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INDICE INDICE 1 PREMESSA 6 INTRODUZIONE 8 PAR.1: RAGIONI DI DIRETTO INTERESSAMENTO DELL'ASSEMBLEA COSTITUENTE PER UNA LEGGE SULLA STAMPA 8 PAR.2: CENNI SULLA L.8 FEBBRAIO 1948 N.47 10 PAR.3: DISCUSSIONE DELLA COSTITUENTE SULL’ART 15 12 PAR.4: CENNI SULLA APPLICAZIONE DELLA NORMA NELLA STORIA REPUBBLICANA E RAGIONI PER UN ATTUALE INTERESSAMENTO 19 PARTE PRIMA: ART.15 E PRINCIPI COSTITUZIONALI 22 CAPITOLO 1 22 ART.15 E PRINCIPI COSTITUZIONALI DI DIRITTO PENALE 22 PAR.1: I PRINCIPI COSTITUZIONALI INTERESSATI 22 1.1) LE PRINCIPALI QUESTIONI 22 1.2) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI OFFENSIVITÀ (LESIVITÀ) DEL REATO (NULLUM CRIMEN SINE INIURIA) 23

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INDICE

INDICE 1

PREMESSA 6

INTRODUZIONE 8

PAR.1: RAGIONI DI DIRETTO INTERESSAMENTO DELL'ASSEMBLEA

COSTITUENTE PER UNA LEGGE SULLA STAMPA 8

PAR.2: CENNI SULLA L.8 FEBBRAIO 1948 N.47 10

PAR.3: DISCUSSIONE DELLA COSTITUENTE SULL’ART 15 12

PAR.4: CENNI SULLA APPLICAZIONE DELLA NORMA NELLA STORIA

REPUBBLICANA E RAGIONI PER UN ATTUALE INTERESSAMENTO 19

PARTE PRIMA: ART.15 E PRINCIPI COSTITUZIONALI 22

CAPITOLO 1 22

ART.15 E PRINCIPI COSTITUZIONALI DI DIRITTO PENALE 22

PAR.1: I PRINCIPI COSTITUZIONALI INTERESSATI 22

1.1) LE PRINCIPALI QUESTIONI 22

1.2) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI OFFENSIVITÀ (LESIVITÀ) DEL

REATO (NULLUM CRIMEN SINE INIURIA) 23

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1.3) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI DETERMINATEZZA (NULLUM

CRIMEN SINE LEGE CERTA) 36

1.4) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI COLPEVOLEZZA (NULLUM

CRIMEN SINE CULPA) 42

1.5) CONCLUSIONI 46

PAR.2: TEMATICA DEL BENE GIURIDICO E SUA FUNZIONE LIBERAL-

GARANTISTA 47

PAR.3: COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE 57

3.1) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE: SUA INDIVIDUABILITÀ 57

3.2) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE COME BENE MORALE E

SUA RILEVANZA COSTITUZIONALE 61

3.3) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE, AFFERRABILITÀ E

PRINCIPI DI OFFENSIVITÀ, DETERMINATEZZA E COLPEVOLEZZA 66

3.4) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE, FATTISPECIE DI

PERICOLO, ANTICIPABILITÀ DELLA TUTELA PENALE E PRINCIPIO

DI PROPORZIONATEZZA 70

3.5) CONCLUSIONI 75

PAR.4: L’ORDINE FAMILIARE 76

4.1) ORDINE FAMILIARE E COSTITUZIONE 76

4.2) AFFERRABILITÀ DELL’ORDINE FAMILIARE E SUA

TUTELABILITÀ COSTITUZIONALMENTE COMPATIBILE 79

4.3) CONCLUSIONI 84

PAR.5: DIFFUSIONE DI SUICIDI E DELITTI 85

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PAR.6: CONCLUSIONI: INOPPORTUNITÀ O INCOSTITUZIONALITÀ? 87

6.1) REATO COME FATTO OFFENSIVO (UNICAMENTE) DI BENI

COSTITUZIONALI 87

6.2) AFFERRABILITÀ, OFFENSIVITÀ, DETERMINATEZZA E

COLPEVOLEZZA 89

6.3) ART.15 93

CAPITOLO 2 94

ART.15 E ART.21 COST. 94

PAR.1: LIMITI ALLA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO E

L’ART. 15 94

PAR.2: DIRITTI DI LIBERTÀ COSTITUZIONALMENTE GARANTITI E

CONSEGUENTE DIVIETO DI INCRIMINAZIONE DI FATTI

COSTITUENTI ESERCIZIO DI TALI DIRITTI. 96

PAR.3: DIRITTO DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO E SUOI LIMITI 97

PAR.4: BUON COSTUME E ART.21 DELLA COSTITUZIONE 99

PAR.5: LIMITI IMPLICITI ALLA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL

PENSIERO 104

PAR.6: LIMITI ALLA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO

IMPOSTI DALL’ART.15 107

PAR.7: CONCLUSIONI 109

CONCLUSIONE DEI PRIMI DUE CAPITOLI 112

PARTE SECONDA: L’ART. 15 115

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CAPITOLO 3 115

ART.15 L.47\1948: OLTRE LE QUESTIONI DI COSTITUZIONALITÀ 115

PAR.1: I PROBLEMI INTERPRETATIVI DELL’ART.15 115

PAR.2: ART.15 E ART.528 C.P. 116

2.1) RINVIO QUOAD POENAM O QUOAD DELICTUM 116

2.2) DIVERSE CONSEGUENZE DELLE DUE DIFFERENTI

INTERPRETAZIONI 120

PAR.3: ELEMENTO MATERIALE DEL REATO 122

3.1) RICHIAMO ALL’ART.528 C.P. 122

3.2) STAMPATI 122

3.3) DESCRIVERE O ILLUSTRARE 123

3.4) PARTICOLARI IMPRESSIONANTI O RACCAPRICCIANTI 124

3.5) IN MODO DA 129

PAR.4: ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO 135

4.1) ART.528 C.P. ED ELEMENTO SOGGETTIVO DELL’ART.15 135

4.2) DOLO SPECIFICO 136

PAR.5: OPERA D’ARTE E ART.15 141

PAR.6: TRATTAMENTO SANZIONATORIO 147

PAR.7: RELAZIONI DELL’ART.15 CON ALTRE NORME

DELL’ORDINAMENTO 147

7.1) PREMESSA 147

7.2) ART.15 E ART.114 T.U.P.S. 148

7.3) ART.15 E ART.565 C.P. 152

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7.4) CONCLUSIONE 156

PAR.8: CONCLUSIONI 156

CONCLUSIONI GENERALI 158

BIBLIOGRAFIA 163

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PREMESSA

L’analisi dell’art.15 della legge n.47\1948 (legge sulla stampa)

necessariamente pretende di essere condotta attraverso il continuo

richiamo di alcune delle più importanti tematiche del Diritto penale, ed in

particolare dei suoi principi costituzionali.

È quindi indispensabile in questo lavoro affrontare i principi di

determinatezza, offensività e colpevolezza, ed anche trattare della

problematica dei beni costituzionalmente tutelabili, ma, chiaramente, ciò

si compie senza alcuna pretesa di completezza o di particolareggiato

approfondimento in merito, perchè, studiare con cura tutti questi

argomenti assieme, non può essere compito adeguato per una singola tesi

di laurea, e meno che mai per una tesi che a ciò non sia votata dal suo

stesso titolo.

Cercheremo quindi di chiarire al meglio le tematiche suddette (che oggi

dimostrano la loro grande importanza ed attualità costituendo oggetto di

discussione della Commissione parlamentare per le riforme

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costituzionali1), ma sempre in relazione alla portata e alle finalità di

questo lavoro, che solo le vede come strumenti di comprensione e di

analisi dell’art.15 della legge sulla stampa, e non quali oggetti principali

di indagine.

1 Documenti esaminati nel corso della seduta di martedì 28 ottobre 1997 della Commissione parlamentare per

le riforme costituzionali; Art.130-bis: “Le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale. Non è

punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una

concreta offensività. Le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico o estensivo. Nuove

norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti

organicamente l’intera materia cui si riferiscono.”

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INTRODUZIONE

PAR.1: RAGIONI DI DIRETTO INTERESSAMENTO

DELL'ASSEMBLEA COSTITUENTE PER UNA LEGGE

SULLA STAMPA

La legge sulla stampa, all'interno della quale si trova la norma oggetto del

presente lavoro, venne approvata dall'Assemblea Costituente il 20

gennaio 1948.

Essa si compone di venticinque articoli, attraverso i quali s'intese

disciplinare gli aspetti salienti e più urgenti relativi alle nuove questioni

di libertà, e di conseguenza di responsabilità, che giornalisti, scrittori e

editori avrebbero dovuto affrontare dati i radicali cambiamenti

intervenuti nel Paese.

L'Italia, durante gli anni del Fascismo, aveva conosciuto un netto regresso

della legislazione inerente la stampa: era in poco tempo passata da

un'impostazione di tipo liberale, come quella dall’Editto Albertino,

ispirata ai principi della Rivoluzione Francese e basata sulla concezione

della libertà di stampa come diritto individuale, i cui limiti erano posti

solo dalla legge penale, ad una in cui questa libertà era funzionalizzata ad

esigenze di Stato, fortemente controllata e limitata dal potere esecutivo;

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gli istituti del sequestro di polizia, del riconoscimento del direttore

responsabile (solo nominalmente affidato alla magistratura, ma in realtà

lasciato in balia del potere governativo) e l’istituzione dell’albo

professionale dei giornalisti furono i principali provvedimenti con i quali

il regime fascista mise il bavaglio alla stampa.

Dopo la caduta del fascismo, la volontà dei rappresentanti del popolo fu

di trasformare il paese in uno stato liberale e democratico, e questi,

consci dell'importanza del ruolo della stampa nel raggiungimento di tali

ideali, intesero fissare alcuni principi in materia.

Una commissione nominata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri

preparò un disegno di legge contenente 41 articoli, dei quali, però, solo

tredici furono inseriti nello stralcio che avrebbe poi costituito l’oggetto

del lavoro di una sottocommissione, oggetto a sua volta della discussione

in aula. Le ridotte dimensioni di entrambi i testi delle commissioni, la

celerità dell'approvazione della legge e le stesse dichiarazioni dei

protagonisti dell’iter formativo della stessa, sono tutti indizi della “fretta”

con cui una legge così importante fu approvata2.

La L.8 febbraio 1948, n.47, nella sua essenza di stralcio, non è una “legge

sulla stampa”, ossia una regolamentazione organica ed esaustiva di

quanto concerne la manifestazione del pensiero con questo strumento, e

2 Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1957, pg61 ss.

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ciò comporta problemi di completezza e coerenza del nostro

ordinamento; inoltre la legge presenta anche difetti di tecnica legislativa

che spesso poi implicano ulteriori problemi di carattere teorico-

dogmatico che interessano in parte lo stesso art.15 qui in analisi, e che

saranno in seguito affrontati.

Di questa legge di fondamentale importanza per il Paese ragionevolmente

si occupò la Costituente, che, però, a causa del limitato tempo a

disposizione, compì un lavoro non del tutto soddisfacente, soprattutto in

considerazione della delicatezza della materia trattata.

Si può dunque concordare con il Nuvolone quando definisce la l.47\1948

“uno dei testi legislativi più importanti e meno pensati del nostro

ordinamento”3.

PAR.2: CENNI SULLA L.8 FEBBRAIO 1948 N.47

La Costituzione Italiana ha attribuito alla stampa una posizione

particolare tra i mezzi di comunicazione del pensiero. La ragione di

questa particolare attenzione è dovuta, oltre che a ragioni storiche, al fatto

che questa è il mezzo di diffusione del pensiero che racchiude in se due

requisiti fondamentali che la differenziano dagli altri mezzi di

3 Nuvolone, I limiti della libertà di stampa nell’art.15 della legge 8 febbraio 1948 n.47, in Arch.pen., 1952, 2,

pg555.

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comunicazione e al tempo stesso la rendono di centrale importanza per il

sistema politico di un paese: quello di essere ad illimitata diffusibilità e

semplice accessibilità, e quello di essere potenzialmente nella

disponibilità produttiva di un elevato numero di individui. Le suddette

caratteristiche fanno della libertà di stampa la condizione minima

necessaria anche se non sufficiente di realizzabilità di un ordinamento

libero e democratico, e ciò spiega lo specifico richiamo alla stampa

inserito nell’art.21 della Costituzione e la necessità di una normativa “ad

materiam”4.

La legge, che come abbiamo detto in precedenza, non è regolamento

organico della materia, ma mera enunciazione di alcuni principi e

soluzione di questioni dettate dalle necessità del momento, si sofferma

sulle seguenti questioni: definizione di stampa, indicazioni da apporre

allo stampato, direttore responsabile, proprietario, registrazione del

periodico, inserzione di risposte e rettifiche, giornali murali,

responsabilità civile, diffamazione, estensione dell’art.528 c.p., stampa

clandestina, competenza e forma del giudizio.

La dottrina ha raggruppato queste disposizioni secondo differenti criteri

in diverse categorie, di cui, la più ampia e maggiormente interessante in

questa fase della trattazione, è quella basata sulla preventività-

4 Nuvolone, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, pg10 ss.

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organizzatività o repressività delle stesse. Le norme della prima tipologia

hanno carattere amministrativo e non sollevano grandi questioni concrete

di limitazione della libertà (pur avendo grande importanza dal punto di

vista teorico-politico), mentre quelle della seconda, cioè norme repressive

poste a tutela di abusi nell’esercizio di libertà, impongono importanti

considerazioni giuridiche ed accurate riflessioni. Infatti importanti dubbi

di costituzionalità riguardano proprio queste norme, ed in particolare

quelle che incriminano la manifestazione di opinioni, quelle inerenti la

responsabilità penale del direttore del giornale e quelle contenute negli

articoli 14 e 15.5

PAR.3: DISCUSSIONE DELLA COSTITUENTE

SULL’ART 15

Lo studio dell’iter legislativo e delle discussioni assembleari che

portarono all’approvazione dell’articolo 15, vuole, in questa parte del

lavoro, evidenziare i dubbi e le perplessità che fin dall’inizio

accompagnarono questa disposizione.

Anzitutto, per ciò che riguarda l’iter legis, va rilevato come nel

documento presentato dalla commissione governativa alla

5 Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1957, pg72 ss.

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sottocommissione dell'Assemblea Costituente, non fosse presente la

norma concernente le pubblicazioni impressionanti e raccapriccianti.

Infatti, pur se contenuta nello studio fatto dalla commissione governativa,

questa scelse di non presentarla per l’approvazione, valutando

l’argomento meritevole di maggiore approfondimento e auspicandone la

trattazione nell’ambito degli studi per la riforma del Codice penale.

Nonostante ciò, sia la sottocommissione dell’Assemblea prima, che

questa stessa poi, ritennero che, dato il dilagare di un certo tipo di stampa

e gli effetti particolarmente nocivi da questa provocati, fosse preferibile

non differire ulteriormente l’intervento legislativo. La scelta di trattare un

argomento così delicato nonostante gli angusti limiti temporali a

disposizione non è stata, però, senza conseguenze.

In secondo luogo, dalla lettura della discussione in aula6 si evince come

parte dei problemi che la norma porrà nella sua concreta applicazione

fossero già presenti ai costituenti, ma anche come la discussione in aula

fu non molto approfondita (la questione di una possibile violazione del

principio di tassatività della norma penale, ad esempio, venne appena

sfiorata), pur se in alcuni momenti sicuramente accesa.

Si riportano quindi qui di seguito le dichiarazioni espresse da alcuni

membri della Costituente nel corso della seduta del venerdì 16 gennaio

6 Atti della Assemblea Costituente, seduta di venerdì 16 gennaio 1948.

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1948, utili per un primo inquadramento di parte delle tematiche centrali

di questo lavoro e per una successiva indagine circa la “intenzione del

legislatore”, criterio interpretativo utilizzato dalla dottrina nell'anamnesi

della norma.

-MORO7:

“...innanzitutto io propongo che si parli non di stampati periodici, come è

detto nel testo della commissione, ma di stampati senz’altro,

comprendendo così nella incriminazione non soltanto gli stampati

periodici, ma anche quelli non periodici, i quali, dal punto di vista della

tutela della moralità, che noi abbiamo di mira, possono essere più

pericolosi degli stessi stampati periodici. Inoltre io propongo si sopprima

la parola “prevalentemente” che è stata introdotta nel testo della

commissione, modificando con ciò il testo governativo. Ciò vuol dire che

gli stampati, per incorrere nella incriminazione, devono essere

prevalentemente rivolti a descrivere o illustrare con particolari

impressionanti o raccapriccianti, ecc. E cioè che essi devono con

continuità essere rivolti a questo fine? Allora evidentemente la norma

diventa inapplicabile, perchè bisogna rifare la storia di quelle

pubblicazioni, per vedere se essa è continuamente diretta, e quindi

prevalentemente diretta allo scopo di destare quelle ripercussioni morali

7 Atti della Assemblea Costituente, seduta di venerdì 16 gennaio 1948.

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che vogliamo evitare. Se poi con l’espressione “prevalentemente” non si

volesse considerare il complesso della pubblicazione, ma un solo

numero, per limitare l’incriminazione ai casi nei quali esso, nella sua

prevalenza abbia effetto impressionante e raccapricciante secondo

l’indicazione dell’articolo, evidentemente renderemmo anche in questo

modo la norma praticamente inapplicabile e verremmo a dire che non

possa essere commesso reato di oscenità ai sensi di questo articolo, se

non in quanto esso si manifesti con una consistenza che sia, dal punto di

vista materiale nella pubblicazione, di carattere prevalente.

Propongo un’altra modificazione: chiedo che si dica che gli stampati

costituenti reato ai sensi di questo articolo siano quelli idonei a turbare il

comune sentimento della moralità o l’ordine familiare, ecc. Domando

cioè che questa incriminazione abbia carattere di reato di pericolo. Non

occorre perciò, a mio parere, che, secondo gli accertamenti del giudice, si

sia verificato il turbamento del comune sentimento della morale o

dell’ordine familiare: si richiede soltanto che nella valutazione del

giudice questi stampati siano in astratto idonei a turbare questi beni

giuridici. Non si richiede che il bene giuridico della moralità sia in atto

turbato, ma soltanto che vi sia idoneità generica a turbare questi beni

giuridici di importanza fondamentale”.

-SCHIAVETTI:

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“...ora mi pare che per questi due generi di reato (quelli di cui agli articoli

14 e 15 N.d.R.) sia necessario l’elemento della continuità, perchè se noi

crediamo di poter incriminare una pubblicazione una volta tanto perchè

desta del raccapriccio, o perchè sembra atta turbare lo sviluppo spirituale

dei ragazzi, noi chiediamo troppo e sarà molto difficile che un giudice

arrivi a conclusioni positive. L’elemento della continuità nelle

pubblicazioni che tendono a sviluppare certi sentimenti e che offrono

certi pericoli, mi sembra necessario ed indispensabile. Dunque è

necessario che vi sia l’elemento della continuità, cioè l’abitudine, così

che il giudice possa dare il proprio responso non su una semplice

infrazione, ma su una serie di infrazioni che attesti il deliberato proposito,

da parte del colpevole, di dedicarsi a descrizioni ed illustrazioni di

carattere pericoloso, dal punto di vista sociale ed educativo”.

-CEVOLOTTO (relatore in commissione):

“ Le varie proposte che sono state fatte riguardo all’articolo 21 (del testo

della commissione della Costituente), in sostanza mirano a trasformare

quello che è ravvisato come reato di danno in reato di pericolo. Io

personalmente, pur essendo favorevolissimo alla persecuzione più decisa

delle pubblicazioni oscene o contrarie al buon costume, dubito un pÒ, ho

paura...non si sa mai dove si può arrivare attraverso queste forme di

incriminazione. Avevo ritenuto, come aveva fatto la commissione, che il

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prospettare l’ipotesi delittuosa come reato di pericolo poteva portare a

conseguenze non accettabili. A nostro avviso è meglio attenersi al reato

di danno. Ad ogni modo l’Assemblea è di fronte a vari testi i quali

mirano tutti ad uno stesso fine. Si deve scegliere anche su un altro punto,

che porta a diversità tra il testo governativo e gli emendamenti proposti:

il testo governativo parla di “stampati periodici, prevalentemente rivolti a

descrizioni, ecc.” ; parla di periodici e non di stampati in genere (e quindi

non anche dei libri che sono invece compresi nell’emendamento Moro), e

ne parla chiedendo proprio quella ripetizione, quella abitualità della

commissione del reato su cui ebbe ad insistere l’onorevole Schiavetti,

perchè noi ci preoccupiamo che non sia possibile imputare un giornale

semplicemente perchè ha pubblicato una fotografia, in occasione di un

crimine, che possa sembrare, agli occhi di lince di un procuratore della

Repubblica, particolarmente sensibile, orripilante o raccapricciante. La

possibilità di incriminare i singoli fatti sporadici, in questa materia, può

portare molto in là; può impedire molte volte o rendere particolarmente

disagevole il servizio della cronaca fotografica dei giornali”.

-GULLO FAUSTO:

“ Noi insistiamo perchè l’aggettivo “periodici” sia mantenuto, altrimenti

verrebbe meno la ragione che potrebbe dare una apparente giustificazione

alla norma.

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Che cosa vuole dire che sono puniti con una grave sanzione gli “stampati

rivolti a descrivere od illustrare ecc.?

Ma anche il libro viene ad essere compreso tra gli stampati. Noi

puniremmo il grande artista appunto perchè ha la colpa di descrivere con

maggior vivezza di immagini, meglio di quanto non sappia fare io od

altri, tutti i particolari di un delitto. A me pare pericolosa l’abolizione

dell’aggettivo “periodici” ed anche quella dell’avverbio

“prevalentemente”.

“...sono colpiti da questa sanzione anche i Promessi Sposi! “.

-MOLINELLI :

“ ...Togliendo questo carattere di periodicità dello stampato, noi diamo al

giudice la possibilità di colpire qualsiasi stampa, qualsiasi notizia di

cronaca. Se volete questo, votate per la soppressione della parola

periodici.”

-FABBRI:

“Dichiaro che voterò contro questa disposizione, la quale si riferisce

esclusivamente agli adulti; e voterò contro perchè la ritengo nettamente

anticostituzionale, in quanto con questa disposizione si può proibire agli

adulti, ad esempio, di leggere le novelle di Poe o i romanzi di

Dostojewski. Ritengo la disposizione nettamente contraria ai principi

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della Costituzione e noto che l’Assemblea, dopo aver fatto la

Costituzione, si avvia a violarla giorno per giorno.”8

In conclusione della discussione sulla norma che andrà poi ad essere

contenuta nell’articolo 15, ad essere accolte saranno le proposte

dell’onorevole Moro, anche se la storia dell'applicazione della norma

darà spesso conto delle ragioni dei suoi oppositori in aula.

PAR.4: CENNI SULLA APPLICAZIONE DELLA

NORMA NELLA STORIA REPUBBLICANA E

RAGIONI PER UN ATTUALE INTERESSAMENTO

L’articolo 15 ha avuto nel corso di tutti questi anni una applicazione

scarsa e sempre decrescente; infatti, se negli anni immediatamente

successivi al 1948 troviamo alcune sentenze che lo interessano, più ci si

allontana da questa data e più la norma risulta “meno vitale

nell’ordinamento”.

Questo fenomeno probabilmente si spiega con un duplice ordine di

considerazioni: da un lato la problematicità intrinseca della norma (a

riguardo, le considerazioni di Schiavetti riportate nel paragrafo

precedente furono premonitrici del destino della disposizione) e,

8 Tutti gli interventi sono stati tratti dalla Relazione della seduta di venerdì 16 gennaio 1948 della Assemblea

Costituente.

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dall’altro, un enorme sviluppo delle comunicazioni di massa, una società

sempre più basata sulle immagini e le la rapida circolazione delle

informazioni con una conseguente evoluzione del costume e del sentire

etico e morale, hanno fatto sì che questa perdesse d'interesse perchè

“scollegata dalla realtà”.

Allora quale è la ragione per occuparsi ancora dell’articolo 15?

Le ragioni sono più di una.

La norma, infatti, proteggendo il “comune sentimento della morale”, da

una parte impone riflessioni sui limiti e le modalità di tutela penale di una

certa tipologia di beni (i beni immateriali e collettivi), riflessioni che, a

loro volta, implicano il coinvolgimento di tematiche di importanza

centrale nel Diritto Penale che vale sempre la pena ridiscutere ed

approfondire, e, dall’altra, può costituire il punto di partenza per lo studio

di una normativa volta alla tutela di beni giuridici simili o analoghi, in

altri e diversi settori, come quello radiotelevisivo ed informatico.

Infine questo lavoro potrebbe costituire lo spunto per una

riconsiderazione dei “rapporti tra morale e diritto” ed una nuova analisi

della legittimità di una normativa di tipo penale a tutela di un bene così

“particolare” com'è la morale, analisi che, in una atmosfera di riscoperta

dei valori liberali quale oggi il nostro paese sembra stare vivendo, è forse

possibile compiere.

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Spiegate dunque le ragioni di un ancor vivo interesse per l’argomento, è

ora possibile proseguire nel suo approfondimento.

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PARTE PRIMA: ART.15 E PRINCIPI

COSTITUZIONALI

CAPITOLO 1

ART.15 E PRINCIPI COSTITUZIONALI DI DIRITTO

PENALE

PAR.1: I PRINCIPI COSTITUZIONALI INTERESSATI

1.1) LE PRINCIPALI QUESTIONI

L’art.15 della legge 8 febbraio 1948 n.47, recita: “Le disposizioni

dell’art.528 del codice penale si applicano anche nel caso di stampati i

quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o

raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto

immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale

o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o

delitti”.

