Istantanee di un destino

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Daniela Quadri, Mainstream

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DANIELA QUADRI

ISTANTANEE DI UN DESTINO

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ISTANTANEE DI UN DESTINO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-502-1 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Marzo 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

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Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti citati sono il prodotto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in chiave fittizia per conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi rassomiglianza e analogia con fatti, luoghi reali e persone, realmente esistenti o esistite, è puramente casuale.

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PREFAZIONE Chi mi conosce e sa bene quanto io ami scattare fotografie, in ogni luogo e a qualunque soggetto, mi chiama scherzosamente “Japanese”. Col tempo ho imparato che nessuna fotografia, neanche quelle mosse, può essere considerata brutta o sbagliata. C’è infatti una tecnica fotografica detta panning che trasmette la velocità di un soggetto attraverso la sfocatura. Anziché usare un tempo di posa lento ottenendo uno sfondo fermo e un soggetto in movimento ma mosso e quindi quasi irriconoscibile, si sceglie di seguire il soggetto lungo il suo movimento, impostando un tempo di posa abbastanza lento da consentire di far venire mosso lo sfondo, ma non così lento da far venire troppo mosso anche il soggetto. Perché il panning funzioni è essenziale che dietro il soggetto ci sia uno sfondo, non troppo uniforme, che, proprio perché viene sfocato, rende appieno l’idea del movimento del soggetto ed evita che questo si confonda con lo sfondo. Con questa tecnica dunque il soggetto risulta ben individuabile, mentre lo sfondo mosso trasmette la sensazione di velocità del soggetto fotografato. Certo per ottenere un buon effetto panning serve molta pratica; non è facile capire qual è il momento giusto in cui scattare la foto continuando a seguire il soggetto fino a qualche istante dopo lo scatto e impostando un tempo di posa proporzionato alla velocità del soggetto, però il risultato è estremamente piacevole e riesce a catturare l’attenzione dell’osservatore proprio sul soggetto. La cosa più curiosa è che la tecnica del panning può essere applicata anche alla memoria e anche in questo caso i risultati sono sorprendenti. A chi non è mai capitato di ricordare con assoluta precisione alcuni dettagli di un volto, una bocca, il colore di un paio d’occhi o addirittura un profumo, l’incedere di un passo, il gesto di una mano, senza però riuscire ad associare a essi un nome, un tempo e un luogo precisi.

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È come se quei dettagli avessero lasciato nella nostra memoria una traccia indelebile e tuttavia i motivi di quell’impressione così forte e duratura ci sfuggono. Ma se come un fotografo attento ci concediamo il tempo di posa necessario per seguire con lentezza calibrata lo svolgersi del nostro passato, riusciremo a fermare quei dettagli nel loro movimento collocandoli su uno sfondo dapprima mosso e poi a mano a mano sempre meno sfocato. Quei singoli dettagli, così nitidi e chiari ma altrettanto insignificanti e irrilevanti quando immortalati uno a uno, presi tutti insieme, osservati e seguiti in rapida successione lungo quel percorso mosso e sfocato che li unisce, trasmettendoci un’inebriante sensazione di velocità, ci permettono di comprendere il senso stesso del nostro divenire. Per tornare alla mia passione, ogni scatto fotografico può raccontarci l’istante in cui il destino ci ha offerto una possibilità, anzi infinite possibilità di andare verso gli altri e di incontrarli. E quel percorso così ricco di dettagli, di volti e di accadimenti che si incrociano in maniera solo apparentemente indecifrabile su uno sfondo confuso, ci apparirà improvvisamente meno ineluttabile e più aperto alla nostra libertà di scegliere. I miei ringraziamenti vanno a coloro che mi hanno insegnato ad apprezzare e amare i dettagli della vita e il mio augurio speciale a ciascuno di noi affinché sappia cogliere il senso più vero della propria esistenza. Daniela Quadri 23 Settembre 2012

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CAPITOLO 1

L’INTERVISTA Un ticchettio deciso annunciò il suo arrivo. Il brusio negli uffici al sesto piano del palazzo liberty di marmo grigio e ottoni lucidati cessò di colpo. Fu solo un attimo, poi il brulicare degli impiegati che dalle 09:00 alle 17:00 si agitavano in quell’immenso formicaio riprese indisturbato. «Decor Italia buongiorno, sono Vera, come posso aiutarla?» rispose una giovane segretaria dalla bruna frangetta sbarazzina tenendo il ricevitore appoggiato tra la spalla e l’orecchio mentre con la punta delle dita sfiorava il monitor touch-screen del suo PC. «No, mi spiace la dottoressa De Rinaldis non è ancora arrivata. Sì, certo, lascerò detto che l’ha cercata. Grazie e arrivederci» disse chiudendo la chiamata e aprendo contemporaneamente l’agenda elettronica in cui registrava tutti gli appuntamenti della sua responsabile. Tra un frusciare di sete griffate Miranda avanzò come un tornado tropicale che scuote improvviso la tranquillità dorata di spiagge esclusive e con un lancio millimetrico fece planare una pila di buste multicolore sulla scrivania di Vera. «Queste lettere devono essere spedite entro le 11:00. Per favore chiama l’architetto Biolchi e scusati ma non potrò incontrarlo domani. Mi raccomando, non farmi più portare il caffè dal locale all’angolo, da quando c’è la nuova gestione è semplicemente terribile. Chi era al telefono? Cos’altro? Ah, sì… buongiorno» esclamò Miranda tutto d’un fiato chiudendosi dietro le spalle la porta del suo ufficio privato con il secco fragore di un tuono estivo. “Ci manca solo che il caffè le vada di traverso e abbiamo cominciato proprio bene la giornata” pensò Vera con un sorriso rassegnato.

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«Vera, dov’è il mio dolcificante?» gridò indispettita Miranda e a Vera parve di vedere le sue labbra perfette scomporsi in una smorfia di disgusto. “E adesso devo anche dirle della telefonata di poco fa e ricordarle l’appuntamento con Pierre. E chi la sente!” sospirò Vera frugando nel cassetto della scrivania alla ricerca della bustina dell’unico dolcificante gradito a Miranda. «Ecco il suo dolcificante, dottoressa. Mi scusi ancora» mormorò Vera versando il contenuto della bustina con la stessa pazienza con cui avrebbe accudito un bambino dispettoso. «Prima al telefono era l’avvocato Papalia. Pare non sia soddisfatto del colore che gli è stato proposto per la sala da bagno. Vorrebbe essere richiamato. Ehm… un’ultima cosa dottoressa. Volevo ricordarle l’appuntamento di oggi con Pierre. Alle ore 17:00» disse con un filo di voce cercando di guadagnare terreno verso la porta. «Va bene, va bene, dì all’avvocato che lo richiamerò nel primo pomeriggio. Pierre? Oggi? Ma che dici? Non se ne parla! Cancella l’appuntamento! E adesso non passarmi telefonate per la prossime due ore o non riuscirò mai a sbrigare tutta la corrispondenza che si è accumulata in tre settimane di assenza» le ordinò Miranda scuotendo la criniera fiammeggiante come una leonessa in procinto di attaccare una preda ignara e indifesa. “Ci mancava solo Pierre” si disse Miranda quando fu di nuovo sola. L’ultima volta che era stata al suo salone per rinfrescare il colore delle sue chiome quel bellimbusto impomatato le aveva soavemente ricordato che ormai la metà esatta dei suoi capelli aveva lo stesso luccichio dell’argento. E i suoi baffetti ambigui si erano contorti in un sorrisetto beffardo. “Già, i fili bianchi dell’inesorabile ragnatela del tempo.” Sorrise amaramente mentre con un gesto d’impazienza apriva la prima delle cartellette che stavano in fila ordinata sulla sua scrivania: ne estrasse alcune foto di una sala da bagno di uno sbiadito color pesca appassita. Aveva dedicato gran parte della sua vita a trasformare i sogni confusi di ricchi e capricciosi clienti in capolavori sofisticati di bellezza e ingegno. “No, maledizione non è questa la sfumatura di rosa che avevo chiesto” protestò mentalmente.

