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DON TIZIANO ZOLI APPUNTI DI MORALE SOCIALE anno accademico 2013-2014 I. INTRODUZIONE 1. La riflessione morale come punto di incontro e di dialogo tra tutti gli uomini L’esperienza etica si presenta come esperienza universale, quindi la riflessione sul vivere morale dell’uomo diventa quella piattaforma che i cristiani hanno in comune con tutti gli altri uomini , per cercare insieme il modo più umano di realizzare una vita in comune sul pianeta terra. L’uomo pertanto sarà il fulcro di tutte le nostre riflessioni. 2. ” MORALE SOCIALE “ : corso di Teologia Tentiamo di dare una breve definizione dei termini nella loro unità. a) questo è anzitutto un corso di teologia; non si tratta cioè di una pura e semplice riflessione filosofica, ma é un discorso fatto da persone che credono e che, con l’aiuto della loro intelligenza, si sforzano di capire la loro fede; b) in quanto poi é anche un corso di teologia morale, queste persone che credono cercano di capire quali sono le conseguenze pratiche della loro fede; c) essendo finalmente un corso di morale sociale, l’attenzione é volta al capire in che modo il cristiano deve vivere la propria fede all’interno dei rapporti sociali, cioè di quei rapporti che, a differenza dei rapporti interpersonali in senso stretto, passano attraverso la mediazione delle istituzioni della società. 3. Il rinnovato interesse per la morale sociale Per cominciare bisogna rendersi conto che la Morale Sociale sta ritornando, dopo tanti anni, al centro dell’attenzione pubblica: tutti i discorsi sulla crisi della politica, della questione morale, della crisi economica e dell’Europa unita, rappresentano lo sfondo storico concreto delle nostre riflessioni. Questo stesso interesse é oggi condiviso anche dalla comunità ecclesiale. La Chiesa, soprattutto grazie alla guida del magistero degli ultimi pontefici, ha saputo maturare dentro di sé una più spiccata sensibilità sociale, ponendosi “al passo coi tempi”: da più di cent’anni a questa parte, ogni papa ha trattato molte volte delle questioni sociali (sia direttamente con encicliche che all’interno di singole allocuzioni). Si é sviluppata così all’interno della Chiesa..... 4. Una nuova coscienza della propria identità e della propria missione Nel 1891 é stato scritto che la morale sociale é la grande sfida che la teologia deve saper cogliere dopo essere stata per troppi secoli compresa solo come riflessione astratta sulla divinità; nasceva così all’interno della Chiesa una nuova sensibilità dal volto più umano: la Chiesa non é estranea al mondo, non lo giudica da una posizione di superiorità, ma partecipa delle sue ansie e condivide i suoi problemi. Leggiamo ad

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anno accademico 2013-2014

I. INTRODUZIONE

1. La riflessione morale come punto di incontro e di dialogo tra tutti gli uomini

L’esperienza etica si presenta come esperienza universale, quindi la riflessione sulvivere morale dell’uomo diventa quella piattaforma che i cristiani hanno in comunecon tutti gli altri uomini , per cercare insieme il modo più umano di realizzare una vitain comune sul pianeta terra. L’uomo pertanto sarà il fulcro di tutte le nostre riflessioni.

2. ” MORALE SOCIALE “ : corso di TeologiaTentiamo di dare una breve definizione dei termini nella loro unità.

a) questo è anzitutto un corso di teologia; non si tratta cioè di una pura esemplice riflessione filosofica, ma é un discorso fatto da persone che credono e che,con l’aiuto della loro intelligenza, si sforzano di capire la loro fede;

b) in quanto poi é anche un corso di teologia morale, queste persone checredono cercano di capire quali sono le conseguenze pratiche della loro fede;

c) essendo finalmente un corso di morale sociale, l’attenzione é volta al capire inche modo il cristiano deve vivere la propria fede all’interno dei rapporti sociali, cioè diquei rapporti che, a differenza dei rapporti interpersonali in senso stretto, passanoattraverso la mediazione delle istituzioni della società.

3. Il rinnovato interesse per la morale sociale

Per cominciare bisogna rendersi conto che la Morale Sociale sta ritornando, dopo tantianni, al centro dell’attenzione pubblica: tutti i discorsi sulla crisi della politica, dellaquestione morale, della crisi economica e dell’Europa unita, rappresentano lo sfondostorico concreto delle nostre riflessioni. Questo stesso interesse é oggi condiviso anchedalla comunità ecclesiale. La Chiesa, soprattutto grazie alla guida del magistero degliultimi pontefici, ha saputo maturare dentro di sé una più spiccata sensibilità sociale,ponendosi “al passo coi tempi”: da più di cent’anni a questa parte, ogni papa hatrattato molte volte delle questioni sociali (sia direttamente con encicliche cheall’interno di singole allocuzioni). Si é sviluppata così all’interno della Chiesa.....

4. Una nuova coscienza della propria identità e della propria missione

Nel 1891 é stato scritto che la morale sociale é la grande sfida che la teologia devesaper cogliere dopo essere stata per troppi secoli compresa solo come riflessioneastratta sulla divinità; nasceva così all’interno della Chiesa una nuova sensibilità dalvolto più umano: la Chiesa non é estranea al mondo, non lo giudica da una posizionedi superiorità, ma partecipa delle sue ansie e condivide i suoi problemi. Leggiamo ad

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esempio nel proemio di Gaudium et Spes: “Con la luce che hanno ricevuto dal Vangelo, icristiani si pongono di fianco all’umanità come partner di un dialogo universale che sappiascoprire la verità del vivere sociale; l’atteggiamento della Chiesa non é quindi soltanto quellodi chi insegna, ma anche di chi umilmente impara e cerca di capire Colui che proprioattraverso la storia chiama alla salvezza. Da questo nuovo atteggiamento, da questaconversione ecclesiale, é ormai impossibile tornare indietro”.

5. Accentuazioni teologiche

1) Uscire da una concezione privatistica della religione. Il passaggio modernoverso l’antropocentrismo, rievocato dalla secolarizzazione come emancipazione da Dio,è nato come esigenza intrinseca di una fede che pone come elementi centrali del suocredo il concetto di creazione, di incarnazione e di libertà dell’uomo. È dunque la fedestessa che intende garantire una mondanità originaria del mondo e a mettere in motouna secolarizzazione di esso. Nella concezione biblico-cristiana, infatti, il mondo nonviene ravvisato come natura, come ordine fisso dotato di una struttura perfetta darispettare religiosamente, ma come storia, come luogo dell’azione di Dio e della libertàdell’uomo. La perdita di un tale orientamento teologico ha lasciato confinare la fedenella zona del privato e dell’individuale. Sposandosi felicemente con una culturaindividuale e del profitto egoistico, la teologia ha così definitivamente messo in ombrala dimensione sociale e politica dell’annuncio cristiano e la responsabilità creativa delcredente nei confronti della storia e del mondo. In tal modo ha finito per accettare econsacrare nei secoli, in maniera tacita o espressa, quanto veniva definitivamenteproclamato dall’illuminismo: che cioè le dimensioni sociali del messaggio cristianosono secondarie e in pratica irrilevanti per la fede.La morale sociale intende proporsi come esigenza della teologia e della fede di usciredall’ambito in cui era stata confinata e si sviluppa come correttivo critico nei confrontidella fortissima tendenza alla privatizzazione tipica della mentalità religiosacontemporanea duramente segnata da una cultura individualistica, incapace di gettareponti di dialogo nei confronti degli altri e supportata da un culto esasperatodell’affermazione di sé.Positivamente si tenta di mettere in gioco la valenza pratica della fede, si tenta direndere significativa e significante per la vita personale e per la storia degli uominil’esperienza della fede.La salvezza annunciata da Gesù coglie personalmente l’individuo nel profondo, manon lo lascia chiuso in se stesso: la fede ha una dimensione pubblica e obbliga ilsingolo credente ad un confronto con la realtà politica e sociale capace di essereazione liberante e salvifica a favore di una convivenza a misura d’uomo.D’altra parte il Dio della Bibbia è il Dio dell’Esodo, il Dio che entra nella storia perguidare il popolo ebraico, è il Dio dell’azione e non della contemplazione di ciò cheesiste, è il Dio che apre una dimensione di futuro, non un Dio che lascia rimpiangereun paradiso perduto. L’esperienza di Dio non deve mai avere una funzionenarcotizzante o di disimpegno nei confronti delle nostre risposte sociali e politiche.

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2) Capire il rapporto Chiesa-mondo: rifiuto di qualsiasi dualismo. Lediscussioni sui rapporti Chiesa-mondo sono cariche di ambiguità quando intendonosupporre una separazione radicale tra le due realtà. La Chiesa è del mondo, è quelmondo che cerca di vivere del futuro promesso da Dio e di mettere in discussione ilmondo che intende se stesso in termini del proprio essere e della propria possibilità.La Chiesa non può estraniarsi nei confronti del mondo: se vuole essere lievito deveentrare in questo contesto. Essa non potrebbe mantenere la propria identità se siripiegasse su se stessa e continuasse a vivere nella pura ripetizione delle sue tradizioni.La custodia delle tradizioni senza la creazione di tradizioni nuove diventerebbe quelpuro tradizionalismo destinato a fare della Chiesa di Cristo una setta che non vive concontemporaneità i problemi e le vicende della società e che soffoca quanto vi è dirischioso, di provocante e di liberante nel messaggio di Cristo. La Chiesa puòdiventare facilmente “il guscio ideologico protettivo della società esistente”, invece diessere “la forza liberante e critica “ di questa stessa società. La Chiesa-setta è unaChiesa che ha perduto la propria identità.Essendo protesa all’emancipazione unidimensionale dell’uomo e al soffocamento dellelibertà dimenticate di coloro che non contano, la società è potenzialmente protesa edesposta ad un dominio totalitario dell’uomo sull’uomo. In questa situazione la Chiesa èdunque chiamata ad una duplice missione:

1. in primo luogo è chiamata a sposare, con Cristo, le attese e le speranze, lelibertà rubate degli ultimi, di coloro che non producono ed ostacolano con laloro presenza il cammino ineluttabile della società, di coloro che nonrientrano negli schemi dei modelli di progresso elaborati dall’ideologia delsuccesso;

2. in secondo luogo essa è chiamata ad un’autocritica riguardo alle strutture,istituzioni e modi di comportamento che hanno permesso di coltivare al suointerno la privatizzazione e il riduzionismo intimistico del cristianesimo e loscarto crescente tra il comportamento della Chiesa e quello della società.

L’uomo moderno ha una struttura mentale antropocentrica, esistenziale, storica econcreta, perciò recepisce l’insegnamento teologico solo se lo trova rispondente allesue preoccupazioni quotidiane, alle sue speranze e alle sue aspirazioni. La storiadiventa il luogo in cui Dio si manifesta rendendosi solidale con l’uomo da salvare eliberare in Cristo.

Per secoli la Chiesa si è preoccupata principalmente di formulare delle verità(ortodossia), ma ha fatto poco perché questa fede si incarnasse in atteggiamenti edazioni di amore e giustizia rivolte ad una trasformazione della società in cui viveva(ortoprassi). Non si tratta di costruire un ramo nuovo della teologia, con un suo temad’indagine, ma di dare una strutturazione incarnatoria e salvifica alla teologia intera ealla fede.

3) Cogliere le istanze morali dimenticate del messaggio evangelico dellagiustizia. Le tecniche di sviluppo e di promozione umana sono state largamenteadoperate nell’ultimo decennio, perché sembravano capaci di risolvere i problemi delterzo mondo; in realtà, facendo copiare ai paesi poveri i modelli delle società

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industriali, sono apparse di dubbia utilità. Gli aiuti bilaterali e multilaterali si sonodimostrati mezzi indiretti ma molto validi per intervenire politicamente e corromperele élites anche di governi militari forti, permettendo agli interessi stranieri diconsolidare il loro potere e rendere ancora più pesante il loro dominio.Lo stato di dipendenza dei paesi in via di sviluppo, le cui cause sono di ordine tecnico,storico e strutturale, é insieme interno ed esterno ed assume aspetti politici, economicie sociali, culturali.Le strutture economiche e sociali di questi paesi sono cementate nell’oppressione enell’ingiustizia, conseguenza di una situazione di capitalismo dei grandi centri dipotere. All’interno di ciascuno di questi paesi, piccole minoranze complici o asserviteal capitalismo internazionale mantengono con tutti i mezzi possibili una situazionecreata a proprio beneficio.È questa una “situazione di violenza” o una “violenza istituzionalizzata”. Di fronte adessa, rompendo l’atteggiamento di silenzio e d’inerzia, i popoli oppressi reclamano laliberazione dalle moderne schiavitù che si chiamano: guerra, miseria, condizioni sub-umane di vita, tirannia politica, sterile legalismo, schiacciante paternalismo,discriminazione razziale, disuguaglianze culturali, alienazione spirituale e altre formedi oppressione causate dall’egoismo dell’uomo e dall’inadeguatezza delle istituzioni.Queste voci chiedono con insistenza una trasformazione delle mentalità e una riformadelle strutture, aspirazione che costituisce l’equivalente moderno di quella fame e setedi giustizia di cui parla il Vangelo.

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II. DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

1. I testi principali

Vediamo brevemente i principali documenti che costituiscono il Corpus della DottrinaSociale della Chiesa, e quindi della Morale Sociale. In questo corso facciamo soltantoun accenno ai singoli documenti: la loro trattazione sarà rinviata al corso di MoraleSociale Fondamentale.

LEONE XIII (1878-1903)Rerum Novarum del 1891. È una enciclica sulla questione operaia. Il Papa fa unsintetico quadro storico della realtà di quel momento. Accentra in quattro cause laquestione scoppiata riguardo agli operai. La lotta era tra capitalisti e proletari. Il Papadice che ricorrere al socialismo è un rimedio errato e pernicioso.Le tre soluzioni vere sono: a) l’intervento della Chiesa; b) l’intervento dello Stato; c) laresponsabilizzazione delle due parti interessate: sindacati.

PIO XI (1922-1939)Ha scritto varie encicliche: Ubi arcano del 1922. Tratta della necessità di creare inquesto mondo travagliato la pace di Cristo. Le cause del malessere sociale sono dovuteal modernismo sociale.Casti connubi del 1930, sul matrimonio cristiano. Il Papa dice che la famiglia è più sacradello Stato ed è ad esso anteriore. Parla pure di un salario familiare.Quadragesimo anno del 1931. È stata scritta in occasione del quarantesimo anno dellaRerum Novarum e spinge alla restaurazione dell’ordine sociale in conformità con lenorme della legge evangelica:

a) il Papa fa un bilancio di quarant’anni di applicazione delle direttive date daLeone XIII;

b) parla dello sviluppo del Magistero sociale della Chiesa, ribadendo il diritto-dovere della Chiesa di dare direttive in campo economico-sociale; affrontaanche lo sviluppo dottrinale e la necessità del salario familiare;

c) le trasformazioni avvenute dopo Leone XIII: la crisi economica, il socialismostorico che si spacca in due tendenze: comunismo e socialdemocrazia.

d) Riguardo ai possibili rapporti con il cristianesimo delle due tendenze, il Papadice "vana speranza". I rimedi necessari per il Papa sono: la cristallizzazione dellavita economica e la legge della carità.

Non abbiamo bisogno del 1931. Scritta per l’Aci, ma ha come bersaglio il regime fascista:contro la statolatria. Il diritto è quello di fare il proprio dovere, ribadisce in maniereinequivocabili la libertà delle coscienze, il diritto della famiglia e della chiesa dei

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giovani.Mit brennender Soger, del 1937. Sulle condizioni tragiche del governo germanico;tremenda accusa contro il regime nazista per il suo razzismo, antisemitico,anticristianesimo, totalitarismo antiumano, il valore della persona viene messo inrisalto.

PIO XII (1939-1958)L’enciclica più importante è Sertum letitiae, scritta ai Vescovi d’ U.S.A. sullo studio dellaDottrina sociale. Importante a questo riguardo è la riesumazione del celeberrimoprincipio riguardante la destinazione universale dei beni; tale principio sarà al centrodel capitolo economico sociale della Gaudium et Spes.Tra gli innumerevoli discorsi di carattere sociale del Papa segnaliamo ilradiomessaggio per il cinquantesimo della Rerum Novarum. I punti toccati dal Papasono:

- l’uso dei beni economici;- il diritto al lavoro;- la famiglia vista come spazio vitale della società.

GIOVANNI XXIII (1958-1963)Mater et Magistra del 1961. Il corpo di questa enciclica è così caratterizzato da unaintroduzione storica sull’insegnamento sintetizzato dei tre Papi precedenti (Leone XIII,Pio XI, Pio XII) ed è strutturata da due pentagoni:1° pentagono: la persona nei cinque contesti quotidiani:

- persona e iniziativa privata. Intervento dei poteri pubblici in campo economico;- persona e socializzazione;- persona e rimunerazione nel lavoro;- persona e ambiente di lavoro;- persona e proprietà privata.

2° pentagono: cinque squilibri della società:a) squilibrio fra i tre settori della produzione (agricolo - industriale -servizi);b) squilibrio fra zone favorite e sfavorite entro ogni nazione;c) squilibrio tra paesi progrediti economicamente e paesi in via disviluppo;d) squilibrio tra esplosioni demografiche e limitate possibilitàeconomico- sociali;e) squilibrio tra progresso tecnico e progresso morale.

Pacem in terris del 1963. Scritta sulla pace secondo il retto ordine e i principi cristiani.Possiamo dividerla in quattro movimenti e una conclusione; quattro sono le parole chesi incontrano spessissimo: verità, giustizia, solidarietà, libertà. La pace è presentata

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anche come frutto di un autentico ordine e dal dialogo tra cattolici e non cattolici percostruire insieme la pace.

CONCILIO VATICANO II (1962-1965)Ovviamente facciamo riferimento alla costituzione pastorale Gaudium et Spes (1965) èdivisa in due parti:1^ parte:

1. che dice la Chiesa sull’uomo?2. che dice sulla comunità umana?3. qual’è il significato dell’attività dell’uomo sulla terra?4. quali sono i rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo?

2^ parte:a. il matrimonio e la famiglia;b. promozione della cultura;c. vita economico-socialed. vita democratica o politica;e. solidarietà internazionale: guerra e pace.

PAOLO VI (1963-1978)Populorum progressio. Sullo sviluppo dei popoli. È suddivisa in due parti:a) lo sviluppo integrale dell’uomo e vuole mostrare che è una illusione voler parlaredello sviluppo dei poli se prima non si fa il necessario sforzo per promuovereadeguatamente ogni persona, ogni cittadino.INDICAZIONI DOTTRINALI IMPORTANTI: viene sviluppato il concetto di processocumulativo, la gerarchia fra i tre princìpi che reggono l’uso e la proprietà dei beni. Siparla anche del superfluo.b) Lo sviluppo solidale dei popoli.- tratta dei doveri di solidarietà;- tratta dei doveri di giustizia;

Octogesima adveniens del 15 maggio 1971. È una lettera apostolica, ma ha il valore diuna enciclica. Possiamo suddividerla in tre parti:

A) i nuovi problemi sociali: l’urbanesimo, i cristiani nella diaspora mondiale, i giovani, il posto della donna, i lavoratori, le discriminazioni, gli emigrati, l’incremento demografico e la necessità di creare occupazione, il potere dei mezzi di comunicazione sociale, i problemi ecologici;

B) la duplice aspirazione degli uomini: l’uguaglianza e la partecipazione;

Quindi il cristiano deve saper discernere di fronte alle ideologie, alle utopie, alle scienze dell’uomo e al progresso.

C) La politica in chiave cristiana e l’azione del cristiano.

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GIOVANNI PAOLO II (1978-2005)Laborem excercens del 14 settembre 1981 nel 90° anniversario della Rerum Novarum. Èuna enciclica sul lavoro umano nella quale si afferma che quest’ultimo precede sempreil capitale, anche se non vanno separati; il mondo del lavoro non deve analizzare solo laproduzione, ma le condizioni, il salario, la situazione sociale. Il papa propone quindiuna spiritualità del lavoro, partendo da quello che definisce il ‘Vangelo del Lavoro’.Sollecitudo rei socialis del 30 dicembre 1987. Parla della tremenda sfida della solidarietà.Le cause di una situazione così disastrosa è da ricercarsi nel sistema finanziario e dicommercio, e nella contrapposizione dei due blocchi. I fondamenti di questo disastrosono nelle cosiddette strutture di peccato che coinvolgono la società. Tali strutture dipeccato derivano dal cosiddetto peccato personale di ogni uomo. Il Papa invita ascoprire queste strutture nella propria società per poterle superare attraverso lasolidarietà tra i singoli Stati, tra i poveri, il tutto supportato da una volontà politicainternazionale.Centesimus Annus del 1 maggio 1991. Si tratta di una enciclica che partendo dalcentenario della Rerum Novarum, offre una lettura dei nuovi scenari che si sono creatidopo la caduta della ideologia marxista-comunista nell’est-europeo, sottolineandocontestualmente il compito che spetta alla Chiesa. Si punta molto sulla proprietàprivata e la destinazione universale dei beni, l’impegno dello Stato democratico e apromozione di una nuova cultura.

Durante il pontificato di Giovanni Paolo II, il Pontificio Consiglio della Giustizia edella Pace, pubblica il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (2 aprile 2004) cioèuna sintesi dei principali contenuti che presenta in modo sistematico i capisaldi delladottrina sociale cattolica. Questo testo rappresenta la fonte principale di ogniriflessioni sociale in ambito ecclesiale.Non vanno tralasciati, oltre i singoli interventi a gruppi e associazioni, la raccolta deimessaggi per la Giornata Mondiale della Pace.A questi, con uno spirito un po’ campanilistico, possiamo aggiungere il testo deldiscorso di Giovanni Paolo II ai soci e ai lavoratori della Cooperativa PAF di Faenza(10 maggio 1986), unico intervento del Santo Padre in materia di cooperazione.

BENEDETTO XVI (2005 - 2013)Caritas in Veritate del 29 giugno 2009 è la prima enciclica del ‘papa teologo’ pubblicatain occasione del 40 anniversario della Popolorum Progressio di Paolo VI.

FRANCESCO (2013 - )Lumen Fidei del 29 giugno 2013. Alla dimensione sociale della fede è dedicato il IVcapitolo. L'obiettivo di questi paragrafi è quello di far comprendere come la fedeillumina il concetto di bene comune, permea i rapporti umani a cominciare dalla

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famiglia e di conseguenza tutta la società nella complessità delle sue dimensioni sociali(ambiente, politica, giustizia, pace) e personali (soprattutto nella sofferenza).

2. Il metodo in morale sociale

Prima di affrontare l’aspetto metodologico, cosa possiamo dire dell’insegnamentosociale della Chiesa?1 - non è un insegnamento definitivo ma dinamico - Il Magistero sociale della Chiesa nonnasce come qualcosa già di definito, come i dogmi di fede ma è sempre in evoluzione, èsempre in un atteggiamento dinamico; quindi possiamo dire che è sempre comequalcosa che è destinato a svilupparsi, mai fermarsi 2 - non è soltanto discendente, ma ascendente - Il Magistero sociale della Chiesa non èsoltanto qualcosa che discende dall’alto ma esso è simultaneamente qualcosa che saleverso l’alto, ma qualcosa che sale dal basso, da una necessità di base che la fa propria ela trasmette a tutto il mondo.3 - non inerte, ma organico - Questo vuol dire che l’insegnamento sociale della Chiesa èqualcosa di organico. Si legga a questo proposito quanto è scritto nell’ OctogesimaAdveniens al n.37: "Bisogna riconoscere che questa forma di critica della società esistente,stimola spesso la immaginazione prospettiva, ad un tempo percepire nel presente le possibilitàignorate che vi si trovano iscritte e per orientare verso un futuro nuovo"

Quindi è un Magistero organico, cioè che si organizza, che si mette in una prospettivadi apprendere per poter poi avviare un discorso adatto per il futuro, per il presente eper il futuro. Quindi il Magistero sociale della Chiesa è un Magistero che spinge il cristianoall’azione: "egli è abitato da una forza, lo sollecita a sorpassare ogni sistema e ogniideologia"; il cristiano, a seguito del Magistero della Chiesa è spinto a superare ogniideologia e ogni sistema; ma non per essere critico, ma per essere propositivo, peressere costruttivo.Quindi, possiamo dire che il Magistero sociale della Chiesa cammina con il popolo diDio e assimila quello che il popolo di Dio desidera che venga trasmesso agli altriuomini.

Metodologicamente, si è andato affermando un percorso che lungo i decenni si è viavia consolidato, fino a diventare la strada per affrontare i temi più specifici e le sfide dioggi. Il metodo potremme sintetizzarlo in questa scansione:

- vedere- giudicare- agire

secondo quanto è stato ribadito nel corso degli anni.

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III. LA DIMENSIONE SOCIALE DELL’UOMO

1. Il punto di partenza: una riflessione sull’uomo

Il punto di partenza di questo corso consiste in questa affermazione di carattereantropologico: la realtà sociale é riconosciuta come dimensione costitutiva, naturale,dell’uomo.In altre parole: il fatto di appartenere ad una società non é per l’uomo un optional dilusso, ma è qualcosa che appartiene in maniera essenziale alla verità del suo vivereumano; l’uomo non può vivere e diventare uomo se non in una società di uomini, senon, cioè, intessendo con altri uomini tutta una serie complessa di rapportiinterpersonali e sociali. Dopo questa proposizione che prendiamo come punto dipartenza cerchiamo di coglierne l’implicazione morale attraverso una breve riflessionesull’uomo in due passi. Ogni uomo porta sempre con sé un progetto di realizzazionepersonale, progetto che intende costruire attraverso delle determinate scelte che la vitagli propone. Tale progetto si attua sempre attraverso la decisione di stabilire contatticol mondo che lo circonda; il vivere di ogni uomo, cioè, non é semplicemente unesserci; é invece configurabile come un muoversi in una direzione ponendo dellerelazioni. Ora, in base al termine di riferimento preso in considerazione, la relazioneassume dinamismi e qualità completamente diverse: una cosa é manipolare un oggetto,un’altra é confrontarsi con una persona.

1) La relazione della persona con le cose. Tale relazione può essere rappresentatanello schema unidirezionale di padrone-schiavo: ogni cosa assume un valore nellamisura in cui ione posso disporre in quanto é riconosciuta come utile, funzionale almio progetto di realizzazione. Se vogliamo un riferimento biblico dobbiamo pensare almomento in cui Adamo é posto da Dio di fronte alla reazione perché riceva da esso unnome (Gen. 2,19): il senso delle cose é deciso dall’uomo, posto da Dio stesso comepadrone e custode del giardino. Si può perciò concludere con l’affermazione che ilmondo é stato creato per l’uomo.

2) L’incontro interpersonale. Nel vivere personale però succede che i termini direlazione non sono tutti uguali. C’é una novità, una novità specifica che si attua nellarealtà dell’incontro con un “tu” umano. Il piccolo particolare che crea la novità, e che édi freno alla tentazione egocentrica del singolo di progettare la vita come liberaespansione di sé, é che uomo nella Bibbia significa appunto l’uomo e la donna, lafamiglia degli uomini. Il nuovo termine di riferimento é anch’esso un soggetto, dotatocioè di una sua indipendente autonomia e personalità. Egli non accetta di essereridotto ad un elemento in più nella serie delle cose, non é disponibile, ma si pone almio stesso livello. La persona che incontro non può accettare di essere integrata nelprogetto della mia completamente libera autoespansione. Adamo (ish), stupito, nonpuò dare un nome alla donna (issah), ma solo riconoscerne l’originalità e affinità (Gen.2,23): Adamo non può dare un valore o un senso alla donna, ma solo porsi in una

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posizione alla pari.Il nuovo modello di relazione che sorge non più quello della unidirezionalità, ma éinevitabilmente quello della reciprocità: la persona risponde. Il suo essere con-me inquesto mondo, mi costringe a ridefinire il mio orizzonte e a capirlo in base a questanuova esperienza. Il mondo non sarà più lo stesso “mio” mondo, ma deve esseresempre più compreso come “nostro”.

2. L’implicazione morale: l’assunzione dell’interpersonalità

La verità della relazione che stabilisco con l’alterità, o, se vogliamo, l’implicazionemorale contenuta nel discorso della naturale socialità dell’uomo, sta nell’assumere laco-soggettività (interpersonalità) come il riferimento interpretante tutto ciò che chiamovalore sulla terra: ciò che vale per me vale allo stesso modo per lui: l’altro mi proponenon un valore, ma la possibilità di reinterpretare i valori stessi, di riconsiderare ognimio progetto alla luce della sua presenza. Di fronte all’altro io non posso continuare avivere come se non ci fosse: la sua presenza non dipende dalla mia decisione, ma siimpone a me e mi costringe ad una scelta : o accolgo l’altro, assumendo la suapresenza come nuovo punto di partenza per riqualificare il mio orizzonte, o lo nego,rifiutando la sua proposta di co-soggettività, di co-umanità. il negare l’altro può poiessere fatto in molti modi: posso ucciderlo o posso dichiarare di non conoscerlo. Èquesta, dal nostro punto di vista, la scelta morale per eccellenza.L’originalità specifica dell’evento dell’incontro con un “tu” sta nel fatto che ho soltantoun’alternativa tra il si e il no. Mentre rispetto a tutto il resto che mi si propone comevalore, come possibile valore attuante la mia vita, posso dire “no per adesso”,“preferisco quell’altra relazione mentre per il momento mantengo questa a distanza”,di fronte al rapporto con il “tu” non posso mai dire “si a condizione che...”. Il dire “si acondizione che” significa “no”, significa annullare la sua presenza come soggetto cheporta con sé un piano di realizzazione. L’altro con la sua presenza, non mi domanda difare questa o quella cosa, di fargli o non fargli un favore spicciolo. Ciò che mi chiede èqualcosa di ben più radicale: mi chiede di capire e di decidere tutto a partire dal mioessere “con lui”. Non accettare questo significa rifiutare il suo essere co-soggetto,significa cioè rifiutarlo come persona e integrarlo come oggetto nel mio, e solo mio,sistema di relazioni. Significa uccidere una persona.Scopriamo così una verità fondamentale che merita di essere sottolineata: l’incontrocon l’altro, con la conseguente scelta tra l’accoglienza e il rifiuto che necessariamentecomporta, diventa precisamente il luogo originario della responsabilità personale, equindi il luogo originario della moralità: nell’incontro con l’altro la mia libertà èchiamata a farsi responsabilità per la presenza dell’altro. Ricorderei a questoproposito la risposta che Caino dà a Dio quando gli chiede conto della scomparsa delfratello: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen. 4,9). La concezione dell’uomo cheognuno intende assumere è di fondamentale importanza per la riflessione conseguentesulla realtà del vivere sociale; siccome esistono diverse visioni antropologiche, esistonoin corrispondenza diverse concezioni del vivere sociale.

