Intervista a Stefano Vaccara, direttore di Oggi7 “L’Italia ... · tutta colpa dei media” ......

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il Ducato 4 “L’Italia non funziona tutta colpa dei media” Intervista a Stefano Vaccara, direttore di Oggi7 S ono nato nell’ottobre del 1964 a Mazara del Vallo, so- no cresciuto a Palermo, ho studiato a Siena (Laurea in Sto- ria Contemporanea). Come è stato il percorso dall’I- talia all’America, dalla vita per- sonale a quella professionale? Per la mia tesi di laurea sui di- plomatici americani e l’Unione Sovietica degli anni ‘30 ero ve- nuto a studiare un semestre ne- gli Usa, in Massachusetts: l’Uni- versità di Siena e UMASS Am- herst avevano allòra un exchan- ge program. Poi, dopo la laurea, mi sono sposato, mia moglie è americana, e sono stato accetta- to per un Master negli USA, alla Boston University (MA Interna- tional Relations, ‘93). Mentre ero a Boston per studia- re, ho cominciato a collaborare con dei giornali italiani, tra i quali Il Giornale ancora diretto da Indro Montanelli. Il mio pri- mo articolo, una intervista con uno dei miei professori che era anche stato uno dei protagonisti americani della pace di Camp David, lo pubblicai alla vigilia delle elezioni israeliane del ‘92 (quelle vinte da Rabin) e per due anni feci altri articoli e interviste riguardanti la politica interna- zionale. Dopo la laurea, non volevo far più il diplomatico o simili, ma il giornalista. Mi resi conto però che trovare lavoro nei giornali italiani era un’impresa quasi im- possibile: bisognava tornare in Italia e fare i cosiddetti pratican- tati (se avevi le conoscenze giu- ste) e sinceramente, dopo aver scritto per due anni, non me la sentivo di entrare negli umilian- ti bizantinismi - con spruzzati- na d’ordine di mussoliniana memoria - delle regole italiane per guadagnarmi l’accesso ad una professione che, tutto il mondo libero lo sa bene, do- vrebbe essere invece assoluta- mente garantita a tutti coloro che riescono a farsi assumere da un giornale o almeno a pubbli- care gli articoli. Così ho trovato America Oggi. Che mi ha assun- to subito dopo un breve periodo di prova. Ci lavoro dal ‘94 e sono da qualche anno l’executive edi- tor del settimanale domenicale Oggi7 e anche un columnist. La mia rubrica, dal 1996 al 2006 si chiamava “Visti da lontano”. Poi ha cambiato nome con “Visti da New York”. Intanto, dal 1997, in- segno anche lingua e cultura ita- liana alla New School Univer- sity. In un editoriale di Oggi7,intito- lato “Italia,così fai proprio schi- fo”,hai scritto che l’Italia attua- le gli italiani non se la meritano e che l’informazione invece di azzannare, continua a leccare. Cosa non va in Italia per uno che la segue da fuori? Politica? Dis- informazione? Non era un “editoriale” (che di solito rappresenta, almeno nei giornali americani, l’opinione della proprietà del giornale) ma appunto un titolo dato a un mio “Visti da New York”, la ru- brica che pubblico ogni domenica su America Og- gi/Oggi7. In Italia ci sono tante cose che non vanno, nella politica (e certi males- seri si cono- scevano già, anche prima del bel libro La Casta), ma anche in altri set- tori, come l’economia, o la giu- stizia, e sicuramente molti di questi problemi sono da adde- bitare anche (o forse soprattut- to?) alla responsabilità dei me- dia italiani, alla loro “latitanza” nei confronti della corretta fun- zione che dovrebbero avere in democrazia. L’informazione in Italia non fa da “cane da guar- dia”, non avverte i cittadini delle varie porcherie che accadano in qualunque paese e che ovun- que, al momento di essere sco- perchiate dall’informazione, portano a delle conseguenze abbastanza forti. In Italia non succede nulla o troppo poco an- che quando sulla stampa si ven- gono a sapere certi “scandali”. Il motivo è semplice: la nostra per lo più è una informazione al servizio del padrone (il proprietario del mezzo di informazione italiano di so- lito ha altri in- teressi e in ben altri busi- ness, gli inte- ressa poco quindi la fun- zione civica del giornale, non lo ha cer- to comprato magari rimettendoci soldi per fungere da “quarto potere” ma solo per proteggere il suo pote- re) e/o militante, nel senso che l’obiettivo principale non è quello di informare ma di sele- zionare solo quella informazio- ne che porta danni all’avversa fazione politica (attenzione, non si parla qui di giornali di partito, ma anche dei giornale d’opinione che sono “militanti”, anche se magari possono spesso cambiare il partito cui mettere al servizio le sue pagine) e vantag- gi alla propria. Disinformazio- ne? Diciamo propaganda, quel- la moderna fu inventata proprio in Italia dal Fascismo (il suo ca- po era dopotutto un giornalista) e oggi è solo un po’ più raffinata rispetto a quella del Ventennio. Con la differenza che invece di esserci una sola voce