetto di aprire un’agenzia pubblicitaria che si occuperà di spot per famosi stilisti ita-liani. Ho sentito che se la cava bene nel settore, avendo una laurea in Relazioni pubbliche e comunicazioni d’impresa, più qualche specializ-zazione di alto livello. L’apertura del nuovo ufficio implica anche la presenza di una segretaria ed è qui che entro in gioco io. Ho colto al balzo l’apertura delle candi-dature e la mia fortuna è che Franco sia un amico più che un capo, così è perfettamente a conoscenza della mia aspirazione di diventare segre-taria di suo nipote, sebbene il mio successo mi porterebbe a lasciare il vivaio. Franco è un accanito sostenitore dei giovani e non sarebbe stato da lui rimanere deluso della mia decisione. Quando gliel’ho detto, si è limitato a rispondermi: «Paolo è un gran figlio di una mignotta, ma strapaga le sue segretarie e gli assistenti. Quindi che Dio te la mandi buona.» Non sono riuscita a chiedergli di mettere una buona parola per me, mi sembrava davvero troppo. Siamo rimasti d’accordo che se il col-

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loquio dovesse fallire io resterei qui al vivaio. Tutto immutato, come prima. Paolo non mi conosce neppure, nonostante io sia una sua dipendente. Quelle poche volte che è venuto qui, l’ho saputo perché Patrizia, la no-stra cassiera, me lo ha riferito poco dopo con apposita bava alla bocca (Paolo è un figo da paura), mentre io sono sempre nel retro a sistemare le aiuole e a curare le piante, e qui non ci mette mai piede, con il risul-tato che non sa neppure che esisto. Quando sono stata assunta, è stato Franco a farmi il colloquio. Franco è un uomo sulla sessantina che mi ha voluto bene sin dal primo giorno. E di Paolo sono venuta a conoscenza proprio quando nel piccolo ufficio di Franco, il giorno della firma del contratto, mi ero scoperta a fissare inebetita la foto di un bonazzo dagli occhi verdi. «Quello è Paolo» mi aveva detto Franco, interrompendo i miei pensieri. «È mio nipote. Un giovane davvero in gamba. Ha fatto di questo vivaio un posto eccezionale, non trovi? Qui non c’era tutto questo prima, sai?» Sinceramente l’unica cosa che avrei voluto sapere su Paolo in quell’istante era se avesse una fidanzata, ma Franco continuava a par-larmi delle capacità commerciali di suo nipote. «C’era soltanto una campagna e qualche albero di ulivo» affermava con aria fiera, facendo un largo gesto con le mani. Mi ricordo che avrei vo-luto dirgli “Si vede che lei è fiero di suo nipote. Anch’io sono fiera di suo nipote. Mi darebbe il suo numero di telefono, così potrò dirglielo di persona?” ma ero riuscita soltanto a fare qualche cenno con il capo. Mentre me ne sto china sulla mia aiuola nel tentativo di analizzare i danni che quello scorbutico dalla smorfia insopportabile ha causato al mio capolavoro mettendoci il piede dentro, sento una voce alle mie spalle. «Beatrice, posso parlarti un attimo?» Franco mi sta davanti con un’espressione non proprio felice. Annuisco mentre mi tolgo i guanti e lo seguo verso il suo studio. «Siediti» mi invita, indicandomi la sedia di fronte alla scrivania. Franco non assume mai questa espressione severa e questo mi dice che dev’essere successo qualcosa. «Beatrice...» Mi guarda fisso appoggiando i gomiti sulla scrivania e fa-cendosi avanti con il busto come volesse analizzarmi più da vicino. «Cosa ti accade? Tutto a posto a casa?» «Certo» rispondo io, non capendo dove voglia andare a parare.

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«Stamattina un signore venuto qui per parlarmi di lavoro si è lamentato di te. Mi ha riferito che gli hai urlato contro senza che lui avesse fatto niente di che.» Cosa avrei fatto io? Mi viene alla mente il tipo dell’aiuola e la sua odio-sa smorfia con l’angolo delle labbra. «Ma Franco, quell’uomo aveva pestato la mia aiuola!» mi difendo. «Ha provocato danni irreparabili?» chiede lui. Mi scopro a riflettere. Non posso dirgli che effettivamente non ha pro-vocato danni. «Qualcosina…» affermo con aria vaga. «E qualche giorno fa un’altra signora si è lamentata che tu non volessi dirle il prezzo delle piante, affermando che non era compito tuo.» Ma questo è esagerato! Le avevo solo detto che non era necessario chiedere il prezzo a me quando poteva trovarlo facilmente esposto sulle piante. Insomma, non posso mica conoscere a memoria i prezzi di mi-lioni di piante, no? E poi ero a fine turno e andavo di fretta! «E Patrizia dice che le hai rubato un rossetto.» Questo è davvero troppo! Le cose stanno così: Patrizia usa sempre dei rossetti appariscenti, uno in particolare, di un rosso così fuoco che, a mio modesto parere, le dona un’aria da battona. Ma lei non è così. E il fatto è che dai ragazzi riesce a collezionare solo fregature e a me di-spiace. Penso che usare un trucco pesante l’aiuti soltanto a non essere presa sul serio. A sostegno della mia tesi, un giorno le ho chiesto di prestarmi il suo rossetto, che avrei restituito il giorno dopo, e invece l’ho gettato nel bidone dell’immondizia. Avevo già in mente che, se me lo avesse chiesto indietro, avrei inventato di averlo perso o che mi fosse caduto per errore nel gabinetto. L’indomani ha indossato un lucidalab-bra rosa chiaro ed ha anche ricevuto un invito a cena da un certo Gian-ni, un tirocinante avvocato con la puzza sotto al naso, che non l’avrebbe mai invitata se l’avesse vista con quel rossetto rosso fuoco! Ci siamo capiti? «Oh Dio, Franco, ti assicuro che c’è una spiegazione valida, io il suo rossetto non l’ho “rubato”!» gli dico, mimando con le dita il gesto delle virgolette. «E va bene» ammetto infine «sarò stata anche un po’ agitata negli ultimi giorni. Ma tu lo sai, Franco, quanto ci tengo a passare di grado, come dici tu, a provare il colloquio di Paolo, a diventare qualcu-no di più. Ci tengo moltissimo, forse mi sono lasciata un po’ prendere dall’agitazione e dall’emozione, ma…»

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«…ma questo non implica che tu possa metterti a trattare così i clienti, no?» mi interrompe. «Io non ho trattato male nessuno! Ma ti pare? E poi cosa dovevo fare, lasciare che quello stronzo calpestasse tutto il mio lavoro di una setti-mana e guardarlo fare solo perché è un “cliente”?» «No, ma usa dei modi più gentili. Insomma, Beatrice, probabilmente diventerai segretaria di Paolo, ci lascerai e io in merito, lo sai, non ho niente da dire. Ma lasciaci almeno i nostri clienti.» Mi sento un verme. Sono stata solo un po’ agitata, un po’ irascibile, ma ha ragione lui, non ho il diritto di atteggiarmi a padrona del vivaio, seb-bene effettivamente sia quella che lavora di più qua dentro. «Hai ragione, scusami. Cercherò di comportarmi meglio e di mettere da parte i miei fatti privati» rispondo, abbassando lo sguardo in direzione di un vassoio di cioccolatini che Franco si ostina a tenere sulla scrivani-a, nonostante io gliene rubi almeno una decina al giorno e lui sia co-stretto a riempirlo tutte le settimane. «Certo. Altrimenti sarò costretto a prendere provvedimenti.» Ma Franco non è capace di recitare la parte del severo e la sua voce sta già subendo un lieve sdolcinamento. «Dai, prenditi i tuoi cioccolatini e vai, che fai tardi al colloquio.»

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2 Sguscio immediatamente fuori dal mio grembiule e corro verso l’armadietto a ritirare le mie cose. Esco dal vivaio veloce come un raz-zo senza salutare nessuno e raggiungo la mia macchina. La metto in moto e per un istante ho un sussulto al cuore. Ora che quasi ci siamo, mi sento soffocare al pensiero che incontrerò Paolo. Ammesso che rie-sca ad arrivare in tempo e che mi facciano entrare, dato che sono già le dieci e trenta. Chissà che cosa mi dirà, cosa penserà di me. Ho intenzione di fare una buonissima impressione su di lui, oggi. Per questo ho acquistato quel tailleur che mi dona un’aria molto professionale. È gessato, pantalone a sigaretta, camicia bianca. Il vestitino che mi ha prestato Debby avrebbe messo in risalto il mio gran sedere. Oltre alle tette. Una volta arrivata a casa, cerco di non perdere un solo istante. Mi infilo immediatamente nel tailleur e cerco di darmi una spazzolata convincen-te ai capelli. Mi passo un velo di fard sulle guance per darmi un po’ di colore. Direi di essere a posto! Non mi intendo di beauty e make-up e non amo truccarmi. Per me potrei andare bene già così! Se ci fosse Debby, invece, adesso sicuramente mi starebbe rimproverando. La im-magino mentre fa una smorfia con le labbra guardandomi di sottecchi o mentre mi dice “Credi di star andando al mercato?”. Ma cosa c’è che non va se non ho voglia di farmi troppo bella? A parte che per diventare bella non basterebbero certo una trousse e una pinzetta bensì un miraco-lo divino. Al massimo posso essere carina. E comunque c’è gente che farebbe salti mortali per trovare al mondo una sola persona in grado di non dare troppa importanza all’estetica. Ecco, io sono proprio così! Debby invece è esattamente l’opposto di me, tanto che mi chiedo sem-pre come siamo potute diventare amiche così intime. Patita di make-up e di shopping, farebbe di tutto per trascinarmi almeno un paio di volte a settimana in centro per compere o per vedermi un giorno vestire in mini di jeans e tacchi a spillo. Ma insomma, dovrebbe piuttosto riconoscere

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che stiamo crescendo. Abbiamo 27 anni, ormai. Non siamo più due ra-gazzine. Perciò, ringrazio il cielo che oggi non ci sia. Mi farebbe sicuramente svestire e rivestire mille volte e indossare tacchi dodici, a spillo, solo per fare colpo su Paolo. Ma io non ho bisogno di tutti questi artifici perché il mio fine non è piacere fisicamente! Vorrei piuttosto che lui fosse colpito da me quale realmente sono e non da quella che potrei di-ventare soltanto per un giorno. Io sono questa, santo cielo! Mi sento molto più a mio agio nelle vesti di me stessa. E poi non sono certa che con un paio di tacchi dodici riuscirei ad arrivare integra nel suo ufficio. Guardo l’orologio e mi rendo conto che è tardissimo. Esco di casa ri-cordandomi giusto in tempo di prendere al volo il mio curriculum vitae. Salgo in macchina con il cuore in gola e guido per raggiungere l’indirizzo che mi è stato indicato. Per fortuna non sto trovando intasa-menti di macchine, code, semafori rossi e automobilisti indisciplinati. Strano, dato che solitamente intrattengo con il traffico delle lunghe conversazioni non esattamente gradevoli, specie quando sono in ritardo. La radio sta mandando in onda la rubrica della mattina “A letto con il tutù”. Di solito inizia alle undici. Mi sento impallidire. È davvero così tardi? Accidenti. A quest’ora sarei dovuta già arrivare. Ascolto distrattamente quello che stanno dicendo. C’è una telefonata in corso. Una certa Samanta da Barletta si sta descrivendo. Ha una voce stridula e si sforza di parlare con un accento perfetto sebbene a tratti si lasci andare a delle marcate cadenze meridionali. Sta dicendo: «So fare il bucato, il sushi e so risolvere un sudoku in 40 secondi.» Beh, mi sembra importante. «Non ho studiato, ma mi ricordo che alle medie mi piacevano molto i logoritti.» I logoritti? Ero sicuramente assente il giorno in cui l’insegnante ci insegnava i logoritti. Ora sta comunicando il suo numero di telefono dicendo con reale entusiasmo: «Chiamatemi in tanti!» Che coraggio, la ragazza! Dovrei per caso anch’io adottare una soluzio-ne simile? Non mi si fila proprio nessuno in questo periodo! Paolo. Oh Dio, ogni volta che mi viene alla mente il pensiero di Paolo il cuore mi comincia a battere forte. Mi sento come una ragazzina di quat-tordici anni che sta per incontrare il suo primo fidanzatino per dirgli che la risposta alla sua domanda “vuoi metterti con me?” è “sì”. Mancano cinque minuti. Lo dice il mio navigatore. Cinque minuti eter-ni. Mentre calcolo mentalmente la distanza, sento squillare il cellulare. Mio Dio, devo ricordarmi di abbassare il volume della suoneria quando