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3. Diverse visioni antropologiche e conseguenti concezioni sociali

Ogni filosofia elabora una determinata comprensione dell’uomo e del significato della sua presenza nel mondo. Mettere al centro del discorso sull’uomo l’incontro con l’alterità significa, ad esempio, andare oltre rispetto ad alcune riflessioni antropologiche maturate in alcuni ambienti filosofici recenti.

1) Antropologie individualistiche. Alcune antropologie pongono come punto dipartenza l’autorealizzazione dell’individuo singolare. Il polo del mondo è il soggetto-individuo, la sua “volontà” costruttiva, il suo “fare” o il suo “potere”: filosofiedell’esistenza che restano fondalmentalmente nel quadro dell’affermazione di sé suglialtri: realizzare se stessi, affermarsi a spese degli altri, adoperarli come un mezzo per lamia realizzazione autonoma. A livello sociale e politico una tale affermazione dell'ego include in sé l'ideadell'imperialismo. Essa genera la guerra che non è altro che il tentativo di estendere ilproprio potere sopra gli altri, eliminandoli e asservendoli ai propri scopi. Essa nonretrocede neppure davanti alla vita degli innocenti, pur di affermare gli interessieconomici o il potere militare e politico di qualcuno. Ma ci sono anche altre concezioni antropologiche più diffuse nelle nostre società diappartenenza che, contrabbandate attraverso il suadente nome della democrazia edella libertà, debbono essere soltanto riconosciute nella loro fondamentale non-verità.Noi così siamo abituati a riconoscere l'essere persona di ogni persona come fondatosulla sua libertà, ma intendiamo anche il gioco della libertà come una sorte di mercatoin cui bisogna rispettare delle regole per conservare la libertà di tutti: l'altro diventacosì colui che può mettere in pericolo la mia libertà: l'altro é necessariamenteconcorrente rispetto al mio vivere, é colui con il quale io devo fare i conti persopravvivere. Ad una tale concezione, così diffusa nelle nostre società, é sottesa l'ideadell'altro come nemico. La logica di questa interpretazione é la logica della difesa delproprio possesso. La concezione della morale che si può da qui sviluppare é quella checonsiste nel rispetto del pari diritto di tutti gli uomini: alla base della morale e delleregole di convivenza sta il patto, un codice che possa assicurarmi la possibilità diperseguire il mio progetto. Fondamentale però rimane lo sguardo con cui io mirivolgo agli altri: io mi devo difendere dai possibili attacchi degli incomodi "altri". Sipuò costruire un intero sistema morale su questa fondamentale distorsioneantropologica, su questo sguardo di radicale rifiuto dell'altro in quanto altro. La stessamorale dei diritti dell'uomo, culmine delle acquisizioni morali dell'umanità nel suoprocesso storico di indagine della verità morale, molto spesso é letta secondo questaangolatura egocentrica.

2) Antropologie collettivistiche. Nella posizione opposta si é affermata in buonaparte della terra la tentazione del collettivismo: esso mira all'affermazione radicalizzatadella componente sociale dell'uomo: l'uomo é soltanto un essere sociale; la sua

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valorizzazione come singolo si rivolge direttamente contro la configurazione stessadella società ed é pertanto da negare. In sé l'individuo non ha alcuna vocazione unicae personale da coltivare se non si identifica esclusivamente con quella del bene dellacollettività: tutto ciò che produce andrà destinato al bene della collettività ed ogni suaenergia deve essere spesa a favore della collettività, perché solo nella promozione diquesta l'uomo realizza pienamente quella che é la sua identità più profonda: l'identitàsociale. Tale concezione antropologica ha conosciuto le sue corrispondentirealizzazioni politiche: collettivizzazione dei mezzi di produzione, accentramento,pianificazione globale, perdita dell'identità individuale e del valore della persona,strumentalizzazione dell'uomo al potere statale o partitico.

3) Conclusione. Guardando a tali esempi di concezioni antropologiche distorte,andando oltre ad ogni visuale di radicalizzazione estrema e totalizzante delleaffermazioni, si vede bene che la dimensione veramente morale dell'uomo maturanella misura in cui cresce in esso una coscienza della propria responsabilità neiconfronti dell'altro: oggi devo necessariamente pormi di fronte alla vita dell'altroassumendo la responsabilità della sua stessa realizzazione e felicità: la vita morale é vitaal servizio della liberazione dell'altro.

4. La luce dell'esperienza di Cristo

Questa riflessione sull'esperienza morale intesa come libertà che é chiamata a farsiresponsabilità per la vita dell'altro, nell'accoglimento incondizionato dell'altro comesoggetto, riceve luce dall'esperienza di Cristo, il quale accettò di consegnarsivolontariamente all'umanità: Dio per primo si consegna a noi, alla nostra liberadisposizione, e così ci libera dalla paura di "perdere la nostra vita" nel rapporto con luie con gli altri. Questa iniziativa di Dio deve qualificare tutta la nostra vita morale comeesperienza di radicale accoglimento dell'altro nella forma dell' autoconsegnaincondizionata di noi stessi all'altro: e se la vita morale dell'uomo deve considerarsiautentica, allora deve inevitabilmente portare con sé l'ombra possibile della croce.Così il farsi prossimo diventa esperienza personale della grandezza della libertà diCristo e realizza la pienezza della vita di fede. La consegna incondizionata all'altro sinutre quotidianamente della più completa fiducia di avere anche noi come sboccofinale la pienezza di vita della resurrezione. L'esperienza del consegnarsi all'altrodiventa così intrinseca alla visione di moralità personale che abbiamo descritto prima;se io non agisco nella logica della difesa del mio progetto, se io riconosco l'altro comealtro e non come mezzo per conseguire il mio fine, allora io accetto anche la possibilitàdi perire nel mio non difendermi. Alla base di ogni esperienza morale autentica c'éuna radicale esperienza di fiducia. La possibilità di perdere, di soccombere, é capita inquest'ottica, come appartenente alla dinamica della vera realizzazione di sé. Ma ilconsegnarsi all'altro é l'unica alternativa possibile all'uccisione dell'altro. Una qualsiasialtra forma di compromesso o di accettazione condizionata dell'altro é già negazionedell'altro, é già considerare l'altro come concorrente e nemico. La difesa implica in sé

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un atteggiamento di morte. Il consegnarsi all'altro diventa allora l'esatta traduzione delvero accogliere l'altro in quanto persona; il modo in cui noi giustifichiamo il nostroaccoglimento condizionato é invece legato al timore che la libertà dell'altro possaessere nemica della mia, al timore che l'intera vita dell'altro possa essere nemica dellamia. Dice Giovanni che chi teme é imperfetto nell'amore (cfr. 1Gv 4,18). L'amore, ildono incondizionato di sé all'altro, é la radice ultima di ogni vita in società.

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IV. VALORI STRUTTURANTI LA VITA SOCIALEIV. VALORI STRUTTURANTI LA VITA SOCIALE

1. 1. LA GIUSTIZIALA GIUSTIZIA

1. Introduzione

1) Giustizia e socialità: due termini da unificare. Il problema della giustizia oggié riconosciuto da molti come il problema morale mondiale numero uno. La societàodierna non può arroccarsi nelle facili sicurezze del "già" acquisito e strutturato, ma sitrova nella inderogabile situazione di dover ripensare e ridefinire i rapporti socialituttora vigenti alla luce della tensione ideale e costante verso il "non ancora" daperseguire tenacemente. "Dove c'é giustizia, lì c'é società": i due termini sono correlativi: l'uno cade o siafferma col cadere o affermarsi dell'altro. Così le profonde e radicali trasformazionisociali in atto sono riconosciute come rinnovate provocazioni alla giustizia,all'instaurazione di dinamismi sociali di più efficace dimensione umana. Se "giustizia"significa essenzialmente relazionalità orientata ai valori della convivenza civile , allorasi capisce come la socialità dell'uomo abbia trovato nella giustizia vissuta il suosignificato. È impossibile non riconoscere che "da ogni parte sale oggi un'aspirazione a maggiorgiustizia" (Paolo VI: OA 2): ogni uomo che disattende o reprime tale anelito allagiustizia, oggi non si pone in una situazione di innocente neutralità, ma immergel'intera sua persona nell'ingiustizia colpevole.Finalmente ci si accorge con intensità maggiore che é più colpevole la buona coscienzadi chi sta a guardare piuttosto che la violenza di pochi singoli. È necessario pertantoprendere posizione.

2) Giustizia e complessità sociale. Prima di affrontare il problema della giustiziaé necessario prendere coscienza dei mutamenti radicali che hanno investito la realtàsociale contemporanea; tra questi non possono essere dimenticati la sconvolgenteautomazione dei sistemi produttivi e informatici, l’immigrazioni di popoli, lasocializzazione in prospettiva mondiale e i modelli di vita imposti dall'urbanizzazione:si tratta cioè di riconoscere la complessità radicale del problema della giustizia. Tuttigli ambiti del sociale sono coinvolti come parti in gioco nell'eterna lotta pro o controla giustizia: l'economia, col suo potere di creare o appianare nello stesso tempo ledisuguaglianze sociali; la politica, che può consolidarsi come realtà partecipativaoppure infossarsi in questioni di spartizione del potere; la cultura, che ha in sé lacapacità di aprirsi a nuove visioni mondiali, ma nello stesso tempo rimane tentata daideologie nazionalistiche o razziali. Un'azione che si proponga di essere al servizio diuna nuova strutturazione dei rapporti sociali, ma che non si curi di una talecomplessità, é destinata all'inefficacia.Sembra pertanto doveroso concludere che é oggi imprescindibile il passaggio dellaconcezione di giustizia da una visione individualistica ad una visione strutturale. La

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coscienza morale contemporanea infatti é più sensibile ad un'idea di giustizia chechiama in causa le strutture fondamentali della vita associata: non é possibile relegareil problema della giustizia nell'ambito delle virtù individuali, spesso vissute in unclima di spiritualismo moralistico. Lo sguardo d'orizzonte deve essere ampliatoattraverso una analisi approfondita delle organizzazioni economiche, politiche eculturali che investono la realtà sociale in evoluzione.

2. Il concetto di "giustizia"

Il concetto di giustizia ha conosciuto nel corso della storia umana una internaevoluzione in base agli ambiti culturali in cui veniva usato. Percorriamone brevementele tappe.

1) Nel mondo antico greco Aristotele ne parlava come di quella virtù che inducel'uomo ad assolvere il proprio "debitum" (dovuto) quale esigenza d'ordine e diarmonia tra le persone. Questo significa che la giustizia si identificava con l'interoambito della moralità: l'uomo che agisce moralmente, l'uomo giusto, é colui che fa ciòche deve fare.

2) Questo però non basta: una tale definizione non mi dice niente di ciò che devofare a livello concreto, il mio "debito" reale. Per capire il contenuto materiale di tale"dovuto" é necessario assumere tre elementi:

• l'alterità: "giustizia" é sempre in riferimento a qualcuno;• l'obbligatorietà: il dovere del singolo si rapporta alle esigenze fondamentali

dell'altro;• l'uguaglianza: é il criterio che stabilisce la misura di ciò che é dovuto all'altro:

l'altro deve avere in misura uguale a me.Si arriva a queste acquisizioni nel dialogo e nello scambio tra cultura greca e culturagiuridica romana; la definizione classica della giustizia é quella riportata da Ulpiano:giustizia é quella "costante e perpetua volontà di dare a ciascuno il suo". Abbiamo cosìdelineato il criterio della giustizia: attribuire ciò che é proprio ad ogni uomoall'interno di una relazione di uguaglianza.

3) Il Medio Evo, con San Tommaso, conferma globalmente una tale visione dellagiustizia come obbligo giuridico del singolo verso l'alterità finalizzato al porre ogniuomo sullo stesso piano.

4) Sarà la riflessione più recente che approfondirà il discorso aggiungendo nuovielementi:

• la virtù della giustizia deve essere concepita non come atteggiamento delsingolo, ma come volontà dell'intera organizzazione sociale: deve trasformarsicioè in "realtà strutturale";

• "il suo" non é solo ciò che uno già possiede e gli é riconosciuto, o unacosificazione del minimo necessario per sopravvivere, ma ciò che uno dovrebbe

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avere per realizzarsi compiutamente come persona e aver la facoltà dideterminare a sua volta un vivere sociale giusto;

• la giustizia deve essere sempre vissuta come tensione pratica verso tutti i valorisociali e come amore per i valori della convivenza civile e per la persona.

Si vede bene come l'ultima evoluzione del concetto di giustizia tende ad abbandonareuna concezione strettamente giuridica a favore di un orientamento personalistico.Diventa necessario allora approfondire brevemente una distinzione basilare: l'ordinegiuridico e l'ordine morale.

3. Giustizia giuridica e giustizia morale

"Il suo" é un concetto che si lega al diritto di ogni persona, corrisponde cioè a ciò chegli spetta come proprio e inalienabile per il fatto di essere persona. Il diritto di ognipersona non é tale solo perché qualcuno glielo ha un giorno riconosciuto, nétantomeno é tale perché il portatore é un soggetto buono per cui merita questo edaltro: é invece un diritto che sgorga spontaneo, naturale, dall'essere persona. Si vedebene come la giustizia (= justitia) é virtù che si pone al servizio delle esigenzefondamentali di realizzazione di ogni persona. In tale contesto però il diritto (= jus)diventerà allora un sistema di relazioni che intende formalmente salvaguardare ciò cheé dovuto "in forza delle cose", in forza della presenza di una esigenza oggettivainderogabile. Il fatto é che una corretta visione della giustizia non si accontenta di essere circoscrittaad una pura relazione giuridica esteriore; essa implica anche un vincolo di carattereetico: prima di essere un atteggiamento di correttezza formale, la giustizia é unatteggiamento tipicamente umano che richiede adesione e impegno personale,convinzione e disponibilità interiore della coscienza. L'ordine morale tuttavia non écontrapposto all'ordine giuridico, ma lo assume, lo integra e lo eleva al livello delriconoscimento soggettivo e dell'incontro interpersonale.Si può concludere allora dicendo che la giustizia é la virtù morale sociale: é ildinamismo di una libertà orientata ai diritti della persona, diritti riconosciuti comevalore e ricercati con coerenza e fedeltà personale. Persona giusta diventa così coleiche scopre la società come luogo della realizzazione personale di ogni uomo e siimpegna per tale realizzazione umana attraverso l'incontro, la comunicazione, loscambio e la comunione tra le persone. La giustizia si fa carico della espressività dellapersona in seno alla società attraverso la plasmazione di un ambiente in cui siapossibile ritrovare ciò che la persona, per essere tale, richiede (= i diritti).

4. Tipologia della giustizia

Se la giustizia afferma, difende e promuove il diritto della persona di realizzare lapropria umanità attraverso le relazioni sociali, allora si può parlare di diverse accezionidella giustizia in base alla gamma dei diritti generali o particolari in gioco. Ladistinzione classica e sempre attuale é di matrice aristotelico-tomista.

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1) La giustizia generale, o giustizia legale. La principale relazione che l'uomo vive é

la relazione di appartenenza: ogni "io" si inserisce nel tutto del "noi-altri" e con esso siidentifica. Ma ogni società é portatrice di un diritto proprio: il cosiddetto "benecomune". Se mi riconosco come appartenente ad una società, allora costruisco il benedi questa società. Questo bene comune non ha nulla a che fare con un beneimpersonale o "extra" rispetto al bene individuale. Dice la Gaudium et Spes che ilbene comune é "l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi e aisingoli di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più velocemente" (n. 26).La giustizia che tutela questo diritto trans-personale della società in quanto società édetta da San Tommaso "generale", perché ordina le scelte e le azioni delle parti al benedel tutto, svolge cioè un'azione inglobante che orienta il tutto. Essa perciò ha unprimato rispetto alla giustizia particolare che tutela il bene del singolo, in quantotutela ogni uomo rispetto alle possibili sopraffazioni particolaristiche da parte di unaltro uomo o di un gruppo sociale.La giustizia generale é detta anche giustizia "legale", perché prende corpo nella leggeche ne codifica ed esprime le esigenze. La legge di una società infatti trae motivo edesigibilità dal suo essere tematizzazione e istituzione del bene comune. Per questomotivo essa vincola tanto il legislatore ( che promuove ed é garante di leggi giuste, cioèorientate al bene comune), quanto i componenti della società (che attuando tali leggicontribuiscono fattivamente al raggiungimento del bene comune). Nello stesso tempola legge denuncia come ingiusta

1. ogni attività che tutela interessi particolaristici e classistici devianti dalbene comune

2. ogni trasgressione ed evasione di obblighi.

Oggi occorre promuovere una maggiore coscienza di responsabilità verso il benecomune, il bene di tutti, per evitare che diventi (o che continui ad essere considerato)il bene di nessuno, da posporre sempre e comunque al bene individuale o del gruppodi appartenenza. La giustizia legale pertanto deve farsi carico anche di un'importantefunzione pedagogica capace di educare alla responsabilità e che accrediti il benecomune come bene irrinunciabile della persona. La semplicistica identificazione dellagiustizia legale all'esecuzione delle leggi ha fatto perdere il suo carattere dinamico,orientato cioè al bene comune. La giustizia legale é garante del bene comune, nondell'ordine costituito.

2) La giustizia particolare. Mentre la giustizia generale tutela e promuove il benedell'intera società di fronte alle spinte egoistiche o classistiche, la giustizia particolaretutela e promuove il bene dei singoli o dei gruppi nei confronti di altri singoli o gruppi(giustizia commutativa) o nei confronti della stessa società d'appartenenza (giustiziadistributiva).

1°. Giustizia commutativa. Esistono nella società delle relazioni che sonomisurabili: scambio, contrattazione, compravendita, prestazioni reciproche...: gliindividui o gruppi interagenti diventano entrambi soggetti di diritti e di doveri alla

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pari. È dovere di giustizia commutativa stabilire il perfetto equilibrio: ad ogni dannodeve corrispondere una perfetta riparazione, ad ogni merce un corrispettivo prezzo, adogni prestito un'uguale restituzione: diritti ed i doveri devono assolutamentecorrispondere. È questa quella forma di giustizia che é stata fatta propria dalla giustiziagiudiziaria penale e che viene ben simboleggiata attraverso l'immagine della bilanciacalibrata.

2°. Giustizia distributiva. Tuttavia non tutte le relazioni sociali sono misurabili. Il"suo" spettante come diritto dovuto dalla società ad ogni persona non può essereinteso secondo i parametri dell'uguaglianza numerica: ogni persona vive unadeterminata situazione personale, fatta di bisogni e indigenze particolari come anchedi meriti e qualità. La pura spartizione matematica in certi casi non sarebbeuguaglianza, ma ugualitarismo, e, in certi casi anche una vera e propria ingiustizia.Troppo spesso, in nome del diritto, sono state commesse le più atroci ingiustizie.

Per concludere si deve vedere come il diritto che ogni persona richiede, e che le varieforme di giustizia sono chiamate a tutelare e promuovere, arrivano a stabilire una lineaminimale di esigenze concrete e precise, assolutamente irrinunciabili e più urgenti dialtre. Al di sotto di questa linea la persona umana sarebbe gravemente lesa in qualcosache le compete assolutamente, sarebbe considerata un mezzo invece che un fine,strumentalizzata ad interessi a lei estranei. Si tratta della precisazione degli obblighiminimali, di regole di operatività imprescindibili che apparentemente limitano ildovere, ma nello stesso tempo fanno sentire la loro estrema serietà. La giustizia non éaltro che la codificazione minima dell'amore del prossimo.

5. Giustizia e Vangelo

Il cristiano, alla luce delle parole del Vangelo, conosce e tende ad attuare undinamismo sociale ben più profondo e radicale. Se si considera la storia come il teatrodi quella lotta tra bene e male, tra giustizia ed ingiustizia, la creazione della leggerappresenta il tentativo di correre al riparo cercando di circoscrivere uno spazio in cuisia possibile la giustizia attraverso l'esecuzione della legge; questo spazio libero dallaconflittualità storica rappresenta una roccaforte, un baluardo che si erge contro ilpermanente assalto del male regnante nel mondo. Se l'intera società esegueperfettamente le leggi, la pace sarà il frutto più belle e spontaneo. L'esperienza storica tuttavia insegna che neppure la più stretta e rigorosa legislazioneé in grado di eliminare il male nel mondo, in quanto questo male é radicatonell'incapacità personale di osservare tutte le leggi. Allora il senso stesso della legge éribaltato: essa non é altro che la testificazione dell'incapacità dell'uomo di dominare ilmale nel mondo: si tratta di un diabolico circolo vizioso dal quale é impossibileliberarsi. La novità che Cristo é venuto a portare é sconvolgente questo sistema legale: invecedella resistenza al male, Cristo introduce la non-resistenza. La forza liberatrice delmessaggio di Cristo sta in questo spezzare il circolo vizioso proponendo la non-

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limitazione dell'amore negli schemi minimalistici legali. Facciamo alcuni esempi perchiarire questa novità liberante di Cristo:

1) "Vi é stato detto: occhio per occhio...": é la legge del taglione. Lo scopo di talelegge era quello di prevenire una vendetta sfrenata: la forza vendicativa era tale da nonpoter essere sradicata; poteva però essere arginata; e nello stesso tempo era necessarioriparare il danno subito con una giusta riparazione. "Ma io vi dico... di non opporvi almalvagio, anzi, se uno ti percuote la guancia destra tu porgigli anche l'altra..." (cfr. Mt5,38-42). La legge del taglione perseguiva la funzione di una resistenza contro il male.Questo baluardo contro il male comportava però una nuova conflittualità: si fa giustiziarichiamando la conflittualità. E questo é il problema. La novità é la non-resistenza.

2) "Quante volte devo perdonare ? Fino a sette volte ?" (Mt 18,21): proponendoper sette volte il perdono, l'intenzione della legge era quello di stabilire un certo gradodi impegno personale, ma oltre questo limite non c'é più resistenza. La risposta diGesù "settanta volte sette" implica il non senso della domanda: non si pone un limitealla riconciliazione col prossimo. La svolta radicale tocca il superamento di ogni limitenell'impegno. La prospettiva di Cristo non é altro che il rovesciamento di talesituazione: coloro che sono in Cristo, coloro che sono stati liberati da Cristo non sonopiù sotto la legge, ma sono nuove creature, rese capaci, dallo Spirito che abita in loro,di un amore senza limiti e senza condizioni; non si parlerà più di una giustizia legale,ma di una giustizia superiore con orizzonti infiniti.

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2. 2. LA SOLIDARIETÀLA SOLIDARIETÀ

1. Introduzione

Un secondo valore fondamentale dell'etica cristiana, messo in luce dall'insegnamentosociale della Chiesa e corrispondente alla costitutiva relazionalità dell'uomo, é lasolidarietà. Il forte richiamo a questo valore nella vita ecclesiale e civile deve esserericonosciuto come uno di quei "segni dei tempi" che il cristiano deve imparare adiscernere per inserirsi vitalmente nel mondo attuale e capire i nuovi modi concretiattraverso i quali si attua oggi il disegno di Dio nella storia dell'uomo. Se vogliamo avere una definizione sommaria della solidarietà la si può intendere comequel legame capace di unire ogni persona alle categorie più bisognose attraverso unapassione per l'uomo e un'azione capace di trasformare i rapporti sociali a favore disoccorsi efficaci. Il punto di partenza che fa da sfondo al discorso sulla solidarietà sono le varieinterpretazioni che storicamente sono stata elaborate riguardo al fatto dellaconflittualità sociale.

1) L'interpretazione individualistica. Le teorie economico-sociali liberistichehanno riconosciuto il valore positivo della conflittualità intesa come concorrenza: ogniuomo tende a vedere solo se stesso come un fine, é direttamente interessato alla "sua"sopravvivenza, all'appagamento dei suoi bisogni e alla soddisfazione dei suoi desideri.Gli altri sono essenzialmente visti come concorrenti rispetto alle mie pretese. Perevitare che questa radicale e costitutiva contrapposizione di egoismi sfoci in unaguerra di tutti contro tutti, cosa che risulterebbe contraria al vantaggio di tutti, énecessario scendere a patti: ognuno accetta di ridurre le proprie pretese perchéalmeno alcune di esse ricevano un riconoscimento e una garanzia di rispetto da partedegli altri: é il cosiddetto "contrattualismo". La società nasce quindi, secondo questainterpretazione, dall'egoismo dei singoli individui che razionalmente sannoriconoscere l'impossibilità pratica di portare avanti un numero infinito di pretese: c'échi ha definito una tale visione "egoismo razionale" (oggi largamente diffuso da J.Rawls).Alla base di tale interpretazione del vivere sociale c'é la convinzione ottimistica chedalla convergenza-scontro degli interessi individuali dei singoli, dalla conflittualitàdella concorrenza e della competizione, sorgerà il migliore assetto possibile dellasocietà, la migliore distribuzione dei vantaggi e delle esigenze del vivere sociale.

2) L'interpretazione marxista. Sebbene per motivi opposti, c'é chi interpreta piùradicalmente il fatto della conflittualità e lo intende come valore positivo per il fattoche senza di essa non ci sarebbe progresso umano: la conflittualità é interpretata comelegge del progresso storico. La vita si evolve nella misura in cui si vive dialetticamente,quando cioé c'é qualcuno che sovverte i risultati acquisiti a livello sociale e richiama asempre nuovi traguardi: la rivoluzione, la lotta tra le varie classi, é il mezzo attraversocui ci si libera dalle strutture ideologiche acquisite a favore della liberazione dell'uomo

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e del progresso del vivere sociale. Anche in questa interpretazione positiva della conflittualità sociale ci si apre ad unavisione ottimistica verso un nuovo ordine sociale capace di vincere lo sfruttamento el'alienazione.

3) L'interpretazione ecclesiale. Di fronte a tali mitizzazioni del conflitto e perfinodella violenza, la Chiesa propone invece una visione conciliativa della vita socialefondata sulla intrinseca socialità dell'uomo e sulla sua dignità: certo, esistonosopraffazioni e privilegi, ma chi intende vincerli con le armi della violenza come puòporre le basi per una società serena? Certo ci sono interessi contrapposti, ma tutti nonpossono non aver cura insieme ad esempio delle minacce che investono tutti; gliinteressi dei singoli non sono soltanto interessi concorrenti, ma anche interessicomplementari e comuni. Esiste una solidarietà di fatto, una comunanza di destino cheimpegna tutti gli uomini ad un impegno collettivo: ogni uomo é padre e figlio di tuttigli altri uomini. Certo, non si può avere una visione irenica del vivere sociale:esisteranno sempre ragioni oggettive di conflittualità (ad esempio le rivendicazioni deidiritti), ma é necessario trovare dei canali istituzionali di esercizio che non soffochinogli aneliti di uguaglianza (tutelandoli anche con una certa normativa giuridica) e chenello stesso tempo ne impediscano ogni tentativo di egemonizzazione violenta.

2. Le diverse accezioni del termine "solidarietà"

Nella cultura occidentale il concetto di solidarietà ha subito un processo ditrasformazione in base all'ambito in cui esso veniva usato. Esistono perciò diverseaccezioni del termine.

1) La prospettiva giuridica. Quando un gruppo di persone ottiene un prestito,dichiarando però esplicitamente l'obbligazione della restituzione in solido ( = insolidarietà), é possibile che il creditore domandi la restituzione dell'intera somma aduno qualsiasi dei debitori a nome di tutti. Questa modalità era un'eccezione rispettoalla regola della parziarietà dell'obbligazione ( = ognuno restituisce la sua parte). Oggiperò l'eccezione é diventata una regola: l'obbligazione in solidarietà assume, nellacultura giuridica odierna, uno statuto proprio. Pertanto si riconosce esplicitamente ilvalore della solidarietà come legittimo e doveroso.

2) La prospettiva antropologica. Oggi il discorso della solidarietà ha trascesol'ambito puramente giuridico per inserirsi in un contesto culturale nuovo. Prima lasolidarietà era richiesta come semplice attuazione della giustizia commutativa (i duecontraenti devono porsi sullo stesso piano) e della giustizia distributiva (i diritti sonoriconosciuti in base ai bisogni di ciascuno); oggi si comprende maggiormente che sonoil costitutivo stesso della persona e la sua dignità naturale che esigono l'attuazione dirapporti di solidarietà umana. A questo progresso é stato possibile pervenire grazie aduna maturata visione dinamica dell'uomo. Spieghiamoci meglio.Se noi guardiamo all'antichità, la persona era definita fondamentalmente a partire

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dalla sua unicità incomunicabile: l'uomo era ritenuto responsabile solo dei suoi atti,non poteva e non doveva rendere conto o rispondere di ciò che non dipendeva dal suoagire. Ciò che accadeva al di fuori del suo ambito d'azione poteva al massimosollecitarlo ad un gesto di carità (l'elemosina o la preghiera per le opere missionarie),ma non comportava una responsabilità diretta. La suora che assisteva i bambiniammalati e il missionario che si impegnava nei confronti di persone poverissime lofacevano per adempiere la loro personale vocazione religiosa. La motivazione era cioèpuramente soprannaturale. La riflessione contemporanea sull'uomo non dimentica certamente la prospettivadell'individualità incomunicabile, ma questa oggi é messa in rapporto con la suacostitutiva configurazione relazionale. La persona, unica e irripetibile, vive sempre in unacostante relazionalità tridimensionale: con Dio, con il prossimo e con il mondo; l'ionon può prendere coscienza di se stesso né pervenire ad uno stato di maturità se nonin rapporto vissuto con l'altro, non sperimenta la gioia se non si sente colto dall'amoredell'altro, non promuove la sua umanità se non impegnandosi per qualcuno. Una vitasegregata nell'individualismo non é una vita degna dell'uomo. Se vogliamoun'immagine attuale dell'inferno dobbiamo pensare alla situazione di impossibilità diricevere o dare alcuna relazione affettiva, cioè il non sapere amare, mentre il paradisopuò essere rappresentato con l'immagine dello stare insieme nella pienacomunicazione interpersonale dell'amore.In questo discorso si vuole sottolineare la funzione esistenziale della solidarietà: ognialtro uomo é metà della mia realizzazione; l'uomo solidale non potrà mai sperimentarela propria piena realizzazione se sulla terra ci sarà ancora una sola persona che soffre.Dio vuole che noi ci prendiamo cura dell'altro: questa idea non ce l'ha fatta conoscerequando ci ha dato una legge esplicita esteriore, ma ce l'ha fatta sentire sulla nostrapelle quando ci ha creati persone necessitate ad una integrazione vicendevole.

