Teologia morale

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1 Teologia Morale fondamentale 2. Approfondimento: La questione morale nella stagione moderna 6. Compiti maggiori della teologia morale nel presente Abbiamo cominciato questo corso di teologia morale fondamentale segnalando che si tratta di un trattato soltanto recente, che non ha grande tradizione nel quadro del- la teologia accademica; già solo per questo motivo esso ha di che apparire acerbo. Ab- biamo insieme subito segnalato il fatto che l’assenza di una trattazione espressamente dedicata alla teologia morale fondamentale è il riflesso della qualità non propriamente teorica dell’interesse che la teologa morale porta all’argomento morale nella sua tradi- zione moderna, successiva al distacco dalla scolastica; l’interesse è piuttosto di carattere pratico-pratico 1 ; l’obiettivo è quello di propiziare la competenza dei confessori e rispet- tivamente dei penitenti in fatto di confessione dei peccati. D’altra parte, soltanto in epo- ca moderna la morale diventa unità di trattazione teologica distinta. La necessità di una trattazione di carattere fondamentale si afferma a seguito del progressivo emergere di questa evidenza: per risolvere i problemi di discernimento mo- rale, che obiettivamente si pongono in misura crescente al cristiano per un lato, al mini- stero della Chiesa nel suo complesso per altro lato nella nostra epoca, la strumentazione concettuale disposta dalla grande scolastica medievale, dal pensiero di Tommaso in par- ticolare, appare decisamente inadeguata. Mentre proprio questo era il tacito assunto che stava alla base della scelta delle Institutiones theologiae moralis: alla trattazione analiti- ca dei singoli comandamenti, o meglio dei peccati relativi ai singoli comandamenti, era premessa una Pars generalis, la quale richiamava le definizioni nominali dei termini tecnici che sarebbero stati poi usati derivandole dalla tradizione scolastica, intenzional- mente almento quella tomista, di fatto in molta parte suareziana. L’inadeguatezza della strumentazione concettuale così ripresa non risulta sol tan- to, né soprattutto, dal difetto di confronto effettivo di quella strumentazione con i pro- blemi agitati dalla filosofia morale moderna, dopo la sua separazione dalla teologia; tale difetto appare per se stesso un inconveniente, perché appunto tale trattazione filosofica separata dalla teologia ha assunto un rilievo egemone a livello civile nella stagione mo- derna. L’inadeguatezza dunque si misura anche e soprattutto per rapporto alle forme ef- fettive della coscienza diffusa, e quindi agli interrogativi che essa si propone. Una delle tesi fondamentali che attraversa la mia trattazione è questa: la filosofia moderna, separata dalla teologia, ha perseguito il programma di una morale della ragio- ne, o magari dell’esperienza, in ogni caso senza autorità, dunque, una dottrina morale che fondasse l’imperativo su altra base rispetto a quella offerta da una tradizione di co- stume; questo suo progetto è fallito; di conseguenza la filosofia morale ha abbandonato l’interrogativo morale. Mentre un tale interrogativo ineluttabilmente si propone alla co- scienza di ogni singolo soggetto. Il difetto di interesse della filosofia contemporanea per l’interrogativo morale costituisce una ragione di distanza di quel pensiero dalla coscien- 1 La distinzione tra un sapere teorico-pratico e un sapere pratico-pratico a proposito dell’agire – questo secondo caratteristico appunto della teologia morale come storicamente configurata in epoca moderna è proposta da J. MARITAIN nella sua opera epistemologica fondamentale del 1932, Distinguere per unire. I gradi del sapere, trad. it. di E. Maccagnolo. Morcelliana, Brescia 1981 2 .

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Approfondimento: La questione morale nella stagione moderna

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Teologia Morale fondamentale 2. Approfondimento: La questione morale nella stagione moderna

6. Compiti maggiori della teologia morale nel presente

Abbiamo cominciato questo corso di teologia morale fondamentale segnalando

che si tratta di un trattato soltanto recente, che non ha grande tradizione nel quadro del-

la teologia accademica; già solo per questo motivo esso ha di che apparire acerbo. Ab-

biamo insieme subito segnalato il fatto che l’assenza di una trattazione espressamente

dedicata alla teologia morale fondamentale è il riflesso della qualità non propriamente

teorica dell’interesse che la teologa morale porta all’argomento morale nella sua tradi-

zione moderna, successiva al distacco dalla scolastica; l’interesse è piuttosto di carattere

pratico-pratico1; l’obiettivo è quello di propiziare la competenza dei confessori e rispet-

tivamente dei penitenti in fatto di confessione dei peccati. D’altra parte, soltanto in epo-

ca moderna la morale diventa unità di trattazione teologica distinta.

La necessità di una trattazione di carattere fondamentale si afferma a seguito del

progressivo emergere di questa evidenza: per risolvere i problemi di discernimento mo-

rale, che obiettivamente si pongono in misura crescente al cristiano per un lato, al mini-

stero della Chiesa nel suo complesso per altro lato nella nostra epoca, la strumentazione

concettuale disposta dalla grande scolastica medievale, dal pensiero di Tommaso in par-

ticolare, appare decisamente inadeguata. Mentre proprio questo era il tacito assunto che

stava alla base della scelta delle Institutiones theologiae moralis: alla trattazione analiti-

ca dei singoli comandamenti, o meglio dei peccati relativi ai singoli comandamenti, era

premessa una Pars generalis, la quale richiamava le definizioni nominali dei termini

tecnici che sarebbero stati poi usati derivandole dalla tradizione scolastica, intenzional-

mente almento quella tomista, di fatto in molta parte suareziana.

L’inadeguatezza della strumentazione concettuale così ripresa non risulta soltan-

to, né soprattutto, dal difetto di confronto effettivo di quella strumentazione con i pro-

blemi agitati dalla filosofia morale moderna, dopo la sua separazione dalla teologia; tale

difetto appare per se stesso un inconveniente, perché appunto tale trattazione filosofica

separata dalla teologia ha assunto un rilievo egemone a livello civile nella stagione mo-

derna. L’inadeguatezza dunque si misura anche e soprattutto per rapporto alle forme ef-

fettive della coscienza diffusa, e quindi agli interrogativi che essa si propone.

Una delle tesi fondamentali che attraversa la mia trattazione è questa: la filosofia

moderna, separata dalla teologia, ha perseguito il programma di una morale della ragio-

ne, o magari dell’esperienza, in ogni caso senza autorità, dunque, una dottrina morale

che fondasse l’imperativo su altra base rispetto a quella offerta da una tradizione di co-

stume; questo suo progetto è fallito; di conseguenza la filosofia morale ha abbandonato

l’interrogativo morale. Mentre un tale interrogativo ineluttabilmente si propone alla co-

scienza di ogni singolo soggetto. Il difetto di interesse della filosofia contemporanea per

l’interrogativo morale costituisce una ragione di distanza di quel pensiero dalla coscien-

1 La distinzione tra un sapere teorico-pratico e un sapere pratico-pratico a proposito dell’agire – questo

secondo caratteristico appunto della teologia morale come storicamente configurata in epoca moderna – è

proposta da J. MARITAIN nella sua opera epistemologica fondamentale del 1932, Distinguere per unire. I

gradi del sapere, trad. it. di E. Maccagnolo. Morcelliana, Brescia 19812.

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za effettiva degli uomini. In tal senso, la filosofia segue il movimento complessivo della

società moderna prima, e poi anche della sua cultura pubblica, a semplicemente abban-

donare la coscienza del singolo alla sua solitudine. Questa diserzione del campo da parte

della cultura pubblica, rispettivamente da parte della filosofia contemporanea, dispone il

campo per una grande responsabilità, e insieme per una grande opportunità della Chiesa

e della teologia: quella appunto di colmare un vuoto decisamente non marginale.

Per fare questo tuttavia la teologia morale deve perseguire un programma di ri-

flessione non subalterno rispetto agli interrogativi agitati dall’etica pubblica, ma sostan-

zialmente suo proprio, raccomandato dall’attenzione fenomenologica alla coscienza mu-

ta dei singoli. I dibattiti che hanno animato il campo della teologia morale del dopo

Concilio – dunque quelli sullo specifico, sull’autonomia e rispettivamente sull’etica

normativa – mostrano invece con evidenza come la teologia morale fondamentale sia

stata condizionata dall’obiettivo di legittimarsi a fronte delle istanze agitate dall’etica

laica.

Esprimo questa esigenza, con lessico personale non subito univoco, dicendo che

il pensiero teologico morale deve procedere a un’istruzione di carattere appunto feno-

menologico degli interrogativi teologico morali, emancipandosi dalla sudditanza nei

confronti della filosofia e del pensiero delle scienze umane in genere, della psicologia in

specie, che ha oggi un rilievo privilegiato in materia morale. Come già precisavo a con-

clusione del primo corso di teologia morale fondamentale, con l’espressione istruzione

fenomenologica della riflessione teorica intendo la necessità di evitare l’assunzione pre-

cipitosa di schemi concettuali che, pure raccomandati dalla tradizione di scuola per de-

scrivere la consistenza della esperienza morale, appaiono di dubbia pertinenza.

Accenno un’esemplificazione. L’intenzione dell’agire umano nella tradizione

scolastica è definita come il fine che il soggetto si proporrebbe a monte dell’agire stesso;

la definizione ha di che apparire persuasiva; per rapporto al fine così definito l’agire ef-

fettivo avrebbe la consistenza di un mero mezzo. Nella storia del pensiero cristiano,

Agostino propone espressamente la definizione del sapere pratico, del sapere relativo

all’agire, da lui chiamato scientia e distinto dalla sapientia, come un sapere che riguar-

derebbe soltanto l’utile, e non l’honestum. Fino ad oggi la corrente teorica più importan-

te dell’etica laica contemporanea, quella neo-utilitarista, pensa il bene come fine e

l’agire buono come utile. Ora occorre invece riconoscere che la concezione del bene

morale come bene utile è sbagliata. Per la correggere la concezione pregiudicante del

bene come ciò che serve al fine occorre offrire dell’azione una descrizione diversa ri-

spetto a quella suggerita dal modello del facere. Occorre offrire, più in generale, una de-

scrizione dell’esperienza pratica altra rispetto a quella suggerita dal modello teorico che

suppone l’agente come costituito nella sua identità a monte rispetto all’agire. Appunto

questo obiettivo chiede una fenomenologia, un ritorno a quelle evidenze immediate del-

la coscienza, che appaiono invece distorte dalle forme della comunicazione ordinaria,

specie nel quadro della cultura di oggi.

A conclusione di questo breve corso di approfondimento, dedicato a La questio-

ne morale nella stagione moderna, cerco di raccogliere in maniera molto sintetica alcu-

ne riflessioni circa tre questioni che mi paiono di rilievo determinante per istruire nel

presente una riflessione teologica sulla morale di grado fondamentale, e che d’altra par-

te non sono invece molto presenti alla consapevolezza dei teologi moralisti e di fatto

non conoscono trattazione adeguata. Le tre questioni sono quella del costume, quella

della genealogia psicologica della coscienza e rispettivamente quella dei rapporti tra

Chiesa e morale nella società contemporanea.

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6.1. La questione del costume

Il costume è una di quelle categorie che – assolutamente essenziale nella comu-

nicazione umana effettiva – non ha tuttavia alcuna tradizione teorica consistente, né in

teologia né in filosofia. Come abbiamo più volte notato a proposito di altre categorie di

carattere fondamentale (coscienza, per esempio), il difetto di teoria è per una parte al-

meno il paradossale riflesso della proporzionale chiarezza della nozione o dell’idea in

questione.

Cerco di chiarire l’affermazione riferendomi al caso analogo costituito appunto

dall’idea di coscienza. Come abbiamo visto, manca nella tradizione della teologia di

scuola un interesse teorico per la figura della coscienza intesa nell’accezione di coscien-

za abituale, dunque come abito o facoltà, in ogni caso come attitudine al giudizio mora-

le, e non invece come un giudizio morale concreto. Appunto a quest’ultima figura si ri-

ferisce la concezione della conscientia propria della scolastica. Il difetto di interesse di

cui si dice è il riflesso, almeno per una parte, dell’ovvietà della figura della coscienza

morale nella cultura tradizionale; non a caso la res, a cui il nome coscienza allude, è

spesso descritta in termini innatistici; tale descrizione è un riscontro preciso della so-

stanziale ovvietà che la voce interiore assumeva nella tradizione. L’ovvietà della res

non può certo essere intesa quasi equivalesse subito a un’ovvietà del concetto; al contra-

rio, l’idea di coscienza ha mostrato in molti modi di resistere ad ogni tentativo di defini-

zione concettuale. Nel momento in cui la res cessa d’essere ovvia e s’impone la necessi-

tà di pensarla, ci si accorge di questa circostanza: per pensare la coscienza occorrono

profondi ripensamenti dell’esperienza pratica e dell’uomo nel suo insieme; ripensamenti

che mettono in questione l’assetto convenzionale dell’argomento.

