Ingenuitas

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Ingenuitas

Lisa Maria Nicòli

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Tutti i diritti riservati La riproduzione parziale o totale del presente libro è soggetta all’autorizzazione scritta da parte dell’editore. La presente pubblicazione contiene le opinioni dell’autore e ha lo scopo di fornire informazioni che, benché curate con scrupolosa attenzione, non possono comportare specifiche responsabilità in capo all’autore e all’editore per eventuali inesattezze.

GiveMeAChance s.r.l. – Editoria Online Viale Regina Margherita, 41 – Milano 1° edizione Settembre 2014

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A coloro che amo. A tutti gli uomini che cercano, e cercano ancora...

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Due parole di introduzione... INGENUITAS:

“Condizione della persona nata libera.

Nobiltà di sentire, lealtà, schiettezza, sincerità.”

Calonghi-Georges, Dizionario della lingua latina.

La scelta del titolo a esprimere la volontà di credere ancora nella

libertà, nella nobiltà del sentire, nella sincerità. L’ingenuità non

è un difetto, non è un dono. Può essere una volontà. Il desiderio

di superare il vuoto paralizzante del dolore, della disillusione,

della sofferenza, per credere ancora. La volontà di affacciarsi al

mondo a scoprire paesaggi naturali e umani. Oltre le ferite, oltre

gli inganni, oltre le amarezze, oltre il cinismo. L’ingenuità non è

di chi non ha patito angoscia, tormento o delusione. E’ di chi li

vuole superare alimentando uno sguardo colmo di meraviglia e

di stupore.

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La mia musica... Amo la vita

nel confuso turbinio delle passioni,

nella pace perfetta dell’Amore,

nella corsa tutta umana del tempo.

Amo la vita

nella gioia liberata dalla danza,

nell’aridità impietosa del dolore,

nelle lucciole di maggio.

Amo la vita

nelle promesse dell’alba nascosta,

nella frustrazione del ramo spezzato,

negli occhi, attenti o distratti, degli altri.

Oggi

le mie radici

si fanno più profonde

a regalarmi

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ciò di cui ho bisogno.

Sono grata.

Come il vento

che tutto abbraccia.

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Tregua Dissolvermi,

trasparente,

nella luce,

senza colore

né corpo.

Senza dolore.

C’era una volta un bambino, era molto bello. Cercava la simme-

tria e la perfezione dei suoi lineamenti in tutte le cose, in realtà

ovunque voleva trovare sé stesso.

Un giorno fu profondamente tradito dal suo migliore amico, o

almeno così si sentiva lui. Soffrì molto e decise che non

l’avrebbe più permesso. Così inibì ogni sua emozione, si rin-

chiuse in sé stesso e coltivò l’indifferenza nei confronti di ciò

che accadeva. Si permetteva di lasciarsi andare solo con gli ani-

mali e la natura, perché lì ritrovava la sua purezza e non temeva

di essere ferito.

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Un giorno, però, il suo cane Figaro morì. E ancora una volta sof-

frì intensamente. Decise quindi che non avrebbe più avuto cani,

così da risparmiarsi quel dolore. E quando ripensava a Figaro

che gli faceva le feste, che saltellando esplorava con lui il bosco,

che gli leccava il viso, che lo aspettava al ritorno da scuola e lo

seguiva ovunque, disprezzava quei ricordi e la sua debolezza, at-

tribuendovi l’origine della sua sofferenza.

Il suo aspetto mutò. I suoi lineamenti erano sempre perfetti, ma

incolori, non comunicavano nulla. Il suo sorriso compariva solo

di notte, mentre sognava del suo antico amico e del suo cane:

non era ancora riuscito a controllare il mondo onirico.

La sua maestra si accorse di ciò. Era una donna sulla sessantina,

esperta di vita, di emozioni e di sentimenti, e pensava che il suo

lavoro non fosse solo quello di impartire conoscenze, ma di fare

in modo che i suoi studenti si ponessero delle domande e ragio-

nassero con la loro testa. Così decise di evitare una paternale e

un confronto a tu per tu col ragazzo, ma cercò un altro modo per

stimolare le sue riflessioni.