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Miranda sistemò la cornice in radica sulla scrivania orientandola in maniera tale che quel sorriso fanciullesco aperto e bianchissimo potesse osservarla da ogni angolazione. “Gote piene e morbide come solo i bambini possono avere” sorrise soddisfatta scrivendo velocemente una nota sul bordo delle foto che stava visionando. Quel che restava del suo caffè giaceva ormai freddo e immobile sul fondo della tazzina e Miranda lo versò distrattamente nel cestino portacarta. Il trillo del telefono la scosse. «Mi scusi ma il dottor Malinverni ha chiesto se può andare da lui. È urgente. Cosa gli devo rispondere?» le chiese Vera titubante. «Digli che sto arrivando» rispose Miranda. Accompagnata da un ticchettio impercettibilmente fuori tempo Miranda percorse i pochi metri che la separavano dall’ufficio dell’amministratore delegato. «Oh, eccoti Miranda. Ben tornata! Come sono andate le ferie? Sempre in splendida forma vedo» la salutò allegramente Malinverni cercando di restare in equilibrio precario sulla poltrona da cui la sua imponente figura stava esondando nonostante un impeccabile abito gessato cercasse invano di arginarla. «Non perdi mai occasione per fare il galante Tommaso» ammiccò con ironia Miranda accomodandosi su una delle due poltroncine per gli ospiti. «Come mai mi hai convocata di urgenza?» domandò guardandolo di sottecchi. «Volevo personalmente informarti che la ricerca della tua nuova vice non ha finora avuto esito positivo. In altre parole, il posto è ancora vacante» annunciò l’omone giocherellando con il tagliacarte in cristallo che teneva sempre a portata di mano. «Eppure sembrava una cosa così semplice e veloce» lo rintuzzò Miranda con un sorrisetto sarcastico. «Su, dai, non fare la permalosa Miranda! Lo sai benissimo che nessuno ha intenzione di sostituirti, ma come ti avevo già spiegato è nostra intenzione, cioè dell’Editore, affiancarti una giovane leva che possa alleggerire il tuo carico di lavoro. Di questo dovresti almeno esserci riconoscente, non credi?» sentenziò Malinverni

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ricambiando il sorriso con una strizzatina mielosa degli occhietti ipovedenti. «Ma certo caro, conosco fin troppo bene le premure disinteressate tue e dei grandi capi. Comunque, in tutto questo non capisco io cosa dovrei fare» rispose Miranda con tono acidulo. «Ecco, abbiamo convocato per oggi l’ultima candidata rimasta della lista. Anzi, sta aspettando nel salottino dei colloqui. Vorresti essere così cortese da raggiungerla e vedere se è di tuo gradimento?» le chiese Malinverni strofinandosi le mani bianchicce e sempre appiccicose. “Già, quale modo migliore per te e per gli altri tromboni di lavarsi e mani e lasciare alla sottoscritta una scelta così rognosa” concluse Miranda con un’alzata di spalle. «Ti farò sapere Tommaso» disse prendendo commiato. «Ci conto Miranda» rispose l’amministratore sistemandosi i pesanti occhiali scivolati sulla punta del naso troppo piccolo e schiacciato. Ora il ticchettio era decisamente stonato come il timbro di voce di Malinverni che le ronzava fastidiosamente nelle orecchie mentre si avviava verso la sala dei colloqui. Miranda spalancò la porta. «Buongiorno, sono la dottoressa De Rinaldis. Lei è la signora… signorina Nardi vedo» disse Miranda presentandosi e leggendo i dati anagrafici sul curriculum che la segretaria di Malinverni le aveva diligentemente consegnato. «Sì, Nardi Sofia, piacere. Sono così emozionata di fare la sua conoscenza. La grande Miranda De Rinaldis. Oh. mi scusi… la dottoressa De Rinaldis. Lei è un mito per me. Una donna di successo, famosa e ammirata in tutto il mondo. Oh, le mie amiche moriranno d’invidia quando glielo racconterò» esordì con una risatina secca la giovane aspirante arricciandosi una ciocca di capelli intorno alle dita. «Addirittura un mito! Voglio sperare che le ragazze della sua età abbiamo miti più affascinanti e romantici di una capo redattore di una rivista di nicchia per pochi addetti ai lavori» si schermì Miranda provando un certo senso di disagio. «Ma è così fashion! La rivista voglio dire, e il suo lavoro è così… assolutamente trendy! Chissà quanti VIP incontra… personaggi dello star system, celebrità… e lei conosce tutti i segreti delle loro

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case! Cosa può esserci di più cool!» si entusiasmò la giovane abbandonandosi a una serie di risatine garrule. “Potersene stare tra le mura di casa propria almeno un paio di volte alla settimana e godersi una serata domestica tranquilla” sospirò Miranda lasciando che le spalle si incurvassero per un attimo sotto il peso di un’insostenibile stanchezza. «Bene signorina Nardi, vedo che l’entusiasmo non le fa difetto. Ma mi dica, quali sono le sue aspirazioni? Quali obiettivi e gratificazioni si aspetterebbe da un lavoro come quello di assistente di un capo redattore?» domandò Miranda più per prassi che per vero interesse. «Gratificazioni, certo, soprattutto quelle! Girare il mondo è sempre stato il mio sogno. Come sua assistente ci sarebbe molto da viaggiare, vero? La accompagnerei ai galà e ai ricevimenti più in di tutto il jet set internazionale. Già mi vedo… lei elegantissima che fa il suo ingresso nei salotti più alla moda con me al suo fianco» rispose sognante la fanciulla. “Come no… Don Chisciotte e Sancho Panza” commentò tra sé Miranda trattenendo a fatica un sorrisetto sarcastico. Già si vedeva in sella a Ronzinante dare inizio alla sua privatissima guerra contro i mulini a vento. Certo che la parte del fido scudiero non si addiceva per niente a quella ragazzina venale e ciarliera. «…e poi potrei conoscere un sacco di bei ragazzi. Certamente essere il suo vice mi aprirà tante porte e mi offrirà l’occasione di incontrare rampolli d’alto rango. Figli di nobili e diplomatici, giovani divi di Hollywood e cantanti rock. Lei dottoressa sarà il miglior biglietto da visita che potessi desiderare!» La ragazza pareva entrata in un’estasi delirante inarrestabile. “Polli o rampolli? Non è che la piccola mi ha scambiata per la gallina dalle uova d’oro?” si domandò Miranda indecisa se classificarla come un caso di sfacciataggine o di dabbenaggine. «Benissimo, ma quali sacrifici sarebbe disposta a fare per arrampicare? Cioè, volevo dire, per arrivare professionalmente in alto?» chiese infine per togliersi ogni dubbio. «Sacrifici? Perché, ce ne sono? Beh, se proprio devo, allora direi che sacrificherei il tempo da passare con le amiche. D’altronde con i viaggi e gli impegni mondani non mi rimarrebbe più molto tempo per le uscite con le solite amiche. Poi comunque i nostri mondi diventerebbero inesorabilmente sempre più lontani così come i nostri interessi e non ci sarebbero più molti motivi per vederci…Sì,