3) La prospettiva sociologica. Il vivere in società comporta l'assunzione di ruoli ecompiti dettati dalla nostra professione; le relazioni che la nostra posizioneprofessionale ci chiama a vivere sono relazioni doverose: professori, medici,sindacalisti, magistrati hanno il dovere di eseguire i loro compiti fino in fondo, dovereche é richiesto di fronte a tutti i "soci" del nostro con-vivere. Accanto a queste relazioni doverose tra soci, determinate dalla propria collocazioneprofessionale, esistono anche altre forme di relazione dettate dal semplice fatto diessere uomini: l'incontro con un anziano solo non chiama in causa il mio essere socio,con i diritti e doveri corrispondenti, ma chiama in causa il mio essere uomo, il mioessere e diventare prossimo per l'altro. L'etica della solidarietà non è riducibileall'esecuzione puntuale dei ruoli sanciti dalle istituzioni sociali, ai doveri conseguentialla nostra posizione professionale (infermiere in orario extralavorativo), ma affonda lesue radici nel cuore dell'uomo. D'altra parte l'essere socio non si contrappone all'essere prossimo: ogni prestazioneprofessionale deve essere svolta in forma personale e personalizzata, deve sempreessere animata da umanità, dal mio farmi prossimo. La pura efficienza fa perdere lospessore umano del vivere sociale, creando troppo spesso sovrastrutture burocratiche

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anonime e incapaci di offrire la possibilità di relazioni umane. Per qualcuno essereparagonato ad un computer potrebbe non essere un complimento: e noi dobbiamofare in modo che non sia così.Esiste però anche l'altro lato della medaglia: ogni organizzazione caritativa che svolgeazioni buone, ma professionalmente incompetenti, rischia sempre di non essereincisiva nel tessuto sociale, tantomeno può pretendere di essere riconosciuta daqualcuno. Se si vogliono smuovere strutture sociali solidificate, é necessario acquisireuna certa forza politica e questo é possibile attraverso prestazioni qualificate. Oggi unodei problemi principali delle organizzazioni di volontariato é quello di agire avendouna base piuttosto solida di competenze professionalmente qualificate. In altre parole:non basta la buona volontà. Comunque resta certo il fatto che lo spessore umanotipico di certi movimenti laicali di volontariato non é riscontrabile facilmente inistituzioni pubbliche in cui gli operatori, pur sempre qualificati professionalmente, madebolmente motivati , non aspettano altro che il suono liberante della campanella pergiustificare poi il loro non coinvolgimento nella situazione dell'altro. Umanità e professionalità devono progredire insieme: l'affermarsi dell'una senza l'altracomporta un cedimento di entrambe.

3. Solidarietà ed etica cristiana

La solidarietà occupa un grande posto nella nostra tradizione, sia a partire dallameditazione su Dio sia nello svolgersi storicamente condizionato della vita morale deicristiani.

1) La solidarietà come valore teologale

a) Nell'Antico Testamento la solidarietà, prima di essere un valore morale, é unvalore teologale: la scoperta di un Dio solidale con l'uomo, un Dio con un voltoumano, che non sta lontano, "nei cieli", ma che si fa prossimo all'uomo, con le fatiche ei dolori che la vita umana comporta, questo Dio spinge l'uomo a farsi prossimo ad ogniuomo: le radici della solidarietà cristiana si trovano nell'iniziativa di un Dio che si fasolidale: questo si intende quando si vuol dire che la solidarietà é anzitutto una virtùteologale. È una determinata visione di Dio che apre la strada ad una determinatavisione della vita morale ispirata alla solidarietà.

b) La creazione dell'uomo può dare nuova luce al nostro discorso: l'uomo él'unica creatura capace di rispondere a Dio, di entrare in dialogo come partner attivo.L'uomo allora non é un puro e semplice dipendente, un esecutore formale delcomando di Dio, ma é chiamato a fare la sua parte. In che modo ? Assumendosi la co-responsabilità nell'opera della creazione. Il mondo che Dio vuole é quello che l'uomosaprà responsabilmente costruire: Dio per così dire si ritrae dal mondo e lascia l'uomoall'opera sulla terra con la sua capacità divina di creazione dell'ambiente umano, delproprio destino e del destino di ogni uomo. Il dono della creazione che Dio fa all'uomo

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diventa per l'uomo compito di custodia e promozione.

c) Ma la rivelazione definitiva della solidarietà di Dio con l'uomo é avvenuta inGesù Cristo: é Lui che mostra la capacità divina di condivisione (essere-con l'uomo) enello stesso tempo ne svela il senso e la qualità: la donazione totale di sé (essere-perl'uomo). La massima rivelazione del Dio di Gesù Cristo é il Dio che si fa povero,impotente, spogliato per amore dell'uomo, é il Dio che si china al servizio dell'uomo egli lava i piedi, gli guarisce le ferire e si prende cura di lui. È così che é svelata la veranatura di Dio che é comunicazione dell'amore, di persone che si costituscono tali nelloro reciproco e totale autodonarsi. Pertanto la solidarietà che il cristiano vive assumela sua linfa vitale e le sue motivazioni nel Dio Trinità.

L'esperienza di incontro con questo Dio solidale, se é stata capita e vissuta sullapropria pelle come esperienza gioiosa e liberante, non può rimanere chiusa nel cuoredel credente, ma deve traboccare negli altri, deve diventare nel credente esigenzainsopprimibile di trasferirne il senso e la logica nel suo rapporto con gli altri.

2) Un nuovo concetto per l'etica cristiana. La solidarietà, in definitiva, non é altroche il nome nuovo della carità. Nel suo sorgere però tale "nuovo" concetto non é statasubito ben compreso, neanche all'interno dell'area cattolica: quando Leone XII lainvocava c'era chi si é fatto portavoce di una astratta proclamazione di principio e chil'ha riconosciuta come un ulteriore invito pietistico-emozionale all'elemosina oall'assistenza privata. Tali concezioni non apparirebbero certamente adatte peraffrontare seriamente le complesse questioni dell'attuale congiuntura sociale.Un ulteriore approfondimento del tema ha portato alla creazione di una nuova formadi filosofia sociale chiamata solidarismo, intesa come capacità di accostamento alleclassi più deboli nella tutela dei loro diritti fondamentali: sembrava la soluzionecristiana dei problemi sociali. A tale filosofia si ispirò il programma politicodenominato interclassismo, tipico di molti correnti cattoliche, secondo il quale lediverse classi sociali sono chiamate a creare rapporti reciprocamente arricchenti. Ma ilsolidarismo e l'interclassismo sono a volte accusati di nascondere semplicemente,dietro un velo ideologico, la conservazione dello status quo e la difesa dei privilegidelle classi abbienti.D'altra parte questo nuovo concetto della solidarietà, come abbiamo visto, é statoguardato con una certa diffidenza sia dai movimenti di ispirazione liberale-borghese(per il fatto che intaccava la "sacralità" delle leggi economiche allora vigenti), sia daquelli dell'area marxista (in quanto la solidarietà avrebbe fatto da freno ai conflittisociali e avrebbe occultato le vere cause dell'ingiustizia). Oltre a questi pregiudizi ideologici nei confronti della solidarietà, si deve riconoscereche oggi l'attenzione al fatto sociale si é fortemente attenuata. La crisi di questeideologie del cambiamento storico ha lasciato l'uomo ripiegato su se stesso,abbandonato ed esposto ai fenomeni attuali della massificazione e dell'omologazione.Tutto ciò ha penalizzato la persona nella sua capacità di apertura e di dialogo e hadiffuso tendenze privatistiche esasperate. Lo stesso fenomeno della disaffezione per la

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cosa pubblica é oggi ormai il sintomo di un tale ripiegamento individualistico,evidenziato così bene in quelle spinte corporativistiche che ricercano e pretendonosoltanto il proprio ed esclusivo interesse.A tali movimenti tuttavia fanno fronte i contro-movimenti del volontariato cheoperano nei settori della devianza, della marginalità o del terzo mondo: essi,rendendosi conto delle carenze delle strutture, ne denunciano profeticamente leinadempienze spesso tenute nascoste, ma nello stesso tempo si affiancano ad esse perrenderle operative o maggiormente efficaci, sempre ispirandosi esplicitamente ai valorietico-religiosi e ponendosi al servizio dell'umanizzazione. Si nota così il valore dellasolidarietà per la crescita di una società più a misura d'uomo. 4. Le dimensioni della solidarietà

Ora vedremo brevemente in che modo é possibile incarnare concretamente questovalore della solidarietà nel quadro della vita sociale.

1) Solidarietà e uguaglianza. La solidarietà per svilupparsi deve implicare comepresupposto il riconoscimento dell'uguaglianza e del rispetto dell'alterità di ogniuomo. Essa pertanto rifiuta sia la logica della differenziazione esasperata, sial'ugualitarismo massificante alienante.Negli anni '70 c'era la tendenza a cancellare le diversità, in una forma di ugualitarismodemagogico: era necessario fornire a ciascuno uguali servizi e assistenze. C'era però giàda tempo chi diceva che non c'é niente di più ingiusto che far parti uguali tradisuguali.Negli anni '80 si é invece assistito ad una radicalizzazione delle differenze, con laconseguenza dello sviluppo delle forme della professionalità e della competitività. Untale sistema di meritocrazia ha però penalizzato le fasce meno garantite della società: éstato questo il risultato del neoliberismo. Tutto questo ha portato ad un ripensamento del rapporto uguaglianza-diversità allaluce della tutela e dello sviluppo dei diritti fondamentali della persona: diritto allasalute, alla casa, all'istruzione, alla sicurezza sociale. Si espande così lo "stato sociale",primo garante della vita in società. In tale contesto la solidarietà diventa ilprolungamento operativo della giustizia: oggi l'uomo solidale si mette al serviziodell'uomo quando crea le condizioni necessarie per fare in modo che quei dirittiinalienabili, riconosciutigli attraverso la giustizia, possano essere effettivamentericonosciuti e affermati all'interno dello stato.Il nuovo rapporto tra "pubblico" e "privato" deve andare oltre la diffidenza reciproca,o alla distruzione del pubblico, a favore di un rapporto di solidarietà. Questo saràpossibile attraverso un recupero del classico principio di sussidiarietà, che rappresentaun dei punti cardine della dottrina sociale della Chiesa: lo stato non deve accentraresu di sé ogni competenza, ma favorire in ogni modo quelle competenze che individui ecorpi intermedi sono capaci di gestire da soli. Ogni intervento dello stato ha il senso di unaiuto suppletivo. Si tratta di spostare il più in basso possibile il baricentro dell'iniziativapolitica e la formazione della volontà sociale. L'attenzione sarà quella di riconoscere ladiversità dei gruppi sociali come convergente verso il bene collettivo e non come

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conflittualità. Una tale visione deve spingere alla tutela sempre maggiore e alla pienaespressività dei cosiddetti "mondi vitali", quei luoghi privilegiati in cui il soggettosociale forma la propria personalità, si apre alla socializzazione e acquisisce il senso. Ilprimo di questi luoghi é certamente la famiglia, cellula vitale dell'organismo sociale,troppo spesso però frustrata nelle sue esigenze rese impossibili o vittima di modelli divita ad essa contrapposti.

2) Solidarietà ed efficienza. Per molti il vivere la solidarietà rappresenta unrallentamento dell'efficienza, per il fatto che quest'ultima si la scia guidare da logicheimpersonali oggettive, mentre la solidarietà si fonda sulla persona. A questo riguardova ricordato che l'economia deve essere finalizzata allo sviluppo integrale della persona edella famiglia umana. Noi oggi siamo maggiormente sensibili a questa idea dopo cheabbiamo assistito al fallimento della cosiddetta legge della massimizzazione dellaproduttività (e quindi del profitto). Tale legge viveva di alcuni presupposti ottimisticiche poi in pratica non si sono verificati: una ridistribuzione di tale produttività e unriassorbimento ambientale dei danni che avrebbe comportato. Invece le conseguenze"non previste" sono state un crescente divario tra Nord e Sud, un emergere di nuoveforme di povertà all'interno delle stesse nazioni sviluppate e l'attuale drammaticasituazione ecologica. Ci si é visti costretti ad una revisione dei parametri classici dellescienze economiche: oggi si mette in discussione il processo di sviluppo incentratosull'aspetto quantitativo e si fa attenzione alla qualità della vita. Da una situazione diperfetta estraneità tra etica ed economia oggi si cerca la convergenza verso punti diinteresse comune: l'attenzione ad un profitto sociale e alla responsabilità collettiva. Inquesto tendenziale orientamento la solidarietà assume il valore di criterio-guida dellescelte economiche globali. Se vogliamo un esempio possiamo guardare al sistemacooperativistico: l'efficienza legata alla personalizzazione della gestione e gli interventimirati sul territorio aprono la strada a nuove interpretazioni delle leggi economiche.

3) Solidarietà e gratuità. In un tale contesto rinnovato l'attenzione alla persona, nellaforma della condivisione umana e del servizio reciproco, deve sempre più diventare ilfulcro della vita sociale: si tratta di eliminare la pura mentalità efficientistica. Si trattainoltre di ridefinire la politica attuale a favore di una mediazione tra le esigenze soggettivee le esigenze sociali, con l'attenzione alle provocazioni che vengono al basso e alladisponibilità che si presenta spontaneamente (volontariato). Ma ciò verso cui énecessario orientare tutte le energie sociali é la creazione di una nuova cultura cheguardi con simpatia alla comune appartenenza e alla reciprocità. Sarà all'interno di untale processo di radicale trasformazione mentale che sarà possibile promuovere edinstaurare nuove strutture di convivenza liberanti l'umano, o, per dirla con Paolo VI,"la civiltà dell'amore". Tutto questo non deve rimanere sul piano ideologicodell'utopia, ma aprire strade di concretezza: il cristiano deve scoprire la cosiddetta"dimensione politica" della solidarietà.

5. Solidarietà e interdipendenza graduale dei singoli, dei gruppi e dei popoli

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Vivere secondo il valore della solidarietà significa vivere nella volontà di realizzare unaforma di interdipendenza e di collaborazione tra gli uomini. Interdipendenza significache tutti sopravviviamo nella misura in cui stabiliamo delle relazioni di collaborazionee di integrazione reciproca.La solidarietà deve essere una virtù che progressivamente è in grado di creare relazionianzitutto tra i singoli, poi tra i vari gruppi sociali e infine tra i vari popoli. Lasolidarietà rappresenta quella risorsa capace di liberare i singoli dall’individualismo, igruppi dalle divisioni classistiche e i popoli dal nazionalismo.L’interdipendenza e la collaborazione sono due valori che intendono opporsiapertamente a qualsiasi impostazione privatistica o liberistica dei rapporti umani.Queste impostazioni si risolverebbero sempre a favore di più forti e dei più dotati adiscapito dei più deboli, sempre più esclusi dai centri decisionali.La solidarietà si realizza sempre nella reciprocità: ciascun membro ha sempre qualcosada dare e sempre qualcosa da ricevere: la solidarietà rappresenta sempre uno scambioreciprocamente arricchente, anche quando la controparte ha poco o niente da offriresul piano dell’avere. Ciò che va trafficato e scambiato sono anzitutto le possibilità e lerisorse umane: le doti morali, spirituali, culturali, etniche e sociali. Pertanto, anchequando la solidarietà si esprime eminentemente come aiuto effettivo verso il piùpovero e bisognoso, mantiene sempre quel carattere di liberazione e integrazione chepromuove tutti al ruolo di partner attivi e alla pari, non si riduce mai adun’ostentazione umiliante.

6. Il principio della sussidiarietà

Se il valore della solidarietà viene assolutizzato, se cioè la solidarietà viene cercata perse stessa e diventa funzionale alla realizzazione di un determinato sistema sociale, essadegenera in solidarismo e si esprime nelle forme classiche del collettivismo. Ciò cheverrebbe a mancare sarebbe l’affermazione del valore e della priorità della persona neiconfronti di qualsiasi istituzione politica.“L’ordine sociale e il progresso devono sempre lasciar prevalere il bene delle persone”(GS 26) per il fatto che “l’uomo è la sola creatura che Dio abbia voluta per se stessa”(GS 24).La solidarietà rappresenta certamente una virtù, ma non può dimenticare mai il fattoche ogni costruzione sociale è fatta per l’uomo a partire dall’uomo. La solidarietà èmantenuta come valore se non è cercata per se stessa, ma si pone a servizio dell’uomo,della sua libertà e della sua piena realizzazione nella libertà.È necessario collegare allora il discorso della solidarietà con quello della sussidiarietà:per garantire l’autonomia e la libertà delle persone, delle famiglie e delle comunitàminori, è necessario che qualsiasi intervento dello Stato non sia mai sostitutivo di quelloche le persone e le comunità intermedie possono realizzare da sole. Il compito dellostato non deve mai essere quello di accentrare su di sé ogni competenza e ognidecisione, ma deve sempre più favorire tutte quelle competenze che i singoli e i corpi

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intermedi sono capaci di gestire da soli. “Non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industriapropria per affidarlo alla comunità; allo stesso modo è ingiusto rimettere ad una maggiore epiù alta società quello che dalle minori e dalle inferiori si può fare... L’oggetto naturale diqualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membradel corpo sociale non già distruggerle ed assorbirle” (QA).Il magistero sociale della Chiesa ha sempre affermato questo principio di sussidiarietà; la sua intenzione è stata quella di mantenere il più in basso possibile il baricentro dell’iniziativa politica e nello stesso tempo difendere e promuovere la libertà dei piccoli “mondi vitali”. I mondi vitali sono quei luoghi privilegiati in cui qualsiasi persona, qualsiasi soggetto sociale forma la propria personalità, si apre alla socializzazione e acquisisce il senso. Non è possibile pianificare anche le sfere private dell’individuo senza un’indebita lesione della libertà e dell’autonomia della persona. Certamente il più significativo mondo vitale è quello della famiglia, ma non si vorrebbe che questa cellula vitale dell’organismo sociale sia frustrata nelle sue esigenze, rese sempre più impossibili, o vittima di modelli di vita ad essa contrapposti.

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V. LAV. LA REALTÀ ECONOMICA REALTÀ ECONOMICA

1. 1. IL LAVOROIL LAVORO

1. Introduzione

I primi capitoli della Genesi ci fanno pensare alla storia come quel processo dicreazione di un mondo più umano da parte dell'uomo. Se vogliamo considerare illavoro dell'uomo in questa visione vediamo che é proprio attraverso di esso che un taleprocesso di umanizzazione avanza. L'intero patrimonio culturale contemporaneo, fatto ditecniche, beni culturali, valori morali e principi educativi, è frutto dell'attivitàcompiuta dall'uomo durante le infinite generazioni che ci hanno preceduto. D'altraparte é anche facile capire che per l'uomo é praticamente impossibile vivere senzapoter esprimere se stesso nell'esteriorità, in gesti e parole, cioè attraverso un'attivitàtipicamente sua: il lavoro.

1) Natura e centralità del lavoro. Etimologicamente parlando il lavoro sarebbeconnotato soprattutto come un'attività penosa e mortificante, sia per la resistenza dellamateria sia per i rapporti interumani di subordinazione umiliante che solitamenteingenera. Non abbandonando una così pur vera affermazione, si può allora definire ilconcetto "lavoro" attraverso due significati fondamentali:

1°. in senso stretto il lavoro indica l'attività fisica dell'uomo, il fare, il manipolarequalcosa, solitamente volta ad una qualche trasformazione della materia;

2°. in senso generale invece si é soliti indicare come lavoro qualsiasi attivitàumana fatta per realizzare un fine umano serio e necessario; di fronte alla necessità disoddisfare le sue esigenze fondamentali, l'uomo si applica in una determinata attività,che non é necessariamente coinvolgente uno sforzo fisico.

Il concetto più rispondente al pensiero moderno, é quello che lo intende globalmentecome l'attività umana, sia essa manuale, cioè direttamente operante sulla materia perrenderla idonea al soddisfacimento dei bisogni umani, sia invece intellettuale-progettuale, volta cioè alla trasformazione umanizzante del mondo in cui l'uomo siinserisce o al perfezionamento della stessa persona che lavora.I due elementi sono di per sé complementari: lavoro manuale e lavoro mentale siintegrano a vicenda, costituendo le due facce inscindibili della medesima evoluzioneculturale e storica dell'umanità. Una prima affermazione che se ne può dedurre sarà allora quella di non identificare ilconcetto "lavoro" con una sua forma storica, quella esecutiva e dipendente, sebbenenon sia ancora scomparsa nella nostra epoca."Lavorare", considerato come quel concetto aperto e comprensivo che abbiamodescritto, é un'attività propriamente umana: l'uomo esteriorizza il suo mondo interioredi progetti e idee attraverso il lavoro, dando così a se stesso un'attualità storica.Una certa interpretazione antropologica dualistica, che tende a considerare il corpo come

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impedimento dell'anima spirituale, é tendenzialmente portata a considerare il lavorocome indegno dell'uomo, un ostacolo alla sua realizzazione. Occorre superare un talepreconcetto, piuttosto diffuso in molti periodi storici della riflessione morale cristiana,per capire che il mondo é affidato come dono all'uomo perché con la sua attivitàlavorativa egli sappia trasformarlo a dimensione umana. L'uomo ha il compito di creareun mondo umano. La visione positiva sulla funzione essenziale del lavoro nella realizzazione dell'uomo sié sviluppata assieme alla maturata presa di coscienza del potere immenso che eglipossedeva sulla natura ("homo faber"). In un primo momento - che comunque non éancora terminato - la rivoluzione scientifica ha indotto l'uomo ad un'esaltazioneunilaterale del lavoro produttivo e tecnologico. Infatti basta pensare al fatto che laterra, pur avendo possibilità immense di venire incontro alle esigenze dell'uomo, nondà tuttavia nulla da mangiare o da bere senza un fondamentale impegno di lavoro daparte dell'uomo. Inoltre: se oggi si ha la possibilità di condizioni sociali migliori, leggimigliori, comunicazioni migliori, istruzione più diffusa e approfondita, meno malattie,ecc., tutto ciò é frutto del lavoro dell'uomo. Allora si vede bene come ogni grandezzaculturale - malgrado gli aspetti di pena, di sofferenza e di alienazione che si possanocristallizzare sul lavoro - dipende da questa capacità umana fondamentale: il lavoro. In questo senso qualsiasi tipo di lavoro é ugualmente degno dell'uomo e nobile,perché sempre contribuisce all'umanizzazione della storia.Dire che il lavoro é una dimensione essenziale della presenza dell'uomo nel mondo,non equivale però a dire che tutta la sua umanità si esaurisce nel lavorare. L'uomolavora affinché gli sia possibile vivere e mantenersi ad un livello degno dell'uomo: cosìlavoriamo per essere qualcuno rispetto ad altri, cioè di fronte alle persone alle qualivogliamo bene. Lavoriamo per avere il tempo di stare insieme in gioia con gli altri, permeditare o contemplare: vivere solo e unicamente in funzione di rapporti di lavoronon può che ingenerare tristezza. L'uomo non esiste per lavorare, ma lavora e develavorare per esprimersi come essere umano nella dignità e nobiltà della sua esistenza.

2) L'ambiguità del lavoro umano. Esiste però un'ambiguità del lavoro: da unaparte il lavoro é strumento e via di umanizzazione, dall'altra é anche il luogo in cui sicristallizzano la maggior parte delle ingiustizie esistenti nella società. La promozionedell'uomo non é qualcosa che sgorga automaticamente dal semplice fatto di lavorare: énecessario affiancare ad esso un permanente sforzo di subordinazione del lavoroall'uomo. La storia illustra che gli uomini hanno sempre tentato di sfruttare altri uomini, legati aloro dalla necessità impellente di procurarsi il pane quotidiano: chi non ha nulla diproprio é costretto a vendere la forza che ha di lavorare. Avendo bisogno di coseassolutamente essenziali per vivere, egli deve subire e sopportare ogni specie disfruttamento pur di conquistarsi almeno le cose essenziali per vivere. Questo nonsignifica che ogni rapporto lavorativo che storicamente si é configurato sia statosoltanto quello padrone-schiavo, ma é vero che le ingiustizie si cristallizzavano e simanifestavano proprio in questi rapporti di lavoro. D'altra parte anche la Sacra Scrittura, fin dalle sue prime pagine, dice che l'uomo si

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sarebbe guadagnato il pane con il sudore della sua fronte: l'autore non pensavacertamente soltanto alla fatica fisica o al calore del sole, ma metteva in gioco anchel'ingiustizia e l'alienazione che colpiscono coloro che devono lavorare per un pezzo dipane. E se un tempo l'ingiustizia era cristallizzata nella struttura della schiavitù, e nelsecolo scorso la critica sociale guardava alla situazione del proletariato, oggi i problemiprincipali che il lavoro porta con sé sono quelli dell'ingiustizia del colonialismoeconomico e politico e le miserie del cosiddetto "terzo mondo". Ma non é possibile neanche negare le alienazioni create dal lavoro produttivo tecnico-industriale: la ripetizione automatica degli stessi gesti tutti i giorni, tutte le settimane,tutti gli anni disumanizza l'uomo e crea una strutturazione della vita sociale, un mododi vivere comune che sia funzionale agli orari di lavoro e al tipo di produzione in atto:concentrazione della popolazione in aree urbane, istruzione sempre più tecnica,svalutazione della spontaneità e dei rapporti umani. Ne consegue un'orribileaffermazione antropologica pratica: l'uomo vale nella misura in cui é produttivo inseno alla società.Questa radicale distorsione del lavoro, ridotto da mezzo a fine, e, ancor peggio,dell'uomo, ridotto da fine a mezzo, può essere vinta solo dalla presa di coscienza daparte dell'uomo di questa situazione e delle sue nefaste affermazioni e dal conseguenteimpegno di trasformazione radicale a cui siamo tutti chiamati. L'errore fondamentale diMarx é stato quello di credere che il progresso tecnologico e l'abolizione dellaproprietà privata dei mezzi di produzione, l'aumento dei beni di consumo e ladistribuzione equa dei beni culturali trasformassero automaticamente la società eabolissero le alienazioni: cosa che non si é mai verificata. Il compito a cui siamo chiamati oggi invece sarà quello di fare in modo che i rapportidi lavoro possano inserirsi in un quadro etico che affermi il primato del rapporto trauomo e uomo, il rapporto umano. Non si tratta di denunciare la tecnica e il progresso,ma una mentalità che uccide l'uomo. Il lavoro é per l'uomo, non viceversa.

2. Evoluzioni storiche

1) Dal lavoro preindustriale al lavoro industriale. Quando si parla della"rivoluzione" industriale si deve affermare un vero e proprio passaggio "storico"significativo per la portata di conseguenze a livello di produzione e distribuzione deibeni che lo hanno accompagnato. Da una società agro-pastorale, che si dedica alsettore primario, si assiste ad un graduale passaggio caratterizzato dallo spostamentomassivo verso le città, che impegna ad un lavoro nel settore secondario (industria) eterziario (servizi). La fabbrica può produrre in base ad un'articolazione del lavoro e un rapportogerarchico tra datori di lavoro e mondo operaio. Per poter resistere sul mercato unaqualsiasi fabbrica deve presupporre l'accumulo del capitale. Questo é stato resopossibile attraverso un coordinamento razionale di più elementi. Anzitutto una politicaeconomico-sociale di contrattazione collettiva ha garantito una continuità del lavoro edel reddito, cose che, unite alla presenza delle attività assistenziali di base, hanno

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creato i fenomeni dell'inurbamento massivo e dell'immigrazione. La presenzaimmediata di manodopera ad un costo poi decrescente é stata impiegata per garantireun processo irreversibile di aumento della produzione e conseguentemente delconsumo. Riguardo al capitale, la società industriale, attraverso i suoi esponenti, premesul potere politico, al fine di ottenere stabilità nella dinamica dei prezzi e garantirsi unconveniente costo del denaro, e crescenti profitti. Lo sbocco finale di tale processo di industrializzazione non é stato sempre previsto equindi preparato; solo dopo molto tempo ci si é resi conto che un tale svilupposfuggiva dalle mani dell'uomo: il circolo vizioso sul quale si era fatto affidamento perincrementare il potere economico e politico nelle mani di pochi, si é volto control'uomo stesso. Si é così assistito impotenti alla spontanea creazione di atteggiamenticulturali nuovi: é stato modificato il senso del tempo (in funzione degli orari di lavoro),sono cambiati i criteri della stratificazione sociale (in base alla conoscenza tecnica),cambia la locazione del potere (in mano a pochi colossi industriali), cambia il rapportocon le cose (consumo)e tra gli uomini (esaltazione dell'uomo produttore). Ma tra questieffetti collaterali non previsti vanno ricordati anche quegli aspetti che disumanizzanol'uomo, le nuove mutilazioni umane e le alienazioni create dalla mentalitàproduttivistica. Le denuncie di filosofi, economisti e sociologi sono state continue e severe; anche ilpensiero morale cristiano ha fatto la sua parte, anche se un'analisi attenta della nuovaconfigurazione della società sotto il profilo morale si é fatta lungamente attendere dallamanualistica teologico-morale, per troppo tempo avulsa dai problemi sociali delmondo moderno e dalla scienza economica. Ricordiamo che fino a pochi decenni fanon si parlava dell'economia nell'ambito teologico-morale, perché era riconosciutaacriticamente come una scienza neutra dal punto di vista morale; la sua neutralità eradata per scontata e pacifica, mentre tale indubbiamente non era.