La semplice lettura dell’articolo permette una immediata individuazione

dei beni giuridici da questo tutelati: 1)il comune sentimento della morale,

2)l’ordine familiare, 3)”la non diffusione di suicidi e delitti”.

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Sarà l’analisi di questi la linea guida dei primi due capitoli del presente

lavoro, analisi volta a vagliare la compatibilità della tutela penale di detti

beni con lo spirito ed i principi della Costituzione.

In questo paragrafo verranno trattati i principi di offensività,

determinatezza e colpevolezza limitatamente alla loro individuazione

concettuale e costituzionale, rinviando la questione della loro

compatibilità con l’art.15 al terzo paragrafo.

1.2) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI OFFENSIVITÀ

(LESIVITÀ) DEL REATO (NULLUM CRIMEN SINE INIURIA)

Il principio di offensività ha origini antiche, che possono esser fatte

risalire alle istanze giusnaturalistiche del diciottesimo secolo, grazie alle

quali ebbe inizio la secolarizzazione dello Stato e la differenziazzione tra

il reato, inteso come fatto lesivo di beni materiali, e il peccato, concepito

come condotta in contrasto con la legge divina, esauribile anche in un

mero atteggiamento interiore dello spirito.

Nel corso degli anni tale principio ha subito poi varie modificazioni ed

affinamenti, e soprattutto negli ultimi tempi, grazie agli sforzi della

dottrina, è stato forse raggiunto il traguardo più importante, e cioè quello

di riuscire ad “agganciare” il principio alle norme della Costituzione, così

“positivizzandolo” e al tempo stesso costituzionalizzandolo, in modo tale

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da renderlo possibile parametro di valutazione della legittimità delle

norme dell’ordinamento.

Il cominciamento di questa opera di “fondazione costituzionale” del

principio è dovuto in gran parte agli sforzi di Franco Bricola9 che ha

speso molta parte del suo grande impegno nel tentativo di una

rivisitazione-rifondazione del sistema penale in una prospettiva di

rispetto dei valori costituzionali, nel tentativo cioè di rimodellamento del

diritto penale secondo le norme fondanti dell’ordinamento, non intese

come semplici parametri di indirizzo per il legislatore, ma come veri e

propri vincoli all’attività legislativa, sostanzialmente limitata nei suoi

contenuti e modalità, a pena, secondo l’autore, di illegittimità

costituzionale della stessa.

Prima di vedere come la suddetta operazione di “aggancio costituzionale”

sia stata portata avanti dal Bricola e da altri giuristi, va perÒ chiarito un

possibile equivoco, anche se forse solamente terminologico.

Quello che si vuol evidenziare è la differenza sussistente tra il principio

di materialità e quello di offensività, che spesso si trovano

indifferentemente citati.

9 Bricola, Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it., Torino, 1973, vol.19, pg7 ss.; Legalità e crisi: art.25 Cost.

commi 2 e 3 rivisitati alla fine degli anni ’70, in Questione Criminale, 1980, pg204 ss.

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Il principio di materialità dell’illecito penale ha anch’esso fondamento

costituzionale e si pone come antecedente logico a quello di lesività, ma

non vi coincide, ne lo esaurisce.

È opinione ormai condivisa da gran parte della dottrina che con il sancire

che nessuno possa essere punito “se non per un fatto commesso”(art.25

Cost.), la Costituzione abbia fondato il sistema penale sul principio di

materialità, consentendo solo l’incriminazione di fatti materiali.

Questo principio però, pur costituendo una “garanzia contro la

possibilità di incriminazione per meri atteggiamenti interiori non

estrinsecatisi nel mondo esteriore e dunque non suscettibili di percezione

sensoria in quanto dotati di propria oggettiva corporeità”10 viene ad essere

svuotato della sua più piena forza garantista se non trova ulteriore

compimento nella formulazione del principio di offensività.

Per chiarire meglio tale problematica, è opportuno rifarsi ad un autore

particolarmente attento alle tematiche costituzionali del diritto penale:

Enzo Musco.

Questi così centra il cuore della questione: “la commissione di un fatto

quale condizione per poter essere sottoposti a pena, si ridurrebbe a ben

poca cosa se non si riuscisse a dimostrare che l’espressione “fatto” non

10

Mantovani, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Scritti in onore di Mortati, Milano,

1977.

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possiede il significato limitato di mero indice dell’atteggiamento interiore

del soggetto o della sua pericolosità, bensì il ben più pregnante

significato di fatto offensivo di un bene: un significato che, tra l’altro, sul

piano della colpevolezza, implica che potrebbe essere giustificata

esclusivamente una colpevolezza per il “fatto singolo”, il quale da solo

deve pure determinarne la misura. In termini ancora più chiari: poiché il

rimprovero espresso dal giudizio di colpevolezza contiene - e questo è

indiscutibile - il riferimento a un aspetto caratteriale, l’accontentarsi

semplicemente della commissione di un “fatto” farebbe presto

riacquistare al richiamo caratteriale crescente significato, di guisa che il

“fatto” acquisterebbe la sua dimensione come mero sintomo della

personalità del soggetto e sarebbe facilmente collocabile nell’ottica della

pericolosità che l’autore, quale potenziale violatore dell’ordinamento,

manifesta per la comunità sociale.

Il che comporterebbe che la tipizzazione per “fatti” del diritto penale

potrebbe in realtà risolversi - nonostante la presenza dell’art.25 comma 2

Cost .- in una tipizzazione per autori in cui la forma di vita di un

soggetto, contraria al diritto e rilevata sintomaticamente in un fatto,

determina la sua punibilità e la sua colpevolezza.

Al contrario, se un fatto rileva come espressione della violazione di un

bene giuridico, allora la colpevolezza non solo non assume il ruolo di

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elemento determinante il contenuto dell’illecito, ma, sganciata pure dal

riferimento alla personalità dell’autore, trova la sua misura nel disvalore

del singolo fatto concreto”11

.

Risulta quindi chiaro che il solo principio di materialità non garantisce

quanto quello di offensività, potendosi punire fatti inoffensivi (come il

pregare ad alta voce o il guidare senza cintura di sicurezza) nel pieno

rispetto di tale primo principio, ma non certo del secondo.

Essendo il principio di offensività ben più ampio (in senso garantista) di

quello di materialità, ci si è voluti quindi premunire contro ambiguità

letterali che possono nascondere errori concettuali.

Sgomberato il campo da questo possibile equivoco, si passa ora a meglio

determinare il significato e la funzione del principio di offensività, e in

ultimo, a cercarne le fondamenta costituzionali.

Secondo tale principio il reato deve sostanziarsi nell’offesa di un bene

giuridico, non essendo concepibile un reato senza offesa (nullum crimen

sine iniuria). Ciò significa che è la concreta offesa al bene giuridico

tutelato la misura dell’esistenza dell’illecito penale.

La funzione liberal-garantista di detto principio è di tutta evidenza:

nessuno può essere punito se la sua condotta non lede o mette in pericolo

11

Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, pg118.

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il bene protetto dalla norma. Questa concezione dell’illecito penale

propria, nel suo contenuto minimo, della cultura giuridica di tutti gli stati

liberal-democratici, si contrappone a quella della Scuola Positiva che, alla

fine dell’Ottocento, ideò un modello di reato di tipo soggettivistico-

sintomatico, dove la violazione della norma incriminatrice è innanzitutto

sintomo di pericolosità individuale, ed il reo, piuttosto che il fatto di

reato, è il vero oggetto dell’interesse penale. Tale ultima concezione si

realizzò nell’ordinamento della Germania Nazista, dove il reato venne

identificato nella violazione del dovere di ubbidienza del cittadino allo

Stato, cosa che invece non accadde in Italia, dove il codice Rocco, pur

risentendo l’influenza di un certo clima culturale, realizzò un modello di

reato fondato sulla commissione di un fatto concepito come offesa ad un

bene12 (anche se tale bene verrà spesso contenutizzato in modo da far

scemare fortemente la capacità garantista del principio, che, come

vedremo meglio in seguito, si realizza pienamente solo se coordinato ad

una particolare individuazione dei beni tutelabili dalla norma penale).

Nel dopoguerra il dibattito sulla offensività del reato si imperniò

soprattutto sulla ricerca di una norma di carattere generale che, in via

interpretativa, potesse dotare ogni fattispecie incriminatrice di un

12

In tal senso, fra tutti: Ramacci, Corso di diritto penale, vol.1, Torino, 1991; Angioni, Contenuto e funzione

del concetto di bene giuridico, Milano, 1983.

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ulteriore requisito, e cioè quello della concreta offesa del bene tutelato,

nel tentativo di trovare una soluzione giuridica alla esigenza culturale di

“evitare che norme incriminatrici generali ed astratte finiscano per essere

applicate anche a condotte che, nell’apparente conformità al modello

legale di un reato, tuttavia non abbiano il carattere di una aggressione

penalmente rilevante al bene tutelato”13

.

Un principio normativo adatto a tale scopo sembra già essere contenuto

nel codice Rocco, e precisamente nell’art.49 comma 2. L’articolo,

statuendo infatti la regola della necessaria idoneità dell’azione alla

realizzazione dell’evento dannoso o pericoloso ai fini della punibilità

della stessa, conterrebbe il principio di lesività.14

Però, “I persistenti contrasti nell’interpretazione dell’articolo pongono

comunque il problema di una più appropriata collocazione e

formulazione del principio. La lettura dell’art.49 finisce per dipendere

essenzialmente dalla concezione dell’evento a cui si richiama: con la

conseguenza che, essendo oggi prevalente in dottrina nella lettura di

questo articolo la nozione di evento in senso materiale, la figura del reato

impossibile (così come anche la categoria concettuale degli atti inidonei

13

Fiore, Principio di tipicità e concezione realistica del reato, in Problemi generali di diritto penale:

contributo alla riforma, Milano, 1982, pg58.

14 Sul punto: Neppi Modona, Il reato impossibile, Milano, 1965.

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dell’art.56, a cui qualche autore si rifà per dimostrare la positività del

principio in questione) viene interpretata in chiave di causalità materiale.

Ma la casistica di reati più significativa in argomento è senza dubbio

costituita dalle ipotesi in cui non si pongono questioni di causalità

materiale!”15

Comunque il problema non è semplicemente risolvibile né in via

interpretativa, cioè sostituendo alla nozione di evento materiale quella di

evento giuridico nell’interpretazione dell’art.49, né riformando l’art.1 del

c.p. esplicitandovi con massima chiarezza il principio (nella Conferenza

dei docenti di diritto penale, tenutasi a Napoli il 15-16 luglio 1979, fu

proposto di modificare l’art.1 del c.p. come segue: ”Nessuno può essere

punito per un fatto che non sia previsto come reato dalla legge e che non

sia conforme al tipo di condotta descritto dalla norma incriminatrice. È

conforme al tipo solo la condotta che lede o mette in pericolo il bene

protetto dalla norma con la minaccia della pena”).

Infatti ”è comunque incontestabile che il principio di offensività non si

attua semplicemente inserendo una disposizione generale (e tanto meno

adottando una particolare interpretazione dell’art.49, N.d.R.) che sancisca

espressamente la non punibilità del fatto non offensivo dell’interesse

15

Fiore, Principio di tipicità e concezione realistica del reato, in Problemi generali di diritto penale,

Milano,1982, pg59.

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protetto dalla norma. Essa infatti non indica gli interessi specificatamente

tutelati dalle singole norme; né può munire di un oggetto giuridico e di

una offesa la serie di reati senza offesa o di puro scopo. Sicché in questi

casi o si finisce per far coincidere l’offesa con la fattispecie legale,

svuotando il principio di lesività, oppure la si ricerca fuori dalla norma

violando il principio di legalità”16

. Quest’ultima preoccupazione bene è

espressa dal Nuvolone, timoroso che si giunga attraverso una lettura

“eccessiva” dell’art.49 comma 2 ad introdurre nel sistema penale un

parametro variabile ed esterno rispetto alla fattispecie tipica che ne possa

condizionare in concreto la portata applicativa, concretizzando così il

rischio che il principio di legalità e la certezza del diritto non risultino più

ancorati alla legge, ma a valori sostanziali immanenti alla società e da

questa ricavabili dai giudici sulla scorta di criteri inevitabilmente

soggettivi e non verificabili.17

Entrambe le soluzioni hanno poi il “limite” di rendere il principio

applicabile solo in sede giurisdizionale, ma non come criterio limitativo

dell’area di intervento del legislatore penale.

Due quindi le strade rimaste percorribili: o una riforma della legislazione

penale di parte speciale in modo da attuare il principio di offensività nel

16

Mantovani, Il problema della offensività del reato nelle prospettive di riforma del codice penale, in

Problemi generali di diritto penale: contributo alla riforma, Milano, 1982, pg66.

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rispetto di quello di legalità, e cioè tipizzando l’offesa, prevedendola

come elemento costitutivo della tipicità di ogni singolo reato (soluzione

massimamente auspicabile), oppure verificare la fondatezza

costituzionale del principio di offensività e “trarne le conseguenze” sulla

legislazione penale ordinaria.

La seconda strada è quella che qui interessa.

Per un tentativo di ricerca del principio di offensività nella Costituzione è

allora anzitutto opportuno rifarsi allo studio delle tesi in merito proposte

dal Bricola.

L’autore sostiene la avvenuta costituzionalizzazione del principio di

offensività principalmente attraverso la lettura degli art.25-27 Cost.

Sulla base dell’art.27 comma 3 Cost. che assegna una duplice funzione

alla pena, e dell’art.25 Cost. che legittima la distinzione tra pena in senso

stretto e misura di sicurezza, sarebbe possibile sostenere la

costituzionalizzazione del contenuto necessariamente lesivo dell’illecito

penale: “Per evitare che la pena assuma una funzione di mera

retribuzione (con repressione della pura disobbedienza) o di mera

rieducazione (con repressione di meri stati soggettivi o atteggiamenti

personali sintomatici di pericolosità e con conseguente invasione della

sfera di operatività propria delle misure di sicurezza), l’equilibrio delle

17

Nuvolone, Le leggi penali e la Costituzione, Milano, 1953.

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due funzioni deve avvenire radicando l’incriminazione su di un fatto

offensivo (espressione comprensiva sia della lesione che della messa in

pericolo) dell’interesse tutelato.”18

Inoltre, altri argomenti di carattere sistematico vengono portati dal

Bricola a suffragio di tale tesi:

1) L’art.25 Cost. con la espressione “fatto” non può che intendere “fatto

lesivo di un bene”.

2) La incompatibilità del principio di libertà morale implicito nella

Costituzione con la concezione del reato come mera disubbidienza.

3) Il divieto di strumentalizzare l’uomo ai fini di politica criminale19,

che è il principio ispiratore dell’art.27 Cost., e che rafforza il principio

di necessaria lesività.

4) I principi di indubbio rilievo costituzionale quali sono quelli della

tolleranza ideologica, di tutela delle minoranze e di protezione della

persona, che non possono non essere in antitesi con una concezione

del reato che trascuri il momento della effettività della lesione

dell’interesse protetto.20

18

Bricola, Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it., Torino, 1973, par.9, pg68 ss.

19 In argomento, in particolare: Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974; Spasari, Diritto

penale e Costituzione, Milano, 1966.

20 I punti 1)2)3)4) sono tratti da: Bricola, ult.op.cit., par.9.

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Oltre al Bricola altri autori hanno fornito importanti contributi in

argomento, ma, per ragioni di brevità, riportiamo solo il pensiero di un

altro grande penalista, che ha scritto importanti considerazioni in merito:

Enzo Musco21.

L’autore, chiarisce la necessità e la legittimità di leggere la parola fatto

contenuta nell’art.25 Cost. come “fatto offensivo di beni giuridici”

fondando tale lettura (anche) sull’art.3 Cost.: “Il principio costituzionale

del rispetto della dignità umana (art.3 Cost.) giustifica solo un diritto

penale del fatto come diritto penale del bene: esso, infatti, vietando la

degradazione dell’uomo a mero oggetto, vieta al tempo stesso di

considerare il fatto come mero indizio sintomatico della personalità o

come mero indizio prognostico della pericolosità del soggetto. Il che

significa che il nesso tra soggetto e fatto non può esser visto che come

espressione di un giudizio sulla lesione del bene, che inerisce al fatto

medesimo. Il divieto di strumentalizzazione dell’uomo (art.3 Cost.)

implica che il rapporto tra soggetto e fatto si colori del significato che

appartiene al bene leso dal fatto.”22

(Musco aggancia il principio anche

all’art.27 Cost., ma, per ragioni sistematiche, rimandiamo tale trattazione

al paragrafo 2 di questo capitolo).

21

Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974.

22 Musco, ult.op.cit.

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Comunque oggi la maggioranza della dottrina italiana, anche se non

uniforme sulla valutazione delle conseguenze pratiche della

costituzionalizzazione di tale principio, in ciò perfettamente seguita con

ambiguità ed incertezze dalla Corte Costituzionale,23 ritiene valido il

modello di reato come offesa di beni giuridici.

Quello su cui le posizioni sono ancora fortemente divise è la questione

(strettamente connessa a quella della offensività del reato) dei contenuti

delle norme incriminatrici, della selezione, vincolata o meno per il

legislatore, dei beni giuridici tutelabili da norme penali.

Come autorevolmente sostenuto in dottrina, “La possibilità di procedere

ad una verifica della concreta idoneità aggressiva della condotta

criminosa dipende anche dalla natura dello stesso bene oggetto di

protezione”24, e “La prova della pericolosità del fatto presuppone, per

essere attendibilmente addotta, che la fattispecie sia diretta alla tutela di

oggetti concretamente determinati, sicché caso per caso si possa stabilire

con certezza se essi sono stati effettivamente messi in pericolo.”25

23

C.Cost., sent.n. 62\1986, n.296\1996.

24 Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Riv.it., 1982,

pg79. In tal senso anche: Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983;

Palazzo, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in Riv.it., 1992.

25 Vedere nota precedente.

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Pur se necessarie per una visione di insieme della problematica della

offensività, le questioni del possibile contenuto dell’offesa e della natura

dei beni tutelati dalle norme penali verranno però per ragioni

sistematiche successivamente trattate.

1.3) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI DETERMINATEZZA

(NULLUM CRIMEN SINE LEGE CERTA)

Altro principio di matrice liberale a finalità garantiste è quello che,

ancora rischiando confusioni terminologico-concettuali, è spesso

chiamato indifferentemente di determinatezza o tassatività della

fattispecie penale.

Sembra invece ancora una volta doveroso distinguere concettualmente tra

determinatezza e tassatività (i due principi devono concepirsi separati dal

punto di vista logico, essendo ipotizzabile un sistema in cui viga quello di

determinatezza ma sia al tempo stesso consentita l’analogia, e quindi

violato quello di tassatività), e per fare ciò si cita il Padovani, che con

molta chiarezza e semplicità spiega: “La determinatezza si proietta

all’interno della fattispecie, vincolandone il modo di formulazione

legislativa, mentre la tassatività costituisce lo sbarramento esterno della

fattispecie stessa, impedendo che essa possa essere riferita ad ipotesi non

ricomprese nella sua dimensione normativa astratta. La determinatezza

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impone quindi al legislatore di procedere alla redazione di precetti penali

dal contenuto precisamente definito; la tassatività preclude al giudice di

estendere per analogia la loro applicazione.”26

I due principi pur avendo la stessa finalità garantista operano in modi

differenti.

Il principio di determinatezza impone al legislatore di formulare la

fattispecie in modo preciso ed univoco, così da permettere di individuare

con certezza la linea di confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è,

mentre quello di tassatività si rivolge al giudice, impedendogli di

estendere la fattispecie a casi non astrattamente rientranti nella norma

(divieto di analogia).

Entrambi costituiscono il completamento del principio di legalità nella

sua funzione garantista27, ma non possono in questo essere compresi.

Infatti, come scrive il Bricola, “La tendenza a riassorbire l’esigenza di

tassatività nella riserva di legge sotto l’ampia formula di “legalità” non è

un procedimento corretto in quanto confonde un problema di fonti in

senso tecnico, cui attiene la riserva, con un problema di formulazione

delle norme in modo tale da impedire, attraverso i varchi delle clausole

26

Padovani T., Diritto penale (Manuale di), seconda edizione, Milano, 19993, pg30.

27 In particolare, in argomento: Spasari, Diritto penale e Costituzione, 1966, pg25 ss.

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generali, interventi del potere giudiziario.”28

L’esigenza specifica del

principio di determinatezza-tassatività è quella di contrastare possibili

arbitri del potere giudiziario, mentre la riserva di legge (principio di

legalità in senso stretto) intende impedire interferenze normative in

materia penale da parte del potere esecutivo.

Per concludere, il principio di tassatività obbliga il legislatore alla precisa

individuazione ed indicazione della linea di confine tra il lecito e

l’illecito nel precetto penale, così garantendo la possibilità-libertà di

scelta cosciente del rispetto o del non rispetto delle norme ai di queste

destinatari.

Precisato ciò, indicati per quanto qui possibile ed opportuno il contenuto

generale del principio e la sua funzione, si procede alla individuazione

delle norme costituzionali poste a suo fondamento.

Presupposto che l’art.1 c.p. “contenga” il principio di determinatezza

prevedendo che “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia

espressamente preveduto dalla legge come reato” (così come l’art.14

disp.prel.c.c. dichiarando che “Le leggi penali e quelle che fanno

eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i

28

Bricola, Art.25 Cost. comma 2 e 3, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Artt.24-26

Cost.: Rapporti civili, Bologna-Roma, 1981, pg232.

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tempi in esse considerati” fa con quello di tassatività)29, ci si è domandati

se tale principio fosse anche oggetto di previsione costituzionale e

dunque tale da limitare la libertà del legislatore nella creazione di norme

a pena di declaratoria di incostituzionalità delle stesse.

Inizialmente la dottrina ha tentato di trovare base costituzionale alla

esigenza di determinatezza attraverso la sola lettura dell’art.25 comma 2

Cost., richiamandosi alla ratio complessiva di tutela dell’articolo e alla

complementarietà ed inscindibilità del principio di determinatezza con

quello di legalità (questo di certo rango costituzionale). Questi argomenti

risultano però deboli sotto il profilo logico, essendo perfettamente

ipotizzabile la non contemporanea vigenza dei due principi, ed è dunque

mal riuscito il tentativo di lettura del principio nel solo art.25 Cost.

Successivamente a risultati migliori, tanto da essere oggi del tutto

condivisi in dottrina e giurisprudenza, è arrivata quella parte della

dottrina che ha tentato di costituzionalizzare il principio attraverso una

lettura integrata di più articoli della Costituzione.

Il primo passo verso tale direzione lo si è compiuto attraverso una

interpretazione collegata dell’art.25 Cost. e dell’art.13 Cost., nella parte

che così dispone: “non è ammessa alcuna forma di detenzione, di

ispezione o di perquisizione personale, né qualsiasi altra limitazione della

29

Interessante in argomento: Spasari, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pg25 ss.

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libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei

soli casi e modi descritti dalla legge”. Questa norma ha carattere

sicuramente processuale, riferendosi a misure cautelari disposte nel corso

di procedimenti penali, e con riguardo a queste misure, che sono per

definizione funzionalmente coordinate alla decisione processuale

definitiva, espressamente salvaguarda il principio di riserva di legge e di

determinatezza della fattispecie. Da ciò si può validamente argomentare

che sarebbe assurdo ritenere la determinatezza tutelata in sede cautelare e

non in sede definitiva, nella costruzione della fattispecie incriminatrice.

Inoltre, essendo le misure cautelari adottabili solo ove sussista un fondato

motivo di ritenere commesso un fatto di reato da accertarsi in relazione

alla fattispecie normativa, o si estende la vigenza del principio di

determinatezza anche al momento della normogenesi o inevitabilmente lo

si frustra anche in fase cautelare.30

Altro articolo correlato all’art.25 Cost. è l’art.112 Cost.

Questo prevedendo che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare

l’azione penale” risulterebbe molto indebolito da un sistema non

conforme al principio di determinatezza; infatti norme vaghe e dai

30

In argomento, fra tutti: Bricola, Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it., Torino, 1973, vol.19, par.5;

Bricola, Art.25 comma 2 e 3, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Artt.24-26 Cost.:

Rapporti civili, Bologna-Roma, 1981, pg257 ss. Sul punto anche: Spasari, Diritto penale e Costituzione,

Milano, 1966, pg29-30; Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, pg112 ss.

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contenuti indeterminati non costituirebbero valido metro di verifica

dell’adempimento di tale obbligo.31

IL diritto di difesa costituzionalmente garantito (art.24 comma 2 Cost.:

”La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”)

risulterebbe anch’esso non efficacemente attuato se non in correlazione

con quello di determinatezza, esigendo il primo che all’imputato siano

contestati in modo preciso sia i fatti sia la norma violata, ed essendo ciò

possibile solo se questa è formulata nel rispetto del secondo.32

Infine anche il principio di colpevolezza (art.27 Cost.) si realizza

integralmente solo se affiancato a quello di determinatezza,

presupponendo il primo la esigenza di conoscibilità (in senso lato) della

norma penale pienamente realizzabile solo da norme non equivoche ed

indeterminate, e cioè strutturate secondo il principio di determinatezza.33

Quale sia la strada preferita per “leggere nella Costituzione” il principio

di determinatezza, questo è oggi ritenuto di rango costituzionale e dalla

dottrina dominante e dalla giurisprudenza costituzionale, anche se la sua

pratica applicazione da parte della Corte Costituzionale è troppo spesso

incerta ed ambigua.34

31

Bricola, ult.op.cit.