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sarò arrivata al colloquio o rischio di essere espulsa per “pessimo gu-sto”. Beh, a dire il vero non l’ho scelta io. È un regalo. Debby l’aveva scelta appositamente per me, acquistandola da un sito musicale online e me l’aveva inviata sul cellulare il giorno del mio compleanno. Dappri-ma ero scoppiata a ridere credendo che fosse uno scherzo, ma quando avevo visto la sua faccia seria avevo cercato di giustificare la mia risata affermando che era una strana coincidenza che avesse pensato di rega-larmi la suoneria dei miei sogni. Ovviamente Debby mi ammazzerebbe se provassi a cambiarla e io devo sistematicamente fingere che non ci penserei neanche morta a farlo. In fondo, è diventata così un’abitudine averla per le chiamate in entrata che ormai non ci faccio neanche più caso. Guardo il display mentre il cellulare canta: “Pupacchiona bella, mi daresti il numero di tua soreeeella, per tappare il buco della ciam-beeeella”. Ha scelto questa suoneria idiota solo perché le ricordava quel giorno che un tizio l’aveva seguita fino a casa in bicicletta per dirle che voleva “tappare il buco” di sua sorella. Debby è figlia unica e la sorella in que-stione sarei praticamente io. Lei non ha mai smesso di prendermi in gi-ro per questo motivo, né mai la smetterà, specie se il tizio in questione si chiama Ermenegildo, ha un neo peloso sul naso e gira con i giornalini porno nelle tasche dei jeans. Rispondo al cellulare. È Debby. A sentirla mi sento quasi sollevata. Avevo proprio bisogno di ascoltare la sua voce rasserenante e di avere qualche suo prezioso consiglio. Spero solo che non incominci a riem-pirmi di domande su come mi sono vestita e su quale rossetto ho usato. A parte che non ho usato alcun rossetto. «Debby, grazie al cielo.» «Ti ha presa? Dimmi che ti ha presa! Com’è andata? Racconta tutto! Dove sei?» È più emozionata di me. «Debby, calma! Non ho fatto nessun colloquio.» «Cavolo Bea, mi dispiace! Lo sapevo io che era solo uno stronzo. Che ti ha detto? Scommetto che non ti ha fatto neanche entrare! Ma avevi indossato il vestito che ti ho prestato? Aveva ragione Claudia: è solo un porco.» Debby è solita andare avanti con il pensiero prima ancora che io abbia aperto bocca. «Debby, ma che stai dicendo? Cos’è questa storia di Claudia? Non ho fatto ancora nessun colloquio. Sono in macchina e sto sperando che mi facciano entrare. Sono in un clamoroso ritardo.»

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«In ritardo? Ma se sei la persona più puntuale del mondo!» «In ritardo solo di dieci minuti, in realtà. Sono stata trattenuta da Fran-co. Ma cos’è che dicevi riguardo a Claudia?» Claudia è un’altra dipendente di Paolo e lavora, con invidia di noialtre, a stretto contatto con lui. Debby la conosce per via di un rapporto di la-voro tra i loro padri. Ho cercato fino all’ultimo di farmi dire da Claudia qualcosa di produttivo su Paolo, ma ho ricavato solo degli inutili “Non saprei. Non lo conosco poi da tanto”. «Beh, niente di che. Allora, cosa ti sei messa?» Nasconde qualcosa. La conosco da troppo tempo per credere che non ci sia davvero “niente di che” in quel che ha detto Claudia. «Debby, spara. Sto per andare al colloquio, non credi che io abbia il di-ritto di sapere qualsiasi cosa?» «Sì, hai il diritto di sapere qualsiasi cosa. Ma tu non credi che ora sia estremamente importante che io sappia cosa hai indossato?» «Debby o me lo dici adesso o svelo a Walter che lo hai piantato perché indossava un paio di infradito al vostro primo appuntamento.» Con le minacce si ottiene sempre qualcosa. «No, non farlo. È davvero imbarazzante! E poi veramente dovresti an-che dirgli che gli era rimasto un pezzo di rucola tra i denti. Il fatto, Bea, è che Claudia conosce Paolo più che bene.» «A me non aveva detto esattamente così. Stanno insieme?» Premo il cellulare contro l’orecchio per essere certa di sentire bene la risposta. «No, non stanno insieme.» Emetto un sospiro di sollievo. «Ma ha modo di vedere come si comporta, che tipe gli piacciono, che… segretarie si gira…» «Cosa stai insinuando?» «Nulla. Mi dici come ti sei vestita, adesso? Hai indossato il vestito che ti ho prestato, vero?» Non ho il coraggio di dirle che ho preferito un tailleur da signora re-sponsabile al suo vestitino sexy con mega scollatura della serie “guar-dami bene le tette”. «Ho capito, tranquilla. Se non mi presento con tacchi a spillo di due metri e con le tette ben in vista non mi considera neppure, è così?» «Ehm… più o meno. Sai che oggi abbiamo dovuto fare una querela contro il vicino metallaro che non abbassa mai il volume della sua mu-sica di merda? Dev’essere un criminale.» Debby non è una che ha pre-giudizi, è solo che difende energicamente i suoi diritti! «Debby. Ti prego. Stai di nuovo cambiando discorso.»

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Capisco che voglia proteggermi, lo fa sempre quando si tratta di senti-menti, ma adesso ho bisogno di sapere! «Ok. Claudia dice che Paolo è uno, come dire, un don Giovanni! Che se la tira, se la spassa con una diversa ogni sera e tutte, bada bene, tutte con minigonna e rossetto rosso, come minimo!» «E tacchi dodici?» «E tacchi dodici, ovvio. E capelli rigorosamente lunghi. Biondi, bion-dissimi. Da Barbie. Me lo ha detto lei. È un tipo fissato! Dice che qual-che sera fa lo ha incontrato in un pub del centro in compagnia di una che aveva visto poco prima baciarsi con il batterista dei Pop-rockers.» «Ma il batterista dei Pop-rockers è una vera leggenda! E dicono sia gay.» «Bisessuale per la precisione. Sì, insomma, è per farti capire con che tipe se la fa. Capito? E le segretarie che assume, pare siano tutte della stessa razza. Mini, rossetto rosso.» «Tacchi dodici.» «Tacchi dodici. E poi considera che l’agenzia che sta aprendo non è una qualsiasi. Insomma, ho sentito che si occuperanno anche di moda.» Cala un breve silenzio, nel quale valuto se voltare a sinistra e tornarme-ne a casa prima di sentire la voce del navigatore che dice “Proseguire per cinquecento metri, poi svoltare a destra”. Decido quindi di prose-guire lungo il rettilineo e intanto mi domando come mai Debby non mi abbia informata prima di tutto questo. «Tu lo sapevi da molto, quindi» le dico, con un fil di voce. La verità è che non riesco a nascondere la delusione. Ho sempre credu-to che Paolo fosse una persona a posto. Franco me lo dipingeva come un angelo. Avrei dovuto immaginare che la sua opinione non valesse. I parenti affezionati hanno sempre opinioni positive sui propri cari, anche se sono dei criminali. «Mi dispiace, Bea. Il fatto è che ogni volta che mi parlavi di lui ti si il-luminavano gli occhi, ma è vero, è vero, avrei dovuto metterti in guar-dia. E poi non si può mai sapere! Insomma, il vestito che ti ho prestato ha sempre fatto faville!» «Debby, non l’ho indossato il tuo vestito» dico scocciata e rassegnata. «Oh. E cosa indossi allora?» «Ho un tailleur. E prima che tu me lo chieda, no, non indosso neanche i tacchi.»

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Silenzio. Per un momento temo che sia caduta e mi mordo la lingua pensando che per Debby questo può rappresentare un grave trauma psi-cologico. Dovrei usare più delicatezza quando le dico certe cose. «Debby?» «Sì» la sento dire con un fil di voce «sono qui. Il fatto è che… è che… hai un po’ di rossetto sulle labbra, vero?» Mi rifletto per istinto allo specchietto retrovisore. Questa non me la per-donerà mai. Potrei dire di sì, dopotutto non è qui per vedere se sto men-tendo. Ma la verità è che non ho motivo di mentire e in fondo voglio sapere la sua opinione. Ho davvero sbagliato a non curare di più il mio aspetto, per questo colloquio? Avrei dovuto dare ascolto a lei e indossa-re quello che mi aveva prestato? «No. Non ho il rossetto. Ma potrei cercare nella borsa, potrebbe esser-cene qualcuno dimenticato lì negli anni.» «Sì e sarebbe sicuramente di un colore che neanche mia nonna indosse-rebbe mai. Senti Bea, non fa nulla. Ora non ne facciamo un dramma. È molto probabile che così conciata non ti prenderà neppure in considera-zione, ma tu provaci lo stesso ormai!» Molto rassicurante. Sento la voce del navigatore che dice “Arrivati a destinazione”. Mi guardo intorno e vedo solo palazzi e palazzi, ampie vetrate, negozi chic pieni di donne eleganti infilate in gonne succinte. Siamo nella zona più in della città. Con un lieve sussulto al cuore, cerco con lo sguardo il numero civico 76. Oh, eccolo, proprio di fronte a me. «Sì che ci provo. In fondo un posto di lavoro ce l’ho già.» «Certo, ma ricordati: tu non vuoi stare a vita a fare la giardiniera.» Gliel’ho chiesto io di ricordarmelo, qualora me lo dimenticassi. «Ok. Io ci provo. E ora riattacco. Sono arrivata sul luogo del delitto!» Il che in un certo senso è vero. Mi sento proprio come se stessi andando in un “luogo del delitto”, in un posto orribile, a incontrare persone che saranno molto brutali con me. Mi sento un pesce fuor d’acqua qui e non ho mezzi con cui difendermi.

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3 Ok. Sono arrivata solo con quindici minuti di ritardo, che sarà mai? Probabilmente non mi faranno neppure entrare. Per un momento resto immobile a fissare il numero civico 76, come se il mio corpo si rifiutas-se di scendere dalla macchina. La verità è che la conversazione con Debby mi ha demoralizzata. Praticamente ho già perso in partenza! Guardarmi intorno in questa superzona della città non mi aiuta per nien-te. L’unica cosa che riesco a vedere è l’aspetto curato di tutte queste donne che entrano ed escono dai negozi di Gucci e Versace e l’unica cosa che riesco a sentire è l’inconfondibile rumore dei loro tacchi a spillo sul marciapiedi. Per istinto, cerco in giro qualcuna che non abbia i tacchi alti o che sia vestita in modo “normale”. Solo così mi accorgo della presenza di due ragazze abbigliate orrendamente. Datemi retta, io in paragone a loro sono Paris Hilton! Una indossa dei jeans scoloriti e un orrendo maglio-ne di lana giallo. Da qui riesco perfino a notarne le increspature. Deve aver sbagliato lavaggio in lavatrice. L’altra ha i capelli legati in un co-dino e un paio di mocassini stile anni ottanta. Un momento. Dov’è che vanno? Le seguo con lo sguardo in mezzo alla folla e vedo che stanno entrando nel civico 76. Devono essere due can-didate! Sinceramente la cosa mi rende più serena. Voglio dire, non sarò l’unica che non indossa i tacchi, almeno, no? All’improvviso mi sento più carica ed ho ritrovato il mio iniziale entu-siasmo. Alle volte si ha solo bisogno di piccole conferme. Ora almeno sono certa di non essere quella vestita peggio. Azzardo un parcheggio abusivo ma cambio idea quando noto in lonta-nanza l’ausiliario del traffico. Mi precipito quindi su un altro lasciato libero da un’auto appena ripartita. Che fortuna! È sempre così difficile trovare un parcheggio in questa città! A volte ti stupisci di riuscire a trovarlo solo dopo un’ora! Pago la tariffa del posteggio, prevedendo che il colloquio non durerà tantissimo, ammesso sempre che riuscirò ad accedervi. Quando sto per

