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1 Incontro di studio sul tema: Questioni in tema di responsabilità degli amministratori di società Roma 15-17 ottobre 2012 Responsabilità degli amministratori di S.P.A. : questioni processuali e sostanziali connesse all’esercizio dell’azione della società e dei creditori sociali a cura di Alessandra Dal Moro -Giudice del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di impresa-B-

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Incontro di studio sul tema: Questioni in tema di responsabilità degli amministratori di società

Roma 15-17 ottobre 2012

Responsabilità degli amministratori di S.P.A. : questioni processuali e sostanziali connesse all’esercizio dell’azione della società e dei creditori sociali

a cura di Alessandra Dal Moro -Giudice del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di impresa-B-

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INDICE 1. I principi generali in senso sostanziale che regolano la responsabilità degli amministratori ..........................................................................................................................3 2. Questioni sostanziali rilevanti ............................................................................................4 a) L’amministratore di fatto................................................................................................4 b) Gli organi di gestione collegiali e il potere di delega …...............................................6

b.1) le funzioni non delegabili .................................................................................7 b.2) il conflitto di interessi. ......................................................................................8 b.3) solidarietà e diritto di regresso........................................................................9

c) Il potere dell’assemblea di autorizzare il compimento di atti amministrativi............9 3. Il dovere di agire nel rispetto della legge e dello statuto e di perseguire con diligenza l’interesse sociale.....................................................................................................................11 4. Le azioni volte a far valere la responsabilità degli amministratori................................13 4. a) L’azione sociale di responsabilità ............................................................................14 4. b) Le questioni processuali relative all’esercizio dell’azione sociale........................14

1.) azione sociale esercitata dalla società..............................................................15 2.) L’azione sociale esercitata da una minoranza qualificata art. 2393 bis c.c..16 5. l'Azione dei creditori sociali (art. 2394 c.c.) e quella dei soci e de terzi ( art. 2395 c.c.) ..................................................................................................................................................21 6. La specifica azione di creditori e soci ex art. 2497 c.c. Cenni ......................................23 7. La legittimazione all'esercizio delle azioni di responsabilità in caso di fallimento di spa (art. 2394 bis c.c.).............................................................................................................24 8. Le questioni problematiche più ricorrenti nel caso di esercizio dell'azione di responsabilità nelle procedure concorsuali...........................................................................25 8.a) L’onere di allegazione della parte che agisce per la responsabilità degli amministratori...........................................................................................................................25 8.b) L'allegazione della natura illecita della condotta: in particolare la prosecuzione

dell'attività sociale dopo la verifica di una causa di scioglimento............................26 8.c) L' onere di individuare e provare i fatti fonte di danno...................................29 8.d) La contestazione del ritardo nella dichiarazione dello stato di insolvenza............30 8.e) La prova del danno.................................................................................................31 8.f) Criteri di liquidazione del danno..............................................................................33 1) il criterio c.d. della differenza attivo /passivo fallimentare............................33 2) la differenza dei netti patrimoniali (c.d. perdita incrementale)..........................33 9. Il controllo giudiziale sulla gestione ex art. 2409 c.c........................................................34 9. a) Aspetti processuali problematici...............................................................................36

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1. I principi generali in senso sostanziale che regolano la responsabilità degli amministratori. La responsabilità, secondo quanto dispone l’art. 1218 c.c., è l’obbligazione di risarcire il danno prodotto dall’inadempimento o dall’inesatto adempimento di una preesistente obbligazione, che non derivino dall’impossibilità della prestazione non imputabile al debitore. La responsabilità degli amministratori delle società di capitali riguarda i danni che costituiscono le conseguenze (immediate e dirette) dell’inadempimento delle obbligazioni che nascono dal rapporto che gli amministratori intrattengono con le società stesse. Dette conseguenze possono essere molteplici e prodursi a scapito di patrimoni diversi, sicchè la responsabilità degli amministratori può articolarsi in:

responsabilità verso la società (art 2393, 2393 bis c.c.)

responsabilità verso i creditori sociali ( 2394 c.c.)

responsabilità verso i soci e i terzi ( 2395 c.c.)

responsabilità verso la società, i creditori sociali, i soci i terzi ( artt. 2485 2486 c.c.) *

Secondo l'art.2380 bis c.c. (Amministrazione della società) “la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale” (come stabilisce il 2409 novies c.c per il sistema dualistico e il 2409 septiesdecies per il sistema monistico). Tali operazioni riguardano, in sintesi, il funzionamento dell’organizzazione societaria e la gestione della relativa impresa: il funzionamento dell’organizzazione riguarda tutte le attività con cui gli

amministratori sono chiamati a dare impulso (tramite la convocazione) all’attività degli altri organi sociali ed in particolare dell’assemblea (es. art. 2446 e 2447 c.c.), a provvedere agli adempimenti pubblicitari prescritti (iscrizione delle delibere nel registro delle imprese) a provvedere alla regolare tenuta dei libri contabili e alla redazione del bilancio d’esercizio ( 2423 cc.);

la gestione dell’impresa consiste in una serie di atti materiali ( l’organizzazione in senso stretto dell’azienda, la scelta della sua collocazione, la elaborazione dei programmi economici e dei piani industriali ) e giuridici ( i contratti) necessari per porre l’impresa in condizione di realizzare l’oggetto sociale1 disponendo dei fattori della produzione in regime di sicurezza e legalità 2.

Alla generale ed esclusiva competenza degli amministratori per la gestione fanno eccezione solo i casi in cui la legge attribuisce all’assemblea la competenza a deliberare su determinati atti: es.la proposizione, rinuncia o transazione dell’azione di responsabilità (2393c.c.); le domande di amministrazione controllata, concordato preventivo e concordato fallimentare ( artt. 152, 161,187 l.f.); le decisioni circa la distribuzione degli utili, l’aumento o la riduzione del capitale.

1 per approfondimenti cfr.F.Bonelli, Gli amministratori di s.p.a, pag. 15 2 cfr. Salafia, Profili di responsabilità degli amministratori di società di capitali, in Soc., 2005, 1333

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In altri casi (es. acquisto azioni proprie o della controllante) gli atti dell’amministratore vanno autorizzati dall’assemblea. In tutti questi casi l’iniziativa (convocazione assemblea) e l’esecuzione della decisione assembleare restano comunque riservate esclusivamente agli amministratori. Essi si possono avvalere di collaboratori per molti aspetti della gestione (anche per intere aree dell’attività aziendale, come avviene per i direttori generali) ma mantengono sempre il potere di direzione e di coordinamento nonché quello di revocare la delega ed avocare il compimento di determinate operazioni. Dal potere di gestione resta distinto il potere di rappresentanza (potere di manifestare all’esterno la volontà della società e di obbligarla verso i terzi); esso è generale, ed impegna comunque la società verso i terzi (a prescindere da limitazioni statutarie o volontarie), salvo il dolo di questi ( art. 2384 comma 2° c.c.). Nei rapporti interni l’atto che travalica i limiti del potere di gestione (oggetto sociale) o i limiti della rappresentanza, può comportare la revoca, la responsabilità per danni, il rischio di denuncia ex art. 2409 c.c.3 I poteri di gestione e rappresentanza possono essere affidati allo stesso soggetto (è il caso dell’A.U o dell’A.D. cui si conferito anche il potere di rappresentanza) oppure al Presidente del CdA e a uno o più AD singolarmente o congiuntamente.

* Quanto al modo in cui gli amministratori devono assolvere a questo compito esclusivo l’art. 2392 c.c. stabilisce che “gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o funzioni in concreto attribuite ad uno più amministratori ”.

* 2. Questioni sostanziali rilevanti Le norme richiamate permettono di richiamare l'attenzione su tre questioni di natura sostanziale assai rilevanti in questa materia: a) il valore dell'investitura formale e le conseguenze dell'assunzione di funzioni gestorie di fatto; b) l’incidenza sul regime di responsabilità solidale della delega interna al CdA dei poteri di gestione; c) la titolarità esclusiva del potere gestorio in capo agli amministratori e l'incidenza sulla responsabilità degli amministratori dell’eventuale autorizzazione assembleare;

* a) L’amministratore di fatto.

La responsabilità connessa al ruolo di Amministratore si determina per effetto della nomina da parte dell’organo competente e della successiva accettazione di tale nomina da parte del soggetto designato, che perciò assume l’impegno di adempiere a tutti gli obblighi connessi

3 cfr F.Bonelli, op. cit. pag. 80

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alla carica e di svolgere la funzione gestoria con la diligenza professionale richiesta dalla natura dell’incarico. Si tratta, quale che sia la configurazione che ad esso si voglia dare (mandato, contratto di amministrazione, rapporto di immedesimazione organica) di rapporto di natura contrattuale. Pertanto non ha alcun rilievo agli effetti di escludere la responsabilità per i danni derivanti da “mala gestio” invocare la natura solo formale della nomina, o il fatto di aver agito eseguendo istruzioni di terzi; ben potendo ciò costituire, piuttosto, un aspetto della negligente esecuzione del contratto mandato. Se, quindi, l’inerzia o la supina esecuzione di altrui direttive non può costituire il presupposto della liberazione di chi aveva un obbligo formale ex lege di adempiere agli specifici obblighi connessi alla titolarità della carica, verso la società, i soci e i terzi, la circostanza potrebbe rilevare agli effetti della responsabilità di colui che ha assunto funzioni gestorie “di fatto” pur in mancanza di una formale investitura di poteri . E' consolidato l’orientamento giurisprudenziale per cui “le norme che disciplinano l’attività degli amministratori di una società di capitali dettate al fine di consentire un corretto svolgimento dell’amministrazione della società, sono applicabili non solo ai soggetti immessi nelle forme stabilite dalla legge nelle funzioni amministrative, ma anche a coloro che si siano di fatto ingeriti nella gestione della società pur in assenza di qualsivoglia investitura, sia pur irregolare o implicita, da parte dell’assemblea” ( Corte d’Appello di Milano 26.9.2000 in Giur.Comm. pag 562 II); sicchè i responsabili della violazione di dette norme vanno individuati “con riguardo al contenuto delle funzioni concretamente esercitate” (Cass. 6 marzo 1999 n. 1925; conforme Cass 14.settembre 1999 n. 9795). Si tratta di un orientamento frutto della sentenza di legittimità da ultimo citata, che ha modificato il precedente consolidato orientamento che riteneva presupposto necessario per la sussistenza di una responsabilità contrattuale ex art. 2392 – 2394 c.c. un atto, anche implicito, di investitura da parte degli organi sociali preposti, per il quale l’extraneus finiva per sottrarsi alla responsabilità in sede civile degli amministratori avvalendosi del difetto di investitura; o al più, poteva essere chiamato eventualmente a risponderne ex art. 2043 c.c.; poiché, tuttavia, anche in quest’ultima prospettiva interpretativa risultava evidente che l’individuazione del presupposto dell’illiceità della condotta andava ricondotta alla violazione dei doveri cui è tenuto per legge chi amministra una società, la giurisprudenza di legittimità ha infine affermato che è il fatto stesso della gestione, l’esercizio concreto delle funzioni amministrative a costituire la fonte dell’obbligo per “l’amministratore di fatto” di agire nel rispetto dei doveri previsti per “l’amministratore di diritto” (in questo senso le due pronunce di Cassazione citate). Pertanto colui che di fatto si è ingerito nella gestione come se fosse l’amministratore, risponde per il fatto stesso di aver amministrato e gestito la società secondo le norme che regolano la responsabilità degli amministratori a prescindere da qualunque tipo di previa investitura formale. L’abbandono del requisito formale della invocata responsabilità per il fatto dell’aver amministrato, non esonera chi la invoca dall’onere di allegare e provare i presupposti della stessa. Ed anche sotto questo profilo la giurisprudenza ha individuato indici per definire quale comportamento possa integrare, in concreto, a prescindere da investiture formali, l’esercizio dei poteri tipici dell’amministrazione. Escluso che un singolo atto possa essere sufficiente, o che possa bastare la considerazioni di alcuni atti eterogenei, si ritiene che sia necessario:

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l’esercizio di un’attività di amministrazione intesa come un insieme di atti coordinati sul piano funzionale dalla unicità dello scopo;

che si tratti comunque di atti “tipici”, ovvero di atti giustificati dal potere di iniziativa proprio di chi governa una società in vista del suo funzionamento (es. convocazione assemblea), di atti diretti a conseguire l’oggetto sociale (le iniziative assimilabili alla funzione imprenditoriale di indirizzo e di coordinamento dei fattori della produzione), o ancora di atti di esecuzione delle delibere assembleari;

che detta attività sia svolta senza subordinazione, e quantomeno sul piano di un rapporto paritario di cooperazione – se non di superiorità - con il soggetto investito formalmente dei poteri amministrativi, la cui inerzia, per converso, può rappresentare obbiettivo risconto dell’effettività della titolarità di un potere gestionale di fatto.

(“cfr. Tribunale Milano10.3.2007 relativa al fallimento del ristorante “ da Giannino”: “il Collegio ritiene che nella specie la procedura fallimentare abbia offerto elementi di prova idonei a dimostrare che l’attività che il dott. N. ha prestato per la società Giannino tra il dicembre 2000 e il maggio 2001, non sia affatto ascrivibile alla tipica attività di consulenza notarile, bensì rappresenti per la pluralità, la sistematicità, il coordinamento funzionale complessivo e la natura stessa degli atti esercitati, indice sicuro del suo effettivo esercizio della funzione gestoria, in via del tutto autonoma ed anzi sovraordinata rispetto a colei che nello stesso periodo risulta fosse investita formalmente dell’incarico di A.U.” cfr. Cass. 12.3.2008 n. 6719, che ritiene “sufficiente l’accertamento dell’avvenuto inserimento nella gestione dell’impresa desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società”).

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b) Gli organi di gestione collegiali e il potere di delega In caso lo statuto preveda una pluralità di amministratori, questi costituiscono il CdA, che, se lo statuto o una decisione dell’assemblea lo consentono, può delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo o ad uno o più dei sui membri (art. 2381 2° c.c.) determinando il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega (per es. se potranno agire disgiuntamente o solo congiuntamente ed in questo caso se la decisione collegiale potrà essere assunta a maggioranza o dovrà riscuotere l’unanimità dei consensi) . Il ricorso alla delega rende necessaria la predisposizione di un sistema che garantisca un flusso costante di informazioni, onde il CdA possa sempre valutare “sulla base delle informazioni ricevute” “l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società” (art. 2381 3° c.c.), predisposto dagli organi delegati, e questi possano assolvere al dovere di riferire almeno ogni sei mesi sull’andamento generale della gestione e la sua prevedibile evoluzione, e, comunque, sulle operazioni più importanti per dimensioni o caratteristiche. I delegati devono, altresì, informare e relazionare al CdA circa i piani strategici, industriali e finanziari. Tali flussi informativi costituiscono il presupposto di un corretto e diligente adempimento dei compiti di gestione affidati, di natura “operativa” quanto agli organi delegati, di natura “valutativa” quanto agli altri componenti del CdA. Pertanto se è stata eliminato il generale “dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione” che il precedente secondo comma dell’art. 2392 c.c. riferiva agli amministratori

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sempre e “in ogni caso” 4, quindi anche in presenza di deleghe, resta un dovere anche per i consiglieri deleganti (c.d. non esecutivi) di agire informandosi, ovvero non di vigilare sempre e comunque, ma di assumere le decisioni rimesse alla propria competenza in modo informato e consapevole; e soprattutto sussiste il dovere per ciascun amministratore, comunque, di fare quanto in suo potere per impedire il compimento di fatti pregiudizievoli di cui sia venuto a conoscenza o di eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. In mancanza di un sistema adeguato, che garantisca cioè completezza e sistematicità dei flussi informativi, i consiglieri, anche non delegati, in quanto tenuti a valutare “l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società”, potrebbero rispondere dei danni arrecati alla società per le carenze che si saranno eventualmente manifestate nelle analisi e nelle valutazioni effettuate5;

(cfr sent. Trib. Milano nel caso Allianz. sent. n. 12954 del 27.10 2011: il caso riguardava l’azione di responsabilità proposta da una compagnia di assicurazioni nei confronti dell’ex AD e DG per aver, in tesi, negligentemente omesso di creare le condizioni organizzative “per potersi avvedere immediatamente, della rischiosità insita nel sistema di incentivazione” e per aver omesso “di attivarsi immediatamente per risolvere la questione …quando la situazione ha cominciato a manifestarsi” ove il Tribunale ha effettuato una lunga e complessa analisi della struttura aziendale e del suo concreto funzionamento anche alla luce di risultanze istruttorie per poter esprimersi in proposito, concludendo nel senso che “Fermo il fatto che un Amministratore Delegato o un Direttore Generale possono essere chiamati a rispondere di una carente organizzazione del sistema di controllo aziendale, ma non dell’errore (e tanto meno della disonestà) eventualmente imputabile ai soggetti che ne sono parte, si deve concludere che i sistemi di controllo c’erano, né v’erano ragioni allora perché apparissero inadeguati o insufficienti; non appena, taluni si mostrarono inadeguati vennero sostituiti o integrati”

* b.1) le funzioni non delegabili L'art. 2381 comma 4 c.c. individua un’area di funzioni non delegabili (-2420 bis e ter c.c.: facoltà di emettere obbligazioni convertibili delegata dall’assemblea; 2423 c.c.: predisposizione del progetto di bilancio; - 2443 c.c.: delibera di aumento del capitale sociale; - 2446 e 2447 c.c.: delibere in materia di riduzione del capitale per perdite; - 2501 ter e 2506 bis: predisposizione dei progetti di fusione e scissione). In relazione a tutti questi atti ed a quelli connessi sono ugualmente responsabili gli amministratori deleganti come quelli delegati.