32 Bricola, ult.op.cit.

33 Bricola, ult.op.cit.

34 Una tra tutte: C.Cost., sent.n.191\1970 (riguardo gli art.527-528 c.p.).

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1.4) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI COLPEVOLEZZA

(NULLUM CRIMEN SINE CULPA)

La dottrina e la giurisprudenza hanno da sempre molto spesso usato il

termine colpevolezza in una accezione del tutto aspecifica e generica, a

significare di volta in volta l’elemento soggettivo del reato, la presenza di

dolo o di colpa, la imputabilità, la suitas della condotta (etc.).

Questo uso ambiguo del termine nasconde la grande complessità

dell’argomento a cui il vocabolo si riferisce; il tema della colpevolezza è

infatti al tempo stesso influenzato da e influente su una pluralità di

importanti questioni dogmatiche che tutte in qualche modo vi si

incontrano ed intrecciano.

Del principio la dottrina ha formulato diverse costruzioni e la

giurisprudenza indicato varie possibilità interpretative, ma di queste noi

qui non ci interesseremo, così come non tratteremo delle sue origini

storiche e della sua più recente evoluzione.

La notevolissima complessità dell’argomento in questione ci impone

infatti di restringere il più possibile il campo di indagine, che sarà quindi

limitato al parziale commento della sentenza n.364\1988 della Corte

Costituzionale, esclusivamente per quanto ci interessa ai fini dell’art.15.

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La sent.364\88 è spesso stata definita “storica”, perchè momento di

riconoscimento del principio di colpevolezza da parte della Corte

Costituzionale, principio invece fino ad allora soprattutto approfondito a

livello dottrinale35

e solo parzialmente assimilato dalla Corte.

Nella motivazione la Corte anzitutto spiega come il termine viene preso

in considerazione “fuori dalla sistematica degli elementi del reato”, e che

invece lo è come “principio costituzionale, garantista, in base al quale si

pone un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario

nell’incriminazione di fatti penalmente sanzionabili, nel senso che

vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti minimi

d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può

legittimamente essere sottoposto a pena.”36

Il principio viene fondato sulla lettura integrata di più articoli della

Costituzione (art.27 comma 1 e 3, art.2, art.3, art.25 e art.73 comma3),

ma espressamente viene precisato che anche se “l’integrale contenuto

dell’art.27 Cost. deve essere svelato anche in base alla sua interpretazione

sistematica, ciò nulla toglie od aggiunge al contenuto stesso”37

, chiarendo

35

Fra tutti: Bricola, voce Teoria generale del reato, par.8, pg51 ss., in Nss.Dig.it., vol.19, Torino, 1973;

Pulitanò, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, pg123 ss. Fra gli altri, in particolare: Spasari,

Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pg53 ss.; Bettiol, Diritto penale, Padova, 1982, pg36 ss.

36 C.Cost., sent.364\1988, in Riv.it.dir.e proc.pen, 1988, pg698.

37 C.Cost., sent.364\88, pg718.

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in questo modo come il principio possa ben essere individuato non nel

generico riferimento allo spirito della Costituzione, ma in relazione ad

uno specifica norma costituzionale contenuta in un ben determinato

articolo.

Così poi la Corte legge l’art.27 Cost.: “L’art.27 Cost. non può essere

adeguatamente compreso ove lo si legga in maniera, per così dire,

spezzettata, senza collegamenti “interni”. I commi primo e terzo vanno

letti in stretto collegamento: essi, infatti, pur enunciando distinti principi,

costituiscono un’unitaria presa di posizione in relazione ai requisiti

subiettivi minimi che il reato deve possedere perchè abbiano significato

gli scopi di politica criminale enunciati, particolarmente nel terzo

comma. Delle due l’una: o il primo è in palese contraddizione con il terzo

comma dell’art.27 Cost. oppure è, appunto, questo ultimo comma che

svela, ove ve ne fosse bisogno, l’esatto significato e la precisa portata che

il principio della personalità della responsabilità penale assume nella

Costituzione. Sicché, quand’anche la lettura del primo comma dell’art.27

Cost. desse luogo a dubbi interpretativi, essi sarebbero certamente fugati

da un’attenta considerazione delle finalità della pena, di cui al terzo

comma dello stesso articolo.”38

38

C.Cost., sent.364\88, pg700.

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La Corte inequivocabilmente dà così fondamento costituzionale al

principio di colpevolezza, e ne individua poi due dei possibili “aspetti”,

indicandoli come “requisiti costituzionali minimi di imputazione

soggettiva”: 1) “L’art.27 Cost. postula almeno la colpa dell’agente in

relazione agli elementi più significativi della fattispecie

tipica”39

(Condizioni relative al rapporto soggetto-fatto); 2) “L’oggettiva

impossibilità di conoscenza del precetto nella quale venga a trovarsi

chiunque, non può gravare sul cittadino e costituisce, dunque, un altro

limite della personale responsabilità penale.”40

(Principio di

riconoscibilità del precetto).

La Corte quindi espressamente afferma il Principio di riconoscibilità,

secondo il quale “in tanto i cittadini sono obbligati a osservare le leggi

penali, in quanto lo Stato adempia preventivamente il suo dovere di

formulare le fattispecie incriminatrici in maniera così chiara e precisa da

rendere riconoscibile il contenuto dei doveri e dei comandi penalmente

sanzionati.”41

Insomma, “la possibilità di conoscere la norma penale costituisce

autonomo requisito della colpevolezza con riferimento a ogni fattispecie

39

C.Cost., sent.364\88, pg706.

40 C.Cost., sent.364\88, pg715.

41 Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza della legge penale: “prima lettura” della sentenza

n.364\88, in Foro it., 1988, 1, pg1390.

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46

penale”42

, ed essendo “La colpevolezza consapevole abuso di libertà”43,

tale “possibilità-libertà” diviene parametro di legittimità costituzionale

della norme penali.

Tra i criteri di individuazione della inevitabilità dell’ignoranza della

legge penale (altra faccia del criterio di riconoscibilità) viene

espressamente menzionato dalla sentenza “la mancanza di riconoscibilità

della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo

legislativo)”44

, e, come vedremo nel secondo e nel terzo capitolo, la

inafferrabilità dei beni tutelati dall’art.15 e l’uso che l’articolo fa dei

termini “impressionante” e “raccapricciante” sembrano ragioni sufficienti

perchè di tale mancanza di riconoscibilità si possa parlare.

1.5) CONCLUSIONI

Per quanto brevemente accennato in questo paragrafo, i principi di

offensività, determinatezza, e colpevolezza devono essere considerati

principi cardine del sistema penale italiano, beni-valori a fondamento

costituzionale strumentali alla tutela della libertà e della dignità della

persona, il cui sacrificio (o in prospettiva inversa, grado di

42

Fiandaca, ult.op.cit., pg1390.

43 Spasari, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pg71.

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massimizzazione) deve essere valutato in base a parametri costituzionali

di comparazione di interessi.

PAR.2: TEMATICA DEL BENE GIURIDICO E SUA

FUNZIONE LIBERAL-GARANTISTA

Quando agli inizi del diciannovesimo secolo Anselmo Feuerbach propose

la definizione di reato come “violazione di un diritto soggettivo”, il suo

intento fu quello di delimitare concettualmente l’area di possibile

intervento del diritto penale, di trovare un valido parametro limitativo

all’utilizzo di norme privative di un bene fondamentale quale è la libertà

personale.

Qualche anno più tardi il Birnbaum definì il reato come “violazione di un

bene pre-esistente alla norma penale”; insomma la tematica del bene

giuridico come limite al potere punitivo dello Stato attraverso l’uso

indiscriminato degli strumenti penali stava cominciando a prendere

forma, si stavano cioè lentamente cercando gli strumenti giuridici per

tradurre negli ordinamenti giuridici quelle idee liberal-illuministe che in

campo politico si erano andate diffondendo in Europa.

44

C.Cost., sent.364\88, pg.728.

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Altri grandi pensatori come Carrara e Von Liszt tentarono di individuare

e definire il concetto di bene giuridico e di esaltarne la “funzione critica”,

cioè di limite alla potestà punitiva statale.

Tutte le diverse concettualizzazioni del bene giuridico presentavano però

lo stesso difetto: in primo luogo, la pre-esistenza del bene giuridico era

intesa o in modo strettamente material-naturalistico (cioè bene come

entità materiale e concreta, naturalisticamente violabile), e quindi

inadeguata perchè troppo limitativa del concetto di bene tutelabile, o in

senso talmente vago ed indefinito da risultare inutilizzabile, ed in

secondo luogo il bene giuridico era una entità metapositiva, e dunque non

vincolante per il legislatore a livello normativo.

Successivamente il concetto di bene giuridico perse la sua aspirazione

garantista, prima appiattito sulla ratio della norma secondo le concezioni

di Arturo Rocco e di Schwinge, per poi “sparire di scena” quando nelle

teorizzazioni dei giuristi dell’indirizzo di Kiel il reato venne definito

come mera violazione di un obbligo di fedeltà verso lo Stato.

Più di recente, intorno agli anni settanta, si è assistito ad una

rivalutazione del concetto di bene giuridico che, cominciata in Germania

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49

sulla questione dei reati contro la morale e la religione, è stata recepita

anche in Italia e proseguita in modo autonomo.45

Il concetto di bene giuridico nella sua funzione critica (cioè di limite al

potere, e dunque in quella che si può anche definire funzione liberale,

essendo il Liberalismo definito da uno dei suoi più grandi esponenti, Karl

R. Popper, come la “Dottrina dei limiti al potere”46) scopre forza e

possibilità di immediata applicazione quando, non agganciandosi più a

concetti metapositivi e di Diritto Naturale, trova un punto di appoggio

nella Costituzione, norma suprema e vincolante per lo stesso legislatore.

Quello che ci si accinge ora ad intraprendere è dunque lo studio dei

rapporti tra la Costituzione e politica legislativa dei beni giuridici, ed in

particolare il problema del se il legislatore trovi nella Grundnorm, nella

serie di beni in essa compresi, la cornice entro la quale selezionare i beni

meritevoli e bisognosi di tutela penale (la questione dei divieti

costituzionali di incriminazione in relazione ai diritti di libertà

costituzionalmente garantiti verrà affrontata nel prossimo capitolo,

mentre quella degli obblighi costituzionali di incriminazione non verrà

trattata perchè non strettamente pertinente).

45

Sull’argomento, tra tutti: Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983;

Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974; Ramacci, Corso di diritto penale, vol.1, Torino,

1991.

46 Popper, Cattiva maestra televisione, Ed. Reset, 1994.

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50

A tale proposito è indispensabile rifarsi alle teorie del Bricola, perchè è

principalmente attorno a queste che il dibattito si è andato sviluppando.

Secondo Bricola: “L’art.13 Cost. attribuisce un valore del tutto

preminente alla libertà personale e dal quale si ricava che la sanzione

penale (tipicamente restrittiva di quel bene) può essere adottata soltanto

in violazione di un bene il quale se non di pari grado rispetto al valore

(libertà personale) sacrificato, sia almeno dotato di rilevanza

costituzionale.”47 “La locuzione rilevanza costituzionale non significa

soltanto non antiteticità del bene rispetto alla Costituzione, bensì

assunzione del medesimo tra i valori esplicitamente o implicitamente

garantiti dalla Costituzione. Da queste premesse discendono alcune

conseguenze di rilievo. Anzitutto la definizione di reato come fatto lesivo

di un valore significativo a livello costituzionale e la cui significatività

deve riflettersi sulla misura della pena. In secondo luogo la norma penale

non può mai creare interessi, ma può solo ritagliare e specificare, senza

snaturarli, i valori già previsti dalla Costituzione. In terzo luogo,

consegue dall’assunto la necessaria dichiarazione di illegittimità da parte

della Corte Costituzionale di quelle norme penali che tutelano valori

diversi da quelli sopra indicati ovvero la depenalizzazione in via

47

Bricola, Art.25 Cost. comma2 e 3, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Artt.24-26

Cost.: Rapporti civili, Bologna-Roma, 1981, pg272-273.

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legislativa delle relative fattispecie criminose. In quarto luogo ne deriva

un dovere per il legislatore di scegliere il tipo di pena e di graduarne la

misura in rapporto al grado di importanza dei valori tutelati secondo una

gerarchia desumibile, anche se non sempre agevolmente, dalla

Costituzione.”48

(Principio di proporzionatezza dell’an e del quantum,

N.d.R.).

Tale teoria è stata poi validamente “integrata” dalle riflessioni di Enzo

Musco: “La Costituzione assume per il problema penale la decisiva

funzione di indicare i valori che possono essere protetti con minaccia di

pena. Ciononostante, la tesi (del Bricola, N.d.R.) non ci sembra sia in

grado di dare la risposta definitiva al nostro quesito iniziale (quali siano i

criteri di selezione dei beni tutelabili N.d.R.) e rimane anch’essa, pur se

in un diverso senso, nel vago. Nessuna indicazione ci viene infatti fornita

sulla natura, sul carattere, sul “volto” del bene giuridico da proteggere

penalmente. Tale ulteriore passaggio ci sembra invece assolutamente

indispensabile: in primo luogo, perchè la Costituzione non contiene un

catalogo di beni di pari rango; ed in secondo luogo, perchè occorre

individuare tra le scelte fondamentali relative ai problemi di

organizzazione della struttura sociale contenute nella Costituzione, quelle

che meritano di essere tutelate penalmente. Più chiaramente: la

48

Bricola, ult.op.cit., pg274.

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“significatività” del valore costituzionale (a cui accenna Bricola, N.d.R.)

non è sufficiente a dare un contenuto, un positivo criterio discretivo tra

ciò che è meritevole di pena e ciò che non lo è, poiché non riesce a

delineare i contorni del bene giuridico.” 49

Quello che Musco cerca nella Costituzione è “un principio costituzionale

dal quale possano dedursi i contenuti tipici dell’illecito penale e di

conseguenza i limiti di legittimità dell’intervento del legislatore in

materia penale.”50

Così l’autore individua tale criterio: “La nostra Costituzione ha formulato

un tale principio quando, prendendo posizione sulla funzione della pena

(art.27 comma 3 Cost.), ha dichiarato che “le pene (...) devono tendere

alla rieducazione del condannato.” Proprio da tale disposizione si

ricavano le necessarie indicazioni che consentono di ricavare il contenuto

del bene giuridico, evitando che il ricorso alla Costituzione, a causa della

polivalenza di contenuto delle singole disposizioni costituzionali, a volte

vere e proprie clausole generali, si risolva nel nulla.”51

“Il collegamento con la funzione della pena lascia emergere una

indicazione sull’identità del bene giuridico. Se la pena deve risocializzare

(o per usare il linguaggio legislativo: rieducare) e se la rieducazione deve

49

Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, pg123.

50 Musco E., ult.op.cit, pg124.

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mutuare il suo contenuto dal tipo di ordinamento in cui è inserita, in una

società pluralistica così come delineata dalla Costituzione, essa ha senso

in quanto assuma a suo oggetto il rispetto delle forme minime della vita

in comune. Ciò presuppone che gli eventuali destinatari della

risocializzazione possano intendere facilmente i valori che costituiscano

per “tutti” le condizioni minime di esistenza in comune, perchè altrimenti

non potrebbe essere pretesa una loro acquisizione di valori in caso di

trasgressione: l’art.27 comma 3 Cost. pone allora al legislatore ordinario

penale un primo limite nella necessità che sia arrecato un pregiudizio, un

danno alle condizioni essenziali della vita in comune. Risulta così

confermato che non tutti i valori contenuti nella Costituzione possono

aspirare ad essere considerati quali beni giuridici e a divenire l’oggetto di

una fattispecie penale: ne consegue che è costituzionalmente conforme

solo quella previsione di reato posta a tutela di valori, la cui funzione

consiste nel proteggere le condizioni minime della vita in comune e la cui

violazione può dunque essere tradotta in termini di dannosità sociale.

Accanto a questa prima, importante indicazione, l’art.27 comma 3 Cost.

lascia emergere un secondo limite ed una seconda indicazione sulla

struttura del bene giuridico: la funzione di risocializzazione non postula

affatto l’idea che i beni siano percepibili con i sensi, ma pretende invece

51

Musco, ult.op.cit., pg125.

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che abbiano contorni concettuali definiti ed afferrabili, esige cioè che

siano chiaramente percepibili con l’intelletto e che non sfumino

concettualmente: come ad esempio nel caso del sentimento religioso o

della sensibilità morale della collettività. Se la pena deve risocializzare,

essa può svolgere effettivamente la sua funzione ed essere legittimamente

applicata solo quando sia chiaro ed evidente il valore leso preso di mira

dal comportamento del soggetto.”52

Quindi così Musco conclude: “Beni giuridici possibili oggetti di

protezione penale sono quei valori concettualmente afferrabili, di diretta

o mediata provenienza costituzionale, che servono ad assicurare le

condizioni essenziali della vita in comune.”53

Queste tesi non sono però state però pienamente accolte né dalla Corte

Costituzionale né dalla dottrina prevalente.

La Corte, come sottolinea lo stesso Bricola, si è sempre “astenuta dal

sindacare, salvo il limite della incompatibilità, l’oggetto prescelto di

tutela”54

, ed ha affermato che “la Costituzione ha sì posto il principio

della più stretta riserva di legge in materia penale, ma in nessun modo ha

vincolato il legislatore al perseguimento di specifici interessi”55

, e la

52

Musco, ult.op.cit., pg126-127.

53 Musco, ult.op.cit., pg130.

54 Bricola, ult.op.cit., pg282.

55 C.Cost., 5 giugno 1978, n.71, in Giur.cost., 1978, 1, pg602.

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dottrina ha contestato l’idoneità dell’art.13 Cost. ad imporre limiti alla

discrezionalità del legislatore56

, attaccato la tesi di Musco sulle “forme

minime di vita in comune” accusandola di essere affetta dal vizio logico

della petitio principii57

, e dichiarato la impossibilità di distinzione tra

beni impliciti e non, e tra beni di primo e secondo piano58

, concludendo

quindi per la non limitazione del legislatore nella selezione dei beni

tutelati da norme penali.59

La soluzione minima oggi prevalente in dottrina e in giurisprudenza

costituzionale prevede insomma che solo le norme penali poste a presidio

di beni incompatibili con la Costituzione possano essere dichiarate

illegittime costituzionalmente, e che il legislatore ordinario non sia

altrimenti vincolato dalla Costituzione nella scelta dei beni tutelabili

penalmente.

La soluzione minima ha le sue più fondate ragioni nella effettiva

difficoltà di individuare nella Costituzione parametri certi di inclusione-

56

Pagliaro, Manuale, ult. ed., pg225.; Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di

politica criminale, in Riv.it., 1982, pg49 ss.

57 Fiandaca, ult.op.cit., pg56-57.

58 Vedere nota successiva.

59 In tal senso, Marinucci e Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv.it., 1994; Nuvolone, La

problematica penale della Costituzione, in Scritti in onore di Mortati; Mantovani, Manuale, ult.ed.; Fiandaca

e Musco, Manuale, ult.ed.; Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica

criminale, in Riv.it., 1982; Pagliaro, Manuale, ult.ed.

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esclusione e di gerarchia dei valori, ma quello che è interessante per noi

sottolineare è che il principio-criterio della afferrabilità non è “affetto da

tali problemi”, e sembra quindi adatto a costituire un valido criterio

selettivo di costituzionalità di beni penalmente tutelabili, criterio di

portata molto più limitata rispetto a quei criteri selettivi ricercati dagli

autori60

più interessati alla soluzione massima, oggi solo accettati quali

modelli di orientamento di politica criminale.61

Il criterio di afferrabilità non pretende di fornire un “parametro assoluto”

di inclusione-esclusione di beni costituzionalmente tutelabili (cosa a cui

invece aspirano, ad esempio, il criterio di significatività (Bricola) e il

criterio delle condizioni essenziali della vita in comune (Musco)), ma

indica solo un possibile parametro di esclusione, ed è proprio questa sua

più limitata prospettiva a renderlo “concretamente utilizzabile”.

Come meglio vedremo in seguito, la relazione tra il criterio di

afferrabilità e principi di determinatezza, offensività e colpevolezza, e la

possibilità di una sua certa “individuazione” in specifici articoli della

Costituzione (art.25 comma 2 e art.27), fanno di tale criterio un possibile

valido parametro di legittimità costituzionale delle norme penali.62

60

Bricola, Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it., vol.19, pg68 ss., (par.9).

61 Ci si riferisce in particolare alla Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 19 dicembre

1983, relativa ai criteri di scelta tra sanzione penale ed amministrativa.

62 In tal senso: Manna, Beni della personalità e limiti alla protezione penale, Padova, 1989, pg86 ss.

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PAR.3: COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE

3.1) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE: SUA

INDIVIDUABILITÀ

Il comune sentimento della morale è sicuramente uno dei tre beni

giuridici tutelati dall’art.15 della Legge sulla stampa; ma quale è la sua

definizione, e quale il suo contenuto?

Prima di tentare una definizione in positivo, è opportuno chiarire che

questo concetto non coincide con quello di buon costume contenuto

nell’art.21 Cost.

Il buon costume a cui si richiama il testo costituzionale è da intendersi,

secondo dottrina quasi unanime63, in senso penalistico, quale concetto

relativo esclusivamente alla sfera sessuale, e non in senso civilistico e

cioè comprensivo dei precetti della morale media. Il comune sentimento

della morale dell’art.15 è invece sicuramente più vicino alla accezione

del buon costume in senso civilistico che non a quella penalistica, e ciò lo

si ricava sia dal suo significato letterale sia dalla lettura degli atti della

63

Fra tutti: Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova, 1984; Fois, Principi costituzionali e libera

manifestazione del pensiero, Milano, 1957.

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Assemblea Costituente64 dai quali si evince un riferimento alla morale in

senso lato e non confinabile unicamente alla sfera della sessualità.

Quindi, semplicemente, il comune sentimento della morale non può

coincidere col buon costume proprio dell’art.21 Cost. perchè la moralità

comune è irriducibile alla sola moralità sessuale (per un ulteriore

approfondimento in merito, vedere al quarto paragrafo del capitolo 2).

Dando per scontato che il comune sentimento della morale non si deve

intendere come concetto immutabile, immanente ed astorico, ma che

l’unica prospettiva in cui ha senso discorrerne è quella storico-

relativistica (d’altronde la Corte Costituzionale ha più volte affermato

che simili concetti variano notevolmente secondo le condizioni storiche,

ambientali e di cultura65, e la dottrina e la giurisprudenza attribuiscono a

simili concetti detti elastici la funzione di organi respiratori del sistema),

la domanda che dobbiamo ora porci e se esiste un comune sentire morale

nella collettività in cui oggi viviamo.

La risposta a questa domanda non può che essere negativa e al tempo

stesso, in questa sede, sintetica. La società di oggi è da molti definita

come società della comunicazione (o società integrata o società globale,

etc.), luogo in cui le distanze spaziali e temporali, e dunque anche

64

Relazione della seduta di venerdì 16 gennaio 1948 della Assemblea costituente.

65 Una fra le molte: C.Cost., sent.n.191\70.

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culturali, sono state abbattute dalla tecnologia. La società è sempre più

società multiculturale, e ciò implica la impossibilità di trovare un unico

comun denominatore del sentire morale tra i membri che la compongono.

Come scrive il Ceserani “Il fenomeno della frammentazione dei modelli è

il terreno su cui avviene la rottura tra la società del passato e quella

contemporanea. La nuova società non ha più, come quelle precedenti,

pochi e collaudati modelli che provengono dall’alto: ne ha invece una

galassia, che provengono da ogni direzione.”66

La società di oggi è ormai una società eterogenea, tale da rendere

impossibile definire in modo preciso ed univoco cosa sia in essa il

comune sentimento della morale.

Il Nuvolone, pur conscio della grande variabilità del concetto, ha

comunque tentato anni addietro di fornire una lettura capace di

delimitarne i confini; l’autore propone di intendere la morale comune

come quel “minimum etico dato da quel complesso di regole di vita e di

principi che stanno alla base dell’ordinamento giuridico positivo, con

particolare riferimento all’ordinamento penale.”67

Questa definizione non è però risolutiva del problema in questione:

Nuvolone non sembra infatti accorgersi della differenza tra il “definire”

66

Ceserini, Mondo medio, Milano, 1979

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ed il “contenutizzare”. Egli non individua nessuna regola o principio

ricomprendibile nel minimum etico ed utile quindi a “riempirlo di

contenuto”, limitandosi a fornire una definizione più ristretta di comune

sentimento della morale ma non per questo più facilmente determinabile,

così lasciando sostanzialmente immutati i termini problematici della

questione.

D’altronde, che individuare il contenuto di questa espressione sia opera

“titanica”, è assolutamente intuitivo semplicemente considerando quanto

sia arduo dare soddisfacenti definizioni e contenuti alle parole

“sentimento”, “morale” e “comune”.

Il comune sentimento della morale è concetto comprensivo di altri tre

concetti di assoluta complessità e di tendenziale vaghezza, e di

conseguenza esso stesso risulta (oggi più che mai) non determinabile con

precisione e dai contorni necessariamente sfumati.

Come abbiamo già precedentemente visto e come ancora meglio

approfondiremo oltre, la non individuabilità concettuale di un bene, cioè

vale a dire la sua inafferrabilità, costituisce “impedimento” alla sua tutela

penale.

67

Nuvolone, I limiti della libertà di stampa nell’art.15 della legge 8 febbraio 1948 n.47, in Arch.pen., 1952,

pg556.

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Proseguiremo però nello studio del comune sentimento della morale

cercando di addurre altre ragioni per dimostrare la inopportunità della sua

copertura penale, se non addirittura la illegittimità costituzionale della

stessa.

3.2) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE COME BENE

MORALE E SUA RILEVANZA COSTITUZIONALE

Andiamo ora ad affrontare la problematica dei rapporti tra il comune

sentimento della morale e la nostra “Carta fondamentale”.

Da una prima lettura della Costituzione è subito evidente che il comune

sentimento della morale. non è un bene espressamente ivi assunto come

tale.