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dirigermi verso l’indirizzo, sento un nuovo sobbalzo al cuore. Di solito sono molto grintosa, energica e non mi lascio facilmente coinvolgere da situazioni come questa. Ma anche se non amo ammetterlo, devo dare ragione a Debby sul fatto che quando entrano in gioco i sentimenti di-vento una persona completamente diversa. L’amore ha una certa influ-enza su di me: è in grado di modellarmi, di addolcirmi. Forse non è il caso di dire che sono innamorata di Paolo. Insomma, non lo conosco poi bene e lui non sa neppure della mia esistenza sul pianeta terra. Però quell’uomo mi prende alla grande ed è per questo che oggi sono così emozionata. Avrei dovuto accettare che Debby mi accompagnasse. Ho rifiutato quando me lo ha proposto perché alla mia età dovrei essere in grado di fare le cose autonomamente. Glielo dico da tempo ormai: dobbiamo smetterla di fare tutto insieme come quando avevamo 17 anni! Tiro un profondo respiro ed entro decisa nel civico 76. Subito rimango folgorata dall’eleganza del posto. Ci sono lampadari splendenti sul soffitto, potrei dire che sono completamente di cristallo. Su basamenti dorati sono appoggiati dei vasi con delle bellissime or-chidee. Di fronte a me c’è una reception lunghissima, in legno scuro, dove due ragazze vestite in giacca nera e camicia bianca parlano al tele-fono. C’è anche una sala d’attesa grandissima sulla destra, ai piedi di una lunga scalinata con i passamano dorati. Sui divanetti ci sono un sacco di ragazze, probabilmente anche loro in attesa del colloquio. Mi rifletto per un attimo in un enorme specchio che scopro sulla mia sini-stra e improvvisamente mi ricordo che sono vestita in modo orrendo. Almeno di questo mi sono convinta dopo la conversazione con Debby. Mi dirigo verso la reception dove mi accoglie con un sorriso cordiale una delle due operatrici che ha appena finito di parlare al telefono. «In cosa posso esserle utile?» «Ho un colloquio con il signor Paolo.» «Il suo nome, prego?» «Beatrice Torretta.» «Attenda solo un attimo.» Non sono neanche riuscita a dirle che sono in ritardo. Ha già composto un numero e la sento dire: «La signorina Torretta per il colloquio del dottor Bernardis.» Poi riattacca subito e rivolgendosi a me dice: «Prego, si accomodi in sala d’attesa. I colloqui non sono ancora iniziati, per questo le perdonano il ritardo.» Mi sento avvampare. «Tra un po’ sarete raggiunte dalla signorina Vera.»

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Balbetto un “grazie” e mi dirigo verso i divanetti per prendere un posto e per mimetizzarmi al più presto nella folla. Intanto mi chiedo chi sia questa Vera. Non ho mai sentito parlare di lei. Mentre, ancora incredula, provo a realizzare di avercela fatta nonostan-te il mio ritardo colossale, occupo un posto accanto a una ragazza dai capelli mossi castano-scuri. In realtà, non posso fare a meno di lasciar cadere l’occhio sulla sua minigonna mozzafiato. Dio, ma le sembra il modo di venir conciata a un colloquio di lavoro? La gonna è così corta che riesce a coprirle se non all’incirca un quinto della coscia. Ha calze color carne e tacchi altissimi. Quando finalmente riesco a distogliere lo sguardo dalle sue gambe, mi accorgo che non è l’unica. Quasi tutte so-no vestite così, tranne qualcuna che sembra avere un po’ più di logica nella testa. O forse quelle a non avere logica siamo proprio noi, le sfiga-te senza i tacchi? Sono tutte molto belle, eleganza e cura dei dettagli. Più le guardo, più mi rendo conto di essere ridicola al confronto. Ci siamo candidate per essere le segretarie del capo di un’agenzia pubblicitaria. Ci dovremmo occupare di prendere appuntamenti con stilisti famosi e roba del genere. Forse avere un bell’aspetto e una buona presenza è un requisito fonda-mentale per questo lavoro, ma io non lo avevo neanche considerato. Colta da un’improvvisa folgorazione, mi guardo intorno per cercare le ragazze che avevo notato fuori, quelle vestite più orrendamente di me. È solo per, come dire, per avere le mie “piccole conferme”, per conso-lazione, ecco. Guardare chi sta peggio ci aiuta a non considerare chi sta meglio e, di conseguenza, ad avere più stima di noi! E all’improvviso eccole, in piedi accanto a un distributore di caffè, che si accingono a tornare ai divanetti con aria indifferente e riprendere i posti che avevano già occupato con le loro borse orrende. Ora che le vedo più da vicino, noto che si sono anche truccate malissi-mo. Una si è messa un rossetto fucsia che le dà un’aria da battona e l’altra ha troppo fard sulle gote e lo smalto nero, e le sue unghie sono corte e mangiucchiate! Eppure, sembrano piuttosto tranquille e serene. Non si rendono conto della loro disarmonia con il resto della gente qui? Mi trovo a pensare che forse sono io a esagerare, sono io che sto dando importanza alla cosa. Ma sì, certo, dev’essere così. Non siamo mica a un casting di moda! Anche se, a dire il vero, a guardarmi intorno mi viene il dubbio. Ma cosa vado a pensare? È un colloquio serio e ora la smetto di fare questi stupidi pensieri e attendo che sia il mio turno. Re-

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sponsabile e decisa. E male che vada, mi costringo a ricordarmi che ho sempre l’opportunità di continuare a fare la giardiniera. C’è un silenzio tombale. Nessuno parla. Una ragazza ha appena afferra-to una rivista appoggiata sul tavolino di vetro e ha iniziato a sfogliarla. Decido di fare lo stesso. Afferro una rivista e la apro su una pagina a caso. Leggo distrattamente le prime righe dell’articolo. “Tanti progetti e importanti propositi per il nuovo anno di Filippa La-gerback. La bella showgirl di origini svedesi è un fiume in piena, per-ché in questo 2011 vorrebbe realizzare tutti quei propositi, professionali e privati, che si prefigge ormai da tempo.” Mmm. Io odio la parola “propositi”. Soprattutto al plurale. Ognuno ha sempre tanti propositi e quanti se ne riescono a realizzare, in realtà? Io, per esempio, ne ho sempre un sacco ma non ne realizzo mai nessuno. Per questo nuovo anno avrei voluto realizzarne tanti e che cosa ho in-vece ricavato? Una sola lezione di cricket dopo aver espresso il desiderio di imparare un nuovo sport; un solo giorno di volontariato presso un’associazione per disabili, dalla quale sono letteralmente fuggita perché una delle vo-lontarie aveva deciso di adottarmi come la sua confidente di turno (o il suo confessionale, il che non faceva grossa differenza). Nel giro di due ore mi aveva raccontato la sua intera esistenza, vita morte e miracoli, senza che io avessi mai potuto aprire bocca e dimostrare, per lo meno, di essere una creatura con capacità di linguaggio. Non è stato semplice liberarmi di lei, per niente semplice. Ora ignoro tutti i suoi messaggi e non rispondo mai alle sue chiamate. Una mattina l’ho vista uscire da un’abitazione e mi sono nascosta appiattendomi contro lo sportello di una macchina. Poi, sopraggiunto all’improvviso, il proprietario della macchina mi ha chiesto cosa stessi facendo e io mi sono finta alla ricer-ca di una coccinella facente parte di una specie rarissima. Insomma, vorrei essere più costante nei miei propositi, non interrompe-re progetti che ho iniziato da poco solo perché mi viene in mente di cominciarne di nuovi. Così corro il solito rischio: di non portarne a ter-mine neanche uno! Vorrei fare qualcosa di buono per me e per il mondo. Per esempio, vor-rei imparare ad ascoltare i problemi della gente, rispondere ai loro mes-saggi e alle loro chiamate quando hanno bisogno di sfogarsi (questo va-le per chiunque tranne che per la volontaria dell’associazione: lei parla veramente troppo). Ma non voglio soltanto stare ad ascoltare: voglio

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rendermi utile. Quindi prometto che, non appena mi si presenterà l’occasione, mi renderò utile per qualcuno! Poi vorrei frequentare qualche corso, per imparare uno sport o una nuo-va disciplina. Questo è proprio un chiodo fisso. Potrei fare qualsiasi co-sa, pattinaggio artistico, pallavolo, calcio femminile, balli caraibici… Santo cielo, com’è che non mi è venuto in mente prima? Ma certo, m’iscriverò a un corso di balli caraibici! Wooow! Tornata a casa, girerò subito nell’elenco dei numeri telefonici della cit-tà, cercando alla voce “scuole di danza caraibica” o come si chiamano e ne sceglierò una. Mi sento entusiasta! Rimango per un lungo istante a fantasticare su come sarebbe iscriversi a una scuola di balli latino-americani. M’immagino una sala da ballo e-norme, con tante coppie che volteggiano nell’aria al ritmo di una musi-ca caliente, io abbracciata a un bel cavaliere cubano... Mio Dio, non vedo l’ora! A dire il vero, ammetto di aver sempre desi-derato diventare una brava ballerina (quando dicevo di aver sempre de-siderato diventare una brava giocatrice di cricket, in realtà stavo attra-versando un periodo di crisi esistenziale, quindi non vale. La stessa co-sa è valida per quel periodo in cui pensavo di voler diventare la più fa-mosa collezionista di tappi di bottiglia). Che bello: imparerò a ballare! Beh, questo vuol dire che dovrò rinun-ciare ai corsi di Yoga a cui mi sono iscritta la scorsa settimana. Dopo-tutto, non ero poi così sicura di essere portata per lo Yoga! Ok, allora. Da oggi incomincio con questi due propositi: 1) aiutare la gente; 2) imparare a ballare. L’arrivo di Vera interrompe i miei pensieri. Deve avere più o meno la mia età. Indossa una camicia lillà con dei volant azzurri ad altezza seno, un tubicino nero su un paio di calze ri-camate e delle decolleté altissime. Ai polsi ha una serie di braccialetti molto delicati che luccicano e tintinnano. Ha in mano un taccuino e una penna e si è fermata di fronte a noi. Ci sta guardando una per una. Men-tre annota qualcosa, dice: «Io sono l’assistente del dottor Bernardis. Prima di essere ricevute da lui, vi sottopongo a una breve valutazione. Quando chiamerò il vostro nome, voi mi direte brevemente chi siete, i vostri interessi principali e quali sono le vostre attuali occupazioni. Marta Piccini?» Vedo una ragazza che si alza. È magrissima, indossa un paio di jeans e una giacca blu legata davanti con una corda intarsiata di strass. I suoi

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capelli biondi scendono lisci e morbidi lungo la spalla sinistra e ha due tette così grosse e sode che sembra essere appena uscita da una puntata di “Plastick". Sento che dice: «Sono appassionata di pittura, disegno vi-gnette umoristiche per la rivista “Getta a terra la penna” e sono una stu-dentessa di architettura.» Mentre parla, Vera la osserva dalla testa ai piedi. Mi viene subito in mente che stia analizzando la sua presenza fisica. Quindi annuisce e le dice: «Da questa parte, per favore» indicando la sua sinistra. «Caterina Fossarelli?» Si alza una seconda ragazza che non si potrebbe dire esattamente una modella. Ha i capelli appiccicati alla testa della serie “stamattina sono stata leccata da una mucca” e si potrebbe difficilmente scommettere che sia di sesso femminile. Inizia a descriversi: «Appassionata di fiori, da anni mi occupo di composizioni floreali per matrimoni aiutando la ditta di mio padre.» Ancora una volta vedo Vera intenta a fare delle fotogra-fie visive. «Alla mia destra, grazie.» Comincio a tremare. Ogni volta che chiama una ragazza la cosa si svol-ge esattamente allo stesso modo. Lei le squadra dalla testa ai piedi men-tre ascolta cos’hanno da dire sul loro conto e poi, dopo aver annotato qualcosa sul suo taccuino, suggerisce loro dove posizionarsi. Finora, quasi tutte le ragazze sono andate a finire alla sua sinistra. E la cosa curiosa è che le ragazze capitate sulla destra, quelle povere poche disgraziate, sono quelle, come dire, con una presenza fisica meno gra-devole. Basti pensare che tra di loro ci sono anche le due alle quali ave-vo affidato la mia consolazione, le due vestite orrendamente. Comincio a sospettare che si stia facendo uno scarto a partire dall’aspetto fisico, il che sarebbe alquanto inadeguato ma, d’altro canto, mi sento come se la cosa non mi potesse sorprendere più di tanto, dopo le confessioni di Debby al telefono. Ogni volta che guardo le ragazze sulla sinistra mi dico che forse non dovrei neanche trovarmi qui. Oltre a essere belle, tra l’altro, sono qual-cuno. Hanno tutte delle passioni, molte di loro studiano all’università. E io? Cosa potrò dire di me? Sono una semplice giardiniera che si occupa di piante e terricci. Ho preso a malapena il diploma e mi sono fermata a metà del primo anno di università. In più, il mio aspetto non è certo quello di una modella da set fotografico. «Chiara Perrucci?» Si alza una ragazza molto alta, sembra emozionata. Indossa un ma-glioncino a rombi verdi che tutto sommato non è male, non l’avesse in-