4 Relazione al d.lgs. n. 6 del 2003, § 6, III, n.4.: “… l’eliminazione dal precedente comma 2 dell’art. 2392 c.c. dell’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, sostituita da obblighi specifici ben individuati (vedi in particolare gli artt. 2381 e 2391) tende, pur conservando la responsabilità solidale, ad evitare sue indebite estensioni che, soprattutto nell’esperienza delle azioni esperite da procedure concorsuali, finiva per trasformarla in una responsabilità sostanzialmente oggettiva, allontanando le persone più consapevoli dall’accettare o mantenere incarichi in società o in situazioni in cui il rischio di una procedura concorsuale le esponeva a responsabilità praticamente inevitabili. 5 si pensi al tipico caso in cui non sia stata sufficientemente tempestiva la valutazione riguardante l’avvenuta perdita del capitale sociale e quindi l’ intervento imposto ex art 2446 e 2447 c.c. per una carente informazione contabile e finanziaria

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Ne deriva che, con riferimento agli atti concernenti non la "gestione" bensì il funzionamento dell’amministrazione e le condizioni di operatività aziendale, i consiglieri non esecutivi sono gravati di un onere di verifica ed accertamento della loro legittimità parametrato, ex art. 2392 comma 1, sulla base della “natura dell’incarico” e delle loro “specifiche competenze”, non diversificabile da quello dei delegati In altre parole tutti gli amministratori, siano esecutivi o no, devono comunque garantire che la società operi in presenza del capitale sociale minimo previsto dalla legge poichè non sono delegabili le funzioni concernenti il dovere di convocazione dell’assemblea quando il capitale sia ridotto per perdite di oltre un terzo (art. 2446 c.c.) o si sia ridotto al disotto del minimo legale (art. 2447). Queste osservazioni appaiono particolarmente rilevanti con riferimento alle ipotesi di responsabilità ex artt. 2485, 2486 c.c. (v. infra), poiché gli amministratori deleganti non potranno esimersi dalla responsabilità per i danni provocati dalla prosecuzione dell’attività di impresa e non conservativa dopo la perdita del capitale sociale allegando di non avere potuto rendersi conto della situazione economica e patrimoniale della società, o della scorrettezza o illegittimità o falsità delle poste di bilancio a mezzo delle quali sia stata occultata la perdita del capitale che essi avrebbero potuto/dovuto rilevare.

Nel caso in cui l’AD abbia abilmente occultato risultati di esercizio negativi (es. capitalizzazione di costi ingenti relativi a progetti industriali generici e fumosi; valorizzazione di partecipazioni che non tengono conto di perdite durevoli, valorizzazione ingiustificata del magazzino, omessa svalutazioni di crediti di fatto inesigibili) gli altri consiglieri dovranno dimostrare la non imputabilità dell'omesso intervento ex art.2447 c.c. ovvero che la situazione era tale che non avrebbe consentito ad un amministratore dotato della diligenza professionale richiesta dalla carica di percepire le falsità presenti nei dati contabili presentati e tradotti nei prospetti di bilancio, nè di avvertire criticità e difetti informativi tali da imporre la richiesta di spiegazioni aggiuntive.

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b.2) il conflitto di interessi. Per assicurare il corretto funzionamento dei consigli di amministrazione l’art. 2391 c.c. (innovando rispetto al precedente regime) impone ai Consiglieri di comunicare agli altri e al Collegio sindacale l’esistenza di interessi per conto proprio o di terzi, anche non conflittuali con quelli della società, sulla deliberazione che dovrà essere assunta (comunicazione che dovrà essere puntuale e concreta e riguardare “la natura, i termini, l’origine e la portata” dell’interesse). L’Amministratore Delegato che abbia un interesse nell’operazione, inoltre, deve astenersi dall’operazione stessa e riferire al CdA che dovrà deliberare motivando adeguatamente sulle ragioni e la convenienza per la società dell’operazione. In caso di Amministratore Unico questi deve astenersi e deve anche darne notizia alla prima Assemblea utile. In caso di violazione, la delibera assunta con il voto determinante del consigliere interessato può essere impugnata quando possa arrecare danno alla società, anche dal collegio sindacale. In caso di decadenza dal diritto di impugnare la delibera (per il dissenziente o anche il consenziente quando il consigliere interessato non abbia rispettato la procedura informativa) il rimedio è l’azione di responsabilità contro l’amministratore nell’ipotesi in cui l’atto ha cagionato danno alla società; l’amministratore risponde anche dei danni che

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alla società siano derivati dalla utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati notizie o opportunità di affari appresi nell’esercizio del suo incarico. Possono essere considerati atti in conflitto di interesse, ad esempio, le operazioni concluse con corrispettivi incongrui perché l’amministratore ha conseguito altri vantaggi (ex una “tangente”), le operazioni vantaggiose che l’amministratore sfrutti in proprio, le operazioni societarie infragruppo compiute a favore della controllante o di altre società del gruppo con danno della società amministrata.

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b.3) solidarietà e diritto di regresso: la solidarietà degli amministratori (e dei sindaci) per fatto dannoso loro imputabile è regolata oltre che ex art. 2392 c.c., dagli artt. 1294 e 2055 c.c.; agli effetti del regresso ciò significa che ogni coobbligato è tenuto a rispondere nei rapporti interni in misura proporzionale alla gravità della colpa o all’entità del danno causato per effetto di questa; la misura si presume uguale in mancanza di una prova diversa; e’ ammessa la domanda per l’accertamento del diritto di regresso e per l’accertamento dell’entità della propria quota di responsabilità; la domanda di condanna del condebitore, invece, presuppone che chi agisce abbia pagato il creditore oltre la sua quota (salva la possibilità di chiedere una condanna in “manleva” o condizioanta).

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c) Il potere dell’assemblea di autorizzare il compimento di atti amministrativi. Lo statuto può attribuire all’assemblea il potere di autorizzare uno o più atti della gestione dell’impresa; l’autorizzazione assembleare lascia, però, liberi gli amministratori di non compiere l’operazione autorizzata, in quanto essi ne rispondono comunque, come chiarisce l’art. 2364 n. 5 c.c.; ciò impedisce loro di rivolgersi all’assemblea per scaricare sulla società la responsabilità delle operazioni più impegnative, e fa si che l’efficacia delle delibere assembleari assunte sulla base di specifiche previsioni statutarie abbia esclusivamente il valore di un’autorizzazione (volta a rimuovere i limiti all’esercizio di un potere gestorio degli amministratori) e non di una decisone gestoria vincolante e, perciò, liberatoria per gli amministratori. Né la maggioranza assembleare per il solo fatto di aver autorizzato un certo atto, “rinuncia” a promuovere l’azione di responsabilità per l’atto gestorio autorizzato che si sia dimostrato dannoso, poiché l’assemblea, comunque, rimette la scelta finale nelle mani e nella responsabilità dell’organo amministrativo, affidandosi al suo prudente e qualificato giudizio ex art. 2932.; del resto va ricordato che ogni rinuncia all'esercizio dell'azione sociale deve essere "espressa" (art. 2393 6° c.c.) e non può essere “preventiva”. Va, inoltre, sottolineato che gli amministratori non sono tenuti ad eseguire le delibere che riguardino le materie riservate all’assemblea quando queste siano nulle (prive di efficacia) e neppure quando queste siano annullabili ma non ancora sospese ex art. 2378 c.c. se possano arrecare danno alla società, poiché essi sono tenuti ex art. 2932 sempre a perseguire l’interesse sociale e a fare quanto in loro potere per evitare il compimento di fatti pregiudizievoli.

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l’ordinamento anteriore alla riforma prevedeva, all’art. 2364 n. 4 c.c., la possibilità che l’assemblea dei soci potesse deliberare su determinati oggetti attinenti alla gestione sociale riservati alla sua competenza dall’atto costitutivo o sottoposti al suo esame dagli amministratori; questo regime normativo aveva indotto parte della giurisprudenza e della dottrina ad escludere la responsabilità degli amministratori per i danni arrecati alla società dall’esecuzione di siffatte deliberazioni assembleari di contenuto gestorio, sulla base del rilievo che il consenso prestato dai soci non potesse che liberarli – sia pure soltanto nei confronti della società - nonostante che essi fossero gli autori materiali degli atti gestori dannosi; e ciò perché – secondo l’argomento utilizzato anche dalla giurisprudenza – in presenza di una deliberazione dell’assemblea si riteneva che gli amministratori non potessero prendere altra decisione che quella di darvi esecuzione;

già nel vigore della precedente disciplina, tuttavia, sussisteva un orientamento contrario alla lettura delle norme sopra illustrata, che già sottolineava il fatto che l’esecuzione di quelle delibere assembleari restava opera esclusiva degli amministratori i quali erano legati alla società da un rapporto contrattuale in ragione del quale avevano assunto ex lege l’obbligazione di agire con diligenza, la quale certamente comportava l’attenzione a non compiere atti dannosi per la società;

proprio per evitare gli abusi che l’orientamento interpretativo che s’è riferito aveva spesso favorito (gli stessi amministratori promuovevano la deliberazione assembleare in vista dell’impunità che - sia pure nei soli confronti della sola società- che gliene sarebbe derivata rispetto agli eventuali effetti dannosi) il legislatore della riforma ha chiarito che la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale (art. 2380 bis c.c.), e che quand’anche l’assemblea dia le autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, resta in ogni caso ferma la responsabilità di questi per gli atti compiuti, che essi sono tenuti a valutare “in proprio” agli effetti della inerenza all’oggetto sociale e la conformità all’interesse sociale, per un obbligo di diligente gestione assunto verso la società che si ritiene non disponibile da parte dell’assemblea ( tanto meno quando l’atto deciso dall’assemblea fosse con evidenza tale da arrecare pregiudizio non solo alla società –in quanto idoneo a incidere il patrimonio solo in termini di mancato guadagno - ma anche ai creditori e ai terzi, in quanto atto a minare l’integrità del patrimonio sociale in misura tale da comprometterne anche la sua funzione di garanzia);

(cfr. Trib. Milano n. 11657 3.10.2011 nel caso Italsette; il caso: “il 6.11.1991 l’assemblea totalitaria della società I. deliberò – al di fuori dell’ambito dell’oggetto sociale – la concessione di ipoteca in garanzia a terzi su beni immobili sociali (addirittura costituenti l’intero patrimonio della società), senza alcun corrispettivo o altro vantaggio corrispondente comunque ad un interesse della società datrice; e ciò in ragione della modifica dello statuto sociale decisa pochi mesi prima in data 19.6.1991, per cui spettavano solo all’assemblea i poteri di deliberare in materia di straordinaria amministrazione; la stessa cronologia della vicenda evidenziava come, in vista dell’assunzione di una atto di gestione straordinario certamente privo di interesse per la società e tale da pregiudicare l’intero suo patrimonio immobiliare, fosse stata predisposta una modifica statutaria atta a porre formalmente il potere di decidere l’atto nelle mani dell’assemblea, costituita dall’unico socio S., di cui il convenuto amministratore C. era socio e A.U.; ciò, con tutta evidenza, affinché il Consiglio di Amministrazione potesse invocare l’esonero dalla responsabilità per l’esecuzione dell’atto gestorio predetto, già evidentemente individuato all’epoca perché necessario a sostituire la garanzia ottenuta da Cantrobanca su titoli indisponibili della società F”; nel caso citato sottoposto al vigore del precedente normativa, il Collegio ha ritenuto che " così come la delibera assembleare in materia gestoria assunta da maggioranze contingenti non poteva (come non può) costituire atto idoneo ad esonerare, ex ante, gli amministratori dall’obbligo di osservare i doveri che ex lege derivano loro dal contratto sociale e a liberarli dalla responsabilità per i danni che l’esecuzione della stessa avesse arrecato, così in essa non poteva (né può) legittimamente ravvisarsi una rinuncia (implicita) all’azione di responsabilità volta ad ottenere il risarcimento del danno, poiché detta rinuncia, già nel sistema previgente, doveva essere espressa (ovvero chiaramente riferita al diritto di credito maturato del quale si intendeva disporre rinunciando all’azione diretta alla sua tutela) onde consentire - in evidente aderenza alla ratio della disciplina sistematica di un ente collettivo tenuto alla trasparenza correttezza e compiutezza dell’informazione patrimoniale e finanziaria – una rappresentazione corretta e completa della situazione patrimoniale della società certamente incisa da una decisone di rinuncia all’azione di responsabilità contro un atto gestorio che abbia cagionato un danno”

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3. Il dovere di agire nel rispetto della legge e dello statuto e di perseguire con diligenza l’interesse sociale. Alle obbligazioni che derivano dalla legge e dallo statuto gli amministratori devono adempiere “con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze” (art 2392 c.c.). Si tratta di un parametro di diligenza ancorato ad un dato oggettivo (la natura dell’incarico) ed ad un dato soggettivo (le specifiche competenze) che elevano la soglia della condotta esigibile rispetto all’originario richiamo alla diligenza media del mandatario la quale prescinde dalle capacità soggettive del debitore; tuttavia la portata innovativa della norma si ridimensiona se si tiene conto delle giurisprudenza ante riforma, che - già nel vigore della precedente disciplina, in conformità alle interpretazioni della dottrina - riteneva che gli amministratori di società non erano tenuti semplicemente alla normale diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176, primo comma, c.c. ) ma, in conformità a quanto previsto dal secondo comma della 1176 c.c. ("Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata "), alla diligenza che utilizzerebbe un amministratore normalmente diligente nelle medesime circostanze, in relazione alla particolare natura dell'attività prestata6. Il che non significa - come è stato osservato7 richiamando anche la relazione alla legge delega - che gli amministratori debbano necessariamente essere "periti" in contabilità, in materia finanziaria e in ogni settore della gestione e dell’amministrazione dell’impresa sociale, ma significa che le loro scelte devono essere informate e meditate, basate sulle conoscenze tecniche richieste di volta in volta, e non di irresponsabile o negligente improvvisazione. Nel caso in cui il debitore (amministratore) non sia fornito delle capacità e competenze richieste dalla natura dell'incarico, secondo l'opinione prevalente, ciò non determina una responsabilità di natura precontrattuale (limitata all'interesse c.d. negativo) bensì una responsabilità contrattuale: l'inettitudine iniziale implica un inadempimento del contratto imputabile al debitore, che conosceva o avrebbe dovuto prevedere con un normale sforzo di diligenza la propria inadeguatezza ed incapacità.8 Sicchè coloro che siano privi di particolari cognizioni tecniche e professionali avranno il dovere di rivolgersi a consulenti o esperti anche esterni alla società. Posto, peraltro, che la società deve essere amministrata diligentemente, con le cognizioni tecniche e professionali che sono richieste nel caso concreto (la diligenza ha, invero, una funzione delimitativa dell'area dei comportamenti adempienti, di ciò che deve ritenersi nel singolo caso concreto esatto adempimento alla prestazione dovuta, secondo i canoni di buona fede che impongono di tener conto dell'interesse del creditore9) al giudizio di responsabilità non potrà sottrarsi colui che, privo di specifiche competenze tecniche, abbia fatto ragionevole

6 Cass. 24.8.2004 n. 16707; 7 cfr Dalmotto, Il nuovo diritto societario Bologna 1994, sub art. 2932 c.c 8 in questo senso è orientata la Cassazione: cfr sent. 4 aprile 1998,n. 3483 "la mancata acquisizione di queste regole fondamentali da parte di un amministratore prima di assumere la relativa carica costituisce.... violazione del dovere di diligenza che su lui grava". 9 La Cassazione rinviene nel "dovere di prendersi cura dell'interesse di colui... Che ha incaricato il gestore dell'amministrazione delle proprie attività" l'espressione del fondamentale dovere di correttezza e buona fede (oggettiva). Casse 24 agosto 2004 n. 16707.

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affidamento sulle opinioni pareri espressi dall'amministratore fornito di queste capacità (o se del caso da un consulente esterno): il modello di riferimento rimane, cioè, il medesimo, anche se ciò non esclude che si potrà determinare in concreto una differente distribuzione della responsabilità degli amministratori; sicchè il possesso di specifiche competenze potrebbe determinare un maggior rigore del giudizio di responsabilità e quindi nella valutazione la colpa 10.

* Si tratta, comunque, di valutazioni impegnative e delicate perché l'esercizio dell'attività d'impresa richiede spesso decisioni caratterizzate da alto tasso di incertezza; peraltro nel valutare la fondatezza di una domanda di responsabilità per negligenza nella gestione il Tribunale deve limitarsi sempre ad un giudizio di legittimità e, quindi, non può sindacare la correttezza, la convenienza e l’opportunità delle scelte compiute dall’amministratore nell’esercizio del suo ufficio, sostituendo ex post il proprio apprezzamento a quello espresso dall’amministratore (c.d. business judgement rule), ma solo valutare il modo in cui l’amministratore è giunto a determinate scelte, onde “è solo l’eventuale omissione, da parte dell’amministratore di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere che può configurare la violazione dell’obbligo di adempire con diligenza il mandato di amministrazione e, può, quindi, generare una responsabilità contrattuale dell’amministratore verso la società”( Cass. 28.4.1997 n. 3652). Nella valutazione della responsabilità degli amministratori devono entrare in gioco fattori oggettivi quali le dimensioni dell’impresa sociale, l’articolazione organizzativa, il settore di attività in cui si esplica l’attività economica funzionale al conseguimento dell’oggetto sociale, in modo che il giudizio sulla diligenza tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto e degli effetti delle scelte compiute nel più ampio contesto della politica gestionale. Casi esemplificativi della complessità della decisione: 1. Tribunale Milano18.9.2008 nel caso "Bennet"/Ciceri; il caso : si trattava di esaminare il profilo di illegittimità della condotta degli amministratori per non essersi astenuti dal dare corso ad una operazione che, pur condivisa validamente dalla maggioranza del capitale, palesava, in tesi, la sua contrarietà all’interesse sociale; gli attori avevano censurato il fatto che l’assemblea dei soci non avesse valutato adeguatamente l’interesse sociale a dismettere la porzione del ben immobile ceduta anche in considerazione del pregiudizio che, a loro dire, sarebbe derivato al resto del compendio immobiliare, la possibilità di ricavare un prezzo maggiore dalla sua vendita, dato il suo valore di mercato, grazie alle offerte migliorative pervenute da altro socio, la possibilità di indurre una gara tra gli offerenti per far rialzare il prezzo, la fretta irragionevole con cui tutta l’operazione sarebbe stata decisa ed attuata; il Tribunale ha respinto la domanda con un articolata valutazione delle risultanze documentali, nonchè dei tempi e delle modalità con cui è stata esaminata la proposta del socio Immobiliare Bennet: "Dai verbali delle riunioni del CdA ...emerge che tutti i molteplici risvolti della situazione erano noti agli amministratori e ai soci che ne hanno discusso prima di convenire sulla congruità delle proposte di acquisto pervenute. Gli amministratori che hanno portato a termine la vendita, hanno ritenuto conveniente ed opportuno vendere alla Bennet (prelazionaria) anche la porzione di Ipermercato che questa conduceva in affitto dopo averla completata ed implementata, poiché ciò rinsaldava la posizione dell’Ipermercato stesso, attribuito ad un’unica proprietà, a garanzia della continuità del suo funzionamento, ragione essenziale del successo ed anche della sopravvivenza del resto del centro commerciale, considerato beneficiare della forza attrattiva della sua funzione e della sua insegna... in occasione della valutazione della proposta di acquisto della porzione immobiliare della società, il rischio di perdita dell’Ipermercato Bennet e dell’autorizzazione unitaria ad esso appartenente, con le

10 cfr in questo senso A.Tina "L'esonero da responsabilità degli amministratori di spa" Giuffrè, 2008, pag.36

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conseguenze sulla rimanente proprietà immobiliare non dotata né dotabile di propria autorizzazione, è stato idoneamente considerato e ritenuto non accettabile, nell’ambito di una valutazione propria e non sindacabile dell’organo assembleare e gestorio".... "anche se il CTU incaricato nella diversa causa di impugnazione della delibera, non ha ritenuto che la particolare natura e collocazione della porzione oggetto di vendita ed i vincoli autorizzativi su esso gravanti a favore di Bennet potessero influenzare la valutazione di mercato del bene, ( ed anche a prescindere dalle circostanziate critiche tecniche che a siffatta stima sono state rivolte in atti) ciò non significa che detti elementi non dovessero, invece, contare nella valutazione della convenienza più complessiva dell’operazione nella prospettiva di gestione del rischio d’impresa compiuta dagli amministratori. Come hanno evidenziato i convenuti, peraltro, né il costo storico ( che non comprende gli ammortamenti di legge ) nè l’ipotetico valore di mercato rappresentano un’idonea dimostrazione del danno che sarebbe derivato alla società dalla scelta gestoria, tanto più che nessuna concreta offerta di acquisto al presunto prezzo di mercato ( e neppure ad un prezzo a quello vicino ) è mai pervenuta alla società (le proposte alternative erano invero superiori di sole 250.000 euro rispetto a quella dell’Immobiliare Bennet benché non assistite dalle stesse garanzie )."