Infatti la Carta non nomina mai la parola “morale” se non nell’art.13, in

cui però deve essere intesa nel significato di “sofferenza psicologica”; il

buon costume tutelato in Costituzione, come già dimostrato, non è

accomunabile al comune sentimento della morale; la tutela della famiglia

e dei suoi valori è “cosa” ben più ristretta e non coincidente con il

comune sentimento della morale dell’art.15.

Da ciò consegue che tale bene non può essere compreso tra quelli ad

espressa rilevanza costituzionale, essendo i tre anzidetti “punti” gli unici

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possibili “appigli espliciti” del comune sentimento della morale alla

Costituzione, ed essendo dimostrata la loro invalidità argomentativa.

Chiarito ciò, la prima domanda a cui dar risposta è se il comune

sentimento della morale sia bene incompatibile con la Costituzione.

Il bene “in sé” non può ritenersi antitetico ai valori espressi dalla

Costituzione, perchè “in sé neutro”.

È però altrettanto compatibile la sua tutela penale con i valori e i principi

costituzionali? Posto che il comune sentimento della morale non è “in sé”

un “disvalore”, è allora automaticamente possibile riservargli la massima

tutela prevista dall’ordinamento, o la sua copertura penale si pone in

contrasto con l’assetto costituzionale?

Rispondere a queste domande significa in parte interrogarsi sul se sia

possibile tutelare penalmente il comune sentimento della morale in

quanto valore morale, o se ciò non contrasti con la Costituzione.

Tenteremo una analisi di questa tematica attraverso una attenta lettura del

testo costituzionale nella sua interezza e sistematicità.

I principi che escludono la tutelabilità “in sé” dei beni morali sono quelli

fondamentali ed inoppugnabili su cui si fonda l’ordinamento giuridico, e

precisamente68:

68

Fiandaca, ult.op.cit., pg86 ss.

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63

1) principio democratico

2) principio della tolleranza ideologica

3) principio della tutela delle minoranze

4) principio di rieducazione

“Il principio democratico o di sovranità popolare fa apparire

inammissibile che la pena venga inflitta per imporre valori trascendenti:

questo infatti presuppone necessariamente l’idea che ciascun individuo

può egualmente concorrere alla formazione della volontà statale. Ma

questo riconoscimento presuppone a sua volta una immagine dell’uomo

come individuo “adulto”, moralmente e spiritualmente responsabile: se

questo è il Menschbild su cui poggia la Costituzione democratica, risulta

evidentemente priva di fondamento la pretesa che lo Stato possa

intervenire coercitivamente al fine di migliorare il livello morale dei

cittadini.”69

Il principio della tolleranza ideologica e quello della tutela delle

minoranze “escludono che la norma penale possa servire a difendere

mere concezioni morali, sia pur maggioritarie, in quanto, diversamente, le

minoranze non conformiste finirebbero con l’essere obbligate, sotto la

minaccia della pena, a non scegliere determinate posizioni di valore,

69

Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova, 1984, pg94. Nello stesso senso Roxin, Sinn und Grenzen

staatlicher Strafe, in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin, 1973 (tratto da Fiandaca, ult.op.cit.).

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anche quando da ciò non derivi alcuna conseguenza socialmente

dannosa.” 70

Il principio di rieducazione che “impone non solo che l’oggetto della

tutela penale coincida con la salvaguardia delle forme minime di

convivenza in comune, ma anche che i beni protetti abbiano contorni

concettuali definiti e afferrabili, e non vaghi e fluttuanti”71

si pone

anch’esso in posizione di inconciliabilità con la salvaguardia penale dei

beni morali.

Oltre a questi principi “il rifiuto del moralismo giuridico, inteso come

tendenza a ravvisare nel diritto penale uno strumento atto a reprimere

l’immoralità in sé, consegue necessariamente all’approfondimento

concettuale dell’idea di Stato di diritto che la nostra Costituzione ha

pienamente accolto. Il presupposto teorico di tale operazione è fornito dal

contenuto politico dei principi costituzionali fondamentali, a cominciare

dal rilievo che la Costituzione accorda alla tutela della dignità umana.

L’ispirazione personalistica che caratterizza la nostra Carta fondamentale

sta, appunto, ad indicare che non l’uomo è in funzione dello Stato, ma

quest’ultimo in funzione dell’uomo, nel senso che suo fine è di assicurare

70

Fiandaca, ult.op.cit., pg87. Nello stesso senso Rudolphi, Die verschiedenen Aspekte des

Rechtsgutsbegriffs, in Fest. Fur Honig Gottingen, 1970; Bricola in Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it.,

Torino, 1973, (tratto da Fiandaca, ult.op.cit.).

71 Fiandaca, ult.op.cit. In tal senso anche Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974.

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lo svolgimento della persona umana. Il nesso Stato di diritto-esigenza del

rispetto della persona vieta la strumentalizzazione dell’individuo

inevitabilmente connessa all’imposizione di una morale fatta propria

dallo Stato. La punizione della mera immoralità contrasta con l’insieme

dei principi materiali che concorrono a formare il concetto dello Stato

prefigurato dalla Costituzione.” 72

Ed ancora: “...la ispirazione democratica della nostra Costituzione e in

particolare il carattere squisitamente liberale del Titolo Primo della Prima

Parte (...), in ordine al problema concernente la natura delle relazioni

intersubiettive e del tipo di rapporti instaurabili tra la libertà

dell’individuo e la autorità dell’apparato politico, muovendo dalla

implicita ma evidente premessa della esistenza dei diritti naturali di

libertà della persona umana, la garantisce dal pericolo di una

strumentalizzazione nei confronti dello Stato e ne riconosce

solennemente il valore primario anche nel campo del diritto penale”73.

Per quanto sopra detto, il comune sentimento della morale, in quanto

bene morale, non dovrebbe essere oggetto di previsione penale, perchè un

simile tipo di tutela per detto bene risulta incompatibile con i valori della

Costituzione.

72

Fiandaca, ult.op.cit., pg92-93.

73 Spasari, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pg67.

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Il comune sentimento della morale è dunque risultato finora non

penalmente sanzionabile in quanto bene inafferrabile e bene morale, due

“attributi” tra loro non coincidenti, e quindi tali da permettere che la

forza delle due argomentazioni che su di loro si basano sia distinta, e

quindi “cumulabile”.

Nonostante ciò, ignorando tali risultati, ignorando anche la questione

della possibile rilevanza implicita di tale bene nella Costituzione (che

potrebbe costituire un ulteriore criterio di selezione del comune

sentimento della morale come bene tutelabile), andremo nei prossimi

paragrafi a dimostrare che il comune sentimento della morale non è

possibile oggetto di normazione penale persino presupponendolo di

rilevanza costituzionale.

3.3) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE, AFFERRABILITÀ

E PRINCIPI DI OFFENSIVITÀ, DETERMINATEZZA E

COLPEVOLEZZA

Avendo precedentemente spiegato cosa si debba intendere per

afferrabilità e quale sia il fondamento costituzionale di tale criterio di

selezione dei beni penalmente sanzionabili, qui ci limiteremo a chiarire le

relazioni tra detto criterio e i principi di offensività, determinatezza e

colpevolezza, principi di accertata rilevanza costituzionale.

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Quello che si vuole approfondire in questo paragrafo è la “fondazione

costituzionale” di tale criterio operata dal Musco74, nel senso di

considerare “tutti” i risultati costituzionalmente incompatibili derivanti

dalla violazione del criterio di afferrabilità.

Quello che si intende chiarire è che sussiste un rapporto di necessaria

implicazione tra la inafferrabilità di un bene e la violazione dei principi

costituzionali sopra menzionati da parte della norma che quel bene tutela,

e di conseguenza che la valenza del criterio di inafferrabilità è ancor più

costituzionalmente fondata e legittima.

In primis, sembra infatti impossibile determinare il contenuto legislativo

di una disposizione in modo chiaro ed univoco se il concetto da

normativizzare non è tale già “in sé”.

Come scrive Adelmo Manna “L’esigenza di tassatività non può non

essere estesa anche all’interesse protetto, perchè quest’ultimo

contribuisce a determinare la fattispecie, nel senso, cioè, che più il bene è

inafferrabile più rischia di esserlo anche lo stesso Tatbestand.” 75

Anche Bricola afferma che “L’afferrabilità del bene è il presupposto

essenziale affinché le forme di aggressione al medesimo siano scolpite

74

Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974.

75 Manna, Beni della personalità e limiti della protezione penale, Padova, 1989, pg89.

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dal legislatore o ricavabili dall’interprete entro i limiti in cui lo consente

l’art.25 comma 2 Cost.”76

Afferrabilità e determinatezza sono quindi requisiti fra loro strettamente

connessi, nel senso che ove al bene difetti il primo, alla norma che tale

bene tutela non potrà che mancare il secondo.

Una simile interrelazione sussiste anche tra afferrabilità e offensività,

essendo infatti impossibile rispettare tale ultimo principio lì dove non è

determinabile con precisione né l’oggetto della lesione né le modalità

lesive di causazione.

Infatti, pur sussistendo una differenza tra “reati senza bene” e “reati senza

offesa”, è vero però che un reato senza bene o dal bene indeterminabile

(come è l’art.15) non potrà mai essere rispettoso del principio di

offensività.

Fiandaca spiega a tal proposito come “La possibilità di procedere ad una

verifica della concreta idoneità aggressiva della condotta criminosa

dipende anche dalla natura del bene oggetto di protezione: la prova della

pericolosità del fatto presuppone, per essere attendibilmente addotta, che

76

Bricola, Tecniche di tutela penale e tecniche alternative, in De Acutis M. Palombarini G. (a cura di),

Funzioni e limiti del diritto penale, Padova, 1984.

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la fattispecie sia diretta alla tutela di oggetti concretamente

determinati.”77

La modalità di tutela apprestata dall’art.15 nei confronti del bene

“comune sentimento della morale” è tale da rendere impossibile una

verifica attendibile del nesso di causalità e della reale offensività di una

azione verso il bene oggetto di tutela (a riguardo vedere anche paragrafo

successivo).

Da ciò si può concludere che la tutela penale del comune sentimento

della morale implica di necessità la violazione del principio di

offensività.

In ultimo, il difetto di afferrabilità del bene sembra anche implicare la

necessaria violazione del principio di colpevolezza.

Il criterio indicato dalla Corte Costituzionale della riconoscibilità del

precetto penale78 come conditio sine qua non per il rispetto del principio

di colpevolezza è infatti violato ove al bene tutelato difetti il requisito

della afferrabilità; come è possibile ritenere qualcuno responsabile della

scelta del rispetto o meno della norma penale se non sono astrattamente

determinabili i criteri di violazione della norma, se non ne è

concettualmente comprensibile il contenuto?

77

Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Riv.it., 1982,

pg79.

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I binomi possibilità-responsabilità e libertà-responsabilità, fondamenta

concettuali del principio di colpevolezza, non sono rispettati da norme

penali tutelanti beni inafferrabili, come è appunto nel caso di specie.

Per quanto sopra detto, la tutela del comune sentimento della morale

operata dall’art.15 è in aperto contrasto con i principi di determinatezza,

offensività e colpevolezza, principi tutti di rilievo costituzionale.

3.4) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE, FATTISPECIE DI

PERICOLO, ANTICIPABILITÀ DELLA TUTELA PENALE E

PRINCIPIO DI PROPORZIONATEZZA

Seguendo un’impostazione ormai tradizionalmente accettata possiamo

affermare che il modello di reato come offesa a beni giuridici

ricomprende insieme alle condotte concretamente lesive del bene protetto

anche quelle che tale bene espongono a pericolo.

I reati si possono dunque dividere in “reati di danno” e “di pericolo” a

seconda che l’offesa sia costituita da effettiva lesione del bene protetto o

dalla messa in pericolo dello stesso.

La costruzione di una fattispecie in forma di pericolo comporta però dei

costi: la scelta di anticipazione di tutela implica infatti necessariamente

un sacrificio almeno in termini di rispetto del principio di offensività, e

78

C.Cost., sent.n.364\88.

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tale scelta deve quindi risultare almeno opportuna, se non anche

legittima, in base a parametri costituzionali.

Il discorso attorno le tecniche di costruzione delle fattispecie non è affatto

questione meramente tecnico-formale (ma forse nessuna questione

giuridica lo è!), ma anzi presuppone ed implica scelte sostanziali di

equilibrio di diverse esigenze e di rispetto di principi di rango

costituzionale.

L’utilizzo di una tecnica normativa è però vincolato non solo al rispetto

di principi costituzionali, ma anche dalla stessa natura del bene che si

vuole proteggere.

La tutela di beni di natura collettiva e immateriale, divenuta in questi

ultimi anni esigenza ineludibile dati i rischi a cui il progresso

tecnologico sempre più sottopone detti beni, sembra spesso imporre tale

scelta di anticipazione come l’unica possibile.

Fiandaca a riguardo scrive: “Il reato di pericolo astratto rappresenta lo

strumento di tecnica legislativa tipicamente corrispondente all’essenza

del bene giuridico superindividuale”79, così evidenziando come la scelta

di tutela di determinati beni implichi necessariamente l’utilizzo di alcune

tecniche di costruzione della fattispecie.80

79

Fiandaca, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, pg456.

80 Fiandaca, ult.op.cit., pg451 ss.

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Preso atto di questo vincolo che la qualità collettiva del bene impone, si

deve ricordare però che la scelta di tutela deve comunque essere vagliata

alla luce dei criteri di opportunità della anticipazione: la impossibilità di

tutelare il bene se non attraverso una fattispecie di pericolo non ne

legittima automaticamente la tutela anticipata, il cui utilizzo deve sempre

essere valutato secondo un criterio di costi-benefici a base costituzionale.

Andiamo allora a studiare quale o quali sono questi criteri.

Il principio cardine è quello di proporzione o proporzionatezza, che può

così essere sintetizzato: “Il principio di proporzione impone che il bene

giuridico offeso dal reato sia di valore pari o proporzionato a quello

colpito dalla pena”81

(tale principio costituisce criterio di selezione dei

beni penalmente tutelabili per tutti i beni e non solo per quelli di natura

collettiva a necessaria strutturazione di pericolo). Ed ancora più

specificatamente riguardo al problema della anticipabilità: “La

anticipazione della tutela penale potrà considerarsi tanto più esente da

obiezioni quanto più elevato è il rango del bene esposto a rischio”82

;

“Occorre accertare se l’anticipazione della tutela non pregiudichi troppo

contro-interessi eventualmente confliggenti”83

; “La gravità minima

81

Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pg166; fra tutti in tal senso

Bricola, Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it., Torino, 1973, par.9, pg68 ss.

82 Fiandaca, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, pg442.

83 Fiandaca, ult.op.cit., pg442.

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dell’offesa penalmente rilevante cresce al decrescere del rango del bene

giuridico in giuoco, e viceversa”84

; e sempre nello specifico della

anticipabilità: “Sul grado di anticipazione dell’offesa il principio di

proporzione esplica i suoi effetti nel senso intuitivo che tanto più

importante secondo la Costituzione è il bene offendibile dal reato, tanto

più è legittimamente anticipabile la sua tutela, e viceversa.”85

A questo primo criterio di selezione dei beni per cui “vale la pena”

anticipare la tutela se ne può aggiungere un secondo, che chiameremo di

“realizzabilità-fattibilità della anticipazione”.

Tutelare la semplice messa in pericolo di un bene deve infatti presupporre

la possibilità di un giudizio fondato circa il grado di probabilità di

inferenza tra stato di pericolo e possibile danno a questo seguente, vale a

dire, infondo, la qualificabilità stessa di una situazione x quale pericolosa

rispetto alla verificabilità di y.

Come scrive Fiandaca “L’accertamento del pericolo presuppone che se ne

individui il relativo metro o criterio di accertamento, cioè la relativa

legge scientifica (causale o probabilistica) o regola di esperienza in base

84

Fiandaca, ult.op.cit., pg442.

85 Angioni, ult.op.cit., pg176.

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alla quale si possa fondatamente predire che alcuni fatti recano il rischio

di provocare eventi lesivi.”86

Il grado di verificabilità del nesso causale tra fra fatto pericoloso ed

evento lesivo è quindi criterio di fattibilità dei reati di pericolo, nel senso

che meno tale nesso è verificabile meno è “ontologicamente” legittimo il

ricorso a tecniche di tutela anticipata.

Se vagliata alla luce dei predetti criteri, la tutela necessariamente

anticipata (in quanto bene immateriale e collettivo) del “bene comune

sentimento della morale” risulta difficilmente legittima.

La protezione penale di tale bene è incompatibile con il rispetto del

principio di proporzionatezza e del il criterio di fattibilità; il sacrificio

del bene libertà personale imposto dalla norma per la tutela del comune

sentimento della morale risulta infatti eccessivo e non proporzionato

secondo una gerarchia di valori operata sul metro della Costituzione, ed

ancor più tale sacrificio appare “ingiusto” visto anche che l’inferenza

probabilistica tra condotta descritta dall’art.15 e lesione del bene ivi

tutelato sembra molto poco verificabile secondo metodi che assicurino un

accettabile grado di fondatezza.

A tale riguardo Mantovani chiaramente dice impossibile conoscere a

priori e neppure accertare a posteriori i possibili effetti lesivi dei fatti

86

Fiandaca, ult.op.cit., pg451.

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sanzionati dal reato di pubblicazioni a contenuto impressionante e

raccapricciante!87

Si deve quindi concludere che la scelta di protezione di tale bene,

implicando la violazione dei principi di proporzionatezza e “minima

causalità probabilistica”, è almeno inopportuna, se non anche illegittima.

3.5) CONCLUSIONI

La tutela penale del comune sentimento della morale prevista dall’art.15

risulta inopportuna (e forse anche illegittima, ma questo lo discuteremo

in seguito) in quanto incompatibile con il pieno rispetto dei principi

fondamentali della Costituzione e con i criteri di selezione

costituzionalmente orientata dei beni giuridici e di anticipabilità di tutela

penale degli stessi.

87

Mantovani, Il principio di offensività nello schema di delega legislativa per un nuovo Codice penale, in

Prospettive di riforma del Codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, pg101.

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PAR.4: L’ORDINE FAMILIARE

4.1) ORDINE FAMILIARE E COSTITUZIONE

Possiamo concordare con il Nuvolone quando afferma che “Qualche

perplessità suscita anche il concetto di ordine familiare”88

; anzi

dobbiamo aggiungere che oggi questo concetto solleva dubbi non

riducibili a mere perplessità.

Riportiamo integralmente le opinioni dell’autore sul concetto di ordine

familiare, opinioni con le quali gli altri giuristi che si sono interessati al

tema sostanzialmente concordano.89

“L’ordine familiare non può identificarsi con il concetto di morale

familiare di cui all’art.565 c.p.

L’ordine delle famiglie attiene ai rapporti strutturali (principio

monogamico, principio di gerarchia, principio di legittimità, ecc.), mentre

la morale attiene piuttosto alle norme di condotta degli individui in

quanto membri di una famiglia.”90

In questo paragrafo, prendendo per ora

“per buona” la definizione del Nuvolone, ci si domanda in che rapporti

sia il bene “ordine familiare” con la Costituzione.

88

Nuvolone, Limiti della libertà di stampa nell’art.15 della legge 8 febbraio 1948 n.47, in Arch.pen., 1952,

pg557.

89 In tal senso: Cantarano, Codice della legislazione sulla stampa, Roma, 1987; Mazzanti, L’osceno ed il

diritto penale, Milano, 1962.

90 Nuvolone, ult.op.cit., pg557.

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La Carta costituzionale tratta specificatamente della famiglia negli art.29-

30-31.

L’art.29 Cost. così recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia

come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato

sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla

legge a garanzia dell’unità familiare.”

E l’art.30 Cost. primo comma: “È dovere e diritto dei genitori mantenere,

istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio.”

L’art.31 Cost. dichiara poi che “La Repubblica agevola con misure

economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e

l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie

numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli

istituti necessari a tale scopo.”

Dalla lettura di questi articoli si può anzitutto affermare che la

Costituzione riconosce alla famiglia carattere non derivato dallo Stato,

cioè la sua esistenza come societas naturalis a prescindere dalle

previsioni di legge; come scrive Gazzoni “la famiglia è una entità di

carattere sociale prima ancora che giuridico e il diritto può solo regolarne

alcuni aspetti soprattutto per quanto riguarda i profili direttamente o

indirettamente patrimoniali che ad essa si ricollegano.”91

91

Gazzoni, Manuale di diritto privato, 1992, pg301.

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Al tempo stesso però la Costituzione riconosce in senso tecnico-giuridico

una formazione sociale come famiglia solo se “fondata sul matrimonio”,

e dispone per essa alcune regole morali e strutturali da rispettare (come

ad esempio “l’unità familiare”).

Senza addentrarci nell’argomento, possiamo riconoscere allora che la

Costituzione sembra voler tutelare un certo ordine della famiglia, ma al

tempo stesso non indica parametri sufficientemente chiari per

determinarlo. Inoltre il riconoscere la naturalità della famiglia

necessariamente comporta delle difficoltà nel momento in cui la si cerca

di “canonizzare” entro regole strutturali determinate.

Ciò premesso, dando dunque come presupposto (anche se comunque

dubbio) che l’ordine familiare sia un valore implicitamente richiamato

dalla Costituzione, per dargli un significato concreto non possiamo che

cercarne i contenuti nello studio delle famiglie come formazioni sociali

reali oggi esistenti; contenutizzare tale concetto con il rimando alla

Costituzione sarebbe infatti operazione impossibile oltre che,

probabilmente, scorretta: il riconoscimento della naturalità della famiglia

sembra infatti dover imporre la ricerca delle regole della sua struttura

nella naturalità stessa, e cioè, nella società.

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4.2) AFFERRABILITÀ DELL’ORDINE FAMILIARE E SUA

TUTELABILITÀ COSTITUZIONALMENTE COMPATIBILE

Cercare di rendere il concetto di ordine familiare “chiaramente

percepibile con l’intelletto” significa trovarne un contenuto significativo

e determinato, che, come precedentemente affermato, non può che

provarsi a desumere dallo studio della odierna realtà familiare.

Quello che qui si cercherà di dimostrare è che oggi non è possibile trarre

dallo studio di detta realtà il contenuto del concetto di ordine familiare, e

che, se anche se ne potesse trarre un “contenuto minimo”, comunque non

sarebbe opportuno tutelarlo penalmente.

Nella società moderna è il concetto stesso di famiglia che sta sfumando

sempre più, e di conseguenza tutti i concetti a questo relazionati.

Sabino Acquaviva così scrive al riguardo: “Ci troviamo in presenza, nella

famiglia, di modelli insicuri e problematici; è in atto una trasformazione

culturale verso una società dei consumi alla quale si accompagna una

modificazione nei meccanismi di socializzazione, di legittimazione e

nella struttura istituzionale della famiglia. In Italia questo mutamento non

è mediato, bensì spesso si ha un salto tra una cultura androcentrica e

familista e una cultura post-industriale. Non vi è più un solo modello di

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convivenza che si evolve, ma una serie di modelli accomunati soprattutto

dalla funzione di soddisfare bisogni.”92

Sempre a tale riguardo Pierpaolo Donati: “Nel capitalismo avanzato c’è

un sentimento dominante che si riferisce alla famiglia come a qualcosa di

presente ma di difficilmente definibile razionalmente. Nella prospettiva

sociologica questo sentimento ha un referente oggettivo: la morfogenesi

sociale della famiglia. Questo termine intende definire l’interazione tra le

relazioni interne e quelle esterne del sistema familiare, la modificazione

continua delle relazioni in tale sistema vivente.”93

Già negli anni ottanta si era quindi realizzata quella destrutturazione dei

canoni tradizionali della famiglia che oggi è concordemente data per

avvenuta da molti importanti sociologi, e che ci consente quindi di dire

assolutamente vago e indeterminabile il concetto di ordine familiare.

Concludendo questa semplice ma necessaria argomentazione di carattere

sociologico, possiamo affermare che il concetto di famiglia, e di

conseguenza quello di ordine familiare, risultano oggi tanto sfumati e

vaghi da non potersi considerare afferrabili, e che la definizione proposta

dal Nuvolone, forse valida per il momento storico in cui fu formulata,

oggi è inadeguata.

92

Acquaviva, in (AA.VV.) Ritratto di famiglia degli anni ’80, Bari, 1981.

93 Donati, in Famiglia e politiche sociali, Milano, 1981.

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Dimostrata la inafferrabilità concettuale del concetto di ordine familiare,

si rimanda al precedente paragrafo per l’analisi delle sue conseguenze.

Tralasciando i risultati sopra raggiunti finora riguardo alla soluzione della

problematica in trattazione, proveremo comunque a dimostrare la

inopportunità (se non anche la illegittimità) della tutela penale del bene

“ordine familiare” attraverso una seconda via diversa dalla prima, in

modo tale da aumentare la forza probante complessiva della tesi contraria

a tale tutela.

Supponiamo infatti il detto bene come afferrabile in un suo “significato

minimo” come proposto dal Nuvolone (significato che ci asteniamo dal

determinare, essendo contrari a tale possibilità, e che consideriamo come

dato per poter continuare in un ragionamento “per assurdo”) e

supponiamolo di implicita rilevanza costituzionale. I due presupposti non

sono però sufficienti da soli a dimostrare la opportunità della tutela

penale dell’ordine familiare, e per una parte minoritaria della dottrina non

sufficienti a farla ritenere costituzionalmente legittima.

Infatti, dando per appurato il ruolo sussidiario del diritto penale

(principio su cui oggi si concorda quasi uniformemente), studiamo il

criterio con cui parte della dottrina ha proposto di determinare in concreto

la effettività di tale principio legandolo alla Costituzione.