Qualche cosa di analogo, appunto, accade per la nozione di costume. L’idea era

in qualche modo presente nella cultura tradizionale, nella stessa lingua; era iscritta anzi

in maniera decisamente profonda. Documento di tale iscrizione è il fatto che proprio

all’idea di costume (ethos, e rispettivamente mores) fa riferimento il nome dell’etica e/o

della morale. Del costume in molti modi dicono i miti antichi, e in diverso modo anche i

poeti e i tragici, i testimoni dunque della paideia greca; poco o nulla invece dicono i fi-

losofi2. Non solo tace sul costume la filosofia, ma a procedere dal Seicento positivamen-

te diffida. Alimentano tale diffidenza le forme del dispotismo politico ammantato di

giustificazioni religiose, l’ipocrisia della vita di corte dissimulata sotto la retorica delle

virtù, e per altro lato la lievitante consapevolezza dell’autonomia personale. Tutti questi

fattori alimentano la diffidenza nei confronti della verità pubblica, e quindi anche nei

confronti del costume.

Pensiamo al caso eminente del pensiero di Blaise Pascal. Contro la pretesa di

giustizia, che elevano le leggi umane, che elevano in generale i costumi (o le abitudini,

come più facilmente Pascal si esprime), è proposto un argomento facile: leggi e costumi

sono troppo vari, e quindi troppo casuali. Famoso è questo frammento dei Pensieri:

... Su che l’uomo baserà l’economia del mondo che vuol governare? Sul capriccio di

ogni singolo? Che confusione! Sulla giustizia? Non la conosce. Certo, se la conoscesse,

non avrebbe stabilito questa massima, la più generale di tutte quelle vigenti tra gli uo-

2 Vedi in proposito É. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni europee, ed. italiana a cura di M. Libo-

rio, Einaudi, Torino 19762, vol. I, pp. 252-257.

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mini: ciascuno segue i costumi del suo paese; lo splendore della vera equità avrebbe as-

soggettato tutti i popoli, e i legislatori non avrebbero preso a modello, invece di questa

giustizia costante, le fantasie e i capricci dei Persiani e dei Tedeschi. La si vedrebbe ra-

dicata in tutti gli stati del mondo e in tutti i tempi, mentre non si vede niente di giusto e

di ingiusto che non muti di qualità mutando il clima. (...) Ridicola giustizia, limitata da

un fiume! Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là.3

Lo scetticismo di Pascal a riguardo della possibilità di conoscere la giustizia non condu-

ce certo al progetto di perseguire un fine ultimo della vita alternativo rispetto alla giusti-

zia; lo scetticismo circa le possibilità della ragione in materia di morale è invece messo

al servizio dell’apologia della fede. Giustizia vera sarebbe solo quella della carità, ac-

cessibile alla nostra conoscenza unicamente mediante la rivelazione. Il riferimento alla

rivelazione, et quidem alla Scrittura, propizia un’interpretazione teologica, e non pura-

mente epistemologica, dell’incapacità umana di conoscere la giustizia. La tesi teologica

riferisce – prevedibilmente – tale incapacità al peccato originale.

Una lettura così non impedisce che Pascal, nonostante le sue tesi decisamente

scotomizzanti circa i rapporti tra fede e ragione, produca per rapporto a quella incapaci-

tà approfondimenti di consistenza propriamente antropologica; ci riferiamo all’analisi

che egli propone delle due figure della concupiscenza e della giustizia. Tale approfon-

dimento interessa sia la consistenza che assume il costume per rapporto al destino mora-

le del singolo, che la valutazione morale della figura di giustizia definita dalle leggi e

dal costume civile in genere.

(a) Per rapporto al primo aspetto rilevante è il frammento 98, che riprende una

tesi già presente nella riflessione di Montaigne:

È deplorevole vedere tutti gli uomini deliberare soltanto sui mezzi e mai sul fine. Ognu-

no pensa a come assolvere agli obblighi della propria condizione; ma la scelta della

condizione e della patria ci viene dalla sorte. È pietoso vedere tanti turchi, tanti eretici,

tanti infedeli seguire le abitudini dei loro padri, per il solo fatto che ognuno di essi è sta-

to prevenuto che quelle sono le migliori. Ed è questo che spinge ognuno a una particola-

re condizione, di fabbro, di soldato, ecc. Ed è per questo che i selvaggi non sanno che

farsene della Provenza.4

Il testo mescola considerazioni già note alla tradizione morale e ascetica del cristianesi-

mo con evidenze nuove, propiziate dalla trasformazione sociale, rispettivamente dalla

conoscenza di civiltà diverse da quella del proprio paese. Diversa considerazione meri-

terebbero le condizioni di paese (barbaro o Provenza), di mestiere (fabbro o soldato), e

di religione (turchi ed eretici). L’appiattimento di tutte le condizioni storiche al livello

comune della contingenza casuale è propiziata in radice dallo schema teorico sotteso;

esso distingue tra mezzi e fini, concepisce quindi i fini a proposito dei quali occorrereb-

be scegliere come fissati al di fuori di ogni riferimento storico; la condizione storica è

implicitamente dequalificata a condizione rilevante unicamente sotto il profilo dei mezzi

3 B. PASCAL, Pensieri, fr. 293, trad. it. P. Serini, Einaudi, Torino 1962, pp. 277s.

4 Montaigne aveva scritto: «Solo per opera dell’abitudine ognuno è contento del luogo dove la natura lo

ha messo; e i selvaggi della Scozia non sanno che farsene della Turenna»; nello stesso § I, 22 dei Saggi si

dice assai diffusamente dell’effetto intorpidente e quasi istupidente dell’abitudine, e della sua magica me-

tamorfosi in evidenza di ‘natura’: «L’assuefazione indebolisce la vista del nostro giudizio. (...) La ragione

umana è una tintura data in uguale misura, o quasi, a tutte le nostre opinioni e usanze, di qualsiasi specie

siano; (...) Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine;

ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti intorno a lui, non può di-

sfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione», Saggi I, 23, pp. 145.150.

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che essa può offrire in ordine a fini che potrebbero e dovrebbero in ipotesi essere fissati

senza alcun riguardo alle contingenze della storia.

Tale distinzione tra mezzi e fini appartiene agli schemi teorici raccomandati da

tutta la tradizione teorica che interpreta la figura dell’agire. E tuttavia, il mutato clima

civile, che impone l’attenzione al profilo di contingenza della condizione storica, che

alimenta dunque il sospetto nei confronti degli indici assiologici espressi dalla tradizio-

ne civile, conferisce a quello schema teorico un rilievo decisamente nuovo e virtualmen-

te devastante. La storia tutta è ridotta al rango di luogo dell’utile, del bene di cui si può

e si deve solo usare e non fruire. Trova così nuova ragione di attualità un tema già ope-

rante in tutta la tradizione agostiniana del cristianesimo occidentale. È negato il valore

simbolico, che invece deve essere obiettivamente riconosciuto alle mediazioni storiche e

pratiche, in ordine alla istituzione del riferimento assiologico e religioso. Tale negazione

è rinforzata, nel pensiero complessivo di Pascal, dall’accoglienza del punto di vista pro-

prio della scienza quasi esso fosse equivalente al punto di vista della ragione. L’univoca

adozione del punto di vista ascetico, per ciò che si riferisce all’apprezzamento della

condizione storica, prepara obiettivamente la figura della fede quale puro e semplice

salto fuori del mondo; e dunque dispone alla rimozione di quel profilo dialettico che in-

vece dev’essere obiettivamente riconosciuto al rapporto tra fede e costumi. Tale profilo

simbolico può essere inteso unicamente quando si riconosca la mediazione che il co-

stume realizza in ordine al formarsi della coscienza morale del soggetto.

(b) Del tutto conseguente è l’interpretazione che Pascal esprime nei confronti

della giustizia civile, e quindi il giudizio dato su di essa. Essa è interpretata come siste-

ma normativo reso necessario dal naturale egoismo degli umani. In realtà, non come na-

turale dev’essere qualificato quell’egoismo, ma come espressione dello stato di deca-

denza adamitica. L’egoismo corrisponde, nel linguaggio teologico, a quell’ordine della

concupiscenza che si oppone all’ordine dell’amore. Tra i frammenti più significativi in

proposito sono i seguenti:

Tutti gli uomini si odiano naturalmente tra loro. Ci si è serviti della concupiscenza, co-

me si è potuto, per farla servire al bene comune; ma questa è finzione e falsa apparenza

di carità, perché in fondo c’è soltanto odio. (fr. 451, p. 349)

Si sono fondate e ricavate dalla concupiscenza mirabili regole di convivenza civile, di

morale e di giustizia; ma, a guardare in fondo, questo volgare fondo dell’uomo, questo

figmentum malum è solo mascherato, non già estirpato. (fr. 453, p. 350.)

I due frammenti propongono un’immagine dell’ordine civile appunto quale immagine

della composizione t degli egoismi individuali in ordine al bene comune; ad un bene

comune che però non ha la fisionomia del bonum honestum, ma del bonum utile.

L’immagine è la stessa che negli stessi anni Hobbes propone semplicemente come la

verità a proposito della vita sociale degli uomini; è rispettivamente la stessa che in molti

modi sarà proposta dalla concezione contrattuale dell’ordine sociale propria delle so-

cialdemocrazie contemporanee. La riduzione del bene comune alla figura del benessere

comporta appunto la de-moralizzazione dell’ordine sociale e la resa del pensiero sociale

ad un’immagine dell’uomo quale organismo di bisogni.

La distinzione, e anzi la contrapposizione, tra ordine del benessere e ordine mo-

rale è ancora più esplicita in quest’altro frammento, che svolge il tema in polemica nei

confronti dell’ideale mondano dell’honnête homme:

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L’io è odioso; voi, Mitton5, lo mascherate ma non per questo lo eliminate; voi dunque

siete sempre odioso. – No, perché agendo cortesemente con tutti, come facciamo, non

c’è motivo di odiarci. – È vero, se nell’io si odiasse soltanto il dispiacere che ce ne vie-

ne. Ma se odio l’io perché è ingiusto, perché si fa centro di tutto, lo odierò sempre. In-

somma, l’io possiede due qualità: è ingiusto in sé, in quanto si fa centro di tutto; è spia-

cevole agli altri, in quanto li vuole asservire; infatti ogni io è il nemico e vorrebbe essere

il tiranno di tutti gli altri. Voi ne togliete la parte spiacevole, ma non già l’ingiustizia; lo

rendete amabile soltanto agli ingiusti, i quali non trovano più in esso il nemico, e così

rimanete ingiusto e potete piacere soltanto agli ingiusti (fr. 453, ibid.)

La riflessione ha una pertinenza subito convincente; costituisce insieme una descrizione

efficace della forma scadente che vanno assumendo le ‘buone maniere’ caratteristiche

del modello ‘urbano’ di rapporti che si afferma in particolare nella vita di corte. Aiuta in

tal senso ad intendere le radici storiche obiettive alle quali occorre riferire la svalutazio-

ne del costume da parte di Pascal, come in genere da parte dei moralisti del ’600. Essa

tuttavia, per esprimere questa critica della honnêteté ricorre ancora una volta ad

un’antitesi tra io e non io, rispettivamente tra amor sui o concupiscenza da un lato, amor

dei o carità dall’altro, che suppone definita a monte rispetto ad ogni riferimento alle

forme pratiche della vita. Tale supposizione è il retaggio che il pensiero di Pascal paga

agli schemi teorici dell’antropologia come sviluppati a monte rispetto all’esperienza del-

la contingenza storica del costume, che ora si raccomanda all’evidenza degli intellettua-

li.

Il processo di progressiva convenzionalizzazione delle regole del vivere comune,

ridotte a galateo, conferisce urgenza pratica e generalizzata a un problema che non era

certo ignoto alla tradizione, ma era un tempo avvertito soltanto come un problema spe-

culativo dell’intellettuale. Mi riferisco al problema della differenza tra la figura bella e

buona del costume e la figura vile dell’opinione comune. I filosofi si proposero preco-

cemente il programma di sostituire l’episteme alla doxa, dunque un sapere emancipato

da ogni mediazione pratica e sociale a un (preteso) sapere che sarebbe in realtà soltanto

pregiudizio sociale.