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tutto questo lo sacrificherei volentieri» concluse fiduciosa la ragazza senza un attimo di esitazione. “Sonia, Matilde, Nicoletta…quando è stata l’ultima volta che ci siamo incontrate? Telefonate sempre più rare e imbarazzate. Ragazzina, tu non sai cosa darei per poter trovare il tempo, per evitare le persone che ti cercano solo per convenienza” pensò Miranda cercando di scacciare quella sensazione amara che le ammorbava la bocca. «Ottimo, in quanto a sacrifici mi sembra che lei abbia le idee molto chiare. Mi scusi se insisto ma dal momento che questo lavoro è molto più faticoso di quanto non sembri a prima vista, mi dica, a cosa sarebbe disposta a rinunciare della sua vita per dedicarsi interamente a questa professione? La prego, rifletta bene prima di rispondere e si prenda tutto il tempo necessario» la esortò infine Miranda decisa a concludere al più presto quella conversazione. «Ai figli, proprio come lei naturalmente! I figli sono un ostacolo per una donna che vuole fare carriera, raggiungere certi livelli ai quali solo gli uomini possono aspirare proprio perché non sono svantaggiati dal dover crescere dei figli. Cioè, anche loro lo fanno, ma in modo diverso, non sono così assorbiti e coinvolti direttamente e fisicamente come le donne. Beh, lei mi capisce, vero?» ammiccò la candidata con una strizzatina d’occhi certa di aver segnato dei punti a suo favore. “Figli… sarei qui adesso se ne avessi avuti? Avrei lasciato tutto per loro o magari mi avrebbero relegata a un ruolo di secondo piano. O forse no, forse avrei lottato ancora con più tenacia per ottenere vittorie e soddisfazioni anche per loro, per dare loro un futuro migliore. Chissà.” Le dita di Miranda tormentavano irrequiete la stilografica color argento. Per un attimo sentì un calore salirle su per le spalle. Due braccia forti la stringevano facendole quasi mancare il respiro. Le sentiva sulla pelle come se fossero ancora nel suo presente. Si era sentita sicura e protetta in quella stretta; lì c’era tutto quello che desiderava, il mondo sarebbe potuto scomparire e lei non se ne sarebbe accorta. Era tutto quello di cui aveva bisogno, i suoi sogni erano già realtà.

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«Un figlio? Perché proprio adesso Frankie?» gli aveva chiesto quasi infastidita da quella prospettiva inaspettata che avrebbe messo a rischio la sua scalata professionale. «E perché no cara? Cosa ce lo impedisce? Non ci manca niente e ci amiamo come pazzi… sarebbe bello e normale averne, non lo pensi anche tu?» aveva risposto lui e la sua voce era scesa di un tono mentre le sue mani si staccavano lentamente dalle spalle di lei. “Pazzi… sì, pazzi lo siamo stati davvero Frankie a non voler arrenderci fino in fondo al nostro amore, a non lasciargli prendere e stravolgere le nostre vite” pensò Miranda posando la penna lentamente davanti a sé. Miranda alzò lo sguardo fissandolo sulla sua interlocutrice. Portava i capelli raccolti in una coda alta proprio come lei ma le ciocche di un appariscente rosso tiziano erano legate con un fermaglio in plastica. Un foulard con disegni floreali dorati su sfondo blu era avvolto in un morbido nodo intorno al suo collo eccessivamente ossuto, un capo di cui Miranda non poteva fare a meno e che i suoi occhi esperti smascherarono quale indecorosa imitazione. “Anche il tailleur e la collana di perle finto Chanel… non ci siamo fatte mancare proprio nulla” notò Miranda con crescente insofferenza di fronte a quel grottesco quanto innegabile tentativo caricaturale. «Penso di avere raccolto tutte le informazioni che mi servivano signorina. Adesso non mi resta che sottoporre la sua candidatura al nostro amministratore delegato per la sua valutazione finale» disse Miranda raccogliendo in fretta il curriculum e stendendo sbrigativamente la mano per accomiatare la ragazza. «Certo, ma si tratta di una formalità vero? Sicuramente sceglierete me, non ci sono altre candidate... voglio dire, non alla mia altezza. E poi noi due siamo in sintonia e ci capiamo perfettamente. È così che deve essere tra un capo redattore e il suo vice, non crede dottoressa De Rinaldis? E la retribuzione? Mi scusi ma non ne abbiamo parlato. Sì, lo so, per voi è un dettaglio e può sembrare indelicato ricordarlo, però se potesse darmi un’idea…» Le sue parole la investirono come un’inesorabile onda di marea. Miranda sentì un senso di soffocamento stringerle la gola e farle girare la testa.

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«Non si preoccupi, signorina. Ci metteremo in contatto con lei al più presto. Buona giornata.» E senza stare ad ascoltare oltre Miranda girò sui tacchi e lasciò la stanza tirando con molta cura la porta dietro di sé. Inspirò profondamente aprendo le spalle e sollevando la testa leggermente all’indietro. Passò davanti all’ufficio di Malinverni tirando dritto e arrivò trafelata alla scrivania di Vera bloccandosi di colpo. «Tutto bene dottoressa? Posso fare qualcosa per lei?» chiese la segretaria allarmata dallo sguardo atterrito che Miranda le aveva lanciato. «Ma dove hai trovato quella camicia? Saranno almeno un paio d’anni che nessuna Maison propone quel colore!» osservò con le sopracciglia frementi di disappunto. Vera non fece nemmeno in tempo a chiudere la bocca che era rimasta spalancata a mezz’aria che la dottoressa era già scomparsa nel suo ufficio. Miranda si lasciò cadere sulla poltrona girevole e chiuse gli occhi. Perché diavolo si era lasciata incastrare in quella maledetta storia dei colloqui. “Stare ad ascoltare i deliri di ragazzine isteriche non era certo compito suo” protestò tra sé massaggiandosi con forza le tempie pulsanti. «Vera, mi puoi portare dell’acqua fresca? Non più di 5°C e in bottiglia di vetro come sempre» chiese quando le vene smisero di battere come martelli pneumatici premendo il tasto vivavoce del suo telefono multifunzione. Dopo un paio di minuti Vera entrò con un vassoio in acciaio satinato sul quale aveva posato una bottiglia di vetro opaco con l’etichetta e il tappo incamiciato blu, un vero elisir di giovinezza per la fronte corrucciata e il contorno occhi provato della sua responsabile, e un bicchiere di design che appoggiò con delicatezza sul tavolino accanto alla chaise lounge in cuoio nero. Gli occhi verdi di Miranda seguivano ogni suo gesto. Li sentiva dietro la nuca come spilli conficcati nella carne per qualche rito esoterico.