2) Verso l'età tecnologica. Le nuove scoperte scientifiche, con le relativeapplicazioni tecniche, le dimensioni planetarie assunte dai rapporti economici, lenuove situazioni di progresso nelle risorse disponibili e la crisi profonda della qualitàdella vita, pongono l'uomo e il suo lavoro all'interno di nuove coordinate: il progressodell'elettronica e dell'informatica hanno creato le nuove discipline della robotica (neiprocessi di produzione), della burotica (negli uffici), della telematica (nei sistemi ditelecomunicazione). L'identikit del mondo del lavoro di cento anni fa é praticamenteirriconoscibile, tanto a livello quantitativo, quanto a livello qualitativo.

a) Trasformazioni quantitative. Riferendoci alla situazione italiana si notafacilmente che l'antica questione contadina é in via di risoluzione non tanto per leriforme realizzate, ma per la scomparsa dei contadini. Si nota inoltre il forte passaggioda un ambito industriale sempre più in crisi a quello dei servizi pubblici e privati. Èquesto lo sbocco tipico del processo di terziarizzazione e burocratizzazione attuatodalle economie moderne. Sullo sfondo di questi dinamismi vanno letti anche i dati crescenti delladisoccupazione, della cassa integrazione, della sottoccupazione e del lavoro nero. Esiste

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quindi una disoccupazione strutturale, in continuo aumento. Gli stessi economisti o isindacati sono davanti a un rebus: dopo numerose analisi non si riesce adindividuarne l'esatta provenienza, né tantomeno gli sviluppi o le adeguate terapie.

b) Trasformazioni qualitative. Molte professioni tradizionali sono crollate mentreemergono nuove forme inedite di lavoro. Anche le grandi fabbriche stanno diventandopezzi da museo in un mondo del lavoro oggi sempre più piccolo e frazionato. I millevolti del "lavoro" fanno oggi andare in crisi non solo il concetto di lavoro o dilavoratore, ma lo stesso movimento sindacalista o la cosiddetta "cultura" operaia, ormaievanescente. L'odierna cultura si orienta ormai verso nuovi paradigmi del lavoro: noné un fine, ma un mezzo, é necessario, non libero, non é un valore che basta e nobilita,ma qualcosa sul cui senso e sulla cui capacità gratificante i lavoratori, e il mondogiovanile in particolare, si vanno interrogando. Accanto a questa revisione della concezione del lavoro é facile sottolineare anche ilfatto che le stesse classi hanno subito notevoli modifiche: i rapporti tra le varie classinon sono più tra masse; la divisione parcellare del lavoro voluta dall'evoluzionetecnologica sempre più specialistica, ha creato rapporti sempre più articolati ecomplessi, mentre vanno diminuendo le distanze tra le classi, sia a livello retributivoche di mentalità. Si vede poi anche necessario riconsiderare il ruolo del movimento operaio e deisindacati: chiunque riproponga modelli di lotta o di solidarietà, ormai superati dallenuove situazioni, rischia di vedersi abbandonato. Purtroppo emergono movimentisindacali corporativi autonomi, incapaci di pensare al lavoro in un'ottica globale, cherappresentano bene il sintomo sempre più evidente di una mentalità individualisticache si afferma. I temi da affrontare saranno sempre più quelli della solidarietà intermini di mondialità e della partecipazione.

c) Trasformazioni culturali. La cultura contemporanea non guarda più al lavoroin termini di valore: il lavoro non é ricercato per se stesso, ma perché non se ne puòfare a meno per vivere decorosamente oppure per il salario che lo gratifica. L'analisi di molti filosofi e sociologi ci ha fatto notare che oggi il lavoro ha spezzato ilrapporto essenziale dell'uomo con le cose, che nel regime artigianale, spingeva ad unlavoro ben fatto. Ha accresciuto gli spazi quantitativi, ma ha visto progressivamenteimpoverito il profilo qualitativo del prodotto finale e della cura dell'uomo nel suolavoro. L'oggetto finale del lavoro, progettato da altri, si é fatto talmente lontano danon interessare più, rientrando così nell'area dell'indifferenza. All'operaio noninteressa più la sua creatività, libera e spontanea, ma l'equivalente monetario, mentreal datore di lavoro interessa il ruolo dell'operaio come parte dell'ingranaggio pensatoda altri per reggere alla concorrenza o per indurre sempre nuovi bisogni nella gente,reali o fittizi che siano non importa. Si assiste anche al fenomeno dell'aumento del tempo libero. Tale spazio é stato vistocon simpatia da più parti: anzitutto in esso era possibile un recupero di energie neiconfronti delle ore ripetitive e burocratiche alienanti. Purtroppo é ben difficile vivereil tempo libero come spazio di autonomia creatrice quando il lavoratore é stato

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plasmato nella cultura dell'eteronomia, vivere nell'esercizio della libertà e dellafantasia quando la maggior parte della sua vita la trascorre nell'apatia indifferente diun lavoro già tutto preordinato e programmato.

3. Per una nuova etica del lavoro

La teologia morale preconciliare ha sempre analizzato il lavoro nel quadro di un'eticaindividualistica, che si limitava a ribadire per il singolo il dovere di lavorare (estesoanche alle categorie ecclesiastiche che per molto tempo si sono mantenute esenti dallavoro manuale), o spiritualistica, che considerava il lavoro come mezzo di espiazione epurificazione ascetica (é l'atteggiamento tipico della spiritualità del lavorobenedettina). La concezione risultante era quella del lavoro inteso come un mezzo disostentamento e di perfezionamento della persona , che tra l'altro può consentire alcristiano di fare l'elemosina. Si é continuato a parlare in questi toni fino agli anni '50, quando nell'ambienteteologico francese si é vista l'urgente necessità di ricomporre nella vita del cristiano lacosiddetta frattura strutturale tra fede e vita: anche il lavoro deve essere concepitocome luogo in cui si esprime una personalità credente, un luogo di testimonianza e dimissione, un luogo in cui il cristiano può vivere concretamente l'amore scambievole. A questa teologia del lavoro, spesso acriticamente ottimistica, va affiancata ancheun'altra corrente letteraria che puntava il dito fortemente accusatore sulle ideologieche riducono l'uomo alla sola sfera materiale e su un'era tecnologica disumanizzante. Su questo sfondo teologico storico a più facce va collocata la riflessione sociale delmagistero.

1) Le indicazioni del magistero

a) La "Rerum Novarum" di Leone XIII (1891) si trova di fronte alla "questioneoperaia" ed identifica semplicemente il problema sociale con quello del proletariatourbano. Si trattava perciò di analizzare il conflitto tra capitale e forza lavoro, ladeterminazione del giusto salario, l'intervento dello stato in campo economico e lalegittimità delle associazioni di soli operai.

b) Dopo 40 anni ("Quadragesimo Anno", di Pio XI, nel 1931) il problema socialesi sposta nel quadro più ampio dei sistemi socio-economici: liberalismo e socialismo.

c) Ancora pochi anni ("Mater et Magistra" di Giovanni XXIII, nel 1963) e laquestione sociale si iscrive ormai in coordinate planetarie: i poveri non sono piùsoltanto i proletari o gli emarginati della classe operaia, ma vanno identificatisoprattutto nelle moltitudini del "terzo mondo" e nei "nuovi poveri" delle aree delbenessere. Da allora in poi si tratta di analizzare sempre più questa dimensionemondiale unitamente ai nuovi problemi attinenti al senso del lavoro e alla qualità dellavita.

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d) La "Gaudium et Spes" (1965) tenta una valorizzazione intrinseca del lavoro,attribuendo ad esso la capacità di umanizzare il mondo e di anticipare la venuta delRegno di Dio: nella misura in cui gli uomini, attraverso il lavoro, creano un mondo dipace e di giustizia, collaborano fattivamente all'avvento del Regno di Dio. Si é notatoda più parti che una tale riflessione deve essere integrata da altri elementi per evitareche

• si riduca ad una esaltazione unidimensionale dell'uomo (l'uomo lavoratore);• non tenga conto dell'alienazione e la carica disumanizzante del lavoro attuale;• si identifichi riduttivamente il progresso umano con il Regno di Cristo che

verrà, i mai completamente puri traguardi umani con la novità liberante diCristo.

Nonostante queste attenzioni, rimarranno punti saldi della dottrina sociale cristianasul lavoro il fatto che l'uomo

1. modifica il cosmo, adattandolo alle sue necessità;2. modifica nello stesso tempo se stesso, arricchendosi in umanità;3. fa tutto questo con la finalità ultima di servire con amore i suoi fratelli.

e) Si arriva quindi alla "Laborem exercens" (Giovanni Paolo II, nel 1981),l'enciclica più rappresentativa sul tema del lavoro e la più ricca nei contenuti teologicie nelle analisi socio-culturali. Essa é dominata dall'affermazione iniziale: "il lavoro éper l'uomo e non l'uomo per il lavoro" e da una conseguente idea base: il senso dellavoro va ricercato nella sua intrinseca capacità di essere al servizio di una vita piùumana sul pianeta terra. Attraverso il suo lavoro l'uomo può rendere qualitativamentepiù vivibile la sua presenza nel mondo. Da qui sorgeranno principi generali cosìsintetizzabili:

1. il primato dell'uomo sul lavoro;2. il primato del lavoro soggettivo (il lavoro in quanto espressione della

persona) sul lavoro oggettivo (l'opera risultante dal lavoro e gli strumentinecessari per compierla);

3. il primato del lavoro sul capitale; il lavoro soggettivo non può esseresubordinato alle regole del mercato, ai finanziamenti, o alla produzione,in quanto l'uomo ha una dignità personale;

4. il primato del lavoro sulla scienza e sulla tecnica;5. il primato dell'utilità comune sulla proprietà privata.

Si vede così chiaramente descritto il significato di quell'affermazione che dice che "ladottrina sociale della Chiesa si pone al servizio dell'uomo", é uno strumento di cui siserve la Chiesa per mettersi al servizio della tutela e della promozione della umanità edignità di ogni uomo. Il lavoro, così come é concepito oggi, deve essere profondamentetrasformato, perché sappia porsi di nuovo al servizio dell'uomo. La nuova svolta che deve essere operata é quella di un recupero del profilopersonalistico dell'attività lavorativa, profilo che si é completamente perduto in unalogica capitalistica ed in una mentalità economicistica che guarda solamenteall'accumulo del capitale. Un aiuto al recupero della dimensione umanizzante dellavoro può venire da una pratica pluristratificata della solidarietà.

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f) La "Sollicitudo rei socialis" (1987) presenta i rinnovati assetti economico-

sociali nei quali si situa il lavoro oggi: situazioni politiche, prevaricazioni ideologiche,poteri militari e strutture economiche non sono fattori neutrali, ma devono essere visticome causa "non ultima" del tragico e crescente sottosviluppo del terzo e quartomondo. I modi di gestire i rapporti economici e lo sfruttamento delle risorse che siriscontrano nel Nord ipersviluppato del pianeta, appaiono al papa gravementeimmorali, al punto da essere giudicati "strutture di peccato". È necessaria una riformaradicale capace di dare spazio ad un'economia umana, a servizio dell'uomo e di tuttigli uomini, nella nuova logica della solidarietà planetaria.

2) Riflessioni teologico-morali

Anzitutto é dovere di una riflessione teologico-morale sul lavoro oggi il non poter piùprescindere dall'analisi delle situazioni che impediscono al lavoro di essere veraattività umana, nella quale l'uomo realizza se stesso e attraverso la quale umanizza ilmondo. Quali sono i meccanismi moderni dello sfruttamento e dell'alienazione ?Quanto la nostra coscienza ne é imbevuta? Si tratta di esplicitare una presa dicoscienza collettiva della propria situazione.Inoltre non basta proclamare astrattamente il diritto al lavoro, come nell'eticatradizionale, ma si tratta di assumere responsabilmente e collettivamente il compito dicreare le condizioni generali che rendano possibile l'esercizio di tale diritto-dovere.Alle autorità pubbliche e ai datori di lavoro per primi, ma anche al vissuto operaio,spetta il gravoso e urgente compito di umanizzazione del lavoro, affinché il "primatodel lavoro soggettivo" non sia soffocato dalla produttività sfrenata, ma trovi una suaconcreta attuazione. Si tratta inoltre di avviarsi, attraverso scelte operative concrete, verso nuovi modelli disviluppo. Ecco alcuni esempi:

• si guardi alla produttività sociale: ciò che faccio che valore effettivo ha perl'intera comunità? a chi serve?

• non si inducano nuovi bisogni (consumismo), ma si guardi alle esigenze reali diogni persona;

• si guardi alla qualità della vita umana, in modo da armonizzare i vari livellidell'attività umana: produttività, utilità sociale, autogratificazione;

• si creino strutture di partecipazione, che distolgano il lavoratore dalladisaffezione verso il materiale prodotto e lo impegnino in uno sforzo diprogettazione;

• occorre urgentemente creare anche vere e proprie strutture lavorative disolidarietà, in cui l'attenzione agli ultimi sia vissuta concretamente;

• si crei un'attenzione politica sulle fabbriche di armi, nucleari o convenzionali, esul loro indiscriminato commercio internazionale, come pure sulle fabbrichechimiche fortemente inquinanti; a questo livello si situa anche la battagliaaperta a favore dell'obiezione di coscienza;

• l'orizzonte entro il quale si considera ogni forma di produzione ed ogni

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conseguente valutazione morale, deve essere ampliato a tutto il pianeta e allatutela della vita umana in tutte le sue manifestazioni.

3) Lavoro e vocazione cristiana

Abbiamo visto come il lavoro possa essere analizzato sia nella sua capacità intrinsecadi essere al servizio dell'autorealizzazione dell'uomo, sia nel suo vissuto esistenziale dinecessaria umiliazione alienante. Di fronte a tale ambivalenza, il cristiano si trova di fronte al dovere preciso divalorizzarne il carattere socializzante e di assumerne l'impegno di umanizzazione cheesso comporta. Alla luce della fede, il credente si sforza di superare le motivazionipuramente egoistiche che la società tende a privilegiare (minimo sforzo e massimorendimento). In fondo si tratta di vivere l'impegno lavorativo quale mezzo sociale disolidarietà e di avvicinamento ai fratelli. Questo non significa l'esclusione della ricercadi un appagamento, di espansione della propria espressività; l'importante é che taliaspetti non vengano assolutizzati e resi esclusivi. Anche le cosiddette occupazioni altepossono diventare luogo di vera autorealizzazione, ma solo se gestite con unapreoccupazione sociale capace di superare l'ottica ristretta degli interessi di categoriaper aprirsi ai problemi delle forme più penose di lavoro, attraverso un impegno chespinga ad una prassi politica e sociale liberatrice.In tale ottica, le varie possibilità di lavoro che si presentano diventano per il cristianoluogo di discernimento di un appello personale di Dio: si può parlare così della sceltaprofessionale come scelta vocazionale.Nella scelta di una determinata professione, l'uomo vede il modo migliore perrispondere alla chiamata di Dio verso il bene. Anzi, se c'é la possibilità di scegliere, ilcristiano opterà per una scelta di lavoro che renda possibile più pienamentel'attenzione amorosa verso i fratelli; opterà per un lavoro insieme ad altre persone enon con delle macchine. Il lavoro deve sempre di più tendere a diventare luogo dellagioiosa offerta di sé a Dio nel servizio ai fratelli.

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2. L’ATTIVITÀ ECONOMICA

1. Introduzione

Precedente ad ogni tentativo di trattazione sistematica sull’economia deve esserel’affermazione non retorica della complessità estrema di una tale realtà e laconseguente moltiplicazione delle teorie che ne interpretano il fatto: non esiste, né éumanamente possibile, una trattazione sufficiente a fornire una visione univocaadeguata di tale realtà.Dal nostro punto di vista, quello prettamente morale, si tratta sempre più di notare cheogni attività umana, e dunque anche quella di carattere economico, è fatta di liberescelte. Ma molte delle decisioni prese nel campo dell’economia, sono in grado dicondizionare la vita di moltissime persone. Cercheremo allora di evidenziare il fattodella grossa responsabilità morale che investe la persona che intraprende determinateoperazioni economiche. Esse possono condizionare pesantemente i modi di vivere dimolta gente, anzi, a volte possono mettere in discussione l’intera sopravvivenza dideterminati popoli o di buona parte della popolazione mondiale.Una posizione corretta della teologia morale non ci spinge a trovare ulteriori soluzionipratiche, ma a fornire un quadro etico di valutazione oggettiva della realtà economica -dei cui complessi dinamismi si é presa coscienza - e ad indicare i campi diresponsabilità personale e sociale in cui si é chiamati ad intervenire operativamente.

2. Che cos’è l’economia

Se vogliamo tentare una descrizione tecnica di ciò che è l’economia, dobbiamo direche economia è quell’insieme di rapporti e attività che regolano la produzione, ladistribuzione e lo scambio di beni o di servizi capaci di soddisfare dei bisogni umani.Cerchiamo ora di spiegare i termini fondamentali di questa descrizione.

a) Produzione. Per produzione si intende tutto l’insieme di operazioni che portanoad una qualche modificazione o trasformazione di “cose” già di per sé esistenti innatura (ad es. produrre zucchero da una barbabietola). Classicamente sono statievidenziati tre fattori della produzione:

a) il lavoro umano (uomo),b) un bene naturale (natura),c) determinati strumenti tecnici o altri prodotti naturali (capitale, o beni capitali).

Nel sistema di produzione si deve includere anche la trasformazione dei beni sia nellospazio, possibile attraverso oleodotti, navi o aeree, sia nel tempo, possibile attraversomagazzini, congelatori o depositi. Anche tutti questi elementi fanno parte dei benicapitali.I beni capitali, cioè gli strumenti della produzione o anche la quantità di denarodisponibile, si distinguono dai beni finali, cioè tutti quei beni che sono il risultatofinale della produzione. I beni finali possono poi essere beni destinati all’uso (radio, macchina ...) oppure

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anche quelli destinati al consumo (bistecca, panettone ...). Il capitale è tutto ciò cherimane, la ricchezza che io ho a disposizione per procurarmi non dei beni finali, madegli altri strumenti per un’ulteriore produzione, cioè per investire di nuovo.

b) Distribuzione e scambio. Si parla di distribuzione quando i beni che sono statiprodotti sono assegnati alle persone in base a determinate regole codificate. Questeregole possono essere sia delle consuetudini locali, sia delle più precise e vincolantileggi civili. Si parla invece di scambio quando questa distribuzione avviene all’internodi un mercato, cioè attraverso una libera contrattazione.

c) I beni e i servizi. Si definisce “bene” tutto ciò che può essere utile all’uomo inquanto soddisfa un suo determinato bisogno e che viene reso disponibile attraversouna qualche attività umana. Si deve notare che “bene” non è necessariamente soltantoun oggetto materiale ben definito, ma può esserlo anche qualsiasi forma di beneculturale, quale ad es. la scuola, l’arte o la scienza. In tal caso si parla di servizi: sonobeni necessari all’uomo, ma non di carattere materiale, pur necessitando di unsupporto materiale (macchinari, biblioteche, ospedali ...). Il trasporto di cose opersone, la difesa del cittadino da parte delle forze dell’ordine, la giustizia operata daimagistrati: sono tutti elementi necessari al bene delle persone.Si è pure soliti fare una distinzione dei vari tipi di beni: anzitutto ci sono i beniprimari, cioè l’insieme di tutte le materie prime e i beni prodotti dalla terra; poi cisono i beni secondari, cioè tutti i prodotti della lavorazione degli artigiani e dellefabbriche; i beni terziari comprendono invece l’intera gamma dei cosiddetti servizi.

3. L’economia come scienza

L’economia non è una semplice attività umana, ma si è evoluta in scienza. In quantotale, essa si pone una precisa finalità: scoprire quali sono i modi più adeguati per produrrequei beni e servizi che possono soddisfare al meglio i bisogni degli uomini. Dati certi bisogni dell’uomo e date certe quantità limitate di beni atti a soddisfare queibisogni, la scienza economica deve indicare come meglio siano da sfruttare quei beniper soddisfare quei bisogni. In un trattato maturo di economia si evidenzia la necessitàdi perseguire tre distinti obiettivi:

1) comprendere il fatto economico e le sue variazioni, nel passato e nel presente,2) prevedere come si evolverebbe la situazione presente in un arco di ipotesi

alternative di variazione dei fattori determinanti l’evoluzione;3) indicare quali interventi su quali fattori possano determinare una

modificazione piuttosto che un’altra nella realtà economica stessa.

Tuttavia, a partire dagli obiettivi che si propone, si possono distinguere due diverseconcezioni:

a) l’economia è espressione della libertà del singolo, solitamente volta al propriovantaggio. Secondo questa accezione, l’attività economica è regolata dall’incontro-

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scontro di interessi, convenienze, vantaggi e svantaggi fra chi compra e chi vende almercato. In quest’ottica, l’elemento regolatore dell’attività economica sarà il mercato.

b) l’economia è la realizzazione della sussistenza (= la miglior esistenza possibile)del gruppo a cui il singolo si sente legato e da cui trae la possibilità di vita associata.Qui il vantaggio dell’operatore è visto nel quadro globale delle necessità del gruppo edelle priorità da soddisfare al suo interno. Quando si parla di sussistenza non siintende la stessa cosa che sopravvivenza, ma la possibilità di tutti i membri del gruppodi vivere a un certo livello (= il più elevato possibile) di soddisfazione dei bisogniindividuali e di gruppo. In quest’altra ottica, l’elemento regolatore dell’attivitàeconomica sarà il bisogno, o meglio, la soddisfazione migliore dei bisogni all’internodel gruppo.

È importante capire che non si tratta di scegliere tra due modelli antagonisti. Perchésia salvaguardata la giustizia sociale è necessario che i due regolatori agiscano insiemee diventino tra di loro il più possibile compatibili. La formula potrebbe essere quelladell’economia di mercato regolata dai bisogni di tutti i membri del gruppo, oppurequella di un’economia di sussistenza che abbia la possibilità di esprimersi ancheattraverso un mercato.In ogni caso la scienza economica non è, né può essere, per ragione di cose, neutrale;essa è condizionata (consapevolmente o no) da altre scelte previe che non sono dicarattere economico, ma etico, cioè legate ad una determinata idea di convivenza e daun determinato progetto di vita in società.La morale classica si muoveva sempre all’interno del primo modello di economia,quello allora vigente e giudicato ineludibile. Oggi, la dottrina sociale della Chiesa simuove sempre più in direzione del secondo modello, cioè quello di una liberaconcorrenza vissuta nei limiti segnati da un potere politico che sia veramente tale, cioècapace di regolare il tutto in ordine ai bisogni del bene comune. Se anche il cristianonon orienta le sue scelte in base al secondo modello, rende di sua spontanea iniziativainattuabile il dovere di essere in questo mondo operatore di pace e si consegnaall’ingiustizia colpevole.

4. Evoluzione storica dell’economia

Abbiamo già detto che l’attività economica è una realtà in continuo divenire, per cui,per non cadere in inutili considerazioni astratte, si tratta sempre più di studiare levariazioni e le tendenze di sviluppo che oggi sono in atto.Per due motivi il punto di partenza di una riflessione sull’economia deve essere ilcontesto storico dell’Europa del XII-XIII sec. Anzitutto perché l’Europa risorge da unlungo periodo di sonno, ma poi anche per il fatto che San Tommaso ha formulato tuttala sua trattazione a partire da questo contesto. Devono guidare le nostre riflessioni treidee di fondo:

• cambia la dimensione geografica dei sistemi economici.• cambia il concetto di ricchezza.• cambia il rapporto tra il potere economico e il potere politico.

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1) La dimensione geografica dei sistemi economici. La vite economica, nel XII sec.,si svolge tutta in un raggio territorialmente molto limitato: una città, un contado, unfeudo, un’abbazia. L’intera gamma delle attività economiche (produzione,distribuzione, scambio, consumo) si svolge all’interno di un ambito geografico moltolimitato. Gli scambi con altri ambiti erano puramente occasionali e non incidevano inmodo significativo sull’economia. Era un sistema chiuso, organizzato attorno a un polocentrale, la città (in cui si stava meglio) e una periferia, la campagna (in cui si sta peggionella misura in cui cresce la distanza dal centro). È la classica economia-mondo: i suoilimiti sono quelli fisici delle mura o del feudo. San Tommaso conosce questo modello, modello in cui il potere politico, l’abate o ilfeudatario, controlla tutta l’attività economica: produzione, distribuzione e scambi. Èlui che provvede al fabbisogno dei poveri e dei più deboli. Lo scambio si attua anchetramite il baratto e il denaro ha un’importanza relativa.Nel XIII sec. ha inizio un processo di apertura di questo sistema e le piccoleeconomie-mondo iniziano ad incontrarsi. Nasce così un nuovo sistema economicocaratterizzato non più dall’indipendenza, ma dall’interdipendenza a vasto raggio. Gliscambi non sono più legati al tempo della raccolta e neppure allo spazio classico delmercato o delle fiere. Nascono dei nuovi poli economici che si succederanno neltempo: Venezia, Genova, Lisbona, Anversa, Amsterdam, Londra e New York.Sorgeranno in questi luoghi anche nuove ricchezze, non solo in termini di beniprodotti, ma anche in magazzini per contenerli e navi per trasportarli. Per tutto questoè necessario l’accumulo di ingenti quantità di capitale. Il sistema economico locale di una città rimane, però è fortemente condizionato daimovimenti che avvengono nei nuovi poli economici. Sono questi che regolano i prezzinei mercati cittadini in base alla disponibilità che hanno di questo o di quel prodotto.Il movimento evolutivo è quello che va verso una riduzione costante delle centrali dipotere economico senza luoghi definiti, da cui dipende l’andamento delle economiedelle varie arre del pianeta.Il problema morale nuovo che sorge è questo: ogni scelta economica di qualsiasi tipo,piccola o grande che sia, può ripercuotersi su tutta la famiglia umana (vedi il famosocaso dei bond argentini). Così certe scelte produttive di un industriale italiano possonoavere delle conseguenze che alla fine possono significare sopravvivenza o morte perfame di moltitudini di persone, in quanto possono risolversi in crisi d’occupazione, inspese militari in paesi poverissimi, in riduzione di terre coltivabili per la sussistenza, indisastri ecologici, ecc.Oggi viviamo in un unico sistema a raggio planetario in cui la scelta economica di unostato o quella di un privato cittadino condiziona ed è a sua volta condizionata dallasituazione economica mondiale.L’idea di una libertà del singolo rispetto alle sue ricchezze, di fronte alla questionedella moralità di una scelta di carattere economico poteva essere accettabile inun’economia-mondo chiusa, in cui il potere politico era in grado di assicurare lasopravvivenza del gruppo. Oggi però non è più così. La libertà di disporre dellapropria ricchezza è incompatibile con la sopravvivenza certa della famiglia umana e lo

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sarà sempre più in futuro, se continuano così le cose. Da tutto questo si può tranquillamente dedurre che la dimensione morale tocca ilproblema economico nel profondo: ogni scelta economica riveste un carattere morale,per il fatto che si svolge all’interno di un sistema unico in cui convivono ricchi epoveri, ma in cui non c’è un potere politico in grado di assicurare la sussistenza e forsela sopravvivenza stessa dei singoli membri dei gruppi che fanno parte, volenti o no, delsistema.

2) Un nuovo concetto di ricchezza. Fino al sec. XII la ricchezza si identificava con ilpossesso di cose: campi, case, bestiame. Lo sviluppo dell’economia a raggio planetarioha portato a dare maggior importanza ad una nuova forma di ricchezza, più mobile edunque più adatta al nuovo schema economico: il denaro, sia nella sua formamonetaria, sia ancor di più nella sua forma di assegni. Così un semplice documentofirmato potrà raggiungere un determinato valore soltanto in relazione all’affidabilitàdella persona che l’ha firmato e dell’istituto depositario del denaro. Il denaro divienericchezza perché può essere trasformato in qualsiasi tipo di bene. Essendo a sua voltaun bene anche il denaro inizierà a formarsi un mercato proprio: commerciare indenaro arricchisce tanto quanto commerciare in qualsiasi altro bene. Così poco alla volta la ricchezza è concepita sempre più in maniera astratta. Oggi laricchezza di una persona è misurata in denaro e tutte le cose valgono qualcosa inquanto sono vendibili. Così con la rivoluzione industriale lo stesso lavoro umano verràmercificato e considerato non come un’attività realizzante la persona, ma soltanto nellasua capacità di procurare all’uomo denaro. Le conseguenze sono importanti. Pensiamoad esempio al famoso prestito a interesse: questo ha cambiato molte delle abitudinieconomiche delle persone.Vendendo ad una persona una certa disponibilità di denaro per un certo periodo ditempo e chiedendo come contropartita un certo interesse, si scopre che la ricchezza èin grado da sola di produrre altra ricchezza, si riproduce da sola, senza bisogno diulteriori lavorazioni; basta chiedere un interesse. Poi si tratta di accorgersi che ilprestito non è fatto a chi versa nel bisogno urgente e che farà più fatica a restituire ildenaro, ma soprattutto a chi si pensa che possa effettivamente trarre un vantaggiodiscreto. Quanto più è ricca una persona, tanto più è affidabile, allora tanto piùl’interesse sarà ridotto, per facilitare un guadagno sicuro e per investire in un secondotempo. Così cercare denaro è un’operazione che costa di meno al ricco che al povero.E questa è la logica che governa l’intero sistema bancario e che tutti accettiamopacificamente: favorire i ricchi a spese dei più poveri.Poi c’è la cosiddetta attività finanziaria: non si tratta più di produrre ricchezze tramiteun lavoro specifico, ma semplicemente manovrando ricchezza astratta, raccogliendola otrasferendola da un centro di controllo a un altro, oppure facendo fallire un’azienda avantaggio di un’altra.Fino a pochi decenni fa si poteva distinguere un capitale industriale (le industrie), uncapitale commerciale (le navi che smerciavano i prodotti) e un capitale finanziario (lebanche che disponevano del capitale per investire in questa o quella azienda). Untempo queste tre forme di ricchezza facevano capo a soggetti distinti. Oggi non è più

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così. Tutto è concentrato nelle mani di grandi banche o di imprese finanziarie, cioènelle mani di un unico gestore di tutte le attività di produzione e distribuzioneattraverso l’acquisto della maggioranza delle azioni. La ricchezza è governata da unnumero sempre più piccolo di centrali di potere che risultano superiori e al di fuori diqualsiasi forma di controllo politico e sociale, agendo esclusivamente in base allamassimizzazione del loro profitto.C’è anche un’altra riflessione da fare: la ricchezza è qualcosa di altamenteconvenzionale, totalmente astratto: il valore delle diverse monete non è ancorato anulla. Fino alla seconda guerra mondiale esisteva un metro teorico, relativamenteindipendente: la parità aurea. In seguito il valore delle valute fu ancorato al valore deldollaro, impegnato a mantenersi fisso e legato ancora in qualche modo all’oro. Dal1970 gli USA hanno rinunciato a questo impegno, per cui non esiste più nessun puntofisso a cui agganciare il valore delle varie valute. Di tutte queste attività, l’unica cosa sicura che si può dire è questa: che la ricchezzaserve a produrre altra ricchezza e quest’altra ricchezza serve a produrre altra ricchezzae così via. Produzione di beni o servizi, mezzi, scambi o distribuzione sono soltantodegli strumenti necessari a perseguire questo unico fine, per cui si adottano solo nellamisura in cui conducono allo scopo. L’accumulazione e la concentrazione del controlloè inevitabile in questo sistema e chiunque intenda inserirsi in questo processo, sa giàin partenza che, anche contro la sua volontà, contribuirà all’arricchimento dei piùricchi e all’impoverimento dei più poveri.