come ai tempi del Fascismo, c’è il cosid- detto “pluralismo”, che in codice significa tutto il contrario di una informazione il più obiettiva possibile (l’obbiettività assolu- ta ovviamente non esiste, però un atteggiamento etico di ri- spetto nei confronti della noti- zia e di chi la legge e quindi una tenden- za ad avvicinarsi il più possibile do- vrebbe pur esserci) ma solo fatta di tan- te voci militanti scatenate l’una contro l’altra e dove il cittadino dovreb- be orientarsi e capi- re riuscendo a fare una sintesi. Ovvia- mente una infor- mazione del genere resta utile solo agli addetti ai lavori che così conoscono sempre le pro- prie posizioni “ufficiali” e quelle del “nemico” politico, ma resta una informazione discreditata e inutile per la stragrande mag- gioranza dei cittadini che infatti fanno bene a tenersi alla larga da questo tipo di informazione “pluralista”. Manca il senso etico della professione giornalistica ma questo, secondo me, non è colpa dei proprietari dei mezzi di informazioni (Berlusconi e non solo lui fanno i loro interes- si) ma dei giornalisti stessi, che non si ribellano, che non fanno valere i loro diritti (qui salva- guardati dalla Costituzione), che fanno gli scioperi solo quan- do è una questione di soldi... Il giornalismo italiano e quello americano.Partecipando a una serie di conferenze e occupandotene in primis, ti sei fat- to un’idea del diva- rio, dei diversi ap- procci,dei criteri di notiziabilità? Principalmente nel “mainstream” della stampa americana, anche se un giorna- le può essere di ten- denza liberal o con- servatrice, ci sono delle serie regole e condizioni impre- scindibili, dove la notizia non può essere violentata a piaci- mento per giovare alla parte po- litica per la quale si ha più sim- patia. Quando accade in manie- ra plateale, il giornalista colpe- vole viene licenziato in tronco. Nel giornalismo americano questa è una regola ferrea: chi viene scoperto a “barare”, paga. Ma i militanti hanno altri gior- nali in America per scrivere e mettere in mostra le proprie do- ti, c'è il cosiddetto “advocacy journalism”... Per lo più sono ri- viste, che certamente svolgono una funzione legittima e impor- tante. Ma non sono il giornali- smo che distingue le notizie dal- le opinioni e che serve al buon funzionamento della democra- In alto, Stefano Vaccara Ai due lati, una pagina interna del quotidiano America Oggi e la copertina del magazine domenicale zia informando il cittadino di tutto quello che deve sapere, e non solo di quello che giova al- la propria parte o fa danni a chi “non sta con noi”. Poi, importante: nei giornali americani, prendiamo il New York Times (ma anche il Was- hington Post, LA Times, ecc) la pagina degli editoriali non vie- ne curata e scritta dalla reda- zione, anzi sono spesso “fisica- mente” in piani separati. La pagina delle “columns”, o dei cosiddetti pezzi “opinion”, a differenza di quelli italiani, ospita columnisti di tutte le tendenze, quindi lo stesso giorno ci sarà un commento contro Bush e un altro a favore e così via, e poi spesso si pub- blicano opinioni completa- mente all’opposto di quelle che magari sono le opinioni scritte nella pagina accanto degli editoriali (curate da uno staff di giornalisti, di solito ex columnist, che vengono as- sunti e ben pagati dalla pro- prietà per rispecchiare in que- sti editoriali la loro visione del- le cose. Dopo qualche anno, magari dall’editorial Board, tornano alle loro funzioni di columnist indipendenti). Come giudicano gli italoame- ricani il fenomeno Beppe Grillo? Sono d’accordo con il NYTimes,“E’un comico che di- ce come stanno le cose in Ita- lia”? Gli italoamericani penso sap- piano su Beppe Grillo quello che il NYT ha scritto, quindi l'essenziale, che magari certe volte esagerando (ma fa parte del suo mestiere di comico) Grillo dica molto meglio e più della stampa ufficiale come stiano le cose in Italia. Devo dire che Grillo, secondo me, fa una profonda analisi del- le colpe del giornalismo italia- no, che infatti condivido. Per esempio, nel lungo profilo che un altro importante settimana- le, il New Yorker, ha tracciato re- centemente su Beppe Grillo, si approfondisce l’argomento delle colpe dei media italiani. Gli italoamericani che comun- que fossero più interessati a co- noscere l’Italia attraverso il fe- nomeno mediatico Grillo, lo possono fare direttamente leg- gendolo ogni giorno, dato che il comico-opinionista genovese conosce bene le potenzialità globali della rete e infatti ha una versione in inglese del suo blog... Sempre in riferimento agli ita- liani a New York,hai avuto mo- do di sondare certe preferenze nel le primarie Usa? Cosa intendi per italiani a New I giovani italiani si rifugiano in altri Paesi per non dover sottostare alla “casta” Little Italy è soltanto un posto per turisti con locali circondati da Chinatown