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Senza voltarsi Vera cercò di sgattaiolare fuori dall’ufficio ma il richiamo imperioso di Miranda la immobilizzò. «Vera! Avvicinati, per favore» le intimò con voce arrochita. “Cosa vorrà adesso?” si domandò nervosamente Vera mentre strisciando un passo dopo l’altro si accostava alla scrivania. Adesso gli occhi felini le avevano artigliato la gola e la stavano ispezionando centimetro per centimetro dalle spalle giù fino alla vita. “Che c’è? Cos’ho che non va? Perché non parla?” si tormentò Vera stropicciandosi le mani intrecciate dietro la schiena. Poi all’improvviso tutto le fu chiaro. «Non si preoccupi, la posso cambiare. Anzi, lo faccio subito. Ne tengo sempre una di ricambio nel mio armadietto. Sa, per ogni evenienza. Mi scusi, vado subito a togliermela» l’anticipò Vera tirando una manica della camicia come a volerne preannunciare la fine imminente. «No, aspetta un momento. Dimmi solo perché hai scelto quel colore» le chiese Miranda fermandola con un gesto della mano. «È mia figlia che l’ha scelto in realtà. A lei piaceva molto perché assomiglia a quello del suo peluche preferito, Bunny, un coniglietto con cui va sempre a dormire. Io la lascio fare così non ha paura del buio. Sa, i bambini…» E Vera mordendosi un labbro non concluse la frase. “Gote piene e morbide come solo i bambini possono avere” ripeté tra sé Miranda prendendo tra le mani una delle foto sulle quali aveva scarabocchiato qualche ora prima. «Non fa niente, tienila pure. Ma solo per oggi s’intende. Per domani vedi di non dare ancora retta a tua figlia. Una volta va bene ma poi diventano capricci» le disse appoggiando i gomiti e intrecciando le mani con fare serioso. «Grazie! Sì, certo, naturalmente, farò come dice lei» la rassicurò Vera scomparendo in un baleno dall’ufficio della capo redattore. Miranda si voltò e lanciò una strizzatina d’occhi verso la cornice in radica. Il lungo corridoio era ammutolito: un silenzio pesante era calato come una nebbia impalpabile. Il grande orologio con le lancette brunite che si rincorrevano sul quadrante smaltato di bianco segnava le 19:30.

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Tutti gli impiegati se ne erano andati. L’indomani li attendeva un’altra frenetica giornata, ma adesso potevano riprendere in mano le loro vite: un’intermittenza continua che un solo filo allentato avrebbe potuto far saltare irrimediabilmente. Da sotto la porta dell’ufficio di Miranda filtrava ancora una luce. Appoggiata allo schienale della poltrona ergonomica stava rileggendo l'email che aveva appena finito di digitare sulla tastiera del suo portatile. Caro Tommaso, a seguito del colloquio avvenuto in data odierna con la Signorina Nardi Sofia da te propostami e dopo aver attentamente valutato tutte le informazioni raccolte durante lo stesso, sono giunta alla conclusione che la predetta non è obiettivamente in possesso delle qualità che si richiedono a una figura professionale quale Vice Capo Redattore. D’altro canto, non intendendo con ciò ostacolare in alcun modo la ricerca di una valida collaboratrice che, come mi hai prospettato, è caldamente sollecitata dall’Editore, mi sono permessa di vagliare altre possibili alternative. A tale proposito mi sento di poter sostenere la candidatura di Vera Parisi, già mia segretaria da tre anni, alla posizione di Vice Capo Redattore. Durante la nostra collaborazione ho potuto verificare le sue indubbie doti professionali che ne fanno un’abile organizzatrice, una segretaria precisa, puntuale e intraprendente, oltre che un’ascoltatrice sensibile, molto paziente e riconoscente, il che in questo ambiente non guasta. Per quanto mi riguarda ho preso la mia decisione. Domani troverai sulla tua scrivania la lettera con cui rassegno le mie dimissioni. Sono stati anni di grande impegno e successi, ma per me è arrivato il momento di pensare alla vita in modo nuovo e sono certa che altrettante gioie e soddisfazioni mi attendono. L’unica condizione che pongo, ma questo l’avrai già capito, è la promozione della Signora Parisi a Vice Capo Redattore,

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condizione che certamente sia tu che l’Editore accetterete di buon grado. Come sempre cordialmente Miranda De Rinaldis Con una leggera pressione dell’indice laccato di rosso Miranda inviò l'email. Aprì il primo cassetto sul lato destro della scrivania, tolse un foglio di carta con le sue iniziali in rilievo e prese una stilografica dal portapenne. Dalla sua mano le parole scivolarono lievi sulla carta mentre ricambiava il sorriso che la fissava dalla cornice in radica.

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CAPITOLO 2

LA PARTENZA Comandante! I nemici hanno attraversato il ponte di barche e sono a poche centinaia di metri. Deve ordinare la ritirata o i nostri uomini verranno massacrati! Mai! Non starò a guardare i miei uomini fuggire come vigliacchi! Tenente, dia l’ordine di preparare le armi e che non sparino finché non vedranno il bianco degli occhi di quei maledetti! «Ines! Sono tornata!» gridò Vera cercando di sovrastare gli scoppi e le urla strazianti di una delle tante deflagrazioni di odio che con cadenza endemica decimano gli inquieti abitanti di questo pianeta. «Buona sera signora!» la salutò la giovane peruviana dai grandi occhi scuri facendo capolino nell’ingresso illuminato da un grande specchio a mosaico. «Allora, come è andata oggi Ines?» chiese Vera liberandosi della giacca e posando la borsa su un tavolino dalle lunghe gambe ricurve. «Oggi non molto bene signora. Lui non mangiato mela grattugiata» rispose la ragazza tornando rapidamente da dove era venuta. Il vecchio sedeva su un divano a due posti; il marrone del tessuto appariva più consumato sul bracciolo destro e in un punto preciso della spalliera, là dove la sua testa lucida, protetta solo da due folti ciuffi bianchi che da dietro le orecchie dai lobi allungati si stringevano intorno alla nuca, trovava riposo nelle lunghe giornate ormai sempre uguali. La giacca da camera verde muschio odorava di pulito e le ciabatte scozzesi in feltro lasciavano intravedere uno spicchio di pelle macchiata dal tempo. Vera sorrise osservando dalla porta del salotto la testa del vecchio che ciondolava ritmicamente sul suo petto scarno.