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È Bricola che per primo propone con forza tale criterio, quando, come

abbiamo già riportato ma vale comunque la pena di ricordare brevemente,

scrive: “(omissis) la sanzione penale tipicamente restrittiva del bene

libertà personale può essere adottata soltanto in seguito alla violazione di

un bene il quale, se non di pari grado rispetto al valore sacrificato (libertà

personale), sia almeno dotato di rilevanza costituzionale.”94

Questa concezione viene poi sviluppata ed approfondita secondo linee di

sviluppo che sono già presenti negli scritti di Bricola, e che trovano

massima chiarezza concettuale ed espositiva nelle teorizzazioni di

Angioni.

Questo autore, nel tentativo di rintracciare nella Costituzione un criterio

di gerarchia dei valori dei beni costituzionali in base al quale poter

applicare il principio di proporzionatezza, così scrive: “Resta da

analizzare l’ulteriore strumento critico-limitativo proposto, quello che

distinguendo tra beni costituzionali primari e secondari, reputa soltanto i

primi come tutelabili con pena detentiva. Anche per la qualificazione di

un bene costituzionale come primario o no, il punto di appoggio può

essere offerto ancora una volta dalla libertà personale (bene giuridico

colpito dalla sanzione detentiva): nel senso che essendo il bene della

94

Bricola, Art.25 Cost. comma 2 e 3, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Artt.24-26

Cost.: Rapporti civili, Bologna-Roma, 1981, pg273.

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libertà personale bene primario, tutti i beni costituzionali che si

riconoscono di importanza pari o assimilabile a questo possiedono per

inferenza logica qualità di primarietà. Ma come si svolge l’operazione di

assimilazione tra il bene della libertà personale e gli altri beni definibili

primari? Si può ragionare che, poiché senza la libertà fisica l’uomo non

può realizzarsi nelle forme minime esistenziali (ed in ciò risiedendo il

valore più profondo del bene, N.d.R.), ugualmente tutti gli altri beni

senza i quali l’uomo non può realizzarsi nelle forme minime di esistenza

devono essere qualificati primari. Approssimativamente, fra i beni

individuali possono quindi essere classificati primari la vita, la salute, la

libertà morale, l’onore, il lavoro, il domicilio (e la connessa sfera di

riservatezza privata), beni materiali di sussistenza e di autonomia

economica ai sensi dell’art.36 Cost. (sufficienti ad assicurare una

esistenza libera e dignitosa), ecc. Dunque si tratta di un concetto di

primarietà certamente più ristretto di quel “pieno sviluppo della persona

umana” posto in risalto dall’art.3 secondo comma della Costituzione, e

che rappresenta invece la condizione ottimale dell’uomo.”95

Pur consci dell’ulteriore ed indispensabile approfondimento che tali

considerazioni ancora necessitano, se le si leggono unitamente a quelle

del Fiandaca secondo cui “Con ogni probabilità risulta più conforme alla

95

Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pg203.

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Weltanschauung costituzionale concepire i beni collettivi come beni di

natura strumentale, cioè finalizzati pur sempre alla realizzazione di

concreti interessi dei singoli individui”96

, e se si riconsidera la questione

della anticipabilità della tutela penale secondo criteri costituzionalmente

orientati (già affrontata riguardo al comune sentimento della morale e qui

identicamente riproponibile e quindi non nuovamente riportata), si può

concludere per una sicura inopportunità della tutela penale dell’ordine

familiare, e, forse, anche per la sua incostituzionalità (ma questo lo

vedremo meglio in seguito).

4.3) CONCLUSIONI

Il bene “ordine familiare”, se da un lato non può essere per importanza

equiparato al bene della libertà personale, perchè non concepibile come

bene essenziale per la preservazione delle forme minime di convivenza

sociale97 né per la realizzazione delle condizioni minime esistenziali della

vita di ogni uomo98, d’altro lato è invece bene dalle caratteristiche tali da

richiedere un necessario sacrificio di importanti valori costituzionali, e

ciò considerando, non si può che ritenere la sua tutela non conforme ai

96

Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e coma criterio di politica criminale, in Riv.it., 1982,

pg72.

97 Musco. Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974.

98 Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983.

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principi della Costituzione (su cosa questa “non conformità” debba poi

concretamente implicare, se si tratti cioè di inopportunità o di illegittimità

costituzionale, sarà questione successivamente affrontata).

PAR.5: DIFFUSIONE DI SUICIDI E DELITTI

“Il diffondersi di suicidi o delitti è nozione di comune accezione che

rappresenta l’interesse statuale ad evitare fatti di tale genere, i quali

costituiscono tipico, grave turbamento dell’ordine pubblico e pericolo per

il bene giuridico della incolumità personale dei consociati.”99

Questo è il massimo contributo all’analisi dell’argomento in questione

offerto dalla dottrina, visto che anche il Nuvolone, che all’art.15 ha

dedicato molta attenzione, si limita a riguardo a definire il diffondersi di

suicidi o delitti come determinazione-specificazione del concetto di

ordine pubblico.

Presupposto quindi che il diffondersi di suicidi o delitti sia bene-concetto

più specifico di quello di ordine pubblico, l’analisi che sarà qui svolta si

concentrerà su questo specifico bene-concetto, senza affrontare la

tematica generale dell’ordine pubblico, se non per ciò che sia

indispensabile fare.

99

Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg326.

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Con la locuzione “diffondersi di suicidi o delitti” il legislatore sembra

aver voluto specificatamente proteggere il bene giuridico della vita

umana, e ciò solo considerando, apparirebbe perfettamente opportuna e

legittima la disposizione normativa in questione, in quanto atta a tutelare

un bene di indiscusso (anche se non espresso) valore costituzionale.

Il problema però in questo caso non è posto dalla qualità del bene

tutelato, ma dalle modalità scelte per la sua tutela.

Infatti l’art.15 tutela un bene sicuramente concettualmente afferrabile e

di primaria importanza costituzionale, ma lo fa in modo così anticipato

da “nebulizzare” quel criterio di minima verificabilità causale che invece

deve sempre essere rispettato nella costruzione di fattispecie di pericolo.

Verificare l’idoneità causale di uno scritto alla determinazione di un

soggetto al suicidio o all’omicidio è operazione assai ardua e

“pericolosa”, ed ancor più lo è se tale idoneità è riferita ad una pluralità

indeterminata di soggetti.

Per come è formulata la norma sembra impossibile individuare (sia ex

ante che ex post) con un grado accettabile di certezza il momento e le

condizioni in cui il pericolo di “diffusione” si realizza, e di conseguenza

risulta indeterminabile il confine tra il lecito e l’illecito.

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La norma in questione non rispetta quindi le regole della

proporzionatezza e della anticipabilità della tutela penale già in

precedenza abbondantemente chiarite, con quanto da ciò consegue.

PAR.6: CONCLUSIONI: INOPPORTUNITÀ O

INCOSTITUZIONALITÀ?

6.1) REATO COME FATTO OFFENSIVO (UNICAMENTE) DI BENI

COSTITUZIONALI

La tesi riportata nel secondo paragrafo secondo la quale sarebbe “reato

unicamente il fatto offensivo di beni a rilievo costituzionale” non è stata

finora integralmente accolta né dalla dottrina prevalente, né dalla Corte

Costituzionale.

La Consulta ha infatti a riguardo chiaramente affermato che “L’art.25

comma 2 Cost. in nessun modo vincola il legislatore al perseguimento di

specifici interessi”100

, pur sottolineando in una ben nota sentenza le

notevoli implicazioni dei principi costituzionali in ambito penale, nel

senso della “necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema

ratio di tutela della società e sia costituito da norme non numerose o

100

C.Cost., sent.n.71\1978

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eccessive ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di

valori almeno di rilievo costituzionale”101.

Anche in ambito dottrinale102 si è prevalentemente giunti alla conclusione

che “la Costituzione non pone un limite generale al legislatore ordinario

nella scelta discrezionale dei beni da tutelare penalmente: il legislatore

non è vincolato in questa scelta alla cerchia dei beni costituzionalmente

rilevanti”103

, e cioè a considerare i rapporti tra il Codice Penale e la

Costituzione di carattere elastico, e non rigido come prospettato da

Bricola.

La dottrina ha rifiutato tale rigida impostazione mettendo in evidenza la

inidoneità dell’art.13 Cost. a imporre limiti al legislatore, e soprattutto la

impossibilità di chiara determinazione del confine tra beni a rilievo

costituzionale implicito e non, impossibilità che si traduce nella pratica

inapplicabilità delle “tesi del Bricola”.

Quindi, limitatamente a quanto appena sopra riportato e lungo tutto il

corso della trattazione già anticipato, seguendo l’indirizzo della dottrina

prevalente e della giurisprudenza costituzionale, l’art.15 della legge

101

C.Cost., sent.n.364\88.

102 In tal senso, fra tutti: Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica

criminale, in Riv.it.dir. e proc.pen., 1982; Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1992; Manna,

Beni della personalità e limiti alla protezione penale, Padova, 1989; Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte

generale, Milano, 1996.

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n.47\1948 può certamente considerarsi inopportuno ma non anche

costituzionalmente illegittimo.

6.2) AFFERRABILITÀ, OFFENSIVITÀ, DETERMINATEZZA E

COLPEVOLEZZA

La illegittimità costituzionale dell’art.15 può forse però trovare valide

ragioni nel difetto di afferrabilità da cui sono “affetti” i beni in esso

tutelati e dalla conseguente violazione da parte della norma dei principi di

offensività, determinatezza e colpevolezza, di cui già è stata in

precedenza dimostrata la fondatezza costituzionale.

Questa ipotesi ha l’indiscutibile vantaggio rispetto a quella formulata nel

precedente paragrafo di fondarsi sulla supposta violazione di principi che

non solo hanno un ampio riconoscimento di radicamento costituzionale,

ma sono anche identificabili mediante il richiamo di specifici articoli

della Carta Costituzionale, operazione certo più difficile e controversa

quando si cerca di compierla per avvalorare la tesi del reato come

violazione di beni a esclusivo rilievo costituzionale, che più che potersi

agganciare a singoli articoli si richiama allo spirito della Costituzione

ricavabile da una lettura integrata della stessa, che è quindi poi

difficilmente conciliabile con la disciplina delle modalità con cui possono

103

Marinucci e Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv.it., 1994, pg349.

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essere sollevate questioni di legittimità costituzionale nel corso di un

giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale, disciplina imposta

dall’art.28 della legge n.87\1953.

Neanche questa “seconda strada” è stata però intrapresa dalla Corte

Costituzionale, che negli anni ha di fatto sempre mantenuto un

atteggiamento estremamente prudente (se non di forte chiusura) nel

riscontrare violazioni dei sopraindicati principi da parte di norme

ordinarie, pur se al tempo stesso non ne ha mai posto in dubbio, in linea

di principio, la validità.

Detto ciò, adesso proveremo a schematizzare l’iter argomentativo con cui

la Corte è arrivata a negare la fondatezza costituzionale delle questioni

centrate sulla supposta violazione dei principi sopra richiamati (in

particolare del principio di determinatezza) da parte di fattispecie a forma

libera poste a tutela di beni immateriali.

Secondo la Corte “Il principio di legalità si attua non solo con la rigorosa

e tassativa descrizione della fattispecie, ma, in talune ipotesi, con l’uso di

espressioni sufficienti per individuare con certezza il precetto e per

giudicare se una determinata condotta lo abbia o meno violato. Quando la

legge penale prevede la tutela di beni immateriali (decoro, onore,

reputazione, prestigio, etc.) il ricorso a nozioni proprie del linguaggio e

della intelligenza comuni, è inevitabile. Per quanto attiene, in particolare,

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alla difesa del pudore, il rinvio alla morale, al buon costume, e

nominativamente al comune sentimento, è legittimo trattandosi di

concetti diffusi e generalmente compresi, sebbene non suscettibili di una

categorica definizione.”104

La Corte, che su questa argomentazione ha (per esempio) ritenuto

infondate in riferimento all’art.25 comma 2 Cost. le questioni sollevate

contro gli art.527, 528, 529 del Codice Penale, non è però affatto

convincente.

L’argomentazione infatti, più che dimostrare la non confliggenza delle

norme con la Costituzione, sembra postularla come inevitabile e quindi

giustificabile.

All’argomentazione debole proposta dalla Corte, per essere

compiutamente intesa, sembra doversi sottendere un ragionamento

implicito e nascosto, che qui di seguito proviamo ad individuare

schematicamente:

1) l’art.28 della legge n.87\1953 vieta alla Corte ogni valutazione di

natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del

Parlamento

2) la tutela di beni immateriali non può che realizzarsi attraverso

l’utilizzo di concetti dalla dubbia afferrabilità

104

C.Cost., sent.n.191\1970.

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3) impedire l’uso di tali concetti implicherebbe l’escludere la tutela di

alcuni beni

4) tale esclusione costituirebbe una scelta politica che è invece preclusa

alla Corte

5) quindi, almeno nei casi in cui il ricorrere a concetti dalla dubbia

afferrabilità è inevitabile, ciò è anche consentito.

Dunque a noi sembra che la Corte, preoccupata di compiere scelte che

ritiene politiche, e quindi non di sua competenza, lasci che la

Costituzione sia violata da norme che appaiono in evidente contrasto con

i principi di determinatezza, offensività e colpevolezza perchè poste a

tutela di beni concettualmente inafferrabili.

Detto ciò, non intendendo addentrarci ulteriormente nella tematica del

ruolo della Corte nella struttura dello Stato disegnato in Costituzione e

della politicità delle sue decisioni, ci limitiamo a porre in evidenza come

questa sia la “strada da battere” per affrontare compiutamente la

questione della tutelabilità penale di beni che per essere protetti

richiedono un ineliminabile costo-sacrificio in termini di rispetto di

alcuni principi costituzionali, e che negare la sussistenza stessa del

problema, come la Corte ha finora fatto, non porterà certo ad alcuna

soluzione soddisfacente.

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6.3) ART.15

Nel caso specifico dell’articolo in questione, per quanto detto nel corso

dell’intero capitolo, riteniamo comunque possibile ed auspicabile una

dichiarazione di illegittimità costituzionale.

Se tale dichiarazione consista in una scelta politica o invece sia una

decisione giuridica con conseguenze politiche non è certo argomento che

può essere qui trattato, ma visto che sembra che sia la preoccupazione di

politicità della scelta a indurre la Corte Costituzionale a non intervenire,

e visto che così facendo la Corte in realtà sceglie di non scegliere (non

potendo “non scegliere”), prendendo quindi comunque una decisione

dalla comunque incerta natura, ciò ci fa propendere e preferire l’ipotesi

della dichiarazione di incostituzionalità dell’art.15.

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CAPITOLO 2

ART.15 E ART.21 COST.

PAR.1: LIMITI ALLA LIBERTÀ DI

MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO E L’ART. 15

L’art.15 sanziona penalmente dei comportamenti che certamente

costituiscono manifestazioni di pensiero ed è quindi un limite alla libertà

di tale manifestazione. Ciò fa sorgere un problema di legittimità

costituzionale dell’art.15, dovuto al fatto che, essendo nell’art.21 della

Costituzione italiana espressamente garantito il diritto alla libera

manifestazione del pensiero, il legislatore non può disporne limitazioni

sanzionatorie in completa libertà, ma può farlo solo nel rispetto della

Costituzione, e cioè secondo i criteri che andremo ad esporre.

In questo capitolo non si tratteranno le numerose ed importanti questioni

sollevate dall’art.21 Cost. se non per quello che sia indispensabile fare

per una completa analisi dell’art.15.

Evitiamo infatti a riguardo una generale premessa sull’art.21 della

Costituzione e su tutti i possibili criteri di divisione categorica delle

diverse “specie” di libertà in esso tutelate, perchè questa dovrebbe qui

essere necessariamente troppo limitata e semplicistica per avere alcuna

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validità scientifica generale, o anche solo utilità sistematica per questa

opera.

Per poter ciò legittimamente fare, bisogna però prima dimostrare la

sostanziale inutilità di tale generale premessa ai fini dello studio

dell’art.15, ed è proprio questo che qui di seguito ci accingiamo a

compiere.

Anzitutto, utilizzando l’art.15 le parole “descrivano” ed “illustrino” che

sembrano indicare l’uso di un linguaggio a funzione informativo-

descrittiva, appare inutile dilungarsi sulla differenza (comunque non

facilmente individuabile) tra questa funzione del linguaggio e quella

emotivo-impulsiva, per la quale non varrebbe la copertura costituzionale,

non essendo un tale tipo di linguaggio manifestazione di pensiero in

senso stretto.

In secondo luogo sembra inutile trattare della libertà tutelata dall’art.21

Cost. distinguendola in libertà di opinione, di creazione e di cronaca,

visto che l’art.15 nella dizione “descrivano od illustrino avvenimenti

realmente verificatisi o anche soltanto immaginari” appare comunque

comprenderle tutte.

Ed infine, ancora inutile sembra dilungarsi nella esposizione delle teorie

del Fois105 circa le materie privilegiate nel diritto di manifestazione del

105

Fois, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, 1957, pg45 ss.

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pensiero, perchè argomento non atto a portare validi contributi ad un

approccio teorico generale alle questioni dell’art.15, articolo che ben può

riguardare materie privilegiate e non.

Detto ciò, passiamo ora allo studio delle tematiche costituzionali

sollevate dall’art.21 Cost. nella loro attinenza all’art.15.

PAR.2: DIRITTI DI LIBERTÀ

COSTITUZIONALMENTE GARANTITI E

CONSEGUENTE DIVIETO DI INCRIMINAZIONE DI

FATTI COSTITUENTI ESERCIZIO DI TALI DIRITTI.

La nostra Costituzione espressamente riconosce una serie di fondamentali

diritti di libertà (di pensiero, circolazione, associazione, etc.), e così

facendo conseguentemente vieta al legislatore ordinario di incriminare

fatti ricomprendibili nell’esercizio di tali diritti; il divieto di sanzione

penale vale però finché l’esercizio dei detti diritti non comporti la lesione

di beni giuridici anch’essi costituzionalmente rilevanti.106

Nel caso di specie, l’art.21 Cost. protegge la libera manifestazione del

pensiero perchè questa è indiscutibilmente uno dei presupposti minimi

49

In tal senso: C.Cost., sent.n.29\1960, n.290\1973, n.165\1983 (in relazione al diritto di sciopero); C.Cost.,

sent.n.87\1966, n.49\1972.

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necessari per la libera e dignitosa esistenza di ogni uomo, ed è al tempo

stesso uno dei pilastri fondamentali nella architettura di uno Stato che

aspiri a definirsi democratico e liberale; ma anche un valore così rilevante

trova necessariamente delle limitazioni quando si incontra con dei valori

di almeno sua pari importanza, che pretendono una di questo limitazione

per essere rispettati.

La realizzazione di questo equilibrio di valori e di interessi, che può

d’altronde essere considerata la funzione stessa del diritto, deve essere

attuata attraverso regole e metri di giudizio di necessaria derivazione

costituzionale.

PAR.3: DIRITTO DI MANIFESTAZIONE DEL

PENSIERO E SUOI LIMITI

Il diritto di libera manifestazione del pensiero è tutelato in Costituzione

(art.21), ed è quindi un classico caso in cui il legislatore ordinario trova

limiti alla sanzionabilità penale dell’esercizio di un diritto.

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L’art.21 Cost. indica espressamente al comma n.6 la contrarietà al buon

costume come limite legittimo alla libertà affermata nei commi

precedenti; ulteriori sono però i limiti all’esercizio di tale libertà che

possono essere sanciti se posti a tutela di beni costituzionalmente

rilevanti, anche se non espressamente previsti dall’art.21Cost.

La dottrina107 è infatti perfettamente concorde con la Corte Costituzionale

che è più volte intervenuta a riguardo per dichiarare l’illegittimità

costituzionale di norme del codice penale limitative del diritto garantito

dall’art.21 Cost. poste a tutela di beni sforniti di rilevanza

costituzionale.108

Più volte la Consulta ha affermato come la tutela del buon costume non

sia il solo limite alla libertà di manifestazione del pensiero, sussistendo

altri limiti imposti dalla necessità di tutelare beni diversi parimenti

garantiti dalla Costituzione, e come l’esercizio del diritto garantito

dall’art.21 trovi un limite inderogabile nell’esigenza che per il suo

107

Fra tutti: Pulitanò, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in Bene giuridico e riforma della parte

speciale (a cura di Stile), Napoli, 1985, pg135 ss.; Palazzo, Valori costituzionali e diritto penale, in

L’influenza dei valori costituzionali nei sistemi giuridici contemporanei (a cura di Pizzorusso-Varano),

Milano, 1985, pg592 ss.

108 C.Cost., sent.n.87\1966, n.9\1965, n.49\1971, n.126\1985.

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esercizio non vengano sacrificati beni anche essi garantiti dalla nostra

Carta fondamentale.109

Per citare un caso, in ordine alla norma (art.272 comma 2 c.p.) che

puniva “la propaganda...fatta per distruggere o deprimere il sentimento

nazionale”, la Corte ne ha dichiarato la incostituzionalità perchè “il

sentimento nazionale non può essere ritenuto bene costituzionalmente

garantito.”110

In generale la Corte può dirsi indiscutibilmente orientata nell’affermare

che solo l’esigenza di tutela di valori di rilievo costituzionale possa

costituire limite legittimo alla libertà dell’art.21 Cost.

PAR.4: BUON COSTUME E ART.21 DELLA

COSTITUZIONE

109

C.Cost, sent.n.133\1983, n.13\1983, n.87\1966, n.199\1972, n.65\1970, n.15\1973, n.9\1965, n.100\1981.

110 C.Cost., sent.n.87\1966.

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100

Come abbiamo in precedenza visto, unico limite espressamente previsto

dall’art.21 all’esercizio della libertà ivi tutelata è quello del buon

costume.

Tre sono però le diverse posizioni dottrinali di interpretazione di tale

termine contenuto nell’art.21 del testo costituzionale: una parte della

dottrina si rifà alla nozione civilistica di buon costume111, altra parte

richiama il significato penalistico del termine112, e un terzo filone assegna

al termine un significato autonomo e individuabile attraverso una

interpretazione interna al sistema costituzionale stesso.113

Quello che qui andremo brevemente a chiarire è che la nozione più

appropriata del termine buon costume riportato in Costituzione è quella

che lo vede assimilato al buon costume nel suo significato penalistico,

come d’altronde sostiene la dottrina maggioritaria.114

111

Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1969, pg984; Virga, Diritto costituzionale, Milano, 1967,

pg581; Pergolesi, Diritto costituzionale, Padova, 1965, pg350.

112 Vedere nota n.102.

113 Albanese, Limiti giuridici del “fotocinereportage”, in Dem. e dir., 1965, pg381 ss.; Lanzara, Spettacoli e

buon costume, in Riv.pen., 1967, pg164 ss.

114 Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, pg41 ss.;

Fois, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, 1957, pg124 ss.; Barile, Libertà di

manifestazione del pensiero, (voce) in Enc.dir., vol.24, Milano, 1974, pg459; Nuvolone, Le leggi penali e la

Costituzione, Milano, 1953, pg46; Delitala, I limiti giuridici alla libertà di stampa, in Iustitia, 1959, pg391;

Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova, 1984, pg63.

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101

La nozione civilistica del termine, che si riferisce ai precetti della morale

corrente in un momento storico determinato, è concetto troppo vago ed

espanso per poter costituire limite ragionevole alla libertà di

manifestazione del pensiero.

Come è stato infatti rilevato da molti autorevoli studiosi “concepire il

buon costume come comprensivo dei precetti della morale media

finirebbe non per limitare la libertà costituzionalmente garantita, ma per

negarla del tutto”54

; infatti “la morale comune ricomprende nel suo

ambito quasi tutti gli aspetti dell’esistenza; per cui, ove essa veramente si

frapponesse come limite costituzionale alla libertà di manifestazione del

pensiero, tale libertà si ridurrebbe a ben poca cosa e, in ogni caso, non

potrebbe mai essere esercitata in funzione critica delle concezioni morali

dominanti.”55

Tale ipotesi interpretativa va oltretutto respinta perchè è contraddetta

dalla lettura dei lavori preparatori della Costituzione, durante i quali un

espresso riferimento alla morale fu bocciato proprio con la motivazione

che questo avrebbe altrimenti vanificato la garanzia costituzionale

portando una limitazione eccessiva alla possibilità di libera

manifestazione del pensiero.

54

Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova, 1984, pg59..

55 Fiandaca, ult.op.cit, pg65.

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102

Anche l’orientamento dottrinale che tenta di interpretare la norma

costituzionale con se stessa è inaccettabile, perchè sostanzialmente

finisce per dare al termine buon costume un significato che è

riconducibile a quello di derivazione civilistica, e che quindi è affetto dai

suoi stessi difetti.

Infatti, secondo tale opinione, avendo la Costituzione accolto tutti i

principali valori etici della nostra società, è a questi che il costituente si

sarebbe voluto riferire con il termine buon costume, e cioè ad un concetto

di pubblica moralità nella sua accezione più ampia.

Una tale interpretazione è da respingere, perchè, se accolta,

sopprimerebbe quasi del tutto la libertà di manifestazione del pensiero,

rendendo l’art.21 della Costituzione una mera petizione di principio.

Inoltre è la funzione stessa di divieto che il buon costume ha in ambito

costituzionale (“Sono vietate le pubblicazioni...”-art.21 Cost.) ad

avvicinarlo più al buon costume penalistico che non a quello civilistico.

Mentre infatti le norme civili non vietano i comportamenti secondo

queste contrari al buon costume, ma solo si limitano a non riconoscerne

la validità nell’ordinamento giuridico, le norme penali vietano i

comportamenti contrari al buon costume proprio come l’art.21 Cost., e

questa coincidenza della funzione di divieto propria sia del buon costume

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103

penalistico sia di quello dell’art.21 Cost. sembra far propendere per una

loro coincidenza.115

La interpretazione del buon costume proprio dell’art.21 in senso

penalistico è poi più compatibile con il sistema costituzionale.