3) La prevalenza del potere economico su quello politico. Compito della societàcivile è quello di coordinare ed orientare tutte le iniziative dei singoli e dei gruppisecondo alcune finalità fondamentali. Questa idea presuppone che il potere politicoabbia potere e strumenti adeguati per controllare e coordinare l’esercizio delle varieattività economiche. Il problema è che l’indipendenza del potere politico su quelloeconomico è un’astrazione o un’illusione che non trova corrispondenza nella realtà. Ilpotere politico non è mai una variabile indipendente dal potere economico.Questa presunzione di indipendenza ha caratterizzato l’intero pensiero socialecristiano fino ad oggi, ad eccezione di alcune affermazioni di grande peso teorico, madi ben scarso valore pratico: la denuncia dell’imperialismo internazionale del denarodi Pio XI all’epoca della grande depressione, alcuni passaggi dell’Octogesima Adveniense la dottrina del “datore di lavoro indiretto” della Sollicitudo Rei Socialis di GiovanniPaolo II. La denuncia delle strutture di peccato si spera che abbia ancora una suaforza, ma alla base sta la convinzione che il potere politico deve regolare il potereeconomico. Cosa che nella realtà non trova ancora riscontro.Si sa che decine di multinazionali hanno bilanci superiori a quella di numerosi stati.Cosa c’è di più facile per un imprenditore che comprare un governo intero, aziendasull’orlo del fallimento? Oltre che l’acquisto del potere è possibile il ricatto: che cosasuccederebbe se in Italia la Fiat decidesse di chiudere gli stabilimenti italiani perinvestire in un altra stato con meno problemi? In Italia in effetti c’è solo unaminoranza degli stabilimenti Fiat.Anche nei regimi democratici la situazione può essere molto semplice. Basta pensare

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che per la campagna elettorale di un presidente USA si possono spendere milioni dieuro, si può solo concludere che questo denaro proviene da chi ne ha e trova interessead usarlo a questo scopo. Il denaro non è offerto mai gratis; sempre si offre per unacontropartita.È ben conosciuto anche il sistema delle lobbies: “lobby” è la sala o l’atrio in cui iparlamentari incontrano altre persone prima di andare a votare. Ogni grande impresaeconomica ha delle persone che sono stipendiate soltanto per fare le dovute pressionipiù o meno lecite su certe persone o gruppi al potere. Se si pensa che i poliziottitailandesi guadagnano 80 dollari al mese, si può far presto a capire perché molti di loropreferiscano il guadagno facile del commercio miliardario della droga.Quando un sistema economico è regolato primariamente dal mercato, e perciò dallaconflittualità degli interessi intesa come logica di convivenza, il conflitto puònaturalmente aversi anche sul campo del controllo del potere politico.D’altra parte anche se volesse, un potere politico, con le strutture economiche attuali,non potrebbe controllare nulla: il potere economico infatti è trans-nazionale, mentre ilpotere politico si muove soltanto nell’ambito della propria nazione. Oggi è ben noto ilfenomeno del capitalismo di stato: l’esistenza di determinati stati che sono puramentestrumento per la concentrazione di ingenti capitali finanziari.

5. Il problema morale

A) A partire dalla situazione. Studiare i modi migliori per produrre di più, e cosìsoddisfare finalmente i bisogni delle persone, non pone di per sé alcun problemamorale, anzi, appare certamente auspicabile. Il problema morale si pone a partire daun’osservazione di fatto: le risorse disponibili sono limitate. Perché servano allora alfabbisogno di tutti, é necessario che non cadano nelle mani di pochi, tantomeno chesiano sfruttate in modo indiscriminato da una sola generazione. Allora si pone come problema morale ad esempio il semplice fatto che la maggiorparte delle ricchezze del suolo sono concentrate nel Sud del pianeta terra, mentre il 90% di tutte le industrie manifatturiere del mondo si trovano al Nord; é un problemamorale il fatto che le ricchezze del suolo del Sud sono sfruttate dove, se e nella misurain cui ciò conviene al Nord. È un problema morale il fatto che solo il Nord abbia lacapacità di trasformare tali ricchezze, che solo il Nord possa essere compratore e cheper questo motivo si arroghi come legittimo il potere di imporre il prezzo che vuole adogni tipo di merce. Questo é un esempio di ciò che si usa chiamare "libero mercato".Uno dei fattori determinanti lo sviluppo economico é sicuramente l’incrementocostante della produzione. Se é ben facile capire che questo incremento porteràcertamente ad un maggiore profitto, non é allo stesso modo facile determinare glieffetti reali di tale fenomeno sul comportamento degli individui e sul costume sociale.Certamente una delle idee di base di tale incremento si evidenzia quando si vuolesottolineare, esplicitamente o implicitamente non importa, che ad una maggiorproduzione corrisponda un determinato progresso culturale: chi dispone di una

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quantità superiore di beni ha già raggiunto un alto grado di civilizzazione. Si nota aquesto livello quanto la nostra cultura occidentale sia succube di una mentalitàtecnicistica totalizzante che intende progressivamente identificare il valore di unapersona con la disponibilità di beni che può avere: chi più ha, più é; chi non ha, non éo non conta.

A) A partire dall’uomo

1) Dai suoi bisogni. Solitamente quando si parla di produzione si associa adessa il concetto di bene e di bisogno: io produco un bene che mi consenta disoddisfare un bisogno. Una tale destinazione aleatoria deve essere riconosciuta comepura e semplice maschera umanitaria: ben pochi si accorgono che determinati bisognisono creati dal nulla e indotti nelle masse. È questa l’incredibile novità, scoperta eattuata progressivamente su scala mondiale dai grandi produttori: tutto é incentrato suquei "beni" la cui produzione é economicamente conveniente. A questo proposito: sisa che ogni libera scelta del singolo costituisce una reazione ad un complesso diinformazioni: sarà allora possibile trasmettere una serie infinita di messaggi aventi ilsolo scopo di suscitare quella e solo quella determinata reazione, statisticamentesoddisfacente. Tutto é organizzato per produrre di più e quindi consumare di più. Untale passaggio corrisponde certamente alla logica interna del processo di produzione,ma non corrisponde alla natura dell’uomo: quando una persona non avverte undeterminato bisogno non tenta in alcun modo di crearlo. L’uomo tende certamente adilatare sempre più la sua capacità di espressione, ma non certamente i suoi bisogni.

2) Dal suo benessere. Certamente non si possono negare gli effetti positividell’incremento della produzione: nei nostri paesi si é liberi dall’incubo della fame edalle varie forme di povertà di massa, sono diminuite le malattie e il tasso di mortalitàinfantile, mentre le speranze di vita si sono fatte più lunghe. Ma qual é stato il prezzopagato ? Una disoccupazione crescente, le immense folle di affamati e la perdita diumanità. I ricchi sono sempre più ricchi e sempre meno numerosi (si sa che una persona nelprimo mondo guadagna 150 volte di più di un’altra che lavora nel terzo mondo),mentre i poveri sono sempre più poveri e sempre più numerosi (oggi un miliardo dipersone soffre la fame, ma entro 10 anni saranno un miliardo e mezzo).Teoricamente parlando l’economia ha come fine il benessere della persona, visto chemira alla soddisfazione dei suoi bisogni, ma la domanda morale si può porre a varilivelli:• quale persona godrà di tale benessere? solo quella che abita in una determinata

nazione?• n cosa consiste il benessere della persona? si identifica con l’avere il più possibile

di cose? Si vede benissimo come ad una determinata concezione economicasottostà una determinata visione dell’uomo, del senso del suo operare e unadeterminata idea di vita umana pienamente realizzata. Morale ed economia si con-fondono.

• ci si domanda inoltre: é legittimo l’uso di qualsiasi mezzo per soddisfare le

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esigenze del mercato? é sufficiente una correttezza giuridica per risolvere iproblemi sociali, o é necessario imporre all’economia e alle leggi di mercato unascala di valori prettamente morali?

• é lecito rendere lo stile di vita dell’uomo funzionale alla produzione?• in relazione alle aree di miseria, é lecito chiedersi quali beni sono da privilegiare

nella produzione? Oppure si può arbitrariamente scegliere tra il produrre profumio farina?

6. Le strutture economiche

In seguito a tali osservazioni, il fenomeno che può insorgere (e non é detto che nonstia facendo i suoi "primi" passi) potrebbe essere quello di una vera e propriaoppressione e dominazione culturale: l’intero genere umano é programmabile inbuona parte dei suoi bisogni futuri. Il sistema economico mondiale sta sempre piùsubordinando l’uomo, il modo di pensare, di agire, di valutare, attraverso cui ogniessere umano si rappresenta se stesso e il senso della propria esistenza, come purel’idea stessa di una sua vita buona e felice. È questo un problema estremamenterilevante per la morale, al quale, a tutt’oggi, si é prestata ancora poca attenzione,purtroppo. Ma che dire allora di fronte alla scoperta che ad esempio un tale gruppo dicontrollo della vita economica può essere oggi verosimilmente valutato attorno alle 30-40 persone ? Si tratta di riconoscere l’esistenza di fatto di un clima di eteronomiainconsapevole, in cui le decisioni sul modo di vivere, sulle abitudini, sulle valutazionipersonali sono già state fatte dal sistema economico e non dall’uomo singolo. Cosìl’economia diventa sempre di più fonte del fatto etico. Al rapido cambiamento,risultato del progresso economico, non ha fatto fronte una riflessione etica sulcambiamento; anzi, il fatto del cambiamento ha sovvertito le regole morali rendendoleinapplicabili all’interno della nuova configurazione sociale. Siamo di fronte ad unasituazione di incredibile smarrimento. Giovanni Paolo II precede buona parte della teologia morale proponendo un’acuta eprofonda analisi di tale situazione nella sua enciclica Laborem exercens. A titoloesemplificativo, possiamo richiamare l’attenzione su un concetto nuovo, che egli stessoha introdotto e offerto all’analisi di tutti i moralisti: "il datore di lavoro indiretto". Sitratta, dice il papa, di prendere coscienza dell’esistenza di tutta una oscuramacchinazione di istanze nascoste, persone o istituzioni, che si muovono liberamente alivello nazionale e internazionale, che sono responsabili di tutto l’orientamento dellapolitica economica. Questo significa che i responsabili ultimi della politica economicadi uno stato e della comunità internazionale non sono dunque né esclusivamente néprimariamente i singoli governi. Tali analisi fanno pensare ad un burattinaio che,pensando di essere lui l’artefice delle storie che propone, si accorge alla fine di esserea sua volta manovrato da ben più potenti fili nascosti. Si capiscono così i ripetutiappelli del papa alle organizzazioni internazionali. Tali pressanti inviti, così spessocaduti nel vuoto, rivelano la comprensione di una realtà, un meccanismo che opprimel’uomo, un qualcosa che resta difficilmente identificabile e di fronte al quale il papastesso si sente quasi impotente. Un tale datore di lavoro indiretto non può identificarsi

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nient’altro che nello stesso potere economico, che si stabilizza in poche centralioperative che hanno la potenza di asservire le grandi strutture economiche epurtroppo anche gran parte di quelle politiche. Solo a titolo di esempio si possonoricordare le attività delle lobbies che spesso abbiamo visto pubblicizzate come sponsordelle più organizzate campagne politiche. A questo punto é anche difficilmentepensabile l’esistenza ben strutturata di una qualsiasi forma di programmazione in vistadel "bene comune", fine e giustificazione di ogni potere politico; pensandoci bene, senon fossero inconsapevoli, apparirebbero anche grotteschi i popolari rimandi aititolari del "governo" per la salvaguardia di una più concreta forma di giustiziadistributiva. Il dovere spetta sempre di più all’assunzione personale delle proprieresponsabilità per il bene comune contro ogni tentativo di sopraffazione egoistica;anzi, di fronte ad una situazione del genere, sembra diventare moralmente rilevante lascelta personalissima del perseguimento praticamente esclusivo del bene comune.

7. L’equilibrio del sistema

Solitamente una delle armi di cui il potere economico si serve per mantenere leproprie posizioni é l’assicurazione di un lavoro a servizio dell’equilibrio di un sistemache i movimenti economici del passato hanno creato; così se scomparisseroimprovvisamente dalla scena economica determinate agenzie l’intero sistema mondialene verrebbe a sua volta penalizzato. Certamente il problema dell’equilibrio tra costi diproduzione e prezzi dei prodotti al mercato é uno dei principali temi di discussione diogni assemblea di economisti, ma i vari fattori non sono poi così facilmente calcolabilinella loro costante oscillazione, anche perché dipendono in misura sempre maggioredalla variazioni psicologiche, indotte, matematicamente incalcolabili. Lo stesso si dica del valore di un prodotto: c’era chi voleva determinarlo a partire dallavoro umano: se é necessario lavorare molto per produrre quel bene significa che valemolto (Marx); più tardi si guardò invece all’utilità che il bene prodotto aveva. Infine sideve introdurre il discorso sul valore di un determinato bene.C’è da notare che non tutti i beni necessitano di una determinata attività umana, masono già di per sé disponibili. Ad es. l’aria non necessita di particolari interventi umaniper essere disponibile all’uso e dunque non è un bene economico. Lo diventa però infondo al mare, non essendo lì disponibile. C’è chi vuol definire un bene economico apartire dalla sua necessità e scarsità. Un bene utile e scarso vale molto, anche se perrenderlo disponibile è necessario un lavoro umano minimo. Così può capitare che unaltro bene molto costoso dal punto di vista della produzione possa essere già di per sémolto disponibile sul mercato e dunque valere di meno. Ma non sempre è così.Oggi si assiste ad un crescente distaccamento del valore di una cosa da un qualsiasiriferimento oggettivo, che non sia ovviamente l’equilibrio delle posizioni dei grandicolossi all’interno del mercato. Così é ormai opinione prevalente, e già funzionante daanni, l’idea che il migliore equilibrio si ottenga lasciando libero corso agli automatismidel mercato, sia su scala nazionale sia su scala mondiale, e che ogni intervento delle

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autorità politiche su entrambe le scale sia solo turbante il meccanismo economico nelsuo complesso, e che di conseguenza peggiori sempre più la capacità globale diproduzione di beni del sistema, risolvendosi così a danno dei più poveri. È l’apologiadiffusa oggi di ogni sistema di deregolazione, vigente nelle economie occidentali, unitoal silenzioso decadere di ogni legislazione anti-trust. In fondo non si tratta altro chedichiarare la rinuncia ad ogni idea di determinazione di un giusto prezzo, tema caroalla morale classica, che non sia determinata dagli interessi soggettivi di singolioperatori allo scopo di moltiplicare le loro ricchezze.

8. Cenni sul rapporto etica e finanza

Nel corso del 2004, l’Ufficio nazionale della CEI per i problemi sociali e il lavoro, ha pubblicato un contributo alla riflessione sul tema Etica e Finanza, che con il senno di poi e alla luce dei cosiddetti ‘furbetti del quartierino’, si è rivelato profetico.Questo corposo documento oltre a presentare una lettura della situazione economico-finanziaria italiana nelle sue linee generali di quel periodo, offre alcuni spunti interessanti: prima fra tutti la valutazione morale dell’atteggiamento e del comportamento in ambito finanziario.Inizialmente viene proposta una distinzione tra:

• moralmente buono e tecnicamente efficace• moralmente buono e giuridicamente lecito (ovviamente da evitare la loro

identificazione)• moralmente buono e consensualmente stabilito (la valenza morale non si basa

sul consenso!)• moralmente buono e storicamente possibile (ma nuove sono le situazioni che

si creano rispetto alla storia).Riaffermando la centralità del principio etico del bene comune, il documentosottolinea anche i vizi e le virtù che emergono in ambito finanziario:

• Avarizia: la volontà illimitata a un possesso illimitato eccedente il necessario e avolte il conveniente

• Avidità: la volontà di non condividere con altri i beni posseduti che vengonosubordinati a un accumulo fine a se stesso.

• Idolatria del denaro• Giustizia che si basa sulla relazione e sul riconoscimento dell’altro che sta

davanti a me• Temperanza, che modera i desideri e li riconverte a servizio del bene comune,

abilitando un uso etico dei beni creati• Generosità o condivisione

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3. LA PROPRIETÀ PRIVATA3. LA PROPRIETÀ PRIVATA

1. Il concetto attuale

Se volessimo noi oggi dare una definizione di "proprietà privata", dovremmointenderla come quel particolare rapporto che si instaura tra una persona e una cosa,che consente alla persona di disporre liberamente della cosa che gli appartiene. Untale rapporto, una volta instauratosi, deve essere considerato perenne e inviolabile. Dauna tale definizione, si evidenziano pertanto due elementi: la disponibilità el'esclusività (la garanzia contro interferenze altrui). La cultura occidentale ha concepito un tale concetto come assolutamentefondamentale, per il fatto che si tratta di un elemento derivante dalla stessa naturaumana. Se è la stessa natura umana che richiede, per la vita felice dell’uomo, una sortadi proprietà privata, si deve dedurre una conseguenza che investe l’ordine morale: seaccettiamo il principio secondo cui è immorale tutto ciò che va contro l’ordine dellanatura, e se la natura richiede che l’uomo mantenga per sé una sorta di proprietà,allora si deduce la necessità morale dell'inviolabilità di una tale privata proprietà. La riflessione più recente ha posto in discussione questa origine naturale dellaproprietà privata, mentre ne ha sottolineato la sua funzione sociale. La proprietàprivata nasce quando si intende organizzare in modo ordinato la vita sociale, per cui idue elementi che ne specificano il concetto, la disponibilità e l'esclusività, non devono considerarsi in modo assoluto, ma nei limitiche il vivere insieme comporta necessariamente. La conclusione che si impone é quella di verificare i presupposti filosofico-antropologici che fondano la nostra comprensione morale ed introdurre poi nelconcetto stesso di proprietà privata, sulla base di più approfondite riflessioni, anche lasua funzione sociale e misurare con questo nuovo concetto la problematica moraleconseguente.

2. Il dato della Scrittura

Un'analisi del dato scritturistico rivela quanto sia erronea la trattazione classica deltema uomo-ricchezze impostata sullo schema riduttivo di un unico precetto: "nonrubare". D'altra parte la variabilità della contestualizzazione storica dell’AT (seminomadismo,periodo regale, predicazione profetica, esilio...) rende problematica, anche se nonimpossibile, una trattazione globale esaustiva dell’evoluzione del comandamentoparticolare e del suo significato. Va comunque in ogni caso ricordato il forte discorsodell'anno giubilare e il suo significato intrinseco: le ricchezze di cui uno dispone nonvanno considerate proprietà esclusiva (“che cos’hai tu, uomo, che non ti sia statodato?”). Tutto ciò che abbiamo viene da Dio Creatore come un dono della sua bontà:per dimostrare questa essenziale proprietà divina di tutte le cose, ogni cinquant’annil’uomo rimette le cose al loro posto. Sapendo dall’esperienza storica quanto è facileche l’uomo asservisca il fratello per questioni di proprietà, è necessario provvedere e

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liberarsi dalle schiavitù delle cose e riaffermare la sovranità di Dio in modo assoluto.Oltre a queste idee era molto forte l’attenzione sociale-religiosa a quelle categorie non-protette: gli orfani, le vedove e i forestieri; per la loro tutela si è sviluppato un chiaroordinamento giuridico. Nel NT invece siamo di fronte ad un preciso evento: l'attualizzazione storica del Regnodi Dio nella persona di Gesù Cristo: l'atteggiamento dell'uomo nei confronti dellericchezze richiede una nuova orientazione. I sinottici, assieme a Giacomo, descrivonocon una connotazione etica negativa la ricchezza. Ed é da notare che qui "ricchezza"non indica necessariamente una grande quantità di possessi, ma semplicemente cosepossedute o desiderate. La ricchezza soffoca la Parola seminata (Mt 13,22), distogliedalla fiducia in Dio e dal suo amore provvidente (Lc 12, 13-34), rende particolarmentedifficile l'accesso al Regno (Mt 19,23-30), rende spesso insensibili alle sofferenze delpovero (Lc 16,19-31) ed impedisce anche la vera purezza del culto (Lc 11,38-42). Unduro riassunto si può trovare facilmente nell'antagonismo radicale che Cristo proponenel discorso delle beatitudini: o Dio o mammona (Mt 6,24). Si deve notare chel'alternativa evangelica non é fra una ricchezza sempre cattiva e la povertà semprebuona: l’alternativa è molto più radicale: é semplicemente tra la ricchezza e Cristo. Laricchezza, sia posseduta che desiderata, rappresenta un padrone alternativo a Dio. Sideve notare anche che per il credente la vera ricchezza non é il denaro, ma érappresentata da una vita felice, da un procurarsi tesori nel cielo, cioè dal fare cosebuone. In tale ottica, si può dire che il senso e il valore della ricchezza consiste nell'esserestrumento per vivere meglio nella logica del Regno di Dio, che é la logica del dono disé; così ne deriva che la ricchezza non ha altro uso che l'essere data, o adoperata, per ilbene del prossimo. I due grandi peccati circa la proprietà che il NT evidenzia sono l'avidità, cioè quelmeccanismo perverso che spinge la persona a cercare di arricchirsi sempre più, el'avarizia, cioè quell’atteggiamento che si accontenta di dare niente più che ilsuperfluo, atteggiamento praticamente inutile dal punto di vista della moralitàpersonale. Per san Paolo questi due peccati si pongono allo stesso livello di altri viziquali l'idolatria, l'adulterio e la lussuria sfrenata. Anche Giovanni condanna lasuperbia della vita e l'arroganza che scaturisce dall'assunzione del potere tramite ilpossesso delle ricchezze.La conclusione inevitabile che si impone da tale semplice analisi é che il precetto eticodi "non rubare" non é che un caso particolare molto secondario del capitolo sulrapporto uomo-ricchezze. Si tratta invece sempre più di mettere in discussione ilproprio rapporto non tanto con le ricchezze altrui (che non devono essere rubate), macon quelle proprie: è a questo livello che è necessaria una vera e propria conversione euna decisione. Per una persona credente, si tratta sempre più di arricchire davanti aDio e questo, tenendo presente quell’aspetto della vita personale legato alle ricchezzemateriali, é possibile prima di tutto attraverso l'assunzione di due insegnamentiprofondamente in sintonia con l'annuncio di Gesù:

• non cercare di arricchirti sempre più (contro il peccato di avidità) e • considera in modo diverso il tuo rapporto agli altri (contro il peccato di

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avarizia).

3. La funzione della proprietà nei Padri e in san Tommaso

I Padri si sono occupati spessissimo del rapporto uomo-ricchezze, ma non in formasistematica. Ne possono nascere tuttavia alcune indicazioni:

• nel piano voluto da Dio, i beni creati devono essere disponibili per tutti gliuomini della terra;

• una situazione in cui convivono ricchi e poveri é una situazione di ingiustizia: ilricco che trattiene per sé le sue ricchezze, o che ne desidera ancora, dal puntodi vista morale Ë ingiusto: é un vero e proprio ladro che detiene ciò che nelpiano di Dio non é destinato a lui;

• È dall’immoralità dei due atteggiamenti fondamentali dell'avidità e dell'avariziache, in un secondo momento, si deve dedurre l’immoralità del furto: se épeccato trattenere per sé il proprio, allora sarà anche peccato il togliere ad altri(furto).

Tali indicazioni dei Padri rispecchiano fedeltà alla logica del Vangelo e ne accentuanola preoccupazione sociale. San Tommaso non conosce il concetto moderno di proprietà, ma parla di "possesso",termine che indica un semplice dato di fatto, non un titolo giuridico di esclusività,anche se esisteva chiaramente una garanzia sociale di tale possesso privato. Il dominioassoluto sulle cose, in san Tommaso come nei Padri e nella Scrittura, spetta soltanto aDio; nessun uomo può arrogare per sé un tale diritto e farlo valere in maniera assoluta.Solo Dio é il "padrone" di ogni cosa sulla terra. Ma Dio, nella sua Provvidenza, dàall'uomo l'uso dei beni materiali, perché se ne possa servire razionalmente. Taleaffermazione non ha niente a che vedere con il concetto moderno di proprietà privata.Ad un certo punto della sua trattazione san Tommaso si chiede se sia lecito perl'uomo possedere qualcosa come propria? Tommaso risponde che ciò non solo é lecito,ma anche necessario. Ne spiega anche i motivi:

• perché i beni della terra siano fatti fruttificare al meglio;• perché si eviti la confusione sociale che nascerebbe da una mancata

distribuzione del possesso;• perché, contentandosi ciascuno delle proprie cose, si mantenga la pace sociale.

Le tre giustificazioni che san Tommaso riporta ci fanno dedurre che per lui lalegittimazione di ogni possesso privato é data dalle sue finalità sociali: un miglior uso,una miglior distribuzione e soprattutto per mantenere la pace sociale. Questo possesso allora non deriva dal diritto naturale, ma da una convenzione umanache sa rispettare il progetto del vero padrone. "E perciò l'uomo non deve considerare lecose come proprie, ma come comuni; deve essere disposto a parteciparle in base alle necessitàaltrui". Così Tommaso deduce che é peccato l'acquisizione di un qualche bene conl'intento di escludere gli altri dal godimento di quello stesso bene. Un esempio: se ioacquisto una cosa a un certo prezzo non posso rivenderla a un prezzo superiore, senon di quanto é necessario al suo sostentamento, come compenso del proprio lavoro.In caso contrario il lavoro soddisferebbe la cupidigia del guadagno, cosa moralmente

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inaccettabile.

4. La riflessione morale manualistica

A partire dal XVII sec. i manuali di teologia morale vengono ordinati in base ai 10comandamenti, per cui discutono la materia economica all'interno del discorso sulsettimo comandamento: "non rubare", oppure, se il manuale Ë ordinato in base allevirt˘, se ne discute all'interno della virtù della giustizia, concepita semplicemente comeil "dare a ognuno il suo”; è fin troppo facile dedurre un comandamento: “non toglierea nessuno ciò che è il suo". La proprietà, come la vita e la libertà, é riconosciuta comeuna delle cose inviolabili date all'uomo dalla natura in modo antecedente al suoingresso in società (J. Locke). La morale, fortemente incentrata sull'analisi dei vari casi(casistica), non deve far altro che analizzare tutti i modi in cui una persona potrebbeviolare l'altrui proprietà e lanciare poi il solito comandamento. Vediamo quali sono leconseguenze di questo atteggiamento:

• sparisce dalla riflessione morale qualsiasi dovere rispetto alle proprie ricchezze, • non si dice niente sulla peccaminosità del cercare di arricchirsi, • non si dice niente sulla finalizzazione sociale della cosiddetta proprietà privata.

Per tre-quattrocento anni si dimentica buona parte dell'annuncio neotestamentario epatristico sulle ricchezze. Una persona che possiede molte ricchezze non ha più alcundovere verso di esse, ma soltanto dei diritti, inviolabili per natura. E non c'é nulla diimmorale nel cercare di acquisirne ulteriormente, se ciò avviene nel rispetto delle leggistabilite, anzi, chi più ne ha potrà fare un po’ più di elemosina, alleviando con questosuo gesto di bontà, le pene di un disgraziato che la vita ha ridotto così. Su questo sfondo morale si sviluppa la cultura occidentale attuale e con essa lamentalità comune, anche del cristiano, della considerazione privatistica dei beni. Persan Tommaso la proprietà si poneva esclusivamente al servizio del progetto di Dio chevoleva la salvaguardia della felicità di tutti (la finalità sociale); la manualistica invecerende tale finalità accessoria: l’amministrazione delle ricchezze in rapporto agli altrinon rientra nell'ambito della giustizia, ma in quello assolutamente libero della carità(supererogatorio, in una morale minimalista) e subordinata ai diritti inviolabili pernatura del proprietario umano.

5. Il magistero sociale

Lo schema manualistico é spesso ripetuto da varie encicliche pontificie, per cui simantiene in esse l'idea che la proprietà privata é un diritto naturale inviolabile delsingolo. Tuttavia, in una società in continuo cambiamento, ci si accorge di varie cose.Anzitutto dell'importanza sempre maggiore dell'elemosina, specialmente per i piùricchi, specialmente in relazione alla miseria di vaste aree del pianeta, ma l’elemosinanon è che cambi molto le cose. Ci si accorge anche della perdita di un’importanteattenzione del vivere sociale: il bene comune. Perseguendo ciascuno il proprio

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interesse, già di per sé messo in discussione dagli interessi degli altri, nessuno guardapiù al bene comune. Anzi, poco alla volta si arriva a pensare che il bene comunediventa un danno non solo per i singoli, ma anche per il benessere dell’intera nazione.Ovviamente, a fondamento di questo discorso, non mancano le riflessioni filosofiche disupporto. Ci deve essere qualcosa che non va: i vari papi che si succedono sonocostretti a riconosce che, da come vanno le cose, ci dev’essere da qualche parte unqualche ingranaggio che muove in una direzione strana. Poco alla volta si scopre chequesto ingranaggio funziona in modo veramente perverso. Così, poco alla volta si iniziaa sottolineare con forza il fatto che san Tommaso aveva già detto qualcosa sullaproprietà e non solo ripetuto come appendice. Prendiamo come punto di partenza di un vero e proprio salto qualitativo, sul temadella proprietà privata, le riflessioni morali che sono proposte nella GS 69-71:

• il vero diritto naturale é il progetto divino, secondo il quale i beni della terradevono essere partecipati a tutti gli abitanti del pianeta terra;

• la proprietà privata é sempre e soltanto uno strumento subordinato a tale primoprincipio;

• la mancanza di beni accessibili a tutti viola non solo il progetto di Dio, ma ladignità stessa della persona, la quale diventa incapace di autodeterminazione;

• la proprietà rimane necessaria per assicurare un minimo di libertà; essa perònon é un diritto assoluto, ma si pone al servizio del diritto di ogni uomo adavere una dignità. Questo è l’unico vero diritto naturale di ogni persona.

Si ritorna così in modo forte alle tematiche evangeliche e patristiche sulla proprietà ele sue limitazioni sociali. Ma bisognerà fare attenzione al fatto che la situazione attualepresenta differenze notevoli rispetto al passato, per cui, una volta osservata la realtà,occorre anche provvedere ad un rinnovamento profondo delle categorie morali.Giudicare una realtà cambiata con gli schemi morali di altri tempi significa non essereal servizio della liberazione dell’uomo ed accettare fatalisticamente di fatto unasituazione di ingiustizia colpevole.

