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pag. 1/28 CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA INCONTRO DI STUDI «Il contenzioso civile in materia di successioni e divisioni» Roma, 17 – 19 ottobre 2011 R E L A Z I O N E Tecniche di conduzione del giudizio di divisione tra teoria e prassi. Maria Luisa Rossi giudice del tribunale di Roma

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

INCONTRO DI STUDI

«Il contenzioso civile in materia di successioni e divisioni»

Roma, 17 – 19 ottobre 2011

R E L A Z I O N E

Tecniche di conduzione del giudizio di divisione

tra teoria e prassi.

Maria Luisa Rossi

giudice del tribunale di Roma

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§ 1 — Premessa.

Nell’anno 2005, è stato presentato, davanti alla Corte di Appello di Campobasso, un ricorso per l’equa riparazione per l’eccessiva durata di un processo di divisione ereditaria. Iniziato nel 1962, il processo di primo grado è terminato nel 2004. Nel corso dei 42 anni di durata della causa, vi sono state 155 udienze istruttorie, sono stati nominati sei consulenti tecnici, che hanno provveduto al deposito della relazione in termini oscillanti tra i 169 e i 4925 giorni, sono decedute tre delle parti originarie ed anche un avvocato, la sentenza è stata pubblicata nel settembre 2004. Stremate, le parti non hanno osato proporre appello.

Il processo di Teramo, di certo, rappresenta un caso limite; tuttavia, le cause di divisione, e quelle di beni caduti in successione in particolare, sono naturalmente destinate a permanere per un tempo maggiore sui nostri ruoli.

La complessità dell’istruttoria sulle domande che quasi sempre precedono la richiesta di scioglimento della comunione, la necessità di espletare indagini tecniche (con le immancabili critiche, osservazioni e chiarimenti), il ricorso alla sentenza non definitiva (a volte più d’una nel corso del giudizio) per decidere delle numerose questioni preliminari e, infine, i tempi delle procedure di vendita all’incanto, appaiono incompatibili con una breve durata del processo e inducono a ritenere che il precetto dell’art. 111 Cost. debba essere, per questo tipo di giudizi, diversamente calibrato.

In queste controversie, inoltre, interferiscono le vicende personali delle parti che, come nel contenzioso dei rapporti familiari e in quello del lavoro, si legano fortemente alle questioni giuridiche, determinando la nascita della controversia e condizionandone lo svolgimento e la conclusione.

Come ben sappiamo, infatti, nelle divisioni ereditarie entrano pesantemente in gioco i conflitti non risolti nell’ambito familiare, gli antichi rancori, le gelosie fra fratelli, così come quelle tra ex coniugi sono condizionate dalle battaglie già disputate, o ancora in corso, davanti al giudice della separazione e del divorzio.

Tuttavia, ritengo che il tentativo di conciliazione, a dispetto della modifica dell’art. 183 cpc, sia un passaggio obbligato (seppure

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impegnativo per tempi ed energie da investire) per questo tipo di controversie: il contatto con le parti, il recupero della trattazione orale del procedimento, la possibilità di interloquire con gli altri soggetti del processo e, a volte, di riuscire ad entrare nel conflitto per risolverlo, senza sacrificare la dignità di nessuna delle parti, rappresenta uno dei rari momenti in cui il giudice civile può allontanare da sé lo spettro della incombente burocratizzazione della funzione.

E’ certamente vero che per fare un “buon” processo di divisione occorre un tempo non breve; ma ciò non implica che i tempi di definizione non si possano controllare anche al fine di arginare comportamenti apertamente o velatamente dilatori di chi è, ad esempio, nel godimento dei beni comuni e non intende rinunciare alla propria posizione di vantaggio rispetto agli altri condividenti.

Nel 2006 le sezioni unite della Cassazione, pronunciandosi sul giudizio di divisione ereditaria, hanno chiarito che le caratteristiche del relativo procedimento — rappresentate dalla necessità di porre fine alla comunione con riferimento all'intero patrimonio del “de cuius” — non sono di per sé sufficienti a giustificare deroghe alle preclusioni tipiche stabilite dalla legge per il normale giudizio contenzioso. (Nella specie, sono state dichiarate inammissibili, ai sensi dell'art. 167, secondo comma, c.p.c. le domande di nullità o di simulazione dirette a far rientrare determinati beni nell'asse ereditario proposte, per la prima volta, in sede di discussione del progetto divisionale — sentenza n. 14109 del 20 giugno 2006).

Lo studio del fascicolo, fin dalla prima udienza, ed il controllo costante del procedimento da parte del giudice, possono aiutare a contenere i tempi di durata del processo. Può risultare particolarmente utile, in particolare, la redazione di schematici appunti sulle domande ed eccezioni introdotte dalle parti, con la evidenziazione delle questioni in diritto che possono o debbano essere decise in via preliminare o che, comunque, non necessitano di istruttoria. Gli appunti sulla causa, anche se stringati, costituiscono una guida per percorrere con maggiore speditezza il contenuto delle memorie dell’art. 183 sesto comma e spunti utili per la redazione della motivazione sia delle ordinanze istruttorie che della sentenza.

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Per ragioni di brevità, non essendo possibile analizzare, nel tempo a disposizione, tutti i passaggi del procedimento divisorio, mi soffermerò solo su alcuni degli aspetti delle problematiche che, più di frequente, il giudice si trova ad affrontare nel corso della istruttoria.

§ 2 — QUESTIONI DA ESAMINARE NELLA FASE INIZIALE DEL GIUDIZIO

§ 2.1 — LA CERTIFICAZIONE IPOCATASTALE VENTENNALE

Prima di ogni altra indagine, il giudice deve accertare l’esistenza della comunione, per poter poi valutare l’integrità del contraddittorio.

Può essere utile, nella prima udienza di comparizione, rammentare, con espressa indicazione nel verbale, l’onere, a cura della parte più diligente - giacché l’interesse alla divisione prescinde dalla posizione processuale assunta nel giudizio - di depositare la certificazione ipocatastale ventennale ovvero la relazione notarile sostitutiva in relazione agli immobili da dividere.

La prova della titolarità della comproprietà e della integrità del contraddittorio si pone come prius imprescindibile rispetto alla fase istruttoria del giudizio e come un onere a carico delle parti. Così come è onere delle parti indicare i beni dei quali si chiede la divisione.

Spesso, le parti chiedono al tribunale di accertare la consistenza dell’asse ereditario ovvero dei beni comuni. Ma “la tendenziale finalità del giudizio di divisione di porre fine allo stato di comunione con riferimento all'intero patrimonio relitto del de cuius non può prescindere dal fatto che: a) il giudice non può andare alla ricerca di beni da ritenere inclusi nel patrimonio relitto dal de cuius e non indicati dalle parti come elementi della massa ereditaria da dividere; b) il giudice, senza una domanda della parte, non può considerare come facenti parte della comunione ereditaria beni la cui esistenza risulta acquisita al giudizio, ma che, in base ad un titolo formalmente valido, devono considerarsi estranei al patrimonio relitto dal de cuius.” (sezioni unite 2006 cit.)