Nessuno inventa la lingua con la quale parla e ragiona; l’apprende invece dai ge-

nitori, da una generazione che lo precede; e l’apprende grazie alla configurazione che

l’ethos consente dei rapporti umani. Soltanto il costume consente al padre di realizzare

il suo compito – in qualche modo inevitabile (occorrerà certo precisare il modo) – di te-

stimone dell’ordine cosmico, di un ordine addirittura divino e impegnativo per la libertà

del figlio. L’idea moderna e democratica secondo la quale le norme della vita comune

sarebbero il risultato di un contratto sociale banalizza l’idea di costume; e lo fa proprio

nella stagione storica nella quale i processi di formazione e rigenerazione del costume,

cessando di apparire ovvi, più urgentemente chiederebbero la consulenza dei filosofi, o

dei saggi.

5 «Damien Mitton, uomo di mondo e bel esprit, amico del Méré e accolto anche a corte, che Pascal aveva

conosciuto nel cosiddetto periodo ‘mondano’ della sua vita: tipo del libertin pessimista e scettico, indiffe-

rente o poco sensibile al problema religioso», l’informazione è di P. SERINI, in nota al fr. 186 (Brunsch-

vicg 192) della sua trad. it. di B. PASCAL, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, p. 92; lo stesso, in nota al pre-

sente frammento (258 nella sua numerazione, p. 128), ricorda che Mitton «definiva l’honnêteté un “amore

di sé ben regolato”. E, al pari di Méré, stimava più conforme all’ honnêteté usare la formula impersonale

on (‘si crede’, ‘si dice’, ecc.), anziché quella personale je»; riferisce anche una nota della Logique di Port-

Royal (III, 19), nella quale si informa di come «Il defunto signor Pascal spingeva questa regola di non

parlare di sé fino a sostenere che un honnête homme deve evitare di nominarsi e persino di servirsi dei

termini io e me; e usava dire a questo proposito che la pietà cristiana annichila l’io umano e che l’urbanità

lo nasconde e lo sopprime».

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All’origine della lingua sta la parola; e la parola è resa possibile dalla prossimità

grata e sorprendente tra gli umani. è resa non soltanto possibile, ma necessaria.

S’intende moralmente necessaria. La necessità morale della parola è il riflesso della sua

funzione qualificante: quella di rendere possibile la promessa. Vediamo illustrato questo

nesso nella forma più chiara dall’esperienza dell’incontro e dell’amore tra uomo e don-

na; non a caso, proprio nel quadro del rapporto tra uomo e donna secondo attendibili in-

dizi nasce la parola. La parola – Ecco sì, questa è carne della mia carne e osso delle mie

ossa – è la forma nella quale l’uomo e la donna si legano reciprocamente: essi confessa-

no l’iniziativa benevola che li precede, confessano dunque la promessa che

quell’iniziativa benevola ad essi dischiude, insieme accettano di legarsi all’ordine che

essa prescrive. Come attesta in molti modi la tradizione biblica, il nesso tra promessa e

legge è assai stretto. Appunto dall’accadere promettente della prossimità reciproca

prende origine la speranza umana, e insieme la legge dell’alleanza reciproca tra gli

umani.

La tradizione dottrinale, della filosofia prima e della teologia poi, ha ignorato il

nesso originario tra legge e accadere sorprendente e persuasivo della prossimità recipro-

ca. Ha ignorato dunque il nesso originario e necessario tra la legge e la storia. Ha cerca-

to anzi di garantire il tratto categorico dell’imperativo positivamente escludendo ogni

nesso tra la legge e la storia, più in generale tra la legge e l’esperienza passiva, dunque

l’esperienza sensibile; la legge è pensata come prescrizione della ragione a priori. Così

tipicamente in Kant, il quale per altro porta alla radice gli assunti iscritti nel razionali-

smo tradizionale della filosofia, non più soccorso dalla visione teleologica del reale, un

tempo – mi riferisco al tempo che ha preceduto l’avvento delle scienze della natura –

garantita dal costume.

Il costume si produce senza deliberazione riflessa, ovviamente; senza la decisio-

ne di parlamenti e senza la votazione di una costituzione. Quando esso non si produce,

quando cessa di trasmettersi in maniera ovvia da una generazione all’altra e in tal modo

anche di rigenerarsi, diventa proporzionalmente urgente una riflessione sul costume; es-

sa deve rendere ragione – tra l’altro – del necessario debito della vita comune nei con-

fronti di una tradizione, la quale può certo e deve essere sempre da capo compresa, ma

non può in alcun modo essere cancellata. Appare particolarmente persuasiva anche sotto

tale profilo la visione cristiana, che assegna alla eredità di Adamo, dunque della storia

universale, un rilievo decisivo per intendere la condizione presente dell’uomo.

Nella vicenda intellettuale dell’ultimo secolo la mediazione sociale della co-

scienza e della conoscenza umane è stata nominata e discussa affidandosi alla nozione

di cultura, assai più che a quella di costume. L’affermazione della categoria di cultura

corrisponde per un primo lato alla crisi degli approcci eurocentrici alla comprensione

delle tradizioni culturali altre; alla crisi quindi del modello progressistico di lettura della

storia, che riduceva la civiltà a Zivilisation, e ignorava in tal senso il profilo di Kultur

che è proprio delle forme sociali del senso6. L’affermazione dell’idea di cultura corri-

6 L'opposizione fra Kultur e Zivilisation, già netta in Kant, attraversa tutta la storia del pensiero tedesco

(F. Schiller, J.G. Fichte, A. Schopenhauer), fino a F. Nietzsche; all’inizio del ventesimo secolo alimenta

la diagnosi radicale di O. Spengler nel Tramonto dell'Occidente (1918-21) o anche di Th. Mann nelle sue

Considerazioni di un impolitico (1919); le due opere vedono nella Zivilisation il momento culminante di

un processo di declino della Kultur. «Civilizzazione e cultura non sono soltanto un'unica e stessa cosa, ma

termini antitetici – scive Mann –; formano una delle molteplici manifestazioni dell'eterna discordanza del-

la nostra umanità e del contrasto tra spirito e natura. (…) Evidentemente la cultura non è l'opposto della

barbarie; essa è più verosimilmente e abbastanza spesso una primitività stilizzata (…). Cultura significa

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sponde quindi per altro lato (e principale lato) alla crisi del progetto illuminista moder-

no, che perseguiva l’emancipazione pura e semplice del sapere dalla tradizione;

all’imporsi Alla grande insistenza che il cattolicesimo contemporaneo accorda al tema

della cultura e dell’inculturazione della fede non corrisponde, purtroppo, un consistente

approfondimento teorico della nozione di cultura, e rispettivamente del nesso tra questa

nuova categoria e quella più tradizionale di costume. Uno dei risvolti di tale difetto di

approfondimento teorico è quello per il quale la norma morale è associata da magistero

e spesso anche dalla teologia cattolica subito e solo alla natura, ignorando come invece

alla natura dell’uomo (alla sua identità irrinunciabile) l’uomo stesso giunga unicamente

grazie alla mediazione della storia, e rispettivamente della cultura che nella storia si svi-

luppa.

L’altro tema trascurato è quello dei rapporti tra cultura (costume) e fede; più in

generale tra forme nelle quali si produce l’oggettivazione sociale dei significati elemen-

tari della vita e forme nelle quali si realizza la relazione della libertà individuale nei

confronti di Dio, o comunque ci si voglia esprimere nei confronti dell’istanza

dell’incondizionato. L’eccedenza della verità religiosa professata dal singolo rispetto al-

la cultura sociale non può essere intesa – come invece ha fatto con insistenza il cristia-

nesimo “tragico” della stagione moderna – quasi che quella verità non sia in alcun mo-

do in debito nei confronti della cultura. L’immagine di un cristianesimo tragico è desti-

nata a divenire forma di una fede incapace di configurare i costumi.

6.2. La questione psicologica

Il razionalismo della tradizione filosofica, che qualifica in particolare la sua con-

cezione della norma morale, corrisponde alla comprensione dell’agonismo morale se-

condo lo schema dell’opposizione tra ragione e passione; quello schema determina una

prevedibile sprovvedutezza di quella tradizione dottrinale a fronte dei problemi appari-

scenti della tarda modernità, quelli – dico – connessi alla sistemica difficoltà dei proces-

si di identificazione.

Che questi siano i problemi maggiori della civiltà tardo moderna è diagnosi con-

divisa da molti gli analisti, psicologi e sociologi. L’uomo contemporaneo delle società

occidentali soffre di un sistemico difetto di identità. Manifestazione appariscente di tale

difetto è il fatto che l’età dell’adolescenza conosca un allungamento spasmodico7, sia

addirittura a rischio di divenire interminabile8.

unità, stile, forma, compostezza, gusto; è una certa organizzazione spirituale del mondo, sia pur tutto ciò

che è avventuroso, scurrile, selvaggio, sanguinoso, pauroso»

7 Per conoscere le acquisizioni maggiori di tale tradizione rimane fino ad oggi assai istruttiva un’opera

che nella sua prima edizione risale al 1960: P. BLOS, L’adolescenza. Un’interpretazione psicoanalitica,

Angeli, Milano 41980. L’autore, collaboratore e amico di Anna Freud (alla cui opera L’adolescenza, in A.

FREUD, Opere, vol. III, Boringhieri, Torino 1979, sempre ci si riferisce con vantaggio), come lei sensibile

alle questioni della formazione dell’Io, ha perseguito per quarant’anni lo studio dell’adolescenza. Il van-

taggio della sua opera è da cercare nel suo carattere proporzionalmente analitico; esso induce una certa

riserva nei confronti di sintesi troppo precipitose, quali quelle suggerite dalla (apparente) chiarezza del

punto di partenza e del punto di arrivo del processo adolescenziale. Solo apparente è tale chiarezza; ad

essa offre alimento la qualità proporzionalmente facile del rapporto che l’adulto ha con il bambino e ri-

spettivamente con la persona adulta. Nel caso dell’adolescente una tale facilità viene e mancare; le sor-

prese e le inquietudini sono senza fine. Non sarà per caso proprio la crisi della ‘normalità’, che

l’adolescente vive sulla propria carne, e insieme propone anche all’adulto che gli è vicino, quella che sco-

raggia l’adulto? Un secondo ‘classico’ sul tema dell’adolescenza, pure di matrice psicoanalitica, amico di

Blos e molto più noto di lui, è E.H. Erikson. Mentre l’opera di Blos è attenta soprattutto alla vicenda bio-

grafica dell’adolescente, Erikson mostra un’attenzione sistemica al rapporto tra adolescenza e società; tale

Page 9: Teologia morale

9

Le forme nelle quali la questione morale era istruita nella filosofia antica di fatto

comandava una filosofia morale viziata da intellettualismo, o addirittura da un franco

nominalismo; il discorso morale era un discorso sui discorsi, e non a procedere dalle

evidenze dischiuse dall’esperienza della coscienza. Il rischio appare particolarmente

evidente nelle due tradizioni teoriche che più hanno influito sul pensiero cristiano, quel-

la stoica cioè e quella aristotelica. Contro l’intellettualismo, ma anche in dipendenza da

esso, prende corpo in epoca contemporanea l’insistente proposta di sostituire il modello

estetico a quello etico quale modello base per pensare l’agire e il suo apprezzamento.

Il pensiero morale deve oggi intraprendere una nuova via, che per un lato sconti

il teorema moderno (cartesiano), e cioè la necessità di procedere dal punto di vista della

coscienza; per altro eviti lo scoglio di pensare la coscienza in termini auto-referenziali.

La concezione autoreferenziale della coscienza assume nella stagione moderna due for-

me alternative: quella razionalistica e quella mistica, o comunque spiritualistica9; esse

paiono le due vie privilegiate seguite per realizzare il canone dell’auto-nomia morale

dell’uomo10

. Le due vie concludono al formalismo, all’impossibilità cioè di pervenire a

criteri determinati di discernimento delle forme materiali dell’agire; all’impossibilità di

pervenire dunque a giudizi determinati a proposito delle forme civili, socialmente ogget-

tivate, della relazione umana. La coscienza morale si stacca dall’agire effettivo, per sua

natura ambiguo e compromesso con l’oggettività sociale.