Un giorno lo chiamò dopo la scuola e gli chiese un grande favo-

re. Avrebbe dovuto per un mese presentarsi a casa sua tutti i

giorni alle cinque e portare il suo cane a fare una passeggiata,

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Tregua

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perché lei ospitava un nipotino malato e non voleva fare manca-

re a Blu, questo era il nome del cane, il momento più bello della

giornata. Lesse negli occhi del bambino un entusiasmo subito

frenato da una grande paura. Ma egli non ebbe il coraggio di di-

re di no alla maestra, così accettò.

Giorno dopo giorno si presentava a casa dell’insegnante alle

cinque in punto a portar fuori Blu. Il cane era molto affettuoso e

di buon carattere e gradiva molto quelle scorribande nel bosco.

Già dalle quattro e mezza si metteva vicino alla porta ad aspetta-

re il suo nuovo amico, come la maestra non mancò di fargli no-

tare.

Quello che all’inizio non era che un dovere per il bambino, di-

venne il momento più felice della sua giornata: infatti arrivava

sempre in ordine e serio e se ne tornava sudato e sorridente.

Quando il mese fu trascorso, la maestra lo invitò a entrare e gli

offrì un tè. Gli disse che il suo cane era molto contento di tra-

scorrere quella mezzoretta con lui tutti i giorni, stava a lui sce-

gliere se proseguire o no.

Il bambino dopo una lunga pausa scoppiò a piangere. La donna

stette in silenzio, gli porse un fazzoletto e lo invitò a far uscire

senza fretta tutto il suo dolore. Lui la guardò stupito e si sentì li-

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bero di continuare a singhiozzare in solitudine per altri dieci mi-

nuti nel salotto della donna. Quindi lei tornò e gli chiese perché

avesse pianto. Egli spiegò che ripensava al suo cane morto e che

non sapeva cosa fare, se continuare a portare a passeggio Blu e

soffrire ancora come per il suo cane quando Blu non ci fosse più

stato, o se smettere e soffrire lo stesso, perché quelle passeggiate

erano la parte più bella della sua giornata. La maestra non lo sol-

lecitò a scegliere l’una o l’altra cosa, ma gli domandò che diffe-

renza ci fosse tra le due sofferenze. Il bambino ci pensò un po’,

poi disse che una dipendeva da lui (non portare più a passeggio

Blu), l’altra no (l’eventuale scomparsa di Blu).

“Bravo! – disse la donna – Ma ce n’è un’altra!”

Il bambino ci pensò a lungo. Quella maestra gli piaceva davve-

ro, era severa, ma così gentile, lo faceva sentire speciale... sem-

brava sempre vedere qualcosa di eccezionale dentro di lui... Per

lei lui era in grado di rispondere e quindi... Finalmente disse:

“Un dolore è causato da qualcosa che ho vissuto, tutti i momenti

belli con Blu; l’altro da ciò che non vivrò: saprò che Blu sarà

qua ad aspettarmi, ma io non verrò e continuerò a pensare a cosa

avrei fatto con lui.” “Dunque – riassunse la maestra- un dolore

deriva dalla gioia provata, l’altro dalla rinuncia a provare quella

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Tregua

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gioia. È una scelta importante. Pensaci bene fino a domani, me

lo dirai a scuola.”

Il bambino ci rimase male, aveva sperato in qualche suggeri-

mento. La maestra lo trattava da grande, sì, ma che fare? Ci pen-

sò tutta la sera e tardò ad addormentarsi, ma il mattino successi-

vo ebbe la risposta.

Arrivò presto a scuola, la cercò con lo sguardo e le si avvicinò

impaziente. Lei lo fissava amorevolmente. Le disse: “ Ho capito

che il dolore non lo eviterò, posso solo scegliere quale dei due

sarà, ma la gioia dipende da me. In un caso soffrirò perché avrò

scelto la gioia, nell’altro perché ci avrò rinunciato. Allora è me-

glio averla!” Il sorriso raggiante della maestra lo avvolse tutto e

le sue parole lo inorgoglirono: “Sono molto fiera di te, hai impa-

rato la lezione più importante!”.

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Orizzonti Avidamente,

incessantemente

cerchi

una risposta.