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dossato su un paio di orrendi pantaloni rossi. Stona un po’ alla vista. Comunque è molto in gamba, sta dicendo che è iscritta alla facoltà di medicina, che sta per laurearsi e che ha già deciso di specializzarsi in oncologia. Vera la guarda ancora un po’, annuisce, annota qualcosa sul suo taccuino e poi dice: «Sulla destra.» Mi batte forte il cuore. Siamo rimaste in poche e da un momento all’altro dovrebbe chiamare il mio nome. «Beatrice Torretta?» Come non detto. Mi alzo e mi sento le gambe tremare, tanto sono emozionata. Cerco il coraggio dentro di me, che non mi è mai mancato, e inizio a farfugliare qualcosa: «Sono Beatrice Torretta, ma tutti mi chiamano Bea… Sono appassiona-ta di Yoga, frequento infatti un corso da un po’ di tempo» Scusate, ma non potevo mica dire che lo frequento da solo una settimana e che sono intenzionata ad abbandonarlo per iniziarne uno di balli caraibici! «E i-noltre mi dedico spesso ad attività di volontariato presso un’associazione per disabili» Lo so, lo so, mi sento un verme, ma è la cosa più ovvia che mi è venuto in mente di dire. Avrei anche voluto dir-le “lavoro in una delle ditte del signor Bernardis”, ma temo che a quel punto si sarebbe interessata a me e mi avrebbe chiesto “in qualità di?” e io avrei dovuto dire di fronte a tutte queste studentesse universitarie che faccio la giardiniera. Ho finito di descrivermi e ora mi aspetto il verdetto: destra o sinistra. Vedo che mi guarda per intero. Per un istante considero l’idea di retro-cedere per nascondere i piedi dietro il divanetto, mossa da un improvvi-so odio nei confronti dei miei mocassini, ma non credo sia una buona idea. Le scarpe sono la cosa su cui si è soffermata di più sulle altre ra-gazze. Mi sento come se fossi in un lager durante la seconda guerra mondiale, in attesa di sapere quale sarà la mia sorte: camera a gas o lavori forzati. Quando arriva ai miei piedi, noto che fa una leggera smorfia. Ha arric-ciato il naso. Ma no, no, è stata la mia suggestione. Sicuramente me lo sono immaginato. «Sulla destra» la sento dire. A capo chino, mi posiziono accanto alle altre ragazze. Da un lato sono contenta d’aver superato questa prima prova, dall’altro sono curiosa di sapere quale sarà la sorte di noialtre. Non è detto che la

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cosa sia negativa. Probabilmente ci dispone in questo modo per motivi logistici. Dopo aver interrogato le ultime ragazze, Paolo fa il suo ingresso nell’atrio e si posiziona di fronte a noi. Mi sento morire. È più bello che mai! Giacca, jeans e scarpe nere camosciate, due fossette irresistibili sulle guance e il profumo più buono che abbia mai sentito in tutta la mia vita. «Eccoci qui!» lo sento esclamare con entusiasmo. Oh mio Dio. «Allora» dice, facendo un gesto incomprensibile con la mano. Si lascia suggerire qualcosa nell’orecchio da Vera e poi si rivolge a noi del gruppo “di destra”: «Vogliate seguirmi…» Come fossimo soldati in guerra al seguito del loro comandante, ci ac-codiamo a lui fino al suo ufficio. Ci prega di attendere in sala d’attesa e quando si chiude la porta alle spalle io ricomincio a respirare. Non sa-pevo di essere così brava nell’apnea. Forse dovrei frequentare un corso, sono certa che diventerei bravissima. Ho sempre desiderato diventare un’esperta apneista o come si dice. Paolo chiama a gran voce la prima candidata. Trattengo di nuovo il re-spiro. Ok. Niente panico. Sono solo cominciati i colloqui. Sento alcune delle ragazze rimaste accanto a me scambiarsi delle confi-denze. «Non sapevo che fosse così bello.» «Neanch’io! Se lo avessi saputo mi sarei messa qualcosa di più carino.» Che sarebbe mai questa storia di Paolo carino? Mi lascio prendere da una specie di gelosia. «Non sapevate che è così carino?» chiedo, sporgendo il busto verso di loro e assumendo un’espressione della serie “Io lo sapevo e voi no”. «Parla piano!» dice una di loro, mettendosi un dito sulle labbra. Ops. Mi rendo conto di averlo detto ad alta voce. «Perché, tu lo sapevi?» ribatte Chiara. Mi ricordo il suo nome perché l’ho associato agli orrendi rombi verdi del suo maglione. «Eccome» rispondo io, cercando di mostrarmi modesta. «Io lavoro già per la sua azienda…» Mi stanno guardando a bocca aperta. «…e cono-sco anche suo zio. Insomma, siamo amici di famiglia.» Un’altra ragazza mi chiede con curiosità: «Lavori già per la sua azien-da? E cosa fai?» Mi coglie in contropiede. Non avevo considerato questa domanda. Non vale, non mi lascia il tempo di inventarmi una bugia più interessante!

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Farfuglio qualcosa, poi cerco di riassumere un’aria composta e mi af-fretto a dire: «Svolgo per loro dei compiti… come dire, quotidianamen-te e… opero nel settore… tecnico-ambientale» faccio un largo gesto con le mani. Tecnico-ambientale? È una parola che esiste? Spero di essere stata ab-bastanza convincente, ma in realtà le ragazze mi stanno guardando per-plesse. Studio i loro volti per prevedere se ci sono nuove domande e, prima che qualcuna di loro possa aprire bocca, mi affretto a cambiare discorso. «Lo sai che hai proprio un bel maglioncino?» mi rivolgo a Chiara, sfio-rando appena un rombo ad altezza vita. Lo sanno tutti che l’argomento migliore per cambiare discorso con una donna è l’abbigliamento. E in-fatti la vedo tutta euforica avviare una noiosa narrazione sulla sua av-ventura mattutina con il guardaroba, ma fortunatamente è un argomento a cui risultano essere molto interessate anche le altre. In pochi secondi, ci ritroviamo immerse in confidenze sulle nostre scelte d’abbigliamento, della serie “Io ho messo questo perché mi fa sentire più donna”, “Io ho puntato sulla femminilità”, “Io ho preferito la como-dità per sentirmi a mio agio” e via dicendo. «Ma… cosa intendi, nello specifico, per settore tecnico-ambientale?» Merda. Chiara mi sta guardando con aria perplessa. Temo d’aver stimolato la sua curiosità. Credevo che l’argomento abbigliamento avrebbe distolto per sempre l’attenzione dal mio lavoro. Mi sbagliavo. Anche le altre hanno ripreso a guardarmi con fervido interesse, come se la domanda di Chiara fosse esattamente quella che avrebbero voluto farmi tutte. E a-desso cosa dico? Solo un miracolo può salvarmi. «La prossima!» Questo è un miracolo! La porta dell’ufficio si apre per vederne uscire una ragazza completamente in lacrime che scompare dalla nostra vista prima che qualcuna di noi abbia la possibilità di farle qualche domanda. Io e le ragazze ci scambiamo delle occhiate terrificanti. Non posso leggere nei loro pensieri, ma sono abbastanza convinta che, come me, anche loro vorrebbero fuggire a gambe levate. Mi ricordo che da bambina ero convinta che i pensieri della gente fos-sero tante piccole scritte a caratteri arabeschi che uscivano dalla testa delle persone e bastava restarsene un po’ in silenzio per riuscire a cap-tarli. Ero una bambina con una fervida immaginazione! Chiaramente una volta cresciuta ho capito che è una cosa assurda. Però, chissà, mi

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ritrovo a pensare, quanto sarebbe bello se potessimo imparare a leggere la gente nei pensieri. Riuscirei a capire cosa pensa Paolo! Mio Dio, alla sola idea mi sento elettrizzata. Già me lo immagino, mano tra i capelli, taccuino e penna, sguardo assente e una scritta che esce dal suo cervello “Questa è perfetta…”. Guardo il soffitto con aria sognante, quando sento Chiara che mi si av-vicina all’orecchio per dirmi: «Ho l’impulso di andarmene.» Mi sfiora la mente che una in meno potrebbe sempre far comodo, ma guardando i suoi pantaloni rossi e i rombi verdi del suo maglione mi rendo conto che non ho motivo di temere proprio lei. «Perché?» mi scopro a domandarle. «Ma hai visto tutte le altre? Quelle del gruppo “di sinistra”?» Mima le virgolette. «Era ovvio che saremmo capitate a destra, ti pare?» Primo, come fa a dire questo se nessuna di noi conosce il senso di que-sta assurda distinzione tra destra e sinistra? Secondo, vorrebbe insinuare che era ovvio che anche io sarei capitata nel gruppo di destra? Terzo, come osa dubitare di me, non si ricorda che qui sono un’amica di famiglia e che come minimo mi verrà riservato un trattamento spe-ciale? «Ma nessuna di noi può ancora dire nulla» ribatto risentita e vedo che mi lancia un’occhiata della serie “stai cercando di auto convincerti?”. All’improvviso mi rendo conto che è tutto più che chiaro, che noi ra-gazze abbiamo capito benissimo il senso di questa distinzione in due gruppi e che il nostro, quello “di destra”, potrebbe essere facilmente ri-battezzato come il “gruppo delle sfigate”. Ma non intendo assolutamen-te perdermi d’animo. Devo mantenere il mio entusiasmo iniziale se vo-glio dare una buona impressione durante il colloquio. Mi si apre nella mente l’immagine di me vestita con un’uniforme da segretaria, qualcosa di simile a un camice da infermiera così corto da lasciar vedere le autoreggenti (nel mio immaginario le mie gambe sono lunghissime e il mio giro vita da sballo!) e porgo a Paolo una tazza di caffè bollente mentre lui mi guarda con un luccichio negli occhi e mi dice con sguardo innamorato “Grazie, Bea”, scandendo perfettamente le lettere del mio nome. Che fantasia idiota! Intanto, i nostri colloqui volgono al termine e non sembrano essere an-dati benissimo. Tutte le ragazze sono uscite dall’ufficio di Paolo chi col broncio chi piangendo.