La comprensione del principio di intrascendibilità della coscienza nei termini del

principio di auto-nomia morale, dunque del principio che afferma che il soggetto sareb-

be norma a se stesso, appare ineluttabile in forza di un’originaria rimozione, che si rife-

risce alla mediazione pratica del soggetto. Per pensare l’autonomia in termini non auto-

referenziali occorre registrare la mediazione pratica del soggetto11

. La coscienza, intesa

attenzione è già presente e qualificante la sua opera più nota, E.H. ERIKSON, Infanzia e società (1950),

Armando Editore, Roma 1978 (ma molte sono ristampe anche successive), nella quale già si occupava del

tema dell’adolescenza (la quarta parte è infatti intitolata «La gioventù e l’evoluzione dell’identità», pp.

259-340); per comprendere i processi educativi egli si impegna a descrivere la parabola complessiva delle

singole età della vita, indicate nel numero di otto; in ciascuna di esse è realizzata una conquista caratteri-

stica, che accompagnerà il soggetto in tutte l’età successive; la conquista procede dal precedente conflitto

che caratterizza quell’età; nel caso dell’adolescenza il conflitto è quello tra identità e dispersione. Una

mia bibliografia sulla letteratura dedicata all’adolescenza, Nuovi adolescenti e vecchi problemi: psicolo-

gia, sociologia e riflessione cristiana, si può trovare in Orientamenti Bibliografici n. 21 - 2001, il bolletti-

no bibliografico curato dalla Facoltà, http://www.teologiamilano.it/obi/adolescenza.html.

8 Ho proposta una riflessione di carattere sintetico sul tema agli «Amici della Facoltà», sotto il titolo ap-

punto di Adolescenza interminabile, http://www.teologiamilano.it/amici/adolescenza.html.

9 La coppia corrisponde a quella a cui ricorre Hegel per definire le due forme del pensiero moderno del

soggetto: la ragione a priori di Kant e l’anima bella di Schiller: in un caso e nell’altro è postulata una de-

terminatezza della coscienza a monte rispetto alle forme storiche e pratiche del cimento con la realtà, e

con l’altro in particolare.

10 Sugli equivoci di tale canone mi sono espresso in un contributo esplicitamente dedicato al tema: La no-

zione di autonomia: fondamenti, in P. CATTORINI - E. D’ORAZIO - V. POCAR (cur.), Bioetiche a confronto,

Ed. Zadig, Milano 1999, pp. 125-139.

11 L’istanza è espressa con grande chiarezza dal pensiero di Hegel, in particolare dalla sua critica sarcasti-

ca alle due forme del pensiero del soggetto, vedi nota precedente. Un contributo prezioso che alla feno-

menologia della esperienza pratica, che ne mette in luce il rilievo costituivo per rapporto alla coscienza, è

quello di M. BLONDEL, che pure sembra poi incapace di pensare, nell’ottica di quella fenomenologia la

figura della libertà, dunque della determinazione alternativa ultima del soggetto; vedi la recensione critica

che propongo del suo pensiero in La questione morale ne l’Action di Blondel, in «La Scuola Cattolica»

121 (1993) 783-832.

Page 10: Teologia morale

10

come presenza a sé del soggetto, si realizza attraverso le forme dell’agire; esse rendono

manifesto come il riferimento di sé ad altri, e quindi alla realtà tutta, sia originario e

costitutivo. Il dispiegamento del senso della realtà tutta si produce infatti, tipicamente,

mediante la parola, e dunque nel quadro della relazione ad altri. Principio della cono-

scenza è la meraviglia, che genera la domanda, «Che cos’è?», e quindi la conoscenza.

La risposta alla domanda dice il senso di tutte le cose, e cioè la loro proporzione al desi-

derio di essere del soggetto.

La figura del senso

La figura del senso è ignota alla tradizione intellettualistica del pensiero; pensare

tale categoria esige che si ripensi la figura stessa della verità. Più precisamente, esige

che si corregga il modello della verità quale evidenza apodittica (episteme), capace di

imporsi al soggetto a prescindere da ogni sua determinazione libera12

.

Per articolare l’idea del senso occorre introdurre le due figure della promessa e

dell’imperativo. Il riferimento di altri a me assume per un lato la forma della promessa;

per altro lato la forma dell’attesa nei miei confronti, e quindi di un imperativo a me ri-

volto. Promessa e imperativo non debbono essere intesi – occorre precisarlo – quasi che

il soggetto sussistesse come soggetto cosciente a monte rispetto alla loro manifestazio-

ne; egli viene invece a coscienza di sé unicamente mediante il credito concesso alla

promessa e l’obbedienza prestata all’imperativo. Viene dunque a coscienza di sé soltan-

to mediante l’agire. Le due categorie, promessa e imperativo, sono a noi suggerite dalla

tradizione biblica. Non sono però qui introdotte in maniera dogmatica; piuttosto sono

richiamate in forza della loro obiettiva attitudine a interpretare l’evidenza fenomenolo-

gica.

Il riconoscimento dell’originaria mediazione pratica della coscienza dispone lo

spazio logico per pensare il rilievo essenziale che assume la distensione temporale. Il

soggetto ha una storia; meglio, diviene tale soltanto attraverso una peripezia. Le forme

stesse dell’agire hanno una storia; tale affermazione è subito suffragata dall’evidenza

fenomenologica, che mostra la differenza tra prime forme dell’agire e forme che solo in

un tempo successivo possono intervenire; tra prime forme spontanee e forme deliberate.

La tradizione dottrinale intende la differenza quasi corrispondesse a quella tra

agire impulsivo o passionale e agire volontario; in tal modo suggerisce la tesi di una

fondamentale opposizione tra le due forme. L’evidenza fenomenologica impone invece

di riconoscere il nesso indubitabile tra prime forme e seconde. Il nesso è stato illustrato

nella cultura dell’Ottocento dalla fortuna del romanzo di formazione (Bildungsroman);

nella cultura del Novecento dal nuovo sapere della psicologia; romanzo e psicoanalisi

insieme hanno proposto, in forme assai diverse, il nesso innegabile tra identità e vicenda

biografica. La chiarificazione concettuale di tale nesso chiede che siano concettualmen-

te precisate le forme dell’agire: che si precisi dunque come l’agire effettivo realizzi non

solo e subito la presa di posizione alternativa (bene o male); realizzi invece in prima

battuta la determinazione materiale della promessa e dell’imperativo. Tale chiarimento

consente di introdurre la figura del tempo pieno: un tempo nel quale soltanto diventa

possibile la disposizione incondizionata di sé da parte del soggetto.

12

Sulla categoria del senso mi sono espresso più diffusamente nel contributo Conoscenza e senso, verità e

libertà, in L. MELINA – J. LARRÙ (cur.), Verità e libertà nella teologia morale, Pontificia Università Late-

ranense, Roma 2001, pp. 67-88.

Page 11: Teologia morale

11

La parola che dice il senso di tutte le cose iscrive la relazione di reciprocità per-

sonale in un ordine universale fermo per sempre, che può e deve essere a fronte di tutti

attestato. Illustra bene il principio la relazione tra uomo e donna, quella nella quale la

parola nasce; dare parola all’accadimento sorprendente e promettente della prossimità

reciproca comporta la necessità di dare la propria parola, di promettere dunque. In que-

sta valenza incondizionata della parola si manifesta l’obiettivo profilo religioso

dell’esperienza del senso. Sullo sfondo della prossimità sorprendente e promettente di

altri a me, sta un ordine cosmico, una origine sacra. Soltanto nel segno della fede a

quell’origine nascosta e insieme innegabile è possibile trovare fondamento per il tratto

incondizionato della promessa reciproca, che in ogni caso è iscritto nella parola.

L’articolazione della valenza universale della legge, per rapporto alla quale sol-

tanto è possibile la promessa del singolo, trova determinazione nel codice della lingua;

più in generale, nel codice della cultura. Espressione di tale codice è in particolare il co-

stume (ethos). La mediazione pratica della coscienza comporta insieme, e di necessità,

la mediazione del costume; tale mediazione della legge morale è essenziale, ma è ap-

punto solo una mediazione. Esso rimanda a un’istanza trascendente, che non può defini-

re. Destinatario di tale rimando è il soggetto libero; soltanto attraverso il suo atto libero

può trovare determinazione la verità alla quale il costume rimanda. La qualità di tale de-

terminazione libera del soggetto connota la qualità stessa del costume.

In tale prospettiva occorre intendere la verità del peccato originale; essa afferma

la condizione universale di peccato dei figli di Adamo. Le norme del costume, delle

quali è fatto uso ad opera dei singoli per giustificare se stessi a fronte di altri anziché per

trovare giustizia di fronte a Dio, divengono proporzionalmente equivoche.

Uno dei fattori qualificanti della crisi del moderno è appunto il progressivo im-

porsi di questa evidenza, l’essenziale mediazione storica della coscienza. Tale evidenza

mette inevitabilmente in crisi la tesi convenzionale che presume una conoscenza della

norma ad opera della ragione, dunque a procedere da nessun luogo. Il sapere non è mai

della ragione, ma sempre e solo della coscienza; è dunque anche sempre attraversato da

una memoria. Al modello razionalistico del sapere si sostituisce con crescente evidenza

nel corso del ’900 un modello di sapere ermeneutico. Esso ha la figura della ripresa di

significati elaborati e trasmessi dalla tradizione civile. Il rischio prevedibile, a cui è

esposta tale immagine del sapere, è quello di perdere del tutto il riferimento alla verità.

Alla conoscenza della verità subentra l’infinita interpretazione dei segni.

Sullo sfondo di questa diagnosi, uno dei compiti fondamentali, che si impongono

alla ripresa del sapere veritativo nella nuova temperie culturale, è appunto di correggere

la deriva ermeneutica del pensiero postmoderno. La figura del senso non può essere

semplicemente sostituita a quella della verità. Il prezzo di una tale sostituzione sarebbe

infatti assai alto; pregiudicherebbe la possibilità di pensare un aspetto assolutamente de-

cisivo dell’esperienza umana, quello della sua libertà.

La nozione di libertà, alla quale facciamo riferimento, non è quella fino ad oggi

prevalente nel pensiero corrente: la possibilità cioè di fare questo o quest’altro, indiffe-

rentemente. Di questa libertas indifferentiae ne abbiamo fin troppa; questa libertà mi-

naccia di alimentare nell’uomo contemporaneo una radicale indifferenza alla sua stessa

esistenza13

. Neppure intendiamo la libertà in genere quale attributo naturale della volon-

13

La libertà di indifferenza definisce la figura oderna della libertà di contro a quella antica; si veda in tal

senso B. CONSTANT, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino 2001,

con introduzione di G. PAOLETTI, pp. V-XLIX; oppure B. CONSTANT, La libertà degli antichi paragonata

a quella dei moderni, a cura di Luca Arnaudo, Liberilibri, Macerata, 2001.

Page 12: Teologia morale

12

tà, che definisce la sua permanente apertura a determinazioni alternative (libertà dal

passato, dalla memoria)14

. La nozione di libertà a cui ci riferiamo appare, in certo senso,

addirittura opposta a quella di indifferenza. Libertà è la capacità dell’uomo di volere, di

legarsi cioè incondizionatamente a quello che fa. Tale capacità suppone, per sua natura,

che l’uomo riconosca la differenza assoluta tra due forme opposte dell’agire, in nessun

modo suscettibili di mediazione.

A proposito di tale differenza l’uomo è da sempre avvisato dalla coscienza mo-

rale. Con tale termine ci riferiamo a un’esperienza dell’uomo che certo precede le forme

del sapere riflesso15

. Tale esperienza pone da sempre l’agire umano sotto il segno di

un’alternativa: bene o male, innocenza o colpa. Le due possibilità sono asimmetriche,

corrispondono a un destino alternativo: salvezza o perdizione dell’uomo. Soltanto a

prezzo di riconoscere il nesso tra le forme concrete dell’agire e alternativa radicale,

l’uomo avrà anche la possibilità di effettivamente volere quello che fa; di legarsi dunque

all’azione e impedire così il destino che obiettivamente lo minaccia; mi riferisco al di-

stacco dalla vita che egli di fatto conduce. Che cosa devo fare per avere la vita eterna?

(Mc 10, 17)? per non pentirmi in fretta della vita vissuta? Che cosa posso fare che ri-

manga per sempre, sicché la mia vita non si riduca ad una serie di esperimenti cauti e

provvisori, fatti senza persuasione, che mai consentono di disporre di me? Così deve es-

sere intesa la consistenza più vera dell’interrogativo morale. Esso non è interrogativo

sporadico, marginale, in ogni caso solo successivo ad altri e più prestigiosi interrogativi

teorici. Al contrario, da quell’interrogativo sono comandati tutti gli altri.