Solo tale interpretazione, che si fonda sull’utilizzo di un canone

ermeneieutico restrittivo, risulta infatti coerente con lo spirito della

Costituzione, che impone di privilegiare il diritto di espressione piuttosto

che presunti valori etici, la cui individuazione e tutela è difficilmente

concepibile in una società non omogenea e in un ordinamento pluralista.

La interpretazione che identifica il limite posto dall’ultimo comma

dell’art.21 Cost. col buon costume inteso nella accezione penalistica, e

cioè come costume relativo alla sola sfera della sessualità, è quella più

rispettosa del principio di libertà di manifestazione del pensiero nel senso

più ampio, come sembra doveroso intenderlo nel nostro ordinamento

costituzionale, ed è dunque quella che sembra più legittima proprio

perchè più coerente con l’intero sistema di valori costruito dalla

Costituzione.116

115

In tal senso, fra tutti: Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano,

Milano, 1958, pg41-42; Fois, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano 1957,

pg128 ss.

116 In tal senso, fra tutti: Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova, 1984, pg68 ss.

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104

PAR.5: LIMITI IMPLICITI ALLA LIBERTÀ DI

MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO

Come già visto, la Corte Costituzionale ha affermato, in piena sintonia

con la dottrina, che non il solo buon costume costituisce limite legittimo

alla libertà garantita dall’art.21, ma che anche la tutela di altri beni-valori

può esserlo, a condizione che tali beni abbiano rilevanza costituzionale.117

Questa affermazione riapre però nuovamente il problema, già accennato

nel precedente capitolo, della individuazione di validi criteri di

inclusione-esclusione dei diversi beni dal novero di quelli a rilevanza

costituzionale.

Senza riproporre tutta la questione, ci limitiamo qui a ricordare come la

dottrina sia tendenzialmente unanime nel ritenere indeterminabile un

sicuro criterio utile a precisare la costituzionalità o la non costituzionalità

di un bene, e come lo stesso Angioni, sostenitore convinto di un diritto

penale a forte orientamento costituzionale, abbia ammesso tale

difficoltà.118

Questa considerazione deve necessariamente portare alla determinazione

del fatto che non sulla semplice inclusione di un bene tra quelli a rilievo

117

Vedere nota n.98.

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105

costituzionale può basarsi la limitabilità del diritto di espressione, ma che

questa deve fondarsi su una comparazione di valori compiuta in relazione

alla gerarchia di valori desumibile dalla Costituzione.

Vista infatti la grande espansione della categoria dei beni di implicita

rilevanza costituzionale, sarebbe contrario allo spirito della Carta

ammettere che la di questi tutela sia sempre legittima ragione per la

limitazione di un diritto fondamentale garantito da uno specifico articolo

a questo solo espressamente dedicato dalla Costituzione; affermare ciò,

infatti, comporterebbe una compressione così forte del diritto di libertà di

espressione da renderlo sostanzialmente evanescente e tale da svuotarlo

del reale significato in cui sembra invece doversi necessariamente

intenderlo, perchè solo così interpretandolo la libertà dell’art.21 può

essere fondamento valido di un ordinamento come quello disegnato dal

Costituente e valore coerente con lo spirito della Costituzione,

desumibile da una sua lettura sistematica.

Per quanto sopra detto, sembra dunque necessario effettuare una

valutazione comparativa a base costituzionale tra il valore del bene

oggetto della norma penale limitativa della libertà di manifestazione del

pensiero e il valore di tale libertà; se il valore costituzionale del bene

118

Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pg202; Pagliaro, Principi di

diritto penale Parte generale, Ed.4, 1993, pg226; Ramacci, Corso di diritto penale, vol.1, Torino, 1991, pg31;

Marinucci e Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv.it, 1994, pg349.

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tutelato penalmente risulta equivalente o maggiore rispetto a quello della

libertà di manifestazione del pensiero, questa va considerata

legittimamente limitata, mentre se tale valore risulta di minor importanza

costituzionale, la norma penale che tale valore tutela a scapito della

libertà dell’art.21, sembra doversi considerare costituzionalmente

illegittima.

Queste considerazioni porterebbero ad una soddisfacente soluzione della

questione fin qui trattata se con esse non si riproponessero “nuovi

problemi”.

In base alla Costituzione non è sempre possibile precisamente

determinare in che rapporto di sovra-subordinazione siano tra loro due

beni.119

La Costituzione infatti può solo tendenzialmente indicare una gerarchia

dei beni in essa contenuti, ma non può fornire un criterio di

comparazione tra beni che sia sempre utilmente applicabile.

Quindi, come per la questione della rilevanza costituzionale implicita il

riferimento alla Costituzione era insufficiente alla individuazione di un

valido criterio di inclusione-esclusione, anche in questo caso ci troviamo

119

Fra tutti: Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pg203 ss.;

Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Riv.it., 1982, pg55

ss.

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a dover fare i conti con l’inadeguatezza della Costituzione ad indicare dei

criteri certi di gerarchizzazione dei beni.

Questa ineliminabile vaghezza nell’individuazione di rapporti gerarchici

certi non può però portare all’abbandono del criterio gerarchico, che ha il

vantaggio, rispetto a quello della implicita rilevanza costituzionale, di

permettere una riduzione della zona d’ombra di legittimità costituzionale

delle norme ordinarie limitatrici della libertà sancita nell’art.21 Cost.

Il criterio della comparazione dei valori costituzionali sembra dunque

l’unico capace di soddisfare il più possibile l’esigenza di dare alla libertà

di manifestazione del pensiero un contenuto il più ampio possibile,

coerente con un sistema costituzionale che, fondandosi sui principi di

libertà e dignità della persona umana e calibrato alla costruzione di uno

stato liberale e democratico, non può che pretendere un ampio e forte

concetto di libertà di manifestazione del pensiero.

PAR.6: LIMITI ALLA LIBERTÀ DI

MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO IMPOSTI

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108

DALL’ART.15

Come abbiamo in precedenza dimostrato l’art.15 sanziona dei

comportamenti che costituiscono manifestazioni di pensiero, imponendo

quindi dei limiti a tali manifestazioni.

Di questo articolo si deve allora controllare la legittimità costituzionale in

relazione al rispetto di quanto disposto dall’art.21 della Costituzione.

I beni per la tutela dei quali l’art.15 sacrifica la libertà di manifestazione

del pensiero sono tre: il comune sentimento della morale, l’ordine

familiare e la non diffusione di suicidi o delitti.

Quello che bisogna dunque capire è se tali beni siano ricomprendibili nel

concetto di buon costume e, nel caso non lo siano, se siano di tale rilievo

costituzionale da legittimare in loro ossequio la limitazione di un diritto

così importante come è quello di cui all’art.21 Cost.

Alla prima questione abbiamo già precedentemente risposto in senso

negativo, dimostrando la impossibilità di assimilazione dei tre beni al

concetto di buon costume.

Anche la soluzione della seconda questione è già implicita nell’analisi dei

tre beni precedentemente condotta, nella dimostrazione della loro dubbia

rilevanza ed incerta compatibilità con la Costituzione.

Quello che qui ci limitiamo a rilevare è che, pur dando per presupposta la

pur dubbia rilevanza costituzionale dei beni, pur sorvolando sulla loro

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109

incerta compatibilità con la Costituzione, la loro copertura penale non

sembra comunque in linea con la Carta Costituzionale.

Infatti il sacrificio del bene “libertà di espressione del pensiero” sembra

del tutto sproporzionato rispetto all’esigenza di tutela di valori di rango

costituzionale certamente inferiore.

Il rapporto di valore costituzionale tra il bene dell’art.21 Cost. e quelli

dell’art.15 è sicuramente del tutto a favore del primo.

Se da una parte infatti la libertà di manifestazione del pensiero deve

considerarsi di primario valore perchè in se propria dell’uomo come

essere libero, e perchè funzionale sia alla realizzazione delle minime

esigenze di vita e al rispetto della dignità della persona, sia alla

costruzione di uno Stato pluralista, liberale e democratico, come deve

essere lo Stato Italiano secondo Costituzione, dall’altra parte i beni

dell’art.15 non sembrano affatto avere questa centrale importanza sotto

nessuno dei due aspetti sopra citati (non è sempre possibile

l’individuazione certa del rapporto costituzionale di sovra-subordinazione

tra beni, ma, nel caso in questione, lo è!).

Quindi la copertura penale dei beni dell’art.15 è del tutto

costituzionalmente inopportuna, se non anche, probabilmente, illegittima.

PAR.7: CONCLUSIONI

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Quello che si è cercato di evidenziare in questo capitolo è che la

soluzione che la Corte Costituzionale ha proposto riguardo la

sanzionabilità penale delle manifestazioni di pensiero è o troppo

semplicistica, o tale da così sembrare perchè conclusione di un

ragionamento sotterraneo in tutto simile a quello già riportato al termine

del precedente capitolo, volto, nella preoccupazione di illegittimamente

limitare la discrezionalità delle scelte legislative, ad evitare il più

possibile ogni decisione costituzionale che possa avvicinarsi ad una

decisione politica, sottovalutando però così i costi in termini di rispetto di

principi e di valori costituzionali che tale scelta comporta (vedere le

conclusioni del capitolo precedente per un migliore chiarimento della

questione).

Comunque, seguendo l’indirizzo della Corte secondo cui la non rilevanza

costituzionale neanche implicita dei beni tutelati dall’art.15 sarebbe

ragione tale da giustificare la dichiarazione della sua incostituzionalità

per contrarietà rispetto all’art.21 Cost., non sappiamo bene a quali

conclusioni arrivare, proprio perchè di tale rilevanza non si capisce come

disegnare i confini, e su questo, quindi, ci si astiene dall’argomentare

ulteriormente.

A nostro avviso, invece, una corretta interpretazione dell’art.21 Cost. che

pretenda una lettura della “limitabilità” della libertà tutelatavi in termini

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111

di comparazione di valori costituzionali in gioco, rende chiara la

inopportunità della tutela penale dei beni propri dell’art.15 e dovrebbe far

propendere anche per la dichiarazione della sua illegittimità

costituzionale per violazione dell’art.21 Cost.

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112

CONCLUSIONE DEI PRIMI DUE CAPITOLI

Nel corso del primo capitolo abbiamo cercato di fondare le critiche di

inopportunità e di illegittimità costituzionale dell’art.15 su

argomentazioni diverse da quelle allo stesso fine riportate nel secondo

capitolo.

Questa differente fondazione costituzionale delle critiche è però solo tale

da rafforzare e la ipotesi di inopportunità e quella di illegittimità, ma non

tale chiaramente da trasformare le ragioni di inopportunità in quelle di

illegittimità.

Una simile scelta va inquadrata nel già accennato problema dei rapporti

tra Diritto Penale e Costituzione, ed in quello della natura delle decisioni

della Consulta, che non è nostro compito qui affrontare, e tanto meno

provare a risolvere.

Quello che però ci sentiamo di affermare è che, specificatamente per

quello che concerne l’art.15, visti il valore e la natura particolare dei beni

oggetto della sua tutela, visti l’importanza e la molteplicità dei beni-

valori di rango costituzionale controinteressati (sacrificati) all’art.15,

sembra si possa propendere per considerarlo non solamente inopportuno

perchè non in linea con i criteri direttivi della Costituzione, ma addirittura

illegittimo per contrarietà a principi costituzionali che devono ritenersi

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113

contenuti in singoli e specifici articoli della Costituzione, se

compiutamente e correttamente interpretata.

(Per un più completo quadro delle ragioni della “ipotesi di

incostituzionalità” vedere in particolare anche le singole conclusioni dei

capitoli 1 e 2).

In fine a tale conclusione sembra potersi arrivare anche inquadrando la

questione nell’ottica (diversa ma certo strettamente collegata a quella

finora adottata) della “funzione della pena”.

Senza assolutamente voler entrare nel merito di una delle problematiche

più dibattute del diritto penale120 che non è il caso qui di affrontare ma a

cui è certo però utile almeno accennare relazionandola all’art.15, ci

limitiamo a rilevare come la pena prevista dall’articolo abbia

principalmente una finalità di tipo general-preventivo (in senso lato)

perchè “intimidatoriamente” rivolta alla tutela di un generico ed

inafferrabile “ordine sociale” più che a conseguire una giustizia del

singolo caso concreto ed un riequilibrio-reintegrazione dell’ordine

giuridico violato, e come questa “prevalenza” della funzione general-

preventiva su quella retributiva e su quella rieducativa mal si concili con

il “carattere liberale” che alla pena sembra essere stato attribuito dalla

120

Per una prospettiva generale sull’argomento: Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 1994;

Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995; Ramacci, Corso di diritto penale, vol.1,

Torino, 1991.

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Costituzione, se correttamente interpretata in una ottica di valori

democratici e liberali.121

Se la ratio della incriminazione e quindi la funzione della pena dell’art.15

è da identificarsi (come sembra) esclusivamente nella volontà di difesa

sociale e di conservazione di un ordine esistente, allora questo non può

che comportare la negazione della retributività della pena,

l’annichilimento del principio di colpevolezza e la strumentalizzazione

della persona umana, tutti risultati in evidente contrasto con la nostra

Costituzione che ancor più avvalorano la “ipotesi di incostituzionalità”

dell’art.15.

121

Tra tutti, in tal senso: Spasari, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pg53 ss.

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115

PARTE SECONDA: L’ART. 15

CAPITOLO 3

ART.15 L.47\1948: OLTRE LE QUESTIONI DI

COSTITUZIONALITÀ

PAR.1: I PROBLEMI INTERPRETATIVI DELL’ART.15

L’art.15 della Legge sulla Stampa tutela beni giuridici tra loro eterogenei

e lo fa utilizzando una tecnica normativa “veramente non felice”122

, e ciò,

unitamente all’esiguo approfondimento giurisprudenziale e dottrinale

riguardo le sue tematiche, ha contribuito alla non soluzione delle

contraddizioni ed ambiguità che ne accompagnano ancora oggi la

interpretazione.

Nel presente capitolo indicheremo quindi le diverse opinioni inerenti i

vari problemi ermeneieutici sollevati dalla norma e, dove possibile, le

soluzioni che sembrano preferibili.

122

Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg.291.

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116

PAR.2: ART.15 E ART.528 C.P.

2.1) RINVIO QUOAD POENAM O QUOAD DELICTUM

Il primo problema interpretativo che emerge dalla lettura dell’art.15 è

quello di stabilire se il richiamo che la norma compie all’art.528 c.p.(“Le

disposizioni dell’art.528 c.p. si applicano anche in caso di ...”) debba

essere inteso quoad poenam oppure quoad delictum, e cioè se sia relativo

solo all’individuazione della pena da applicare in caso di violazione

dell’art.15 o se tale da far entrare nella lettura dello stesso articolo gli

elementi strutturali dell’art.528 c.p..

Su questa alternativa le opinioni risultano divise sia in dottrina che in

giurisprudenza.

Nuvolone, che all’art.15 ha dedicato molta attenzione ed interesse

(perchè particolare pennellata di quel quadro sulla libertà di stampa che

l’autore cercò di disegnare con massima precisione e chiarezza), è tra i

sostenitori della prima tesi; egli infatti esplicitamente afferma che “il

rinvio all’art.528 c.p. è solamente quoad poenam”123

e motiva tale sua

opinione dichiarando che “in caso contrario nessun significato avrebbero

le specificazioni contenute nell’art.15.”124

123

Nuvolone, I limiti alla libertà di stampa nell’art.15 della legge 8 febbraio 1948 n.47, in Arch.pen., 1952,

2, pg.556.

124 Nuvolone, ult.op.cit.

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117

Concordi con l’indirizzo interpretativo del Nuvolone sono alcune

decisioni giurisdizionali di merito125

ed una decisione della Cassazione in

cui la Corte afferma che “l’art.15 della l.47\1948 si richiama all’art.528

c.p. ai soli effetti della sanzione.”126

Molto più nutrita è però la schiera dei sostenitori della seconda tesi, e

cioè quella che intende il rinvio all’art.528 c.p. operato dall’art.15 come

quoad delictum.

Il Ramajoli afferma come “sia il caso di dissipare l’equivoco consistente

nel ritenere che il riferimento all’art.528 c.p. fatto dall’art.15 valga ai soli

effetti della sanzione punitiva”127, e tale tesi argomenta continuando nello

spiegare che “Questa convinzione, se pur avvallata da una massima della

Cassazione, si rivela inaccettabile. In effetti, se il richiamo della norma

citata fosse stato imposto solo quoad poenam, il Legislatore si sarebbe

avvalso o della formula “si applicano le pene stabilite dall’art.528 c.p.”

come in materia di falso di documenti equiparati agli atti pubblici

(art.476, 491 c.p.) o della locuzione che l’agente “soggiace alle pene

stabilite dall’art.528 c.p.” così come è statuito in tema di atti abortivi su

125

Una per tutte: App.Roma 13 marzo 1958, in Arch.pen., 1959, 2, 166.

126 Cass.Pen.3 giugno 1965, Arcidiacono ed altri, in Giust.pen. 1956, 2, 72.

127 Ramajoli, Qualche rilievo sulla pubblicazione a contenuto impressionante o raccapricciante e la

pubblicazione oscena, in nota alla sent.n 845 della Corte di Appello di Roma, Sez. 1 Pen., ud.13 maggio

1958, in Arch.pen., 1959, pg169.

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donna ritenuta in cinta (art.550 c.p.) o, comunque di altra formula ritenuta

equipollente alle precedenti. Invece la dizione legislativa “le disposizioni

dell’art.528 c.p. si applicano anche nel caso di ...” appare di portata più

ampia e comprensiva rispetto a quelle sopra menzionate, in quanto incide

sulle modalità concrete di esplicazione della condotta criminosa

(fabbricazione, introduzione nel territorio dello stato, acquisto,

detenzione, ecc.) la quale deve essere informata al dolo specifico (scopo

di fare commercio o distribuzione delle pubblicazioni oscene). Infatti a

voler bene considerare, l’art.15 sottace completamente tanto l’indicazione

dell’elemento materiale quanto dell’elemento intenzionale del reato.”128

Autorevole sostenitore della tesi abbracciata dal Ramajoli è anche

Jannitti Piromallo, che a tal proposito ha chiaramente scritto che “Il

richiamo fatto sia dall’art.14 che dell’art.15 all’art.528 c.p. è non solo per

la pena nelle sue varie graduazioni, qualitative e quantitative, ma per

l’azione, che in tutti e tre gli articoli deve essere considerata nei

medesimi modi e termini e finalità, e sotto il profilo del pericolo.”129

Di tale opinione è anche il Mazzanti, il cui contributo al riguardo è

particolarmente importante perchè volto a confutare l’assunto su cui il

128

Ramajoli, Qualche rilievo sulla pubblicazione a contenuto impressionante o raccapricciante e la

pubblicazione oscena, nota alla sent. N.845 della Corte d’Appello di Roma Sez.1 Pen., ud.13 maggio 1958, in

Arch. pen., 1959, pg169..

129 Jannitti Piromallo, la legge sulla stampa, Roma, 1957, pg.110.

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Nuvolone basa la sua spiegazione della necessità di leggere il richiamo

all’art.528 c.p. ai soli fini della pena.

Mazzanti così scrive: “Sottoponendo ad acuta indagine la locuzione

comune sentimento della morale, il Nuvolone comincia col rilevare come

non può trattarsi solo della morale attinente alla sfera sessuale perchè il

rinvio all’art.528 c.p. è solamente quoad poenam, e come in caso

contrario nessun significato avrebbero le specificazioni contenute

dall’art.15.

Ma secondo il nostro parere non ha rilievo che se si facesse riferimento

alla morale sessuale non avrebbero significato le specificazioni

dell’art.15, e ciò perchè, contenendo la norma di cui all’art.15 lo

specifico richiamo ai particolari impressionanti e raccapriccianti, non

potrebbe mai parlarsi di un doppione della disposizione prevista

dall’art.528 c.p.”130

Dello stesso avviso, e per una interpretazione quoad delictum e per una

impossibilità di ridurre l’art.15 a mero doppione dell’art.528 c.p., è anche

Cantarano, che afferma sia che la norma dell’art.15 “è norma innovativa

che aggiunge nuove fattispecie legali a quelle previste dall’art.528

130

Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg.323,324.

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c.p.”131, sia che “il riferimento all’art.528 c.p. non è semplicemente quoad

poenam ma quoad delictum.”132

Anche la giurisprudenza sembra poi nella maggioranza più o meno

esplicitamente orientata verso questa interpretazione quoad delictum.133

2.2) DIVERSE CONSEGUENZE DELLE DUE DIFFERENTI

INTERPRETAZIONI

Notevoli sono le implicanze della scelta tra le ipotesi interpretative

prospettate al precedente punto, sia riguardo l’elemento materiale, sia

riguardo quello psicologico, propri dell’art.15.

Abbracciando infatti la tesi del rimando ai soli fini della individuazione

della pena, la interpretazione dell’art.15 e la ricostruzione dei suoi

elementi strutturali deve essere condotta in “modo autonomo” rispetto a

quella dell’art.528 c.p., mentre, se si accetta la tesi del rimando quoad

delictum, tale autonomia interpretativa cade, ed è invece necessaria una

lettura integrata dei due articoli, come chiaramente ed esplicitamente

affermano da diversi autori: “La dizione di rinvio alle disposizioni

dell’art.528 c.p. usata tanto nell’art.15 che nell’art.14 della legge sulla

131

Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg79.

132 Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg.79.

133 Tra tutte: Trib. Milano, 8 febbraio 1967, in Giur.it.1967, 2, 388; Trib. Milano, sent.n.3047 del

10\10\1995, dep.25\10\1995.

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stampa rinvia sia alle modalità della condotta criminosa (fabbricazione,

introduzione nel territorio dello stato, ecc.) che all’elemento psicologico

(scopo di farne commercio, di distribuzione). Nella struttura dell’art.528

c.p. si inserisce idealmente un nuovo oggetto sul quale si esplica la

repressione penale (“stampati i quali descrivano o illustrino, ecc.); le

ipotesi di condotta punibile sono le stesse descritte nel primo e secondo

comma dell’art.528 c.p., concernono cioè in modo autonomo ciascuna

delle attività di vari soggetti inerenti alla formazione, alla circolazione,

distribuzione o esposizione degli stampati”134

; “La dizione legislativa le

disposizioni dell’art.528 c.p. si applicano anche...(omissis) incide sulle

modalità concrete di esplicazione della condotta criminosa

(fabbricazione, introduzione nel territorio dello stato, acquisto,

detenzione, ecc.), la quale deve essere informata al dolo specifico (scopo

di fare commercio o distribuzione).”135

La interpretazione quoad poenam sembra implicare che il dolo richiesto

dall’art.15 sia dolo generico, e nulla dicendo sulle modalità pratiche di

estrinsecazione della condotta, lascia su queste dubbi e incertezze.

L’interpretazione quoad delictum pretende invece che l’elemento

materiale dell’art.15 sia integrato da quanto desumibile dalla lettura

134

Cantarano, ult.op.cit., pg79-80.

135 Ramajoli, ult.op.cit., pg169.

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dell’art.528 c.p., e cioè che consista nel “fabbricare”, “introdurre”,

“detenere” (ecc.); tale interpretazione pretende poi, sotto il profilo

soggettivo, che il dolo necessario a che si integri la fattispecie criminosa

dell’art.15 sia dolo specifico caratterizzato dalle ulteriori finalità indicate

dall’art.528 c.p. (scopo di fare commercio, ecc.).(Vedere meglio al par.4).

PAR.3: ELEMENTO MATERIALE DEL REATO

3.1) RICHIAMO ALL’ART.528 C.P.

In ordine alle conseguenze che le due diverse interpretazioni del richiamo

contenuto nell’art.15 all’art.528 c.p. hanno sulla individuazione

dell’elemento materiale della norma oggetto di questa tesi rimandiamo a

quanto appena sopra esposto nel precedente paragrafo.

3.2) STAMPATI

L’art.15 esplicitamente richiama la nozione di stampati (“...in caso di

stampati i quali...”) di cui è quindi necessario chiarire il significato.

Questo termine trova una definizione legislativa nel primo articolo della

legge sulla stampa, secondo cui si considera stampato “ogni riproduzione

tipografica o comunque ottenuta con mezzi meccanici o fisico-chimici, in

qualsiasi modo destinata alla pubblicazione”.

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La interpretazione dell’art.1 della legge sulla stampa è importante perchè

rende chiaro che non la semplice “creazione privata” di una qualsiasi

opera può essere punita ai sensi dell’art.15, ma che per ciò “è necessario

che sia predisposto un prodotto idoneo alla diffusione in una molteplicità

di esemplari.”136

Che poi gli stampati cui si riferisce la norma siano sia quelli periodici che

quelli non periodici è cosa certa, che può esser facilmente verificata dalla

semplice lettura degli atti della Assemblea Costituente che espressamente

bocciava l’inserimento della parola “periodici” all’interno della

fattispecie dell’art.15.137

3.3) DESCRIVERE O ILLUSTRARE

Se ne la dottrina ne la giurisprudenza hanno mai posto particolare

attenzione nel chiarire il significato di questi due termini ciò è dovuto

semplicemente al fatto che le nozioni di descrizione ed illustrazione

devono essere desunte in riferimento alla loro normale accezione nel

linguaggio ordinario.

Per completezza qui di seguito riportiamo la definizione che di tali

vocaboli suggerisce un noto dizionario della lingua italiana.

136

Cassaz.pen., Sez.5, 19 settembre 1983, n.7513.

137 Atti della Assemblea Costituente, seduta di venerdì 16 gennaio 1948.

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Descrivere: rappresentare con parole, in modo più o meno

particolareggiato o caratterizzante.