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Ciò posto, nel caso di inottemperanza all’onere probatorio, che rende inutile il prosieguo della fase istruttoria, il processo deve avviarsi a conclusione. In questi casi, le risposte dei vari uffici giudiziari non sono uniformi. Per evitare una pronuncia di rigetto nel merito, consentire la riproposizione della domanda senza necessità di appellare, evitare il rischio della formazione del giudicato, il Tribunale di Roma ha ritenuto di adottare una pronuncia di improponibilità della domanda.

Si tratta di una soluzione che può non soddisfare pienamente in punto di diritto, ma che rappresenta una sorta di compromesso tra la sanzione per l’inerzia processuale e la necessità di tutelare le parti e il diritto di queste di sciogliere la comunione ed ottenere la quota che loro spetta.

Questa soluzione è passata al vaglio della locale corte di appello, che ha ritenuto di condividere l’orientamento del giudice di primo grado, rilevando che la decisione “trova fondamento, oltre che sulla regola generale secondo cui la divisione può essere domandata soltanto da ciascuno dei coeredi (articolo 713 c.c.) ovvero dei comunisti (articolo 1111 c.c.), sicché l'esistenza della menzionata qualità costituisce indispensabile condizione dell'azione, la cui ricorrenza va verificata d'ufficio, sul principio dell'universalità della divisione, del quale è espressione l'articolo 784 c.p.c., ove è stabilito che le domande di divisione ereditaria e di scioglimento di qualsiasi altra comunione debbono essere proposte in confronto di tutti gli eredi o condomini e dei creditori opponenti se vi sono, avuto riguardo al disposto dell'articolo 1113 c.c. Di guisa che, incombendo dunque sul giudice adito con la domanda di divisione la doverosa verifica officiosa, per un verso, della qualità di coerede-comunista in capo a colui il quale formula la domanda, nonché, per altro verso, dell'integrità del contraddittorio, con riguardo a tutti i possibili litisconsorti necessari, è indispensabile che la parte attrice depositi la documentazione a tal fine necessaria: la medesima documentazione, in breve, che occorre al creditore procedente (oltre al titolo esecutivo) per sottoporre ad esecuzione forzata immobiliare i beni del debitore alla stregua di quanto previsto dall'articolo 567 c.c., ossia l'estratto del catasto, nonché i certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all'immobile pignorato effettuate nei venti anni anteriori alla trascrizione del pignoramento, o, altresì, un certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari. Documentazione, quella indicata, per l'appunto necessaria a verificare che le parti stiano dividendo beni effettivamente ed oggettivamente propri (e non semplicemente beni tra le parti incontestatamente propri) e che non vi siano altri soggetti titolari della qualità di litisconsorti necessari.”(Corte di appello Roma n.2480/11).

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Tuttavia, alla pronuncia di improponibilità si deve pervenire solo quando le parti, benché avvertite dal giudice, che deve lealmente dirigere il procedimento, si rendano inadempienti.

I tempi per l’acquisizione della documentazione potrebbero non essere compatibili con i termini dell’art. 183 c.p.c., soprattutto nei casi in cui vi sia una pluralità di beni situati in luoghi diversi. In queste ipotesi, il ritardo può essere scusabile e , per questo, è opportuno consentire alle parti il deposito della documentazione anche oltre la scadenza del secondo termine dell’art. 183, entro la data dell’udienza per la decisione sulle istanze istruttorie e, comunque, prima di conferire l’incarico al consulente tecnico d’ufficio. L’esigenza di assicurare alle parti una risposta di merito che valga a risolvere il conflitto rispetto ad una sbrigativa pronuncia, in rito, che si risolve in denegata giustizia, deve ritenersi assolutamente prevalente.

Altre soluzioni sono state adottate da altri uffici giudiziari.

Ad esempio, alcuni giudici del Tribunale di Napoli, nei casi di mancanza della documentazione che provi il titolo della contitolarità dei beni, pronunciano sentenza di rigetto della domanda. Questa decisione, rigorosa in linea di diritto, conduce, però, per quanto sopra si è detto (rischio di giudicato nel merito), a risultati che potrebbero precludere la possibilità di chiedere lo scioglimento della comunione e di esercitare il relativo diritto potestativo.

Altri distinguono tra la mancata produzione del titolo di proprietà (non potendo ritenersi sufficienti né il testamento, né la denuncia di successione, né la certificazione catastale ) che conduce al rigetto e la mancanza delle visure ipocatastali che impedisce l’accertamento della presenza di iscrizioni o trascrizioni sui beni. In questo caso, non vi sono ostacoli ad una pronuncia di divisione ma la sentenza potrebbe non essere opponibile ad eventuali creditori ed aventi causa.

Nella ipotesi di impugnazione della sentenza definitiva che abbia negato il diritto di procedere allo scioglimento della comunione, in caso di accoglimento del gravame, le successive operazioni divisionali dovranno svolgersi dinanzi al giudice d’appello, non rientrando questa tra le ipotesi di rimessione della causa al giudice di primo grado ex artt. 353 e 354 c.p.c.. (Cass. n. 733/82).

Va da ultimo osservato che l’elemento caratterizzante ai fini del litisconsorzio necessario di cui all’art. 784 c.p.c. è la partecipazione alla

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comunione (contitolarità dei diritti comuni) e non la qualità di erede in sé considerata; ne deriva che, nell'ipotesi di cessione di quota ereditaria, litisconsorti necessari nel giudizio di divisione sono i cessionari e non gli eredi ceduti, i quali, essendo usciti dalla comunione ereditaria e non più partecipandovi, sono privi di legittimazione in ordine alla divisione (Cass. n. 5281 del 06 agosto 1983 ; Cass. n. 12242 del 06 giugno 2011 ).

Diversa è l’ipotesi di cessione di diritti su singoli beni.

In questo caso, infatti, non si verifica alcun effetto di scioglimento della comunione, neppure parziale, “ma i diritti ceduti continuano a far parte della stessa comunione, restando l'acquisto del terzo subordinato all'avveramento della condizione che essi in sede di divisione siano assegnati al coerede che li abbia ceduti (v. Cass. 10 marzo 1990, n. 1966; Cass. 1 luglio 2002, n. 9543 ed anche Cass. 15 giugno 1988 n. 4092): tale condiviso orientamento comporta dunque che se un coerede può alienare a terzi in tutto od in parte la propria quota, tanto produce effetti reali se ed in quanto l'acquirente venga immesso nella comunione ereditaria, mentre in caso diverso la vendita avrà solo effetti obbligatori, salvo che la vendita del singolo bene non abbia avuto a presupposto un atto di scioglimento della comunione ereditaria, anche implicito in ordine a tale bene.”(Cass. n. 3385 del 15 febbraio 2007 ).

§ 2.2 — CREDITORI E AVENTI CAUSA

La norma dell’art. 784 cpc – litisconsorzio necessario – dettata per le divisioni ereditarie e per le domande di scioglimento di qualsiasi comunione , indica quali consorti necessari, oltre ai condividenti, i creditori opponenti, se vi sono.

La disposizione va letta in combinato con la norma dell’art. 1113 cod.civ. che disciplina l’intervento nella divisione dei creditori ed aventi causa.

La ratio della norma dell’art. 1113 cod.civ. sta nella esigenza di tutelare i creditori e gli aventi causa di un condividente che dalla divisione potrebbero avere un danno se al loro debitore o dante causa venisse assegnata una porzione di valore inferiore rispetto al valore della relativa quota indivisa oppure un bene diverso rispetto a quello di cui il dante causa abbia disposto. Dalla necessità di mantenere intatta la garanzia patrimoniale, a seconda dei casi, generica o specifica, per quanto riguarda i creditori oppure il proprio acquisto, per quanto attiene agli aventi causa,

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deriva l'interesse ad intervenire nella divisione per controllare la regolarità delle operazioni divisorie .