L’interrogativo morale è oggi fondamentalmente rimosso dal pensiero filosofico,

come si è ripetutamente detto. La rimozione è legata, almeno per una parte, a declina-

zioni precipitose e mortificanti che esso ha conosciuto nella tradizione. Mi riferisco in

particolare alla comprensione dell’alternativa bene/male in termini di alternativa giu-

sto/ingiusto riferita alla distribuzione di beni. Il senso più radicale e vero

dell’interrogativo è l’altro: che cosa posso fare della mia vita, perché mi sia concessa la

speranza di non perderla? Che proprio questa la consistenza della questione morale rie-

sce a capire più facilmente la persona giovane, o adolescente; nel suo caso, infatti, si

impone in molti modi la necessità di prendere decisioni a proposito della vita intera.

Che sussista una tale necessità è compreso prima che si mostri con evidenza la scelta

buona; addirittura prima che si mostrino con evidenza le alternative. Il giovane sente

che la propria vita è a rischio, molto prima di sapere che cosa sia vita. Per questo appun-

to l’interrogativo si fa nel suo caso particolarmente urgente.

La cultura contemporanea pare – in tal senso – vecchia e non giovane. Assai più

che a proposito del che fare, essa si interroga a proposito di quello che le è consentito

sperare, per riprendere una famosa formula di Kant. Il filosofo, come si sa, separa pun-

tigliosamente l’interrogativo sulla speranza da quello sull’agire. Alla domanda “che co-

sa debbo fare?” si potrebbe, anzi si dovrebbe, dare risposta del tutto indipendente da

quella data all’altra, “Che cosa mi è consentito sperare?”. Appunto la separazione pre-

giudiziale delle due domande suggerisce di legare pregiudizialmente il tema della sal-

14

Grande fortuna ha avuto nel Novecento la distinzione di due concetti di libertà proposta da I. BERLIN,

Due concetti di libertà, in Quattro Saggi Sulla Libertà, Feltrinelli, Milano 1989, che si riferiscono rispet-

tivamente alla libertà negativa (libertà da) e a quella positiva (libertà di fare questo o quest’altro).

15 La differenza tra Gewissen e moralisches Bewusstsein (dunque, forma assegnata alla coscienza dal pen-

siero) è oggetto di tematica e pertinente denuncia nel pensiero di Hegel; vedi soprattutto i testi della Fe-

nomenologia dello spirito nel Cap. VI (dedicato a Lo Spirito, il terzo momento è dedicato a Lo spirito certo

di se stesso); e Lineamenti di filosofia del diritto, Aggiunta al § 136 (L’elevatezza del punto di vista della

coscienza).

Page 13: Teologia morale

13

vezza a quello del desiderio, piuttosto che a quello dell’agire. La separazione tra speran-

za e bene morale è figlia della concezione che separa la ragione dalla coscienza.

La crisi della ragione moderna, così come si configura nel pensiero postmoder-

no, in quello filosofico in specie, pare in molti modi raccomandare la sostituzione del

desiderio alla ragione, quale criterio di apprezzamento del reale, e più radicalmente di

ogni discorso veritativo16

. Ad un tema tanto grandioso, come è quello della verità, il di-

scorso postmoderno semplicemente rinuncia; lo fa, paradossalmente, per amore di veri-

tà, o quanto meno di autenticità17

. Esso si accontenta di essere discorso espressivo, piut-

tosto che giudicante; anche il tal modo quel pensiero fa professione di debolezza.

Il discorso soltanto espressivo mira unicamente alla drammatizzazione del desi-

derio. Il pensiero è ridotto alla figura di esposizione del soggetto; il soggetto, d’altra

parte, pare costituito nella sua identità di fondo appunto dal desiderio. Più precisamente,

da un desiderio che, in prima battuta almeno, appare senza oggetto. Il discorso dà figura

al desiderio. Più in generale, ogni forma di elaborazione simbolica dà figura al desiderio

dell’uomo e consente in tal modo anche di perseguirlo. Per volere, l’uomo dovrebbe an-

zitutto immaginare; appunto attraverso il ricorso ad immagini egli riuscirebbe ad appro-

priarsi di quella dynamis sconosciuta che lo attraversa, e addirittura lo costituisce. Lo

costituisce in forma strutturalmente ‘eccentrica’ rispetto a tutto ciò che ha nome e forma

in questo mondo.

La figura del desiderio qui descritta, molto prima di diventare tesi teorica, si rea-

lizza nelle forme immediate della vita; quanto meno, nelle forme raccomandate dalla

cultura tardo moderna. I rapporti sociali infatti non assegnano, né in alcuna maniera

suggeriscono, alcuna precisa identità al soggetto; non ne propiziano dunque

l’identificazione. Il soggetto pare condannato a inventarsi un’identità. A tale scopo si

serve di immagini messe a disposizione dal complesso di tradizioni simboliche proposte

dall’eredità civile. Se ne serve soltanto però, e in forma di necessità immaginaria. Esse

non rivelano a lui un destino; vengono solo in aiuto alla sua immaginazione, perché egli

stesso possa ‘inventare’ l’identità che gli manca. Questa ‘invenzione’ è spesso qualifica-

ta e apprezzata quale espressione di encomiabile ‘creatività’ del soggetto.

Su questo sfondo ci sembra debba essere interpretata la rinnovata fortuna che,

nei tempi più recenti, tornano a conoscere le stesse tradizioni religiose. Al fine di giun-

gere ad un’immaginazione di sé, esse appaiono più feconde della ragione. Alcuni indi-

16

Vedi a tale riguardo l’interessante riflessione di Philip RIEFF, iniziata con il saggio Freud moralista (in

inglese, Freud: the Mind of the Moralist, del 1959, tr. it. presso Il Mulino, Bologna 1959); seguita dal

fondamentale The Triumph of Terapeutic, del 1966, tradotto in italiano con il sottotitolo dell’originale in-

glese, e cioè Gli usi della fede dopo Freud (Istituto Librario Internazionale, Milano, 1972), che propone la

tesi secondo la quale appunto la cultura oggi dominante sarebbe appunto quella terapeutica, quella dunque

che non propone alcuna immagine della vita buona, ma solo quella di una vita migliore; la nascita

dell’“uomo psicologico” determina la fine della cultura degli ideali morali; circa la possibilità che una

cultura così possa durare in quel saggio Rieff rimane reticente, mentre si esprime nel successivo To My

Fellow Theachers del 1975, dove afferma espressamente che una tale cultura non può durare, dal momen-

to che essa attiva in maniera sistemica la decostruzione degli interdetti espressi dalla cultura tradizionale.

17 Il tema dell’autenticità, dopo essere stato di rilievo qualificante per il pensiero tra le due guerre, e in

genere per il pensiero genericamente qualificabile come ‘esistenzialistico’, torna con significativa fre-

quenza nella letteratura più recente; segnaliamo il rilievo sintetico che esso ha in alcuni dei filosofi che

più insistentemente si cimentano con i temi della crisi del soggetto nella civiltà pluralista: Ch. TAYLOR, Il

disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1994 (il secondo titolo dato a quest’opera del 1991, nella

riedizione dell’anno successivo, è: The Ethics of Authenticity); A. FERRARA, Autenticità riflessiva. Il pro-

getto della modernità dopo la svolta linguistica, Feltrinelli, Milano 1999.

Page 14: Teologia morale

14

rizzi del pensiero psicologico, che prendono origine da Jung in specie, formulano a tale

proposito un preciso teorema: la tradizione civile moderna sarebbe segnata

dall’egemonia di saperi remoti dalla coscienza, dunque sterili in ordine

all’immaginazione di sé. Essi sono i saperi formali della scienza, che attraverso i pro-

dotti della tecnica plasmano poi le forme stesse della vita quotidiana, e del rapporto so-

ciale. Di qui appunto nascerebbe la difficoltà sistemica che conoscono i processi di in-

dividuazione nella società tardo moderna. A tale inconveniente non è possibile rimedia-

re altro che attraverso la ripresa di saperi divenuti ormai esoterici, quali quelli della mi-

tologia antica, delle tradizioni orientali e magari anche del cristianesimo stesso.

Occorre uscire dall’alternativa tra ragione formale, che solo a tale prezzo po-

trebbe essere incondizionatamente imperativa (Kant), e desiderio, che identifica il sog-

getto, ma è esposto alla necessità di una sempre rinnovata invenzione. A tal fine è indi-

spensabile ripensare la categoria di legge. Fondamentale in ordine all’identificazione del

dovere morale nel pensiero convenzionale, essa è invece oggi rimossa da tale posizione

di privilegio dal pensiero utilitarista, proporzionalista, teleologico, ma anche da quello

comunitario. All’origine della rimozione sta la percezione della figura della legge uni-

versale come inevitabilmente estranea all’identità singolare del soggetto, e quindi etero-

noma.

La legge, o – comunque ci si voglia altrimenti esprimere – l’imperativo incondi-

zionato, deve essere ripensato nella prospettiva del pensiero del soggetto. Correggendo

per altro la presupposizione di una consistenza del soggetto a monte rispetto alle forme

dell’esperienza pratica. Tale presupposizione ha assunto nel pensiero moderno alternati-

vamente la figura razionalistica oppure quella romantica e patologica. Il soggetto realiz-

za la propria presenza a sé, e dunque la identità di soggetto, unicamente mediante le

forme dell’agire. Più precisamente, mediante le forme di un agire libero, reso possibile

dalla realizzazione del tempo pieno, di quel tempo dunque nel quale più nulla manca

perché il soggetto possa e debba disporre di se stesso. La figura dell’imperativo catego-

rico, incondizionato, suppone quella del tempo pieno: un tempo questo nel quale deci-

dere diventa possibile, addirittura inevitabile. Più precisamente, quando si realizzi quel

tempo, la rinuncia a decidere assumerebbe la forma di ritrattazione di una promessa pre-

cedente; della promessa – dico – mediante la quale soltanto il soggetto è pervenuto alla

possibilità originaria di dire Io.

Il nesso tra legge e tempo, del tutto evidente nella tradizione biblica, porta a evi-

denza una principio iscritto nell’esperienza universale. La conoscenza della legge si rea-

lizza soltanto attraverso una scansione dei tempi. L’affermazione è vera per riferimento

all’esperienza del singolo, e anche per l’esperienza sociale. Nei due casi, però, con de-

terminazioni diverse. Facciamo qui riferimento unicamente alla prospettiva della vicen-

da individuale.

La conoscenza del senso di tutte le cose diviene possibile al bambino unicamen-

te a procedere dalla fiducia primaria18

, propiziata dalle esperienze di accoglienza della

prima infanzia. Sullo sfondo di quella fiducia sta una promessa. Di tale promessa si ri-

18

La nozione (basic trust) assume rilievo centrale – come noto – nel pensiero di E.H. ERIKSON, in parti-

colare nella sua opera fondamentale (del 1950) Infanzia e società, Armando, Roma 1966; poi anche in I

cicli della vita (1950), Armando Roma 1984; e in una delle sue ultime conferenze Aspetti di una nuova

identità (1973), Armando, Roma 1975; la riflessione di questo autore, attenta alla descrizione

dell’esperienza evolutiva, pertinente nell’identificazione delle lacune del pensiero antropologico che im-

pediscono di comprendere l’effettivo, offre interessanti materiali per istruire la riflessione sulla forma mo-

rale della vita e sul rilievo essenziale che assume per rapporto ad essa il tempo.

Page 15: Teologia morale

15

vela la presenza nella vita del bambino molto prima che appaiano chiari i contenuti.

Condizione imprescindibile per giungere alla conoscenza della verità della promessa,

che conferisce la prima forma al desiderio dell’uomo e consente così la sua identifica-

zione (psicologica), è che a quella promessa praticamente si accordi credito. Appunto

come l’attestazione di tale credito è da intendere l’obbedienza alla legge. La pratica del-

la legge è la via che conduce alla piena conoscenza della verità della promessa.

In ordine alla comprensione di questa scansione di tempi, che caratterizza il rap-

porto tra l’uomo e la verità, rilievo essenziale assume la riflessione sulla figura del sen-

so. La categoria – come già si accennava – designa un aspetto essenziale del rapporto tra

uomo e verità, trascurato dalla grande tradizione filosofica. Il ricorso a tale categoria

appare ormai largamente affermato nella consapevolezza comune del Novecento, e de-

gli stessi filosofi. E tuttavia la riflessione intorno a tale categoria per lo più ignora il

preciso riferimento alla libertà.