--------- 2. Trib. Milano sent. 8765 13.7.2012 nel caso Fallimento Confezioni Capucci, ove la curatela ha dedotto che lo stato di insolvenza e, comunque, la perdita del capitale sin dal primo esercizio, sarebbero da attribuire alla negligente ideazione e realizzazione dell' operazione di acquisto del marchio "Capucci", che avrebbe condizionato - sin dalla fase di start up - l'esito dell'iniziativa imprenditoriale intrapresa impedendone il decollo; ha in particolare contestato la ragionevolezza dell'operazione di acquisto del marchio (che riguarda la società fallita in quanto finanziatrice dell’operazione stessa) non per chiedere il ristoro del danno specifico in ipotesi derivato dalla pattuizione relativa alla risoluzione del contratto (rinuncia della controllata ottenere la restituzione del prezzo versato, e correlata perdita per Capucci Corporation della possibilità di ottenere la restituzione del finanziamento erogato alla stessa); bensì ha inteso dedurre l’erroneità della rappresentazione che della stessa era stata fornita nel bilancio al 31.12.2002 e l’insostenibilità ex ante dell’attività intrapresa. Il Tribunale ha ritenuto non sussistessero ragioni per considerare irragionevole il corrispettivo convenuto dalla controllata per la cessione del ramo aziendale e dei Marchi, e, quindi, la valorizzazione dell’attivo di Capucci Corporation corrispondente all’incremento di valore della partecipazione nella controllata determinato dall’apporto funzionale alla predetta acquisizione. Ha poi rilevato che la questione della pattuizione del diritto del cedente, in caso di risoluzione del contratto di cessione per inadempimento dell'acquirente di trattenere l'ingente acconto sul prezzo frattanto versato era a) una condotta dei convenuti quali amministratori della controllata e non della fallita; b) non era dedotto un titolo di responsabilità dei convenuti in proposito quali amministratori di Capucci Corporation ex art. 2497c.c.; c) la curatela non aveva chiesto il danno specifico derivante dalla predetta decisione gestionale, avendo anzi ottenuto autorizzazione dal G.D. per promuovere, quale socio della controllata, azione sociale ex art. 2476 c.c. contro gli amministratori e contro i soci di minoranza (Capucci). Particolari valutazioni implica poi il sindacato di legittimità della condotta nel caso di perdita del capitale e, quindi, delle condizioni di continuità aziendale ( v. infra, par. 8).

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4. Le azioni volte a far valere la responsabilità degli amministratori. La responsabilità degli amministratori per violazione dei doveri derivanti dalla legge e dallo statuto può essere fatta valere con una pluralità di azioni rimesse di volta in volta a soggetti diversi in ragione delle diverse conseguenze che le violazioni contestate hanno prodotto: essi invero sono responsabili verso la società per i danni arrecati al patrimonio sociale anche in termini di lucro cessante (ex art. 2392 c.c.), verso i creditori sociali per i danni arrecati all’integrità del patrimonio sociale che hanno il dovere di conservare quale garanzia generica delle obbligazioni della società ( ex art. 2394 c.c.), verso i soci o i terzi individualmente per i danni direttamente arrecati al loro patrimonio (ex art. 2395 c.c.) verso i soci, la società, i creditori sociali e i terzi per i danni derivanti dal ritardo od omissione nell’accertamento della causa di scioglimento in termini di pregiudizio all’integrità e al valore del patrimonio sociale in caso di liquidazione ( ex art. 2485 e 2486 c.c.).

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4. a) L’azione sociale di responsabilità Gli amministratori – cui sono equiparati i direttori generali a determinate condizioni - rispondono ex art. 2392 c.c. per l’inadempimento dei doveri loro imposti dalla legge o dall’atto costitutivo che abbia cagionato, in via immediata e diretta, un danno alla società. L’azione sociale mira a reintegrare il patrimonio sociale anche in termini di mancato guadagno; infatti gli amministratori sono tenuti nei confronti della società non solo ad evitare che si producano perdite patrimoniali, ma - diversamente da quanto prescritto dall'art. 2394 c.c., che menziona solo la "conservazione dell'integrità del patrimonio sociale" hanno anche il dovere di provvedere affinché la società consegua lo scopo per cui si è costituita e, quindi, di realizzare un lucro, onde rispondono anche quando il loro comportamento ha provocato non una diminuzione del patrimonio sociale ma un mancato guadagno. Si tratta di uno strumento che non ha avuto larga applicazione al di fuori delle ipotesi legate al controllo giudiziario ex art. 2409 c.c. (v. infra par.9) e alla crisi di impresa, e ciò perché gli amministratori sono di norma espressione della maggioranza che difficilmente autorizzerà l’azione sociale di responsabilità. Sicchè in pratica essa viene promossa nei casi in cui cambia il socio o il gruppo di controllo e, quindi, muta anche l’organo di gestione, (con le ulteriori complicazioni legate, nei casi in cui il mutamento del controllo è legato a cessione di partecipazioni, alle clausole dei contratti di cessione di partecipazione in cui i nuovi soci si impegnano a non esercitare l’azione nei confronti degli organi di gestione – amministratore sindaci – uscenti), e molto frequentemente nei casi di dichiarazione di fallimento della società, ipotesi nella quale il curatore fallimentare agisce in forza dell’art. 146 l.f. ( per ulteriori approfondimenti dello specifico tema v.infra par 8). Con la riforma il legislatore ha introdotto anche per le società chiuse (per le quotate già la prevedeva l’art. 129 del TUF ) l’azione sociale di minoranza ex art. 2393 bis c.c. (v.infra)

Gli elementi costitutivi imprescindibili di siffatta responsabilità sono rappresentati da “condotta illecita”, “danno” e “ nesso di causalità tra condotta e danno”. La natura contrattuale della responsabilità invocata fa si che spetti all’attore allegare e provare i fatti costitutivi della domanda, ovvero i comportamenti dolosamente o colposamente inadempienti ad obblighi di legge o di statuto (nel caso di allegazione dell’inadempimento di un obbligo generico quale quello della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico, i comportamenti concreti conformi all’obbligo stesso che erano dovuti e sarebbero stati omessi11, nonchè il nesso di causalità tra questi ed il danno che si assume abbiano generato, che deve essere limitato alle conseguenze immediate e dirette dell’illecito ex art. 1223 c.c., e mantenersi nei limiti della prevedibilità quando non imputabile a dolo, ex art. 1225 c.c. Spetta invece ai convenuti provare di essere esenti da colpa ( art. 1218 c.c.), ovvero che i fatti dannosi (eventualmente accertati) si sono verificati per ragioni che non hanno a che vedere con comportamenti o omissioni loro imputabili.

4. b) Le questioni processuali relative all’esercizio dell’azione sociale:

11 cfr. Cass 17.1.2007 n.1045)

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L’azione sociale può essere esercitata dalla società o dai soci che rappresentino una percentuale qualificata del capitale sociale. 1.) azione sociale esercitata dalla società

l’azione deve essere promossa a seguito di delibera dell’assemblea anche se la società è

in liquidazione; la delibera assembleare è un presupposto processuale da verificarsi anche d’ufficio dal giudice, che è sufficiente che sussista al momento della pronuncia che definisce il giudizio12; l’assemblea deve essere convocata dagli amministratori; in caso di inerzia di costoro o del collegio sindacale, i soci che rappresentino 1/10 del capitale sociale o la minor percentuale prevista dallo statuto possono ricorre al Tribunale ex art. 2367 c.c.; la decisione, può essere presa in occasione della discussione del bilancio anche se non è indicata nell’elenco delle materie da trattare “quando si tratta di fatti di competenza dell’esercizio cui si riferisce il bilancio”, (art. 2393 2° comma c.c.);

l’azione può essere deliberata anche dal collegio sindacale (con maggioranza dei 2/3); l’azione può essere esercitata “entro 5 anni dalla cessazione dell’amministratore dalla

carica”; circa la natura del termine (di prescrizione o di decadenza) la formulazione della norma lascia un ampio margine di opinabilità: a) per taluni si tratta di un termine di prescrizione, sia in ragione della lunghezza - inusuale per una decadenza e coincidente con il termine di cui all’art. 2949 c.1 c.c.- sia in ragione del fatto che con questa espressa formulazione la riforma avrebbe recepito all’interno della disciplina societaria la regola di cui all’art. 2941 n.7 c.c. (che prevede la sospensione del termine in costanza di rapporto13); del resto valendo anche in materia il principio generale per cui la prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui il diritto può essere esercitato e costituendo il danno un elemento della fattispecie produttiva del diritto al risarcimento (la società non può agire sinchè il danno non si è prodotto) l’azione sociale si dovrebbe prescrive nei cinque anni dalla cessazione della carica o dal successivo momento in cui il danno si è prodotto ed esteriorizzato; ciò, purchè gli amministratori non abbiano celato o concorso a celare il pregiudizio prodotto, nel qual caso la prescrizione è sospesa (art. 2941 n. 8 c.c.) sino a quando non sia scoperto il dolo; in ogni caso deve ritenersi applicabile il maggior termine di prescrizione decennale per i fatti che, ai sensi degli artt. 216 -223 l.f., costituiscono reato; b) per altri14 si tratta, invece, di un termine di decadenza, sia perché riguarda l’esercizio dell’azione sia poiché diversamente non si comprenderebbe il senso della previsione proprio in ragione della norma che già prevede la sospensione della prescrizione del diritto

12 Cass., sez. I, 10.9.2007, n. 18939. 13 quanto all’azione di responsabilità verso i sindaci: “In tema di prescrizione dell'azione di responsabilità degli amministratori, dei sindaci e dei direttori generali di società di capitali, l'art. 2941 n. 7 c.c., che stabilisce la sospensione del decorso della prescrizione finchè gli amministratori sono in carica, non si applica ai sindaci e ai direttori generali, trattandosi di previsione normativa di carattere eccezionale e tassativo” (Cass. 13765/2007). 14 Dalmotto op.cit.

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sino a cessazione della carica (l’indicazione della decorrenza di un termine di prescrizione a partire dalla cessazione della carica sarebbe una duplicazione ridondante); secondo questa opzione interpretativa, se il danno si verifica prima della cessazione degli amministratori dalla carica il termine di prescrizione dell’azione di risarcimento (5 anni dal verificarsi del danno ex art. 2935 e 2949 1° comma c.c.) sarà “congelato” per tutta la durata dell’incarico; dalla cessazione della carica la società avrà un tempo di 5 anni per esercitare l’azione, ma trattandosi di un termine di decadenza esso non sarà soggetto né a sospensione né a interruzione (e che non potrà prolungarsi neppure nel caso in cui i fatti siano previsti dalla legge come reato); si tratta di opzione interpretativa che si presta a dubbi di costituzionalità a fronte dell’ipotesi in cui il danno si verificasse dopo 5 anni dalla cessazione della carica, quando, stante la intervenuta decadenza, diventerebbe irrilevante anche la norma di cui all’art. 2935 c.c. per la quale cui il termine di prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui il diritto può essere fatto valere, momento da identificarsi in quello in cui il danno si è verificato, integrando la fattispecie risarcitoria, prima insussistente: un soggetto non potrebbe agire per la tutela di un diritto che è sorto dopo la decadenza dell’azione che lo dovrebbe sorreggere; in concreto, il problema è di scarsa rilevanza perché riguarda solo l’esercizio dell’azione sociale, e non condiziona, perciò, la possibilità di far valere la responsabilità degli amministratori ex art. 2394 c.c., e, quindi, non costituisce ostacolo all’esercizio dell’azione di responsabilità nelle procedure concorsuali (ove è più alto il rischio di prescrizione per il lungo intervallo di tempo che generalmente trascorre tra i fatti e l'esercizio dell'azione) poichè il curatore esercita unitariamente ex art. 146 l.f. l’azione sociale e quella dei creditori sociali.

la delibera comporta la revoca dell’amministratore in carica se adottata con una

maggioranza che corrisponde almeno al 20 % del capitale sociale (1/5); se l’azione è diretta contro l’amministratore in carica, e la delibera non è stata assunta con una maggioranza tale da comportarne la revoca automatica, la società, stante il conflitto di interessi con colui che la rappresenta (art 78 c.p.c.), dovrà costituirsi per mezzo di un curatore speciale nominato con la procedura di cui agli art. 79 e 80 c.p.c., eventualmente su impulso del giudice ex art. 182 c.p.c.;

2.) L’azione sociale esercitata da una minoranza qualificata dei soci art. 2393 bis c.c.

la disciplina dell’azione è volta a contemperare due diverse esigenze: da un lato garantire l’effettività della responsabilità degli amministratori che con le loro decisioni gestorie abbiano cagionato danno alla società (rendendo indipendente la promozione dell’azione dalla delibera assembleare, condizionata negativamente dalla possibilità che la maggioranza che esprime gli amministratori li chiami a rispondere); dall’altro, impedire azioni di responsabilità meramente ricattatorie o di disturbo;

i quorum sono: 1/5 (20%) del capitale per le società chiuse; 1/20 (5%) per le società quotate; lo statuto può prevedere quorum diversi: nelle società chiuse possono essere inferiori al 5° ma non maggiori del 3° del capitale; nella società quotate è possibile che lo statuto stabilisca solo quorum inferiori ma non superiori; secondo l’opinione prevalente, attenendo alla legittimazione ad agire e, quindi, costituendo una condizione dell’azione, i quorum predetti devono sussistere al momento della proposizione della domanda e persistere sino alla pronuncia della sentenza; tuttavia v’è chi sottolinea che a differenza di quanto espressamente previsto dall’art. 2378 c.c. 2° comma ( “qualora nel corso del processo venga meno a seguito di trasferimenti per atto tra vivi il richiesto numero delle azioni il giudice non può pronunciare l’annullamento

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della delibera e provvede sul risarcimento dell’eventuale danno ove richiesto” come prevede l’art. 2377 4° c.c.) il legislatore qui non ha precisato nulla, onde “ a contrario” si dovrebbe ritenere che non sia necessaria la permanenza della condizione di legittimazione; si può, però osservare che la precisazione contenuta nell’art. 2377 può essere intesa come esclusivamente funzionale a prevedere il risarcimento del danno per il caso in cui, venendo meno le condizioni dell’azione di impugnazione (5% del capitale), la delibera fonte di danno non possa essere rimossa;

l’azione proposta dalla minoranza può essere oggetto di rinuncia o di transazione da

parte della società, salvo che vi si opponga una percentuale di capitale sociale pari a quella necessaria a promuovere l’azione ( il che appare coerente con la tesi che reputa che il venir meno del quorum necessario alla preposizione impedisca la pronuncia così come non potrebbe impedire la rinuncia o la transazione dell’azione); la giurisprudenza ritiene nulli gli accordi con cui i soci si impegnano a non esercitare l'azione di

responsabilità nei confronti del socio amministratore uscente 15;

mentre sembra assumere una posizione differente con riguardo alla "clausola di manleva" (talvolta

presente nei contratti di cessione di quote) con cui le parti non eliminano formalmente la responsabilità

degli amministratori ma trasferiscono l'onere risarcitorio a questo connesso su un altro soggetto: il terzo

solleva il debitore (l'amministratore) da ogni onere risarcitorio nei confronti del creditore, pertanto

l'obbligazione del debitore ed il corrispondente diritto del creditore ad essere risarcito dal soggetto

responsabile dei danni subiti, rimangono inalterati; anche qualora l'acquirente di una partecipazione

societaria si impegni a mantenere indenni gli amministratori da possibili azioni di responsabilità promossa

dai creditori o dagli organi concorsuali ex artt.2394 e 2394 bis c.c. l'effetto prodotto dall'accordo è solo

quello di trasferire sull'acquirente (o sui soci che aderiscono all'accordo stesso) l'onere risarcitorio connesso

all'azione di responsabilità che fosse esercitata nei confronti degli amministratori;

in ogni caso la rinuncia all’azione deve essere espressa ( art. 2393 comma 5° c.c.), non può perciò ritenersi implicita in deliberazioni di altro contenuto quale la delibera di approvazione del bilancio, che, come chiarisce l’art. 2343 c.c., non comporta liberazione degli amministratori, nè dei direttori generali e sindaci per le responsabilità in cui incorrono nella gestione dell’incarico; la necessità di una rinuncia espressa fa ritenere vieppiù che essa possa considerarsi valida ed efficace solo se sufficientemente specifica, tanto che è consolidata in dottrina e giurisprudenza l’opinione per cui la generica delibera di “manleva” per l’attività svolta dagli amministratori, eventualmente rilasciata dall’assemblea al momento della cessazione del mandato, non ha lacuna efficacia.

diversamente da quanto previsto dall’art. 129 2°del TUF ove solo la società può transigere

l’azione dei soci di minoranza, anche la minoranza dei soci che ha agito può rinunciare all’azione o transigerla ma in tal caso ogni corrispettivo deve andare a vantaggio della

15 Cass.n. 10215 del 28.4.201: "Il patto parasociale che impegna i soci a votare in assemblea contro l'eventuale proposta di intraprendere l'azione di responsabilità sociale nei confronti degli amministratori, non è contrario all'ordine pubblico, ma agli art. 2392 e 2393 cod. civ., i quali non pongono principi aventi tale carattere, ma sono norme imperative inderogabili, con conseguente nullità del patto, in quanto avente oggetto (la prestazione inerente alla non votazione dell'azione di responsabilità) o motivi comuni illeciti (perché la clausola mira a far prevalere l'interesse di singoli soci che, per regolamentare i propri rapporti, si sono accordati a detrimento dell'interesse generale della società al promovimento della detta azione, dal cui esito positivo avrebbe potuto ricavare benefici economici)"