Il primo comma dell’art. 1113 cod.civ. riguarda i creditori e gli aventi causa da un condividente, che non fondino il loro diritto su un titolo iscritto o trascritto in data antecedente alla trascrizione della divisione; questi soggetti possono intervenire nella divisione a proprie spese.

A norma del terzo comma, invece, devono essere chiamati ad intervenire i creditori e gli aventi causa che siano conosciuti o conoscibili perchè muniti di titolo iscritto o trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda di divisione.

L’art. 1113 cod. civ. riguarda le iscrizioni e trascrizioni sulla quota indivisa di uno solo dei condividenti.

L’ipoteca iscritta contro il comune dante causa dei condividenti o costituita da tutti i comunisti (per un debito di terzi, di uno o di tutti i partecipanti alla comunione) non può mai essere pregiudicata dalla divisione, qualunque sia l’ipotesi divisoria cui si pervenga. L’ipoteca continua a gravare per l’intero credito su tutta la cosa se questa è assegnata ad uno solo dei condividenti e, in caso di divisione materiale, il creditore potrà promuovere l’esecuzione nei confronti dei vari comproprietari, procedendo sempre per l’intero, come se la divisione non fosse avvenuta (art. 2809 cod. civ.).

Il creditore ipotecario che, chiamato nel giudizio di divisione a norma dell'art. 1113, terzo comma, cod. civ., non ritenga di partecipare al giudizio, non assume la qualità di litisconsorte e, pertanto, non è necessaria la integrazione del contraddittorio nei suoi confronti nell’eventuale giudizio di appello. In proposito, spiega la Corte, la tutela processuale dell’interesse del creditore a prevenire, in generale, atti fraudolenti di disposizione del patrimonio, riconosciutogli dalla norma dell'art. 2901 cod. civ. e, in particolare, allorquando trattasi di credito garantito dalla ipoteca su beni indivisi, a far sì che il diritto reale di garanzia costituito sulla quota di uno dei partecipanti alla comunione, produca concretamente gli effetti suoi propri nelle varie ipotesi previste dall'art. 2825 cod. civ., si esaurisce del tutto con il mancato intervento, quale indice di disinteresse per il processo divisionale (Cass. 6 luglio 2001 n.7485).

§ 2.3 — LA TRASCRIZIONE DELLA DOMANDA DI DIVISIONE

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Alla previsione dell’art. 1113 cod. civ. è collegata la questione della trascrizione della domanda giudiziale di divisione.

La trascrizione della domanda è un onere per le parti e non è requisito di procedibilità; ai sensi dell’art. 2646 cod. civ., essa rileva ai fini della opponibilità della divisione nei confronti dei terzi.

In difetto di trascrizione della domanda giudiziale di divisione, gli effetti divisori non saranno opponibili ai creditori ed aventi causa che avranno iscritto o trascritto l’acquisto anche dopo l’inizio del giudizio e fino alla trascrizione del provvedimento giudiziale che chiude il processo.

La trascrizione della domanda giudiziale di divisione esime i partecipanti alla comunione dall'onere di chiamare in giudizio i loro aventi causa che abbiano trascritto il proprio titolo posteriormente e i creditori che abbiano trascritto anche posteriormente l'opposizione di cui all'art. 1113 cod. civ., ma non rende inefficace l'ipoteca iscritta successivamente, in quanto non opera l’effetto di prenotazione.

E’ stato opportunamente evidenziato che la trascrizione della domanda giudiziale di divisione non rileva ai fini di quanto previsto dall’art. 2644 cod. civ. Ed invero, attesa la natura dichiarativa della divisione, per cui la proprietà esclusiva dei beni assegnati al condividente non rappresenta il risultato di un trasferimento delle quote indivise degli altri condomini, ma si considera acquisita al patrimonio del condividente sin dal momento in cui la comunione è sorta, la pubblicità della divisione non può essere disposta per gli effetti di cui all’art. 2644 c.c.

L’art. 2644 c.c. non potrebbe trovare applicazione nei conflitti tra l’assegnatario di un determinato bene e chi avesse acquistato diritti da altro condividente sullo stesso bene. Se, infatti, l’atto di alienazione è anteriore alla divisione esso, in base all’art. 757 c.c., è sottoposto alla condicio iuris della assegnazione del bene al disponente e quindi medio tempore non è neppure trascrivibile.

Se l’alienazione (da parte di un condividente diverso dell’assegnatario) è successiva alla trascrizione, l’acquirente è avente causa da un soggetto che non avrebbe alcun titolo per costituire o trasferire il diritto in virtù dell’efficacia dichiarativa della divisione; e tale vizio non può essere sanato dalla trascrizione.

Gli effetti della trascrizione della domanda di divisione vanno — dunque — individuati, oltre che in relazione all’osservanza dell’onere della

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continuità, in relazione all’art. 1113 c.c. L’art. 2646 cod. civ. tutela, infatti, gli aventi causa da uno o più condomini che abbiano trascritto il loro titolo prima della trascrizione della divisione, i creditori ipotecari di uno o più condividenti che abbiano iscritto ipoteca sulle quote indivise o su beni determinati e i creditori chirografari che abbiano trascritto l’opposizione prevista dall’art. 1113 cod. civ.

Nel caso in cui i condividenti non trascrivano la domanda giudiziale, la divisione non sarà opponibile ai soggetti sopra indicati.

§ 3 — QUESTIONI RELATIVE AI BENI OGGETTO DELLA COMUNIONE

§ 3.1 — MASSE PLURIME Nello stesso giudizio può essere chiesto lo scioglimento di beni provenienti da titoli diversi. L’ammissibilità del cumulo nel medesimo giudizio è stata più volte affermata dalla Corte di Cassazione. Tuttavia, è altrettanto consolidato il principio per cui “quando i beni in godimento comune provengono da titoli diversi non si realizza un’unica comunione, ma tante distinte comunioni quanti sono i titoli di provenienza”; ciascuna massa costituisce quindi un’entità patrimoniale a sé stante. Dunque, i diritti di ciascun condividente vanno valutati con riferimento a ciascuna comunione e, nell’ambito di ciascuna di esse, debbono essere risolti tutti i problemi particolari relativi alla formazione dei lotti, alla comoda divisibilità, alla collazione, etc.(Cass. 3014/81, Cass. 13009/07).

E’ però possibile procedere ad una sola divisione, piuttosto che a tante divisioni per quante sono le masse, purché tutte le parti vi consentano e la volontà delle stesse risulti da un atto scritto (atto pubblico o scrittura privata ), non essendo sufficiente un comportamento tacito, una mera acquiescenza, una non contestazione avverso la richiesta di uno scioglimento unitario (fra le più recenti, Cass.314/09 e 3029/09).

Il problema si pone, con frequenza, nei casi in cui le parti intendano regolare la successione di entrambi i genitori. Ed è ancor più frequente il caso in cui le distinte successioni abbiano ad oggetto i medesimi beni (o per la contitolarità originaria dei beni in capo ad entrambi i de cuius,

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ovvero perché la seconda successione, in ordine cronologico, ha ad oggetto esclusivamente la quota dei beni della prima successione).