I tuoi occhi impazienti

spogliano

il tuo quotidiano.

Le tue mani ansiose

sono vuote

di polvere.

Il tuo corpo

si fa gomitolo

per scrutare la luce

dentro di te.

Una fiammella fragile

abita il tuo animo

e tu vivi

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Orizzonti

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con la paura

di un vento crudele

che la uccida.

Ma il lampo

del fuoco

ogni giorno

fruga

la tua realtà,

dà risalto

alla tua oscurità, incomprensibile,

ti esorta

a bere

dell’orizzonte mutante

in cui

potresti

tuffarti.

La bella signora araba incedeva femminile e sicura, con occhi

caldi che disegnavano secoli di donne, che brillavano di orienta-

le saggezza e consapevolezza. Era diversa da tutte. Pareva di-

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stante dal mondo attorno a lei, eppure ogni volta che sorrideva si

era certi ne cogliesse la magica essenza.

Gambe lunghe, pronte a una corsa mai pronunciata.

Capelli neri, promesse di timida sensualità, raccolti in una mor-

bida treccia: il suo viso non ne aveva bisogno.

I suoi occhi partecipavano senza mai essere indiscreti: parevano

abbozzare un sorriso e fuggire via, a toccare il lontano orizzonte.

A metà tra due culture: vestiva all’europea e parlava arabo egi-

ziano, incedeva come una modella e sorrideva di quella dolce

femminilità che è solo orientale. Era la sintesi della donna di

ogni cultura e tempo. Luminosa e forte, eppure chiedeva prote-

zione. Bella, eppure desiderava la conferma sussurrata del suo

uomo. Nobile, eppure palpitava di quell’aria così concreta che la

circondava.

Soprattutto era consapevole, ricca di quell’umanità schietta o so-

fisticata, povera o sfarzosa, allegra o triste, che combatte o che

si arrende, ma che ogni giorno si alza a vivere il mistero della

vita, incomprensibile ma affascinante come gli uomini che lo

danzano.

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Le due consuocere Donna,

tu appartieni

all’infinito:

smettila

di invocare

una terra tua,

consacrata

dalla proprietà

e dal limite,

ma libera il tuo volo,

a saziare la fame

di paesaggi

e di amore

senza confini.

Le due consuocere erano in vacanza insieme: entrambe amavano

quella meravigliosa villa nascosta tra il verde, arrampicata sulla

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collina a prendersi tutta la luce specchiata dal golfo del Tigullio,

i ritmi imposti dalla gestione delle suore, la preghiera comune,

le passeggiate, l’ottimo vitto e la quiete “santa” di quel Paradiso.

Avevano la stessa età, ma non potevano essere più diverse, an-

che nell’aspetto.

L’una era sottile e fragile, l’altra pienotta e stabile; la prima si

lamentava dei suoi pochi capelli, la seconda ne aveva una selva;

l’una coltivava il dubbio, su cui ragionava a lungo e, dopo ap-

profondite analisi, lo vinceva con l’introspezione e la preghiera,

l’altra coltivava l’azione e sembrava la decisione incarnata, ma

esprimeva insicurezze e sofferenze solo al cospetto del suo

Creatore, compagno inseparabile di tutte e due, come i loro oc-

chi color corteccia.

Margherita veniva da un’ottima famiglia, aveva ricevuto

un’eccellente educazione e si era sempre mostrata riservata, acu-

ta e timida, messa un poco in ombra dalla bellezza folgorante e

dalla personalità forte della madre. Il suo papà la definiva la mia

poetessa, per la sua capacità di dar forma a pensieri ed emozioni

con le parole scritte. Era sbocciata, come primula alla scomparsa

dell’ultima neve, quando si era innamorata e poi sposata. Era

una donna molto sensibile e intelligente, che sapeva vedere oltre

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le regole imposte dalla sua educazione, perché spesso leggeva