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società (detratte le spese di giudizio) dal momento che ciò di cui i soci “ dispongono” è in sede transattivi è un diritto della società (2393 bis 6° c.c.); ciò non esclude, però, che vi possano essere transazioni collaterali “non ufficiali” di cui i soci di minoranza beneficiano personalmente;

effetti delle transazioni sui condebitori solidali:

a seguito di transazione parziale, la domanda deve ritenersi ridotta in ragione delle quote di responsabilità definite: secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale “il primo comma dell'art. 1304 cod. civ. nel disciplinare gli effetti della transazione intervenuta fra il creditore ed uno dei condebitori solidali, si riferisce alla transazione concernente l'intero debito (solidale), mentre quando l'oggetto del negozio transattivo sia limitato alla quota interna del debitore solidale stipulante, si riduce l'intero debito dell'importo corrispondente alla quota transatta con il conseguente scioglimento del vincolo solidale fra lo stipulante e gli altri condebitori” 16; pertanto nelle ipotesi più frequenti ove la transazione è frutto di accordo tra la curatela e taluno dei convenuti, il debito solidale deve ritenersi ridotto dell’importo corrispondente alla quota transatta dai condebitori solidali, quota che, ex art. 1298 c.c., in mancanza di diverse dichiarazioni delle parti in seno all’accordo e di risultanze di causa diverse, si deve presumere uguale a quella del condebitore destinatario della domanda di condanna; sarà onere di chi reputa che la transazione abbia riguardato l’intero con conseguente estinzione anche della propria posizione debitoria parziale, dedurlo e provarlo.

le spese giudiziali in caso di accoglimento della domanda saranno rimborsate dalla

società (anche quelle poste a carico del soccombente che però i soci non abbiano potuto recuperare)

per opinione maggioritaria non si tratta di azione surrogatoria (il socio in quanto tale non è

creditore della società in ipotesi inerte) ma del tutto autonoma, frutto di legittimazione concorrente rispetto a quella della società: il che significa che può essere esercitata anche nel caso in cui la stessa società abbia promosso a sua volta l’azione sociale tutte le volte che i soci intendano far valere la responsabilità per fatti diversi da quelli allegati nell’azione esercitata su delibera dell’assemblea o la responsabilità di amministratori diversi ed ulteriori rispetto a quelli convenuti con l’azione sociale (i soci peraltro potrebbero intervenire nel processo promosso dalla società in virtù di intervento adesivo autonomo, se propongono domande nuove, o intervento adesivo dipendente se sostengono le ragioni allegate dalla società );

i soci agiscono quali sostituti processuali della società ( ex art. 81 c.p.c.) e quest’ultima

è litisconsorte necessaria, infatti deve essere chiamata in giudizio; qualora sia omessa la citazione della società il giudice dovrà disporre l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 102 c.p.c. ;

16) Cass., n. 16050 del 2009; Cass., n. 9369 del 2009; Cass., n. 14550 del 2009; Cass. n. 7485 del 27.3.2007; Cass. n. 8946 del 2006; Cass., n. 3086 del 1997; Trib. Milano, sez. VIII civile, 1.9.2010, in Le Società, 2010, 1398.

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“l’atto di citazione è notificato anche in persona del presidente del collegio sindacale”; si discute sul significato di “anche”, che potrebbe alludere alla necessità di una doppia notifica oppure (nella accezione concessiva) alla sufficienza di quella eseguita in confronto dell’organo di controllo che ha comunque la rappresentanza della società, e che, quindi, consentirebbe di evitare il problema che si pone ogniqualvolta si tratta di citare la società in persona del suo legale rappresentante che ben potrebbe essere l’amministratore in carica nei confronti del quale l’azione di responsabilità è diretta;

la questione fa emerger il problema processuale del conflitto di interessi ex art. 78

comma 2° c.p.c. tra rappresentata (la società) e rappresentante (amministratore) di cui si contesta la mala gestio: se detto conflitto si manifesta pacificamente tutte le volte in cui la società decide di costituirsi in giudizio, deve ritenersi si ponga anche per la mera notifica dell’atto? è, cioè, necessaria la nomina di un curatore speciale che riceva la notifica dell’atto di citazione? secondo un’opinione ( seguita dal Tribunale di Milano) solo se la società si costituisce in giudizio serve la nomina del curatore speciale; detta nomina invece non serve per la notifica della citazione: a) perché l’amministratore in carica, riceve la notifica dell’atto in qualità di rappresentante legale e non ha alcun potere di decidere se costituirsi o meno in giudizio per la società, essendo questa - come detto - una decisione che spetta all’assemblea 17(egli deve riferire in assemblea in adempimento dei suoi doveri nell’interesse della società amministrata, pena il fatto di incorrere in irregolarità gestoria); b) perché la norma stessa prevede la possibilità di notificare al collegio sindacale che, in quanto organo della società, non è "altro" rispetto ad essa, ed, invero, tanto i suo atti quanto i loro effetti vanno imputati all’ente; tanto è vero che è potere del collegio sindacale decidere il promovimento dell’azione sociale di responsabilità al pari dell’assemblea, né è in alcun modo previsto che in seguito a dette iniziative la società debba ricevere una notifica;

(cfr sul tema Tribunale di Milano nel caso Agrati s.a.p.a relativo ad un procedimento ex art. 2409 c.c. ove il legislatore della riforma, ha stabilito che il ricorso debba essere notificato anche alla società; in detto caso il Tribunale ha ritenuto che avendo assunto l’iniziativa del ricorso il collegio sindacale, non vi fosse alcuna necessità di notificare l’atto alla società);

se la società si costituisce in giudizio facendo proprie le ragioni del socio attore (quindi invocando gli stessi fatti contro gli stessi soggetti) si “riappropria” dell’azione principale nell’esercizio della quale era stata sostituita dal socio, e l’iniziativa di questi assume la natura processuale di un intervento ad adiuvandum.

l’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 bis c.c può essere promossa anche dalla

maggioranza dei soci ? 17 Cass. n.14963/2011 "A norma dell'articolo 2393 cod. civ. compete esclusivamente all'assemblea dei soci il potere di deliberare sia il promovimento dell'azione sociale di responsabilità sia la rinuncia all'esercizio di tale azione, sia la transazione. Pertanto, la rinuncia o la transazione effettuata dal nuovo amministratore (o dal legale rappresentante della società) senza la preventiva delibera assembleare è affetta non da mera inefficacia, secondo la disciplina dell'atto posto in essere dal rappresentante senza poteri, ovvero da mera annullabilità, in base alle regole sul difetto di capacità a contrattare, ma da nullità assoluta e insanabile, deducibile da chiunque vi abbia interesse e rilevabile d'ufficio, atteso che detta delibera assembleare costituisce modo formale e inderogabile di

espressione della volontà della società di cui non sono ammessi equipollenti.

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il Tribunale di Milano in un caso recente lo ha ritenuto possibile alla luce delel seguenti

considerazioni: "anzitutto il tenore letterale dell’art.2393 bis cod. civ. è chiaro, e riconduce la legittimazione attiva in capo “ai

soci che rappresentino almeno 1/5 del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto”: la norma attraverso l’uso dell’avverbio “almeno” individua solo una soglia minima di partecipazione al capitale sociale, rendendo quindi ben possibile la proposizione della suddetta azione anche da parte di uno o più soci che rappresentino la maggioranza del capitale sociale. Non pare, poi, che vi siano neppure ragioni di ordine sistematico per escludere la legittimazione ad agire ex art.2393 bis cod. civ. del socio di maggioranza: è vero, infatti, che l'esercizio diretto dell’azione sociale di responsabilità da parte del socio di maggioranza preclude al socio di minoranza di esercitare il diritto di impugnativa previsto nel caso di esercizio dell’azione sociale di responsabilità ex art.2393 cod. civ. ( iniziativa che presuppone, invero, la delibera assembleare); tuttavia deve considerarsi, da un lato, che anche nel caso in cui l'azione sia esercitata dal socio di maggioranza quale sostituto processuale ex lege i costi dell'azione intrapresa resteranno esclusivamente a suo carico qualora la domanda risulti infondata, sicchè la minoranza non subirebbe alcun danno neppure "indiretto"; dall'altro, che anche qualora sia il socio di minoranza ad esercitare l'azione sociale nessun ostacolo può derivare da iniziative del socio di maggioranza (invero anche l'eventuale rinuncia all'azione dovrebbe essere decisa dalla stessa minoranza che l'ha promossa); sicchè riconoscere la medesima facoltà a socio di maggioranza e minoranza quanto all'esercizio diretto dell'azione sociale di responsabilità ha solo l'effetto di salvaguardare l'uguaglianza dei diritti dei soci al di là della loro concreta e specifica capacità di determinare il formarsi delle maggioranze assembleari, tanto più opportuna ove si consideri che la fisiologica possibilità di alternanza della compagine societaria in grado di esprimere la governance, rende possibile che la minoranza si opponga ( con l'impugnativa della delibera) ad un'iniziativa decisa dalla maggioranza assembleare, non nell'interesse della società, ma della gestione precedente che ad essa potrebbe essere riferibile anche in ragione di una preesistente posizione di direzione e coordinamento esercitata (la quale, per ipotesi potrebbe giustificare una responsabilità concorrente dello stesso socio divenuto, in seguito, minoranza); peraltro si osserva che l'utilizzo del meccanismo legale di sostituzione processuale previsto dall'art. 2393 bis c.c, esclude l'effetto di revoca automatica delle funzioni gestorie, che avrebbe un ben più grave impatto sulla società, e consente invece, ove vi siano i presupposti, di ottenere una misura cautelare preventiva diretta a preservare il patrimonio del presunto debitore della società ai sensi dell’art.2740 cod. civ.".18 18 cfr Ordinanza 20.7.2012 Tree Real Estate s.r.l. contro Jacopo Grimaldi 19.7.2012; confermata in sede di reclamo con le ulteriori osservazioni per cui "tale interpretazione risulti pienamente coerente (ed anzi l'unica compatibile) con il regime ordinario della spa in cui (art. 2348 cc) "le azioni...conferiscono ai loro possessori uguali diritti" - all'interno di un ordinamento che ammette certamente la possibilità di ricollegare al "superamento" di determinate soglie di partecipazione variamente definite l'imposizione di una serie di obblighi e doveri specifici in capo ai titolari ( e comunque sempre attraverso specifica e tassativa previsione di legge) ma in alcun caso una "riduzione" o addirittura "esclusione" di diritti propriamente incorporati nelle singole azioni." invero non si devono confondere "il piano delle concrete "esigenze di tutela" cui la riforma si ispira (indubbiamente e anzi pacificamente di tutela delle minoranze"), e quello relativo invece alla predisposizione degli "strumenti" di tutela discrezionalmente ritenuti dal legislatore più adeguati allo scopo - nella specie predisposti con riferimento alla titolarità di un numero "minimo" di azioni senza invece alcuna limitazione nel "massimo", in puntuale armonia con il previgente principio di cui al menzionato art. 2348 cc. Sotto diverso profilo proprio la relazione logica tra il principio generale di cui all'art. 2348cc e la specifica previsione di cui all'art. 2393 bis cc ad evidenziare l'inammissibile inversione logica su cui si fonda l'eccezione subordinata di incostituzionalità della norma (nella interpretazione proposta dal primo giudice e qui senz'altro condivisa) relativa ad un asserito vizio di eccesso di delega da ravvisarsi nelle scelte del legislatore delegato: una volta riconosciuto che la lamentata legittimazione all'esercizio dell'azione sociale da parte di un eventuale azionista di maggioranza risulta in realtà di stretta coerenza sistemica con ordinari principi costitutivi della spa, appare evidente che (esattamente all'opposto della prospettazione di parte reclamante) abbisognevole di delega specifica sarebbe stata semmai proprio e soltanto una disciplina positiva che, in relazione alla specifica questione in esame, risultasse (profondamente) derogatoria del regime ordinario di cui al menzionato art. 2348 cc in cui la nuova norma andava ad inserirsi"

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l’azione può essere oggetto di una clausola arbitrale che vincola anche gli amministratori (art. 34 4° comma d.lgs n. 5/2003); anche se si tratta di arbitrato irrituale la parte conserva il diritto di chiedere al giudice ordinario di emanare i provvedimenti cautelari necessari a tutelare il suo diritto nelle more del procedimento (art. 35.5°comma d.lgs.).

*

5. l'Azione dei creditori sociali (art. 2394 c.c.) e quella dei soci e dei terzi ( art. 2395 c.c.) L’azione ex art. 2394 c.c. si fonda sulla violazione da parte degli amministratori del dovere di conservare l’integrità del patrimonio sociale, quale garanzia generica dell’adempimento delle obbligazioni verso terzi (art. 2740 c.c.). L'azione ex art. 2395 c.c. è rivolta al risarcimento del danno diretto, quello, cioè, che si manifesta nel patrimonio del terzo o del socio a prescindere da una lesione del patrimonio sociale (es. per aver rappresentato, tramite inesatte comunicazioni in sede di redazione del bilancio, un falso valore della società, che ha determinato un prezzo incongruo di cessione delle relative partecipazioni, o la concessione di un fido poi non restituito alla banca; o per aver erroneamente determinato il rapporto di cambio in sede di fusione, con danno agli azionisti di minoranza)19. Poiché la responsabilità ex art. 2395 c.c. riguarda i danni cagionati dagli amministratori nell’esercizio delle loro funzioni, la loro condotta è direttamente riferibile alla società, perciò alla loro responsabilità si aggiunge e si cumula la responsabilità contrattuale della società per l’adempimento dell’obbligazione stipulata in suo nome. L’azione si prescrive in cinque anni “dal compimento dell’atto che ha pregiudicato il socio o il terzo”, da intendersi come evento lesivo nel suo complesso comprensivo del verificarsi del danno, in conformità all’art.2935 c.c.20

19cfr., Cass.22.3.2010 n. 6870 : "a norma dell'art. 2395 cod. civ., il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all'esperimento dell'azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall'amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l'ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall'art. 2394 cod. civ., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell'art. 146 della legge fall. " cfr.Tribunale di Milano ord 20.3.1997 in GiurI t 1998 e conforme Trib. Milano 21.10.1999 in GiurI t 2000 nel caso Ferfin; Tribunale di Milano 2.11.2000in Foro It.I 2001, in un caso di incongruità del rapporto di cambio; di recente Trib Milano sent. n.3264 del 20.3.2012; nella fattispecie la condotta illecita degli amministratori è stata ravvisata nel fatto che costoro, pur consapevoli del fatto che la società avrebbe dovuto garantire per legge la restituzione delle somme anticipate dagli acquirenti di immobili prenotati consegnando una fideiussione che coprisse le somme riscosse e anche quelle ancora da riscuotere (secondo l’art. 2 l. 122/2005), avrebbero negoziato con i terzi attori la vendita di unità immobiliari e ricevuto anticipi in sede di prenotazione o rate del corrispettivo in sede di esecuzione di obblighi contrattuali preliminari, sapendo o dovendo sapere che la società non avrebbe potuto ottenere e consegnare le fideiussioni dovute, in ragione della situazione di grave tensione finanziaria in cui versava, con ciò dando causa al danno dedotto, consumatosi in sede di riparto finale, e consistente nell’impossibilità di recuperare – attraverso l’escussione delle fideiussioni non prestate - una parte del credito; 20 cfri recente Cass. 25496 del 5.12.2011 "La società, per il principio dell'immedesimazione organica, risponde civilmente degli illeciti commessi dall'organo amministrativo nell'esercizio delle sue funzioni, ancorché l'atto dannoso sia stato compiuto dall'organo medesimo con dolo o con abuso di potere, ovvero esso non rientri nella competenza degli amministratori, ma dell'assemblea, richiedendosi unicamente che l'atto stesso sia, o si manifesti, come esplicazione dell'attività della società, in quanto tenda al conseguimento dei fini istituzionali di questa, e tali responsabilità si aggiunge, ove ne ricorrano i presupposti, a quella degli amministratori, prevista dall'art. 2395 cod. civ.. (Nella specie, si è ravvisata la responsabilità di una banca popolare con riguardo ad

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La natura dell’azione dei creditori sociali è controversa. Per taluni si tratta di autonoma azione extracontrattuale ex art. 2043 c.c.; per altri di azione contrattuale, in quanto di natura surrogatoria (il creditore esercita l'azione che potrebbe esercitare la società e il ristoro del danno va inteso in termini di reintegrazione del patrimonio sociale ); in quest’ultimo caso qualora la società vi abbia rinunciato essa non potrebbe essere promossa. Diverse sono le opinioni anche sulla finalità dell’azione, pur nella prospettiva condivisa che si tratti di azione di natura extracontrattuale:

per alcuni essa mira a reintegrare il patrimonio sociale nei limiti della misura dei crediti insoddisfatti (a ciascun creditore sarebbe conferita legittimazione straordinaria per la parte della pretesa risarcitoria che eccede l’ammontare del suo credito e che riguarda altri creditori inerti) 21; la ratio della norma sarebbe omologa a quella di cui all’art. 51 l.f., che vieta le azioni esecutive individuali dalla data del fallimento: quando il patrimonio sociale è insufficiente rispetto alla soddisfazione dei crediti, ciascun creditore può agire per reintegrarlo;

per altri l’azione è finalizzata a reintegrare il patrimonio del singolo creditore sociale che ha diritto di ottenere dall’amministratore, responsabile del depauperamento del patrimonio subito dalla società, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere (il danno oggetto del risarcimento sarebbe eccezionalmente il danno prodottosi nel patrimonio del singolo creditore per “riflesso” di quello arrecato direttamente al patrimonio sociale) si tratterebbe di un’azione autonoma ed individuale in cui la misura del danno subito dal singolo sarebbe anche la misura dell’interesse ad agire 22; (per una parte della dottrina nell’azione ex art. 2394 c.c. la condotta illecita si configurerebbe in termini di “lesione del credito”); si tratta di problematici aspetti interpretativi, abbastanza irrilevanti nella pratica, stante la rarità di casi di applicazione della norma al di fuori delle ipotesi di responsabilità degli amministratori convenuti dalla curatela fallimentare, che peraltro pacificamente esercita azioni volte a reintegrare il patrimonio della società nell’interesse della "massa".