Il pensiero ermeneutico in particolare, come si è accennato, scorge nella figura

del senso un accadimento originario, che in ogni modo si sottrae alla possibilità di una

scelta da parte dell’uomo. Il senso sarebbe evento, cosa che accade e non scelta né volu-

ta; esso rimarrebbe sempre e solo alle spalle del soggetto, come sua origine. Nei con-

fronti del senso non sarebbe ipotizzabile alcuna scelta libera. Il fatto che la verità accada

all’uomo, nella forma appunto del senso, sarebbe quindi la sanzione della qualità soltan-

to passiva del rapporto tra uomo e verità. L’uomo dovrebbe soltanto lasciar essere la

verità (Heidegger).

Alla categoria del senso ricorre oggi con significativa frequenza anche la lingua

comune. Lo fa anzitutto per riferimento alle questioni supreme della vita; si pone dun-

que la domanda sul senso della vita, e soprattutto esprime il dubbio a proposito del suo

difetto di senso. Lo fa poi anche per riferimento a momenti parziali della vita. Significa-

tiva ricorrenza ha, in particolare, l’interrogativo sul senso sofferenza; e quindi anche sul

senso del dolore, o sul senso della malattia, della vecchiaia, o magari addirittura della

morte. Il ricorso alla figura del senso, e più precisamente l’interrogativo a proposito al

senso, si produce dunque con significativa ricorrenza a margine di quegli aspetti della

vita, che hanno la consistenza obiettiva di una prova per la libertà. E tuttavia

l’interrogativo è di solito posto senza che sia riconosciuta l’innegabile correlazione tra

senso e libertà.

Lo possiamo verificare puntualmente a margine dell’uso corrente che oggi viene

fatto della parola prova. Essa è di chiara ascendenza cristiana, e quindi originariamente

biblica. Questa origine appare sostanzialmente dimenticata dall’uso soltanto patetico

che oggi viene fatto del termine. Della prova viene rilevato il profilo generico di fatica e

dolore (pathos); nel suo significato originario il termine rimandava invece alla libertà

del soggetto. Una esperienza di sofferenza può essere qualificata come prova soltanto

quando si veda la sfida che essa comporta per la volontà umana. La sfida è più precisa-

mente questa: riuscirà la volontà a tenere fermo il senso della vita tutta, obiettivamente

anticipato dalle forme pratiche precedenti, pure a fronte della sofferenza? Questo è

l’interrogativo vero che attraversa la famosa questione del male. Essa è interpretata dal

pensiero moderno per lo più in termini di teodicea; la questione è enunciata dunque

quasi come una sfida lanciata contro il cielo; il dubbio è che esso sia vuoto; se così non

fosse, qualcuno dovrebbe farsi vivo e rispondere al grido dell’uomo. Mentre la tradizio-

ne biblica interpreta la questione del male in termini di antropodicea, come questione

dunque della giustizia dell’uomo, rispettivamente della giustificazione delle sue forme

di agire.

Page 16: Teologia morale

16

Può dunque il senso della vita, vissuto con tutta ovvietà in tempi normali, essere

tenuto fermo nei tempi ardui? L’interrogativo è lungamente agitato dalla ricerca sapien-

ziale dell’Antico Testamento. Diviene formale nel famoso interrogativo, o più franca-

mente nel sospetto, che satana esprime nei confronti dell’uomo, e di Dio che di com-

piace per l’integrità del suo servo Giobbe: Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non

hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è suo? Tu hai

benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda di terra (Gb 1, 9b-10). La

convinzione di satana è che in realtà il timore di Dio manifestato da Giobbe non regge-

rebbe affatto alla ‘prova’; esso verrebbe meno nel momento in cui a Giobbe fosse sot-

tratta la siepe di benedizioni, delle quali Dio lo ha circondato. Alla benedizione costitui-

ta dai beni e dal lavoro delle mani satana aggiungerà poi la sfida connessa alle altre be-

nedizioni: gli affetti, e finalmente la salute. L’assunto sotteso al sospetto di satana è che

documento attendibile della verità del timore di Dio di Giobbe potrebbe essere soltanto

quello offerto da un timore che rimanesse fermo per nulla, anche quando fosse a lui tol-

ta cioè la siepe di benedizioni che circonda la sua vita. Su questo assunto è d’accordo

Dio stesso, che accetta la sfida di satana. La precisa vicenda di Giobbe, quale rappresen-

tata nel libro omonimo, mostra inoltre con chiarezza come la prova non abbia la sempli-

ce consistenza di esame volto ad accertare la qualità di una fede precedente; essa è inve-

ce il dramma, attraverso il quale soltanto la fede giunge alla sua forma perfetta.

Chiarisco il senso di questi rapidi cenni nell’ottica della questione sollevata, re-

lativa alla nozione di senso e al rilievo essenziale che essa assume in ordine alla com-

prensione del rapporto tra uomo e verità. Tale rapporto ha una distensione temporale;

verso la verità l’uomo è anzi tutto in cammino. La metafora del cammino o della via è

privilegiata nella tradizione biblica, per dire del momento pratico della vita. Essa sugge-

risce per se stessa come la prima manifestazione della verità susciti la necessità di una

determinazione pratica del soggetto; alla verità occorre in tal senso accordare credito

prima ancora di comprenderla, perché la si possa poi anche comprendere. Di questo

aspetto del rapporto dell’uomo con la verità la tradizione intellettualistica non sa rendere

ragione; esso è quindi semplicemente rimosso.

L’inizio del cammino è istituito dai primi benefici della vita; meglio, dalla prima

esperienza della vita tutta quale beneficio. Tale esperienza ha obiettiva valenza religio-

sa. Suscita meraviglia, e dunque la domanda figlia della meraviglia: che è mai questo?

Metafora eloquente per descrivere l’inizio della conoscenza è in tal senso la pericope

della manna; Il pane del deserto sorprende; dunque suscita una domanda: man hû, che

cos’è? Quel pane potrà effettivamente nutrire e non nauseare unicamente a questa con-

dizione, che alla domanda sia data risposta: È il pane che il Signore vi ha dato in cibo

(Es 16,15). La pagina suggerisce una legge generale: i primi benefici della vita non de-

ludono soltanto a condizione che ad essi sia dato un nome; in tal modo ne è riconosciuto

il senso, che è come dire la promessa in essi iscritta.

Dare nome alla promessa, e in tal modo dare nome a tutte le cose, determinarne

cioè il senso, non è operazione soltanto teorica; tanto meno è operazione convenzionale,

risultante cioè da un accordo tra gli umani. Dare nome alle cose equivale invece a rico-

noscere nei benefici, che fin dall’inizio hanno reso possibile il cammino della vita, una

parola a noi stessi rivolta; una parola che ha i due volti della promessa e del comanda-

mento. Quell’atto suppone dunque una determinazione libera; suppone la confessione

dell’intenzione benevola che precede l’uomo nel cammino della vita, e quindi il consen-

so ad essa.

Page 17: Teologia morale

17

In tal prospettiva appunto occorre precisare la nozione di senso. Senso delle cose

è la qualità per le quali le cose stesse ci riguardano. La dizione le cose è generica.

L’esperienza d’essere riguardati alla sua origine ha sempre la relazione con altri. Con

altri che sono con sorpresa e gratitudine riconosciuti come a noi rivolti, e benevolmente

rivolti. La parola è appunto possibile alle sue origini unicamente sullo sfondo della per-

cezione di questa intenzione benevola a noi rivolta. In tal senso appunto sono i primi

benefici che rendono possibile la parola, la suscitano, e suscitandola propiziano insieme,

e più radicalmente, il venire a coscienza del soggetto stesso.

Lo schema di pensiero, che intende la vita effettiva del soggetto, in particolare le

forme del suo agire, del dire e del pensare, come traduzione in atto di potenze o facoltà

in potere del soggetto stesso, l’antropologia delle facoltà di cui si diceva, si espone ine-

luttabilmente all’aporia di rendere impossibile il pensiero dell’identità del soggetto. Tale

identità viene alla luce infatti sempre attraverso una vicenda, o un dramma.

Dottrina della coscienza e questione dell’autonomia

Il superamento dell’obiezione moderna all’idea che possa esservi una legge dei

comportamenti umani, che dunque sussista una forma morale dell’agire, esige - come

precisato – che si mostri che e in che senso il soggetto sia tale soltanto grazie alla sua

azione, che dunque partecipi dell’originaria eccentricità dell’agire. la possibilità per il

soggetto di esprimere intenzioni pratiche è generata dall’anticipazione di sé ad opera di

latri. Appunto la risposta pratica a tale anticipazione configura progressivamente la co-

scienza morale, e con essa l’attitudine del soggetto a volere, e cioè a legarsi in mnaiea

incondizionata ai propri comportamenti; ad apprezzarli in maniera incondizionata come

buoni – o eventualmente a ripudiarli in maniera incondizionata come cattivi.

Possiamo illustrare in maniera più concreta la consistenza di tale nesso – tra dot-

trina della coscienza morale che riconosca la sua genesi eccentrica e realizzazione

dell’istanza dell’autonomia – considerando un testo emblematico e autorevole, un testo

dell’enciclica Veritatis Splendor. Come già detto in precedenza, l’enciclica intende con-

dannare il proporzionalismo, e dunque la negazione del valore apodittico della legge e la

comprensione di essa quale mera indicazione delle forme che debbono assumere ut in

pluribus i comportamenti umani per perseguire i beni apprezzati. Questa concezione

della legge pregiudica di intendere il suo profilo preciso di comando che comporta

l’obbedienza. La legge sarebbe semplicemente una regola di comportamento che

l’uomo stesso si dà per realizzare i beni autonomamente apprezzati. Pur intendendo

l’enciclica riconoscere una qualche pertinenza alla nozione di autonomia, ci pare non

riesca a chiarirla in termini pertinenti.

Mi riferisco appunto in particolare ai paragrafi dell’enciclica che argomentano il

carattere autonomo dell’agire morale (Parte II, I. La libertà e la legge). Proprio perché il

modello teorico sotteso è quello di un’antropologia delle facoltà, pensare la figura della

norma in maniera tale da riconoscerne il carattere di imperativo, e sia insieme affermare

il carattere autonomo dell’agire morale appare impossibile. L’esposizione inizia dalla

contestazione della tesi che afferma essere principio dei valori la libertà, o rispettiva-

mente la coscienza:

32. In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti ad esaltare la libertà al punto da

farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori. In questa direzione si muovono le

dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee.

Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del

giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male. Alla

Page 18: Teologia morale

18

affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta

l’affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla co-

scienza. Ma, in tal modo, l’imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di

un criterio di sincerità, di autenticità, di «accordo con se stessi», tanto che si è giunti ad

una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale.

Il passaggio dalla libertà alla coscienza chiederebbe qualche mediazione; quale sia

l’idea di libertà sottesa alla tesi che fa della libertà il principio dei valori (o solo del va-

lore dell’agire?) dovrebbe essere precisato. La coscienza, d’altra parte, qui intesa come

una facoltà del soggetto (dunque intesa in maniera diversa da come è intesa nella dottri-

na scolastica convenzionale) – è effettivamente «istanza suprema del giudizio morale»

pertinente per rapporto alla moralità dell’atto singolo; essa però giudica, e non decide;

che il giudizio provenga dalla coscienza non significa affatto che essa decida; il manca-

to chiarimento della nozione di coscienza e rispettivamente del suo giudizio rende poco

perspicua la differenza tra sincerità e verità. È in ogni caso è dfa riconoscere che la veri-

tà non è accessibile alla consapevolezza del singolo in altro modo che attraverso il giu-

dizio –non l’invenzione – della coscienza. La condanna del soggettivismo moderno non

può essere articolata in maniera pertinente altro che a una precisa condizione, rendere

ragione della mediazione soggettiva o coscienziale assolutamente essenziale alla cono-

scenza della verità morale. Se un tale compito sia eseguito la difesa dell’oggettività del-

la legge è destinata ad apparire come il ritorno di un oggettivismo della legge che con-

danna la legge stessa alla concezione legalistica.