direttamente nel cuore delle persone. Odiava l’ostentazione, il

suo vestire era sobrio ed essenziale e adorava la lettura. Si cre-

deva più fragile di quanto non fosse: la sua vita testimoniava la

sua eccezionale forza d’animo. Quel marito meraviglioso, che le

aveva dato tre figli, era prematuramente morto dopo soli otto

anni di matrimonio. Anche la sua fine avevano affrontato fianco

a fianco, lui era medico ed era consapevole di quello cui stava

andando incontro: uniti dall’amore reciproco e dai loro luminosi

ideali, avevano percorso stretti stretti quell’ultimo tratto di stra-

da concesso loro insieme. Lei aveva scritto di quegli ultimi gior-

ni e i pochi che avevano letto quelle pagine avevano pianto di

commozione di fronte a tanto amore, coraggio e grandezza

d’animo. Ma poi si era trovata sola con i tre bambini. E la guer-

ra. E i problemi della vita. Ma era riuscita a crescere i suoi figli

prima e i suoi nipoti dopo rendendo presente tra loro la figura

del padre e del nonno, tanto egli respirava ancora nelle sue fibre

e viveva nel suo animo. Talora era severa, ma era capace di stu-

pire e di disorientare con i suoi inaspettati guizzi di ironia. Da

nonna si era addolcita, pur mantenendo un certo rigore (“Il gela-

to non si lecca!” “Ma nonna, è un cono, come faccio?”), e deli-

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ziava i nipoti con i suoi racconti di gioventù o di vita in collegio,

ma la cosa che si imprimeva nei loro corpi erano i suoi abbracci:

così esile rivelava una forza nello stringerli da lasciare per sem-

pre la sua impronta in loro.

Brigida invece veniva da un’austera famiglia agricola, aveva po-

tuto frequentare solo le scuole elementari e aveva sempre con-

tribuito al lavoro domestico. Pur avendo un grande senso del

dovere, aveva commesso qualche piccola trasgressione alla se-

verità imperante e negli occhi le brillava allegra e benevola ma-

lizia. Essendo avida di conoscenza e di sapere, aveva letto molto

e aveva sempre cercato di imparare da chi ne sapeva più di lei,

tant’è che le dicevano che scriveva molto bene, seppur con qual-

che errore. Andare a vivere in città, con tutte le sue offerte cultu-

rali e non, l’aveva aiutata. Anche da anziana era sempre aggior-

nata sulle ultime scoperte e invenzioni. Amava essere in ordine,

adorava i cappelli e ci teneva al decoro. Era molto generosa ed

era una donna d’azione: dove c’era bisogno era sempre presente.

Era riuscita a evitare che fossero i suoi genitori a sceglierle il

marito: si era sposata tardi per l’epoca, ma per amore. Il marito

era il suo opposto, troppo esuberante a volte, ma si compensa-

vano benissimo. Era una donna intelligente che aveva saputo

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colmare la sua scarsa istruzione con il suo acuto interesse per ciò

che la circondava, con l’osservazione e con la forza che le deri-

vava dall’aver combattuto tante battaglie e superato mille diffi-

coltà. Si sapeva anche godere la vita: che fosse un dolce,

un’amica, un nipote o un buon libro. Il Buon Dio, come definiva

lei quell’ideale puro e cristallino che le brillava nell’animo, le

aveva dato il dono di una creativa immaginazione, che nella sua

vita l’aveva molto aiutata. All’occorrenza rivelava anche una

certa furbizia, che era capacità di uscire dai guai, mai inganno

del prossimo. Nella sua giovinezza aveva avuto diversi problemi

di salute, a conferma della sua celata sensibilità, spazzati via da

una vecchiaia in cui mostrava una salute di ferro, sintomo del

suo conquistato equilibrio e della sua autentica serenità.

A vederle passeggiare a braccetto nel parco di Villa Caterina

non si indovinavano tutte queste differenze, si coglievano solo le

loro affinità e la loro complementarietà.

Ma non era sempre stato così...