* Prescrizione dell’azione dei creditori sociali L’azione dei creditori sociali si prescrive in 5 anni (art. 2949 comma 2°c.c.); ma ex art. 2947 c.c. “il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato”: qual'è il fatto lesivo? l’insufficienza patrimoniale, la non conservazione del patrimonio sociale imputabile, la commissione dell’atto o, se successiva, l’esteriorizzarsi del danno che ne è derivato?

una delibera del consiglio di amministrazione, che aveva disposto il trasferimento a terzi delle azioni appartenenti ad alcuni soci, nel contempo disponendone l'illegittima esclusione)" 21 Cass. n. 3179 del 1985; 22 Cass. n. 10488 del 1998 "...Altra e distinta forma di responsabilità è quella degli amministratori verso i creditori sociali - prevista dal successivo art. 2394 cod. civ. come conseguenza dell'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale -, la cui natura extracontrattuale presuppone l'assenza di un preesistente vincolo obbligatorio tra le parti, ed un comportamento dell'amministratore funzionale ad una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da rendere lo stesso inidoneo per difetto ad assolvere la sua funzione di garanzia generica (art. 2740 cod. civ.), con conseguente diritto del creditore sociale di ottenere, a titolo di risarcimento, l'equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere. La indiscutibile natura diretta ed autonoma dell'azione ex art. 2394 cod. civ. ne esclude, poi, qualsivoglia carattere surrogatorio..., con la conseguenza che, se l'accoglimento della domanda proposta ai sensi degli artt. 2392 e 2393 cod. civ. comporta la devoluzione del risultato utile di essa in via primaria e diretta all'incremento del patrimonio sociale (mentre i creditori attori ne trarrebbero solo indirettamente beneficio), ciò non è a dirsi in caso di azione proposta ex art. 2394 cod. civ., ove il danno subito dai creditori costituisce anche (ed esclusivamente) la misura del loro interesse ad agire"; così anche Trib. Napoli 11.11.2004, in Le Società, 2005, 1007, che parla espressamente di pregiudizio aquiliano arrecato alle ragioni di credito; in dottrina, Salafia op.cit., F.Bonelli op.cit.

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Generalmente l’esteriorizzazione del danno consistente nell’insufficienza del patrimonio giunge con la dichiarazione di fallimento (cioè dell’insolvenza), tuttavia il danno inteso come erosione del patrimonio sociale reso insufficiente rispetto alle pretese dei creditori può essersi prodotto (ed anche esteriorizzato) ben prima (diversi essendo i presupposti dell’insolvenza, quale incapacità dell’impresa di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni- rispetto a quelli dell’insufficienza patrimoniale). L’onere della prova di detta anteriorità e, quindi, della prescrizione dell’azione spetta a coloro che intendono avvalersi della eccepita prescrizione 23; ai fini dell'individuazione del momento di esteriorizzazione dell'insufficienza patrimoniale antecedente al fallimento, la Cassazione ha ritenuto idonei “fatti sintomatici di assoluta evidenza, come la chiusura della sede, bilanci fortemente passivi, l'assenza di cespiti suscettibili di espropriazione forzata”( Cass. 8516/2009). Deve segnalarsi l’equivoco i cui spesso incorrono le difese dei convenuti a fronte dell’azione della curatela che abbia contestato i danni (pregiudizio al patrimonio sociale) derivanti dalla prosecuzione dell’attività dopo una causa di scioglimento che si assume anteriore alla dichiarazione di fallimento; in tali casi è del tutto illogico invocare, agli effetti della dimostrazione della prescrizione dell’azione, una “pretesa” ammissione della stessa procedura circa il fatto che l’insufficienza patrimoniale si sarebbe prodotta in un tempo anteriore alla dichiarazione di fallimento (al tempo cioè in cui la curatela colloca la perdita del capitale sociale) : invero i fatti causativi di danno che la curatela in siffatti casi imputa sono connessi alla prosecuzione dell’attività dopo la perdita del capitale, quindi riguardano solo l’aggravamento dell’insufficienza patrimoniale rispetto alla quale l’eccezione di prescrizione formulata è del tutto incongruente. L’azione sociale ex artt. 2392 e 2393 c.c. e quella dei creditori sociali ex art. 2394 c.c possono essere esercitate unitariamente dal curatore del fallimento: l’apertura della procedura concorsuale, attribuisce ex art. 146 l.f. al curatore la legittimazione all’esercizio delle azioni di responsabilità contro gli organi della società al fine di ricostituire la massa attiva su cui potranno trovare soddisfazione concorsuale, in regime di par condicio, tutti i creditori della società fallita (infra parag. n 7, 8); detta unitarietà non toglie che le azioni esercitate unitariamente mantengano le loro caratteristiche proprie, anche quanto al regime della prescrizione (24).

6. La specifica azione di creditori e soci ex art. 2497 c.c. Cenni Nel gruppo societario nel quale devono presumersi, a norma del 2497 sexies c.c., la direzione e il coordinamento unitari, la gestione dell’impresa controllata viene imputata non solo ai suoi amministratori ma anche a quelli della società o ente controllanti in quanto autori delle direttive e del coordinamento ai quali la concreta gestione dell’impresa controllata è stata conformata: direzione e coordinamento devono esser caratterizzate ex art. 2497 c.c. dall’osservanza di principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società controllate, nel senso che l’unitarietà della direzione non può giustificare l’utilizzo delle

23) Cass. Civ 9619/2009; si deve trattare di “insufficienza dell'attivo sociale a soddisfare i debiti della società oggettivamente conoscibile dai creditori”. Cass. 20476/2008. 24) In tal senso è l’orientamento consolidato anche del Tribunale di Milano: cfr. Trib. Milano 29.11.2003 in Le Società 2004, 8, 1006.

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gestione delle imprese controllate ad esclusivo beneficio dell’intesse delle società controllanti ma solo per il coordinamento di degli interessi delle due. L’inosservanza dei principi di corretta gestione predetti espone a responsabilità le società controllanti, insieme con i propri amministratori. Legittimati ad agire per il risarcimento dei danni che l'atto illecito ha prodotto in termini di insufficienza del patrimonio e redditività e valore della partecipazione, sono, rispettivamente, creditori e soci della controllata. Si tratta, quanto ai soci, della previsione del tutto eccezionale del risarcimento danno "riflesso", ben diverso da quello di cui all'art. 2395 c.c., mentre, quanto ai creditori, di una possibilità di agire per il danno arrecato all’integrità della garanzia patrimoniale, in linea con l'art. 2394 c.c. Anche la società soggetta a direzione e coordinamento (c.d eterodiretta) è legittimata ad agire 25; anche se appare difficile che ciò avvenga (essendo l'assemblea espressione del socio di controllo), se non per iniziativa dei soci di minoranza ex art. 2393 bis c.c. , che hanno, però, addirittura uti singuli la possibilità di adire il Tribunale per ottenere il ristoro del proprio danno individuale, evitando di coinvolgere la società e di rischiare di vedere l’azione transatta o rinunciata; poichè esiste un problema di duplicazione del risarcimento a fronte di un unico danno (l'attività illecita di direzione e coordinamento causa un danno prima nel patrimonio della società eterodiretta e poi per riflesso nel patrimonio del socio) il 3° comma del'art. 2497 c.c. prevede che i creditori sociali e i soci possano agire contro la società che esercita attività di direzione e coordinamento solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta a direzione e coordinamento: la norma che si espone a varie opzioni interpretative .

* 7. La legittimazione all'esercizio delle azioni di responsabilità in caso di fallimento di una spa (art. 2394 bis c.c.) In caso di fallimento la legittimazione all’esercizio dell’azione sociale ex art. 2392 c.c. e di quella dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. passa al curatore: la legittimazione del curatore del fallimento ad esperire l’azione sociale è frutto delle norme di cui agli artt. 42 e 43 l.f., per le quali con la dichiarazione di fallimento la legittimazione sostanziale e processuale per l’esercizio e la tutela dei diritti del fallito - quindi anche quelli della società verso gli amministratori - spetta al curatore. Anche la legittimazione all’esercizio dell’azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. passa al curatore in caso di fallimento, ciò però per ragioni del tutto diverse da quelle che giustificano sul piano sistematico la legittimazione del curatore all’esercizio dell’azione sociale: infatti l’azione dei creditori non fa parte delle azioni incluse nel patrimonio del fallito e che questi non può più esercitare avendo perso la disponibilità del proprio patrimonio. Nel caso dell’azione dei creditori la legittimazione del curatore – legittimato straordinario ad agire contro gli amministratori per far valere i diritti dei creditori - è frutto di una scelta del legislatore ispirata alla finalità di rafforzare l’efficacia dell’azione del curatore e, come tale, necessita di una specifica disposizione di legge, in ossequio alla riserva di legge di cui all’art. 81 c.p.c.

25 cfr Tribunale di Milano sent. n. 8247/2011 pubblicata il 17 6.2011

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Quella disposizione è oggi costituita dall’art. 2394 bis. c.c. (in precedenza la norma processuale era costituita solo dall’art. 146 lf. che richiamava espressamente l’art. 2394 c.c.). E’ prevalente in dottrina ed in giurisprudenza la tesi secondo cui l’azione di responsabilità esercitata dal curatore - legittimato esclusivo, dopo la dichiarazione di fallimento, al suo esercizio – ha carattere unitario ed inscindibile, poiché le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c. confluiscono in un’unica azione sempre finalizzata alla reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia dei soci e dei creditori, ma assomma in sé sia i presupposti dell’azione sociale che quelli dell’azione dei creditori, dando luogo ad un cumulo configurato in modo tale che venendo a mancare i presupposti dell’una, possono comunque esser presenti e soccorrere l’attore i presupposti dell’altra 26. Ciò non toglie che le azioni mantengano le loro caratteristiche, non solo quanto ai diversi tempi di prescrizione: l’azione sociale, ad esempio, potrebbe essere stata oggetto di rinuncia da parte della società, onde il curatore non potrà esercitarla; ed in tal caso il risarcimento potrà riguardare solo il danno “emergente” ma non il “lucro cessante” .

* 8. Le questioni problematiche più ricorrenti nel caso di esercizio dell'azione di responsabilità nelle procedure concorsuali. 8.a) L’onere di allegazione della parte che agisce per la responsabilità degli amministratori.

Unanime è l’opinione che anche nel caso di esercizio dell’azione contrattuale di responsabilità l’attore debba allegare compiutamente la condotta inadempiente (contraria all’obbligo di diligenza ex art. 2392 c.c. o a specifici doveri imposti dalla legge) ed il danno che ne è derivato (dunque il nesso di causalità tra l’una e l’altro) in ragione della disposizione di cui all’art.1223 c.c. (27). Non si può quindi pensare che all’attore basti allegare il rapporto gestorio ed assumere che non è stato adempiuto (invocando l’orientamento sulla ripartizione dell’onere probatorio seguito dalla cassazione in caso di contestazione dell’inadampimento contrattuale) poiché la responsabilità risarcitoria implica la specificazione dei termini dell’inadempimento che si pongono in collegamento causale con il danno preteso; tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, poi, devono essere provati Questo onere di allegazione e prova è pacificamente comune tanto all’azione contrattuale (artt. 2392, 2393 c.c.) che a quelle extracontrattuale (artt. 2394 c.c.). In caso di esercizio di quest'ultima l’attore deve allegare e provare anche il profilo di colpa o dolo della condotta al fine di connotarla illecitamente, ciò che non deve fare quando esercita l’azione contrattuale poiché il profilo di illiceità è presunto nel senso che sta nella violazione stessa dell’obbligo contrattuale (sono i convenuti a dover dimostrare che l’inadempimento - la condotta illecita - non è loro imputabile come tale per assenza di dolo o colpa).

26) Cass., n. 17033 del 2009; Cass., s.u., n. 5241 del 1981; Cass., n. 10488 del 1988; Cass., n. 10937 del 1997; Trib. Milano, 29.11.2003, in Soc., 2004, 1006; Id., 19.9.2003, in Giur. It., 2004, 1015; Id., 7.9.1998, in Fall., 1999, 110. 27) Per tutte Cass. 10488/1998; Cass. n. 3032/2005.

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Questi presupposti indiscussi del fondamento dell’azione diventano problematici quando ad agire è la curatela fallimentare, poiché spesso si pone la questione tanto della compiutezza della contestazione della condotta illecita (soprattutto con riguardo al nesso di causalità tra condotta e danno) quanto dell’effettivo assolvimento del connesso onere probatorio. Conferma questo orientamento sull’onere di allegazione la corte di legittimità28 secondo cui: “Per l'esercizio dell'azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di "mala gestio" e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l'approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la "causa petendi" deve sin dall'inizio sostanziarsi nell'indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale. Ciò vale tanto che venga esercitata un'azione sociale di responsabilità quanto un'azione dei creditori sociali, perché anche la mancata conservazione del patrimonio sociale può generare responsabilità non già in conseguenza dell'alea insita nell'attività di impresa, ma in relazione alla violazione di doveri legali o statutari che devono essere identificati nella domanda nei loro estremi fattuali. …. Anche la mancata conservazione del patrimonio della società, pregiudizievole per i creditori, in tanto può generare responsabilità negli amministratori in quanto sia conseguenza, non già dell'alea insita in qualsiasi attività d'impresa, bensì della violazione da parte loro di doveri legali o statutari, di cui è perciò indispensabile identificare nella domanda giudiziaria gli estremi fattuali. Se allora è vero che la compiuta enunciazione della causa petendi di un'azione di responsabilità richiede non la generica denuncia di un fenomeno di mala gestio, bensì l'indicazione di ben individuati comportamenti illegittimi, attivi o omissivi, imputati dall'attore agli amministratori della società, ne discende con assoluta evidenza che l'eventuale denuncia in corso di causa di comportamenti illegittimi diversi ed ulteriori, rispetto a quelli menzionati nell'atto introduttivo, implica il mutamento essenziale di uno degli elementi d'identificazione della domanda; e se, pertanto, ciò accada in un momento processuale in cui non è più consentito dal codice di rito formulare domande nuove, il giudice non può tener conto della denuncia di quei diversi ed ulteriori comportamenti, pena la violazione del già richiamato principio del contraddittorio”.

8.b) L'allegazione della natura illecita della condotta: in particolare la prosecuzione

dell'attività sociale dopo la verifica di una causa di scioglimento

Se in molti casi l'illiceità della condotta è immediatamente individuabile (distrazioni nell'interesse proprio di terzi; illeciti tributari che producono sanzioni e interessi passivi di mora esistono condotte che, pur essendo illecite, non sono di per sè immediatamente e direttamente fonte di danno (es.redazione di un bilancio non in linea con i principi di verità e correttezza), ovvero che sono illecite solo in ragione delle finalità in concreto perseguite e fonte di danno solo in ragione del loro risultato economico: è il caso della prosecuzione di attività connotata dal rischio di impresa nonostante un manifesto stato di scioglimento della società.

Assai frequente è il caso in cui la curatela fallimentare contesti la illegittima prosecuzione dell’attività in difetto dei presupposti di legge, quale condotta susseguente all’occultamento doloso od al mancato accertamento colposo della totale erosione del capitale sociale in ragione di perdite.

28 Cass. 23180/2006, est Rordorf

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I riferimenti normativi, dopo la riforma, sono agli artt. 2392, 2447, 2484 comma 1 n. 4), 2485, 2486 c.c.29 Le norme predette impongono, agli amministratori la convocazione dell’assemblea dei soci per la ricapitalizzazione o, in difetto, la messa in liquidazione la società implicante il mutamento dell’oggetto dell’attività: questa non potrà più essere, in difetto delle condizioni patrimoniali e finanziarie necessarie per legge, l’attività imprenditoriale prescelta, c.d. attività caratteristica, ma esclusivamente quella conservativa dell’integrità e del valore del patrimonio sociale (anche attraverso il completamento del ciclo produttivo in corso). Il limite entro cui i comportamenti gestori possono dirsi consentiti in una situazione in cui è comunque doverosa la conservazione dei valori dell’impresa, resta legato, a valutazioni da operare caso per caso

Nel vigore della precedente disciplina si era consolidato un orientamento giurisprudenziale per cui dopo il verificarsi di una causa di scioglimento solo le operazioni fonte di nuovo rischio d’impresa potevano considerasi “nuove” e quindi vietate, e solo quelle che causavano un danno potevano generare responsabilità degli amministratori, in ossequio ai principi su cui si regge la responsabilità civile in generale. Oggi, in ragione di un'esplicita indicazione del legislatore30 deve ritenersi che - in continuità con detto orientamento interpretativo, la prosecuzione dell'attività d'impresa è vietata ed illecita solo se resta funzionale al perseguimento dell'oggetto sociale originario con assunzione di nuovo rischio di impresa, non quando persegue solo finalità conservative compatibili con l'obiettivo della liquidazione. In questa prospettiva di continuità tra vecchia e nuova disciplina sembra potersi richiamare come attuale l’orientamento giurisprudenziale in tema di onere di allegazione e prova per cui l’onere di allegazione della novità dell’operazione competeva all’attore:31 “l'azione di responsabilità (…) ha natura contrattuale (…); ne consegue che, mentre su chi la promuove grava esclusivamente l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, su amministratori e sindaci l'onere di dimostrare la non imputabilità a sè del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti; pertanto, l'onere della prova della novità delle operazioni intraprese dall'amministratore successivamente al verificarsi dello scioglimento della società per perdita del capitale sociale, compete all'attore e non all'amministratore convenuto”

Perciò è evidente che la deduzione della violazione del nuovo art. 2486 c.c. implica la contestazione dello svolgimento di attività non orientata meramente alla conservazione del valore del patrimonio sociale, bensì fonte di nuovo rischio di impresa, che ha cagionato perciò un danno ingiusto in termini di depauperamento del patrimonio sociale al netto degli eventuali ricavi . In altre parole poichè il dato normativo di cui all’art. 2486 c.c. evidenzia la liceità dell’attività di gestione con finalità conservativa, pare imprescindibile per chi intenda vedere affermata una responsabilità per danni degli amministratori dopo il verificarsi di un

29 prima della riforma il riferimento erano agli artt. 2392, 2447, 2449 c.c. 30 "gli amministratori conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale.... sono personalmente è solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, i soci, i creditori sociali ai terzi, per atti od omissioni compiuti in violazione del precedente comma"art. 2486 c.c. 31 Cass n. 25977/2008; cfr anche Cass. n. 3694/2007 – n.1035/1995; sul nesso causale condotta - danno, Cass. n. 17033/2008.

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causa di scioglimento “occultata”, allegare la finalità non conservativa dell’attività che li avrebbe prodotti, e, ovviamente, il nesso causale che lega l’una agli altri. In sintesi, quindi, i presupposti della imputazione di responsabilità in tali casi possono essere riassunti come di seguito esposto: occorre che il capitale sociale sia sceso, in un determinato momento, sotto il minimo di

legge (art. 2447 c.c.). occorre che gli amministratori si siano accorti di tale circostanza o se ne potessero

accorgere utilizzando la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze (art. 2392 comma 1 c.c.);

occorre che gli amministratori abbiano omesso di convocare senza indugio l’assemblea di cui all’art. 2447 c.c. – finalizzata alla ricapitalizzazione o trasformazione della società – ovvero, abbiano omesso - nel caso in cui l’assemblea non abbia adottato delibere che consentano la ordinaria prosecuzione dell’attività sociale - di iscrivere comunque la causa di scioglimento della società, determinando il mutamento dell'oggetto sociale oramai orientato in funzione esclusiva della liquidazione ;

occorre che gli amministratori, pur conoscendo o potendo conoscere la perdita del capitale e non avendo adottato gli adempimenti conseguenti, abbiano compiuto nuove operazioni generative di danno per la società (art. 2449 previgente) o abbiano proseguito nella gestione dell’attività con modalità ed a fini estranei alla mera conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio (art. 2486 c.c.);

occorre che la prosecuzione dell’attività in ottica non conservativa abbia prodotto dei danni alla società od ai creditori, depauperando il patrimonio sociale.