Transcript of Intervista a Stefano Vaccara, direttore di Oggi7 “L’Italia ... · tutta colpa dei media” ......

il Ducato

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“L’Italia non funzionatutta colpa dei media”

Intervista a Stefano Vaccara, direttore di Oggi7

Sono nato nell’ottobre del1964 a Mazara del Vallo, so-no cresciuto a Palermo, ho

studiato a Siena (Laurea in Sto-ria Contemporanea). Come è stato il percorso dall’I-talia all’America,dalla vita per-sonale a quella professionale?Per la mia tesi di laurea sui di-plomatici americani e l’UnioneSovietica degli anni ‘30 ero ve-nuto a studiare un semestre ne-gli Usa, in Massachusetts: l’Uni-versità di Siena e UMASS Am-herst avevano allòra un exchan-ge program. Poi, dopo la laurea,mi sono sposato, mia moglie èamericana, e sono stato accetta-to per un Master negli USA, allaBoston University (MA Interna-tional Relations, ‘93).Mentre ero a Boston per studia-re, ho cominciato a collaborarecon dei giornali italiani, tra iquali Il Giornale ancora direttoda Indro Montanelli. Il mio pri-mo articolo, una intervista conuno dei miei professori che eraanche stato uno dei protagonistiamericani della pace di CampDavid, lo pubblicai alla vigiliadelle elezioni israeliane del ‘92(quelle vinte da Rabin) e per dueanni feci altri articoli e intervisteriguardanti la politica interna-zionale.Dopo la laurea, non volevo farpiù il diplomatico o simili, ma ilgiornalista. Mi resi conto peròche trovare lavoro nei giornaliitaliani era un’impresa quasi im-possibile: bisognava tornare inItalia e fare i cosiddetti pratican-tati (se avevi le conoscenze giu-ste) e sinceramente, dopo averscritto per due anni, non me lasentivo di entrare negli umilian-ti bizantinismi - con spruzzati-na d’ordine di mussolinianamemoria - delle regole italianeper guadagnarmi l’accesso aduna professione che, tutto ilmondo libero lo sa bene, do-vrebbe essere invece assoluta-mente garantita a tutti coloroche riescono a farsi assumere daun giornale o almeno a pubbli-care gli articoli. Così ho trovatoAmerica Oggi. Che mi ha assun-to subito dopo un breve periododi prova. Ci lavoro dal ‘94 e sonoda qualche anno l’executive edi-tor del settimanale domenicaleOggi7 e anche un columnist. Lamia rubrica, dal 1996 al 2006 sichiamava “Visti da lontano”. Poiha cambiato nome con “Visti daNew York”. Intanto, dal 1997, in-segno anche lingua e cultura ita-liana alla New School Univer-sity.In un editoriale di Oggi7,intito-lato “Italia,così fai proprio schi-fo”,hai scritto che l’Italia attua-