Amelia si stava preparando per uscire. I tacchi la slanciavano,

anche se non erano le caviglie il suo punto di forza, ma piuttosto

la regolarità dei suoi lineamenti, l’armonia dei suoi movimenti e

l’espressività travolgente delle sue “facce” e dei suoi gesti. Il co-

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lore dei suoi occhi, diversi nella loro pigmentazione, era raro e

prezioso, ma svelato a pochi: portava sempre gli occhiali da sole

a nascondere la sua eterocromia, oggetto di troppa curiosità e

collegabile alla sua malattia. Eppure quel grigio e quel verde

erano valorizzati dai morbidi capelli castani, che arrivavano alle

spalle, e dalle scure sopracciglia ad ala di gabbiano. La figura

era snella, ma non asciutta, l’altezza nella media, braccia e gam-

be piuttosto lunghe.

I gravi problemi di salute ne avevano fatto una ragazza protetta e

viziata. Abituata a essere al centro dell’attenzione. E certamente

aveva i numeri per starci. Vivace ed entusiasta, decisa, allegra e

piena di vita. Ma umorale. Bastava un niente a farla sentire feri-

ta, tradita, delusa. Imprevedibilmente. E allora compariva l’altra

faccia di Amelia. Quella della vittima sofferente. Abile manipo-

latrice delle emozioni e reazioni altrui. Poteva invitare a casa un

barbone che la inteneriva e occuparsi affettuosamente di lui,

come far leva sul senso di colpa dei genitori, che irrazionalmen-

te si pensavano responsabili delle gravi difficoltà che lei aveva

incontrato nel suo percorso, per ottenere da loro ciò che voleva.

Era difficile da conoscere.

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Quella sera avrebbe dovuto incontrare le sue amiche. Una di lo-

ro, poi, le avrebbe presentato un ragazzo, a suo parere, perfetto

per lei. Non ci credeva molto, ma perché no? Si sarebbero diver-

tite e sarebbe stata in compagnia, lei che, da figlia unica, era fe-

lice ogni volta che una zia, un cugino o un amico veniva a casa a

trovarli.

Un ultimo tocco di rossetto ed era pronta.

Si doveva trovare in piazza del Duomo per un aperitivo da Zuc-

ca. Poi cena. Fu la prima ad arrivare. Scorse Cristina in lonta-

nanza, con lei un ragazzo. Lo osservò con calma prima di sbrac-

ciarsi a salutare. Non molto alto, piuttosto snello. Fine, decisa-

mente fine. Portava gli occhiali. Richiamò la loro attenzione.

Dopo le presentazioni, arrivarono Giulio e Paola, per ultima

Francesca. Come sempre chiacchierarono allegramente e si pre-

sero affettuosamente in giro. Il ragazzo, che si chiamava Luca,

piacque molto ad Amelia e la cosa le parve reciproca, quando,

salutandola, le chiese il suo numero di telefono.

Uscirono insieme per un mese. Erano fortemente attratti l’uno

dall’altra, parlavano di tutto e godevano della reciproca compa-

gnia. Non si salutavano mai senza aver prima fissato l’incontro

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successivo. Si erano abbandonati a quell’amore con un ardore

totalizzante, infantile.

I guai incominciarono quando Luca presentò Amelia a sua sorel-

la. Egli apparteneva a una famiglia di tradizione, la cui “custo-

de” era appunto la sorella Cornelia. Non che non avesse grandi

pregi: generosa, molto sensibile a volte, interessante conversa-

trice, colta, o forse erudita, elegante. Allora, però, fece un grave

errore: giudicò Amelia dalle apparenze e da ciò che aveva sapu-

to della sua famiglia. Il suo ambiente di provenienza è troppo

diverso dal nostro, queste le sue parole a Luca. Quindi elencò

una serie di frasi e comportamenti sbagliati che la ragazza di na-

tali troppo modesti aveva evidenziato in quella visita a casa sua,

infine riferì tutto alla madre con una tale forza persuasiva, che

Demostene ne avrebbe provato invidia! Amelia era bollata. Sen-

za essere stata conosciuta. Certo non era una donna semplice,

era certamente problematica, ma avrebbe avuto diritto a una

chance, come tutti. Chance che Luca le negò. Infatti, influenzato

dalla sua famiglia, le propose di restare amici, un classico. Inuti-

le precisare che Amelia rifiutò. Tornò a casa, singhiozzò dispe-

ratamente nella vasca, scaldata da un bagno solo sulla pelle ri-

storatore, e si impose di non pensarci più: il suo pregio e al con-

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