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Si avvicinò in punta di piedi e prese il telecomando posato vicino alla sua mano; sotto la pelle sottile grosse vene pulsavano incessantemente. All’attacco! Facciamo vedere a quei cani come sanno morire i veri uomini! Adesso, fuoco! Vera premette il tasto rosso. Le immagini si dissolsero sullo schermo lasciando che la guerra perpetrasse le sue grida di orrore in un’altra dimensione dolorosamente più reale. Un tremito improvviso scosse la testa canuta. Con uno sbuffo che gli schioccò sulle labbra come uno sparo il vecchio spalancò gli occhi. «Buongiorno bella signora! È tornata a trovarmi?» chiese con un sorriso vacuo. «Vuoi del latte caldo?» domandò Vera chinandosi a sfiorargli una spalla. «Oh sì, grazie! Lei è molto gentile non come quella là. È una furba quella!» esclamò il vecchio e la sua voce si fece d’un tratto più dura. “Già, è la quinta badante in dieci mesi” sospirò Vera. Anita, diceva il vecchio, veniva qui in casa mia ogni giorno solo per mangiare e bere gratis. Accendeva il gas per cucinare e gozzovigliare con le amiche che lei invitava senza chiedere il permesso. Ah, ma io glielo avevo detto che era pericoloso e insomma, chi l’aveva autorizzata? Dolores, quella sì che era un tipo davvero strano, ripeteva l’uomo. Una ladra, senza dubbio; ero stato io a sorprenderla mentre frugava nel mobile della cucina e lei cosa aveva fatto? Mi aveva incolpato di prendere i biscotti di nascosto. Ma che diamine! Un galantuomo come lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere e i resti di biscotto che la donna gli mostrava appiccicati sotto le sue ciabatte di feltro erano stati solo dei patetici tentativi di togliersi quel peso dalla coscienza. Anja si comportava come se fosse la padrona di casa, si lamentava ancora. Prepotente e tiranna si ostinava a volerlo lavare tutti i giorni sfregandolo energicamente con acqua troppo fredda per i suoi gusti. Ma come si fa? si chiedeva il vecchio, tutti sanno che lavarsi troppo spesso fa male alla pelle e poi lei è un’infermiera? Allora

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non può mettermi le mani addosso, sentenziava gongolando come un avvocato che sa di avere ormai in pugno la giuria. Nevine invece non aveva la patente, troppo giovane per averla, aveva sempre sospettato l’uomo. Eppure era lei a spingere la carrozzella quando in primavera di pomeriggio sul presto facevano una passeggiata nel parco dietro casa e lui se ne stava in silenzio, quasi imbronciato, a fissare i fili d’erba nuova che spuntavano dalle zolle scure e pregne. Ma lo sapeva quanti incidenti succedevano perché la gente guidava senza patente? Centinaia, cara signora, e il più delle volte i colpevoli restavano impuniti. E poi Nevine parlava strano! Diceva parole che non si capivano e sembrava quasi strillasse quando parlava al telefono. Sempre attaccata al telefono Nevine. Uno di quei cosi moderni che quasi scompaiono dentro l’orecchio tanto sono piccoli! Parlava, parlava tanto e quando smetteva aveva gli occhi tristi. Sarà forse che avevano scoperto che non aveva la patente e non poteva guidare…nemmeno la carrozzella, concludeva sicuro di aver contribuito a smascherare un crimine così terribile. Ora c’era Ines. Possibile non riuscissero a capire che lui stava bene da solo? Lui sapeva badare a se stesso e non aveva bisogno di avere qualcuno che spiasse in continuazione ogni sua mossa. Gli sembrava che anche i suoi pensieri, quelli più nascosti e mai rivelati a nessuno, men che meno ai suoi cari, fossero sotto controllo. Proprio adesso che aveva tempo, tutto il tempo che gli era sempre mancato nella sua esistenza, per lasciar correre via i suoi pensieri, inseguirli, raggiungerli e poi farseli sfuggire in un carosello incessante che lo lasciava sfinito e svuotato sul consunto divano marrone. Ines era forse meno peggio delle altre. Era arrivata un giorno accompagnata da una bella signora con una lunga chioma di capelli rossi, se non ricordava male, che l’aveva presentata come la sua colf; sapeva cucinare, stirare e riassettare e aveva perfino un diploma di assistente per anziani. Con lei però era una battaglia continua, tagliava corto il vecchio, voleva sempre scegliere le trasmissioni… quei programmi stupidi dove la gente piange o ride senza motivo… A Ines piacciono Pippo Baudo, la lettera che si apre e il panzone suo marito; lui invece preferisce che tempo fa, il telegiornale e naturalmente i film di guerra. Ma niente! Sempre storie dove si pigliano e si lasciano,

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muoiono e poi tornano. E dopo un po’ lui si addormenta e quando le dice che non si capisce niente, lei ride e risponde che è perché si è addormentato. Ma se si addormentava sempre era proprio perché non si capiva niente! Poi quella sua ossessione per la frutta cotta! Ma lui si bada bene dal mangiarla, non è mica un vecchio rammollito come quelli che stanno negli ospizi. Per lui ci vorrebbe qualcosa di più sostanzioso, un dolce per esempio, ma quello non glielo danno quasi mai. Ines comparve sulla porta del salotto. «Ho dimenticato i pannolini. Corro in farmacia. Torno subito signora.» disse tutto d’un fiato stringendosi in vita un impermeabile leggero con le maniche che le lasciavano scoperti i polsi dalle ossa robuste. “Pannolini dice… sì, per un bambino di 70 chili” sorrise tra sé Vera. Il vecchio afferrò il telecomando che Vera aveva posato sul tavolo basso davanti al divano e premette deciso il tasto giallo. Per un attimo chiuse gli occhi strizzandoli con forza. La porta d’ingresso si chiuse con un colpo secco. Quando li riaprì guardò Vera ammiccando e le toccò un braccio come per sottolineare quel momento di complicità. «Ha visto signora è facile! Il tasto giallo, basta schiacciarlo e quella scompare. Partita» le sussurrò compiaciuto. «Questo televisore non funziona Vera. Non riesco a vedere nessun canale. Ecco, ti hanno imbrogliata! Dillo a quel furfante che te l’ha venduto. L’ho sempre detto che quel negoziante è un disonesto.» Si ricordava ancora il giorno in cui lo aveva trovato seduto davanti allo schermo sul quale danzavano turbolente onde catodiche. Lei aveva preso il telecomando e con gesti esageratamente misurati e scandendo lentamente le parole (dopotutto non era forse così che quell’inserviente del reparto informatica ed elettronica dall’aria supponente le aveva svelato infastidito le meraviglie del nuovissimo Ipad?), esattamente con la stessa diffidenza e riluttanza dei grandi maestri del sapere posti di fronte all’ineluttabile necessità di dover rivelare i misteri dell’universo a indegni neofiti, gli aveva mostrato cosa avrebbe potuto fare premendo ognuno di quei tasti.