In questa ipotesi, si può richiamare il principio espresso da Cass. 1962/66 “nulla vieta che - ove le parti non abbiano regolato convenzionalmente le rispettive ragioni - entrambe possano essere sciolte contestualmente, anche allo scopo di evitare, per quanto possibile, l'eccessivo frazionamento dei beni stessi.” La definizione di tutto il complesso dei rapporti tra i coeredi (nei casi in cui non vi siano da risolvere questioni ulteriori che attengano alla integrità della quota riservata o alla necessità di operazioni di collazione ) sembra una soluzione di buon senso che può prescindere dalla formale proposizione di due distinte domande di divisione.

§ 3.2 — IMMOBILI ABUSIVI Tra i compiti da affidare al consulente tecnico d’ufficio v’è quello di accertare la regolarità urbanistica ed edilizia dei beni. La sanzione di incommerciabilità dei beni realizzati contra legem opera, infatti, anche nei giudizi di scioglimento di comunione (anche ereditaria, giudiziale o contrattuale) in quanto si tratta di atti inter vivos e non si può consentire alle parti di ottenere, all’esito di un giudizio, gli effetti sostanziali vietati all’autonomia privata.

Secondo Cass. 17 gennaio 2003 n.630, “Anche in tema di scioglimento della comunione di diritti reali, disciplinata dall'art. 1111 cod. civ., si applica la nullità prevista dall'art. 17 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 con riferimento a vicende negoziali "inter vivos" relative a beni immobili privi della necessaria concessione edificatoria. Tale nullità ha carattere assoluto (ed è quindi rilevabile d'ufficio e deducibile da chiunque vi abbia interesse) in quanto quel regime normativo, sancendo la prevalenza dell'interesse pubblico alla ordinata trasformazione del territorio rispetto agli interessi della proprietà e mirando a reprimere ed a scoraggiare gli abusi edilizi, limita l'autonomia privata e non dà alcun rilievo allo stato di buona o mala fede dell'interessato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della Corte d'Appello che aveva rigettato la domanda di divisione giudiziale della comunione di un appezzamento di terreno sul quale erano stati realizzati manufatti abusivi).”

Va però rilevato che

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a) il problema si pone per gli immobili costruiti dopo il 1 settembre 1967. Per quelli anteriori il problema di documentarne la regolarità urbanistica non è rilevante in quanto l’art. 40 della l. 28 febbraio 1985 n. 47, ancora vigente, prevede, per le opere iniziate anteriormente al 1 settembre 1967, che, in luogo degli estremi della licenza edilizia, può essere prodotta una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, rilasciata dal proprietario o altro avente titolo, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, attestante che l'opera risulti iniziata in data anteriore al 2 settembre 1967.

b) per gli immobili realizzati tra il 1 settembre 1967 e il 17 marzo 1985, data di entrata in vigore della legge 47, l’art. 40, a differenza dell’art. 17, relativamente agli immobili realizzati in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge, non contempla tra gli atti vietati anche lo scioglimento delle comunioni, le quali possono quindi essere dichiarate, anche in assenza di concessione edilizia (sul punto, si vedano Cass. n.15133/01 che, in motivazione , precisa:” non può restare senza rilievo il fatto che nel caso in esame si tratta di scioglimento di comunione ereditaria, poiché la norma che si assume violata, pur riguardando anche gli atti di "scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti", limita espressamente il proprio campo oggettivo di applicazione ai soli "atti tra vivi", lasciando, quindi, al di fuori tutta la categoria degli atti mortis causa. È invero, evidente che, come esattamente osservato da autorevole dottrina, la divisione ereditaria, pur attuandosi dopo la morte del de cuius, costituisce l'evento terminale della vicenda successoria e, quindi, rispetto a questa non può considerarsi autonoma. Tale rilievo trova conferma nel dato positivo offerto dall'art. 757 cod. civ., che assegna efficacia retroattiva alle attribuzioni scaturenti dall'atto divisionale.”; si veda pure Cass. n.14764/05 e la più recente Cass. n.2313/10).

c) Ove l'immobile sia stato realizzato dopo il 18 marzo 1985 e risulti abusivo, esso sarà indivisibile, perché incommerciabile, ai sensi dell’art. 46 dpr 380/01 che ha abrogato e sostituito l’art. 17 della legge 47/85 ( Nullità degli atti giuridici relativi ad edifici la cui costruzione abusiva sia iniziata dopo il 17 marzo 1985: Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante,

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gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù).

Tuttavia, non ogni abuso edilizio determina l’incommerciabilità del bene.

La sanzione deve ritenersi riferita alle ipotesi di assenza della concessione o di totale difformità dalla stessa, perché la normativa prevede espressamente queste due sole ipotesi.

§ 3.3 — IMMOBILE ADIBITO A CASA CONIUGALE ED ASSEGNATO AD UNO DEI CONIUGI IN SEDE DI SEPARAZIONE

Va premesso che recentemente, con la sentenza n. 4757 del 2010, la Corte di Cassazione ha affermato che “Il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale (o l'omologazione di quella consensuale), che rappresenta il fatto costitutivo del diritto ad ottenere lo scioglimento della comunione legale dei beni, non è condizione di procedibilità della domanda giudiziale di scioglimento della comunione legale e di divisione dei beni, ma condizione dell'azione. Conseguentemente, la domanda è proponibile nelle more del giudizio di separazione personale, essendo sufficiente che la suddetta condizione sussista al momento della pronuncia”.

Alcuni commentatori, prendendo spunto dalla pronuncia hanno auspicato la possibilità di una rapida definizione anche della domanda di divisione proposta nel giudizio di separazione personale. Decisa, con sentenza parziale, la domanda di separazione e favorito il passaggio in giudicato della stessa (che sarà raggiunto assai spesso per acquiescenza, laddove entrambe le parti abbiano formulato domanda di separazione), si può giungere alla pronuncia finale, anche sulla divisione, quando la condizione dell’azione ovvero la fattispecie di scioglimento si è perfezionata. Ed invero, nei casi (più frequenti) nei quali il patrimonio comune dei coniugi è costituito esclusivamente dall’immobile adibito a casa coniugale, la soluzione auspicata risulta pienamente condivisibile: senza oneri ulteriori derivanti dalla introduzione di un altro giudizio, senza ritardare la pronuncia relativa allo scioglimento del vincolo

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personale, all’esito di un accertamento che si profila estremamente semplice e rapido (accertare il valore di mercato e la eventuale divisibilità), le parti potrebbero raggiungere la definizione complessiva dei rapporti e ridurre i rischi di incremento del contenzioso inevitabilmente collegati alla permanenza della comunione.

Ciò posto, nella fase istruttoria, il giudice deve porsi il problema della valutazione del bene che sia stato assegnato ad uno dei coniugi in sede di separazione o divorzio.

Va, infatti, ricordato che il provvedimento di assegnazione della casa coniugale in comproprietà, in sede di separazione o divorzio, non è d’ostacolo alla richiesta di scioglimento della comunione, ma può incidere solo sul valore di mercato del bene.

Le modifiche della legge 54 del 2006 e, in particolare, la introduzione dell'art.155 quater cod. civ., con la espressa previsione dell’assegnazione del godimento tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli, hanno confermato la connessione tra affidamento dei figli ed assegnazione della casa coniugale.