le gli italiani non se la meritanoe che l’informazione invece diazzannare, continua a leccare.Cosa non va in Italia per uno chela segue da fuori? Politica? Dis-informazione?Non era un “editoriale” (che disolito rappresenta, almeno neigiornali americani, l’opinionedella proprietà del giornale) maappunto un titolo dato a un mio“Visti da NewYork”, la ru-br ica chepubblico ognidomenica suAmerica Og-gi/Oggi7. InItalia ci sonotante cose chenon vanno,nella politica(e certi males-seri si cono-scevano già,anche primadel bel libroLa Casta), ma anche in altri set-tori, come l’economia, o la giu-stizia, e sicuramente molti diquesti problemi sono da adde-bitare anche (o forse soprattut-to?) alla responsabilità dei me-dia italiani, alla loro “latitanza”nei confronti della corretta fun-zione che dovrebbero avere indemocrazia. L’informazione inItalia non fa da “cane da guar-dia”, non avverte i cittadini dellevarie porcherie che accadano inqualunque paese e che ovun-que, al momento di essere sco-perchiate dall’informazione,portano a delle conseguenzeabbastanza forti. In Italia nonsuccede nulla o troppo poco an-che quando sulla stampa si ven-gono a sapere certi “scandali”.Il motivo è semplice: la nostraper lo più è una informazione alservizio delpadrone (ilproprietariodel mezzo diinformazioneitaliano di so-lito ha altri in-teressi e inben altri busi-ness, gli inte-ressa pocoquindi la fun-zione civicadel giornale,non lo ha cer-to compratomagari rimettendoci soldi perfungere da “quarto potere” masolo per proteggere il suo pote-re) e/o militante, nel senso chel’obiettivo principale non èquello di informare ma di sele-zionare solo quella informazio-ne che porta danni all’avversafazione politica (attenzione,non si parla qui di giornali dipartito, ma anche dei giornaled’opinione che sono “militanti”,anche se magari possono spessocambiare il partito cui mettere alservizio le sue pagine) e vantag-gi alla propria. Disinformazio-ne? Diciamo propaganda, quel-la moderna fu inventata proprioin Italia dal Fascismo (il suo ca-po era dopotutto un giornalista)e oggi è solo un po’ più raffinata

rispetto a quella del Ventennio.Con la differenza che invece diesserci una sola voce come aitempi del Fascismo, c’è il cosid-detto “pluralismo”, che in codicesignifica tutto il contrario di unainformazione il più obiettivapossibile (l’obbiettività assolu-ta ovviamente non esiste, peròun atteggiamento etico di ri-spetto nei confronti della noti-

zia e di chi la legge equindi una tenden-za ad avvicinarsi ilpiù possibile do-vrebbe pur esserci)ma solo fatta di tan-te voci militantiscatenate l’unacontro l’altra e doveil cittadino dovreb-be orientarsi e capi-re riuscendo a fareuna sintesi. Ovvia-mente una infor-mazione del genereresta utile solo agliaddetti ai lavori che

così conoscono sempre le pro-prie posizioni “ufficiali” e quelledel “nemico” politico, ma restauna informazione discreditata einutile per la stragrande mag-gioranza dei cittadini che infattifanno bene a tenersi alla larga daquesto tipo di informazione“pluralista”. Manca il senso eticodella professione giornalisticama questo, secondo me, non ècolpa dei proprietari dei mezzidi informazioni (Berlusconi enon solo lui fanno i loro interes-si) ma dei giornalisti stessi, chenon si ribellano, che non fannovalere i loro diritti (qui salva-guardati dalla Costituzione),che fanno gli scioperi solo quan-do è una questione di soldi... Il giornalismo italiano e quelloamericano.Partecipando a una

serie di conferenzee occupandotenein primis, ti sei fat-to un’idea del diva-rio, dei diversi ap-procci,dei criteri dinotiziabilità? Principalmente nel“mainstream” dellastampa americana,anche se un giorna-le può essere di ten-denza liberal o con-servatrice, ci sonodelle serie regole econdizioni impre-

scindibili, dove la notizia nonpuò essere violentata a piaci-mento per giovare alla parte po-litica per la quale si ha più sim-patia. Quando accade in manie-ra plateale, il giornalista colpe-vole viene licenziato in tronco.Nel giornalismo americanoquesta è una regola ferrea: chiviene scoperto a “barare”, paga.Ma i militanti hanno altri gior-nali in America per scrivere emettere in mostra le proprie do-ti, c'è il cosiddetto “advocacyjournalism”... Per lo più sono ri-viste, che certamente svolgonouna funzione legittima e impor-tante. Ma non sono il giornali-smo che distingue le notizie dal-le opinioni e che serve al buonfunzionamento della democra-