La successiva descrizione torna all’idea di coscienza quale giudizio – si ritorna

in tal modo alla concezione scolastica della coscienza, quella che la intende appunto

come giudizio, dunque come atto, e non come facoltà; ess mostra come la concezione di

essa sia in effetti ancora quella intellettualistica e insoddisfacente, la quale presume che

la conoscenza della legge universale possa precedere l’applicazione di essa alla situa-

zione singola; debba anzi precedere. Una tale concezione di fatto nega l’implicazione

necessaria del riferimento a me del giudizio che io porto sui miei propri atti:

Come si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione la crisi

intorno alla verità. Persa l’idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ra-

gione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa

non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell’intelligenza della per-

sona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata si-

tuazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si

è orientati a concedere alla coscienza dell’individuo il privilegio di fissare, in modo au-

tonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt’uno con

un’etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, dif-

ferente dalla verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l’individualismo sfocia

nella negazione dell’idea stessa di natura umana.

Queste differenti concezioni sono all’origine degli orientamenti di pensiero che sosten-

gono l’antinomia tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà.

L’aporia può essere risolta unicamente a condizione (a) di riconoscere che e precisare

come il soggetto nel proprio agire si cerchi, e non sia invece presso di sé o presente a se

stesso a monte rispetto all’atto; (b) di precisare che e come questa ricerca di sé sia resa

possibile dalla promessa dischiusa dall’originaria esperienza passiva della prossimità

grata.

Per capire la figura della coscienza è indispensabile considerare il preciso profilo

per il quale essa è giudizio che il soggetto stesso dà del proprio agire; è indispensabile

dare una giustificazione, che sia insieme una determinazione, di tale profilo; finché si

Page 19: Teologia morale

19

eviti tale cimento è insieme impedita l’istruzione pertinente della questione

dell’autonomia e/o eteronomia dell’atto buono,

A tale questione la Veritatis Splendor dedica i successivi nn. 36-41. La questione

è formulata in maniera pregiudicata, quando è posta nella consueta forma alternativa:

l’uomo ha una legge che non è lui a darsi, oppure si dà da sé stesso la norma del proprio

agire? Finché sia così formulata, l’alternativa equivale all’altra più radicale e di univoca

soluzione: ha o non ha l’uomo un dovere? Se si accetta - come pare inevitabile – il nes-

so essenziale tra la connotazione morale dell’agire e l’idea del dovere, affermare

l’autonomia quasi essa fosse la possibilità e anzi la necessità che il soggetto non si sot-

toponga ad altre norme che quelle che egli stesso si dà equivale a negare in radice la

connotazione morale dell’agire. E tuttavia l’enciclica stessa riconosce nell’autonomia un

requisito in qualche modo irrinunciabile dell’agire morale. In che senso?

L’enciclica per un lato riconosce come pertinente l’accezione di autonomia che

la identifica con il carattere libero (autonomo) dell’obbedienza alla legge; ma in tal caso

più che di autonomia si dovrebbe parlare di auto-prassia: l’uomo deciderebbe in manie-

ra autonoma dei propri comportamenti, non della legge (nomos). Per altro lato,

l’enciclica afferma il carattere inditum della legge morale, e rispettivamente la possibili-

tà di una sua conoscenza razionale; sotto entrambi i profili può essere riconosciuta

un’auto-nomia. È da rilevare per altro l’indubbia reticenza del testo a parlare espressa-

mente di autonomia per riferimento a tali determinazioni della legge morale (indita e

razionale). Essa è da intendere come riflesso dalla preoccupazione che così facendo sia

autorizzata un’accezione dubbia di autonomia: il singolo sarebbe arbitro della legge,

competente cioè a giudicare mediante la propria ragione in maniera insindacabile del

bene e del male.

La pertinenza di tale preoccupazione deve essere verificata chiarendo il nesso e

insieme la differenza tra ragione e coscienza. Nell’enciclica le due nozioni paiono iden-

tificate; il n. 43b in particolare ripropone la dottrina di Tommaso che identifica la legge

naturale con la legge della ragione; nello stesso senso si esprimono i paragrafi dedicati

alla coscienza come giudizio razionale, ai nn. 59ss. La tesi che afferma la conoscibilità

razionale della legge, insieme a quella che identifica ragione e coscienza, conduce alla

tesi di un’auto-nomia morale dell’uomo senza riserve; rende per altro difficile, anzi im-

possibile, intendere la rivelazione di Dio nella storia (cfr. la famosa obiezione di Les-

sing nei confronti d’ogni religione positiva).

La coscienza in realtà non può essere identificata con la ragione; chiarire i rap-

porti tra coscienza in accezione precisamente morale e ragione appare imprescindibile

per chiarire la questione dell’auto-nomia. Il chiarimento in questione d’altra parte im-

pone la ri-trattazione della figura corrente (razionalistica) di ragione. La conoscenza del-

la legge, dunque l’evidenza morale, non ha i tratti di una evidenza razionale, se con una

tale evidenza s’intende quella che potrebbe affermarsi presso la consapevolezza del

soggetto a prescindere dalla qualità delle sue disposizioni libere.

Al significato pertinente dell’istanza dell’autonomia è possibile pervenite a pro-

cedere dalla considerazione delle figure di eteronomia chiaramente scadenti; come sem-

pre accade, le figure negative sono più facili da determinare di quelle positive; è più fa-

cile condannare l’eteronomia nelle sue diverse forme, che apprezzare la figura positiva

di autonomia.

(a) Una prima figura di eteronomia certamente scadente è quella della soggezio-

Page 20: Teologia morale

20

ne dell’uomo a un imperativo a lui proposto da altri e da lui non condiviso; un compor-

tamento materialmente conforme a un imperativo del genere appare di necessità farisai-

co, attento cioè all’approvazione degli altri assai più che al senso dell’agire. E tuttavia

dalla conformazione farisaica a un imperativo dato da altri occorre distinguere

l’obbedienza suggerita dal credito concesso a colui che propone imperativi del genere.

L’obbedienza di un bambino alla mamma non può certo essere interpretata come obbe-

dienza mercenaria; essa non mira a guadagnare una lode o una ricompensa mercenaria

di qualsiasi altri genere; mira invece alla appropriazione dell’immagine bella e buona di

sé, che il bambino conosce in prima battuta soltanto attraverso l’approvazione della

mamma. Nella obbedienza infantile vediamo un’illustrazione efficace del principio ge-

nerale: mediante l’obbedienza alla legge il soggetto si cerca, non si arrende affatto ad

una presunta eteronomia, che è come dire a un’estraniazione da sé.

(b) Una seconda figura dell’eteronomia è – secondo il pensiero di Kant – quella

realizzata dall’agire patologico: che attende cioè il criterio del proprio valore dal referto

passivo offerto dall’azione già compiuta; bene è quello che mi fa bene, male quello che

mi fa male. Quando l’uomo si affidi a un criterio del genere accade che di necessità agi-

sca in maniera soltanto ipotetica, riservandosi cioè la possibilità di ritrattare l’azione già

posta alla luce delle conseguenze. La domanda che nasce è se l’uomo possa davvero

realizzare un apprezzamento incondizionato del proprio agire a monte delle evidenze

propiziate dell’effettiva realizzazione di quell’agire. Ancora una volta occorre ricono-

scere che le forme dell’esperienza passiva offrono un prima battuta le prime indicazioni

a proposito di ciò che può essere cercato, delle forme dell’agire che promettono d’essere

feconde per rapporto all’immagine di sé che il soggetto cerca.

La prima fonte del dovere appare dunque in ogni caso l’agire effettivo; esso nel-

le sue forme spontanee dà figura a una promessa di altri nei confronti del soggetto, e

sotto altro profilo dà figura insieme alla promessa di sé del soggetto nei confronti di al-

tri. Il prosieguo del cammino può e deve ulteriormente determinare le due promesse e in

tal modo configurare l’alleanza. Il tempo disteso dà in tal modo forma al tempo giusto –

nel tempo pieno – all’imperativo morale. A quel punto esso non è più imposto al sog-

getto da altri, ma è imposto a lui dalla vicenda stessa mediante la quale egli ha configu-

rato la propria identità.

Il modello abbozzato trova efficace illustrazione nella tradizione biblica; essa of-

fre in tal senso un modello formale che aiuta a leggere l’evidenza virtuale iscritta

nell’esperienza immediata di tutti. Pensiamo ovviamente anzitutto al modello originario,

quello che associa l’esodo e l’alleanza, dunque la Legge data e accolta sul Sinai. Prece-

de il beneficio di Dio, e cioè il passaggio oltre il mare che separa la terra di schiavitù

dalla terra promessa. L’esodo è certo opera che deve essere ricondotta come a sua origi-

ne all’iniziativa unilaterale di Dio; e tuttavia esso è già anche cammino dell’uomo;

cammino realizzato come su ali di aquila, e quindi a carico di Dio; e tuttavia cammino

che di fatto il popolo vive come vicenda propria. Soltanto mediante quel cammino il

popolo giunge alla prima consapevolezza della propria identità, quella di popolo di Dio.

Tale identità appare in tal senso dischiusa da una storia; più precisamente, dischiusa da

un accadimento, che precede l’iniziativa umana, che sorprende in quanto appare chia-

ramente come iniziativa intenzionalmente rivolta a sé; quell’accadimento appare da su-

bito gravido di un’intenzione, che inizialmente sfugge, trascende la comprensione im-

mediata del popolo, e promette dio divenire nota soltanto attraverso il cammino effetti-

vo. Appunto per riferimento a quel cammino libero è data la legge.

L’identità del popolo e rispettivamente il senso del cammino che ha propiziata

Page 21: Teologia morale

21

una tale identità non sono noti a monte rispetto all’assenso libero che il popolo offrirà

ad essi. Soltanto attraverso l’obbedienza effettiva alla chiamata iscritta nell’evento fon-

datore trova compiuta definizione la promessa. Di questo nesso appunto si occupa la

legge; essa istruisce a proposito di quanto esige la fedeltà all’evento fondatore, che pro-

pizia il primo accesso alla coscienza di sé. Occorre essere fedeli all’evento fondatore; in

tanto è possibile parlare di fedeltà all’accaduto, in quanto si riconosca che esso assume

appunto la forma di una promessa.

Questa qualità, d’essere cioè il documento di una promessa, dev’essere ricono-

sciuta come proprio di tutti quegli accadimenti che propiziano la venuta a coscienza del

soggetto; e anzi dev’essere alla fine riconosciuta come propria di tutti gli accadimenti

della vita; essi sono davvero accadimenti della nostra vita soltanto in quanto ci affetta-

no, e così mostrano di riguardarci, d’essere gravidi di un messaggio per noi.

L’ermeneutica di tali accadimenti esige un codice; e il codice ultimo è quello offerto da

colui che ha portato a termine il cammino; ci riferiamo ovviamente al Signore nostro

Gesù Cristo.

Il principio che afferma un nesso necessario tra legge di Dio e obbedienza

dell’uomo, che afferma più precisamente che soltanto attraverso l’obbedienza effettiva

la legge diventa nota, ha valore antropologico generale. Prima che si produca il suo

compimento cristologico, esso è illustrato dalla storia di Israele, in particolare così come

essa è sintetizzata dal Deuteronomio; rimandiamo in tal senso a quanto già detto sopra a

proposito del fenomeno della deuterosi: la seconda promulgazione della legge è realiz-

zata da Mosè intimando al popolo la memoria, guardati dal dimenticare, perché proprio

attraverso il cammino dei quarant’anni Dio ti ha insegnato di che cosa l’uomo viva.

Il modello biblico aiuta insieme a intendere che, e anche ad intendere come, la legge

scritta – scritta nei codici, dico, ma scritta più in generale attraverso le molteplici ogget-

tivazioni del costume e della cultura – abbia essenziale bisogno della ripresa personale

per attingere alla verità della quale essa è attestazione. La coscienza del singolo ha biso-

gno del codice, per conoscere la via della vita. Ma insieme il codice ha bisogno della ri-

presa ad opera del singolo, e della luce che soltanto la memoria del singolo può gettare

sulla legge, per essere in grado di dare espressione al comandamento di Dio. i precetti

del decalogo, e i precetti morali in genere, ampiamente noti a tutti i popoli, hanno indi-

spensabile bisogno della memoria dell’esodo, o rispettivamente della memorai della

creazione, per essere intesi nel senso giusto. E Gesù, d’altra parte, sottolinea la necessità

della sua ripresa perché la legge venga a compimento. Avete udito che fu detto… ma io

vi dico; quel che Gesù dice, attraverso la sua testimonianza non suffragabile, conduce a

compimento la legge di Mosè e confuta la lettura che della legge danno scribi e farisei.