La Corte ha precisato che “il godimento della casa familiare è finalizzato alla tutela della prole in genere e non più all'affidamento dei figli minori, mentre, in assenza di prole, il titolo che giustifica la disponibilità della casa familiare, sia esso un diritto di godimento o un diritto reale, del quale sia titolare uno dei coniugi o entrambi, è giuridicamente irrilevante” e quindi, in assenza di figli, il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito, il quale, in assenza di figli, ha negato che si potesse disporre in ordine all'assegnazione della casa coniugale, ed ha rinviato alle norme sulla comunione ed al relativo regime per l'uso e la divisione, essendo detta abitazione di proprietà comune di entrambi i coniugi — Cass. 24 luglio 2007 n. 16398).

La connessione determina la inopponibilità del provvedimento disposto su accordo delle parti in sede di giudizio di separazione, in assenza di figli minori o maggiori non autosufficienti, sia ai terzi acquirenti, sia al coniuge non assegnatario. Con la recente pronuncia 4735 del 25 febbraio 2011, la Corte ha ribadito che “l'opponibilità è ancorata all'imprescindibile presupposto che il coniuge assegnatario della casa coniugale sia anche affidatario della prole, considerato che in caso di

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estensione dell'opponibilità anche all'ipotesi di assegnazione della casa coniugale come mezzo di regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi, si determinerebbe una sostanziale espropriazione del diritto di proprietà dell'altro coniuge, in quanto la durata del vincolo coinciderebbe con la vita dell'assegnatario. (Nella specie la Corte ha confermato la pronuncia di merito che, in accoglimento della domanda di divisione, constatata la non comoda divisibilità dell'immobile e l'assenza di domande di assegnazione, aveva disposto la vendita all'incanto, dopo aver accertato l'inopponibilità al terzo, futuro acquirente, del provvedimento di assegnazione, peraltro trascritto successivamente alla domanda di divisione)”( sulla finalità dell’assegnazione, vedi pure Cass. 20 aprile 2011 n.9079).

A contrario, nell’ipotesi di assegnazione della casa coniugale conseguente all’affidamento di figli minori o in caso di convivenza con figli maggiorenni non autosufficienti , il bene è gravato da un vincolo ( diritto personale di godimento: Cass.5455/03; Cass.4719/06) che sicuramente incide sul valore di mercato, posto che il bene non è del tutto libero.

Con riferimento a bene comune gravato da provvedimento di assegnazione in sede di separazione o divorzio, il problema che maggiormente ha impegnato l’interprete è quello della opponibilità del provvedimento ai terzi acquirenti.

Dopo varie oscillazioni della giurisprudenza, e all’esito di un acceso dibattito dottrinale sul punto, con la sentenza n. 11096 del 2002 le sezioni unite della Cassazione, hanno affermato che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell'assegnazione, ovvero - ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto - anche oltre i nove anni.

Il contrasto si era formato a seguito delle pronunce n. 10977 del 1996 e n. 7680 del 1997, da un lato, e la sentenza n. 4529 del 1999, dall'altro: nelle prime due pronunce si era infatti affermato che l'onere della trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare di cui all'art. 155 c.c., ai fini della sua opponibilità al successivi acquirenti, riguardava, in analogia con la normativa vigente in materia di scioglimento del matrimonio ed ai sensi dell'art. 1599 c.c., la sola assegnazione ultranovennale, salva restando l'opponibilità del

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provvedimento non trascritto nei limiti del novennio. La pronuncia del 1999 invece aveva affermato che la previsione di opponibilità della locazione di immobili al terzo acquirente nel limite temporale suindicato in difetto di trascrizione, contenuta nell'art. 1599 c.c. (secondo cui le locazioni di beni immobili non trascritte non sono opponibili al terzo acquirente, se non nei limiti di un novennio dall’inizio della locazione), “costituisce disposizione eccezionale non estensibile in via analogica ad altri istituti, e segnatamente all'assegnazione della casa familiare, trattandosi di fattispecie non riconducibile né analoga alla locazione, e che d'altro canto la genericità del richiamo all'art. 1599 c.c. contenuto nell'art. 6 comma 6 della legge sul divorzio - applicabile anche in materia di separazione personale, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 454 del 1989 - non consente di estendere all’istituto in discorso la disciplina relativa alle locazioni”.

La pronuncia delle sezioni unite del 2002 è frutto di una articolata ricostruzione dell’istituto, della valutazione della portata delle modifiche legislative intervenute (art. 6 comma 6 della legge sul divorzio) e della logica che ha ispirato gli interventi del legislatore e della Corte Costituzionale (sent. 454/84). La Corte ha evidenziato che la opponibilità al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 cod. civ. rappresenta uno strumento di tutela dell'assegnatario nelle ipotesi di alienazione a terzi dell'immobile da parte dell'altro coniuge proprietario. Il quadro complessivo di riferimento – analiticamente ripercorso nella motivazione della pronuncia - conduce a ravvisare nel richiamo all'art. 1599 c.c. contenuto nella norma dell’art. 6 della legge sul divorzio, “la precisa volontà del legislatore di assimilare ai meri fini della trascrizione il diritto dell'assegnatario a quello del conduttore, così attribuendo all'istituto un quoziente di opponibilità ai terzi, anche a prescindere dalla trascrizione: peraltro la limitazione di detta assimilazione al solo piano degli effetti nel confronti dei terzi vale a rendere non rilevanti al fini in discorso le insopprimibili differenze - che appaiono particolarmente valorizzate nella sentenza n. 4529 del 1999 - in ordine alla natura, alla funzione ed alla durata tra assegnazione e locazione. Ciò vale a dire che il legislatore della riforma, operando un bilanciamento, secondo valori etici e criteri socio economici, tra l'interesse del gruppo familiare residuo, e specificamente dei figli minorenni o anche maggiorenni tuttora non autosufficienti, a conservare l'habitat domestico, e quello di natura patrimoniale di tutela dell'affidamento del terzo, oltre quello più generale ad una rapida e sicura circolazione dei beni, ha ravvisato come elemento di composizione tra le diverse istanze in conflitto la limitazione nel tempo, in difetto di trascrizione, dell'opponibilità ai terzi del provvedimento di assegnazione. In particolare, l'esigenza di assicurare l'effettività del godimento

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dell'assegnatario, dando attuazione concreta ad una pronunzia diretta ad incidere - secondo le argomentazioni innanzi svolte - non solo o non tanto sul bene attribuito, ma sulla qualità della vita e sulla serenità dei soggetti deboli del nucleo familiare in crisi, ha chiaramente indirizzato la scelta legislativa ad una tutela avanzata della posizione di detti soggetti rispetto alle contrapposte esigenze innanzi richiamate, accordando al coniuge assegnatario un titolo legittimante comunque opponibile al terzo successivo acquirente, senza soluzione di continuità dal momento dell'emissione del provvedimento, così da porlo al riparo da iniziative dell'altro coniuge proprietario idonee a frustrare anche immediatamente la statuizione del giudice.”