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«Quello verde per accendere, il rosso per spegnere e il giallo è quello del televideo» gli aveva spiegato. «Televideo? Che programma è? Chi è che lo presenta?» aveva chiesto il vecchio poco convinto. «Non è un programma, ma una pagina dove puoi trovare notizie, il meteo, lo sport e perfino gli orari dei treni. Ecco qui vedi ci sono tutti i treni in partenza dalla Centrale; con questo puoi andare dove vuoi» gli aveva detto Vera mentre sul video scorrevano in rapida successione, come carrozze di un lucido convoglio sferragliante, tutte le possibili opzioni. «Partenza? Ma io non voglio mica partire… e poi non ho pronta la valigia!» aveva protestato il vecchio. Vera scaldò il pentolino con il latte che Ines aveva lasciato già pronto in cucina. Mentre aspettava che bollisse, controllò la posta che era arrivata quella mattina; infilò un paio di bollette da pagare in una scatola di latta colorata sulla credenza e stracciò la pubblicità di un corso avanzato di informatica, un buono sconto per l’acquisto di una mountain bike e un coupon per una lampada gratuita presso un centro estetico di nuova apertura. Un secondo prima che il latte traboccasse, spense il gas. Lo versò in una tazza in ceramica dal manico sbeccato e vi aggiunse due cucchiai di miele. Prese da un armadietto pensile un vassoio di plastica e vi appoggiò la tazza. Si chinò e aprì uno degli sportelli inferiori della credenza. Si appoggiò sui talloni. Il barattolo era proprio in fondo. Allungò il braccio e lo afferrò. Se lo mise sulle ginocchia e tolse il coperchio. Vuoto. “Che fine hanno fatto i biscotti ? Ho comprato una confezione famiglia due giorni fa.” si domandò per niente sorpresa mentre portava il vassoio nella stanza accanto. «Ti ho portato il latte. Mi spiace ma i biscotti sono finiti» disse Vera appoggiando il vassoio sul tavolino e accostando la tazza ancora fumante alle labbra sottili e prosciugate del vecchio. «Oh sì, i biscotti! Li avrei graditi. Quella là non ti avrà detto che li ho presi io di nascosto, vero?» le domandò soffiando con aria sospettosa sulla bevanda ancora troppo calda. «Devi stare attento a quello che mangi, lo sai. Il dottore ha detto che devi seguire la dieta che ti ha dato. Altrimenti può darti dei seri problemi il diabete» gli raccomandò Vera guardando quegli occhi

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in cui la luce dell’innocenza era ormai offuscata dalla cataratta della longevità. «Abete? Cosa c’entra l’abete? Diamine non siamo a Natale!» aveva sbottato il vecchio grattandosi un orecchio. L’odore penetrante del muschio fresco le riempiva le narici. Muschio e mandarini era stato quello il profumo del Natale quando era bambina. Lui, per farla divertire, prendeva i mandarini, li incideva tutt’intorno lungo la circonferenza e toglieva la buccia facendo molta attenzione a non romperla. Poi con la punta di un coltello ritagliava la parte superiore della buccia creando un foro abbastanza largo da far uscire un filo di fumo. Avvolgeva intorno alla peluria bianca nella parte inferiore della buccia un grosso filo di cotone doppio e vi versava un po’ d’olio. Con un fiammifero accendeva il cotone e sopra vi appoggiava la metà superiore della buccia. La buccia svuotata diventava una magica lanterna in cui ardeva una dolce fiamma che faceva sprigionare col suo calore tutto il profumo intenso dell’agrume. Una ciotola con del latte e un paio di queste lanterne posate sul davanzale della finestra della cucina avrebbero guidato Babbo Natale e le sue renne verso la casa dove una bambina silenziosa attendeva la giusta ricompensa per un anno di mite obbedienza. Il vecchio prese un paio di sorsi e posò la tazza. Bastarono a saziarlo come un lumicino consumato a cui serve solo un po’ di ossigeno per tenere accesa la sua pallida fiammella tremolante. Vera gli sistemò il bavero della vestaglia che si era scomposta e gli passò una mano sulla guancia; era svuotata e cadente. Ritrasse la mano irrigidendosi. I pochi gesti d’affetto tra di loro erano sempre stati furtivi e circospetti, quasi per timore che qualcuno li vedesse o che i loro sentimenti fossero troppo manifesti. Non ricordava l’ultima volta in cui gli aveva detto di volergli bene. Sentiva però ancora viva la sua preoccupazione quando un giorno, per farla uscire da sotto il tavolo della cucina dove si era rifugiata per gioco e per non finire la cena, le aveva, involontariamente, provocato un graffio vicino a un occhio. Lo aveva visto disperarsi quando una piccola lacrima rossa le aveva rigato la gota delicata e piena.

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Voleva addirittura portarla in ospedale. E pensare che un semplice bacio avrebbe cancellato ogni dolore e tutte le paure. Ma non c’era stato. Né allora né mai. A un tratto le narici del vecchio si sollevarono facendo apparire ancora più adunca la punta del naso dove la cartilagine si era fatta più molle e un sibilo secco come un rovo spezzato gli uscì dalle labbra socchiuse. “Un giorno quello sarà anche il mio naso” pensò Vera guardandolo con imbarazzo. Niente avrebbe potuto fermare quel lento decadimento che aveva già intaccato anche il suo corpo. La più inutile delle battaglie, persa fin dalla prima alba di ogni uomo sulla terra. Impotente intrecciò le mani in grembo e sentì il calore del sangue dissipare per un istante effimero il freddo della terra che li attendeva. Il vecchio voltò il capo e la fissò; il suo sguardo non riusciva più a mettere a fuoco dettagli troppo vicini e ininfluenti come se fosse già proiettato su orizzonti a lei ancora inaccessibili e sconosciuti. «Buonasera signora. Torni ancora a trovarmi. Domani. Prima che la mia valigia sia pronta.» La salutò con un cenno lieve della mano. «Tornerò domani. Avremo ancora tempo papà» rispose sfiorandogli la fronte con le dita.

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CAPITOLO 3

IL FIORE DELLA PASSIONE Una cabriolet dalle cromature luccicanti si fermò davanti alla casa in fondo alla strada che curvava sinuosa verso il pioppeto. L’uomo al volante diede un leggero colpo di clacson. Miranda scostò le tendine. Edo le stava facendo un cenno con la mano perché lo raggiungesse. Miranda si annodò al collo un leggerissimo foulard bianco, prese al volo la borsa sul tavolino, chiuse a più mandate la porta d’ingresso e con passo rapido percorse il vialetto fino al cancello. Edo non scese dall’auto. Quando gli si sedette accanto le diede un bacio leggero sulla guancia. Il profumo della sua camicia appena stirata la stordì ancora una volta. Socchiuse gli occhi accarezzandogli con mano leggera i corti capelli brizzolati. «Prendo la strada per il lago come avevamo deciso», disse Edo innestando la marcia e infilandosi gli occhiali con le lenti scure che teneva appoggiati sul cruscotto. Lo sguardo di Miranda cadde sulla propria mano. Il rosso vivo dello smalto si era sbeccato. Edo guidava in modo sportivo, come un domatore che si diverte a stuzzicare per poi ammansire la sua fiera diceva ridendo Miranda, ma questa volta gli scatti duri e improvvisi le stavano provocando un senso di nausea sottile. «Sai quel posto di lavoro di cui ti avevo parlato?» se ne uscì d’un tratto Edo, «Bene, il direttore mi ha convocato due settimane fa e sembrerebbe non ci siano più ostacoli per un mio prossimo incarico.» «Sono felice per te, ma non mi avevi detto che era già stato assegnato a una tua collega da più tempo in azienda?» chiese Miranda di rimando. «Sì, è vero, ma la signora ha dovuto ritirare la candidatura. Ha da poco saputo di essere incinta. Sai, è una cosa normale per le