In alto, Stefano VaccaraAi due lati, una paginainterna del quotidiano

America Oggi e la copertina del

magazine domenicale

zia informando il cittadino ditutto quello che deve sapere, enon solo di quello che giova al-la propria parte o fa danni a chi“non sta con noi”. Poi, importante: nei giornaliamericani, prendiamo il NewYork Times (ma anche il Was-hington Post, LA Times, ecc) lapagina degli editoriali non vie-ne curata e scritta dalla reda-zione, anzi sono spesso “fisica-mente” in piani separati. Lapagina delle “columns”, o deicosiddetti pezzi “opinion”, adifferenza di quelli italiani,ospita columnisti di tutte letendenze, quindi lo stessogiorno ci sarà un commentocontro Bush e un altro a favoree così via, e poi spesso si pub-blicano opinioni completa-mente all’opposto di quelleche magari sono le opinioniscritte nella pagina accantodegli editoriali (curate da unostaff di giornalisti, di solito excolumnist, che vengono as-sunti e ben pagati dalla pro-prietà per rispecchiare in que-sti editoriali la loro visione del-le cose. Dopo qualche anno,magari dall’editorial Board,tornano alle loro funzioni dicolumnist indipendenti). Come giudicano gli italoame-ricani il fenomeno BeppeGrillo? Sono d’accordo con il

NYTimes,“E’un comico che di-ce come stanno le cose in Ita-lia”?Gli italoamericani penso sap-piano su Beppe Grillo quelloche il NYT ha scritto, quindil'essenziale, che magari certevolte esagerando (ma fa partedel suo mestiere di comico)Grillo dica molto meglio e piùdella stampa ufficiale comestiano le cose in Italia. Devo dire che Grillo, secondome, fa una profonda analisi del-le colpe del giornalismo italia-no, che infatti condivido. Peresempio, nel lungo profilo cheun altro importante settimana-le, il New Yorker, ha tracciato re-centemente su Beppe Grillo, siapprofondisce l’argomentodelle colpe dei media italiani.Gli italoamericani che comun-que fossero più interessati a co-noscere l’Italia attraverso il fe-nomeno mediatico Grillo, lopossono fare direttamente leg-gendolo ogni giorno, dato che ilcomico-opinionista genoveseconosce bene le potenzialitàglobali della rete e infatti ha unaversione in inglese del suoblog...Sempre in riferimento agli ita-liani a New York,hai avuto mo-do di sondare certe preferenzenel le primarie Usa?Cosa intendi per italiani a New

I giovaniitaliani

si rifugianoin altri Paesiper non dover

sottostarealla “casta”

Little Italy è soltantoun postoper turisticon localicircondati

da Chinatown

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IT-ALIENI A NEW YORK

York? Cittadini italiani o gli ita-loamericani? Se intendi i cittadini italiani,quelli che sono anche cittadiniamericani e quindi possono vo-tare, ho avuto come l’impres-sione che fossero agli inizi piùper Hillary (non io però, ho da-to il mio contribuito di $ 50 allacampagna di Obama ben primadell’Iowa). Per quanto riguarda gli italoa-mericani, sono per lo più divisi