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Siamo rimaste solo io e Chiara. Nel silenzio di questo corridoio, mi sembra quasi di percepire il rumore dei nostri cuori che battono all’impazzata, all’unisono. «Neanche per un esame all’Università sono mai stata così agitata» sta dicendo. E mi ricordo che Chiara è quasi un medico. «Chiara Perrucci!» sta chiamando Paolo. La vedo chiudersi la porta dell’ufficio alle spalle. Era proprio necessario lasciarmi per ultima? Da quando Chiara è entra-ta nell’ufficio, il mio cuore batte all’impazzata ancora più di prima. Vorrei non pensare a nulla in questo momento, vorrei svuotarmi di tut-to, ma è inevitabile che mi vengano alla mente i gruppi di “destra” e “sinistra” che si sono formati, il tailleur antiquato che indosso e le rac-comandazioni di Debby al telefono. Ma cerco disperatamente di scac-ciare via questi maledetti pensieri. Voglio entrare tranquilla e serena in quell’ufficio quando Chiara sarà uscita, come se non ci fosse stato nes-sun antefatto, nessuna ragazza piangente, nessun gruppo di sfigate, nes-sun tailleur gessato senza tacchi. Cercando di concentrarmi su me stes-sa, come mi trovassi a una lezione di Yoga in cui il maestro dice “E ora un bel respiro profondo!” chiudo gli occhi e mi accomodo su un sedile. Posso farcela. È quello che continuo a ripetere tra me e me. Posso farcela. «La prossima!» No che non posso farcela! Il mio cuore riprende a battere forte mentre mi avvio verso la porta dell’ufficio, incrociando di sfuggita Chiara che sta uscendo per lasciar-mi il passo. Cerco di decifrare il suo volto, ma non esprime alcuna e-mozione. Per un momento considero seriamente l’idea di scappare. Dio santo, è solo un colloquio di lavoro! Ok, ok, non un colloquio qual-siasi per me, lo abbiamo capito, ma si tratta pur sempre di un semplice tête-à-tête con un mio consimile. Non devo mica incontrare un extrater-restre che si ciba di comuni mortali! Decido di calmarmi e di indossare un sorriso a trentadue denti, cercan-do di mettere da parte paure e angosce. E ora entro. Decisa e responsa-bile. Cribbio! L’ufficio di Paolo è un vero sballo! Anche qui, come nella hall, c’è un enorme lampadario di cristallo che pende sulle nostre teste. Siamo circondati da elegantissimi specchi incorniciati di dorato e anche il soffitto è tutto specchio. Ci sono me da tutte le parti, con il risultato

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che ovunque io mi volti, sono destinata a incontrare la mia immagine, che mi ricorda puntualmente d’aver indossato questo orrendo tailleur passato di moda che mi fa sembrare una vecchiaccia. Mi accomodo sulla sedia che mi indica Paolo e resto per un attimo a guardarlo mentre consulta i miei dati sul curriculum vitae che gli ho passato. Ogni tanto lo vedo dare anche una sbirciatina al taccuino su cui Vera aveva preso appunti. All’improvviso alza lo sguardo e mi pianta addosso i suoi stupendi occhi verdi. Mi accorgo che ho ricominciato a trattenere il fiato. Sto per svenire. Se mi guarda ancora un po’ non riu-scirò a comporre frasi di senso compiuto. A meno che l’emozione non mi stia giocando brutti scherzi, credo che non siano passati neanche due minuti da quando sono entrata in questo ufficio e quello che sta dicendo fa credere che sarò fuori tra meno di un altro minuto. «Voglio essere sincero, come lo sono stato con le altre.» In quel momento si apre una porta interna e vedo Vera entrare in punta di piedi e appoggiare in silenzio dei documenti sulla scrivania di Paolo. «Cerco una persona con altre… caratteristiche» e per me è come se a-vesse detto “Cerco una ventenne con un gran bel cu… rriculum vitae”. Lo guardo inebetita. Vorrei dire qualcosa di intelligente, ma mi sento la bocca serrata e il corpo immobilizzato. Non mi ha fatto neanche una domanda. Non mi ha fatto dire niente, non mi ha permesso di presentarmi! Che razza di colloquio è, allora? Non mi farò stroncare così, senza neanche aver avuto la possibilità di dire qualcosa su di me! Ora gli faccio vedere io, chi sono realmente. Io non sono quella che pensa lui. Non sono un’ingenua sfigata vestita male. È vero, non sarò una modella, non sarò una grande esperta di pubblicità, non ho una lau-rea, ma sono una persona intelligente e con una sensibilità. Ora glielo dimostro, gli faccio vedere io, gli dico che… Pupacchiona bella, mi daresti il numero di tua soreeeella, per tappare il buco della ciambeeeella. Merda! Ho scordato di abbassare il volume della suoneria! Non ho il coraggio di guardarlo negli occhi. Sarò diventata sicuramente di un co-lore tra il viola e il bordeaux. Spengo immediatamente il cellulare con un gesto fulmineo e mi scopro a dire un flebile “Grazie” per coprire l’imbarazzo. Grazie? Ma grazie di che? Prima di mandarmi via, è anche così gentile da dirmi, indicando la dicitura “Esperienze professionali” sul mio CV: «Comunque, il posto al

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vivaio, quello non te lo toglie nessuno» e accenna un sorriso. Che buon uomo! Potrei odiarlo per tutta la vita. Mi sta fissando muto. Per un momento penso che probabilmente mi stia facendo uno scherzo. Mi ritrovo a domandarmi se per caso non sia il primo di aprile. Poi mi ricordo che siamo ancora a febbraio. Ma me lo immagino mentre scoppia in una violenta risata e dice “Bea, scherzavo! Mio zio mi ha parlato di te, il posto è tuo!”. Invece continua a guardar-mi e solo dopo qualche secondo mi rendo conto che sta aspettando che me ne vada. Mi alzo dalla sedia, afferro il curriculum che mi sta porgendo e me ne vado senza dire una parola. Questo almeno se lo merita. Si merita la mia indifferenza e il mio silenzio! Me la tiro fino all’uscita sculettando sui miei mocassini di camoscio marrone. Mocassini di camoscio marrone? Sembro cadere dalle nuvole. Come posso indossare un paio di mocassini di camoscio marrone sotto un tailleur gessato? Sono l’imbranataggine fatta persona. Come poteva Paolo assumere una come me? Una stupida giardiniera in tailleur e mo-cassini. Quando esco dall’ufficio, c’è Chiara che mi aspetta. Che carina, pensa-vo fosse andata via. Ci guardiamo e in un istante, senza una sola parola, sappiamo perfetta-mente cosa vorremmo dirci. E ora sappiamo anche il motivo del pianto di tutte quelle ragazze e il senso di quella divisione in due gruppi. «Lasciamo il posto alle altre» mi dice Chiara con un occhiolino. Già. Il colloquio è il loro, non il nostro. Non è mai stato il nostro. Si so-no sbarazzati in fretta di noi “sfigate” per avere tutto il tempo di valuta-re le altre. Avrei dovuto immaginarlo invece di illudermi come una bambina. Avevo già perso in partenza e sono stata così stupida da non dare ascolto al mio istinto e alle parole di Debby. Ma, in fondo, se non provi non puoi sapere, no? Stranamente, non mi sento poi tanto scossa. Chiara indossa un sorriso così affabile che potrei dimenticarmi in un batter d’occhio di quanto è appena accaduto. Mi lascio passare in mente un paio di volte soltanto il viso di Paolo mentre mi dice “Il posto al vivaio non te lo toglie nessu-no” e poi decido di buttarmi tutto alle spalle e di invitare Chiara per un caffè. «Volentieri!» accetta con grande euforia. Almeno, ho trovato un’amica.

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4 Una volta fuori, i nostri volti si illuminano ed emettiamo all’unisono un sospiro di sollievo. Che liberazione essere fuori da quel posto orrendo e lontane da quelle persone meschine! «Non mi sono mai sentita tanto umiliata in vita mia» sta dicendo Chia-ra. Succede. Ma so che questa umiliazione un giorno resterà solo un ricor-do di cui ridere. Forte di questa convinzione, le propongo un lounge bar dove ci si può sedere all’aria aperta e scambiare quattro chiacchiere di fronte a qual-cosa da bere. Non sono un’amante di bar e similari, ma quando mi tro-vo con gente nuova cerco di tirare fuori il lato più “mondano” di me, anche se non so nemmeno cosa si ordini per aperitivo. Adocchiamo il tavolino più esposto al sole e prendiamo posto. Sem-briamo allegre e spensierate e, tra l’altro, non abbiamo più toccato il di-scorso del colloquio da quando siamo uscite. È come se volessimo met-terci sopra un cerottino e guarire questa piccola ferita. E poi siamo così prese a parlare animatamente che non ci sono buchi di silenzio da riem-pire tornando sul discorso. Stiamo parlando animatamente perché abbiamo scoperto di avere una passione in comune: i balli latino-americani! Lo so, lo so, la mia pas-sione è nata solo circa un paio d’ore fa, ma lei non lo sa e non vedo perché privarmi di questa gioia di condividere una passione con qual-cuno. In fondo è vero che ho sempre desiderato diventare una ballerina, sebbene non abbia mai inseguito questo sogno. «Io ho fatto due gare e sono arrivata seconda in entrambe le occasioni» sta dicendo euforica. Gare di ballo? Accipicchia, deve essere davvero brava. Non posso dirle di aver fatto anch’io delle gare. Sarebbe davvero troppo. Cercherò di mantenermi sul leggero. «Io invece non ho mai fatto gare.» Mi schiarisco la voce. «Ma solo per-ché non ho voluto accettare.» Vedo che mi guarda perplessa.

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«All’epoca avevo un fidanzato geloso e non sopportava l’idea che io vincessi una gara senza di lui.» Forse sto arrossendo e credo di non a-verla mai guardata negli occhi per più di un secondo mentre lo dicevo. «Quanto ti capisco!» dice, sempre più euforica. Pare l’argomento le stia proprio a cuore. «Anche io avevo un fidanzato all’epoca» dice «un tipo un po’ strano. Lui era gelosissimo di Raul, il mio compagno di ballo, credeva che a-vessi avuto una relazione con lui. Invece mai, neanche un bacio, ci cre-di?» Mi punta addosso uno sguardo sorridente. «Sì che ci credo» dico convinta. «Ballare insieme a una persona non sempre vuol dire averci avuto una relazione!» Faccio una smorfia come per dire “ma cosa diavolo andava a pensare il tuo ex!”. Poi, siccome lei mi sta guardando fissa e sembra molto interessata al mio discorso, mi sento in dovere di continuare: «Anche se… a volte succede!» E faccio dei movimenti indecifrabili con la mano. In realtà non so neanch’io quello che voglio dire. «Perché, tu hai avuto una relazione con il tuo cavaliere di ballo?» mi chiede incuriosita. Mi piace l’idea di avere una relazione con un cavaliere di ballo. Am-metto che è una cosa su cui ho sempre fantasticato. Forse è il motivo per cui desideravo diventare una ballerina! «Sì!» mi scopro a inventare. «Ho avuto una relazione con il mio cava-liere.» E incrocio le gambe. Beh, dopotutto può essere successo davve-ro in qualcuno dei miei sogni, no? «Con il tuo cavaliere attuale?» «Sì.» «Quindi state ancora insieme?» «No, tra noi è finita.» Cerco di chiudere il discorso. Ma che diavolo...? Devo essermi ammat-tita. Perché sto raccontando tutte queste balle? Mi viene in mente che non è la prima volta che lo faccio. Quando mi trovo a parlare con per-sone che non conosco e che molto probabilmente non rivedrò mai più, mi capita spesso di dire qualche piccola bugia. Una volta, in treno, ho raccontato al mio vicino di posto che ero una pattinatrice professionista e che Carolina Kostner era una mia amica in-tima. Alla fine gli ho dovuto fare un autografo e l’ho salutato accen-nando passi di pattinaggio artistico. Lo sanno tutti che il treno è il posto per eccellenza in cui puoi racconta-re cavolate sulla tua vita, possibilmente dopo esserti assicurato che il

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tuo interlocutore abiti lontano da te almeno cinque centinaia di chilo-metri e non possegga parenti nelle vicinanze di casa tua. Ma Chiara non abita a cinque centinaia di chilometri e non siamo su un treno, quindi sto facendo una gran cavolata. Forse è meglio dirle che sto scherzando. Ma la cosa risulta alquanto ardua dal momento che Chiara ha deciso di confessarmi la sua eterna cotta per il suo compagno di ballo e adesso mi guarda con espressione vittimale mentre mi chiede: «E a te com’è suc-cesso? Dimmi, ti prego. È da anni che impazzisco, ma non riesco pro-prio a fargli capire che mi piace. Tutti credono che la nostra sia solo empatia da danza.» Pronuncia la parola con un’espressione di disgusto. «Ma che empatia ed empatia, io mi sono innamorata sul serio! Cosa de-vo fare, Bea?» Mi sta chiedendo un aiuto. Ha la faccia sconvolta e percepisco dispera-zione nella sua voce. Sembra che stesse aspettando proprio me per con-fidare finalmente a qualcuno questo macigno che si portava sul cuore. E io, dal canto mio, mi sento lusingata che stia chiedendo aiuto proprio a me. Non posso deluderla confessandole di aver mentito finora e che di relazioni con compagni di ballo non ci capisco proprio un fico secco. D’altronde, non mi sta chiedendo quale bisturi usare per aprire il pan-cione di una giovane donna incinta, mi sta solo chiedendo un parere su un problema di cuore ed è un argomento su cui mi sento anche abba-stanza ferrata. Sono certa che non farò male a nessuno se le racconto qualche piccola bugia su di me e, soprattutto, questa mi sembra proprio l’occasione giusta per incominciare a interessarmi un po’ ai problemi degli altri e dare una mano. Praticamente il mio proposito numero 1! E se voglio realizzare un proposito è meglio cogliere al balzo quest’occasione, perché domani potrei già aver cambiato idea. «Beh…» Mi schiarisco di nuovo la voce come stessi per fare un discor-so importante di fronte a un grande pubblico. «La cosa non è affatto semplice, ma neanche difficilissima.» Assumo un atteggiamento di ri-flessione, picchettando con le unghie sul tavolino per guadagnare tem-po. «Credo che la cosa più importante sia comunicare, parlare. Quindi devi dirglielo» concludo con l’espressione che probabilmente Einstein ha assunto quando ha esposto la teoria della relatività. «Tu come hai fatto, con il tuo?» «A me è successo tutto… in modo spontaneo, ecco.» Ho le guance in fiamme. Adesso ho proprio la netta sensazione di star intrufolandomi in un labirinto senza uscita.