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giovani donne. Se avessi dovuto combattere con una come te non avrei avuto una vittoria così facile» continuò Edo con una risatina. «Una come me?» chiese Miranda spostandosi un po’ verso il finestrino abbassato come per inalare più aria. «Sì, voglio dire una donna che può dedicare tutta sé se stessa alla carriera, che non ha altri impegni» spiegò Edo voltandosi leggermente verso di lei. Miranda cercò di soffocare il senso di nausea con un debole sorriso. Un’ondata di caldo africano ha investito la penisola. Sono previste temperature in aumento fino a 40°C durante il week-end, avevano annunciato i telegiornali. Quella mattina si era svegliata molto presto e si era preparata con cura; era il suo compleanno. «Potremmo andare al lago se ti va» le aveva proposto Edo dopo lunghi mesi interrotti solo da telefonate furtive e Miranda aveva accettato. Miranda occhi verdi di ramarro la chiamava lui. Miranda che amava camminare scalza sull’erba appena rasata e sentirsi solleticare i piedi. Aveva fantasticato a lungo su quello che Edo avrebbe escogitato per rendere indimenticabile quel giorno. Una rosa scarlatta per ogni anno di felicità, era solito dire Edo presentandosi davanti alla porta con il grande battente luccicante. Il lungo pergolato di glicine inebriava l’aria appena smossa da una brezza leggera e lui sfoderava sorridente un fascio di rose ogni volta più folto. Miranda se lo stringeva al petto fremente fingendo di scrutare da vicino la pienezza vellutata dei petali carnosi che già più non si distinguevano dalle sue gote. “Cinquanta rose sono ben ingombranti” pensò Miranda lisciandosi con un sorriso la gonna sui fianchi ben disegnati e sistemando la chioma ramata in una lunga morbida coda. Rose rosse, mature, gonfie di vene dense e pulsanti. Come lo erano stati quei pochi momenti strappati con troppi sotterfugi alle loro esistenze; ormai stanchi brandelli di una melodia da juke-box.

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«Certo» rispose Miranda deglutendo a fatica. L’aria nell’abitacolo sembrava essersi compressa e ora le premeva le tempie accaldate. Venticinque anni di lavoro frenetico, compulsivo, senza lasciare spazio ad altro. Sì, certo, se lo ricordava bene. Fumo di Londra. Era quello il colore del completo che indossava l’amministratore delegato della Decor Italia, quando l’aveva convocata d’urgenza nel suo ufficio qualche mese prima. Strizzando gli occhietti miopi cerchiati di tartaruga il Dottor Malinverni le aveva sollecitato la ricerca di un’assistente. «Miranda, Miranda non devi vedere sempre del marcio anche dove non ce n’è» era stata la sua laconica spiegazione. L’Editore voleva solo svecchiare un po’ l’immagine della rivista e qualche nuova idea in più non avrebbe guastato. E Miranda aveva preso la sua decisione. Era sempre nei suoi occhi. Londra, con l’azzurro intenso dei portoni delle case vittoriane in Russell Street e i lucchetti delle biciclette appese alle lucide cancellate nere. Sentiva ancora la brezza nei capelli arruffati sul battello che li portava all’imbarcadero di Westminster mentre sopra le loro teste sfilava la mole del Tower Bridge imporporata dagli ultimi raggi di sole. Lei e Frankie. Frankie e la sua moto con cui tutte le mattine andava a Basingstoke presso lo studio di architettura di un amico per poi tornare da lei la sera. Nella loro casa nell’East End con la grande finestra a bovindo dove cenavano bevendo vino Italiano e guardando il riflesso tremolante dei loro volti nelle acque scure che scorrevano tumultuose come le loro esistenze. «Resta, ho bisogno di te» le aveva chiesto Frankie una sera in cui, dopo aver cenato in un locale indiano, stavano rientrando camminando lungo Brick Lane. «Frankie lo sai che non posso chiedere un trasferimento, non adesso che i vertici della società sono in fermento, verrei silurata» aveva sussurrato Miranda e quelle parole sotto la luce giallognola di un lampione avevano trascinato le loro vite verso rive mai più ricongiunte. Un battito delle palpebre la riportò nell’abitacolo.

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«Beh, dopo tutto è una fortuna per me» stava dicendo Edo. «Anche se adesso sarò ancora più impegnato con nuove responsabilità e tutto il resto, lo sai. Dovremo fare i salti mortali per stare insieme.» «Salti mortali dici? Ma se già fatichiamo a vederci una volta al mese. Cos'altro mi stai chiedendo?» replicò Miranda massaggiandosi le tempie con un fazzoletto. «Dai, non mi guardare con quegli occhi da cerbiatto ferito! Cercherò di fare il possibile però anche tu devi capire che la mia posizione mi imporrà certi obblighi a cui non potrò sottrarmi.» Edo cercò di tranquillizzarla posandole una mano sulle ginocchia. «Vedremo» riuscì solo a dire Miranda. Il viaggio continuò silenzioso per un’altra mezz’ora. Ormai Miranda riusciva a scorgere dal finestrino le acque increspate del lago che dal verde smeraldo trascoloravano nell’azzurro limpido del cielo. Le spiaggette sassose nascoste da macchie di palme dalle larghe foglie ricurve declinavano dolcemente nelle acque che promettevano refrigerio alla calura. L’auto di Edo svoltò in una piazzetta delimitata su uno dei lati più lunghi da una villa dai muri rosati con una scalinata che scendeva al lido sottostante. Miranda si avvicinò all’imponente cancello in ferro battuto dietro al quale si stendeva un grande parco colmo di tutti i colori della primavera inoltrata. Il giallo oro delle forsizie, il rosa carne dei rododendri dai fiori campanulati, il magenta delle azalee, il rosa acquarello dei fiori di pesco, il cremisi screziato delle camelie, il bianco delle magnolie e il lillà della lavanda. Affascinata Miranda volgeva lo sguardo tutt’intorno per assorbire ogni sfumatura e riempirsi del calore profuso da quegli arbusti gravidi. E la scorse. Seduta su una panchina di pietra in un angolo riparato dalle fronde di una quercia secolare. Una donna, col capo coperto da un fazzoletto nero. Il viso un tempo bello intarsiato di rughe profonde. Anche la vecchia la vide e con passo stanco le si avvicinò tenendosi aggrappata al cancello con le mani gonfie di vene azzurre. «Non c’è il rosso mia cara» le disse con le labbra dischiuse in un sorriso lontano. «Ma se tornerai avrò qualcosa per te.» E girandole le spalle lentamente s’incamminò verso il folto del parco.