equamente tra repubblicani edemocratici. Tra i repubblicani,ovviamente all’inizio la maggiorparte era per Guliani, e adessoappoggia McCain (che ha rice-vuto la fiducia di Giuliani). Perquanto riguarda i democratici,non ho dati precisi, ma a fiuto di-rei che la senatrice Hillary Clin-ton a New York resti in vantaggiosu Obama anche se il senatore diChicago riceve dei consensi im-portanti anche tra gli italoame-ricani.Cos’è Little Italy nel 2008? E’cambiata come il resto diDowntown dopo l’attacco alleTorri Gemelle?Little Italy non c’era più già benprima dell'11 settembre 2001.Resta quello che era già da alme-no 30 anni: un posto per turisti,con una strada che d’italiano hasolo dei ristoranti ormai circon-dati da Chinatown. Quando gliitaliani sono andati avanti nellascalata sociale, hanno abban-donato i piccoli e bui apparta-menti della Little Italy e sono an-dati a vivere nelle villette delNew Jersey o del Long Island, ose sono diventati degli afferma-ti professionisti, negli apparta-menti dell’Upper West e Est Si-de.Chi sono gli immigrati italianidi oggi? Oggi non ci sono più “immigra-ti” italiani, e per questi intendochi parte per assoluta necessità.Nel senso che ci sono per lo piùalcune centinaia di giovani ita-liani che ogni anno vengono aNew York, magari con la laureain tasca, e che vanno a lavorareanche nei ristoranti di Manhat-tan per sentirsi un po’ indipen-denti e iniziare la loro vita, in at-tesa di avere l’occasione giustaper fare quello che gli piacereb-be fare ma senza dover sottosta-re alle “regole di casta” italiane.Insomma ragazzi e ragazze unpo’ diversi dalla maggioranzadei coetanei che in attesa dellaraccomandazione per un postodi lavoro, vivono con mamma epapà fino a 35 anni. Ma questi “immigrati” non sonocerto quelli che arrivavano 100anni fa, e che hanno dovuto farei lavori più umili e soffrire moltoper poter dare ai loro figli un fu-turo che gli veniva negato in pa-tria. Comunque alla fine le speranzedi questi primi immigrati sonostate esaudite e solo nel giro diuna generazione. Non so se ac-cadrà lo stesso per i figli degli im-migrati del Nord Africa o dell'Esteuropeo che vengono in Italia.Il Columbus Day ha davveroperso di efficacia ed è menorappresentativo come qualchegiovane studente lamentaval’ottobre scorso?Beh gli italoamericani non han-no più bisogno di sentirsi“proud to be”, ormai sono piena-mente inseriti in questa società.

Niente valigia di cartonema una laurea per fuggire

Intervista doppia a Monica Ponzini e Sascia Pastori

LL’’IIttaalliieettttaa ddii SStteeffaannoo VVaaccccaarraa

La repubblica e le sue istituzioni, ahimé restano troppofragili per poter essere ammirate sulla Quinta. Almenorestino forti gli italiani

CCoolluummbbuuss DDaayy

Questo governo deve cadere, non perché c’è un magi-strato che vorrebbe processare il suo ministro dellaGiustizia, ma per una regione molto precisa: l’imbecillità

GGoovveerrnnoo PPrrooddii

Ci scompisciamo alle candidature degli italiani all'esteroper la circoscrizione Nord America

EElleezziioonnii

Povera Italia, liberati da questa casta. Povera Italia,avrai anche tu molte responsabilità nella tua culturapermissiva e altrettanto furba

LLaa CCaassttaa

Presentatevi.

Sascia: Sascia Pa-stori, nato a Mila-no, 21 ottobre1971. Laureato inArchitettura al Po-litecnico di Mila-no. Lavoro comeSenior Project Ma-nager per MTVNetworks.Monica: MonicaPonzini, nata a Mi-lano, 11 aprile

1973. Laureata in Lettere Classiche all’Univer-sità Statale degli Studi di Milano. Lavora comeAssistant Producer per MTV Networks.Da quanto tempo vivete in America? Vi senti-vate un po’ alienati in Italia? Avete optato perl’estero per ragioni di lavoro o di mero svago?Monica: Milano mi è sempre stata un po’ “stret-ta” e la mia vita professionale non era delle piùesaltanti, nonostante avessi una laurea, espe-rienze lavorative maturate durante gli studi eparlassi più di una lin-gua straniera. Ho dop-pia cittadinanza (italia-na e americana), avevovissuto a New York nel’93 e a un certo punto,con Sascia, ho comin-ciato a valutare la possi-bilità di trasferirsi a NewYork.Sascia: Mi è sempre pia-ciuta l’idea di andare avivere all’estero. ConMonica se ne parlava daun po’.Prima Parigi, poi, datoche lei aveva famiglia e amici anche negli StatiUniti, abbiamo optato per New York.Imamgino conosciate Beppe Grillo e vi ren-diate conto, da New York, del suo successo.Lo ritenete una valida fonte d’informazioneoppure vi stupite che gli italiani confidino neisuoi show politici e sovversivi?Beppe Grillo dice purtroppo l’amara verità. E non è solo il New York Times, ma parecchiastampa estera che ormai denuncia la situazio-ne italiana. Da quello che sentiamo dai nostriamici e familiari, poi, gli stessi italiani sonoconsapevoli dello stato in cui versa il Paese…Gli unici che non lo vogliono ammettere sem-brano i politici o certi organi d’informazioneitaliani.Preferenze per le primarie Usa. Da chi e qualeprogramma vi sentite rappresentati?Sascia: Obama, Hillary ha la faccia cattiva…Monica: Hillary, mi piaceva quando era FirstLady e mi piace adesso, specialmente il suoprogramma per riformare la sanità.