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«In che modo? Se non sono indiscreta.» «Ehm… È successo che un giorno lui non si è presentato a lezione e io ho dovuto ballare da sola.» Che stronzata è questa? Questi sono i momenti in cui mi piacerebbe che si aprisse un varco in terra come nei cartoni animati e scomparire dalla vista del mio interlocutore. «Quindi?» fa lei, con l’espressione di chi non ha afferrato il punto. «Quindi io l’ho chiamato al cellulare e gli ho chiesto perché fosse as-sente quel giorno, che senza di lui non avrei ballato e bla bla bla.» Lo sanno tutti che bla bla bla è il modo migliore per essere vaghi su un di-scorso e chiuderlo lì all’istante, ma con Chiara non funziona. «Quindi?» mi chiede ancora. Ok. Ho voluto la bicicletta e adesso pedalo. «Beh… Gli ho detto che lo amavo e lui ha detto che amava me. Poi si è presentato a lezione e amen.» Amen ha la stessa funzione di bla bla bla. Non sono bravissima a inventare storie seduta stante. «Che bello! Vi siete confessati reciprocamente il vostro amore!» «Già.» Faccio un cenno al cameriere che venga a servirci. Io ordino la mia so-lita cioccolata calda, Chiara un cappuccino. Ok, niente panico. Il fatto è che avrei potuto certamente dirle che era tutto uno scherzo, ma l’avrei dovuto fare una decina di battute fa. Ades-so è un po’ troppo tardi. Mi prenderebbe per una stupida bugiarda che racconta frottole per farsi la grande. E poi sono decisa a non buttare nel cesso il mio proposito numero 1. «Ma perché non si era presentato a lezione e poi, dopo la tua telefonata, è venuto?» «Dice di essersi finto in malattia perché era diventato insostenibile a-vermi accanto senza confessarmi il suo amore.» La conversazione sta degenerando e io non so più che cosa inventarmi. «Ma adesso basta parlare di me, dimmi piuttosto di te e di questo Raul» concludo. Chiara mi spiega tutta la situazione per filo e per segno, non tralascian-do alcun particolare, neanche quella volta che le è capitato per caso du-rante un Tango Argentino di sfiorare le parti intime di Raul e scoprire che era eccitato. «Ah, beh, è successo spesso anche a me» ho commentato in quell’occasione.

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Infine tira un sospiro di sollievo e dice: «Sono contenta di aver incon-trato una persona che sa di cosa parlo.» “Chi, io?”. Ammetto di essere brava a cacciarmi nei guai, ma dopotutto è possibile che non rivedrò più questa ragazza e tutto questo resterà un ricordo di cui sorridere, come tanti altri nella mia vita. Finita la nostra colazione a base di cioccolata e cappuccino, Chiara mi propone una passeggiata per negozi. Io accetto, considerando che oggi ho tutta la giornata per me e non ho impegni imminenti. Paghiamo il nostro conto e ci allontaniamo dal bar. Stiamo costeggiando una vetrina che espone abiti di carnevale, corian-doli e stelle filanti, quando Chiara mi domanda con curiosità: «Qual è la tua specialità, quella per cui sei più portata?» Evito il suo sguardo e mi blocco ad ammirare un abito di dama dell’ottocento (le solite tattiche per guadagnare tempo e inventare una balla all’istante). Sto fingendo di non averla sentita, quando lei me lo ripete più forte: «Qual è la tua specialità?» Se non erro, finora non abbiamo toccato per niente l’argomento “cuci-na”, quindi dubito che mi stia chiedendo quale pietanza sono più brava a preparare. Vuole sapere quale ballo so fare meglio di tutti. Merda. Qualcuno mi suggerirebbe un ballo caraibico, cortesemente? «Oh, un po’ tutte, per dire la verità» affermo con fare modesto, rima-nendo vaga. «Allora devi essere davvero brava… Ma non hai un ballo preferito, uno che ti piace fare più di tutti? Io amo il Tango Argentino, per esempio. Un tempo invece amavo la bachata.» La bachata! Come ho fatto a dimenticarlo? Lo sanno tutti che la bachata è un ballo caraibico. Colgo la palla al balzo ed esclamo: «Ora che mi ci fai pensare, la ba-chata è quello che mi riesce maglio!» «E come si chiama la scuola che frequenti?» Chiedo l’aiuto del pubblico. Cacchio. Io non conosco nessuna scuola di balli caraibici! Credo di star protraendo troppo a lungo questa farsa. Sono una cretina, ecco cosa sono. E ora cosa le dico? Inventerò un nome. Tanto è una grande città. Non conoscerà mica tutte le scuole della città? E se poi si informa in Internet? «Si chiama… El fuego, ma i proprietari hanno deciso di non farne trop-pa pubblicità perché preferiscono avere pochi ballerini ma buoni…

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immagina che non hanno neanche voluto farsi un sito web!» improvvi-so, anticipando la sua curiosità. «Incredibile! Ho sempre desiderato una scuola piccola piccola, senza troppi iscritti!» Non ditemi che adesso mi chiede di iscriversi nella mia? La anticipo dicendo: «Peccato che nella mia scuola non stiano accet-tando più nuovi iscritti, altrimenti ti chiederei di venirci!» Sorrido a fa-tica. «Non preoccuparti, non potrei mai lasciare Raul e cambiare scuola. Lui è devoto alla nostra Sabor Latino.» Lunga vita a Raul! Avanziamo di ancora qualche passo lungo il marciapiede e, una volta arrivate di fronte a una vetrina di accessori per donna, gli occhi di Chia-ra si illuminano e mi chiede di entrarci. «Ti piace Bijou Brigitte?» urla. Faccio cenno di sì con la testa e la se-guo nel negozio. In realtà non ho mai sopportato tutte queste ghirlande che le donne si mettono tra i capelli, alle orecchie o al collo. Io non so-no come tutte le altre. Sono molto semplice, essenziale, non come certe che amano assomigliare ad alberi di Natale. A giudicare dal suo abbi-gliamento, avrei giurato che anche Chiara fosse come me. Invece, da quando è entrata in questo negozio sta subendo una specie di spavento-sa metamorfosi. La vedo salterellare di qua e di là, da uno scomparto a un altro, prendere ora un paio di orecchini e portarselo accanto all’orecchio per vedere come le potrebbe stare, ora un grosso fiore fuc-sia da applicare sui capelli e la sua voce diventa quasi acuta quando e-sprime giudizi riguardo agli articoli esposti sugli scaffali. Io rimango quasi immobile a fissarla, fingendomi interessata ad ammirare le colla-ne ogni volta che lei mi guarda. Mi era capitato di entrare in questo ne-gozio una sola volta, quel giorno che Debby mi costrinse a comprare un paio di orecchini che mi fece indossare per il giorno del mio complean-no (mi aveva organizzato una festa a sorpresa e ci teneva che tutto fosse “perfetto”, festeggiata compresa). Ora Chiara ha preso in mano due paia di orecchini enormi, uno color argento e uno color d’oro. Mi si avvicina chiedendomi: «Quale pensi che stia meglio su questo maglione?» Lancio un’occhiata ai suoi orrendi rombi verdi. «Questi» concludo, indicando gli orecchini argento, ma non sono per niente convinta. La verità è che su quell’orribile maglione nessun paio di orecchini potrà mai andare bene. Per la prima volta in vita mia mi ritrovo a pensare di aver più gusto in fatto d’abbigliamento rispetto alla

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persona che mi è di fronte. Poi abbasso lo sguardo sui miei mocassini di camoscio marrone e cambio idea. Ma questo è un dettaglio irrilevante! Chiara si sta dirigendo verso la cassa per pagare il paio di orecchini che le ho consigliato. Quando torna verso di me con il pacchetto in carton-cino argentato che contiene il suo acquisto, è tutta felice come avesse appena vinto alla lotteria. Non capirò mai perché le donne si trasforma-no quando entrano in negozi di questo genere. Sono anch’io della razza, ma non mi capita mai di impazzire di fronte a un “accessorio”. Insom-ma, l’umanità va avanti anche senza che le donne indossino monili! Uscite da Bijou Brigitte, torniamo indietro sulla strada già percorsa. La mattinata volge al termine e stiamo per salutarci. Quando arriviamo nei pressi della mia macchina, Chiara mi fa notare di essere venuta in auto-bus, quindi decido di offrirle un passaggio. Siamo partite solamente da due minuti e sento Chiara che mi strilla nell’orecchio: «Bea, guarda! Questa è la mia scuola di ballo! La cono-sci?» Mi sta indicando una grande struttura dipinta di arancione con un’insegna luminosa “Sabor Latino”. Per poco non mi veniva un colpo. «No, non la conoscevo. Bella!» Mi sforzo di sembrare eccitata. «Ehi, perché non mi mostri anche la tua?» mi propone. Merda. «Non è il caso. È molto lontana da qui…» La mia voce trema. «Dai, ci impiegheremo pochissimo, voglio solo vederla! Magari un giorno vengo a trovarti…!» È eccitatissima all’idea. E non posso dire la stessa cosa di me. Ok. Allora: adesso le farò vedere dov’è la scuola di ballo, indicandole un punto a caso ovviamente, magari correndo alla velocità della luce per impedirle di focalizzare bene il posto, poi fingo di ricordarmi di un impegno urgente e la liquido in un batter d’occhio prima che possa chiedermi di rivederci o, peggio, chiedermi il numero di telefono. Piano perfetto. Non posso certamente considerarmi una che riesce a realizzare i suoi propositi, ve lo avevo detto! Alla luce di tutto quanto è accaduto nel corso delle ultime ore, ho già cambiato idea sul fatto di aiutare Chiara coi suoi problemi di cuore. Insomma, non posso mica permettere che ci vada di mezzo la mia reputazione di ragazza che non racconta mai bal-le, no? Il tutto si risolverà quando io e questa Chiara non avremo più niente a che fare. Lei si dimenticherà di me e io fingerò di non averla mai conosciuta.