Alla luce del recente novella legislativa (Legge 7.8.2012 n. 134 di conversione del Decreto Legge 22.6.2012 n. 83 c.d. “ Decreto Sviluppo” ) è stato introdotto nella legge fallimentare l’art. 182 sexies: “Dalla data di deposito della domanda per l’ammissione al concordato preventivo, anche a norma dell'articolo 161, sesto comma, della domanda per l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione di cui all'articolo 182 bis ovvero della proposta di accordo a norma del sesto comma dello stesso articolo e sino all'omologazione non si applicano gli articoli 2446, commi secondo e terzo, 2447, 2482-bis, commi quarto, quinto e sesto, e 2482- ter del codice civile. Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione a perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, n.4 e 2545- duodecies del codice civile. Resta ferma per il periodo anteriore al deposito delle domande e della proposta di cui al primo comma l'applicazione dell'articolo 2486 del codice civile" Ne deriva che in presenza di determinate iniziative volte ad avvalersi degli istituti alternativi alla procedura fallimentare previsti dal legislatore per affrontare in modo strutturato la crisi di impresa, sono sospesi sino all’omologa gli obblighi di ricapitalizzazione, onde, in detto periodo, non potrà ritenersi integrato il presupposto dello stato di scioglimento di fatto della società agli effetti di valutare come illegittima l’attività di impresa caratteristica che sia nelle more proseguita; gli amministratori potranno prevedere nel “piano” di ristrutturazione e/o riorganizzazione industriale la continuazione dell’attività di impresa, che non dovrà

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essere mantenuta nei limiti della finalità conservativa del valore e dell’integrità del patrimonio, benché nei limiti degli obiettivi individuato nel piano stesso. Restano fermi gli obblighi di cui al’art. 2446 primo comma c.c. e la responsabilità ex art. 2486 c..c per le eventuali violazioni già compiute dell’obbligo di gestione conservativa del patrimonio. 8.c) L' onere di individuare e provare i fatti fonte di danno.

La curatela può indicare quali operazioni gestorie assunte in un’ottica di continuità aziendale non più lecita hanno cagionato danno alla società, al netto dell’eventuale ricavo (es. acquisto nuovo macchinario non potuto utilizzare per mancanza di commesse); ma può anche contestare (e dimostrare) che, più in generale, la prosecuzione dell'attività ha “bruciato” anzichè conservato il valore del patrimonio. Infatti la natura dinamica e complessa dell’attività di impresa può rendere estremamente complesso un onere di allegazione che si basi sulla individuazione delle singole operazioni illecite e sul loro risultato, specie a fronte di fallimenti di società per le quali si deduce una notevole anteriorità della perdita del capitale rispetto alla dichiarazione di insolvenza, ove si tratta di valutare attività assai complesse ( e centinaia) di operazioni, non raramente attraverso documentazione contabile non del tutto chiara o completa.32 Si può far ricorso a criteri presuntivi e sintetici di allegazione a fronte alla difficoltà di individuare in modo sufficientemente circostanziato le operazioni non coerenti con il fine conservativo e i danni da esse prodotti, che sono difficili da determinare realmente, poichè implicano costi legati non all'operazione singola ma alla continuazione dell’attività (come avviene per gli oneri finanziari, che deteriorano molto il patrimonio sociale in una situazione di difficoltà finanziaria e scarsa reddittività che imponga un accesso oneroso al credito). In pratica si può ritenere assolto l’onere di allegazione quando la curatela fallimentare:

abbia (almeno) dedotto che la perdita del capitale e, quindi, lo stato di scioglimento della società sono anteriori alla dichiarazione dello stato di insolvenza o alla formale messa in liquidazione della società,

abbia affermato che gli amministratori hanno proseguito l’attività “d’impresa” senza tener conto degli obblighi imposti dalla perdita del capitale (ovvero dalla perdita dei presupposti del c.d. going concern), con ciò provocando una ulteriore diminuzione del patrimonio sociale, cioè un aggravamento della negatività de patrimonio.

32 per approfondimento del tema Davide Galletti Brevi note sull’uso del criterio dei “netti patrimoniali di periodo” nelle azioni di responsabilità : "Si vede bene dunque come la gestione degli amministratori della società in condizioni di perdita del capitale debba caratterizzarsi per il suo carattere dinamico, ossia per la sua capacità di proiettarsi in uno scenario futuro anch’esso “pianificato”, e non per il compimento di singoli atti che possono o meno essere considerati “dannosi” o “vantaggiosi”. E’ proprio il “saldo” di quell’attività, espresso dalla sua capacità di conservare ex art. 2486 c.c. il “valore” dell’azienda, a determinarne allora il carattere giuridico o piuttosto antigiuridico. E la prospettiva dei netti patrimoniali di periodo si rivela pertanto non già eterogenea, bensì armonica rispetto alla cornice funzionale ove gli amministratori sono chiamati a muoversi, dopo aver riscontrato che non vi sono perduranti prospettive di continuità aziendale"

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Infatti indice dello svolgimento di attività illecita ulteriormente depauperativa può senz'altro essere la maggior perdita registrata rispetto al momento dello scioglimento di fatto; ma vanno verificati sia il presupposto della prosecuzione di attività non conservativa, (di cui possono essere indici l'andamento in conto economico dei costi e ricavi) sia la sussistenza di detta maggior perdita, sia l'imputabilità della stessa, poiché anche le attività di mera liquidazione (che in tesi sarebbe stata omessa o ritardata con colpa dagli amministratori ) implicano costi e oneri ineliminabili nel breve periodo che non possono però imputarsi a titolo di danno.

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8.d) La contestazione del ritardo nella dichiarazione dello stato di insolvenza A fronte della perdita del capitale sociale gli obblighi di legge per gli amministratori sono quelli di cui agli artt. 2447 c.c., e tra questi non v’è quello di interrompere immediatamente l’attività nè di chiedere la dichiarazione dello stato d’insolvenza la quale ultima, peraltro, si fonda su presupposti ben diversi dalla perdita del capitale, consistendo nell’impossibilità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni. Siffatta situazione non consente alcun temporeggiamento, e dovrebbe condurre gli organi sociali ad assumere tempestivamente le iniziative imposte dalla legge ( art. 217 n. 4 l.f.), 33 salva la possibilità di proporre modalità alternative della gestione della crisi di cui all’art. 182 sexies l.f. E’ ben vero, infatti, che esiste un dovere degli amministratori di conservare il valore del patrimonio sociale che costituisce la garanzia generica su cui possono contare i creditori, e che questa salvaguardia può implicare la necessità di non interrompere l’operatività aziendale, ma un’attività “conservativa” deve poter contare su adeguati mezzi finanziari, altrimenti finisce per essere attività d’impresa il cui è rischio è trasferito per intero sui terzi creditori. Pertanto se non è concretamente e ragionevolmente prevedibile la possibilità di concludere in modo fisiologico un procedimento di liquidazione, anche eventualmente mediante la negoziazione di accordi “a stralcio” con i principali creditori, gli amministratori invece debbono instare direttamente per il fallimento della società 34 In una situazione di insolvenza, ovvero di illiquidità così grave da non consentire il regolare adempimento delle obbligazioni, ed a fronte dell’indisponibilità dei soci a far fronte al fabbisogno finanziario e di cassa in modo strutturale, non basta verificare che il capitale sociale non sia eroso oltre il limite minimo previsto dalla legge: infatti altro è l’insufficienza patrimoniale che, invero, può sussistere anche a fronte della contingente capacità di far fronte - con i flussi finanziari anche derivanti dal credito bancario - ai costi operativi, altro è l’insolvenza, che può essere conclamata anche a fronte di una

33 sull'obbligo di chiedere il fallimento in caso di insolvenza, Cass., 27 febbraio 2002, n. 2906, in Fallimento, 2003, p. 366 34 Galletti, op.cit.

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patrimonio netto ancora positivo a fronte dell'impossibilità della società di adempiere alle obbligazioni liquidando l'attivo o facendo ricorso al credito

"In una situazione siffatta la gestione della crisi d‘impresa secondo il legislatore non può essere affidata agli organi sociali (come avviene invece per la "liquidazione" dell' attività conseguente ad uno stato di scioglimento dovuto alla perdita del capitale, che fisiologicamente è rimessa al liquidatore nominato dall'assemblea dei soci ) ma deve essere affidata, sotto il controllo del Tribunale fallimentare, agli organi delle diverse procedure concorsuali previste, affinché sia assicurata la salvaguardia del patrimonio sociale che funge da garanzia dei creditori (eventualmente anche attraverso l'esercizio provvisorio, ove si tratti di salvaguardare il valore dell'avviamento o di altre immobilizzazioni immateriali come il valore di un marchio) e la liquidazione avvenga nel rispetto della par condicio creditorum. In mancanza gli organi sociali rispondono delle conseguenze dannose che la loro scelta illegittima ha prodotto sul patrimonio della società a danno della stessa e dei creditori sociali, in quanto conseguenza immediata e diretta della mancata dichiarazione dello stato di insolvenza secondo un criterio di ragionevole prevedibilità: secondo il criterio della "causalità adeguata" una data condotta si considera causa, in senso giuridico, di un determinato evento se, sulla base di un giudizio ex ante, detto evento ne risultava la conseguenza prevedibile ed evitabile; se, detto in altri termini, quella data condotta è normalmente, sulla base delle comuni regole di esperienza, adeguata a cagionare quel determinato evento dannoso ( cfr. Cass. S.U. n. 576, 579, 582, 583, 584 dell'11.1.2008); ciò significa che il nesso causale tra una determinata condotta - pur costituente condicio sine qua non dell'evento - e l'evento stesso, si interrompe - con conseguente esonero da responsabilità di chi l'ha posta in essere - se la causa prossima, imprevedibile ed inevitabile da parte di chi ha posto in essere la causa remota, risulta di per sé sola sufficiente a produrre l'evento; diversamente chi ha posto in essere la causa remota risponderà pur esso dell'evento dannoso. Pertanto rispondono delle conseguenze dannose prodottosi per effetto della prosecuzione illecita dell'attività d'impresa coloro che hanno di fatto proseguito l 'attività produttiva ( causa prossima) sia coloro che essendo tenuti a dichiarare o a far dichiarare l'insolvenza, non l'hanno impedita (causa remota): invero è del tutto evidente ( per qualunque amministratore e sindaco) che la mancanza di un'iniziativa doverosa che porti all'arresto dell' attività imprenditoriale o alla sua prosecuzione entro lo schema di una procedura concorsuale o di ristrutturazione del debito, condurrà alla sua prosecuzione vietata; il che non è, invece, per la omessa dichiarazione dello "stato di liquidazione", in mancanza della quale non è vietato proseguire l'attività se essa mantiene esclusivamente uno scopo conservativo in vista di un' utile dismissione delle attività. Perciò in una ipotesi siffatta potrà liberarsi da responsabilità solo chi dimostri che anche il comportamento alternativo corretto non avrebbe potuto provocare un danno minore, che, in sostanza non v'è stato un danno imputabile, perché, per esempio, si è proseguito sulla base di un nuovo "piano" aziendale, idoneo e razionale ex ante, coerente con l'istituto fallimentare dell'esercizio provvisorio anche se poi ex post si sia rivelato inefficace, o con la prospettiva comunque coerente con lo schema fallimentare, della cessione del compendio aziendale in funzionamento, onde salvaguardare il valore complessivo del patrimonio"35.

* 8.e) La prova del danno

La giurisprudenza di legittimità ed anche quella di merito con plurime pronunce avverte che il pregiudizio derivante da comportamenti illeciti imputabili agli amministratori non deve 35 Trib. Milano sent. 8576 del 13.7.2012 nel caso Fallimento Confezioni Capucci cit.; è il caso per es. di amministratori e sindaci dimessisi prima della verifica nel corso della quale sarebbe emersa la perdita del capitale ma quando comunque era già evidente – secondo criteri di diligenza qualificata- lo stato di insolvenza: la dichiarazione doverosa dello stato di insolvenza avrebbe impedito la prosecuzione illecita dell’attività compiuta da altri; in casi siffatti se manca la contestazione di una omessa dichiarazione dell’insolvenza non si potrà imputare a coloro che si sono dimessi il danno da prosecuzione illecita dell’attività cui non hanno concorso

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essere confuso con il risultato negativo della gestione patrimoniale della società, che può avere cause molteplici (non necessariamente riconducibili a comportamento illegittimo dei gestori e degli organi di controllo della società) ma alla gestione nel suo complesso ed alle scelte discrezionali in cui questa si traduce: ossia da attività sottratte per loro natura al vaglio di legittimità del giudice 36 Pertanto è fondamentale valutare se sussista un nesso di causalità tra le condotte illecite contestate e il danno che è preteso sia risarcito: anche gli amministratori rispondono solo dei danni conseguenza immediata e diretta della loro condotta inadempiente37 In materia di responsabilità degli amministratori si possono dare vari casi di atti illeciti e di conseguenti danni : l’ipotesi di atti distrattivi ove il danno è pari alla relativa diminuzione patrimoniale; omesso pagamento oneri fiscali e contributivi in seguito a dichiarazioni fiscali erronee

o infedeli, ove il danno è pari all’entità delle sanzioni applicate e degli interessi maturati (manca il nesso ci causalità, però, ove l’amministratore deduca e dimostri che la società non era comunque in grado, a causa dello stato di deficit finanziario o patrimoniale non imputabile di pagare detti oneri);

scelte gestorie del tutto sconsiderate ove il danno sarà pari agli esborsi subiti dalla società per l’operazione al netto dell’ eventuale ricavo

la violazione di obblighi contabili od amministrativi, l’alterazione delle scritture contabili, la falsificazione del bilancio, fattispecie assai delicate perché non produttive in sé di danno: queste fattispecie non possono essere assunte, in se stesse, quali condotte fonti di un diritto al risarcimento ove non si dimostri che esse sono state causa di violazioni che hanno prodotto un danno alla società; la stessa Corte di Cassazione che afferma che l’irregolarità contabile, l’occultamento della perdita ad essa connessa e l’omissione dei provvedimenti di ricapitalizzazione necessari, in sé sono irregolarità “non sufficienti a determinare una responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori nei confronti della società ove non si dimostri che a causa di quelle violazioni la società medesima ha subito un danno” 38; pertanto l’irregolarità contabile e l’occultamento della perdita che ne sia derivata può solo essere invocata come presupposto dell’accertamento di uno stato di scioglimento della società funzionale a qualificare come illecita l’attività gestionale successiva in quanto non in linea con la finalità conservativa dell’integrità del patrimonio che gli amministratori possono/devono perseguire in una prospettiva liquidatoria (ex art. 2486 c.c.), la quale generalmente produce ulteriori perdite per la società 39anche se si tratta di un fatto non scontato che deve essere verificato così come non è scontato che dette ulteriori perdite costituiscono un danno ingiusto imputabile.

36 Cass. n.3032/2005; Cass. 2538/2005). 37 artt. 1218, 1223, 1225, 1226 c.c. per responsabilità contrattuale cui è riconducibile quella ex art. 2392 e 2476 c.c.; norme richiamate anche dall’ art. 2056 c.c. per quanto riguarda la valutazione del danno da responsabilità extracontrattuale cui è riconducibile quella ex art. 2394 c.c., salvo il 1225 c.c. che limita in caso di colpa il risarcimento ai danni prevedibili. 38) Cass. n. 3652 del 1997; Cass. 28.4.1997 n. 3652; Trib. Milano, 17.10.1988, Soc., 1989, 270. 39) C. App. Milano, 11.7.2007, Soc., 2008, 590.

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* 8. f) Criteri di liquidazione del danno. Quando si provi che v'è stata prosecuzione illecita dell’attività caratteristica che ha prodotto un aggravamento della perdita, se vi sono i bilanci degli esercizi successivi allo stato di liquidazione non dichiarato (o alla situazione di insolvenza anch'essa non dichiarata) il Tribunale può “determinare” il danno con riguardo ai risultati ufficiali di ogni esercizio, o segmento di esercizio, (risultati cui la curatela non muova censure o abbia rettificato) da cui vanno detratti solo i cespiti negativi frutto di rettifiche meramente contabili (es. ammortamenti) dunque non imputabili alla condotta gestoria, o i costi ineliminabili pur in una situazione di liquidazione, anche concorsuale (es. pagamento di canoni di locazione dell’immobile sede della società o del magazzino). In mancanza dei bilanci degli esercizi successivi a quello in cui – in tesi – la società doveva essere posta in liquidazione e la gestione della stessa limitata alla sola conservazione del valore del patrimonio, oppure quando detti bilanci non siano veritieri e la documentazione contabile necessaria per le rettifiche sia incompleta e/o inattendibile, si potrà ricorrere a criteri equitativi e presuntivi di liquidazione del danno. 1) il criterio c.d. della differenza attivo /passivo fallimentare. In linea generale il criterio c.d. differenza attivo/passivo non è in alcun modo compatibile con la necessaria sussistenza di un nesso casuale tra condotta e danno: nelle passività ammesse possono essere comprese situazioni debitorie non imputabili in quanto anteriori alla individuata perdita del capitale e l’ammontare delle attività è condizionata anche dall’azione della curatela che può essere non tempestiva o non adeguata (40). Vi sono, tuttavia, alcune specifiche situazioni in cui il ricorso a questo criterio equitativo è ammissibile e coerente con il principio di causalità che regge la responsabilità civile:

I. la prima è quella in cui il dissesto (inteso come la grave insufficienza patrimoniale che ha determinato l’insolvenza non dichiarata) sia stato causato direttamente da comportamenti colposi degli amministratori (41) (come il caso in cui un’attività distrattiva sistematica abbia eroso il patrimonio sociale e il capitale sociale).

II. la seconda è quella in cui manchino o siano completamente inattendibili le scritture contabili; in questo caso, infatti, il danno non è specificamente determinabile, ma non lo è per fatto e colpa degli amministratori, che, quindi, rimangono gravati dell’onere di provare che il danno è diverso e minore rispetto allo sbilancio attivo-passivo fallimentare;

2) la differenza dei netti patrimoniali (c.d. perdita incrementale)

40) Cass., n. 9252 del 1997 in Soc. 1998 1025; Cass., n. 16211 del 2007; Cass., n. 2538 del 2005; Trib. Roma, n. 8455 del 2008; Trib. Roma 19.1.1982, in Fall., 1983, 337. 41) Cass. 9252 del 1997; Cass., n. 17033 del 2008.