Il principio è stato riaffermato dalle successive sentenze n. 12296 del 2005, n.9181 e n. 18574 del 2004 e dalla sentenza n. 4719 del 3 marzo 2006 che , in particolare, ha statuito che il provvedimento opponibile, nei suddetti termini, al terzo acquirente dell'immobile non è soltanto la sentenza che definisce il giudizio di separazione o di divorzio, ma anche quello provvisorio (anch'esso comunque trascrivibile), pronunziato dal presidente del tribunale ai sensi dell'articolo 708 c.p.c. e L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 8, e successive modifiche. Ove, infatti, si escludesse il provvedimento , la scelta legislativa sarebbe facilmente eludibile se il provvedimento presidenziale provvisorio di assegnazione della casa coniugale non fosse opponibile e trascrivibile.

Ciò premesso, se è indubbia la rilevanza del vincolo nel rapporto verso i terzi, si pone il problema se il provvedimento di assegnazione, e dunque la riduzione di valore del bene stesso, rilevi nella ipotesi in cui uno dei coniugi avanzi domanda di assegnazione per intero nella propria quota nell’ambito del giudizio di divisione. Mentre con la decisione n. 11630 del 17 settembre 2001 la Corte lo ritenne irrilevante, con la conseguenza che l’assegnazione avrebbe dovuto essere disposta considerando il bene come libero ai fini della sua valutazione economica, con la più recente sentenza del 15 ottobre 2004 n. 20319, la Corte ha mutato indirizzo concludendo nel senso che il vincolo implica sempre e comunque una decurtazione del valore del bene, e ciò ancorché l’attribuzione del bene vada in favore del coniuge assegnatario. Osserva la Corte, in particolare, che “L'assegnazione della casa familiare a uno dei coniugi, al quale l'immobile non appartiene in via esclusiva, instaura un vincolo (opponibile anche ai terzi comunque per nove anni e senza limite di tempo in caso di trascrizione: cfr., tra le altre, Cass. 2 aprile 2003 n. 5067) che oggettivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l'altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi eventuali aventi causa, fino a quando il provvedimento non venga in ipotesi modificato. È dunque

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giuridicamente corretto, in sede di divisione, tenere conto di tale decurtazione, come si è fatto con la sentenza impugnata, indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all'uno o all'altro coniuge (o posto in vendita, nel caso di non frazionabilità in natura del patrimonio comune)”.

L'entità della riduzione è una questione di merito rimessa al Giudice.

Considerato quanto sopra si è detto in relazione al legame tra assegnazione della casa coniugale e affidamento dei figli, tenuto conto della attuale situazione socio-economica che, ottimisticamente, fa presumere, al compimento del 30°, il passaggio dalla dipendenza totale dai genitori all’autosufficienza, il “fattore di correzione “ del valore del bene potrà essere individuato tenuto conto della età dei figli affidati, e di altre eventuali situazioni specifiche di fatto che le parti avranno cura di allegare. Quindi, calcolato il valore del diritto di abitazione in relazione all’età del titolare del diritto di godimento (sulla base delle tabelle per l’usufrutto ) lo si ridurrà, in proporzione al numero di anni necessari al raggiungimento dei 30 anni da parte dei figli.

§ 3.4 — BENI NON COMODAMENTE DIVISIBILI — RICHIESTA DI ASSEGNAZIONE — PLURALITA’

Sono numerose le pronunce della Corte sul concetto di comoda divisibilità e sulle soluzioni divisorie che, in ordine prioritario, il codice indica in caso di accertata indivisibilità. E’ parimenti fermo il principio per cui il problema della indivisibilità si pone solo allorquando oggetto della comunione siano un solo immobile indivisibile ovvero immobili in numero tale da non poter soddisfare tutti i condividenti. Quando la massa dividenda è costituita, invece, da beni sufficienti a garantire la formazione di tante porzioni quanti sono i condividenti, senza la necessità di procedere a conguagli eccessivi che sostanzialmente alterino la composizione dei lotti, nessuna rilevanza assume il problema della materiale divisibilità dei singoli beni (Cass. 217/66; Cass. 7700/94)

E’ frequente il caso in cui il Giudice deve decidere a quale dei condividenti assegnare il bene ai sensi dell’art. 720 cod. civ. in presenza di una pluralità di richieste.

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Innanzitutto, va precisato che la richiesta di attribuzione può essere fatta dal procuratore in quanto non si tratta di un atto di disposizione del diritto, ma una mera modalità di realizzazione della divisione e, processualmente, una specificazione della domanda che, come tale non richiede uno specifico mandato, inerendo al petitum sostanziale del giudizio divisorio ed essendo rivolta a porre fine allo stato di comunione (Cass 2630/90).

In relazione ai criteri che la norma dell’art. 720 cod.civ. indica all’interprete, sfogliando i repertori della giurisprudenza, si trae il convincimento che si è andato affermando, in tempi più recenti, un indirizzo che riconosce al giudice il potere di discostarsi dal criterio legale della quota di maggior valore, purché dia conto, con esauriente motivazione, delle ragioni della scelta e dell’apprezzamento che egli ha fatto della singola questione sottoposta al suo esame.

Ed invero, mentre in epoca più risalente, la Corte ha ritenuto possibile la deroga al criterio legale preferenziale solo in presenza di “seri e gravi motivi attinenti all’interesse delle parti”, di recente appare prevalente l’indirizzo contrario compiutamente illustrato nella sentenza Cass. 13 maggio 2010 n.11641: “Nell'esercizio del potere di attribuzione dell'immobile ritenuto non comodamente divisibile, il giudice non trova alcun limite nelle disposizioni dettate dall'art. 720 cod. civ., da cui gli deriva, al contrario, un potere prettamente discrezionale nella scelta del condividente cui assegnarlo, potere che trova il suo temperamento esclusivamente nell'obbligo di indicare i motivi in base ai quali ha ritenuto di dover dare la preferenza all'uno piuttosto che all'altro degli aspiranti all'assegnazione (così esaminando i contrapposti interessi dei condividenti in proposito), e si risolve in un tipico apprezzamento di fatto, sottratto come tale al sindacato di legittimità, a condizione che sia adeguatamente e logicamente motivato”.

Dai motivi attinenti all’interesse delle parti – peraltro di difficile individuazione, attesa la sussistenza di un evidente contrasto di interessi dettato dalle confliggenti richieste di assegnazione – l’attenzione si è spostata sui “contrapposti interessi”. Con la sentenza n. 24053 del 2008, ad esempio, la Corte ha confermato la pronuncia del giudice di secondo grado che aveva assunto come criterio discriminante quello dell'interesse personale prevalente di un condividente, privo di un'unità immobiliare da destinare a casa familiare, rispetto al titolare della quota maggiore che disponeva di altra abitazione. Con la successiva n.22857 del 2009 , la Corte ha confermato la sentenza di merito che - in un giudizio di divisione tra fratelli relativo ad un immobile proveniente dall'eredità paterna - aveva assegnato il bene alla sorella titolare di una quota minore, valorizzando il

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fatto che ella abitava nell'immobile da svariati anni e che non ne possedeva un altro nello stesso luogo, mentre i fratelli vivevano all'estero e uno di loro era proprietario di un altro immobile di sette vani nel medesimo paese.

Ma forse il caso più frequente, e che richiede maggiore attenzione, è quello del conflitto tra richieste di condividenti per quote di pari valore. In questa ipotesi, è il giudice che deve effettuare la scelta, senza poter fare affidamento su alcun criterio legale di riferimento, libero di far ricorso anche a criteri extragiuridici da richiamare ed illustrare nella motivazione.