6. Per un più giusto ordinamento della proprietà

L’istituto giuridico della proprietà privata non è qualcosa di univoco e di rigidamentedeterminato. Nella storia e nelle varie parti del mondo si presenta con formediversissime in base alle diverse forme di economia e i relativi modi di produzione.Nella nostra società capitalistica il concetto di proprietà privata e la sua disponibilitàunivoca rappresentano praticamente il fulcro del sistema. Ma quando la Chiesadifende l’istituzione della proprietà privata essa “non intende sostenere il presentestato come se si vedesse in esso l’espressione della volontà divina, né di difendere perprincipio il ricco e il plutocrate contro il povero e il non abbiente” (Pio XII). La Chiesariconosce alla proprietà privata diverse forme di attuazione; spetta alla comunitàpolitica il compito di determinare tali forme. L’ambito e i limiti di questo poterediscrezionale sono dati dalle esigenze sociali del bene comune.La proprietà privata deve essere intesa come stimolo a un lavoro interessato e

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responsabile, efficiente e soddisfacente; la proprietà privata è ritenuta capace di fare dastruttura portante a una società libera e pacifica. E questo per il suo valoreresponsabilizzante. Essa ha lo scopo di concedere alla persona un margineindispensabile di autonomia, di sicurezza, di libertà e di responsabilità, di creare unasocietà di persone e non un meccanismo impersonale in cui l’uomo sarebbe oggetto enon soggetto dell’attività economica e politica.In questa prospettiva la Chiesa riconosce alla proprietà privata una duplice finalità:

1) una finalità economica: 2) una finalità di ordine etico-sociale, assolutamente preminente rispetto alla

prima.Concentrata nelle mani di pochi, essa non ha potuto realizzare quegli scopi che laChiesa si attendeva, anzi, per molte delle persone di questo mondo essa è statasorgente di dipendenza economica, di sfruttamento e di alienazione. La Chiesa ha allora denunciato spesso questo stato di cose come ingiusto, ma ha anchecercato di dare delle indicazioni propositive per una sua giusta ristrutturazione,specialmente della proprietà privata dei sistemi di produzione. Possiamo distingueretre momenti successivi di questo insegnamento.

a) Il 1° momento è quello dell’affermazione dei limiti morali inerenti allaproprietà, in forza della più importante destinazione universale dei beni e questo,a partire da Leone XIII, è stato ripetuto in ogni discorso del magistero pontificio.La proprietà privata deve sottostare a doveri e funzioni che possono essere anchecoattivamente richieste.b) Il 2° momento è quello della richiesta di una ridistribuzione (almenoindiretta) della proprietà capitalistica Caduta la considerazione quasi sacraledell’ordine sociale esistente, la Chiesa propone un nuovo ordine sociale edeconomico che permetta a tutti di formarsi una proprietà, anche di beni stabili eproduttivi. Al diritto di proprietà privata spetta il dovere, “l’obbligo fondamentaledi assicurare una proprietà privata possibile a tutti”. È il periodo di Pio XI e PioXII: sembrano superate le forme più gravi dello sfruttamento operaio, ma rimanela totale dipendenza e la conseguente spersonalizzazione dei lavoratori. Laproposta della Chiesa è quella di una partecipazione alla proprietà del capitaleattraverso le forme del cooperativismo e dell’azionariato operaio.c) In un 3° momento ci si accorge che il vero problema non è tanto quellodella ridistribuzione della proprietà stessa, ma quello del potere e dell’iniziativaall’interno dell’impresa, attraverso una qualche forma di controllo e dipartecipazione dell’operaio alla gestione dell’impresa. Si tratta di riconoscere cheal di là delle proposte possibili, formulate storicamente, il capitalismo e ilcollettivismo, la proprietà privata o la proprietà collettiva dei mezzi di produzione,è possibile studiare e realizzare un nuovo tipo di struttura organizzativa, nuovirapporti di potere all’interno della grande impresa e della stessa società.

La Chiesa non ha l’intenzione di proporre nuovi modelli, né pensa di possederel’esatta formula prefabbricata, ma sollecita un profondo rinnovamento delle strutture.Ciò a cui si deve pensare è non tanto la piccola impresa di operai, ma interi popoli, chel’organizzazione capitalistica e la divisione internazionale del lavoro, hanno già

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condannato a una situazione di subordinazione e di passività totale, rendendolioggetto, invece che soggetto attivo e responsabile, delle scelte che riguardano il loroposto nel mondo e il loro destino.

7. La testimonianza della Chiesa nella realtà attuale

Certamente ci si accorge come lo stile di vita attuale sia profondamente modificato, sianei principi che nelle loro attuazioni storiche: il cristiano che intende "praticare"coerentemente la propria fede, in quale modo deve porsi all'interno di una società cosìorganizzata come la nostra? Va tenuto presente che anche la nostra stessa mentalitàcontemporanea é plasmata secondo i principi comunemente accettati, per cui, rispettoall'idea dell'uso comune delle ricchezze e della loro funzione sociale, il nostro stessocomportamento é difficilmente modificabile.Va ricordato anche che il fatalismo era un atteggiamento tipico della religiositàellenistico-romana. Tale realtà è stata sovvertita dal cristianesimo, religione cherimanda la considerazione di ogni realtà storica all’annuncio della Provvidenza esoprattutto della salvezza cristiana: tutto sarà ricapitolato in Cristo, la salvezza di Cristoabbraccerà l’intera condizione umana. Ogni forma di rassegnazione fatalistica altronon è che una giustificazione teorica del disimpegno.Il cristianesimo oggi é sempre di più chiamato ad un annuncio profetico e ad un impegno politico contro tali strutture economiche vigenti, ma questo non é possibile servendosi di una riflessione morale che si basa sul rispetto inviolabile della proprietà e sull'osservanza delle leggi; la situazione cambiata esige un rinnovamento delle categorie morali. Nello stesso tempo devono entrare sempre più nella mentalità e nel vissuto concreto dei cristiani l'idea che l'arricchirsi all'infinito é un concetto strettamente antievangelico, che la proprietà privata ha, (o forse meglio: é) una funzione sociale, e che il criterio guida delle nostre azioni sia unicamente quello del benessere non del singolo, ma dell'intera umanità. In tal modo il cristianesimo diventatestimonianza di solidarietà possibile e umanizzante il mondo.

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VI. LA POLITICAVI. LA POLITICA

1. 1. IntroduzioneIntroduzione

A livello di opinione pubblica ecclesiale, oggi l’impegno politico ha ritrovato nonsoltanto una maggior certezza di legittimità e di coerenza col messaggio evangelico, maperfino l’urgenza di un preciso dovere morale. La teologia morale mette oggi in risaltouna certa rilevanza direttamente salvifica dell’azione politica, che viene collegata o allaliberazione attuata da Gesù Cristo, o alla costruzione del Regno di Dio.Questa rilevanza salvifica dell’impegno politico si inserisce in una nuova visione,fondamentalmente antropocentrica e storica, del mondo. Le strutture politiche dellasocietà non ci appaiono più come la cornice fissa e neutrale del nostro dialogo conDio, ma come il corpo storico dell’umanità. Esse sono il prodotto della libertàresponsabile dell’uomo e lo strumento concreto del suo rapporto con gli altri.La responsabilità che l’uomo ha verso se stesso e verso gli altri sono in misurasignificativa incluse nelle responsabilità che egli ha verso le strutture della società; edegli gestisce queste responsabilità soprattutto attraverso la sua azione politica: lapolitica è il modo di strutturare la convivenza umana, di imporle un progetto etico.

2. Il concetto

Possiamo descrivere il termine "politica" secondo due significati fondamentali:1) politica può essere una struttura presente in un gruppo avente la funzione di

regolare e coordinare le svariate finalità del gruppo e le funzioni dei singoli e il mododi funzionare di tale struttura. A tale definizione corrisponde la concezione della"scienza politica" come studio e descrizione della realtà politica esistente, comeconfronto con altre strutture, come studio delle modificazioni storiche...

2) politica può essere anche l'attività che mira a determinare i criteri e i valori-basedi regolamentazione della vita associata, le finalità primarie e intermedie da perseguiree gli strumenti atti al loro conseguimento. A tale definizione corrisponde la concezionedella "scienza politica" come valutazione della realtà politica esistente, sia pergiustificarla, sia per migliorarla.Si deve notare che ogni riflessione sistematica sulla realtà politica é in pratica legata auna certa concezione di cosa sia il bene per una convivenza organizzata di persone egruppi; in altre parole ogni studio sulla realtà e sui passi da compiere per promuoverlaimplica sempre una valutazione morale. Etica e politica sono due termini di per séindissociabili.

Cosi la teologia morale cristiana é chiamata a offrire criteri generali di valutazione suimodi di strutturare una convivenza e le finalità che tale convivenza persegue,desumibili da un'analisi del dato scritturistico. Inoltre deve indicare l'atteggiamentoche il cristiano ed ogni singolo cittadino deve avere nei confronti del potere politico(quali sono i doveri morali che sgorgano dal fatto di vivere all'interno di unadeterminata struttura politica).

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La tradizione manualistica, mentre conosceva bene la prima area di problemi, noncomprende invece pienamente il secondo problema e propone un dovere formale eindistinto di obbedienza alle leggi del proprio stato.

3. La riflessione storica

Dovendo ordinare l'attività sociale secondo un determinato orientamento, la strutturapolitica é sempre in qualche modo esercizio di potere dell'uomo sull'uomo. Ma questopotere può essere esercitato in due modi distinti: per consenso dei membri o percoercizione. O si é comunemente convinti della bontà di una struttura e della suafinalità, oppure si deve lasciare perseguire l'ordine ricorrendo alla forza, ma con ilrischio sempre presente che il più forte possa conquistare il potere.Nel passato é stata sempre ricorrente la tentazione di sacralizzazione del poterepolitico: ogni potere umano é giustificato dalla divinità. In tal modo il potere politicodiventava intoccabile, qualunque esso fosse. Questa concezione motivava dal punto divista etico la pura e semplice obbedienza.Molti insorsero contro tale concezione appellandosi o a una superiore morale religiosa("é meglio obbedire a Dio") o a una legge naturale (la politica deve rispondere alleesigenze fondamentali dell'uomo). In tal modo si poneva la base di un ordinamentosuperiore capace di giudicare la stessa moralità del potere politico. Con l'inizio dell'epoca moderna, si sviluppa l'idea che l'esercizio del potere politiconon debba essere esercitato con l’imposizione forzata, ma debba essere l’espressionedi un consenso tra le persone. Nasce così l’idea di un patto di reciproca lealtà che isingoli fanno tra di loro e/o col sovrano. Il dovere di obbedienza nasce non più da unpotere, ma da questa lealtà nell'osservare il patto stipulato. Tale patto si pone a serviziodell'uomo, perché non ha contenuti arbitrari, ma si basa sul riconoscimento e la tuteladei diritti (naturali) dei singoli, anteriori al suo ingresso in società. Tale concezioneprende il nome di contrattualismo, ma nel corso della storia ha conosciuto diversimodelli di attuazione:

1) ogni cittadino deve cercare da se stesso il proprio bene; il potere politico ha ilcompito di non impedire che ciascuno possa farlo (patto di non-aggressione); é ilmodello originario del "contrattualismo" di J. Locke. In questo modello non esistenessuna preoccupazione di giustizia distributiva. Tendenzialmente lo stato, il poterepolitico, è visto negativamente, per il fatto che toglie all’individuo alcune sue libertà.

2) funzione del potere politico é la massimizzazione del bene dei singoli,attraverso la difesa dei diritti di libertà, in funzione del benessere globale della societàcivile; é questa l'espressione della dottrina chiamata "utilitarismo" ed anche questa silega strettamente con le dottrine economiche liberistiche.

3) funzione del potere politico è quella di assicurare a tutti la possibilità delraggiungimento del massimo di beni che la comunità, in quella determinatacontingenza storica, ha considerato come desiderabili per reciproco consenso.

4) funzione del potere é quella di assicurare il minimo (il massimo minimopossibile qui ora) necessario a tutti i singoli cittadini, in vista di un'uguaglianza dibase; si tratta però a questo punto di discutere a priori quali siano le esigenze, le

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urgenze e le priorità umane a cui venire incontro. La Chiesa italiana ha fatto un’altra proposta: “alla concezione tragica del potere, che siesprime nella volontà di potenza e di dominio, il Vangelo contrappone una concezioneumile e di servizio, in cui i bisogni dei più indifesi hanno la precedenza”.Mentre i primi due modelli cercano di proporsi come giustificazione delle teorieeconomiche liberistiche, per cui considerano la libertà del singolo come il massimovalore da difendere e da potenziare, le altre due teorie pongono al centro dell’azionepolitica il valore dell’uguaglianza dei vari membri della comunità. A difesa di questovalore è necessario allora porre dei limiti alla libertà individuale. Secondo queste dueteorie politiche la funzione del potere é quello di assicurare ai singoli cittadini ciò cheper comune consenso é stato stabilito come oggi bisogno, urgenza, priorità, in base allacontingente situazione storica; é il cosiddetto contrattualismo moderno che si sviluppaanche con una preoccupazione di ridistribuzione dei vantaggi del vivere in società.Rimane pur sempre chiaro che non esiste una teoria politica che possa essere definitain senso assoluto. Neppure la teologia morale puÚ affermare che dalla fede èimmediatamente deducibile una univoca e ben determinata forma di movimento, diazione o di progettazione politica. Ciò che di fatto si verifica è una continuaelaborazione storica del problema della convivenza "umana". Il problema morale di oggi è il seguente: si tratta di ricomporre l'uguaglianza dellalibertà con l'uguaglianza delle risorse a disposizione.

4. Il dato scritturistico

Anche oggi molti continuano a sostenere che il messaggio cristiano sia essenzialmenteed esclusivamente un messaggio di ordine religioso e soprannaturale, proiettato versola "vita eterna" e non verso la storia dell'uomo. La Sacra Scrittura pertanto non haniente da dire sul modo concreto di organizzare la convivenza umana, non contienealcun messaggio socio-politico. Ma una sua lettura più attenta, costringe a ben altreaffermazioni.

1) Antico Testamento. Anzitutto va ricordato che la prima e fondamentaleesperienza che il popolo ebraico ha vissuto é stato l'Esodo, il passaggio dalla situazionedi schiavitù alla costituzione di un popolo libero. L'Esodo costituisce l'eventofondamentale intorno al quale si forma la coscienza storica e religiosa del popolo diDio: ma si tratta di una vera e propria liberazione politica realizzata da Dio stesso. Taleliberazione ha come sbocco l'incontro del popolo con Dio, l'Alleanza antica creatasisul Sinai: così la liberazione dall'oppressione storica é il primo passo verso la salvezzareligiosa.Va tenuto presente anche il ministero dei profeti: il re e i giudici sono sempre piùgiudicati dai profeti (Amos, Isaia, Geremia) in base alle cose "più importanti" che essidevono perseguire: la giustizia resa al povero, all'orfano e alla vedova (= i poveri diYahvé), ma anche la misericordia e la fedeltà. Il quadro a cui fanno sempre riferimentoper essere istanza critica del potere politico é quello del tempo messianico: il sognodel regno messianico si lega ad una ben determinata teologia della storia. Nella

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maggior parte dei profeti predomina infatti una visione catastrofica della storia: lemolteplici catastrofi di ordine cosmico-naturale e di ordine sociale e politico, come leguerre e le insurrezioni, sono da interpretare quali segni anticipativi del giornoterribile di Yahvè, giorno in cui Dio renderà giustizia tra i popoli e al popolo prescelto.Il genere letterario apocalittico che accompagna questa visione della storia persegueuno scopo preciso: dare conforto e consolazione nelle situazioni di oppressione e diumiliazione estrema del popolo. L'attività politica dei governanti é sempre confrontatacon il traguardo finale del popolo e dell'intera famiglia umana. All'arrivo finale delMessia i governanti eserciteranno un potere fondato sul diritto e la giustizia, sarannosoccorso del povero e dello straniero. Il Messia realizzerà un ordine sociale nuovo incui non ci saranno più oppressi, né oppressori. Col tempo l’istanza apocalittica seguirà un cammino di maturazione, anzitutto versouna maggiore personalizzazione del regno di Dio, per cui compare la figura del messia,mandato dal Signore a ristabilire la giustizia, poi verso una maggiore purificazione espiritualizzazione del regno messianico: non più sconvolgimenti cosmici e rivoluzionisociali, ma un vero regno di pace, di amore, di giustizia, dove tutti saranno uguali efratelli. È questo il programma sociale e politico che a chiare lettere é contenuto comeil vertice della riflessione biblica, programma che diventa così giudizio di valore suogni altra attività politica.

2) Nuovo Testamento. La teologia e la predicazione tradizionale ha sostenutofondamentalmente due errori: la privatizzazione della fede e la spiritualizzazione dellasalvezza: il messaggio di Gesù Cristo è esclusivamente un messaggio di ordinereligioso, che non coinvolge la vita di tutti i giorni: la salvezza cristiana riguardaesclusivamente l'anima singola e Dio, senza coinvolgere un impegno storico concreto.Il NT, come non consente di interpretare in chiave esclusivamente politica la salvezzaportata da Cristo, tuttavia allo stesso modo nega un'interpretazione puramentesimbolica della liberazione politica: “andate a dire a Giovanni ciò che voi vedete con ivostri occhi”.Tali idee si contrappongono alle idee base contenute in tanti testi del NT, ad esempio,nel Benedictus e nel Magnificat, al messaggio programmatico di Gesù a Nazareth (Lc 4,16-21), alla centralità del comandamento della carità, al giudizio finale descritto da Mt25, alla verificazione-falsificazione della fede nei fatti, alla identificazione personale diCristo con i più piccoli.Detto questo, si possono ora sintetizzare le idee "politiche" contenute nel NT in base adue temi centrali: il Regno di Dio e l'atteggiamento del cristiano di fronte ai regni diquesto mondo.

a) Il tema del Regno di Dio. Con l’avvento di Gesù Cristo, il cammino dimaturazione dell’idea del Regno di Dio, giunge alla sua pienezza: l’avvenimento Cristosegnala il culmine e nello stesso tempo la critica radicale del sogno messianicoteocratico. Il termine basileia assume un significato precisamente trans-politico: (Mc12,13 ss: la questione delle tasse): Gesù intende prendere delle nette distanze daun’interpretazione unicamente politica della salvezza, come invece avveniva nei vari

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movimenti di liberazione presenti in Israele, quali ad esempio gli zeloti (dalle cui fileprovenivano alcuni dei suoi discepoli). Il comportamento di Gesù in questo campo haun carattere altamente simbolico: l’ingresso in Gerusalemme (Mt 21, 1-11) e l’unzione aBetania (Mt 26, 6-13) fanno riferimento non ad una sua glorificazione terrena, ma allasua morte in croce. Ma è soprattutto la sua incriminazione davanti al sinedrio “si èautoproclamato re dei Giudei” e la conseguente discussione con Pilato circa ilcarattere di questa regalità, che ci fanno capire una verità fondamentale: il Regno diDio, pur essendo entrato in questo mondo, non é di questo mondo (Gv 18,36), cioènon é modellato sulla logica che regge i poteri umani, la logica della forza e dellasopraffazione, ma sulla logica divina del dono di sé: "I capi delle nazioni dominano sudi esse e i grandi fanno pesare su di esse il potere; tra voi però non sia così, ma chivuole essere grande si faccia servo di tutti, imitando nei fatti il Figlio dell'uomo, ilquale non é venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita per laliberazione di tutti" (cfr. Mt. 20,26-28 e paralleli). È descritto così il crollo definitivo delsogno teocratico veterotestamentario, fortemente impregnato del discorso dellapotenza distruttrice di un Dio padrone del destino del mondo. La logica divina é quella del dono totale di sé fino alla testimonianza ultima alla veritàdi un Dio che non viene ad imporsi, ma che si mette con umiltà al servizio della nostraliberazione: è questo il più profondo atteggiamento “politico” del cristiano: l'impegnoamoroso di chi “lava i piedi”, restituisce la più perfetta dignità all’uomo. Solo così ilcristiano opera per la vera vera liberazione dell'uomo, contro ogni struttura oppressivadella sua dignità. Così Pietro che vuol distogliere Cristo da questo compito ditestimonianza suprema a tale verità diventa l'anti-Dio, colui che ragiona secondo unalogica di potenza e di affermazione di sé (Mc 8, 31-33) invece che nella logica delservizio. Cristo ha vissuto sulla sua pelle la tentazione di possedere il mondo attraverso unaprova di forza: "tutto ciò sarà tuo", satana rinuncia alla lotta se Gesùgli darà anche unasola dimostrazione di forza (Lc 4,1-12). Gesù rinuncia con coerenza a tale logica disopraffazione e da quel momento la battaglia storica tra potenza e servizio rimaneancora in atto, contro un drago ferito (Ap 12,17) che si scaglia con ineluttabile violenzacontro l'uomo sapendo di avere ormai le ore contate.

b) L'atteggiamento del cristiano. Il NT approfondisce questa sua nuovavisione dell’impegno politico inteso come servizio alla dignità dell’uomo e alla sua piùprofonda liberazione tramite il gesto supremo dell’amore, quando dà alcuneindicazioni su quale deve essere l’atteggiamento del cristiano di fronte al poterepolitico pagano. È san Paolo che ci offre un testo che propone l’obbedienza politica (Rom 13, 1-7), maper capirne il significato occorre collocarlo nel suo contesto storico.La prima comunità cristiana ha infatti il compito di demitizzare il potere politicoromano; essa, dopo aver perso il legame con la sinagoga e i privilegi ad essa connessi,in un primo momento si trova in una situazione precaria, ma usufruisce della paxromana , per cui diventa una questione di lealtà l'obbedienza alle leggi. Questo perònon la porterà mai ad attribuire ai governanti un compito di mediazione teocratica,

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anzi. Il contesto unico dei capitoli 12 e 13 della lettera propone tutta una serie diatteggiamenti del cristiano, sia all’interno della comunità dei fratelli, sia nellacomunicazione col non credente. Il carisma principale è quello dell’impegno di averpace con tutti gli uomini. Essere operatore di pace: è questo il carisma politico delcristiano, modellato da Paolo dal testo politico per eccellenza di Gesù: il discorso dellebeatitudini.Si può dire anche che l’annuncio politico che il messaggio evangelico propone nonesprime né un modello alternativo, né un messaggio teocratico, ma si propone comeresponsabilità collettiva per la pace. Così come l’obbedienza alle leggi non ha alcunsignificato di pura remissività, anche la disobbedienza non significa ribellione cieca difronte a qualsiasi forma di potere. Nel NT, oltre a testi che chiedono l'obbedienza alleleggi, ce ne sono altri che impongono non come lecita, ma come doverosa una lietadisobbedienza (Atti 5,41-42), ed una conseguente sofferenza storica, nella misura in cuil'autorità non si pone al servizio del bene. In ogni caso resterà fondamentale l'esercizio del discernimento della coscienza.

4. La riflessione cristiana

Nel corso dei secoli la teologia morale cristiana ha elaborato due problemi di fondo: ilproblema della giustificazione del potere politico e il problema del bene comune.

1) La giustificazione del potere politico. Sant'Agostino sostiene che il poterepolitico, quando non persegue la giustizia, é “pirateria”. Tolta la sua intrinseca finalità,il potere perde la sua giustificazione e con essa la sua vigenza nella coscienza delsingolo.San Tommaso sostiene che, essendo il fine il bene del corpo sociale, lo stesso corposociale detiene il potere, per cui deve decidere i mezzi atti al perseguimento del fine ene é l'ultimo responsabile, anche se c'é la possibilità di trasferire tale potere ad altri. Ciò che conta sottolineare é che per entrambi la giustificazione del potere politicoviene dal fine.Tale dottrina ha conosciuto anche una parentesi: dalla metà del XIX alla metà del XXsec., nel cosiddetto periodo della Restaurazione, si passa all'affermazione di un'originedivina del potere politico ("teoria della designazione" in opposizione alla "teoria deltrasferimento"), per cui si parla della sacra maestà dei sovrani, come un tempo siparlava del sacro Romano Impero. Sono ben note le resistenze e le opposizioni dellaChiesa alle varie forme della democrazia, all’inizio del suo nascere.

2) Il bene comune. Accanto al problema della giustificazione del potere politico,uno dei fulcri della riflessione morale é stato il problema della determinazione delbene comune.Secondo la Gaudium et Spes, ogni singolo ha il diritto-dovere di perseguiredirettamente per sé la propria felicità, sia terrena che eterna. Secondo la definizioneclassica proposta dall’enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII, il bene comune è“l’insieme di tutte quelle condizioni sociali che consentono agli esseri umani di

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conseguire più pienamente e più facilmente lo sviluppo integrale della loro persona”(MM 70). Scopo del potere politico é quello di perseguire il bene comune, cioè di creare,organizzando le forze di tutti i membri della società civile, quel complesso dicondizioni che rendano possibile un tale perseguimento del bene comune. Quando oggi si parla del bene comune però, si assiste ad una sua interpretazioneriduttiva, confondendo il bene con il benessere e identificandolo molto genericamentecon il PIL di una nazione. Ma il bene comune non si identifica semplicemente con lasomma dei beni che ogni nazione produce divisa per ogni singolo cittadino comequota-parte che a lui spettante della divisione dei vantaggi prodotti nellacollaborazione dei membri del corpo sociale. E neppure basta dire che questadivisione sia equa: tutti questi beni, per quanto importantissimi per la realizzazione diun autentico “bene comune”, sono ancora di natura premorale.Il bene comune si identifica con una qualità direttamente morale posseduta da unpopolo o da una nazione e lo possiamo identificare con quella fiducia reciproca equella collaborazione volenterosa tra tutti i cittadini e tra tutti i corpi intermedi dellasocietà civile. Il bene comune è il prodotto della qualità morale di tutta la società edell’impegno di tutti i cittadini. Esso è tale non solo perché ricade su tutti i membridella società, ma anche perché è il prodotto del loro impegno comune.Promuovere il bene comune può richiedere il superamento del proprio interesseimmediato. Ma è della natura del bene comune di ricadere, almeno come bene moraledella propria “autorealizzazione”, su coloro stessi cui richiede sacrifici e rinunce.

5. L’impegno politico del credente

L’elaborazione storica del problema politico ha messo a fuoco alcune direttivefondamentali. Certamente la doverosità dell’impegno politico è giustificata, ma si trattadi risolvere alcuni problemi nodali, primo fra tutti quello del compromesso.Effettivamente l’attività politica comporta normalmente l’esercizio del poteredell’uomo sull’uomo; essa è stata definita l’arte del compromesso, capace di creare unaverità pratica di accomodamento fra posizioni opposte. Spesso tuttaviaquest’operazione è costretta a mettere da parte l’assolutezza dei valori morali in nomedi una funzionalità pratica, di un successo d’azione all’interno di una struttura che simuove con leggi proprie, estranee alle varie preoccupazioni di carattere etico. Data questa situazione come scontata, considerando cioè la politica come semprequalcosa di losco e poco chiaro, i credenti hanno spesso optato per un genericoimpegno di testimonianza personale, piuttosto che un coinvolgimento direttonell’azione politica. Questa forma di impegno minimo non ha alcun interesse disuccesso o di efficacia storica ed è stato motivato nei secoli dal fatto che Gesù harifiutato di svolgere un’azione direttamente politica. Oggi però questa tentazionediventa l’alibi che porta a nasconde e a fuggire sempre di più le proprie responsabilitàper il mondo. Oggi le strutture politiche della società non ci appaiono più come unorizzonte fisso e neutrale, ma influenzano il nostro modo di vivere il rapporto con Dioe con gli altri.

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Un altro modo d’azione potrebbe essere quello di una cieca intransigenza neiconfronti di determinati valori morali, ma sappiamo quanto male faccia sia all’internoche all’esterno della comunità. Il cristiano che vive con serietà la propria esperienza di fede non può condannare sestesso alla scelta tra l’inutilità storica o all’intransigenza. Nella tensione dialettica trautopia e realismo, deve essere convinto di poter diventare capace di influireefficacemente sullo stile di vita e sui modelli di pensiero, cogliendo il realmentepossibile qui ed ora, diventando capace di mediazione in vista di una miglioregiustizia.La sua partecipazione può svolgersi contemporaneamente su due fronti:

1) in negativo, la denuncia profetica sociale contro ogni stato di cose oppressivo,2) in positivo, l’azione reale motivata da una fraternità universale (GS 92).

La partecipazione deve sempre più sostituire il disimpegno e la sterile lagnanza e devepromuovere in ogni campo una corresponsabilità e solidarietà a orizzonte planetario.Si pone allora un altro problema: la dialettica tra obbedienza e disobbedienza, giàenucleato nell’analisi del NT: come comporre, all’interno di una società come lanostra, la necessaria e inevitabile lealtà nei confronti delle istituzioni sociali con lacritica, il dissenso e magari la ribellione, in vista della realizzazione di una società piùgiusta e più umana?È certo che l’insegnamento tradizionale della morale cattolica operava piuttosto nelladirezione del consenso e dell’integrazione che in quello della critica e della ribellione.Le facili collusioni tra una religione istituzionalizzata e le istituzioni civili spieganofacilmente un simile privilegio. Basta ricordare in proposito l’appoggio al legittimismodei sovrani durante la restaurazione, la lunga resistenza e le ripetute condanne dellaChiesa contro la democrazia liberale del secolo scorso. D’altra parte, lo stessomagistero, nei suoi documenti più recenti, è molto più esplicito e radicale nelladenuncia delle storture del nostro assetto sociale e proclama apertamente la necessitàdi un intervento critico e di una trasformazione liberatrice da parte dei credenti.Si tratta di equilibrare la tensione permanente di questi due atteggiamenticontrapposti senza cedere a facili compromessi. Da una parte non è possibile oggicedere ad un atteggiamento di conformismo acritico: sarebbe la più grande forma dicolpa oggi concepibile; dall’altra parte non si può non tener presente il caratterepotenzialmente autoritario delle ideologie della rivoluzione.L’armonia che si deve cercare non è certamente quella di un compromesso che metteda parte i valori morali, ma quella di una dialettica tra i due atteggiamenti, nellaconvinzione che l’agire sulle strutture ingiuste di una società disumana sarà semprepiù richiesto dallo stato delle cose. Si tratta ora di realizzare un’ultima operazione di concretizzazione. A livello operativoconcreto si pone infatti un altro problema: tramontato il quadro di una societàcristiana e subentrata una pluralità di visioni del mondo, della storia, dell'uomo e diciò che é concepito come una "vita buona e compiuta", é ancora possibile ottenere unconsenso intorno a finalità globali? L'emergere di interessi particolaristici tende quasi inevitabilmente a creare unapolitica intesa come guerra fra orizzonti individuali contrastanti. La ricerca del

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consenso non é fatta riferendosi ad una precisa linea politica, ma tende a diventarericerca di consenso per la detenzione del potere politico. Va ricordato che tale guerra écertamente più facile per chi detiene un potere economico così forte da controllareanche buona parte dei canali di informazione di massa e con essi le scelte prevalentidei singoli. Così concepito, il potere diviene fine a se stesso e non promuove il bene comune, masolo il bene del gruppo che del potere potrà servirsi. Ma la domanda sorge spontanea:in questo quadro é proponibile un modello di società con carattere di universalità esoprattutto un potere avente finalità politiche funzionali a tale visione planetaria ? Emerge allora con forza il tema dei diritti dell'uomo : essi possono costituire quellapiattaforma comune di finalità su cui é già stata verificata la più ampia convergenzaculturale, religiosa e filosofica. Anche in una società pluralistica é ipotizzabile unconsenso intorno a determinati valori umani globali, mantenendo magari il dissensosulle diverse scale di priorità o di urgenza nell'attuazione dei valori o sui mezzi miglioriper coltivarli. Questo é l'atteggiamento chiesto ad ogni cristiano e proposto dai cristiani a tutti gliuomini di buona volontà. Se ciò é possibile diventa doveroso pensare al bene comunecome il "bene comune di tutto il genere umano" (GS 78): per essere fedeli all'uomooccorre varcare le frontiere particolaristiche del proprio stato. Oggi il flusso diinformazioni, di merci e di capitali, le integrazioni culturali, le interdipendenzeeconomiche e politiche degli stati rendono sempre più anacronistici i confini tra levarie nazioni. Già fin d’ora si impone a tutti gli uomini di buona volontà il problema diuna concertazione seria e giusta tra gli stati.