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Come detto si tratta di un criterio utilizzabile in presenza di situazioni di illecita prosecuzione dell’attività di impresa per un periodo di tempo considerevole, con conseguente difficoltà di ricostruire ex post le conseguenze di singole operazioni non conservative e di collegare ad esse un danno al netto dell’eventuale ricavo. Si tratta di un criterio che consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione patrimoniale della società (dunque, appunto, il danno per la società e per i creditori) intervenuta a causa della ritardata liquidazione. Esso consiste nella differenza tra l’ammontare del patrimonio netto della società al momento del verificarsi della causa di scioglimento ed il patrimonio netto della società al momento della messa in liquidazione (o della sentenza dichiarativa di fallimento, se non preceduta da fase di liquidazione); non, quindi, come invece spesso si vede proporre dalle curatele, tra il patrimonio netto della società al momento del verificarsi della causa di scioglimento e il “netto fallimentare” ( differenza tra attivo e passivo), due valori del tutto disomogenei. Poiché è un criterio presuntivo/equitativo di calcolo del danno - vi si deve fare ricorso secondo logica e buon senso, tenendo conto cioè del fatto che - “non tutta la perdita riscontrata dopo il verificatasi di una causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell’attività potendo in parte prodursi comunque, anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa” (42), - vi sono poste del passivo il cui incremento il comportamento alternativo corretto potrebbe non consentire di attenuare, come avviene per gli interessi e gli altri oneri finanziari (come i canoni di leasing) il cui decorrere non sarebbe arrestato dalla liquidazione societaria, e dunque non potrebbe essere imputato agli amministratori; - la prosecuzione dell’attività, pur quando non meramente ispirata a finalità conservativa, può non aver cagionato danno (per es. il conto economico dell’ultimo esercizio può rappresentare un rapporto costi – ricavi positivo). La prima condizione per la sua corretta applicazione è che si individui correttamente il primo termine di paragone, che essendo in tesi il bilancio a partire dal quale la società si assume aveva perso il capitale e andava, quindi, posta in liquidazione, deve essere rettificato non solo in ragione dell’applicazione corretta dei principi contabili “di funzionamento” ( che farà per l’appunto emergere la perdita occultata) ma anche alla luce dei criteri di redazione di un bilancio di liquidazione, in modo che si attui la doverosa sterilizzazione dell’ abbattimento dei valori contabili che comunque si sarebbe verificato se la società fosse stata tempestivamente posta in liquidazione: invero detto “abbattimento” fisiologico e doveroso in ragione dei principi contabili, non è imputabile alla mala gestio degli amministratori (43). In altre parole devono essere confrontate situazioni patrimoniali omogenee, essendo sbagliato ed illogico comparare – come spesso si vede avvenire da parte delle curatele - il risultato di bilanci redatti sul presupposto della continuità aziendale e bilanci redatti sul presupposto di attività liquidatoria Quindi:

a) il bilancio dell’esercizio in cui si assume essere avvenuta la perdita del capitale dovrà essere oggetto delle rettifiche “di funzionamento” onde far emergere la perdita “occulta”;

b) il bilancio medesimo dovrà essere oggetto anche di rettifiche di “liquidazione” se si assume che la società avrebbe dovuto essere posta in liquidazione a quella data (dovrà cioè essere depurato di tutti i valori dell’attivo che si giustificano solo in una prospettiva di continuità aziendale, quali avviamento, immobilizzazioni immateriali, ammortamenti; risconti attivi);

42) Cass. n. 17033 del 2008. V. anche: Trib. Milano, 24.1.1983, in Fall., 1984, 811; Trib. Torino, 24.12.1994, in Dir. Fall., 1995, II, 857. 43) Cass., n. 17033 del 2008

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c) il risultato d’esercizio di siffatto bilancio andrà confrontato con il bilancio finale, sempre “di liquidazione, il quale – ovviamente dovrà tenere conto delle stesse rettifiche di funzionamento operate sul primo bilancio (es. un credito inesigibile e perciò eliminato nel 2001 va eliminato anche nel 2003).

In questo modo è possibile individuare un depauperamento del patrimonio ragionevolmente imputabile 44.

Deve rammentarsi poi che, qualora nel corso della gestione sociale successiva alla perdita del capitale occultata, si siano succeduti più amministratori in periodo diversi, occorrerà stabilire l’incremento di deficit creatosi nel periodo in cui ciascuno ha ricoperto la carica, poichè solo per quel periodo ciascuno risponde.

*

9. Il controllo giudiziale sulla gestione ex art. 2409 c.c. - Cenni Il controllo sulla legittimità della gestione può avvenire mediante il ricorso all'autorità giudiziaria da parte di una minoranza che esprima almeno 1/10 del capitale sociale ovvero 1/20 nelle società quotate ex art. 2409 c.c.; i provvedimenti conseguenti all’iniziativa dei soci “possono essere adottati anche su richiesta del collegio sindacale, del consiglio di sorveglianza o del comitato di controllo sulla gestione" (art. 2409 u.c.) Il Tribunale, sentiti in camera di consiglio gli amministratori e i sindaci, può ordinare l'ispezione dell'amministrazione della società (provvedimento immediatamente reclamabile), sospendere il procedimento se l'assemblea sostituisce gli amministratori e i sindaci con soggetti di adeguata professionalità che si attivano senza indugio per accertare se le violazioni denunciate sussistono, e per eliminarle, o, nei casi più gravi, revocare gli amministratori ed eventualmente anche i sindaci e nominare un amministratore giudiziario che può proporre l'azione di responsabilità. scopo dell’istituto è, quindi , quello di accertare “ gravi irregolarità commesse nella

gestione che possano arrecare danno alla società o a una o più controllate” e di procedere alla successiva eliminazione delle stesse, al fine non di dirimere contrasti tra soci o tra soci e organo amministrativo, bensì di ricondurre la società ad una amministrazione corretta nell’interesse della società, dei soci (in particolare di quelli di minoranza di cui non sono espressione gli amministratori) e nell’interesse generale alla esatta applicazione delle norme in materia; interessi fra loro tutti collegati, poiché la tutela dell’uno importa anche quella mediata e di riflesso degli altri;

le “irregolarità” vanno intese nel senso di violazione di doveri che, per legge o per

statuto, gravano sugli amministratori in funzione della “ gestione”, intesa in senso lato e comprensiva di quegli aspetti che attengono ai rapporti tra organo amministrativo e organo di controllo; devono, comunque, attenere alla legittimità della gestione (quand’anche in termini di ragionevolezza e prudenza minime esigibili), e non investire l’opportunità o la convenienza di scelte imprenditoriali ed economiche;

dette “irregolarità”, inoltre, possono costituire idoneo presupposto di un intervento

dell’autorità giudiziaria in funzione di ripristino solo ove siano “gravi” - nel senso che 44 per un approfondimento delle "anomalie" che possono interferire nell'applicazione del metodo c.d. dei netti patrimoniali cfr Galletti , op.cit.

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oggettivamente attengano a comportamenti che differiscono in modo rimarchevole da quelli che gli amministratori avrebbero dovuto tenere - e “possano arrecare danno alla società o a una o più controllate”, dunque costituiscano una concreta ed attuale fonte di possibile pregiudizio per la società; con specifico riguardo alla rappresentazione della effettiva situazione patrimoniale della società e alla tempestività delle iniziative imposte dalla legge in caso di perdita del capitale ex art. 2447 c.c. pare necessario sottolineare, che le irregolarità informative riguardanti il bilancio di esercizio, di norma, non sono in grado in sé di essere “dannose” per la società e, quindi, non possono rilevare ex art 2409 c.c., ma solo se dette irregolarità informative non siano funzionali ad occultare una situazione patrimoniale non compatibile con la continuità aziendale; quando esse, invece, evidenzino indirettamente quella grave l’irregolarità della gestione che consiste nel non assumere i provvedimenti che la legge impone in caso di perdita del capitale sociale (omissione di per sé causa di pregiudizio per la società il cui funzionamento sarebbe del tutto avulso dalle regole che lo disciplinano, e, comunque, potenzialmente dannoso anche su un piano strettamente patrimoniale per il solo fatto che, in mancanza dei equilibrio reddituale e finanziario, la società che continuasse ad operare finirebbe ragionevolmente per essere esposta ad una sempre maggiore erosione del patrimonio), il Tribunale ben può intervenire ex art. 2409 c.c..

il “fondato sospetto” di irregolarità - condizione di ammissibilità del sindacato

giudiziario sulla gestione - può essere integrato da indizi obiettivi che rendano verosimili i fatti e i comportamenti oggetto della denuncia; cosicchè l’ispezione potrà essere disposta per andare alla ricerca della “prova” di quegli stessi fatti, prova che il ricorrente non è tenuto a dare, e che il Tribunale può acquisire d’ufficio per mezzo dello specifico predetto strumento istruttorio.

*

9. a) Aspetti processuali problematici Il procedimento ex art. 2409 c.c. è (secondo un orientamento ampiamente consolidato) un procedimento non contenzioso ma di volontaria giurisdizione, in quanto non è diretto all’accertamento di diritti soggettivi di una parte nei confronti dell’altra, ma a verificare ed eventualmente ristabilire - tramite provvedimenti mai suscettibili di acquisire efficacia di giudicato - la regolarità della gestione onde evitare danni alla società ( e di riflesso ai soci e ai creditori); il Tribunale adito ex art. 2409 c.c. svolge in definitiva una funzione “surrogatoria” della funzione dell’assemblea tutte le volte in cui questa non assume le iniziative che le competono e che sarebbero necessarie per eliminare le irregolarità denunciate; anche quando giunge alla revoca degli amministratori il Tribunale non va oltre quello che avrebbe dovuto fare l’assemblea rimasta inerte, non va oltre, cioè, un’attività “amministrativa” volta all’attuazione di interessi (della società dei soci, dei terzi creditori);

in un siffatto procedimento – che vede più che parti contrapposte “soggett interessati”, gli amministratori (ed anche i sindaci quando l’iniziativa è dei soci) devono senz’altro essere chiamati a partecipare al procedimento, e sono legittimati ad esercitare una autonoma attività difensiva a fronte degli addebiti che sono mossi nei loro confronti da chi (soci, organo di controllo, pubblico ministero) ha assunto l’iniziativa di una denuncia; proprio perchè la società è il soggetto in funzione del cui interesse il procedimento è promosso e condotto, nel vigore della normativa precedente si negava (quasi unanimemente) una legittimazione della società a partecipare al procedimento, in quanto “il procedimento per sua natura (a prescindere ovviamente dalle possibili strumentalizzazioni che ai fini di questa disamina non rilevano) non è destinato ad ospitare una qualche contrapposizione di interessi, rispettivamente facenti capo al ricorrente ed alla società, ma tutt’al più offre spazio alla dialettica tra diversi modi di intendere e tutelare l’interesse della società medesima” (Cass. Sez. I civ 23.1.1996 n. 498);

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il legislatore della riforma ha stabilito che il ricorso debba essere notificato anche alla società, sia in ragione dell’interesse della società ad interloquire in un procedimento in cui potrebbe essere costretta a subire gli effetti dei provvedimenti di controllo estremamente invasivi decisi dal Tribunale (in conformità al principio del diritto di difesa costituzionalmente garantito in ogni fase e grado del processo), sia in ragione del fatto che, una volta informata della pendenza del procedimento e del contenuto delle irregolarità che vengono contestate al suo organo gestorio, essa stessa – quindi l’assemblea - potrebbe assumere in autonomia quelle decisioni che porterebbero alla sospensione del procedimento ed ad evitare l’intervento del Tribunale (art 2409 comma 3°); "i commentatori della riforma sembrano reputare scontato che il ricorso vada notificato alla società anche

quando la denuncia ex art. 2409 c.c. è frutto dell’iniziativa dell’organo di controllo e non della minoranza qualificata dei soci, benchè nessuno si soffermi specificamente sulla indubitabile diversità delle due ipotesi: se il socio è senz’altro un soggetto diverso dalla società, portatore di un interesse specifico (quella della minoranza), onde appare senz’altro ovvio prevedere che la sua iniziativa contro l’organo di gestione espressione della maggioranza, le sia notificato, il collegio sindacale (che, s’è detto poco sopra, solo in quanto tale è legittimato ad assumere iniziative ex art. 2409 c.c. che devono reputarsi interdette ai sindaci uti singuli) è un organo della società, che agisce in quanto portatore dell’interesse di questa ad una gestione corretta; sicchè non appare scontato che, a fronte di una sua iniziativa di volontaria giurisdizione volta a ristabilire la regolarità della gestione della società, si debba prevedere la necessità della notifica di quest'ultima, nè appare scontato che vi sia la possibilità per la società di una sua (ulteriore) partecipazione per il tramite di un curatore speciale: un soggetto del tutto estraneo, nominato dal Presidente del Tribunale, che non ha il potere di convocare l’assemblea e che non ha nessun mandato di questa da rispettare; "45.

* * *

45 così ordinanza Trib. Milano 14.5.2012, nel caso Agrati s.p.a

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Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Il Fallimento Confezioni C.C. s.p.a. in liquidazione ha convenuto in giudizio gli amministratori e i sindaci della società fallita, già Capucci Corporation s.p.a., posta in liquidazione in data 9 luglio 2004 e dichiarata fallita in data 14-15 marzo 2005, chiedendo di accertare la responsabilità degli amministratori, dei sindaci e del liquidatore per violazione dei doveri ad essi imposti dalla legge e la conseguente condanna in solido dei medesimi al risarcimento del danno. 1. Il fatto e la allegazione attorea. L'attore ha dedotto che la società Confezioni C.C. s.p.a., costituita il 18 gennaio 2002 con la denominazione Capucci Corporation s.p.a. e con un capitale sociale di euro 1.000.000,00 era stata amministrata dai signori Franco Penè e Franco Bruccoleri (quest’ultimo nel frattempo deceduto; in giudizio è stato convenuto il curatore dell'eredità giacente), indirettamente anche soci della stessa. Costoro nell’intento di avviare un’attività d’impresa finalizzata allo sfruttamento del marchio “Capucci” per una linea di abbigliamento femminile pret a porter, secondo la curatela, avrebbero compiuto in data 20.6.2002 un'operazione commerciale del tutto sconsiderata: nel gennaio 2002 venne costituita la società Capucci Corporation s.p.a., ( poi Confezioni

C.C. s.p.a.) il cui capitale era suddiviso al 50% tra Econama s.r.l., riconducibile a Franco Penè, e Stemarlù S.A., riconducibile a Franco Bruccoleri;

nel febbraio 2002 venne costituita una società “veicolo” denominata RC TRADE MARK s.r.l. appartenente per il 30% alla famiglia Capucci, e per il 70% alla Capucci Corporation s.p.a;

detta società acquistò il 20.6.2002 dal signor Roberto Capucci (quale imprenditore individuale) un Ramo d'Azienda comprensivo del marchio "RC Roberto Capucci" ( relativo a specifiche classi merceologiche per l’Italia e paesi del protocollo di Madrid) per complessivi euro 645.571,12 ( sulla base di una relazione estimativa);

di questi, euro 530.456,90 vennero corrisposti subito con due bonifici del 17 giugno 2002 e del 3 luglio 2002; il residuo importo avrebbe dovuto essere pagato entro il 31 dicembre 2004: infatti il marchio predetto, compreso nel ramo d’azienda acquistato, era utilizzato e sfruttato dalla società Roberto Capucci s.r.l. in virtù di licenza che sarebbe scaduta il 31.12.2004;

il contratto di cessione del ramo d’azienda e del marchio (tra Roberto Capucci e RC TRADE MARK) fu, perciò, collegato ad un contratto di sub-licenza del marchio stesso stipulato con la licenziataria; a stipulare il contratto di sub- licenza però fu non la cessionaria RC Trade Mark, ma la sua controllante, cioè Capucci Corporation s.p.a.: questa convenne con la licenziataria Roberto Capucci s.r.l. di poter utilizzare i Marchi "RC" (cioè quello appena acquistato da Roberto e altro - connesso a diverse classi merceologiche – di proprietà della s.r.l. Roberto Capucci che al 31.12.2004 avrebbe ceduto a RC Trade Mark senza ulteriore esborso; cfr. punto G del contratto e relativi allegati) per l’anno 2002 (anno di inizio dell’attività) verso il corrispettivo di euro 258.228,45 ( da versarsi entro il 31 dicembre 2002, suddiviso in quattro rate uguali di euro 64.557,11) e per il prosieguo dietro versamento di royalties pari al 10% dell’ammontare del fatturato, con un minimo garantito per il 2003 e il 2004 di una royalty annuale di euro 258.228,45, da pagarsi sempre in quattro rate annue uguali di euro 64.557,11;

il contratto di sub-licenza sarebbe scaduto il 31.12.2004: in tale data il diritto di sfruttamento di entrambi i Marchi ( quello ceduto da Roberto Capucci e quello della s.r.l. Roberto Capucci) si sarebbe ricongiunto con il diritto di proprietà del

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medesimo: per questa ragione il 15.11.2002 RC Trade Mark stipulò con la propria controllante Capucci Corporation due contratti di licenza per lo sfruttamento in esclusiva dei due Marchi “RC” a partire dal 1.1.2005 e sino al 31.12.2005;

sia il contratto di cessione del ramo d’azienda, sia il contratto di sub-licenza del marchio prevedevano una clausola risolutiva espressa ex art.1456 c.c. per il caso di mancato puntuale pagamento anche di una sola parte delle royalties o dei minimi garantiti; in entrambi era espressamente stabilito che la proprietà del Marchio sarebbe tornata immediatamente in capo al signor Roberto Capucci senza che il compratore potesse opporre eccezioni di alcun tipo, e soprattutto, con rinuncia di RC Trade Mark alla pretesa di restituzione dell’indebito, ossia dell’acconto di euro 530.456,90 versato per l'acquisto del marchio.