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Dopo qualche minuto, sto girovagando per un isolato mai visto in vita mia. Noto una strada non troppo anonima e sono attratta dal cartello che riporta “Via dell’Amore”. Mi immetto in Via dell’Amore e mi guardo intorno alla ricerca di un posto che possa almeno lontanamente assomi-gliare a una scuola di ballo. Rallento il passo quando noto una saracine-sca abbassata con su disegnati dei graffiti dal significato incomprensibi-le: è perfetta! Potrebbe essere quella la mia scuola di ballo! Ho visto diversi film in cui i personaggi usavano un garage di questo genere per le proprie lezioni di danza. «Eccola» dico a Chiara, indicandole la saracinesca «quella è la mia scuola, devono aver chiuso da qualche minuto. Così non sembra gran-ché, ma dentro è favolosa.» «Non c’è l’insegna?» Fortunatamente non ha visto il cartello VENDESI che è sbucato fuori dal nulla. «Vogliono mantenere l’anonimato, come ti dicevo.» Che razza di scuola di ballo è una scuola senza insegna, in un buco chiuso dietro a una saracinesca piena di graffiti, senza un sito web, che vuole mantenere l’anonimato e che non accetta nuovi iscritti? Certo che ho proprio una fantasia sfrenata. «Figo! Mi piacerebbe molto far parte di una scuola così, piccola, ano-nima, dove nessuno rompe…» «Ma Raul è devoto alla Sabor Latino» le ricordo. Non si sa mai, doves-se dimenticarsene... «Lo so, lo so.» La vedo riflettere. Non starà mica cambiando idea? «Pe-rò… potrei sempre provare a convincerlo!» Non posso crederci. Devo immediatamente concludere qui questa reci-ta. «Cavolo!» urlo, colpendomi la fronte con il palmo della mano per farle credere di essermi appena ricordata di un impegno importantissimo. «Ho dimenticato di avere un appuntamento! Non sono ancora in ritardo, se mi sbrigo potrei arrivarci in tempo!» Accelero di colpo e vedo Chia-ra comprimersi contro il sedile. «Dov’è che eravamo dirette?» Mi faccio indicare la strada per casa sua e in poco più di un paio di minuti siamo accanto a un cancello verde con la targa “Villa Perrucci”. Cavolo, Chiara abita in una bellissima villa. Non mi spiego il suo or-rendo maglione a rombi da quattro soldi.

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Prima che possa chiedermi qualcosa, le dico: «Mi dispiace tanto di tutta questa fretta, Chiara, ma devo proprio andare!» E dopo aver chiuso lo sportello alle sue spalle, fa per affacciarsi al fine-strino con l’intenzione di parlarmi. Ma io sono già partita a tutto gas.

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5 Una volta arrivata a casa, decido di prepararmi qualcosa di sfizioso per il pranzo. Generalmente non mi impegno in cucina, ma oggi sento di dover tenere occupati i pensieri facendo qualcosa di insolito. Sto cercando in tutti i modi di scacciare via il pensiero di Paolo dalla mia testa e di non pensare all’umiliazione subita al “colloquio”, quando mi arriva un messaggio al cellulare. Questa deve essere Debby. Come non detto. COM’È ANDATA? Digito in tutta fretta usando il T9: TI ASPETTO ALLE 3. Come farò a dirle che aveva ragione? Che Paolo si è rivelato proprio come mi aveva accennato lei al telefono? Debby diventa insopportabile quando sono costretta ad ammettere che ha ragione. Assume quell’espressione odiosissima della serie “te lo avevo detto io”. Soltan-to per non essere costretta a subirmi quella faccia eviterei di parlarle dell’accaduto. Ma penso di non avere scampo. Non mi sento esattamente delusa da Paolo. Forse un po’ me l’aspettavo. Non ho mai seriamente sperato di essere presa in considerazione da uno come lui. Ma rimanerci male fa parte dell’essere umano, specie di quell’essere umano quale sono io sempre a naufragare tra delusioni e colpi bassi. Dopo il pranzo, come al mio solito mi adagio sul divano con il PC sulle gambe. Connettendomi a internet, la prima cosa che faccio è aprire il mio profilo Facebook e controllare la bacheca o se ci sono notifiche. Mi accorgo di avere una nuova richiesta di amicizia. Accipicchia, non ac-cadeva da almeno due settimane. Clicco velocemente e con la giusta enfasi per scoprire di chi si tratta, immaginando già di trovarvi la foto di qualche mio ex ragazzo che si è pentito di avermi mollata. Chiara Perrucci.

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Merda! Credevo di essermene sbarazzata. Era ovvio che lo avrebbe fat-to. Basta conoscere nome e cognome di una persona e Facebook te la fa trovare senza problemi! Devo ricordarmi di cambiare le impostazioni sulla privacy. Mi sfiora l’idea di ignorare la sua amicizia, quando mi balena alla men-te che su Internet diventa incredibilmente più facile dire le cose. Potrei confessarle tutto per iscritto e liberarmi dei miei sensi di colpa legati alle fandonie che le ho raccontato. Le scriverò un messaggio e tutto sarà finito. È così semplice! In fondo sono stata bene con lei stamattina, per-ché perdere l’occasione di una bella amicizia? Potrebbe insegnarmi qualche passo di bachata o forse presentarmi un bel ballerino cubano! Mi ha anche mandato un messaggio. “Stamattina non ho fatto in tempo a chiederti il numero. Ma per fortu-na esiste Facebook! Aggiungimi”. Oggigiorno non si fa più amicizia come una volta. Non è più indispen-sabile incontrarsi per strada e stringersi la mano. Oggi “aggiungiamo” le amicizie al nostro repertorio attraverso un click di mouse. Nella vita reale non ho tanti “amici” quanti ne ho su Facebook. Sulla piattaforma virtuale ne ho 1256. Nella vita reale su per giù un paio. Inoltre, avere una vita virtuale ti semplifica di gran lunga le cose: per esempio, quando ti scoccia avere qualcuno tra gli amici lo puoi “cancel-lare” dalla tua vita e anche quello avviene con un semplice click e per giunta senza dare spiegazioni o metterci la faccia. Non dal vivo, alme-no! Questo mi sollecita ad aggiungere Chiara. Dovessi aver bisogno del click-cancella-amici, potrei farlo senza esitazioni. Beatrice Torretta ha stretto amicizia con Chiara Perrucci. Ok. Ora mi faccio coraggio e glielo scrivo. Sarà una passeggiata! Sto per scriverle un messaggio privato, quando Chiara compare in chat. Chiara: Ciao Bea!!! Beatrice: Ciao! Ok. Ora glielo dico. Chiara: mi devi asolutamente aiutare Chiara: *assolutamente Beatrice: in cosa? So già cosa vuole chiedermi e per fortuna non può vedere la mia faccia sconvolta. Chiara: organizziamo un piano per capire Chiara: se Raul mi vuole?

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Come non detto. Beatrice: in che modo? non saprei dimmi tu Chiara: sei impegnata questa sera? Non sono proprio capace, neanche per iscritto e a chilometri di distan-za, di dirle che fino a ora le ho raccontato solo fandonie. In fondo ci metto la mia faccia! Per istinto vado a dare un’occhiata ai suoi amici (non si sa mai, potremmo averne qualcuno in comune). Devo sondare il terreno e capire fino a che punto posso mentirle. Ha solo 109 amici, sa-rà una passeggiata. Di primo acchito, mi pare di non avere amici in comune con lei. Tiro un sospiro di sollievo. La verità è che mi dispiace per Chiara e vorrei po-terla aiutare davvero, è una cara ragazza. Per questo accetto di uscire con lei questa sera. Magari riusciamo a trovare un modo per farle avvi-cinare Raul. Beatrice: va bene alle 7 al bar di stamattina? Chiara: perfetto. a dopo! Rimango a tu per tu con il PC. Mi sento la testa esplodere. Possibile che sia così incredibilmente capace di mettermi nei guai? Non che questo si possa considerare un vero guaio, ma sfido chiunque ad ammettere di aver mentito sin dal principio con una povera ragazza che ha trovato in te un vero aiuto. Dopotutto, se si tratta soltanto di continuare a mentire per il suo bene, perché non continuare a farlo? Mi scopro a riflettere sulla questione. Sapete qual è la verità? È che mi sto sentendo importante. Sento che finalmente posso fare qualcosa di concreto per qualcuno. C’è una persona che chiede il mio aiuto, che si fida di me! Chiara non mi sta considerando solo una buona confidente come accade di solito nella mia vita, ma mi vede come una persona si-cura, che sa quel che fa e, soprattutto, che ha più esperienza di lei sul campo. Non mi succede mai! Per chissà quale ragione, sono sempre gli altri a saperne più di me, sono sempre gli altri ad avere il consiglio giu-sto e la parola appropriata. Ho finalmente trovato un’occasione in cui valere qualcosa di più di una confidente muta che non può dire la sua. È l’occasione in cui dimostra-re di essere una persona affidabile. Chiara si fida di me: non voglio de-luderla. Benissimo. Cos’è che devo fare, allora? Se si tratta soltanto di dover imparare qualche nome di balli caraibici e latino-americani, non si im-piega poi granché a fare una ricerca su Google. Per il resto, cercherò di cambiare discorso ogni volta che mi farà domande al riguardo, soprat-

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tutto quelle alle quali non saprò rispondere. In fondo, ci stiamo incon-trando per cercare una soluzione alla sua storia con Raul e questo non ha niente a che vedere con la mia competenza nel ballo. Comunque decido di navigare un po’ sul web alla ricerca di informa-zioni sui balli caraibici. Riesco a trovare il nome di qualche ballo tipico, nel caso dovessi ritrovarmi a parlarne con Chiara. Cerco di memorizza-re: rumba, salsa, son, santeria, samba, cha cha, paso doble, jive. Poi torno un attimo sulla pagina di FB ridotta a icona per controllare se è cambiato qualcosa o se è entrato qualcuno in chat in questi venti secon-di di assenza e ritorno sulla pagina dei balli. Merengue e bachata non sono balli latino-americani, ma caraibici; i balli caraibici hanno due sti-li: quello portoricano e quello cubano. Ok. Può bastare. Torno su Facebook. Non c’è anima virtuale, oggi. Ma dove saranno tutti? Non possono cre-arsi un account, aggiungere centinaia di amici e poi non farsi mai vivi! Che noia. Ma cos’avranno di meglio da fare nella vita reale? Per fortuna sono arrivate le tre e quando sento il rumore dello scarabeo di Debby mi affretto ad aprire la porta. Mi sorprendo sempre della sua puntualità, come lei si sorprende della mia. Appena mi vede, mi corre incontro con un sorriso a trentadue denti mettendo in mostra il nuovo casco che ha acquistato. È euforica come avesse vinto alla lotteria. Sta-volta ha davvero superato se stessa: il casco esibisce un sacco di cuori-cini rossi che fanno da cornice al gattino di Hello Kitty. Sono senza pa-role. Con che coraggio riesce a indossarlo e a guidare per tutta la città? Entriamo in casa e ci adagiamo sul divano di fronte a un pacco di pata-tine e, mentre Debby approfitta come al solito del mio pacchetto intrat-tenimento di Sky per vedere Sex and the City, io mi metto a raccontarle della mia disavventura mattutina al colloquio. «Dici sul serio?» Non sembra molto sorpresa. «Sì e poi mi ha anche detto “il lavoro al vivaio non te lo toglie nessu-no”.» «Io gli sarei saltata addosso e lo avrei riempito di lividi» Debby è sem-pre esagerata nelle reazioni «e comunque… te lo avevo detto.» Ecco puntuale la sua faccia odiosa. Cerco di ignorarla. Ci abbandoniamo a qualche minuto di relax e mi appassiono anch’io alla puntata di Sex and the City in cui Carrie parte per Parigi con il suo fidanzato russo. I pomeriggi con Debby, a parte i suoi isterismi quando si intraprende il discorso “Lucas”, finiscono sempre in risate a crepapel-le o, altrimenti, in tentativi da parte sua di farmi indossare un vestitino

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succinto o degli orecchini-lampadari che, dice lei, mi diano luce. Io, in realtà, li chiamo lampadari per la loro dimensione, non perché mi dan-no “luce”. E comunque, tra una chiacchiera e l’altra, pare sia già arrivato l’orario dell’appuntamento con Chiara. In verità stavo per dimenticarmene, pre-sa com’ero da un gioco di sfilate inventato da Debby, poi fortunatamen-te lei ha ricevuto una telefonata dalla madre che le ha intimato di torna-re a casa. Meglio così: ero indecisa se raccontarle di tutto questo pastic-cio con Chiara oppure no. Forse è meglio che non sappia niente: non mi sono mai fidata troppo delle sue promesse di non svelare i miei segreti. Mi dice sempre “bocca cucita”, ma io la sua bocca faccio seriamente fatica a vederla “cucita”. Insomma, meglio non rischiare. Dopotutto, è una storia che finirà presto. Non ho idea di come sarà e di che ruolo a-vrò io in tutto questo, ma so che alla fine Chiara riuscirà ad avvicinarsi a Raul e sarà tutto finito. Così, mi infilo nei miei adorati vecchi blue jeans ormai scoloriti e nei miei stivaletti a suola piatta e parto alla volta di Chiara. Porto qualche minuto di ritardo ma sono certa che mi perdonerà. La intravedo seduta su un muretto ancor prima di arrivare e trovare un parcheggio. Ha indossato una gonna a scacchi e un paio di tacchi altis-simi. Mi sento subito in imbarazzo per la mia mise. Non avevo conside-rato quello di stasera come un appuntamento per uscire né tantomeno mi sarei mai aspettata Chiara conciata in questo modo, a giudicare dal suo abbigliamento di stamattina. Sembra debba andare in discoteca. In-vece è solo un martedì sera. Porta anche un elegante e luccicante anello al dito. Lo noto subito perché, appena arrivata, mi porge un invito a una festa. Lo afferro e mi metto a leggere:

Grande incontro con i maestri del Salsa&Rumba Club. 26 febbraio 2011, h. 21.