Ma con Sascia riusciamo a discuterne civil-mente…Veniamo a Little Italy. La reputate un luogo diritrovo per gli italiani d’America? Vi capita diandare al San Gennaro Fest? Little Italy non è mai stato un punto di ritrovoper noi, né ci siamo mai immedesimati con la“comunità italiana” nel vecchio senso del ter-mine. Abbiamo amici italiani, ragazzi che co-me noi hanno deciso di trasferirsi qui, ma nonfrequentiamo necessariamente luoghi legatiall’identità italiana. Anzi, quello che ci piace diNew York è proprio l’atmosfera internazionalee la naturalezza con cui viene vissuta.Come definireste gli immigrati italiani di og-gi? Li percepite in modo differente da quelli diqualche generazione fa?Sì, gli emigranti italiani di oggi non hanno piùla valigia di cartone, anzi, molti di loro emigra-no con una laurea. Quello che hanno in comu-ne con le generazioni precedenti di emigrantisono la voglia di avere il riconoscimento delleproprie capacità e il lasciarsi alle spalle un pae-se con poche prospettive.Partecipando al Columbus Day di questi ulti-mi anni,alcuni ragazzi come voi si sono senti-ti quasi offesi dall’essere rappresentati come

pizza e mafia.Concora-date?Decisamente!Forse anche la fisiono-mia della comunità ita-liana al giorno d’oggi èmeno definita, menoforte di prima. O forsesiamo noi a vederla co-sì, forse per molti è an-cora un momento di or-goglio, specialmenteper le vecchie genera-zioni di italiani d’Ame-rica o per i loro discen-

denti.I giovani in Italia sono riconosciuti come ri-

sorse? Cosa vi ha spinto a fuggire?Il fatto che tu usi la parola “fuggire” dà l’idea chetu abbia già una risposta. I giovani in Italia nonsono riconosciuti come risorse. Un articoloqualche tempo fa - mi sembra pubblicato su LaRepubblica – parlava dell’Italia come di unpaese ancora “feudale”, a base familiare. Per ca-rità, molte persone di talento riescono a farce-la, ma altre si vedono sorpassare da personeche di talento ne hanno molto meno. E la bat-tuta di Berlusconi alla giovane precaria di po-chi mesi fa, la dice lunga sia sulla politica ita-liana che sullo stato dei giovani nel Paese…Che cos’è la State Grezzi Productions?E’ unmarchio sotto cui Monica e Sascia auto-producono svariati video, oltre che performarecome vj. Ci piacerebbe un giorno poter produr-re con grossi budget i nostri videoclip, serial, re-portage e videoarte ma per ora ci accontentia-mo di far parte dell'underground newyorkese.

Un nuovo reality show per vincere la residenzaChi vuole sposare un’americana è il titolo del programma prodotto dalla MorusaStudio di Los Angeles e acquistato dal network di Rupert Murdoch, la Fox.Il nuovo reality fa leva sull’ossessione nazionale per il problema immigrazione.Sono milioni i “clandestini”: c’è chi dice 12 e chi, come il candidato repubblicano(e demagogo anti immigrazione) Tom Tancredo, dice 20 milioni. Quattro milionisono gli immigrati legali in lista d’attesa. Secondo il “Bollettino Visti” pubblicato dalMinistero per la Sicurezza Nazionale, che dall’11 settembre ha assorbito il ServizioImmigrazione, le pratiche per i ricongiungimenti familiari esaminate oggi, sono quel-le presentate nel 1985. Con la “promessa” televisiva di sposare una cittadina Usa,tre concorrenti a puntata devono esibirsi per convincere una donna americana ascegliere fra di loro l’amore “da naturalizzare”

LO SAPEVI CHE...