Sul punto, deve osservarsi che in base all’art. 720 cod.civ., la vendita rappresenta l’extrema ratio del processo divisorio ed è quindi esclusa la possibilità di superare il conflitto tra più condividenti con la vendita del bene all'asta ( Cass. 5679/04).

In assenza di specifiche allegazioni delle parti - che possono rappresentare particolari esigenze di vita o professionali, od anche morali, come pure le loro differenti condizioni patrimoniali - può essere “prudente” il ricorso ad un criterio obiettivo come quello della priorità temporale della richiesta, unito ad una valutazione complessiva del comportamento tenuto dalle parti nel corso del procedimento.

In queste ipotesi, sussistendo contrasto fra le parti, l’assegnazione potrà avvenire solo con la sentenza.

Laddove, invece, non vi siano contestazioni in ordine al diritto alla divisione, sulle quote e sulla indivisibilità del bene, nonché sulla richiesta di assegnazione avanzata da uno dei condividenti, il Giudice può procedere con ordinanza ai sensi dell’art. 785 cpc.

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§ 4 — VENDITA DEI BENI –DESTINAZIONE DEL RICAVATO

La vendita può essere disposta con ordinanza, se non sorgono questioni sul diritto alla divisione, sull’entità delle quote e sulla indivisibilità del bene, oppure, in caso di contestazioni, con sentenza.

Sulle modalità della vendita, gli artt. 787 e 788 c.p.c. effettuano un rinvio generalizzato alle norme in tema di espropriazione forzata.

Una volta disposta ed eseguita la vendita, il ricavato deve essere distribuito tra i vari condividenti.

Nell’ipotesi in cui la distribuzione dei beni avvenga, in parte, attraverso l’assegnazione per intero ad uno o più condividenti e, in parte, attraverso la vendita, l’attribuzione in natura deve avvenire unitamente alla ripartizione del prezzo derivante dalla vendita dell’altro immobile. L’attribuzione del bene indivisibile si realizza, infatti, nel momento finale del giudizio di divisione, quando il giudice provvede a distribuire l’intera sostanza nelle varie porzioni. Solo dopo la vendita si può stabilire qual è il valore delle singole quote, rapportate sull’intera massa, e, di conseguenza, quale l’eventuale eccedenza che gli assegnatari devono versare agli altri condividenti.

In presenza di pignoramento di una quota indivisa, la somma spettante dalla ripartizione del ricavato non potrà essere attribuita direttamente ai creditori intervenuti, come spesso è da questi ultimi richiesto intervenendo nel giudizio (in quanto dovranno essere rispettate le regole della distribuzione nell’ambito della procedura esecutiva) né al condividente esecutato. Il danaro andrà depositato su un libretto bancario vincolato all’ordine del giudice dell’esecuzione.

Nell’ipotesi di bene gravato da ipoteca, ove lo stesso venga assegnato a condividente diverso dal debitore, la garanzia si sposterà sul conguaglio in danaro (art. 2825 quarto comma cod. civ.) ed è opportuno, anche in questo caso, che si attuino le dovute cautele (ad esempio, deposito del conguaglio su un libretto bancario a cura dell’assegnatario).

In ogni caso, sia che l’immobile venga assegnato ad altro condividente sia che venga venduto a terzi, il bene deve essere libero da pesi e quindi va ordinata la cancellazione dell’ipoteca (poiché per il principio della

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retroattività della divisione viene meno il potere del condividente di concedere l’ipoteca).

Diversamente, in caso di ipoteca iscritta nei confronti di tutti i condividenti, se il bene deve essere venduto, va necessariamente chiamato in giudizio il creditore ipotecario. In questa ipotesi se i condividenti non ritengano di pagare il debito per cancellare l’iscrizione ipotecaria, il bene dovrà essere posto in vendita gravato da ipoteca.

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§ 5 — SORTEGGIO DEI LOTTI

Non è frequente che si giunga al sorteggio dei lotti. Più frequente è infatti l’impugnazione della sentenza che ha deciso le questioni preliminari controverse e che contiene il progetto divisionale, predisposto dal c.t.u. e fatto proprio dal tribunale, ovvero da questo riformulato sulla base di fondate contestazioni delle parti.

L’art. 729 cod. civ. stabilisce che l’assegnazione delle porzioni eguali (la porzione è la quota ideale tradotta in quota reale) è fatta mediante sorteggio. Al sorteggio però può procedersi solo quando la sentenza che ha pronunciato lo scioglimento della comunione e stabilito i lotti è passata in giudicato (art. 791 cpc). Non devono sussistere, fra le parti, questioni controverse la cui decisione possa influire sul contenuto delle porzioni: l’effettiva attribuzione delle porzioni, tramite il sorteggio e il successivo decreto di assegnazione, realizza, infatti, la finalità del procedimento divisorio.

Può essere utile indicare, nella motivazione della sentenza, la possibilità, per le parti, di depositare istanza congiunta di fissazione dell’udienza per le operazioni di sorteggio, in caso di acquiescenza alla sentenza.

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§ 6 — SENTENZE NON DEFINITIVE O DEFINITIVE

Il giudizio di divisione può dirsi esaurito o con l’ordinanza con la quale, in mancanza di contestazioni delle parti, si dichiara esecutivo il progetto divisionale, ovvero, in caso di disaccordo, con il compimento delle operazioni tutte di divisione, che si esauriscono o con l’assegnazione delle porzioni fra i compartecipi ovvero con la sentenza di approvazione di un progetto in cui sono indicate porzioni eguali, cui deve seguire, al passaggio in giudicato della sentenza stessa, il sorteggio dei lotti (Cass. 4080/86 ; Cass. 3788/94).

Prima di raggiungere lo scopo (l’accertamento del diritto di ciascun condividente ad una quota ideale e la sua trasformazione in un diritto di proprietà esclusiva su una corrispondente porzione di beni) nel processo devono essere decise le questioni controverse che si pongono con carattere di pregiudizialità rispetto alla divisione (qualità di erede nella divisione ereditaria, qualità di compartecipe nella comunione ordinaria, entità delle quote, usucapione del bene comune, eccezioni sollevate con riferimento alle ipotesi previste dagli artt. 713, 714 e 1111 e 1112) o che riguardano la vendita dei beni ; parimenti vanno decise, e anch’esse con sentenza, le ulteriori questioni che vengono introdotte nel giudizio di divisione pur essendo da questa distinte (impugnazione testamento, riduzione della quota riservata, resa del conto).

Le pronunce sulle questioni preliminari con sentenza producono, inevitabilmente, un allungamento dei tempi del processo, ma devono ritenersi un passaggio obbligato del percorso processuale, perché consentono al giudice di disporre solo e soltanto quegli accertamenti di carattere tecnico indispensabili ai fini del decidere e di evitare di gravare le parti di ulteriori oneri per indagini che potrebbero rivelarsi del tutto inutili.

Tutte le sentenze che risolvono questioni incidentali nel corso del giudizio sono non definitive, è definitiva solo la sentenza che produce l’effetto di assegnare le porzioni di tutti i beni del compendio così realizzando lo scopo del giudizio divisorio (Cass.n. 11293 del 10 novembre 1998; Cass. 7 marzo 2007 n.5203: Nel giudizio di divisione ereditaria, costituisce sentenza definitiva soltanto quella che scioglie la comunione rispetto a tutti i beni che ne facevano parte, mentre le eventuali

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sentenze che concludono le singole fase del procedimento hanno carattere strumentale e natura di sentenza non definitiva e sono, come tali, suscettibili di riserva di gravame ai sensi dell’art. 340 cod. proc. civ.”