Illustrare: riferito ad un testo, corredarlo di figure (illustrazioni) per

agevolarne la comprensione o renderlo più attraente.138

3.4) PARTICOLARI IMPRESSIONANTI O RACCAPRICCIANTI

Questa espressione è di massima importanza per l’interpretazione

dell’art.15.

Dottrina e giurisprudenza sono uniformemente concordi nel ritenere che

in virtù di tale locuzione “La norma non pone un divieto assoluto di

pubblicare determinate notizie, ma il divieto di pubblicarle con particolari

e in modo che riescano offensive di taluni interessi di natura pubblica che

la legge tutela.”139

Quindi solo quelle descrizioni o illustrazioni nutrite di particolari dal

carattere impressionante o raccapricciante possono essere ricomprese

nell’art.15, perchè la norma in esso contenuta “non concerne il divieto

della trattazione di determinati argomenti, ma la particolarità della

narrazione e il modo della esposizione.”140

138

Devoto-Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana, Milano, 1967.

139 Cantarano, Codice della legislazione sulla stampa, Roma, 1987, pg236. In tal senso anche: Nuvolone,

ult.op.cit.; Mazzanti, ult.op.cit.; Ramajoli, ult.op.cit.

140 Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg80.

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Riportiamo ora a riguardo le considerazioni del Nuvolone perchè, oltre ad

essere utili per chiarire l’importanza della espressione “particolari

impressionanti o raccapriccianti”, sono anche tali da evidenziare le

problematiche che l’uso di una simile espressione comporta.

Secondo il Nuvolone “L’azione criminosa consiste anzitutto nel

descrivere o illustrare, con particolari impressionanti o raccapriccianti,

avvenimenti realmente verificatisi, o anche soltanto immaginari.

L’accento tipico della fattispecie cade quindi sui particolari della

narrazione: la narrazione di avvenimenti anche atroci non è vietata se gli

avvenimenti sono esposti in sintesi, nel loro risultato finale, senza eccessi

descrittivi diretti ad illustrare le varie fasi della loro attuazione.

Anche per la locuzione particolari impressionanti e raccapriccianti

bisogna ripetere quanto si è già detto in precedenza: è sommamente

inopportuno e pericoloso per la libertà di stampa costruire un limite

penale così incerto come quello, che, facendo leva su impressioni e

reazioni psichiche, ha fatalmente un carattere di estrema variabilità

soggettiva. Un giudice sensitivo troverà impressionanti e quindi

penalmente perseguibili, narrazioni che, per la maggior parte dei lettori,

riescono del tutto indifferenti.”141

141

Nuvolone, I limiti della libertà di stampa nell’art.15 della l.8\2\1948 n.47, in Arch.pen., 1952, 2, 555.

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Anche Jannitti Piromallo a tal proposito nota come “Quali siano i

particolari impressionanti e raccapriccianti non è facile dire”142, anche se

poi, forse troppo fiduciosamente, continua dicendo che “il concetto è di

comune accezione e sarà caso per caso stabilito dal giudice.”143

Quello che qui dobbiamo aggiungere è allora che l’importanza che tale

espressione ha nel qualificare o meno un comportamento quale

ricomprendibile tra quelli vietati dall’art.15 e quindi la sua centralità

quale criterio di discriminazione del confine tra il lecito e l’illecito, e al

tempo stesso la forte e necessaria vaghezza che l’uso della dizione

particolari impressionanti o raccapriccianti porta con se, sono

considerazioni tali da aggiungere forza argomentativa alle tesi esposte nei

primi due capitoli di questo lavoro, tali da rendere ancora più chiara la

inopportunità dell’articolo e dubbiosa la sua costituzionalità.

Infatti la scelta metodologica di evidenziare il possibile contrasto

dell’art.15 con alcuni principi della Costituzione attraverso l’analisi delle

caratteristiche dei beni da questo tutelati, non deve certo far dimenticare

che i principi di determinatezza, offensività e colpevolezza si devono

riferire alla ”intera” fattispecie incriminatrice, e che quindi il di loro

rispetto non è solo messo in discussione dalla natura dei beni tutelati

142

Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1949, pg122.

143 Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1949, pg122.

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dall’art.15, ma anche dall’uso che questa disposizione fa dei termini

impressionante e raccapricciante.

Questi vocaboli vanno infatti certamente considerati quali elementi

significativi della fattispecie, e tali quindi da dover essere conformi ai

principi di determinatezza, offensività e colpevolezza, pena il contrasto

dell’intera fattispecie con specifici articoli della Costituzione, in cui i

detti principi si trovano contenuti.

L’espressione “particolari impressionanti o raccapriccianti” è invece

fortemente ambigua perchè difficilmente determinabile nel suo

significato (i cui contorni necessariamente risultano sfumati), ed anche

decisamente vaga perchè legata a parametri soggettivi di valutazione e di

sensibilità, e quindi tale da risultare sicuramente inadatta ed inopportuna

a costituire il momento discriminante tra il lecito e l’illecito, ed il suo

utilizzo tale da sembrare incompatibile con il rispetto dei principi

costituzionali sopra citati.

Nonostante quanto sopra appena visto, accenniamo comunque alla

questione a questa collegata del parametro di sensibilità su cui valutare

la capacità impressionante e raccapricciante dei particolari.

A tal proposito dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che i

particolari “devono esser tali da suscitare, sulla media dei cittadini, una

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sensazione di impressione e di turbamento”144

, e cioè che il metro di un

simile giudizio debba essere “l’osservatore di normale emotività.”145

Solo in una decisione della Corte di Appello di Roma dell’anno 1952 si

può leggere, in senso contrario a quanto sopra riportato, che “La norma si

riferisce a quei turbamenti della coscienza morale che derivano da fatti di

una immoralità particolarmente ripugnante, di una immoralità per così

dire qualificata, ed alla cui influenza malefica anche l’individuo meglio

preparato difficilmente potrà sottrarsi”146; la tesi della Corte non viene

però supportata da alcun tipo di argomentazione, ed essendo

probabilmente ciò conseguenza della impossibilità di validamente

argomentare in tal senso, dovuta alla assoluta mancanza di dati normativi

tali da far ritenere possibile una simile interpretazione, sembra allora che

la tesi della Corte possa esser scartata senza dubbio alcuno, perchè,

nonostante se ne debba riconoscere la nobile finalità di dilatare la libertà

di stampa restringendo la portata dell’art.15, tuttavia non si possono

comunque sacrificare logica e coerenza interpretativa nel perseguire un

simile obiettivo.

144

Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg322.

145 Cassaz. Sez.3, Ud.9 giugno 1982 (Dep.9 ottobre 1982). In tal senso anche Trib. Milano, sent.n.3047,

10\10\1995.

146 C.Appello di Roma, 19 giugno 1952, in Arch.pen., 1952, 2, 550.

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129

3.5) IN MODO DA

Con la locuzione “in modo da” l’art.15 descrive il rapporto di causalità

che deve sussistere tra la condotta e l’evento di pericolo, e cioè specifica

come non ogni descrizione o illustrazione curate con particolari

impressionanti o raccapriccianti siano vietate dalla norma, ma solo quelle

che secondo determinate modalità di estrinsecazione sono idonee a ledere

i beni oggetto della sua tutela.

Come abbiamo già accennato nel precedente paragrafo “L’azione

costitutiva del reato non si esaurisce nell’esposizione di particolari

impressionanti o raccapriccianti, ma deve essere integrata dal modo della

esposizione, particolarmente suggestivo, o denotante nell’autore

insensibilità morale o compiacimento per la narrazione in se stessa.”147

Notevole è il contributo che all’approfondimento della tematica

dell’efficienza causale nell’art.15 ci viene offerto dalla lettura delle

considerazioni in tal senso svolte dal Nuvolone e che qui di seguito

riportiamo.148

“Il problema fondamentale è quello del rapporto di causalità tra la

condotta e l’evento di pericolo. E tale problema fa logicamente perno

sulla consecutiva in modo tale da. Questa consecutiva significa,

147

Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg80.

148 Nuvolone, I limiti della libertà di stampa nell’art.15 l.8 febbraio 1948 n.47, in Arch.pen., 1952, 2, 555 ss.

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evidentemente, che vi deve essere nella narrazione l’idoneità a produrre

quell’evento; e ciò vuol dire appunto che la narrazione deve esser fatta in

un certo modo, oltre a contenere particolari impressionanti e

raccapriccianti.

Se, invero, bastassero i particolari impressionanti o raccapriccianti, il

legislatore si sarebbe servito della solita locuzione usata in altri casi: se

dal fatto può derivare ecc. Invece il legislatore, servendosi di quella

consecutiva, ha voluto dire qualcosa di diverso.

Quindi i particolari impressionanti e raccapriccianti, per dar luogo ad

incriminazione, devono essere presentati sotto un determinato aspetto. E

tale aspetto non può che essere quello della suggestività della

esposizione, della sua insensibilità morale, della mancanza di ogni

elemento di riprovazione, del compiacimento implicito della narrazione

in se per se. Infatti, la narrazione teleologicamente orientata nel senso

della deplorazione non può dirsi pericolosa per la morale e per l’ordine

pubblico.

L’idoneità, perciò, risulterà in sintesi, dai seguenti elementi:

a) natura degli avvenimenti narrati: avvenimenti che escono dalla

normalità sociale e incidono sui principi etico-giuridici su cui si fonda

la convivenza;

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b) natura dei particolari narrati: particolari che suscitano forti

impressioni contrastanti con i principi di cui sopra fino ad apparire il

prodotto delle più deteriori degenerazioni sadiche o masochistiche;

c) modo della narrazione: qui vengono in considerazione quei caratteri

di suggestività e di amoralità, di cui abbiamo or ora parlato;

d) reattività sociale in rapporto ai tempi e ai luoghi: quello di idoneità

è un concetto di relazione tra lo stampato e il lettore, e come tale non

può prescindere da questo dato oggettivo esterno.”149

In tal senso anche il Mazzanti, che in un paragrafo dedicato alla questione

dell’efficienza causale nell’art.15, così scrive: “Ma il punto più

importante sì da essere fondamentale per risolvere il problema

dell’efficienza eziologica concerne il modo della trattazione, sia essa una

descrizione, una narrazione o una illustrazione.

Ed, invero se il racconto - per usare un termine generico e comprensivo -

si risolvesse con un ammonimento morale esplicito o tale che scaturisca

dal contenuto dell’esposizione; se proponesse delle soluzioni etiche; se

rivolgesse deplorazioni ai fatti prima esposti; se, in una parola, fosse da

considerare moralmente ineccepibile, non si verserebbe nelle ipotesi

delittuose in esame. Ma se invece lungi dall’esporre i principi morali, o

dal suscitare un senso di disgusto e di timore, che pur varrebbe ad

149

Nuvolone, ult.op.cit., pg557-558.

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132

allontanare da ogni idea di suicidio, di delitto o di violenza, etc., tali

narrazioni si diffondano nel trattare in guisa favorevole, con

approvazione, in modo da suscitare ammirazione e desiderio di malsana

emulazione, fatti contrari ai beni giuridici dalle norme tutelati, allora, ed

a giusto titolo, potremmo dire che ci troviamo di fronte al materiale

delittuoso che ci interessa.

È dunque il modo dell’esposizione quello che conta; quel modo che

susciti simpatia per i protagonisti delle poco morali vicende; che induca il

lettore ad emularli e ad amarli per il fascino che, in virtù dell’abilità

dell’autore, promana dalle figure rappresentate; è il modo che denota una

efficacia di suggestione, determinata dall’insistere nell’esposizione si da

rilevare non già il distacco dello scrittore, ma una sorta di

compiacimento, di adesione e sì da ottenere effetti di persuasione, di

sintonia morale fra l’autore e il lettore.

Quando, in sostanza, la narrazione rilevi la coerenza intima , avvertibile,

anche se non espressa, la simpatia fra lo scrittore e i protagonisti delle

poco sane vicende, e ciò perchè tutti i particolari dei fatti valgono a creare

attorno ai protagonisti suddetti e alle loro azioni un alone di gloria, di

vittoria, di successo nella vita, di superamento di ogni ostacolo; quando,

infine, l’autore si compiaccia dei suoi personaggi e miri a suscitare

attorno ad essi, non un senso di deprecazione, ma, anzi di ammirazione e

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di consenso, dovrà allora dirsi che, in effetti, trattasi di racconti

incriminabili ai sensi della Legge sulla stampa (art.14 e 15).”150

Le considerazioni dei due autori meritano ora alcune riflessioni, perchè

forse non così “immediatamente condivisibili” come la loro grande

chiarezza espositiva le fa apparire.

Per semplicità di analisi prendiamo solo in considerazione e

sottoponiamo a vaglio critico i punti in cui il Nuvolone ha efficacemente

schematizzato gli elementi su cui basare il giudizio di idoneità causale

necessario ad applicare l’art.15, perchè le considerazioni del Mazzanti

sono in linea di massima ai suddetti punti riconducibili e, per quanto non

a questi accomunabili, forse ancor più criticabili.

Punto a):natura degli avvenimenti narrati. Tale punto presuppone sia

l’individuazione del concetto di “normalità sociale” che quella dei

“principi etico-giuridici posti a fondamento della convivenza sociale”, e

afferrare concettualmente la nozione (in se forse già inquietante) di

normalità sociale e individuare principi etico-giuridici fondamentali, è

opera non certo semplice e comunque, se portata a termine, difficilmente

esente da vaghezza e labilità.

Punto b):natura dei particolari narrati. Anche il concetto di “forti

impressioni contrastanti con i principi etico-giuridici” qui richiamato

150

Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg332-333.

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comporta gli stessi problemi appena sopra esposti, così come il

riferimento alle “deteriori degenerazioni sadiche e masochistiche” è

fortemente emotivo ed è assolutamente inadatto ad indicare alcun criterio

valido di causalità applicabile al caso in questione.

Punto c): modo della narrazione. I concetti di “suggestività” e di

“amoralità” sono anch’essi soggetti alle critiche sopra riportate.

Punto d): reattività sociale in rapporto ai tempi e ai luoghi. Questo punto

è in linea di massima condivisibile.

Punti a)b)c)d). Tutti gli elementi puntualmente riportati dal Nuvolone

sembrano avere il difetto di individuare i parametri della causalità in base

a criteri di natura fortemente soggettiva e tali da non poter essere oggetto

di alcun tipo di verifica empirica attendibile.

Tanto ciò è vero che, come meglio vedremo nel prossimo paragrafo, a

volte sia la dottrina che la giurisprudenza hanno “mutato il campo di

applicazione” dei criteri del Nuvolone, riferendoli all’elemento

soggettivo del reato, considerando il dolo necessario per integrare la

fattispecie come dolo specifico e cioè come volontà finalisticamente

orientata alla lesione dei beni tutelati dalla norma, beni che sono

d’altronde poi incredibilmente vicini a quei principi etico-giuridici di cui

il Nuvolone parla nei punti a)e b) e alla moralità di cui al punto c).

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135

La lodevole intenzione perseguita dal Nuvolone di dare dell’art.15 una

lettura compatibile con la Costituzione attraverso l’interpretazione della

locuzione in modo da come suggestiva di una causalità orientata non

sembra convincente, e, a nostro parere, non può esserlo non per un difetto

di argomentazione imputabile all’autore, ma perchè, come spiegato nel

primo capitolo, è la qualità stessa della tipologia dei beni protetti dalla

norma a implicare simili conseguenze.

Come scrive Cantarano “La narrazione impressionante e raccapricciante

viene in considerazione non per la sua oggettività intrinseca, ma per la

sua direzione finalistica, e cioè in relazione ad un concetto nebuloso e

necessariamente generico di morale comune, non determinabile in

concreto se non attraverso pericolose intuizioni soggettive.”151

PAR.4: ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO

4.1) ART.528 C.P. ED ELEMENTO SOGGETTIVO DELL’ART.15

151

Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg81.

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La diversa lettura quoad delictum o quoad poenam del richiamo operato

dall’art.15 all’art.528 c.p. influenza la questione dell’elemento

psicologico necessario ad integrare l’illecito di cui all’art.15.

Interpretare il rimando semplicemente quoad poenam sembra comportare

che il dolo proprio dell’art.15 debba essere inteso come dolo generico,

mentre, intendendo il richiamo quoad delictum, conseguentemente si

deve pretendere che il dolo proprio dell’art.15 sia dolo specifico, e cioè

consistente in una volontà rivolta allo scopo di fare commercio o

distribuzione o pubblica esposizione, nei casi di fabbricazione,

introduzione nel territorio dello stato, acquisto, detenzione, esportazione

o messa in circolazione, di stampati dalle caratteristiche indicate

dall’art.15, mentre nei casi di commercio, distribuzione o esposizione

pubblica degli stessi stampati, è sufficiente il dolo generico, come è

deducibile dalla lettura integrata dell’art.15 e dell’art.528 c.p.

4.2) DOLO SPECIFICO

L’art.15, certamente richiamandosi all’art.528 c.p. almeno per la

determinazioni delle sanzioni da irrorare nel caso di sua violazione,

impone come pena per il trasgressore la reclusione da tre mesi a tre anni e

la multa non inferiore a lire duecentomila. Così disponendo l’articolo si

colloca tra la categoria dei delitti, e quindi, come prescritto al secondo

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comma dall’art.42 c.p., non espressamente indicando la possibilità di una

responsabilità colposa, presuppone la sola possibilità della punibilità a

titolo doloso.

Se quanto sopra detto è di tutta evidenza e tale da non far sorgere dubbio

alcuno, altrettanta chiarezza ed uniformità di vedute non è riscontrabile

riguardo un diversa prospettiva della questione del dolo, e precisamente

al se questo debba essere inteso come generico o come specifico (e cioè

rivolto a determinate finalità e ispirato da particolari motivazioni).

La dottrina è a tale riguardo più chiara ed al tempo stesso più uniforme

della giurisprudenza: infatti la maggior parte degli autori che si sono

interessati al tema152

hanno avuto la accortezza di specificare se

l’importanza attribuita all’atteggiamento mentale dell’autore dovesse

riferirsi all’elemento materiale del reato (come tutti questi hanno

affermato), oppure all’elemento psicologico del reato, mentre in molte

delle decisioni giudiziali viene semplicemente affermata l’importanza del

modo di rapportarsi dell’autore dello stampato al di questo contenuto, ma

senza chiarire se tale questione afferisca all’elemento materiale o a quello

152

Nuvolone, I limiti della libertà di stampa nell’art.15 della L.8\2\1948 n.47, in Arch.pen., 1952, 2, 555;

Cantarano, regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg81; Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano,

1962, pg327.

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soggettivo del reato, anche se non mancano casi in cui esplicite e chiare

sono prese di posizione nell’uno153

o nell’altro senso.154

Considerare il dolo dell’art.15 come dolo specifico significa ritenere

necessario che il soggetto attivo del reato, oltre ad aver agito con

coscienza e volontà di illustrare o descrivere con particolari

impressionanti e raccapriccianti (...), abbia avuto il proposito di ledere i

beni giuridici tutelati dall’art.15, mentre ritenere semplicemente

necessario il dolo generico ai fini dell’applicazione dell’art.15, equivale a

considerare sufficiente che l’agente abbia avuto cosciente volontà di

illustrare la narrazione del fatto con particolari i quali risultino in effetti

impressionanti o raccapriccianti e tali da poter ledere i beni dell’art.15,

senza dare alcun rilievo al fatto del se l’agente si fosse o meno riproposto

di in tal modo offenderli.

Vale la pena di riportare ora le considerazioni della Corte di Cassazione

riguardo al problema in questione e conseguentemente quelle sul come

valutare gli atteggiamenti morali dell’autore.

“Va subito detto che la formulazione della norma non accredita

minimamente una concezione del dolo come atteggiamento della

interiorità del soggetto quale quella che traluce nell’idea che i particolari

153

Cassaz.,Sez.3, 2 febbraio 1959, in Giust.pen. 1959, 2, 1179, 975; Cassaz.Sez.3, 9 febbraio 1959, in

Rep.giur.it. 1959, pg3330, n.47; Cassaz. Sez.3, Ud.9 giugno 1982 (Dep.9 ottobre 1982).

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impressionanti e raccapriccianti della pubblicazione incriminabile

debbano essere esposti in modo da rilevare nell’autore non già una forma

di distacco, ma una sorta di compiacimento e di adesione per l’oggetto

della pubblicazione.

Vero è invece che nel delitto in esame il dolo non si pone altrimenti che

nelle forme ordinarie enucleabili dagli art.42-43 c.p. e cioè come

presenza rappresentativa, nella coscienza dell’agente, di tutti gli elementi

costitutivi della fattispecie criminosa e come adesione volitiva ad essi

anche mediante accettazione del rischio di una loro verificazione

eventuale. Ne deriva che qualora l’autore si sia rappresentati gli obiettivi

summenzionati caratteri della pubblicazione a contenuto impressionante

o raccapricciante, e cioè nonostante l’abbia voluta, né la finalità ispirativa

della volizione, né la motivazione su cui questa si sostenga, né lo stato

d’animo più o meno dissonante col tenore della medesima hanno

efficacia esclusiva del dolo, anche se finalità, motivazione e dissonanza

siano dichiarate contestualmente alla pubblicazione e possono valere a

misurare l’intensità del dolo o anche ad attenuare la responsabilità penale

del colpevole.”155

154

Una per tutte: Tribunale di Milano, 28 gennaio 1950, in Giust.pen. 1950, 2, 335.

155 Cassaz.Sez.3, Ud.9 giugno 1982 (Dep.9 ottobre 1982).

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Così chiarito di che tipo di dolo si tratti, la Corte subito prosegue

spiegando che “Nemmeno può condividersi la tesi orientata ad attrarre

nell’orbita rappresentativa e volitiva dell’elemento soggettivo del reato la

potenzialità offensiva del contenuto impressionante o raccapricciante

della pubblicazione rispetto al comune sentimento della morale, facendo

di tale nota, che appartiene chiaramente (in modo da poter turbare) alla

struttura obbiettiva della fattispecie criminosa, siccome attinente alla

lesività in concreto della condotta, un carattere specifico del dolo

dell’autore. Quando la legge ha inteso limitare la punibilità di un fatto ad

una determinata specifica direzione assunta dalla volontà dell’agente,

concentrando su di essa l’interesse punitivo, riponendo in essa il giudizio

normativo di riprovevolezza ed in definitiva soggettivando il disvalore

colpito dalla norma incriminatrice, lo ha fatto senza mezzi termini

descrittivi, onde non è lecito all’interprete ricostruire la fattispecie

introducendo in essa un elemento finalistico riduttivo della portata

significativa del testo normativo e del raggio di tutela con esso accordata

ad un determinato bene giuridico, nella specie il comune sentimento della

morale, esposto a turbamento sia che l’autore della pubblicazione si sia

proposto intenzionalmente di turbarlo, sia che ne abbia scontato

l’evenienza pur di raggiungere uno scopo realmente o opinatamente

possibile, sia che abbia, ma inescusabilmente (art.5 c.p.) ritenuta lecita la

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propria condotta in virtù del perseguimento di tale scopo, sia in fine che

abbia sinceramente inteso eliminare la potenzialità lesiva del fatto,

obiettivamente riscontrabile ed in effetti personalmente riscontrata, col

dichiarare lo scopo stesso.”156

La dottrina che su tali specifiche problematiche si è espressa è concorde

con quanto sopra affermato dalla Cassazione e lo stesso può dirsi per la

giurisprudenza dominante di merito.157

PAR.5: OPERA D’ARTE E ART.15

Il problema che qui si discute è quello del se la artisticità dell’opera

oggetto dello stampato avente le caratteristiche necessarie ad integrare la

fattispecie dell’art.15, sia o meno condizione tale da escludere

l’applicabilità dell’articolo stesso.

Riguardo tale questione nullo è il contributo della giurisprudenza ed

altrettanto inesistente quello della dottrina, eccezion fatta per il solo

Cantarano che, comunque, molto succintamente scrive: “In rapporto a

questa figura di reato non agisce il limite dell’opera d’arte, che l’art.529

c.p. riferisce solo alla nozione dell’osceno. D’altra parte l’opera d’arte

156

Vedere nota n.142.

157 Vedere nota n.140.

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può essere più idonea di ogni altra, per la sua suggestività, a suscitare

quel turbamento che la legge vuole evitare.”158

L’argomentazione del Cantarano non risulta però convincente perchè si

può egualmente affermare che l’opera d’arte può essere idonea, per la sua

suggestività, anche a suscitare quel turbamento che l’art.528 c.p. vuole

evitare, ma che espressamente invece l’art.529 c.p. non prevede venga

punito nel caso sia procurato da opera d’arte o di scienza.

Affermare, come sembra fare il Cantarano, che l’opera d’arte, solo perchè

idonea a ledere i beni protetti dall’art.15 non è condizione di esclusione

della punibilità, appare errato semplicemente considerando che la

giurisprudenza159

, commentando l’art.529 c.p., ha costantemente

affermato che la artisticità di una opera non implica che questa non sia

qualificabile come oscena, ma semplicemente rende non punibile

l’osceno, e che quindi non è che l’opera d’arte o di scienza non sia punita

perchè inidonea a turbare il comune senso del pudore, ma perchè il

legislatore ha ritenuto di escluderne la punibilità in base a un giudizio di

comparazione di valori (giudizio oggi rafforzato dall’art.33 Cost.: “L’arte

e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”). Se il giudizio di

oscenità è del tutto indipendente da quello di artisticità-scientificità, e se

158

Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg81.

159 Cassaz., Sez.3, 73\127782; Sez.3, 73\127784; Sez.4, 77\135806.

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la scelta di fare della artisticità-scientificità di una opera la esimente

specifica per il reato di cui all’art.528 c.p. è fondato su di un giudizio di

valori, allora sembra giusto considerare applicabile tale esimente anche

all’art.15.