Ingresso libero per gli allievi della Sabor Latino. Cominciamo bene. Cerco di apparire euforica, ma mi sento piuttosto ridicola. Ci accomodiamo a un tavolino di un pub vicino mentre lei mi sta dando indicazioni su questi “grandi maestri” del Salsa&Rumba Club. Io an-nuisco come se sapessi benissimo di cosa sta parlando. Pare che Rony e Amy siano dei maestri cubani di fama internazionale che vengono in

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città un paio di volte all’anno per esibirsi al Salsa&Rumba Club di loro creazione. E pare che offrano sempre inviti gratuiti alla scuola di ballo di Chiara per via di conoscenze intime con i suoi insegnanti. Mi sembra inopportuno ammettere di non aver mai sentito parlare di loro, quindi annuisco con aria intelligente. «Ci sei venuta a vederli qualche volta?» Mi schiarisco la voce. «Certo! Ma solo un paio.» Perché non riesco mai a dire di no? Avrei potuto inventare che tutti gli anni durante il periodo dell’arrivo dei maestri puntualmente prendevo l’influenza! «Chissà come mai non ci siamo incontrate prima! E come ti sono sem-brati?» Non è difficile intuire che le loro esibizioni siano state eccellenti. «Sono dei mostri di bravura!» Nessuno potrebbe dire che sto mentendo. «Oh, a chi lo dici? Io sono una loro fan sfegatata! Amo i rimbalzi di 360 gradi di Amy. Lei vola, non trovi?» Certo che trovo! Non sono nel-la posizione di poterla contraddire, anche solo per sembrare un po’ inte-ressante. «Oh sì, hai ragione, è come se volasse!» Cerco di cambiare discorso, afferrando in mano il menu per farmi del vento ed esclamando: «Che caldo!» anche se ci sono due gradi sotto lo zero. Fortunatamente si sta avvicinando il cameriere e con l’ordinazione di una bella pizza Margherita ci dimentichiamo per un momento di Rony e Amy. Mi sta parlando del pomeriggio vissuto alle prese con un nipote pestifero, mentre io le accenno di Debby, che potrebbe essere facilmen-te paragonata a un nipote pestifero. Comunque non posso proprio stare sempre con il terrore che Chiara mi parli del ballo. Lei balla, Raul balla. Tutti nella vita di Chiara ballano, tranne me, ma lei non lo sa. È logico che il discorso balli caraibici usci-rà fuori sempre! Me ne devo fare una santa ragione. L’importante è che adesso ci decidiamo a intraprendere il discorso Raul e il discorso amo-re, su cui mi sento più ferrata. «Allora, cosa volevi dirmi al riguardo di Raul?» incomincio io. La guardo impaziente in attesa di una risposta che non contenga la pa-rola “ballo caraibico”. «Lo so che forse ti chiedo molto, ma sei davvero l’unica persona di cui io mi sia fidata, l’unica che ha saputo ascoltarmi e soprattutto capirmi.» Mi sento lusingata e non riesco a trattenere un sorriso. «Insomma, tu sai

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benissimo di cosa parlo, avendo vissuto la mia stessa situazione.» Cer-to, come no. Afferra il cartoncino con l’invito all’esibizione di Rony e Amy e conti-nua: «Quello che voglio è solo sapere se Raul è o non è interessato a me. Sono stata anni a chiedermelo, può anche sembrare ridicolo ma è così. Non ho mai avuto il coraggio di dirgli nulla, insomma… non sono stata coraggiosa come te!» Abbasso gli occhi per l’imbarazzo. «Tu sei sempre dell’idea di aiutarmi, Bea?» Questa domanda mi incute terrore. Sta per farmi qualche proposta inso-lita, lo sento. Annuisco, anche se sarei tentata di dirle di no, alzarmi dal tavolo e fug-gire a gambe levate. «Oh Dio, mi sento così sciocca, è una cosa stupidissima quella che sto per chiederti!» «Dimmi» la incito. Non ce la faccio più a stare sulle spine. «Vorrei solo che tu… insomma, che tu cercassi di capirlo, di fargli do-mande, di indagare…» Come vuole che faccia tutto questo? «Se, e solo se, non avevi organizzato di andare al Club con il tuo compagno di bal-lo, ti andrebbe di andarci insieme a Raul?» Cerco di intuire quali complicazioni può comportare “andare al Club al posto suo insieme a Raul”, ma non afferro. Da come mi guarda, si nota benissimo che invece si aspetta che io abbia capito al volo. «Oh, ma certo!» rispondo con voce acuta. «Cosa vuoi che faccia, per l’esattezza?» stento a chiedere. «Come saprai, al Club si entra solo in coppia. Io faccio coppia fissa con Raul da anni, ma quel giorno purtroppo non sarò in città e sarò costretta a perdermi l’evento. E in occasioni rare come quella, se uno dei due manca, noi usiamo sostituire il partner. Voi lo fate, non è così? Voglio dire, non vi lascerete mica sfuggire l’evento?» «Ehm… no, ovvio che no, ci sostituiamo anche noi, ma solo in occa-sioni rare come quella.» Come fa a non notare che mi limito a ripetere quello che dice lei a mo’ di pappagallo? «È un favore troppo grande, lo so! Avevi organizzato di andarci con il tuo compagno, per caso?» La sua voce si abbassa di qualche tono. Ha paura che io le dica di no, che non accetti e che il suo progetto vada in frantumi. «No, non avevo organizzato di andarci con lui… È solo che, insomma, è una cosa strana, io e Raul non ci conosciamo neppure, come credi che…» Faccio un giro circolare con la mano.

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«Ho pensato che forse tu potresti… voglio dire, non ti conosce e tu fin-gerai di non conoscere neanche me, quindi sarà semplice chiedergli qualcosa su di me…» È matta. Come crede che possa funzionare? Vado al Club con Raul, gli faccio qualche domanda su Chiara e lui mi confessa di essere innamora-to di lei da sempre. È questo che si aspetta? «Ok. Capisco le tue intenzioni. Ma tu sei certa che Raul vorrà andare al Club con una perfetta sconosciuta? Non sarebbe più facile, che so, combinare un’uscita?» «Sarebbe più facile combinare un’uscita, ma lui non ha mai accettato di uscire con ragazze. Questo è uno dei motivi che mi fa credere che ci sono buone probabilità che lui sia innamorato di me. Ma io voglio sco-prirlo. E sul fatto del Club, beh, non è certo al cento per cento che ac-cetterebbe, ma vale la pena tentare. So come fare.» Appoggia i gomiti sul tavolino e inizia a spiegarmi una storia assurda. Pare che Raul abbia creato un gruppo su Facebook che si chiama La de-retcha; nei casi di “sostituzione della partner”, cosa che è successa un paio di volte in passato, Raul ci crea un link indirizzato a tutte le balle-rine che vorrebbero partecipare al Club (al quale si entra solo su preno-tazione e a pagamento: andarci con un ballerino della Sabor Latino vuol dire ingresso sicuro e gratuito!). Quindi, “chiusi i termini”, Raul sceglie la “candidata migliore” tra quelle che hanno cliccato “mi piace”. A questo punto le ho chiesto «E secondo quali criteri una candidata è rite-nuta “migliore”?» Voglio dire, se lo fa per l’aspetto fisico, allora posso darmi per spacciata. Ma Chiara ritiene di conoscere Raul meglio delle sue tasche e dice di essere abbastanza sicura che sceglierà me se io digi-terò nelle mie informazioni di base una frase che recita così: “Dejar a uno botado”. Vuol dire sorprendere qualcuno, lasciarlo senza parole. È una frase a cui Raul tiene molto, probabilmente legata a qualche ricordo della sua infanzia vissuta a Cuba. Non avevo capito che Raul fosse di origini cubane. «Quindi» intervengo «ricapitolando, tu credi che Raul sceglierà me tra tante candidate solo perché avrò scritto quella frase nel mio profilo?» «Non posso dirlo proprio con certezza, ma so che tiene molto a quella frase e tanto vale tentare.» A me sembra una cosa stupida, ma non oso dirglielo. «Ok, facciamo questa prova» concludo, mossa dalla speranza che Raul non scelga davvero me e che Chiara non sappia perfettamente quello che dice poiché affetta da qualche sindrome psicotica.

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Al mio ok, lei sfocia in una risata sonora e sembra contentissima. E seb-bene mi senta scossa dal favore che mi ha appena chiesto, non riesco a non farmi contagiare dalla sua contentezza. Sto ridendo anch’io. Va beh, lo ammetto, un po’ sto ridendo per la disperazione e anche un bambino riuscirebbe a capire che la mia risata è isterica. Non riesco ancora a rendermi conto del guaio in cui mi sto cacciando. Riesco a realizzare solo quando Chiara mi dice: «Quando ballerete, poi, spero proprio che ti troverai bene con Raul, è un ballerino eccellente!» Cosa? Puoi ripetere, per favore? Ballare? Io? Io non voglio ballare! Ho la vista annebbiata ma cerco di non darlo a vedere. «Tutto ok, Bea?» «Ehm, sì.» Mi schiarisco la voce, ma resto in silenzio. Ora sì che sono nei casini. Il primo pensiero che mi sfiora la mente è quello di fingere una slogatura alla caviglia, onde evitare di dovermi esibire in qualche salsa cubana. Andrò al Club con una fasciatura che mi salverà praticamente da qualsiasi figuraccia pubblica. «Non potrò mai ringraziarti abbastanza» sta dicendo Chiara. «Qualsiasi cosa accadrà, qualsiasi cosa scoprirai, io non potrò mai ringraziarti ab-bastanza.» Dice bene, dice. Mi sono messa in un pasticcio per aiutare una persona che conosco solo da una manciata di ore. Non credete che questo faccia di me una persona buona, molto buona, che sta tenendo fede, tra l’altro, a un proposito del nuovo anno? Sono appena diventata ufficialmente fiera di me stessa. «È un piacere» le dico. E il bello è che lo sto dicendo sul serio. I suoi ringraziamenti mi hanno così lusingato che sono arrivata a dimenticarmi tutto quello che le ho promesso e cioè che mi presenterò a un evento di danza latino-americana insieme a un ballerino cubano della mitica Sabor Latino con il quale probabilmente potrei finire a esibirmi in una rumba o in una salsa di fronte a un pubblico di ballerini professionisti e a maestri di fama internazionale. Sarebbe potuta andare addirittura peggio, in fondo. «Benissimo» conclude euforica. «Allora si procederà in questo modo: domani dirò a Raul che non potrò andare con lui all’evento. Quindi, lui aprirà il link per le candidature su Facebook e tu non dovrai fare altro che cliccare su mi piace e aspettare che arrivi una risposta da parte sua. E spero tanto che arrivi quella risposta…»

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“Speriamo proprio di no”. Poi guardo il suo volto felice e ci leggo la sua gratitudine. I suoi occhi brillano di speranza. Dopotutto, so anch’io cosa vuol dire avere un amore non corrisposto. Anch’io farei di tutto per scoprire se l’uomo che amo da anni mi ricam-bia. Mi viene alla mente Paolo e il cuore incomincia a battere forte. Paolo non mi ricambierà mai. «Hai ragione» le dico con un sorriso «speriamo proprio che quella ri-sposta arrivi.» FINE ANTEPRIMA. CONTINUA... Se ti diletti a scrivere recensioni, puoi leggere questo e-book gratuitamente con l'iniziativa CORREVOCE. Vai su www.0111edizioni.com e leggi come fare.