6. La Nota dottrinale del 2002

Il 24 novembre del 2002, la Congregazione per la Dottrina della fede rendeva pubblicauna nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamentodei cattolici nella vita politica. Questo documento non aveva la pretesa di riproporrl’intero insegnamento della Chiesa in materia, ma quello di richiamare alcuni principipropri della coscienza cristiana che ispirano l’impegno dei cattolici nelle società democratiche.Se da un lato non va dimenticato che questo documento ha un caratteresopranazionale, e non è direttamente indirizzato ai cattolici italiani, d’altro cantoproprio per il suo carattere universale, è indirizzato anche ai cattolici impegnati inpolitica nel nostro paese.La nota presenta alcuni punti nodali nell’attuale dibattito culturale e politico,prendendo le mosse da complesso quadro in cui si muove la nostra epoca: da unaparte la crescita di responsabilità nei confronti dei paesi in via di sviluppo e lacrescente sensibilità verso il bene comune, dall’altra il relativismo culturale chesancisce la dissoluzione della ragione e dei principi della legge morale naturale. Così icittadini rivendicano la più completa autonomia per le proprie scelte morali, e ilegislatori assecondano questo desiderio formulando leggi che prescindono dall’eticanaturale. Il tutto invocando una falsa concezione della tolleranza e una concezionerelativista del pluralismo.

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La nota sottolinea come la libertà politica non può essere fondata sull’idea che tutte leconcezioni del bene sull’uomo hanno lo stesso valore: è vero che la Chiesa non ha ilcompito di formulare soluzioni concrete ai problemi, ma è un suo diritto-doverepronunciare giudizi morali su realtà temporali, quando questo sia richiesto dalla fede odalla legge morale (GS 76).Il cristiano deve ammettere la legittima molteplicità e diversità di opzioni, ma devericordare che il vero concetto di democrazia poggia le basi su principi etici che perloro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non possono esserenegoziabili.La Chiesa è consapevole che la democrazia esprime al meglio la partecipazione direttadei cittadini alle scelte politiche, ma soltanto se alla base di tutto questo c’è una rettaconcezione della persona. Su questo principio la Nota è molto chiara: l’impegno deicattolici non può scendere a compromesso, perché altrimenti verrebbero meno latestimonianza della fede cristiana nel mondo e l’unità dei fedeli stessi. È la tutela dellapersona che rende possibile la partecipazione autenticamente democratica, comeafferma la Gaudium et Spes 73.

La Nota dottrinale sottolinea, poi, come l’impegno politico per un aspetto isolato delladottrina sociale della Chiesa non è sufficiente ad esaurire la responsabilità per il benecomune, né il cattolico può pensare di delegare ad altri quell’impegno che gli provienedal vangelo che lo invita ad annunciare la verità sull’uomo e sul mondo. Così vengoportati ad esempio l’impegno su tematiche come la difesa della vita e dell’embrioneumano, la tutela della famiglia, la garanzia di libertà di educazione e della tutela socialedei minori, la libertà religiosa, la pace e lo sviluppo di un’economia che mira al benecomune nel rispetto della giustizia sociale e del principio di sussidiarietà.

7. La questione della laicità della politica

Oltre al perseguimento del bene comune, un altro criterio indispensabile del serviziocristiano in politica è il rispetto della sua laicità.Laicità significa che le realtà temporali, tra cui la politica, per volontà del Creatorehanno una loro consistenza ontologica, una vera e propria bontà, finalità, con leggi estrumenti propri, iscritti nella loro stessa natura e non presi dall’ordinesoprannaturale. Tale autonomia di fini e di mezzi voluta da Dio, va rispettata dalcristiano, sebbene egli sia cosciente che il fine ultimo, al quale tutti i fini intermedicompresi quelli politici sono subordinati, trascende l’ordine puramente naturale. Cosìsi esprime il Vaticano II in GS 36.La politica è dunque laica, cioè non può dedurre direttamente dalla fede un modellopolitico di società, di governo o di partito. Il Vangelo indica i valori a cui ispirarel’azione sociopolitica e secondo cui costruire la città dell’uomo; ma non diceattraverso quali scelte e con quali programmi ciò si debba realizzare.Questo sano concetto di laicità della politica impedisce che la coerenza con la fede econ il magistero, richiesta dall’impegno sociopolitico dei cristiani degeneri nelconfessionalismo o peggio ancora nel clericalismo. Esclude, cioè, che la politica sia

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fatta a fini diversi da quello che le è proprio: il bene della comunità politica. Né è lecitomettere la politica al servizio degli interessi della Chiesa o finalizzarla direttamenteall’apostolato e all’evangelizzazione. I fedeli laici devono essere persuasi che il modomigliore di collaborare all’unica missione evangelizzatrice di tutto il popolo di Dio siaquello di animare da cristiani la realtà temporale, rispettandone la laicità e acquistandouna vera e propria professionalità nei diversi settori, e di svolgere quindi il loroservizio politico con l’unico fine di realizzare il bene comune del popolo. Dice infatti laGS 43 “ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attivitàtemporali. Quando dunque essi agiscono quali cittadini, sia individualmente sia associati, nonsolo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquisire unavera e propria competenza in quei campi… Spetta alla loro coscienza, già convintameneformata, di iscrivere la legge divina nella vita della città terrena”.

Il n.6 della Nota Dottrinale del 2002 è dedicato al tema della laicità. Viene chiarito chequesto termine indica in primo luogo l’atteggiamento di chi rispetta le verità chescaturiscono dalla conoscenza naturale sull’uomo che vive in società, anche se taliverità siano nello stesso tempo insegnate da una religione specifica, poiché la verità èuna. Sarebbe un errore confondere la giusta autonomia che i cattolici in politicadebbono assumere con la rivendicazione di un principio che prescindedall’insegnamento morale e sociale della Chiesa. Con il suo intervento in questoambito, il Magistero della Chiesa non vuole esercitare un potere politico né eliminarela libertà d’opinione dei cattolici su questioni contingenti. Esso intende invece istruiree illuminare la coscienza dei fedeli, soprattutto di quanti si dedicano all’impegno nellavita politica, perché il loro agire sia sempre al servizio della promozione integrale dellapersona e del bene comune. L’insegnamento sociale della Chiesa non èun’intromissione nel governo dei singoli Paesi. Vivere ed agire politicamente inconformità alla propria coscienza l’espressione con cui i cristiani offrono il lorocoerente apporto perché attraverso la politica si instauri un ordinamento sociale piùgiusto e coerente con la dignità della persona umana.Coloro che in nome del rispetto della coscienza individuale volessero vedere neldovere morale dei cristiani di essere coerenti con la propria coscienza un segno persqualificarli politicamente, negando loro la legittimità di agire in politicacoerentemente alle proprie convinzioni riguardanti il bene comune, incorrerebbero inuna forma di intollerante laicismo. In questa prospettiva, infatti, si vuole negare nonsolo ogni rilevanza politica e culturale della fede cristiana, ma perfino la stessapossibilità di un’etica naturale.

8. L’autonomia delle scelte politiche

Un terzo criterio dell’impegno politico vissuto da cristiano è l’autonoma responsabilitàdelle proprie scelte. Detto in parole più scelte, i fedeli laici non si possono consideraresoltanto degli esecutori delle disposizioni della gerarchia in campo sociale ma devonosentirsi responsabili e autonomi nelle scelte politiche che compiono. Anzi c’è di più.

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Essi sono chiamati ad aiutare attivamente i pastori anche nella elaborazione dellastessa dottrina sociale, offrendo loro l’apporto della propria esperienza e competenzaprofessionale.Se, quindi, spetta ai pastori, il compito di illuminare la coscienza e l’intelligenza deifedeli laici e di giudicare la conformità maggiore o minore delle singole sceltepolitiche con il vangelo e la morale cristiana, tuttavia ai fedeli rimane il compito diessere coerenti e coraggiosi nelle scelte, assumendone in pieno tutti i rischi e leresponsabilità. Tocca quindi ai laici giudicare la necessaria gradualità imposta dallecircostanze.Benedetto XVI, nell’enciclica Deus caritas est sintetizza così al n.29 il profilo dei fedelilaici in politica: “Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in primapersona alla vita pubblica. Non possono pertanto abdicare «alla molteplice e svariataazione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata apromuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune».Missione dei fedeli laiciè pertanto di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittimaautonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sottola propria responsabilità. Anche se le espressioni specifiche della carità ecclesiale nonpossono mai confondersi con l'attività dello Stato, resta tuttavia vero che la carità deveanimare l'intera esistenza dei fedeli laici e quindi anche la loro attività politica, vissutacome carità sociale”.

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VII. VII. LA REALTA' DELLA COMUNICAZIONELA REALTA' DELLA COMUNICAZIONE

1. Il concetto

Quando oggi si parla di comunicazione, occorre tener presente il fatto di una pluralitàdi accezioni del termine, non necessariamente contrastanti, ma da vedere in unavisione di complementarietà.

1) Anzitutto si può intendere la comunicazione come una pura e semplicetrasmissione di dati da una persona (mittente) a un'altra (destinatario). Questa primaaccezione si attua attraverso un processo particolare che ha le sue leggi e i suoimeccanismi che possiamo esemplificare in vari momenti:

a) la fonte, attraverso un determinato canale di trasmissione, emette un segnale(messaggio) attraverso una prima operazione chiamata "codificazione": si tratta ditrasformare il contenuto interiore soggettivo (notizia, idea, stato d'animo, sensazione...)in un codice stabilito convenzionalmente e comprensibile sia dal trasmittente che dalricevente (linguaggio: suoni, gesti, parole, testi scritti,...);

b) il recettore deve poi a sua volta compiere l'operazione inversa, la"decodificazione", in modo da poter rileggere, con gli stessi criteri del trasmettitore, ilmessaggio inviato e giungere così al significato, al contenuto proprio, e dunque alla suacomprensione.

Un tale processo ha di mira il semplice far sapere, l'informare. Ma va tenuto presente ilfatto che già a questo primo elementare livello della comunicazione siamo di fronte adalcune difficoltà: anzitutto l'opera di codificazione é già pur sempre segnata dal tipo dicanale adottato per la comunicazione. La pluralità dei codici di cui un essere umanopuò disporre per comunicare (linguaggio verbale, gestualità, arte, musica, danza,...)apre ad una comprensione della complessità del problema della comunicazione, maanche dell'incredibile potenzialità comunicativa dell'uomo. Ad esempio: unsentimento o una sensazione improvvisa possono essere convertite in parole, maqueste dovranno necessariamente essere selezionate tra quelle che il trasmettitore ha adisposizione nel suo vocabolario e quelle che ha in comune con il vocabolario delricevente. La codificazione verbale é sempre in qualche misura un impoverimento delcontenuto del messaggio, in quanto sottende sempre una limitazione e uncondizionamento culturale. Qualsiasi forma di codificazione racchiude in sé uninsopprimibile grado di astrazione, rispetto alla sensazione immediata del trasmittente,astrazione che impedisce di pensare all'esistenza possibile di una comunicazioneperfetta. Uno dei compiti fondamentale dei responsabili dell'educazione oggi é tuttavia quellodi rendere comprensibili i vari tipi di codici esistenti nella realtà sociale; il ragazzo saràallora maggiormente in grado anzitutto di crescere nella capacità di ascolto e di critica,ma anche di arricchirsi dell'esperienza umana di altri gruppi, di aprirsi ad altre visionidella realtà e ad altre culture. Nell'analisi del processo di comunicazione non vanno dimenticati altri meccanismi

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quali ad esempio la comunicazione non verbale irriflessa, ben nota a tutti gli studiosidel linguaggio umano: un gesto d'ira, il tono della voce, un urlo di dolore o un sorriso,gesti normalmente inconsapevoli, entrano anch'essi nel processo di comunicazionefacilitando il passaggio dell'informazione oppure storpiandola nel suo significatofondamentale. Ciò che é detto e ciò che é recepito va spesso ben oltre l'intenzione deltrasmettitore, ma non sempre nella direzione della chiarificazione, bensìdell'ambiguità.

2) D'altra parte ci sono forme di comunicazione che non sono riconducibili allapura e semplice trasmissione di contenuti. Una volta che il messaggio è statocompreso , decodificato, il messaggio deve essere interpretato, cioè confrontato colproprio sistema e dunque viene introdotto o allontanato. Spesso la comunicazione siconfigura esplicitamente come invito, promessa, dimostrazione e perciò innesca neldestinatario reazioni di consenso, dissenso, dubbio, neutralità. Il processo dicomunicazione viene così delineato in termini di incontro, scontro, confronto, sfida,cooperazione: in ogni caso esso apre ad una risposta di ritorno. Soltanto in questo casosi attua la piena circolarità della comunicazione. In altre parole la comunicazionediventa momento di relazioni interpersonali e sociali. In questa interazione tra duesoggetti attivi risiede la forza intrinseca della "socialità" della comunicazione. La società nasce dalla comunicazione e vive di comunicazione. La crisi dicomunicazione é inevitabilmente crisi della convivenza sociale. D'altra parte la migliordefinizione della "comunicazione" viene proprio dalla sua intrinseca connessione conla "società" a partire proprio dalla sua radice etimologica latina: communis (da cuicomunicazione) é composto da cum (con) e da munia (doveri, vincoli). Questo secondovocabolo origina una serie di termini con significato convergente sul concetto-base di"stringere insieme": "moenia" (= le mura che racchiudono la città) e "munus" (= ilregalo, segno simbolico di un legame tra chi lo dona e chi lo riceve). C'é chi ha già fatto l'osservazione che quando si parla di "mezzi di comunicazionesociale", non si fa altro che operare una ripetizione: la comunicazione non puòdefinirsi tale se non é fatta da almeno due persone, se non é cioè "sociale". Èimpossibile d'altra parte negare quale enorme potenzialità sociale abbiano i mezzi dicomunicazione: é proprio dalla loro moltiplicazione che oggi si può guardare allamoltiplicazione, anche a livello planetario, delle comunicazioni come fattoredeterminante della trasformazione del mondo in un unico "villaggio cosmico" (McLuhan).

3) Non si può negare infine che la comunicazione, intesa sia come comunicazionedi eventi di coscienza o di contenuti, sia come capacità socializzante, non é altro chel’espressione di una fattiva solidarietà tra i due comunicanti. Essendo lacomunicazione un atto complesso, in quanto comporta la necessità dell’interazione tradue repertori diversi, non solo a livello semantico, e di mondo linguistico, masoprattutto tra due mondi ideologici e culturali, la comunicazione è necessariamenteun gesto di solidarietà. La mortificazione della comunicazione nasce oggi spesso dallatendenza ad oggettivare radicalmente i messaggi, senza cogliere dietro di essi il mondo

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complesso e misterioso della persona che li trasmette. La decodificazione dunque nonpuò mai essere totale, ma deve svilupparsi all’interno di una prospettiva diaccostamento solidale, che faccia spazio all’unicità dell’altro, mai passibile, come tale,di riduzione radicale ai nostri schemi e ai nostri modelli interpretativi. Lacomunicazione viene scoperta sempre più nel suo carattere più profondo: essa èl'espressione del dono di sé all'altro tramite il linguaggio. Il gesto di comunicazioneimplica sempre un forte coinvolgimento soggettivo, fatto soprattutto di dinamichepsichiche e di energie interiori. Così al desiderio di comunicare, al tentativo dicoinvolgere l’altro si può associare facilmente anche l’azione sul mondo dell’altro, lapressione sulla labilità dell’altro, le precomprensioni, i condizionamenti, le autodifesee le inconsistenze più o meno manifeste. La comunicazione investe la responsabilitàmorale del soggetto. Essa non deve mai essere dissociata dal movimento che portal’uomo ad uscire dal proprio mondo per entrare nel mondo dell'altro, per donare sestesso ed il proprio mondo interiore all'altro tramite il mezzo della parola. Ogni uomodeve permettere il passaggio da una comprensione della comunicazione come scambiodi messaggi ad una comunicazione che sia sempre espressione di uno scambio di sé.Nella misura in cui mi rendo consapevole della possibilità che io ho sia di arricchirel'altro, sia di ricevere da lui un aiuto per la mia vita, il mio mondo interiore non puòessere vissuto in modo solitario, ma partecipato,: ogni parola che l'altro mi rivolge ésempre offerta di un dono o richiesta di aiuto, dono di amore o richiesta di amore.Ricordiamo solo l'esempio del profeta Geremia: "Nel mio cuore c'era un fuocoardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo".

2. Il valore teologico della comunicazione

L'esistenza stessa della Bibbia, cioè di una parola rivolta all'uomo da parte di Dio, devefar certamente pensare. Dio stesso comunica con l'uomo: la comunicazione, prima diessere una capacità umana, é atto divino. La configurazione del rapporto religioso può essere allora espresso nello schema dellachiamata-risposta, nello schema del dialogo, in cui i partners si pongono allo stessolivello, hanno entrambi un ruolo attivo. Nell'AT é molto chiara l'immagine di un Dio che non rimane nella sua silenziosaimperturbabilità, ma, oltre che parlare all'uomo, Dio si china sull'uomo, fa silenzioattorno a sé per lasciare parlare lui ed ascolta attentamente ciò che egli dice. Moltospesso si tratta di un grido di uomo oppresso: e allora Dio rimane turbato dallacomunicazione supplichevole dell'uomo ed interviene nella storia attraverso la suaParola. Nell'immagine veterotestamentaria, la Parola di Dio é Parola che nel momento cheviene pronunciata, crea ciò che dice: é Parola creatrice, efficace: ciò che dice, nellostesso tempo Dio lo realizza anche. "Dalla sua Parola furono creati i cieli"; "Dio disse:sia la luce; e la luce fu" (cfr. Genesi). La Parola pronunciata da Dio non ritornerà a Diosenza effetti, senza aver creato ciò che Dio stesso desidera (cfr. Is. 55). Inoltre il Diodell'AT vive di una profonda preoccupazione: rivolgersi, in ogni modo possibile al suopopolo, per chiamarlo a sé, per attirarlo, per farlo innamorare, per consolarlo, per

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dargli coraggio. Dio mostra la dolce cura per la sua vigna quando invia profeti aparlare in suo nome. Anche quando il popolo gli si é rivoltato contro, Egli non hasmesso di parlare al suo cuore. In ciascuna di queste iniziative si mostra sempre più l'intenzione di Dio di comunicarese stesso attraverso le sue parole; la tendenza di Dio é sempre più quella di avvicinarsial suo popolo, condividere la sua sorte, partecipare la sua felicità: si nota il cammino diincarnazione progressiva della parola, cammino che raggiungerà il suo culmine coldono supremo: il Figlio, la Parola definitiva di Dio all’uomo, pronunciata dall'eternitàper essere per l'uomo Parola di Vita, Parola che promette e allo stesso tempo donaveramente la Vita a tutti coloro che l'ascoltano. La Parola si é fatta carne, ha assuntodefinitivamente un timbro umano per manifestare in parole umane il volto paterno diDio. Tutto ciò fonda una vita cristiana di risposta all'appello di Dio attraverso una parolache il cristiano rivolge ad ogni uomo, una parola capace di dare nuova vita, capace difar risorgere dai morti, una parola che porta nel mondo la certezza dell'eternità. Unodei gesti più grandi di carità che il cristiano può fare all'uomo é quello di consolarlo."Consolate, consolate il mio popolo, perché é finito il tempo della sua schiavitù, ora étempo di gioia, non ve ne accorgete ?" (cfr. Isaia): é la gioia di Dio comunicata ad ogniuomo attraverso il dono di sé nella persona del Figlio.

3. La comunicazione umana

Si può parlare di comunicazione come un atto tipicamente umano, nella misura in cuisi realizza una vera e propria relazione profonda: una comunicazione umana non siattua come puro e semplice scambio di informazioni. Nel semplice fatto di comunicarecon l'altro l'uomo riconosce nel ricevente un partner, un compagno di umanità,un'alterità che si pone al mio stesso livello. La sola comunicazione non é altro che unriflesso dell'intero mio atteggiamento nei confronti di quel preciso altro che ho difronte: se parlo con lui, se gli dedico tempo, lo ascolto o lo interpello, lo consideronella sua non-disponibilità al mio progetto e nello stesso tempo pongo me stesso comenon-indifferente, in altre parole come responsabile per sempre della sua vita.Da qui nascono fortemente alcune conseguenze morali: anzitutto ogni volta che mirivolgo all’altro, ogni volta che parlo con lui, io impegno totalmente me stesso nei suoiconfronti. La mia vita è rimessa in discussione completamente. Da quel momento, ioho la possibilità, e quindi il dovere, di mettere me stesso al servizio dell'altro.Qualunque cosa io voglia comunicare, io debbo, con quel gesto, comunicare me stessoe il mio amore, la mia completa disponibilità per l'altro. Come la comunicazione diDio, con un'intensità sempre crescente, é comunicazione di sé, fino a diventarecomunicazione totale, con tutta la vita, i gesti, le parole, i pianti, le sofferenze e lamorte di Cristo, così la nostra vita deve diventare sempre più espressione di taleimmagine di Dio: la nostra comunicazione deve sempre di più diventare, in ognisituazione concreta, dono di noi stessi all'altro, parola rivolta all'uomo sempre conintensità.La parola pronunciata, il dialogo realizzato come esperienza di comunione, impegna

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completamente la vita in una donazione completa di sé all’altro. Questa esperienzaesige l’abbandono della banalità e della generalità astratta per accettare la sfidadell’individualità irriducibile dell’altro.

4. La situazione attuale

Nell’epoca che ha visto l’esplosione quantitativa dei cosiddetti mezzi di comunicazionesociale, assistiamo paradossalmente ad un impoverimento qualitativo dellacomunicazione. L’incomunicabilità è stata riconosciuta come uno dei mali maggioridel nostro tempo. Il vuoto comunicazionale ha provocato così un’esasperazione del bisogno di unacomunicazione più vera. La questione della comunicazione rappresenta allora uno deinodi fondamentali della ricerca antropologica ed etica, per il fatto che la personaumana è tale in quanto essere dialogico, in quanto è capace di uscire dalla solitudineper attuare relazioni intersoggettive mature. Si tratta di denunciare le storture esistentie innescare processi alternativi che sappiano riportare al centro i valori in gioco.Fondamentale allora resta la necessità della scoperta delle ragioni di questa crisi dellacomunicazione.

1) L’uomo massificato. La civiltà industriale ha creato uno stato di gravespersonalizzazione dell’uomo, costringendolo nella prigione dell’anonimato. Losradicamento dal tessuto culturale originario, dovuto alle varie formedell’urbanizzazione forzata e selvaggia e al fenomeno delle migrazioni, ha determinatonecessariamente nell’uomo una situazione di costante insicurezza, di instabilità e dianomia. Il processo di massificazione sociale e di omologazione non poteva essere piùfacile e spontaneo. A questo si associano altri processi: anzitutto il fatto chel’introduzione della catena di montaggio prima e poi delle tecnologie ha finito perespropriare il lavoro del suo carattere umano. La dissociazione da sé e dal propriolavoro si ripercuote sul processo di identificazione, anche nei confronti del mondoche lo circonda, della società di cui teoricamente fa parte, del sistema di relazioni,dell’universo simbolico. Anche l’incidenza dei mass-media si fa pesante sui campipreziosi della socializzazione e dell’educazione, creando profonde conseguenze sulcampo delle relazioni primarie e della stessa vita familiare. La tendenza dominante èquella della riduzione dell’uomo a numero, cosa, oggetto. Il soggetto è letteralmenteespropriato da tutte le relazioni umane primarie. L’altro è introdotto dai mass-medianon più come interlocutore, ma come oggetto di osservazione,. La cultura consumistaconsidera l’uomo come un ingranaggio del sistema produttivo: come puro e sempliceconsumatore dei beni prodotti, non come persona alla quale vanno fornite possibilitàreali di autorealizzazione.

2) La tecnocrazia, che invade tutti i campi della vita e dell’attività umana, produceinoltre aspetti preoccupanti di asservimento dell’uomo. Egli è sempre più sottopostoal potere degli strumenti della tecnica, che esercita su di lui un dominioincondizionato. Si determinano infatti facilmente dei fenomeni di assuefazione

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psicologica, dai quali è difficile liberarsi per il fatto che coinvolgono in profondità ilmondo degli istinti e dell’inconscio, attivandone le forze oscure latenti. Laconseguenza immediata è quella della riduzione del campo della libertà e la tendenzaad alimentare atteggiamenti di totale passività e subalternità; in definitiva, dischiavitù. I mass-media, ad esempio, per il forte potere che li caraterizza, creanosituazioni di dipendenza e favoriscono soprattutto l’assorbimento passivo di quantoviene comunicato, riducendo la sfera della criticità e della creatività umana.Significativo da questo punto di vista è stato il salto qualitativo che si è operato nelpassaggio dalla radio alla televisione. Mentre infatti nel primo caso è ancoralargamente possibile e - necessaria - l’attività del soggetto, in quanto ciò che si ascoltadeve essere immaginato, nel secondo caso tutto è invece già fornito all’uomo, il qualefinisce per assumere un atteggiamento di puro assorbimento. In realtà la radio ha unadimensione in più della televisione ed è la fantasia. La radio permette di pensare, latelevisione invece, dissuade dolcemente dal farlo; la radio infatti spinge il pensieroumano verso la fantasia, l’evasione, la ricerca dell’alternativa, la problematizzazione, lacriticità; la televisione invece dispensa da tutto ciò.In questa situazione è logico assistere alla nascita dell’uomo “eterodiretto”, l’uomomassificato. “Tutti gli eterodiretti hanno in comune il fatto che l’atteggiamentodell’individuo è guidato dai suoi contemporanei: quelli che conosce personalmente equelli che conosce solo indirettamente, solitamente tramite la comunicazione dimassa. La fonte di influenza viene poi interiorizzata facilmente, per cui l’individioeterodiretto fissa per sé quegli scopi che ha visto funzionanti negli altri. Per farequesto basta esercitarsi soltanto in alcuni determinati atteggiamenti: la tensionecostante e l’attenzione sempre rivolta alle reazioni degli altri: e questi dueatteggiamenti facilmente persistono senza cambiare durante tutto l’arco dell’esistena.Questa volontà ferma di mantenere una qualche forma di contatto con gli altri sitraduce nel più rigido conformismo nell’atteggiamento, per cui, per non perderel’attenzione degli altri, dai quali si aspetta una qualsiasi forma di gratificazione,l’individuo fa’ ciò che gli altri si aspettano che egli faccia. L’uomo eterodiretto è una specie di uomo epidermico, che si trova allo sbando difronte al bombardamento delle informazioni che riceve e che non è portato a credere,perché non ha vita interiore, alla validità di una propria opinione, anche se difformeda quella che gli viene propinata.

3) Tutti questi meccanismi trovano la loro legittimazione ultima nell’ideologiapaneconomica, che sta alla base del modello di società e di cultura dominante. Ilprincipio secondo il quale vale tutto ciò che è un grado di produrre, determina unacomprensione della vita e di ogni esperienza sulla base del suo valore economico.L’uomo stesso vale in quanto produttore o consumatore, chiaramente quantificabile intermini oggettivi. Le logiche dominanti saranno sempre più esclusivamente quelledell’utilità e dell’efficienza. Anche la comunicazione viene man mano ridotta a transazione economica. Lagestione dei mass-media infatti è soggetta a complessi processi di natura economica,che vengono gestiti da gruppi di potere secondo finalità precise. Emblematico il casodella pubblicità e tutto il settore specialistico che si è andato sviluppando al riguardo.

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L’obiettivo è infatti quello di persuadere, di suggestionare e di convincere l’uomo,considerato soltanto quale consumatore, ad adottare quei beni e servizi chedovrebbero rendergli la vita più comoda e piacevole. Di qui l’ampio utilizzo dellapsicologia del profondo non solo per vendere il prodotto, ma soprattutto per suscitarela predisposizione e la necessità sociale di non poter fare a meno di esso.Il difetto fondamentale della società di massa sta nell’esasperazione del consumo,inteso ormai in senso finalistico. Tale esasperazione determina l’integrazione degliindividui nei meccanismi del sistema e necessita quindi di ogni tipo di costrizione,mediante l’adozione di misure repressive. Si produce sempre più un progressivoallentamento delle capacità di reazione, trasformando la collettività in docilestrumento nelle mani dello “stratega” del consenso o del “demagogo”, i quali,utilizzando le conoscenze acquisite dalle leggi psicologiche e disponendo diformidabili mezzi tecnici, esercitano sull’insieme degli individui che compongono unpopolo, un’azione raffinata ed efficace.La situazione della società di massa può essere facilmente descritta come situazione dialienazione. Essa coincide, in ultima analisi, con la perdita, da parte dell’uomo, dellapropria identità soggettiva, cioè con un processo di accentuata decostruzione delsoggetto e, conseguentemente, con la messa in crisi della dinamica comunicativa. Lacomunicazione è infatti possibile solo sulla base di un’identità che differenzia e sidifferenzia dall’alterità, mentre la società di massa produce disgregazione sul pianooggettivo ed espropriazione sul piano soggettivo.