Infatti l’art.15 tutela valori la cui legittimità costituzionale quali limiti

alla libertà di espressione del pensiero è sicuramente meno fondata di

quella del valore del comune senso del pudore (che in tale senso è

legittimato dall’art.21 Cost. ultimo comma), e se la legge ritiene che tale

valore sia meno pregnante di quello della tutela della libertà di

espressione artistica e scientifica (lettura integrata degli art.21 e 33

Cost.), allora ne consegue che la esimente della artisticità-scientificità

dell’opera a maggior ragione deve valere per l’art.15 che protegge beni il

cui valore costituzionale di limiti alla libertà garantita dall’art.21 Cost. è

certamente inferiore a quelli dell’art.528 c.p.

Detto ciò, riportiamo come contributo all’approfondimento di questa

tematica e come indizio di validità della tesi sopra esposta parte della

discussione tenutasi in Assemblea Costituente su questo argomento.160

“-PRESIDENTE. Gli onorevoli Scoccimarro, Togliatti ed altri hanno

proposto di aggiungere le parole: che non abbiano carattere di opere

d’arte.

160

Atti della Assemblea Costituente, seduta del venerdì 16 gennaio 1948.

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-CEVOLOTTO(Relatore). Chiedo di parlare

-PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

-CEVOLOTTO(Relatore). Mi pare che l’aggiunta proposta

dall’onorevole Scoccimarro sia forse superflua, ma non possa in ogni

caso trovare opposizione nel suo concetto, perchè è compresa nell’art.529

c.p., il quale dice: “Non si considera oscena l’opera d’arte o di scienza,

salvo che (omissis)”. Ora, qui non si tratta soltanto di oscenità, ma anche

di descrizione di fatti raccapriccianti o comunque impressionanti. Il

concetto contenuto nell’art.529 c.p. per l’opera oscena, a maggior ragione

non può essere negato per l’opera semplicemente impressionante o

raccapricciante. Sarebbe assai strano che la disposizione del Codice

penale per l’opera anche oscena, quando sia opera d’arte, non venisse

ripetuta quando si parla di pubblicazioni semplicemente raccapriccianti o

impressionanti.

-UNA VOCE. È pleonastica.

-CEVOLOTTO(Relatore). Non è pleonastica, perchè l’art.529 c.p. si

riferisce all’art.528 c.p., che parla di pubblicazioni e spettacoli osceni, e

qui non parliamo di spettacoli osceni ma di pubblicazioni impressionanti

o raccapriccianti. Certamente l’aggiunta precisa l’interpretazione che

deve essere data dell’articolo 529 c.p.

-MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

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-PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

-MORO. Condividendo le dichiarazioni fatte dall’onorevole Cevolotto e

ritenendo che qui non siano da prendere in considerazione le opere d’arte,

che sono ad altro titolo escluse, dichiaro che voteremo contro

l’emendamento Scoccimarro.

-RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

-PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

-RUSSO PEREZ. Se la proposta tende ad escludere dall’incriminazione

le vere opere d’arte, come la Fucilazione del Goja o le Bestie squartate

del Rembrandt, la disposizione è superflua perchè ciò è nella coscienza di

tutti. Se viceversa tende a fare sfuggire alla repressione penale giornalisti

o pseudo artisti che vogliono violare la legge servendosi di questo

stratagemma, la proposta è pericolosa, e perciò voterò contro.

-CEVOLOTTO(Relatore). Chiedo di parlare.

-PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

-CEVOLOTTO(Relatore). Non vorrei che adesso, attraverso una

votazione fatta, diciamo pure, un pÒ per impeto, si venisse a pregiudicare

l’applicabilità dell’art.529 c.p. Poiché noi ci riferiamo all’art.528 c.p., è

evidente che si deve applicare anche l’art.529 c.p. Questo mi pare chiaro.

La votazione dell’emendamento proposto dall’onorevole Scoccimarro

sotto questo aspetto potrebbe anche ritenersi superflua perchè, secondo

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me, non vi è dubbio che dal richiamo dell’art.528 c.p. discende

l’applicabilità anche dell’art.529 c.p. L’elemento costituisce

semplicemente un chiarimento interpretativo. Ma io mi preoccupo che

dall’eventuale reiezione dell’emendamento non si possa dedurre una

interpretazione che io ritengo certa. Penso che ciò sia pericoloso e perciò

prego l’onorevole Scoccimarro di considerare la questione sotto questo

aspetto. Se il suo emendamento venisse respinto, il voto della Camera

potrebbe avere un significato che toglierebbe la possibilità di quella

interpretazione che, secondo me, è evidente.

-SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

-PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

-SCOCCIMARRO. L’emendamento presentato avrebbe avuto significato

se fosse stato approvato dall’unanimità dell’Assemblea. Poteva essere

superfluo, ma in ogni modo precisava. Poiché si delinea la possibilità di

un voto contrario, questo creerebbe equivoci e difficoltà, per cui ritiro

l’emendamento”.

Come già detto, condividiamo la posizione dell’onorevole Cevolotto, ma,

visti i problemi interpretativi sorti attorno alla natura del richiamo

dell’art.528 c.p. da parte dell’art.15, sarebbe stata auspicabile

sull’argomento una più chiara presa di posizione dell’Assemblea, magari

proprio nel senso auspicato dall’onorevole Scoccimarro.

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PAR.6: TRATTAMENTO SANZIONATORIO

L’art.15 certamente rimanda all’art.528 c.p. per la determinazione del

trattamento sanzionatorio.

Le pene applicabili in caso di violazione dell’art.15 sono dunque quella

della reclusione da tre mesi a tre anni e della multa non inferiore a lire

duecentomila.

PAR.7: RELAZIONI DELL’ART.15 CON ALTRE

NORME DELL’ORDINAMENTO

7.1) PREMESSA

Per trattare in modo esauriente ed approfondito gli argomenti che di

seguito verranno esposti, sarebbe necessario affrontare una lunga e

complessa analisi della tematica dell’abrogazione, e relazionarla ad un

particolareggiato studio dell’art.114 T.U.P.S. e dell’art.565 c.p. (a loro

volta raffrontati all’art.15 l.47\1948).

Una simile opera sarebbe molto complicata dalla non felice tecnica

normativa con cui le disposizioni in questione sono state scritte dal

legislatore e dalla molteplicità ed immaterialità dei beni da queste

tutelati, e tale compito risulterebbe alla fine troppo incerto e

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assolutamente sfornito di concreti agganci dottrinali e giurisprudenziali,

non essendosi né la dottrina né la giurisprudenza a ciò interessate.

Allora, consci dell’eccessivo impegno che la loro trattazione

comporterebbe e convinti della marginalità di queste questioni perchè

non inerenti le problematiche di costituzionalità che l’art.15 solleva e che

sono la vera ragione del nostro interesse per questo, ci limiteremo a

riguardo a solo riportare le poche e spesso ambigue opinioni di dottrina e

giurisprudenza.

7.2) ART.15 E ART.114 T.U.P.S.

La questione trattata in questo paragrafo è quella della avvenuta possibile

abrogazione da parte dell’art.15 della legge sulla stampa del terzo comma

dell’art.114 della legge n.773\1931 (T.U.P.S.), che così recita: “È inoltre

vietato di pubblicare nei giornali o in altri scritti periodici ritratti dei

suicidi o di persone che abbiano commesso delitti.”

In merito alla suddetta questione la dottrina è divisa.

Da una parte, Nuvolone161

e Jannitti Piromallo162

sostengono la

impossibilità di ritenere l’art.114 abrogato dall’art.15, dall’altra Finardi163

161

Nuvolone, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, pg258-259.

162 Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1957, pg121.

163 Finardi, I ritratti dei suicidi e delle persone che hanno commesso delitti e l’art.114 del t.u.p.s., in

Arch.pen., 1951, 1, 245.

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e, come a noi sembra, anche se solo implicitamente, Mazzanti164

e

Cantarano165

, propendono invece per ritenerlo abrogato.

Mentre Jannitti Piromallo si limita riguardo ciò ad affermare che “Questa

disposizione (art.114) non può essere ritenuta abrogata con l’entrata in

vigore della legge sulla stampa, perchè con essa non solo non è

incompatibile, ma di essa può reputarsi complementare”166

, Nuvolone più

estesamente spiga: “La disposizione dell’art.114 della legge di p.s. tutela

anche un altro interesse, di natura privata, e cioè quello di ogni cittadino

di non veder esposta la propria immagine alla curiosità morbosa dei

lettori della cronaca nera. A tale interesse anche oggi bisogna riconoscere

il carattere di un diritto, e pertanto il divieto conserverebbe intatto il suo

valore, anche se dovesse ritenersi caduta la parte pubblicistica della ratio

legis. Solo la volontà contraria degli aventi diritto potrebbe togliere, da

questo punto di vista, alla pubblicazione il suo carattere illecito. Per

questi motivi, pur tenendosi conto della obbiezioni, della desuetudine in

cui è caduta la norma e del consolidato orientamento giurisprudenziale,

non ci sembra di dover deflettere dal convincimento circa l’attuale

applicabilità della norma. Se la si ritiene superflua, è bene abrogarla.”167

164

Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg319 ss.

165 Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg79 ss.

166 Jannitti Piromallo, ult.op.cit., pg121.

167 Nuvolone, ult.op.cit., pg258-259.

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150

Finardi, convinto sostenitore della tesi che vede l’art.114 abrogato in

forza dell’art.15, così argomenta in proposito: “La materia oggetto

dell’art.114 terzo comma della legge di P.S. è la stessa di quella oggetto

dell’art.15 della legge sulla stampa, di cui anzi costituisce una parte; tale

materia non si ammette sia presa in considerazione a un identico fine e

cioè per evitare che si provochi il diffondersi del suicidio e del delitto;

l’art.15 ha un carattere generale, risultando dalla sua obbiettività giuridica

e dalla sedes materiae la volontà del legislatore di comprendere ogni caso

di pubblicazione che, impressionando il lettore, possa turbare o far

vacillare le coscienze; l’art.15 prende insomma in considerazione allo

stesso fine un genus di cui all’art.114 considera una species. Non può

pertanto che risultarne la volontà legislativa di sostituirsi alla precedente

col regolare ex novo et funditus la stessa materia.”168

Accertate le divisioni esistenti sull’argomento in dottrina, concludiamo

riportando quanto in merito autorevolmente argomentato dalla

Cassazione a sezioni unite: “Ci si deve domandare se la legge sulla

stampa del 1948, allo scopo di evitare il turbamento del comune

sentimento della morale o dell’ordine familiare nonché il diffondersi di

suicidi o delitti, abbia inteso esaurire con l’art.15 di detta legge, le ipotesi

di divieto e conseguenti sanzioni penali relativamente alla così detta

168

Finardi, ult.op.cit., pg248.

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151

cronaca nera. Per compiere tale indagine sarà opportuno richiamarsi, più

che a una mera compatibilità materiale delle norme alla intenzione del

legislatore; e se questi ha ordinato la materia relativa alla cronaca dei fatti

di suicidio o di delitto, si deve necessariamente supporre che sia partito

da altri principi direttivi, dei quali non può non tenersi conto... circa la

efficacia attuale di norme precedenti e regolanti la stessa materia. Ora,

nessuno ignora che il divieto di pubblicare ritratti di suicidi o di persone

che avessero commesso delitti fu stabilito nelle leggi di P.S. del 1926 e

1931, quando cioè la cronaca di tali fatti era compressa... Tali divieti si

inquadravano, perciò, nel sistema politico-amministrativo del tempo.

Riaffermata successivamente la libertà di stampa, il legislatore doveva

preoccuparsi ex novo dei limiti che tale libertà comportava. L’interesse

giuridico da tutelare fu, anzi, chiaramente espresso nell’art.15 della legge

sulla stampa, e se, in considerazione di tale interesse, si ritenne di vietare

gli scritti e i disegni che avessero avuto carattere, contenuto e particolari

impressionanti e raccapriccianti, è evidente che solo questi elementi, e

non altro, furono ritenuti idonei a comportare il diffondersi di suicidi o

delitti. Sicché anche la pubblicazione delle fotografie potrà rientrare nella

previsione dell’art.15 della legge sulla stampa, in quanto le fotografie

stesse contengono particolari impressionanti o raccapriccianti. Ogni altra

norma che abbia la stessa finalità ma non contenga quegli elementi

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specifici indicati dalla legge sulla stampa, non può quindi che

considerarsi abrogata. E trova così applicazione l’ultima parte dell’art.15

della disposizioni sulla legge in generale, nel senso che quando la nuova

legge ha regolato la materia relativa alla cronaca dei fatti delittuosi o di

suicidio, deve ritenersi implicitamente abrogata ogni norma anteriore che

regolava la stessa materia.”169

7.3) ART.15 E ART.565 C.P.

Anche rispetto alla relazione tra l’art.15 e l’art.565 c.p. si è posto il

problema di stabilire se l’articolo contenuto nella legge sulla stampa

abbia o meno efficacia abrogatrice rispetto alla norma inserita nel codice.

L’art.565 c.p. così dispone: “Chiunque nella cronaca dei giornali o di altri

scritti periodici, nei disegni che ad essa si riferiscono, ovvero nelle

inserzioni fatte a scopo di pubblicità sugli stessi giornali o scritti, espone

o mette in rilievo circostanze tali da offendere la morale familiare, è

punito con la multa da lire duecentomila ad un milione”.

La dottrina è in merito divisa.

169

Cass.Sez.Un. 15 febbraio 1951, in Riv.pen., 1952, 39,40.

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Tra gli autori che hanno dato attenzione all’argomento, Nuvolone170 e

Cantarano171 sono favorevoli all’ipotesi abrogativa, mentre Mazzanti172 e

Jannitti Piromallo173 sembrano avversarla.

Così Nuvolone argomenta in proposito: “Le due norme (art.15 e art.565

c.p., N.d.R.) vanno considerate insieme. L’elemento comune ad entrambe

è la tutela di un bene attinente alla famiglia contro gli abusi della stampa.

E la differenza è questa: che, nell’art.15 della legge speciale, viene

tutelato l’ordine della famiglie, in quanto possa venire turbato dalla

stampa a contenuto impressionante o raccapricciante; mentre, nell’art.565

c.p., viene tutelata la morale familiare contro qualsiasi cronaca di fatti

idonea ad offenderla. Se si pensa che l’ordine familiare è concetto più

ristretto di quello di morale familiare - il primo ha riguardo ai rapporti

esterni di struttura, la seconda a tutto il complesso di rapporti etici, dei

reciproci doveri tra i membri della famiglia - e che nella cronaca idonea

ad offendere la morale familiare, come il meno nel più, è compresa la

narrazione di particolari impressionanti o raccapriccianti, risulta chiaro

che l’art.15 è norma specifica rispetto a quella dell’art.565 c.p. A questo

170

Nuvolone, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, pg259-260-261.

171 Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg273; Cantarano, Codice della legislazione

sulla stampa, Roma, 1987, pg81.

172 Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg327-340.

173 Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1957, pg123.

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punto si pone un problema: la legge speciale ha abrogato implicitamente

l’art.565 c.p.? Argomento a favore: il fatto che si sia creata una nuova

disposizione, sanzionata molto più gravemente per una fattispecie già

compresa nell’art.565 c.p. Argomento contrario: il rapporto di species a

genus esclude la incompatibilità. Quindi dal punto dal semplice confronto

delle due norme, non si può concludere per la abrogazione tacita.

Tuttavia, pensiamo che si possa parlare di norma costituzionalmente

illegittima.

E, invero, incriminare una cronaca solo per il fatto che espone o mette in

rilievo circostanze offensive per la morale familiare, significa inibire il

diritto di cronaca in una sfera praticamente illimitata. Una cosa è punire il

modo di indugiarsi su certi particolari impressionanti o raccapriccianti, e

un’altra vietare anche la nuda esposizione dei fatti. Quest’ultimo divieto

è incompatibile con un ordinamento che pone tra i suoi cardini essenziali

la libertà di stampa. E, alla luce di tale argomento di principio, la

specificazione dell’art.15 della legge sulla stampa nei confronti

dell’art.565 c.p. acquista il valore implicito di una volontà

abrogatrice.”174

Cantarano, partendo dalla contestazione della sussistenza di un rapporto

di genus a species tra l’art.565 c.p. e l’art.15, così scrive: “È da osservare

174

Nuvolone, ult.op.cit., pg260-261.

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che il comune sentimento della morale tutelato dall’art.15 è comprensivo

della morale familiare: quindi non può dirsi che l’art.565 c.p. abbia una

più vasta oggettività giuridica.

Più ampia è poi la sfera di applicazione dell’art15 quanto al mezzo di

perpetrazione del reato, concernendo ogni specie di stampati, mentre

l’art.565 c.p. si riferisce alla sola stampa periodica.

Infine, alla formula dell’art.565 c.p. espone o mette in rilievo circostanze

tali da..., l’art.15 sostituisce una dizione meno generica, circoscrivendo la

rilevanza penale della condotta punibile alla descrizione o alla

illustrazione non dell’avvenimento in se stesso, ma dei suoi particolari

impressionanti o raccapriccianti; esso così condiziona la punibilità a

requisiti più specifici, per tal via ampliando la sfera della libertà di

cronaca e di creazione.

Pertanto l’intera materia trattata dall’art.565 c.p. risulta oggi regolata

dall’art.15 della legge sulla stampa, in modo diverso per la particolarità

del precetto e per la sanzione; la norma preesistente non ha più ragion

d’essere ed è da considerarsi perciò tacitamente abrogata.”175

Di Jannitti Piromallo176

e Mazzanti177

non è possibile riportare alcuna

specifica considerazione riguardo l’argomento in questione, ma dal

175

Cantarano, Codice della legislazione sulla stampa, Roma, 1987, pg237.

176 Jannitti Piromallo, ult.op.cit., pg123.

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contesto delle loro analisi sugli articoli di cui sopra, sembra che entrambi

gli autori propendano per non considerare l’art.565 c.p. abrogato

dall’art.15 della legge sulla stampa.

Nulla in proposito è stato detto dalla giurisprudenza.

7.4) CONCLUSIONE

A termine di questo paragrafo possiamo solo far notare quanto già

accennato nella premessa, e cioè che la particolareggiata modalità di

costruzione delle norme ed i contorni sfumati dei beni tutelativi rendono

non poco difficile orientarsi nella questione della efficacia abrogativa

dell’art.15 della l.47\1948 nei confronti degli articoli 565 del Codice

penale e 114 del T.U.P.S.

PAR.8: CONCLUSIONI

Lo studio condotto in questo capitolo fa emergere come non poche siano

le difficoltà interpretative legate ad una attenta lettura dell’art.15 della

l.47\1948. Il richiamo operato dall’art.15 all’art.528 c.p., l’utilizzo di

locuzioni ambigue (“particolari impressionanti o raccapriccianti”, “in

modo da”) e la natura dei beni tutelati sono tutte “valide ragioni” di

177

Mazzanti, ult.op.cit., pg327-340.

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perpetuazione della forte problematicità interpretativa che caratterizza

questo articolo, le cui questioni principali abbiamo cercato di identificare

ed ordinare, e per quanto possibile, di chiarire.

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CONCLUSIONI GENERALI

L’art.15 della legge sulla stampa è certamente un articolo scarsamente

applicato, interessato dal fenomeno della desuetudine, destinato con tutta

probabilità a “rimanere ai margini” dell’ordinamento giuridico.

La poca importanza pratica che l’articolo ha nel sistema giuridico

nasconde però la grande rilevanza delle tematiche a questo connesse,

tematiche fondamentali del Diritto Penale perchè implicanti l’analisi dei

suoi rapporti con la Costituzione e dei suoi principi cardine178; lo studio di

questa norma è stato quindi l’occasione per rivisitarle e per cercare di

“convogliarle” verso l’ipotesi di una possibile illegittimità costituzionale

di un articolo che tutta la dottrina non ha dubbi nel ritenere mal formulato

e fortemente inopportuno sotto molteplici punti di vista.

In questo lavoro si è cercato di evidenziare i problemi che

necessariamente insorgono quando si vuole tutelare penalmente beni

178

Queste tematiche sono oggi di estrema attualità visto l’interesse che la Commissione parlamentare per le

riforme costituzionali ha loro mostrato (Proposta di riforma della Costituzione: art.130-bis: Le norme penali

tutelano beni di rilevanza costituzionale. Non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel

caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività. Le norme penali non possono essere

interpretate in modo analogico o estensivo. Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice

penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono).

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dalle particolari caratteristiche, e i costi in termini di rispetto di principi

costituzionali che tale scelta porta ineludibilmente con se.

La tematica dell’afferrabilità dei beni giuridici e quella della tutelabilità

dei valori morali hanno poi grande importanza non solo per lo studio del

sistema giuridico esistente, ma anche per la prospettiva di una sua

riforma, e soprattutto per la possibile soluzione consapevole delle nuove

importanti questioni che il mondo moderno prepara per il diritto.

Quanto detto in questo lavoro può infatti essere uno spunto interessante

per approfondire la ricerca di validi criteri di scelta circa il tipo di

sanzioni da applicare in caso di lesione di “nuovi beni giuridici”, ed

essere altresì utile per identificare quale sia un corretto tipo di approccio

nell’affrontare quelle “Questioni di moralità” che la televisione, e

soprattutto Internet, sempre più sembrano sollevare.

Far notare le implicanze e i costi della tutela penale di beni inafferrabili

può certamente servire per indirizzare la scelta delle sanzioni da porre a

tutela di determinati beni di nuovo conio come l’identità personale o la

riservatezza, (che sembrano appunto entrambi affetti da scarsa

afferrabilità) verso sanzioni alternative a quella penale, che, come quella

civile e quella amministrativa, possano essere comminate nel rispetto dei

principi della Costituzione perchè regolate da un principio di legalità, per

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160

queste espresso dall’art.23 Cost., meno pregnante di quello imposto per

le sanzioni penali (art.25 Cost.)179

.

Egualmente utile è il ricordare le ragioni, le difficoltà, i rischi e i costi

che comporta “l’avvicinamento” del Diritto Penale alla morale, perchè in

una società in cui la moralità va sempre più dissolvendosi, non sono da

sottovalutare i rischi del moralismo, che, camuffandosi e sostituendosi a

questa, è sempre pronto a fornire troppo facili soluzioni, e finisce così

non per rinvigorirla ma per annientarla, dileguandone il vero valore e

significato, tanto da poter mettere a rischio importanti valori laici,

fondamenti della nostra civiltà.

Per cercare di difendere la moralità senza cedere alle tentazioni del

moralismo, per cercare di realizzare l’ideale liberale secondo cui “gli

uomini hanno il dovere reciproco di aiutarsi a distinguere il bene dal

male, e incoraggiarsi a scegliere il primo ed evitare il secondo, ma

nessuno, e nessun gruppo, è autorizzato a dire ad un adulto che per il suo

bene non può fare della sua vita quel che sceglie di farne”180

, sembra

opportuno rivedere il sistema giuridico reinterpretando il valore della

morale in termini di libertà morale.

179

In tal senso: Manna, Beni della personalità e limiti della protezione penale, Padova, 1989, pg91; Bricola,

Tecniche di tutela penale e tecniche alternative, Padova, 1984.

180 J.S.Mill, Saggio sulla libertà, pg87 dell’Ed. (italiana)Il Saggiatore, Milano, 1992.

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Fiandaca ottimamente propone “una interpretazione secondo la quale

tutelare il pudore equivale a impedire che la persona adulta si trovi

coinvolta, senza la sua volontà, nella percezione di atti o rappresentazioni

di contenuto sessuale. In questo senso il momento offensivo

dell’oltraggio finisce col risolversi nella concreta violazione del diritto

dell’individuo a tenere lontano da se immagini reali o rappresentazioni

non gradite a causa del loro specifico contenuto.”181

Realizzando così “l’attrazione della tutela del pudore nell’ottica della

protezione del bene della libertà personale”182

Fiandaca (e noi con lui)

ritiene che “la tutela penale riceva una giustificazione più razionale e,

soprattutto, rispetti gli spazi di autonomia e di libertà che la Costituzione

assegna alla persona umana.”183

Questa impostazione avrebbe il vantaggio di “definire i rapporti tra

libertà del cittadino e buon costume non nei termini di una sorta di

contrapposizione tra interesse privato ed interesse pubblico, bensì sotto il

profilo della collisione tra sfere giuridiche private: l’attività molesta ed

invadente dell’autore del fatto osceno va cioè commisurata al pacifico

esercizio dei diritti di libertà degli altri consociati”184

, ed inoltre avrebbe

181

Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova 1984, pg112 e ss.

182 Fiandaca, ult.op.cit.

183 Fiandaca, ult.op.cit.

184 Fiandaca, ult.op.cit.

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un ulteriore punto a suo favore nel fatto che “il bene della libertà o

inviolabilità personale può senz’altro soddisfare, quanto a caratteristiche

tipologiche, i requisiti posti dalla concezione materiale del bene

giuridico”185

e, aggiungiamo noi, a soddisfare il requisito della

afferrabilità.

Certamente una simile prospettiva apre mille nuove questioni ed

altrettanti nuovi problemi, ma se è vero che ”le scienze partono sempre

da problemi per la soluzione dei quali utilizzano fondamentalmente il

metodo del tentativo e dell’errore”186

, questi sembrano quelli più adatti

per continuare nell’incessante opera di discernimento del confine tra

libertà ed arbitrio, per conquistare uno spicchio in più di libertà possibile,

e tentare su questa strada, e anche sbagliare, sarà comunque “buon

segno”, indice di coraggio e vitalità intellettuale.

185

Fiandaca, ult.op.cit.

186 Popper, Tutta la vita è risolvere problemi, Ed. (italiana) Rusconi, Milano, 1996, pg21.

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