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«Forza, dai Miranda, che stai facendo?» La voce di Edo la fece sussultare. «Su, dobbiamo andare al ristorante. Ho prenotato per le 13:00 e siamo giusto in tempo.» Percorsero a piedi il breve tratto che dalla piazzetta li portò al ristorante affacciato sul lago dove era stato riservato per loro un tavolo tranquillo. La vista anche da lì era incantevole. Le cime aguzze ancora innevate delle montagne si rispecchiavano come fanciulle vanitose nelle acque beandosi della propria immacolata bellezza. Fanciulle con grandi fiori dai petali carnosi color porpora tra i capelli di ebano, le gote piene e bianchi sorrisi ignari sullo sfondo di una vegetazione rigogliosa e indomata. Luoghi lontani mai vissuti. Profumi intensi che si sprigionavano come piccoli chicchi di caffè lasciati a brunire sotto i raggi cocenti. Cara madrina sono felice che tu sia la mia madrina e ti ringrazio per la bella lettera che mi hai mandato. Spero che un giorno verrai alla Casa di Padre Josè a conoscermi. La tua figlioccia, Juanita. Una calligrafia incerta e zoppicante con tanti fiori e farfalle variopinte. Una foto di gruppo. Volti ridenti raccolti intorno a un vecchio dalla sparuta barba bianca. Una costruzione rettangolare bianca bassa dal tetto di paglia con un’ampia corte in terra battuta sul davanti e tante piccole casette lungo i lati. Meniños de Rua, bambini diventati adulti sulla strada. «Posso servire l’aperitivo della casa?» chiese cerimoniosamente un cameriere avvicinandosi al tavolo e rivolgendosi a Edo. «Sì, grazie, iniziamo pure» rispose altrettanto compitamente lui. Il cameriere si allontanò dopo aver riempito i calici di vino leggero e frizzante e aver imbandito la tavola con una coreografica carrellata di antipasti. «Non mi stupirei» continuò Edo come riprendendo il filo spezzato dei suoi solitari pensieri «se in realtà fosse tutta una manovra.» «Manovra? Ma di cosa stai parlando adesso?» chiese Miranda come una voce fuori campo e fuori tempo.

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«Ma sì, non dirmi che non ci avevi pensato anche tu. Quella dell’essere incinta. Fino a pochi giorni fa desiderava quel posto più di ogni altra cosa. E adesso è incinta. Non riesco a credere che si possa essere così stupidi. Al giorno d’oggi poi. Farsi fregare per un figlio. Ma magari non è così incinta» proseguì Edo tamburellando con le dita sulla tovaglia candida. «Signora non si preoccupi, mi creda, è tutto sotto controllo. Le prescrivo solo delle analisi da fare per controllare che tutti i valori rientrino nei parametri normali. Semplice routine. Ecco, questo è l’elenco degli esami. Poi torni da me non appena avrà gli esiti. E mi raccomando, stia tranquilla, come le ho già detto è solo stress. Lei conduce una vita particolarmente stressante; impegni, viaggi, responsabilità. Anche il fisico più temprato prima o poi ha un cedimento. Ma noi siamo qui per rimetterla in forma» le aveva consigliato il luminare al quale si era rivolta parecchi anni prima per un consulto. Da un po’ di tempo i ritmi del suo corpo erano cambiati e lei stentava a riconoscerli. Cose che succedono, si era detta, ma all’ennesimo ritardo si era decisa a sottoporsi una visita specialistica. Ora doveva solo aspettare gli esiti. E gli esiti non avevano lasciato alcun margine di dubbio o di errore. A quarantatré anni era già in menopausa. Menopausa precoce la chiamano. Capita solo al 10% delle donne in età fertile. Già, e per lei non c’era più nessuna possibilità di avere figli. Aveva cercato troppo a lungo di rimandare la decisione di avere un figlio. L’avrebbe avuto anche se sapeva che l’uomo che le stava accanto in quel momento non era l’uomo della sua vita. Ma ormai quel treno era passato e non si sarebbe mai più fermato alla sua stazione. L’aveva visto andarsene lasciandola lì con gli occhi pieni di lacrime e un vuoto straziante che le riempiva il ventre prosciugato. Miranda si morse le labbra per non rispondere. «In effetti potrebbe essere che la mia astuta collega abbia buttato lì una gravidanza lasciando a me il posto solo perché in realtà è in combutta con il Vice Presidente che gliene ha già promesso uno migliore. E a giochi fatti la gravidanza si rivelerà un caso isterico. Te lo avevo detto che i due sono amanti, vero? Tu che ne pensi

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Miranda?» la interrogò Edo fissandola negli occhi per la prima volta da quando si erano incontrati quel giorno. Prima che Miranda potesse rispondere un venditore di fiori si avvicinò al tavolo. «Una rosa per la signora?» domandò strascinando le parole come in una cantilena lontana e togliendo dal cestello che portava sotto braccio una rosa dai petali sfatti e cadenti che porse a Miranda con un sorriso sdentato. «No grazie, niente fiori» fece appena in tempo a dire Edo quando Miranda afferrò la rosa strappandola dalle mani del venditore. Miranda sfiorò la rosa con le labbra e alzandosi da tavola la lasciò cadere in grembo a Edo. «Ma Miranda, cosa fai? Dove vai? Ti sembra il modo!» riuscì a mormorare lui guardandosi intorno come a discolparsi. Miranda tornò verso la piazzetta dirigendosi alla villa dai mattoni rosati. Camminò per un po’ lungo il muro di cinta sul quale si intrecciavano vetusti rami di edera finché non trovò un cancelletto arrugginito. Forse serviva come passaggio per trasportare gli attrezzi dalla vicina rimessa. Lo spinse leggermente e cigolando lo sentì girare sui cardini. Entrò nel parco e si tolse le scarpe. L’erba tenera sfiorò i suoi piedi che volavano leggeri sulla terra e quel contatto le trasmise una nuova energia. Una linfa rinnovata sembrò scorrere dentro di lei. Prese uno dei tanti sentieri che a una raggiera conducevano al cuore del grande parco. Un laghetto su cui si dondolavano bianche ninfee la attendeva come una perla desiderosa di essere scoperta. E di nuovo nell’ombra odorosa di un cipresso slanciato la vide. La donna teneva le mani incrociate sul grembo su cui era adagiato un fiore dai grandi petali rosso scarlatto con una corona di lunghi filamenti bianchi. Miranda lo riconobbe. Una passiflora, il fiore che portava i segni della passione. La donna glielo porse e Miranda se lo appoggiò sul seno. Il profumo intenso per un attimo la stordì. Quando sollevò lo sguardo vide il volto sorridente della bimba nel paese dove i raggi cocenti del sole riscaldano i chicchi di caffè. FINE ANTEPRIMAContinua...