5. La nuova comunicazione

La mediazione di grandi strumenti artificiali, che operano su vasta scala, non accrescesoltanto la possibilità di diffusione quantitativa del messaggio, ma modificaprofondamente l’organizzazione stessa della comunicazione. Essa assume sempre piùl’aspetto di “struttura”, con le sue leggi e i suoi meccanismi determinati, tanto nelmomento dell’ideazione, quanto in quello della manipolazione e della distribuzione. È allora evidente che entra in gioco e svolge un ruolo determinante l’ideologia delgruppo di potere, che detiene la proprietà dello strumento. La trasmissione di idee odi fatti avviene, infatti, secondo una precisa interpretazione, funzionale agli interessidello stesso gruppo. L’ideologia costituisce la precomprensione attraverso la qualeviene filtrata la notizia lungo tutto il processo di elaborazione della trasmissione: dalmomento della ricerca di essa, alla sua elaborazione, fino alla distribuzione. Anche il ricevente non ha più una fisionomia precisa, ma assume la configurazione di“audience”, estremamente eterogenea nella sua stratificazione sociale, difficilmentecommensurabili, in situazioni molto diversificate e, cosa molto rilevante, lontana daogni possibilità di rapporto fisico con l’emittente. Si parla dunque di universoricevente, intendendo con ciò un insieme di persone e di gruppi con diversa capacitàricettiva e interpretativa.Rimane il discorso del feedback. A differenza di ciò che succede nella comunicazioneinterpersonale, nella comunicazione di massa, anzitutto si deve notare anzitutto che ilmessaggio di ritorno perde il suo carattere di immediatezza per l’impossibilità di un

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rapporto istantaneo con l’organizzazione di emissione. Essi viene allora sostituito conprocedimenti deduttivi quali gli indici di popolarità e di gradimento. L’emittentedesidera fortemente conoscere anzitutto la quantità di coloro ai quali è pervenuto ilmessaggio, ma ancor di più desidera sapere gli effetti precisi che un messaggio haprodotto sui suoi destinatari. Per ottenere questo si affida alle indagini demoscopiche,deducendo, sia in sede di decodifica che di interpretazione, i motivi per laconservazione o la modifica dei messaggi successivi.Gli studi sulla comunicazione umana condotti sul terreno delle grandi comunicazionidi massa, hanno già da tempo abbandonato l’analisi puramente linguistica, perdedicare maggiore attenzione agli strumenti stessi della comunicazione. Si è scopertoinfatti che il “mezzo” e il messaggio sono ormai diventati un unico concetto. Facendoun’analisi della specificità del linguaggio della televisione, ci si accorge dell’enormepotenzialità che esso assume, non soltanto a livello quantitativo, ma anche a livello diprofondità d’incisione, raggiunto grazie alle numerose tecniche di persuasionelargamente conosciute ed applicate. Si pensi ad esempio ad un fatto: il linguaggio dellatelevisione si configura come linguaggio totale, cioè investe totalmente le energie dellapersona.La tendenza all’identificazione con l’emittente, tendenza che in qualche misura èpresente in qualsiasi processo comunicativo, viene esasperata dalla televisione. Lafonte d’influenza è infatti interiorizzata facilmente e questo provoca nell’atteggiamentoindividuale un rigido conformismo. La cultura di massa diventa, di fatto, il luogo in cuil’uomo, che vive grosse esperienze di profonda alienazione, ricerca il momento dellaricomposizione e unificazione della propria identità: questo avviene attraverso unprocesso di identificazione tra il sistema simbolico individuale e l’universo simbolicocollettivo.Si deve aggiungere che un contributo determinante a corroborare tale effetto è datodalla naturale disposizione dell’individuo a modificare il proprio atteggiamentopsicologico quando si stabilisce un processo di interazione con la massa, e questo indirezione spesso più negativa che positiva. L’imitare gli altri o l’identificarsi con loro èin questi casi un processo naturale, determinato dal bisogno dell’uomo diriappropriazione della propria identità e dunque della propria sicurezza. Tutti questiprocessi gregari vengono per così dire potenziati al massimo dall’individuo e finisconoper agire come dei veri e propri riflessi condizionati.Un altro dato da non sottovalutare, su questo piano, è anche quello dell’autorevolezzadell’emittente, la quale concorre ad instaurare una sorta di inconscia sacralizzazione.Certamente un’informazione trasmessa da una fonte autorevole ha maggiori elementidi credibilità e di plausibilità. Il bisogno di far riferimento a luoghi e ruoli precisi eben determinati è innato nell’uomo, il quale tende a dare ad essi un riconoscimento diautorevolezza. Si creano in questo modo fenomeni di dipendenza allargata quantopiù il mezzo è potente ed ha un valore specifico, riconosciuto all’interno del contestosociale. Così la stessa notizia letta su un giornale o ascoltata attraverso la radio o latelevisione assume un diverso valore di opinabilità e di convincimento. Radio etelevisione “sacralizzano” l’informazione, al punto che la frase “l’ha detto la televisione”assume il significato di una definizione dogmatica.

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Infine non si deve sottovalutare la capacità dialettica sempre più perfezionataottenuta mediate l’uso appropriato dei codici di significazione. Il messaggio viene cosìconfezionato nei suoi elementi strutturali in modo da ottenere il grado più alto diefficacia, usando codici linguistici particolari e manipolando gli stessi daticonvenzionali in modo da ottenere l’effetto voluto.Un altro elemento da rilevare è che gli strumenti di comunicazione di massa portanocon sé una maggiore disponibilità a perseguire gli intenti di persuasione. ll rapportointerpersonale contiene già in sé questa disponibilità delle persone: io intendo portarel’altro ad introiettare una mia opinione. Questo desiderio si amplifica negli strumentidi massa, a motivo degli obiettivi ideologici e di potere o di interesse, che sono allabase della gestione di questi strumenti.La combinazione di questi obiettivi, fondamentali per il gestore, e la potenzialitàpropria degli strumenti, consente di ottenere risultati sconvolgenti, attraverso lacreazione di un vero e proprio universo simbolico a vasto spettro, che viene immessonelle coscienze mediante l’utilizzazione di tecniche capaci di far leva sugli impulsiimmediati e meccanici del soggetto umano. Una cosa specifica dei mass-media è quelladi trasformare una qualsiasi notizia in “spettacolo”, attraverso ingredienti linguistici etecnici dotati di un largo effetto persuasivo. Utilizzando una sapiente e preordinataprogrammazione ovvero un’opportuna scelta ed esaltazione di alcuni segni su altri,un’organizzazione di emittenza può intervenire a creare il cosiddetto “orientamento”dell’opinione pubblica. Può cioè predeterminare tutta una serie di elementi suggestivio di condizionamenti atti a far sì che i riceventi del messaggio, non solo al livello dellacodificazione, ma anche a quello dell’interpretazione, si comportino di conseguenza ein più, consapevolmente o no, assumano a loro volta la posizione di “media” di taleorientamento all’interno del proprio gruppo sociale. La cultura della civiltà industriale,modellata dai mass-media, si presenta così come un universo semantico povero erigidamente articolato secondo canoni fissi, ma sconosciuti alla maggioranza degli“utenti” e dunque fortemente efficaci.Tutto ciò diventa ancora più grave e preoccupante se si tiene conto della naturalefunzionalità della cultura di massa alla società di massa. L’industrializzazione èinfatti caratterizzata dalla produzione in serie, la quale a sua volta, per sussistere, habisogno della creazione di una mentalità che sia segnata da alcune forme di vita chesiano standardizzate. Soltanto così possono essere controllabili e prevedibili.Osservata la loro potenza persuasiva, poco alla volta gli strumenti della comunicazionesociale sono stati trasformati naturalmente, diventando così niente altro che i veicoliculturali di tale standardizzazione. Essi oggi, con il loro potere, determinanodinamiche di aggregazione e di solidarietà, attorno a determinati valori o pseudo-valori, che diventano così simboli collettivi, capaci di definire il ruolo degli individuiin rapporto alla società o alla cultura in cui sono inseriti, e perciò di favorire la lorointegrazione. Nasce di qui l’esigenza di sempre più intense e suggestive proposizionidi simboli attraverso i quali l’individuo tende a sublimarsi nel collettivo; nascesoprattutto di qui l’orientamento a far diventare il destinatario un “fruitore”, un“consumatore” culturale, in modo da condizionarlo, senza che se ne renda conto,attraverso l’influenza occulta dei messaggi impliciti, i quali creano degli stereotipi di

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conformità a modelli sociali rigidi e predeterminati.I media di massa agiscono quindi da “sostegni”, a livello industriale, di una struttura odi un sistema sociale più ampio che li comprende come sottosistemi di tiporafforzativo. In altre parole, i mass-media intervengono a condizionare l’opinionepubblica, ma nello stesso tempo sono condizionati a loro volta da un altro elemento:quello di essere, appunto, un sottosistema rafforzativo di quel determinato sistemadominante (economico, ideologico e politico) che manovra e struttura l’intero agiresociale.L’universalità della loro azione, dovuta alla sempre più ampia estensione quantitativadei recettori, e l’istantaneità con la quale trasmettono le informazioni sono ulteriorielementi che concorrono a moltiplicarne l’incidenza. La conseguenza è l’affermarsi progressivo di una sorta di omogeneizzazione o diomologazione culturale, con caratteri unidimensionali, che provoca non soltantoappiattimento, ma soprattutto incomunicabilità. Per capire bene e quindi affrontare un problema, noi dobbiamo inserirlo semprenell’orizzonte culturale complessivo della nostra società. Quando si parla del problemadella comunicazione interpersonale, si deve necessariamente notare come le relazionitra soggetti sono infatti largamente dipendenti dai modelli di comportamento e daglistandards esistenziali indotti dalla cultura dominante. È proprio a questi modelli chedobbiamo far risalire i disturbi che si verificano nei rapporti intersoggettivi esoprattutto da essi è necessario partire per risolvere alla radice situazioni di conflitto,che rischiano di avere conseguenze estremamente gravi in relazione allo sviluppo diuna convivenza umana pacifica. 6. La “verità” nella comunicazione: criteri di eticità

1) La verità moraleQuando oggi si parla della verità nell’ambito dell’eticità, ed in particolare nell’ambitodel discorso sulla comunicazione, è necessario elaborare questo concetto secondoprospettive più dinamiche. La verità della comunicazione può essere descritta secondocerte suoi precisi caratteri.

a) La relazionalità. Dicendo questo si intende sottolineare la necessità delsuperamento di una concezione puramente oggettiva della verità, la “verità in sé”, perfare invece spazio ad una concezione intersoggettiva e dialogica della stessa. Ènecessario ridefinire un concetto di verità che ci è stato mediato da una determinatacomprensione metafisica per integrarlo con le categorie soggettive e intersoggettive.Tutto ciò non significa assolutamente cadere nel relativismo soggettivistico, masemplicemente affermare che non può esistere moralità senza presupporre unsoggetto “umano”, e questo considerato sempre in relazione con gli altri. La verità èqui considerata come un evento che si costruisce soltanto in un rapporto vitale econcreto con l’altro, mediante la fusione, fin dove è possibile, dei rispettivi orizzonti dicomprensione del senso della realtà.

b) La storicità. La verità deve essere compresa come un valore dinamico che si

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sviluppa nella e attraverso la storia. Il processo di acquisizione della verità è infatti unprocesso in permanente divenire che suppone una maturazione graduale del soggettoumano e soprattutto suppone l’atteggiamento di possesso pacifico e il farsi strada nellacoscienza di un’attitudine improntata alla continua ricerca. La verità non è qualcosa dicui ci si appropria un giorno in modo definitivo, ma è qualcosa di cui si è sempresoltanto parzialmente investiti. Il dinamismo che la caratterizza è quello della storiastessa dell’uomo, colta in tutta la ricchezza del suo sviluppo interiore.

c) La bellezza. La dimensione estetica è forse la dimensione più profondadell’accesso alla verità della comunicazione. Essa ci consente di cogliere la dimensioneforse più profonda della verità e ci apre ad atteggiamenti di accoglienza e d’amore. Unaverità senza bellezza, che non attrae, perché ridotta a minuziosismo fanatico e formale,produce un comportamento esteriorizzante, sempre minato dalla tentazione delletteralismo farisaico.

2) La verità cristianaAnche la verità del cristianesimo deve essere verificata non secondo criteriprecostituiti dall’uomo, ma soltanto in base a ciò che la Rivelazione ha voluto chefosse. Emergono così caratteri assolutamente lineari con la verità morale sopradescritta. Ciò ci farà poi concludere che la verità cristiana è comprensibile soltanto inquanto verità pratica.

a) Verità personale. Il messaggio del Vangelo non può essere ridotto ad unsistema dottrinale, né tantomeno a un’ideologia. Il suo contenuto fondamentale èquello di una vera e propria esperienza: l’esperienza dell’incontro con la personastessa di Dio. La fede non è adesione mentale astratta a qualche verità formulata cheinterpreta il mondo, ma è accoglienza di una presenza. Soltanto questa presenzapersonale coinvolge interamente un soggetto e ci apre ad una comprensioneesistenziale della verità, verità che si raggiunge soltanto nel momento in cui è rivolta anoi una parola, alla quale si risponde più con un’accoglienza fiduciosa piuttosto checon un’asettica verifica razionale.

b) Verità storica. Decidendosi irrevocabilmente per l’incarnazione, Dio haaccettato il dinamismo della storicità. Ha deciso Dio di seguire passo per passo la leggedel divenire e della gradualità della conoscenza umana. Così interpretata la veritàcristiana si lascia scoprire poco alla volta, attraverso segni a noi presenti, memorie epromesse di futuro, e nello stesso tempo chiede di essere continuamentereinterpretata e attualizzata nel tempo e nei diversi contesti. Soltanto così potrannoessere colti i suoi significati esistenziali e operativi.

c) Verità simbolica. La comunicazione della verità non avviene come lacomunicazione di una scienza, fatto di operazioni e dimostrazioni. Il linguaggio dellarivelazione non vuole mai essere un linguaggio dimostrativo, ma sempre e soltantoesistenziale ed evocativo, cioè aperto all’interpretazione di un ricordo personale, di unaparola simbolica che rimanda ad altro, ad un altra dimensione, ad un’altra realtà piùprofonda dell’apparenza e più totale di qualsiasi realizzazione parziale. Il messaggiocristiano si apprende soltanto attraverso un’arte maieutica mai conclusa, un

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incitamento a qualcosa di sempre ulteriore, uno stimolo personale che sgorga comesorgente inesauribile. Tutta la dimensione liturgica-sacramentale è sempre assunzionee innesto di tutta la realtà umana nella dimensione della vita divina trinitaria.

3) La verità della comunicazione autenticaDetto questo ci poniamo la domanda morale: in che modo è possibile unacomunicazione autentica? quali sono i criteri e i presupposti morali che ci permettonodi riconoscere un comunicazione pienamente umana?

a) La veridicità. Quando si parla della verità, normalmente si tende adidentificarla con la verità del solo contenuto materiale del messaggio, del datodell’informazione. Una cosa è vera quando corrisponde alla realtà. Analizzando laverità della comunicazione da questo punto di vista si cade in un’analisi riduzionistica.Viene infatti a mancare l’analisi dell’atteggiamento soggettivo, cioè il grado dicoinvolgimento personale. Anche questa vericità soggettiva fa parte della verità. Laveridicità del soggetto consiste nella capacità di parlare di sé, l’essere coinvoltopersonalmente in ciò che viene detto. Per definire la verità si tratta anche di analizzareanche un’altra dimensione: la forza interpellativa, cioè l’attenzione costante acoinvolgere l’altro, nel tentativo sempre curato di raggiungere il suo mondo interiorenel rispetto della sua alterità. La combinazione di questi tre elementi sono il primocriterio da adottare per misurare la moralità di una comunicazione. La realizzazione diun equilibrio dinamico tra questi tre elementi A questo proposito le due tentazioni ricorrenti sono queste: l’impersonalità e lafunzionalità. La prima nasce dal far prevalere il ruolo, solitamente di autorità, che siesercita e da cui ci si sente investiti sulla realtà del proprio essere personale. Laseconda tentazione invece nasce dal concepire la comunicazione nei termini della purafinalizzazione al conseguimento di un obiettivo, cioè all’assimilazione di unadeterminata verità, piuttosto che farne un momento di crescita interpersonale, che sirealizza soltanto nell’approfondimento delle relazioni umane. Questi rischi sonoaccentuati nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa dove risulta connaturalel’esigenza di lasciarsi guidare dal ruolo che si esercita e di rendere funzionale ilmessaggio.

b) La dialogicità. La comunicazione autentica deve permettere che i dueinterlocutori abbiano la possibilità di porsi sullo stesso piano, superando i dislivelli dipotere e le diseguaglianze tra le persone. La comunicazione esige sempre che ilricevente possa diventare emittente e viceversa, che non ci sia mai soltanto travasounidirezionale, ma sempre arricchimento reciproco. La comunicazione unidirezionalesia a livello intersoggettivo, sia a livello della comunicazione di massa ha sempreconseguenze gravi per lo sviluppo della persona e dei rapporti umani. Un’emittenzachiusa e non dialogica, o che si maschera di falsa dialogicità, produce sempre di piùsolitudine e impoverimento. La persona che non è messa nella condizione dirispondere, di dare una parte di sé è una persona impoverita, perché povero non èsoltanto colui che non riceve, ma anche, e forse di più, colui che è messo nella

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condizione di non dare. Va ricordato anche che la comunicazione unidirezionalegenera sempre un atteggiamento di dipendenza e di passività sempre più alienante lapersona umana.

c) Il disinteresse. L’autenticità della comunicazione richiede l’esclusione diqualsiasi forma di manipolazione e di finalizzazione utilitaristica del messaggio. Daquesto punto di vista, può essere interessante una riflessione a parte sulla pubblicità. Èquesta una particolare struttura di comunicazione che di sua natura è orientata aservirsi del destinatario come semplice strumento di consumo. Pur non volendoesprimere un giudizio assoluto su questo sistema, si può anche tentare di affermareun’ipotesi etica da discutere: all’interno di un intero sistema economico- sociale comequello attuale, caratterizzato dalla logica sfrenata del consumo, difficilmente il sistemapubblicitario può essere compreso nelle categorie della plausibilità etica. Laddoveinfatti la società nel suo insieme è orientata, in quanto società di massa, ad alimentarela corsa ai consumi, inducendo artificialmente nelle coscienze nuovi bisogni, che sirivelano in larga misura come superflui e persino regressivi, appare difficile giustificareun sistema che è del tutto funzionale a questo obiettivo e che utilizza strumentalmentela conoscenza delle dinamiche psicologiche soggettive, facendo spesso leva suimeccanismi dell’istintualità e dell’inconscio, all’unico scopo di incrementare la venditadi prodotti commerciali. L’espansione del settore della pubblicità lascia trasparirefacilmente la stretta connessione che esiste tra società di massa, cultura di massa,strumenti di massa. Ovviamente il criterio del disinteresse deve essere applicato anche a più larghi ambitidella vita sociale dove diventa più facile, perché meno immediatamente avvertita, lastrumentalizzazione del soggetto umano. Adottare strumenti di persuasione occultaper orientare, condizionare, controllare l’opinione pubblica significa finalizzare lacomunicazione a interessi specifici di parte e dunque cosificare la persona e impedirela crescita di rapporti tra soggetti umani.

d) La criticità. È il dinamismo stesso della comunicazione autentica che stimolanel ricevente il senso del discernimento critico e che abilita ad un atteggiamento direazione creativa basato sulla sua specifica sensibilità. Tutto ciò sarà possibile quandola comunicazione si staccherà dalla finalizzazione alla persuasione e al convincimentoper essere sempre di più attenzione all’emancipazione della personalità dell’altro, allasua più autentica liberazione.

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VIII. VIII. L'INCONTRO DELLE CULTUREL'INCONTRO DELLE CULTURE

1. Cultura e teologia morale

Per molto tempo la cultura non é stata oggetto di attenzione teologica. Tale distanza eradeterminata dal fatto che si intendeva con questo concetto l'insieme delle conoscenzeche una persona possedeva. Grazie ai moderni studi dell'etnologia e dell'antropologiaculturale, tale definizione limitativa é stata superata. E secondo nuove accezioni, lacultura é diventata interessante anche per i diversi rami della teologia. I problemi che tale concetto solleva sono fondamentalmente quelli emersidall'incontro tra la fede cristiana e le diverse culture. L'accoglienza del messaggiocristiano può essere facilitato o reso difficile in base alle diverse forme diorganizzazione sociale che i vari gruppi umani sono andati costituendo nella lorostoria di diversificazione. In che modo mediare più facilmente il messaggio cristiano? ecome determinare regole morali che siano valide inderogabilmente per così diversigruppi? Alla base di tali problemi pratici teologico-morali, va riconosciuto il problema teoriconon meno grave del rapporto tra la natura dell'uomo e la sua evoluzione storica, cioètra l'elemento propriamente umano e la sua applicazione in un determinato ambitogeografico e sociale. Infatti lo stesso ed identico uomo capisce se stesso in mododinamico: riflessione, nuove esperienze, nuove condizioni e nuovi incontri facilitanouna comprensione di sé più approfondita e lo invitano a sempre più urgenticambiamenti dello stile di vita, sia personale sia del gruppo di appartenenza. È ilproblema attuale della teologia morale fondamentale che, da sempre incentrata su unaconcezione metafisica statica e immutabile della natura umana, é chiamata oggi a farei conti con l' immanente storicità della persona. 2. Il concetto

Se si vuole superare la definizione di cultura che il linguaggio corrente ha mediato, sipuò con successo tornare un attimo all'origine latina del termine: "colere" significa"coltivare" e può essere anche riferito a se stessi, indicando con ciò quell'attivitàattraverso la quale l'uomo coltiva se stesso, cioè si prende cura della propriarealizzazione. In questo senso va considerata come "coltivazione di sé" l'impegno dimigliorare tutte le attività attraverso le quali l'uomo si esprime: le sue qualitàintellettuali e artistiche o le sue capacità intuitive o deduttive, ma anche la personalecomprensione della realtà in cui vive e della verità del suo essere, assieme allacapacità originale che egli ha di comunicare in maniera trasparente ed efficace. A tale significato soggettivo del termine "cultura", corrisponde inevitabilmente unsignificato oggettivo, inteso come la capacità che l'uomo ha di oggettivizzare, direndere concrete, quelle capacità umane sopradescritte. Si perviene così a quel sistema

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complesso, a quel mondo simbolico che l'uomo sociale ha elaborato all'interno delgruppo di appartenenza: il linguaggio, l'arte, il pensiero concettuale... L'uomooggettivizza il suo mondo interiore, il suo rapporto con la natura e con gli altri, gliobiettivi e i significati del suo agire. In questo senso, la cultura comprende, secondo leaffermazioni di GS, "tutti quei mezzi con i quali l'uomo affina ed esplica le sue doti dianima e di corpo; si organizza per ridurre in suo potere il cosmo stesso con laconoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia che in tutta lasocietà civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine con l'andaredel tempo esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze edaspirazioni spirituali, affincé possano servire al progresso di molti, anzi, di tutti ilgenere umano" (GS 53).In ogni sua manifestazione esteriore l'uomo esprime ciò che ha capito di se stesso delsignificato della vita umana, sia personale sia nella dinamica del vivere insieme. Per undiscorso vero su un qualsiasi gruppo umano, é necessario procedere all'analisi di queisignificati e valori che sono stati condivisi nelle loro oggettivazioni simboliche- concettuali e interiorizzati, in modo più o meno consapevole, da tutti i membri delgruppo. Ogni gruppo sociale costrisce la propria identità a partire da tale esperienza di"coltivazione" personale condivisa.Si vede come diventa fondamentale in questo contesto l'idea della libertà intesa comecapacità di progettazione di sé verso le mete riconosciute come valorizzanti la propriaumanità. Così ogni gruppo umano organizza la propria attività non soltanto in basealle esigenze fisiche, ma anche, e di più, in base a quella sensibilità e a quei valori chein quel preciso momento storico e in quel determinato spazio geografico, avvertespontaneamente come inderogabili. Nasce di qui il carattere essenzialmente relativo,riferito cioè ad un situato gruppo umano, di ogni cultura e manifestazione culturale.

3. Gli elementi della cultura

Anzitutto una cultura deve essere considerata come composta di vari elementistrettamente collegati tra di loro in modo da poter far parlare di sé come una vera epropria "struttura": come un insieme organico di elementi che si tengono a vicenda enon sono comprensibili e definibili che attraverso la rete dei loro rapporti reciproci.Pensiamo ad esempio all'incomprensibilità di determinati gesti, forse altamentesignificativi agli appartenenti di un gruppo, ma completamente inaccessibili nel lorosignificato da parte di persone che appartengono ad un altro gruppo. Ogni elemento écomprensibile soltanto all'interno della sua struttura. Tale carattere di strutturalità non deve però indurre a pensare ad una astorica staticitàdi ogni cultura. Tale pregiudizio non tiene conto dell'intrinseca dimensione dinamicadella vita umana: l'uomo affina le proprie conoscenze e moltiplica le proprieesperienze nei confronti della realtà, per cui é in grado di evolvere verso ulterioriforme, verso dimensioni qualitativamente superiori, oppure, a causa della suafallibilità, anche regredire verso modelli inferiori .Gli elementi che costituiscono una dinamica struttura culturale sono le diverse formedi approccio alla quella realtà globale nella quale i membri vivono e con la quale

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interagiscono.Possono sintetizzarsi tre approcci fondamentali:

1) il primo approccio é quello operativo, che si comprende analizzando i mezzi egli strumenti tecnici di cui un gruppo dispone per dominare il mondo della natura;

2) un secondo approccio é quello con cui l'uomo si rivolge alla realtà sociale:cultura diventa così l'insieme delle strutture organizzative della convivenza umana edelle norme e principi che regolano i vari ambiti sociali della famiglia, dei gruppiintermedi e dello stato;

3) un ultimo approccio dell'uomo alla realtà é quello mentale o dei "significati";attraverso di esso l'uomo si crea una visione del mondo, interpreta la sua esistenza,dà un significato alla sua attività, alla gioia e al dolore, alla vita e alla morte. Taleapproccio alla realtà, tendenzialmente onnicomprensivo, aspira ad una sua assolutezza,ma rimane pur sempre prigioniero del carattere contingente e condizionato proprio diogni realtà umana.

È a questo terzo livello di approccio alla realtà che si situa l'attenzione morale deldiscorso sulla cultura. È al livello dell'immagine che l'uomo si fà di se stesso, del suoruolo nel mondo, della sua vocazione etica, del suo destino e delle sue speranze, che lateologia morale entra come partner attiva del dialogo interculturale. Discutere sullacultura diventa ultimamente un dialogo sull'uomo, antropologia.

4. Antropocentrismo culturale

Ogni visione dell'uomo che le varie culture elaborano, contiene in sé una aspirazioneverso l'assolutezza. Il principale problema cui si deve far fronte nell'analisi delle varieculture é proprio la tentazione antropocentrica, cioè la pretesa di fare della propriacultura il culmine di un'evoluzione umana, di cui ogni altra cultura rappresenta unostadio pregresso. La propria cultura diventa "la" cultura e il metro valutativo di ognialtra organizzazione umana. Nasce e si sviluppa così l'ideologia della discriminazionerazziale, ancora oggi operante sia a livello violento che di mentalità. Colui cheappartiene ad un altro gruppo, per il fatto che non riconosce schemi e modelli a noicomuni, é sempre visto come inferiore, come uno che non é ancora arrivato, ma cheprima o poi dovrà pervenire al nostro livello di conoscenze. Diventa così necessariaun'opera di trasmissione dei nostri valori, delle nostre regole, delle nostre buoneabitudini e maniere. Tale trasmissione, se non trova canali efficaci, deve allora essereimposta, non sempre con la forza della violenza, ma certamente con la forza del diritto,per la protezione e la salvaguardia del progresso acquisito. Non si può negare che untale benevolo modo di ragionare é stato operante per secoli a favore della culturamoderna occidentale.

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5. Rivelazione, teologia, cultura

Noi sappiamo che la Rivelazione di Dio é stata preparata progressivamente e poi si érealizzata nella sua definitività nella persona di Cristo. Questa Rivelazione però non é stata consegnata all'umanità come un pacchetto-regalo;necessita di essere compresa sempre più approfonditamente. Si tratta di attuare unacomprensione sempre maggiore della figura di Cristo e della sua missione. Una taleindagine del mistero cristiano non avviene solitamente come un'illuminazione, maattraverso dinamiche di comprensione umane. Ogni forma di indagine teologica é pur sempre sforzo della ragione umana che cercadi capire la fede. Ma ogni riflessione umana del dato rivelato si attua sempre in uncontesto culturale, é sempre culturalmente condizionata. Occorre perciò semprepurificare la riflessione teologica da quegli elementi caduchi provenienti da unacultura particolare. Esperienza, riflessione, dono di Grazia agiscono nel cuore del credente e sicompenetrano reciprocamente; é perciò necessario un costante rifacimento dellinguaggio teologico, una continua analisi per fare in modo che:

1) una comprensione parziale non sia riconosciuta come esaustiva del mistero;2) il linguaggio teologico sia comprensibile per persone di culture diverse;3) sia costantemente superata attraverso ulteriori risposte alle nuove domande.

La storia insegna che l'indagine teologica ha conosciuto momenti di crisi e momentidi rinascita, ma mai nessuno ne ha decretato la completezza. Per questo motivooccorre non nascondersi o giustificare apologeticamente certe posizioni teologichepassate, ma rendersi conto che alcune affermazioni sono state spesso sostenuta da unariflessione morale, detta teologica o cristiana o cattolica, come aventi una pretesa diuniversalità che effettivamente non avevano. Se si é assistito inconsapevolmente aduna strumentalizzazione culturale della rivelazione cristiana, é oggi necessariaun'opera di purificazione per non considerare la Parola di Dio figlia di una cultura,ma rivelazione, non incatenata in certi schemi mutevoli, ma dono della libera iniziativadi Dio. Gli uomini che hanno accolto la Parola non come parola di uomini, ma quale éveramente: Parola di Dio, devono lasciare ad essa la libertà di correre da un'estremitàall'altra della terra. Il Vangelo non si identifica con nessuna cultura.

6. L'evento storico della salvezza

La religione cristiana non può essere semplicemente equiparata ud un messaggio datrasmettere: pur presentandosi nella forma del lieto messaggio, esso non é unmessaggio tra i tanti, ma vive di una caratteristica peculiare: é messaggio di salvezza, éun messaggio che, accolto tramite la fede, salva. Nella sua essenza il Vangelo é il racconto della morte-resurrezione di Cristo. Ma ciòche ci salva non é la pura conoscenza di tali fatti , ma l'adesione personale ad una

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persona riconosciuta come Salvatore. L'evento di salvezza non é la conoscenza, ma lapersona stessa di Cristo, la manifestazione di Dio avvenuta nella storia. Tale evento éun evento storico, che si realizza in un preciso momento e in un determinato contestoculturale e geografico. Gesù Cristo, vero Dio, é un vero e singolare uomo, ebreo, figliodi ebrei. Ma é proprio tale singolarità e storicità che ci fa comprendere che la salvezzanon viene come qualcosa di aggiunto alla storia, ma dall'interno di essa. L'eventoCristo, proprio perché é unico e irripetibile, si presenta come pienezza di tutti imomenti storici, passati e futuri. Molte volte invece i discorsi sulla pluralità delle culture lasciano trasparire una formadi dualismo: si parla infatti della distinzione tra elementi universali, transculturali etrascendenti ogni realizzazione storica concreta, e gli elementi particolari mutevoli,determinati dalle trasformazioni storiche culturali. Il messaggio teologico cristiano, cheabbiamo già riconosciuto come risultato parziale di penetrazione intellettualeculturalmente situata dell'irriducibile ed unico evento Cristo, viene identificato contali elementi transculturali da trasmettere e far accettare tramite l'opera dievangelizzazione. Tale impostazione del problema dell'evangelizzazione é dimentica delfatto che lo stesso evento della Rivelazione é un evento storico, situato in una culturaparticolare. Questo non toglie nulla alla sua validità salvifica universale, ma ne éanzi il fondamento.Questo fatto deve consentirci di ripensare liberamente alla salvezza, non comequalcosa calato dall'alto, ma come qualcosa che sprigiona dalla storia, comematurazione della storia, gestazione millenaria giunta, nella pienezza dei tempi, allapienezza dell'autenticità.

7. L'evangelizzazione

Sottolineando il fatto che la salvezza non si esaurisce nella pura e semplice conoscenzateorica dei fatti, bisogna ricordare anche che nell'opera di evangelizzazione non éimportante il puro e semplice far conoscere, ma il fatto stesso di evangelizzare.Questo non significa in nessun modo che il contenuto sia indifferente o chequalunque modo di spiegare l'evento sia accettabile, ma semplicemente significariconoscere che la spiegazione dottrinale e teologica dell'evento non esauriscecompletamente l'evento che si vuole annunciare. Il missionario evangelizzapuramente perché ama colui che un giorno gli ha detto: “va’!” Tanto più che Gesù nonha garantito alcun successo umano.