6.3. Compiti presenti della Chiesa per rapporto alla morale

Le forme immediate del rapporto umano, così come definite nel quadro della

metropoli contemporanea, o – in termini equivalenti – nel quadro della società comples-

sa, stentano a propiziare presso la coscienza del singolo quelle evidenze elementari, che

progressivamente configurano la coscienza morale, A fronte di tali difficoltà diventa più

urgente per il ministero della Chiesa – e quindi rispettivamente per la teologia – il com-

pito della di elaborare una comprensione riflessa del nesso tra forme immediate della re-

lazione umana e senso della legge morale. La pressione ambientale opera nel senso di

una riduzione spiritualistica della religione, e rispettivamente nel senso di una riduzione

Page 22: Teologia morale

22

dell’etica laica e pubblica a mera teoria del diritto (discorso sul right and wrong, non sul

good and evil). La correzione di tale deriva esige consapevolezza teologica maggiore.

I primi benefici, quelli che originariamente dischiudono il senso della vita e

quindi rendono possibile volere, hanno la forma – come sopra detto – della sorprendente

prossimità di altri alla nostra vita. Appunto l’evento di tale prossimità grata istituisce la

possibilità per il soggetto di parlare, dunque anche di intendere, di esprimere un’attesa

nei confronti di altri, ciò che equivale a dire ‘io’, a realizzare cioè la presenza a sé stessi.

La fenomenologia della prossimità19

– e in particolare della figura paradigmatica di es-

sa, quella tra l’uomo e la donna20

– consente di entrare in forma più determinata nelle

descrizione della distensione temporale della coscienza, dunque anche nella compren-

sione della figura del tempo pieno, che solo autorizza e impone la risoluzione libera del

soggetto.

L’evento sorprendente della prossimità reciproca segnala la cura di altri nei miei

confronti; per altro lato, inseparabile, segnala l’attesa di altri nei miei confronti. Proprio

attraverso tale esperienza, di essere interpellato da altri, il singolo viene a coscienza di

sé; la forma di tale coscienza è subito connotata in senso morale. La percezione

dell’attesa di altri si realizza assai prima che sia possibile identificare la sua qualità de-

terminata. Per identificare tale attesa il soggetto è rimato al cimento dell’agire. Parlo di

cimento, per suggerire come subito sia in questione la determinazione pratica del sog-

getto. Non posso sapere che cosa altri attenda da me, se non accettando in qualche modo

da subito la pertinenza di tale attesa, e dunque legandomi a lui. La determinazione prati-

ca interviene, in prima battuta, spontaneamente, non accompagnata da consapevolezza

tematica adeguata. Il senso del mio agire, in ogni caso correlativo all’evento inaugurale,

acquista progressiva chiarezza presso la coscienza del soggetto soltanto a seguito dello

svolgersi effettivo dell’agire. La progressiva consapevolezza impone la necessità di una

sempre rinnovata ripresa e fedeltà all’agire spontaneo iniziale.

La possibilità di un agire pienamente libero, mediante il quale disporre in manie-

ra incondizionata di sé, e non elevare invece sempre nuovi interrogativi a proposito

19

È interessante ricordare la tesi sorprendente di L. ZOIA, La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009:

la morte di Dio comporterebbe di necessità la conseguente morte del prossimo, di quel rapporto cioè di

fraternità che solo può rendere moralmente impegnativo il rapporto tra gli umani; penso che della morte

del prossimo si debba effettivamente parlare, ma per rapporto alle forme sociali del vivere, prima che per

rapporto alla filosofia e alla religione.

20 Il rilievo architettonico che la coppia maschile/femminile ha in ogni lingua depone chiaramente in favo-

re di un nesso stretto tra la parola e l’esperienza dell’incontro uomo/donna; proprio quella esperienza è il

luogo originario della chiusura del senso di tutte le cose; l’argomento meriterebbe d’essere approfondito;

mi riferisco al suo merito teorico generale (appare decisamente incongruo il fatto che l’antropologia filo-

sofica ignori il rilievo fondamentale che la coppia assume per rapporto alla comprensione dell’umano), e

certo anche al merito differenziale che al tema deve essere riconosciuto in una stagione civile che in molti

modi pare rimuovere la valenza fondamentale che la differenza sessuale assume per rapporto al sistema

tutto della cultura; sul tema mi sono espresso molte volte a livello orale, ma per lo più in contesti di mera

divulgazione; per esempio: G. ANGELINI, Il matrimonio: significato umano della sessualità, Coll. «Atti»,

n. 18, Ed. AVE, Roma 1982; con qualche pretesa teorica maggiore G. ANGELINI, La teologia morale e la

questione sessuale. Per intendere la situazione presente, in Centro Italiano Femminile, Uomo-Donna.

Progetto di vita, UECI, Roma 1986, pp. 47-102; nello stesso volume La donna e la visione credente della

condizione umana, pp. 179-286; G. ANGELINI, Teoria ed empiria: la coppia uomo-donna di fronte alle

nuove scienze umane, in A. CAPRIOLI - L. VACCARO (cur.), La donna nella Chiesa oggi, Elle Di Ci, Leu-

mann (Torino), 1981, pp. 15-39; solo in questo anno accademico 2007-08 ho dedicato un corso monogra-

fico nel ciclo di specializzazione al tema maschio/femmina, Sesso e genere. Il caso serio della dialettica

natura/cultura, di cui sono disponibili le dispense in biblioteca; si vedano anche gli atti dell’ultimo con-

vegno di febbraio, Maschio e femmina li creò, che usciranno dopo l’estate.

Page 23: Teologia morale

23

dell’attesa di altri, è legata a questa condizione: che attraverso le forme storiche e prati-

che della mediazione del senso sia dato al soggetto di conoscere una figura compiuta di

alleanza, che possa valere quale significante della verità escatologica del proprio desti-

no. Appunto in questa prospettiva occorre intendere la verità di quell’alleanza nuova ed

eterna, che Gesù annuncia a coloro che amò fino alla fine. In questa prospettiva occorre

intendere la sintesi del comandamento di Dio, che tutto lo risolve nel comandamento di

amare come ha amato lui. Il nesso tra fede nel gesto di Gesù e obbedienza al comanda-

mento di Dio è bene sintetizzato nella formula breve con la quale Gesù interpreta il ge-

sto della lavanda dei piedi; esso, come si capisce, è gesto simbolico che interpreta la sua

passione; ciò che qui è detto per riferimento alla lavanda vale in realtà per riferimento

alla passione:

Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo

sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete la-

varvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, fac-

ciate anche voi. (Gv 13, 12-15)

Il comandamento dell’amore, sintesi della legge, raggiunge la sua verità compiuta sol-

tanto attraverso la testimonianza di Gesù; più precisamente, attraverso il senso che quel-

la testimonianza assume agli occhi di coloro che sono oggetto del suo amore. La misura

dell’amore comandato è quella stabilita dall’amore che essi stessi hanno personalmente

ricevuto. Essere testimoni dell’amore di Gesù per altri non sarebbe sufficiente, per po-

terlo poi imitare nella propria relazione ad altri; è indispensabile che il discepolo ricordi

ciò che Gesù ha fatto a lui stesso. In tal senso l’obbedienza al comandamento assume la

figura di una memoria, di ripresa del cammino già compiuto, ma compiuto in maniera

per così dire ‘infantile’. La ripresa è imposta dal riconoscimento dell’eccedenza di ciò

che Gesù intendeva rispetto a ciò che i discepoli avevano compreso e apprezzato nel

tempo precedente.

La ripresa del passato da parte dei discepoli, consentita dalla luce del compimen-

to pasquale, propone un modello concentrato del rapporto tra fede e morale. La luce del-

la Risurrezione, come realizza la rivelazione escatologica della verità sottesa alla storia

del rapporto tra Gesù e i discepoli vissuta nei giorni finiti, così realizza insieme la rive-

lazione escatologica della verità sottesa alla storia dei rapporti umani tutti come vissuti

nei giorni finiti della vita. La verità della Risurrezione rimanda al passato: non solo a

quello della vita terrena di Gesù, non solo a quella di Mosè e dei profeti, ma alla verità

della vita dei figli di Adamo. Alla verità, s’intende, eccedente, in molti modi negata dai

figli di Adamo, e tuttavia da sempre intesa da Dio, ed efficacemente intesa, dunque

obiettivamente iscritta nella loro vicenda. In tal senso la fede riprende la verità dei mo-

res; certo non in modo tautologico, ma in forma di giudizio, e quindi in forma tale da

proporre la necessità di una conversione.

Ponendosi in una prospettiva come quella qui abbozzata pare possibile corregge-

re i modi assai pregiudicati nei quali una ostinata tradizione di pensiero prospetta i rap-

porti tra eros e agape. Essi sono pensati in partenza come alternativi. E sono pensati co-

sì, perché pensati senza considerazione della distensione temporale dell’esperienza

umana. Riconoscere il necessario rimando dell’eros, del desiderio dunque originario, al-

le forme dell’agire, perché possa trovare determinazione la sua qualità intenzionale – in

ogni caso da subito indubitabile – consente insieme di riconoscere il debito dell’eros nei

confronti delle figure dell’agire istruite dalla cultura, dunque dalle forme socialmente

oggettivate della vita buona. La mediazione storica che così si prospetta corregge

l’immagine romantica, o rispettivamente quella meramente pulsionale, in ogni caso ‘in-

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civile’, dell’eros; istituisce quindi lo spazio logico per considerare il nesso qualificante e

problematico del rapporto tra la figura dell’amore e la figura della città.

Alcune forme caratteristiche del pensiero filosofico recente, che possono essere

assegnate al clima complessivo postmoderno, ai tentativi dunque di uscire dalla tradi-

zione del pensiero del soggetto che ne propone una figura autarchica, hanno in vario

modo proposto una rinnovata apologia dell’amore, e di un amore che assume appunto,

almeno a livello ottativo, la figura dell’agape21

. Esse paiono per altro semplicemente

cancellare il debito dell’amore nei confronti del costume, e dunque delle forme della

prossimità umana istruite dalla tradizione civile. Soltanto a prezzo di questa fuga rie-

scono a dare ragione del carattere incondizionato dell’amore. Tale amore è immaginario

e non responsabile

Da trent’anni a questa parte la crisi di identità del soggetto moderno è denuncia-

ta con grande insistenza dalla saggistica filosofica e psicosociale. Alla sua origine stan-

no i fattori civili che determinano la sconnessione sistemica tra forme della coscienza e

forme del rapporto sociale. Del fenomeno la riflessione cattolica fino ad oggi si è occu-

pata troppo poco, e in maniera superficiale. Mentre proprio dal chiarimento di questa

crisi di identità dovrebbe procedere l’invenzione delle nuove forme storiche della predi-

cazione cristiana e del cristianesimo in generale.

Le ragioni di questa disattenzione sono molte, e certo non possono certo essere

qui prese in considerazione analitica. Mi soffermo soltanto sulle ragioni di ordine teori-

co, che si riferiscono cioè al pensiero. La riflessione cattolica manca di risorse concet-

tuali adeguate per intendere il vincolo che, da sempre e di necessità, lega la coscienza

del soggetto all’esperienza sorprendente della prossimità rispetto ad altri. Il desiderio

dell’uomo prende forma soltanto attraverso la meraviglia suscitata da questa esperienza.

A motivo di tale difetto la riflessione cattolica si trova sprovveduta a fronte del compito

di produrre una critica di quel pensiero moderno, che più ha concorso a plasmare la cul-

tura comune della società laica e liberale. Mi riferisco al pensiero che ha proclamato

come un teorema indubitabile l’insularità della coscienza. Tale tradizione di pensiero ha

in molti modi raccomandato un’immagine dei rapporti personali che li rappresenta come

soltanto successivi rispetto ad un’identità personale precostituita. Appunto questo pre-

giudizio moderno occorre correggere, per poter intendere la crisi del soggetto e della sua

‘ragione’; soprattutto, per disporre dei mezzi per rimediare a tale crisi.

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Di due di tali figure, che grande seguito hanno avuto nello stesso pensiero teologico, ci siamo occupati

in un contributo recente: G. ANGELINI, Apologie postmoderne dell’amore: l’esempio di Girard e di Levi-

nas, in «Teologia» 27 (2002) 94-138; il tema del rapporto tra eros, ethos e agape è oggetto dei due ultimi

corsi di carattere monografico tenuti presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, dei quali sono

disponibili dispense ad uso degli studenti.