La granitica posizione della Corte , sul punto, risale al 6 agosto 1945 (sentenza n.705). La dottrina ha variamente criticato l’orientamento giurisprudenziale, ma la Corte ha sempre resistito alle critiche rimarcando il profilo della unitarietà del processo che, pur caratterizzato da una pluralità di fasi, è tuttavia volto al raggiungimento di un unico risultato, ossia l’accertamento del diritto di ciascun condividente ad una quota ideale dell'asse ereditario e la sua trasformazione in un diritto di proprietà esclusiva su una corrispondente porzione di beni. Pertanto, finché tali scopi non siano stati integralmente raggiunti, le eventuali sentenze che concludono le singole fasi hanno carattere solo strumentale e non possono considerarsi definitive rispetto al giudizio nel suo complesso (Cfr. Cass., 6 luglio 1977 n. 2983).

La sentenza che, dopo aver deciso ogni questione in ordine al diritto e alle modalità della divisione, rimette ad una fase successiva le operazioni di sorteggio delle quote, non realizzando, quindi, direttamente la concreta attribuzione dei beni ai singoli condividenti è invece definitiva. In questo caso, infatti, non sono ipotizzabili, secondo lo schema normativo del procedimento divisionale, ulteriori momenti del processo che possano determinare l’insorgere tra le parti di questioni di merito diverse da quelle risolte dalla sentenza. Osserva la Corte ( sentenza n. 7129/2001. ): “La principale finalità cui deve rispondere il giudizio divisorio è che, procedendosi allo scioglimento della comunione, sia assicurata la formazione di porzioni di valore attuale corrispondente alle quote di partecipazione, esigenza cui si provvede facendo precedere la formazione delle porzioni - che possono avere ad oggetto parti del bene comune, ma anche somme di denaro, pur se non comprese nella massa dividenda come nell'ipotesi del conguaglio - dalla stima dei beni e, se questa risulti effettuata in epoca di troppo antecedente alla decisione, facendo eseguire una nuova stima del bene in relazione al suo attuale effettivo prezzo di mercato. Peraltro, una volta che a tale adempimento siasi proceduto in sede istruttoria e, quindi, siasi provveduto a dichiarare con la sentenza, anche implicitamente, l'intervenuto scioglimento della comunione ed a determinare le porzioni da assegnare a ciascuno dei condividenti in proporzione alle rispettive quote di partecipazione, eventualmente disponendo altresì per il successivo sorteggio ove a tale modalità debba farsi ricorso in sede attuativa ex art. 729 CC, con il passaggio in giudicato di tale sentenza il detto risultato è conseguito e, come più non sussiste la comunione dei beni ma solo sussistono ormai le porzioni formate con i beni che ne costituivano l'oggetto, in tal guisa determinate, così queste sono insuscettibili di modifica in ragione di

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circostanze di fatto sopravvenute, in quanto la divisione ha avuto luogo, si è esaurita, e la composizione delle porzioni rimane cristallizzata al momento in cui la sentenza che l'ha stabilita diviene incontrovertibile ed i suoi effetti immutabili”.

Peraltro, dalla lettura dell’art. 791 cpc si evince che la procedura di estrazione a sorte dei lotti si pone al di fuori del processo divisionale, in quanto presuppone un provvedimento inoppugnabile o un giudicato.

E’ invece non definitiva la sentenza che, accertato il diritto allo scioglimento della comunione ed accertata la indivisibilità dell’immobile, ne dispone la vendita. In questa ipotesi, infatti, lo scopo del giudizio non è affatto realizzato, dovendosi tener conto, tra l’altro, del fatto che, fino alla emissione del decreto di trasferimento all’acquirente, il condividente potrebbe fare richiesta di assegnazione del bene per intero nella propria quota ai sensi dell’art. 720 cod. civ.

Dopo la pronuncia non definitiva il processo prosegue per effetto dell’esecutività immediata dell’ ordinanza contenente le disposizioni per l’ulteriore prosieguo del giudizio.

Il contenuto della sentenza non definitiva può essere modificato solo dalla sentenza di appello, ma non dalla sentenza definitiva che chiude il giudizio.

In caso di impugnazione immediata e di accoglimento dell’appello avverso una sentenza che abbia riconosciuto il diritto alla divisione, tutti gli atti e i provvedimenti dipendenti dalla sentenza riformata – compresa l’eventuale approvazione del progetto divisionale per mancanza di contestazione —(giacché le contestazioni sul diritto alla divisione non sono d’ostacolo al passaggio alla successiva fase di formazione delle quote — Cass. 3636/07) sono travolti.

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§ 7 — INCIDENTI CAUTELARI NEL PROCESSO DIVISORIO

Non è infrequente il ricorso d‘urgenza ex art. 700 cpc per chiedere l’immissione nel possesso esclusivo di un determinato bene facente parte della comunione. Merita di essere segnalata, sul punto, l’ordinanza del Tribunale di Roma del 25 febbraio 2003 (est. Tedesco) che ha rigettato il ricorso evidenziando che il condividente, che pure ha diritto ad una quota in natura, “non può considerarsi titolare di un diritto predeterminato avente ad oggetto l’assegnazione dell’uno o dell’altro dei beni compresi nella comunione o l’attribuzione di una somma di danaro” e quando chiede la divisione “…può aspirare solo ad un risultato generico consistente nel conseguimento di una quantità di ricchezza, in natura o per equivalente, pari al valore della sua quota”.

Va parimenti respinto il ricorso ex art. 1105 cod.civ., che va proposto con le forme del rito camerale, come espressamente indicato dalla norma.

Ampia e consolidata giurisprudenza di legittimità ha affermato l’ammissibilità del sequestro giudiziario nel corso del giudizio divisorio (Cass. n. 13546 del 21 dicembre 1992 ).

Il ricorso alla misura cautelare è più frequente nei casi in cui la domanda di scioglimento della comunione è subordinata all’accoglimento di altre domande. Sussiste una situazione controversa dalla cui decisione ” può scaturire una statuizione di condanna alla restituzione o al rilascio…di cosa a qualsiasi titolo pervenuta nella disponibilità di altri”, ad esempio nel caso di riduzione della donazione richiesta da un legittimario leso , ovvero in caso di azione diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità di una disposizione testamentaria, il cui accoglimento comporti la condanna del detentore alla restituzione dell'immobile oggetto della disposizione medesima (Cass. 19 ottobre 1993 n.10333, vedi pure Cass. 11 settembre 1989 n. 3923).

In ipotesi di sussistenza dell’ulteriore elemento richiesto dalla norma dell’art. 670 cpc, ovvero la necessità di amministrazione dei beni e di conservazione dei frutti che i beni stessi sono potenzialmente in grado di assicurare , non rileva l’eventuale trascrizione della domanda, in quanto la misura cautelare è volta al conseguimento di provvedimenti, relativi

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alla custodia e alla gestione del bene, non garantiti dalla trascrizione”( Cassazione civile sez. II, 28 aprile 1994, n. 4039).