*

La negligenza degli amministratori risiederebbe - secondo la curatela - nel fatto di aver convenuto il pagamento dell'intero prezzo – 530.456,90 su 645.571,12 - per un bene - il Marchio Capucci - privo di valore economico perché "separato" dal diritto di sfruttamento, diritto che sarebbe stato pagato a parte mediante royalities annue, garantite per gli anni 2003 e 2004 nella misura minima di euro 258.228,45; irragionevole sarebbe stato altresì convenire la possibilità per il venditore, in caso di inadempimento del compratore, di ritornare in possesso del marchio senza dover restituire l'importo del prezzo frattanto pagato; ipotesi, di fatto, concretamente realizzatasi. Fermo il fatto che la condotta sopra descritta riguarda i convenuti quali amministratori della RC Trade non della Capucci Corporation, la curatela in relazione a detta operazione ha dedotto, con riguardo alla gestione della società controllante fallita Capucci Corporation, che: - l'operazione realizzata per mezzo dei contratti collegati avrebbe comportato a carico della fallita un finanziamento a "fondo perduto" "senza obbligo di restituzione da parte della società” (ovvero la provvista per l'anticipo del prezzo d'acquisto del ramo d'azienda, di euro 530.456,90; cfr. patti parasociali tra i sig. Capucci e Capucci Corporation sub doc. 33 pag. 3); - la pattuizione di ingenti esborsi per royalities a scadenze fisse non avrebbe tenuto conto del fatto che la remunerazione dei costi dell'attività intrapresa, per sua natura, non sarebbe avvenuta a breve; i convenuti - quali amministratori di Capucci Corporation - non avrebbero valutato adeguatamente e prudentemente i presupposti dell'equilibrio reddituale della società, e, quindi, la possibilità che questa onorasse il proprio debito verso la Concedente s.r.l. Robert Capucci ( per le royalities) e verso Roberto Capucci ( per il saldo del prezzo) e non incorresse nella risoluzione del contratto; - tanto più perchè non avrebbero pattuito alcun anticipo di royalties con le proprie licenziatarie (Corporate s.r.l. e Maglificio Emmevizeta) che erano obbligate a corrispondere quanto dovuto solo una volta ricevuti i pagamenti dei clienti. A quest’operazione e alla sua realizzazione sarebbe riconducibile - secondo l'attore - la perdita sin dal primo esercizio del capitale sociale della Capucci Corporation s.p.a.: l'attore ha, invero, dedotto che gli amministratori e i sindaci avrebbero occultato la reale entità delle perdite di bilancio della Capucci Corporation s.p.a. del primo esercizio, mediante:

a) l’esposizione di un credito inesistente, ovvero per aver indicato nell’attivo circolante, come "credito" esigibile il finanziamento di euro 530.465,90 effettuato a favore della controllata RC TRADE MARK s.r.l., che negli stessi patti parasociali veniva qualificato come finanziamento “a fondo perduto” (cfr. doc.33 fasc. attore), e che, comunque, avrebbe dovuto considerarsi “inesigibile” in relazione alle caratteristiche

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dell'operazione di acquisto del Marchio Capucci (nel senso che – a dire del fallimento - RC Trade Mark non sarebbe mai stata in grado di restituire detta somma, argomento che non tiene conto del fatto che dal 2005 sarebbe stata RC Trade a ricevere le royalities dalla licenziataria Capucci Corporation);

b) l'illegittima capitalizzazione di costi, che avrebbero dovuto essere riportati nel conto economico e non tra le immobilizzazioni immateriali (euro 258.228,44 relativi al corrispettivo per lo sfruttamento in esclusiva dei prodotti a marchio “RC Roberto Cappucci”, ed euro 20.448,72 per spese di viaggio);

c) l’ omissione degli ammortamenti e delle svalutazioni relativi ai costi immobilizzati; nella specie le immobilizzazioni immateriali avrebbero dovuto essere ammortizzate fin dal primo esercizio esponendo la relativa quota sia nell’attivo, sia nel conto economico; peraltro, a dire della curatela, dette immobilizzazione avrebbero dovuto essere svalutate integralmente già al 31.12.2002 considerato che, successivamente alla chiusura del primo bilancio di esercizio, nel primo semestre 2003 la società versava in stato di "grave insolvenza";

d) la "sospensione" della registrazione di costi già sostenuti e di esclusiva competenza dell’esercizio 2002 (pari ad euro 178.410,00) erroneamente appostati nell’attivo tra i "risconti".

Secondo il fallimento, quindi, la Capucci Corporation s.p.a. avrebbe perduto integralmente il capitale sociale già al 31.12.2002, in ragione di una perdita di esercizio reale di euro 1.085.621,00 a fronte di quella di euro 55.540,00 risultante dal bilancio depositato. Inoltre già dal primo semestre del 2003 avrebbe versato in "stato d’insolvenza", stante uno stato di illiquidità, il forte indebitamento con le banche (circa 700.000,00 euro) e la totale assenza di ricavi (l’unica fattura emessa dalla società nei confronti della Corporate srl nel primo semestre è stata contestata da quest’ultima e non pagata, onde a dire del fallimento sarebbe stata emessa solo in funzione dell'anticipo di credito della BNL di euro 203.000,00): già dopo il primo semestre 2003, infatti, la società non sarebbe stata in grado di pagare la royalty in scadenza al 30.6.2003, che venne pagata solo parzialmente e con ritardo tra novembre e dicembre. Poiché poi non vennero pagate né la rata scaduta a settembre né quella scaduta a dicembre 2003, la Roberto Capucci s.r.l., avvalendosi della clausola risolutiva espressa, aveva sciolto nella primavera del 2004 il contratto di cessione del marchio e quello di sub licenza. La gravità della situazione già al primo semestre 2003 sarebbe stata confermata da un bilancio di verifica datato 31 maggio 2003 che avrebbe evidenziato una perdita di euro 708.246,42. La suddetta situazione, tuttavia, sarebbe stata ufficializzata da amministratori e sindaci solo nel mese di novembre, in quanto la verifica della situazione patrimoniale al 30.09.2003 sarebbe stata rinviata senza motivo al 10.11.2003; Nonostante da detta verifica fosse emersa una perdita di esercizio di euro 1.200.000,00 i convenuti non avrebbero provveduto né agli adempimenti ex art. 2447 cod. civ. (in funzione della urgente ricapitalizzazione), né alla richiesta di fallimento in proprio (a dire della curatela doverosa), proseguendo l'attività con grave danno per la società stessa e i terzi creditori.

*

La condotta contestata, quindi, agli amministratori come ai sindaci, è quella di aver ritardato la dichiarazione di fallimento che, a dire della curatela, si imponeva stante lo stato di illiquidità e di reale insolvenza sin dalla fine del primo semestre 2003 o, comunque,

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stante la situazione patrimoniale registrata ufficialmente - dal settembre 2003 ( in quanto il bilancio di verifica a quella data denunciava una “perdita d’esercizio” di euro 1.200.000), e di aver proseguito l’attività sociale. Assume la curatela che "fin dal primo semestre 2003 sussistevano concreti ed inconfutabili elementi (perdita di esercizio pari al capitale sociale, grave indebitamento per oltre un milione di euro, mancanza di liquidità, assenza di ricavi per pagare alle scadenze le obbligazioni assunte) che evidenziavano uno stato di insolvenza della società"; a ben vedere però ciò sarebbe stato chiaro già alla fine del primo trimestre 2003 poichè il finanziamento di 500.000 euro ricevuto dalla società Stemarlù ( socia al 50%) era stato del tutto insufficiente stante l'erosione del capitale sociale asseritamente già prodottasi. In particolare: nei confronti degli amministratori Franco Bruccoleri (in carica fino alla data della

liquidazione) e Franco Penè (in carica fino all’8 novembre 2003) la curatela ha dedotto una responsabilità per inosservanza degli obblighi relativi alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, asserendo che il danno avrebbe potuto essere evitato o comunque ridotto se gli amministratori avessero preso atto della situazione di decozione quantomeno dal 31 maggio 2003, e avessero adottato i rimedi di legge: ricapitalizzazione della società o scioglimento e richiesta di fallimento in proprio;

nei confronti dei sindaci Maurizio Bocca, Piercarlo Bocca ( sindaci dalla costituzione e

soci della società di consulenza che prestava la propria attività in favore della società fallita redigendone tra l'altro i bilanci), Piercarlo Sesia (sindaco dalla costituzione sino al 10.11.2003) e Maurizio Navarra (sindaco dal 10.11.2003 al 14.3.2005) il fallimento ha dedotto che i menzionati soggetti avrebbero acconsentito ad occultare la perdita di bilancio dell’esercizio 2002, non opponendosi alla errata capitalizzazione dei costi, alla sospensione di costi di esercizio per euro 178.410,00 inseriti nell’attivo come risconti, al mancato ammortamento dei costi immobilizzati nonché alla esposizione in bilancio di un credito inesistente/inesigibile; la curatela ha quindi ravvisato un concorso dei sindaci - attraverso l'omissione dei controlli e delle iniziative che loro competevano (convocare l'assemblea o provocare il fallimento in proprio) - nella prosecuzione illecita dell’attività sociale compiuta dagli amministratori (da Bruccoleri e Penè sino all'8.11.2003, poi solo da Bruccoleri) sino alla data in cui la società venne posta in liquidazione;

nei confronti dei sindaci Libero Balata e Roberto Lattanzi (sindaci dal 9.7.2004, data della

liquidazione ), e del liquidatore Maurizio Bocca, il fallimento ha dedotto una responsabilità in solido dei medesimi per aver ritardato la dichiarazione di fallimento senza giustificato motivo, nonostante le istanze di fallimento già pendenti, e “temporeggiando irragionevolmente con la vendita di beni mobili”.

La curatela ha individuato il danno causato dal ritardo nella dichiarazione di fallimento e quindi nella prosecuzione dell'attività sociale in termini di aggravamento della perdita gestionale e lo ha determinato attraverso il criterio della differenza dei patrimoni netti ( allo scopo, ha confrontato il risultato del bilancio 2002, con i risultati dei bilanci successivi, provvedendo a rettificare il primo alla luce delle censure sopra illustrate e poi riportando a nuovo le perdite effettivamente riscontrate); il danno complessivamente calcolato in euro 5.682.044,00 l’ha poi imputato individualmente ai diversi amministratori, ai sindaci e al liquidatore a seconda del periodo in cui erano in carica.

*

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2) La contumacia dei signori Andrea Bordino e Roberto Lattanzi. Il signor Andrea Bordino, citato in qualità di Curatore dell’Eredità giacente di Franco Bruccoleri, (amministratore della società dalla costituzione sino alla messa in liquidazione), e il signor Roberto Lattanzi, sindaco della società dal 9 luglio 2004 al 14 marzo 2005, nonostante la regolarità della notifica non si sono costituiti in giudizio. Ne va, quindi, dichiarata la contumacia 3) Le difese dei signori Franco Penè e Piercarlo Sesia. Il signor Franco Penè ( amministratore dal 18.1.2002 all'8.11.2003) e il signor Piercarlo Sesia (sindaco dal 18.1.2002 al 22.10.2003) si sono costituti con un'unica comparsa di costituzione svolgendo insieme le proprie difese. Il dott. Sesia ha poi transatto la controversia con la curatela. I convenuti hanno contestato l'affermazione del fallimento per la quale il capitale sociale sarebbe stato integralmente perduto già al 31.12.2002, e rivendicato la correttezza delle appostazioni di bilancio di quell’esercizio osservando che il ciclo di produzione e vendita nella moda dura circa 16 mesi: i primi nove mesi l’azienda dovrebbe unicamente sopportare tutti i costi legati ai capi in produzione, mentre i ricavi potrebbero essere conseguiti solo dopo altri sei mesi; pertanto, la Capucci Corporation s.p.a., avendo iniziato a lavorare sulla collezione autunno/inverno 2003-04 nel giugno 2002 avrebbe potuto fisiologicamente cominciare a rientrare dalle ingenti spese iniziali solo dall’autunno 2003; nel contempo, mentre era in corso il suddetto ciclo di produzione, la società nel marzo 2003 doveva dedicarsi alla collezione primavera – estate 2004, il cui ciclo avrebbe portato alla vendita e ai successivi incassi solo nel periodo che va tra maggio e luglio 2004, quindi la società nell’anno 2003, pur non avendo ancora incassato tutti i ricavi della prima collezione, doveva provvedere a fronteggiare i costi della seconda collezione. Solo, quindi, con le vendite delle prime due collezioni si sarebbe potuta ritenere conclusa la fase di start-up dell’iniziativa, in quanto la società sarebbe entrata in un ciclo continuo di produzione/vendite/ricavi ( cfr. busness plan dell’ottobre 2002 redatto da NetworkConslting Group (sub doc. n. 12). In particolare sulla censura della curatela relativa all’iscrizione del finanziamento fatto alla RC Trade Mark s.r.l., hanno osservato che esso, quale finanziamento in conto capitale, sarebbe stato correttamente appostato nel bilancio della controllante come credito nei confronti della controllata; e quanto alla contestazione relativa alla capitalizzazione di costi di competenza dell’esercizio in corso (euro 258.228,44 + 20.448,71), hanno invocato la condizione di start-up della società e la particolare attività svolta dalla medesima (per la quale nel primo anno di attività non sarebbe stato possibile conseguire alcun ricavo) che giustificherebbero anche l’omissione degli ammortamenti e delle svalutazioni relativi ai costi immobilizzati. Infondata, infine, sarebbe la deduzione del fallimento in merito all’esistenza di uno “stato di insolvenza” della società già all’inizio del 2003, in quanto la Capucci Corporation nel 2002 e per tutto il 2003 avrebbe goduto di un amplissimo credito bancario, pari a circa euro 1.200.000,00 ed avrebbe pagato regolarmente, o con qualche normalissimo ritardo, tutti i debiti in scadenza; e le censure della curatela all’operazione economica per l’acquisto del marchio RC Capucci sarebbe espressione di un indebito sindacato di merito ex post dell’operazione posta in essere. Hanno, in subordine, eccepito la carenza di legittimazione passiva per gli eventuali danni provocati dalla prosecuzione dell'attività dopo le loro dimissioni.

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I convenuti hanno formulato domanda riconvenzionale di condanna del fallimento ex art. 96 cpc.

* 4) Le difese dei signori Piercarlo Bocca e Maurizio Bocca. I signori Piercarlo Bocca e Maurizio Bocca, sono stati sindaci dalla costituzione sino alla messa in liquidazione della società; Maurizio Bocca anche liquidatore dal 31.07.2004 alla dichiarazione di fallimento; si sono costituiti deducendo: 4.a ) quali sindaci della società fallita: l'infondatezza delle allegazioni della curatela sulla scorrettezza dei criteri di redazione

bilancio al 31.12.2002 sostanzialmente alla luce delle stesse considerazioni svolte da Penè e Sesia;

in particolare riguardo al finanziamento per euro 530.465,90 effettuato dalla società fallita a favore di RC TRADE MARK s.r.l., hanno sostenuto che tale finanziamento non poteva essere qualificato a "fondo perduto" e che in ogni caso, anche prescindendo dalla qualificazione giuridica dell’apporto della controllante alla controllata, lo stesso avrebbe comunque accresciuto il patrimonio della controllata e prodotto, conseguentemente, un riflesso sull’attivo della controllante;

La correttezza del loro operato deducibile dai verbali delle verifiche sindacali: avendo avuto contezza che dalla situazione patrimoniale al 30.9.2003 emergeva uno squilibrio per 1,2 milioni di euro, avrebbero subito rilevato come tale situazione imponesse agli amministratori la convocazione dell’assemblea per la copertura delle perdite in formazione o per la messa in liquidazione; ma l’amministratore unico Bruccoleri li aveva rassicurati, con una lettera nella quale affermava che detta perdita trovava già "sin d’ora copertura nelle voci iscritte in contabilità”; anche in seguito lo stesso A.U. avrebbe rassicurato i sindaci in merito a trattative relative all’ingresso in società di un nuovo socio in grado di apportare capitali sufficienti a coprire le perdite e ciò li avrebbe indotti a soprassedere alla convocazione immediata dell’assemblea per la copertura delle perdite (hanno invocato il fatto che l'accordo era stato allegato al libro verbali del Collegio Sindacale); tuttavia, il 4.6.2004, rilevato che dal progetto di bilancio al 31.12.2003 emergeva una perdita di 3.355.803,00, avrebbero invitato l’organo amministrativo a convocare in tempi brevissimi l’Assemblea Straordinaria, che si sarebbe svolta il 9 luglio 2004; in tale sede proprio il Presidente del Collegio Sindacale avrebbe manifestato perplessità sulla precaria situazione economica e finanziaria della società, spingendo l’unico socio a deliberare lo scioglimento della società e la sua messa in liquidazione.

4.b) Maurizio Bocca quale liquidatore ha dedotto : che egli avrebbe posto in essere tutti gli atti utili alla liquidazione:

- al momento dell'assunzione dell'incarico avrebbe preso atto di trattative in corso per la vendita della società, trattative che avrebbe provato a concludere anche su precisa indicazione in tal senso del G.D., che all’udienza pre-fallimentare del 12.11.2004 avrebbe concesso un rinvio al fine di esperire ogni possibile tentativo di salvare la società dal fallimento;

- ha sottolineato che ex ante il progetto di cedere la società poggiava sul fatto che la famiglia Capucci (socia al 30% della RC Trade Mark s.r.l.) aveva manifestato disponibilità a ritenere la risoluzione della cessione del marchio tamquam non esset nel caso in cui fosse intervenuto, pur tardivamente, il saldo

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del prezzo e delle royalties, e a vendere anche il 30 % del marchio rimasto nella loro disponibilità;

- il curatore, in ogni caso, non avrebbe dimostrato il proprio assunto (l’aggravamento del dissesto) e sarebbe carente di legittimazione attiva quanto al danno eccedente il passivo fallimentare.

I predetti convenuti hanno anche chiesto che in via riconvenzionale subordinata sia accertato il diverso grado di responsabilità dei medesimi determinando il diverso importo al quale ciascun convenuto è tenuto nei rapporti interni; hanno chiesto infine "di condannare gli amministratori a tenerli indenni dal relativo esborso nei confronti del fallimento".

* 5) Le difese del signor Maurizio Pasquale Navarra. Il dottor Maurizio Pasquale Navarra si è costituito deducendo : di aver assunto la carica di sindaco della Capucci Corporation s.p.a. solo

dall’8.11.2003; che nella prima riunione del collegio sindacale (del 10.11.2003), a fronte dei risultati

del bilancio di verifica al 30.9.2003 che evidenziavano una perdita di circa euro 1.200.000,00 con un indebitamento verso fornitori di euro 1.038.934,00 e verso istituti di credito per euro 1.237.555,00, il collegio sindacale avrebbe subito rilevato che tale situazione imponeva agli amministratori la convocazione dell’assemblea per deliberare la ricapitalizzazione o la messa in liquidazione della Capucci Corporation s.p.a.;

che il signor Bruccoleri, A.U. della società fallita, in occasione della successiva riunione del Collegio Sindacale del 15.01.2004, aveva “rassicurato” il Collegio Sindacale affermando di essere in trattativa per l’ingresso di un nuovo socio in società, la Danter Company SA, che avrebbe apportato la liquidità necessaria per coprire le perdite al 31.12.2003 e per consentire il perseguimento degli scopi aziendali; alla riunione del 4.4.2004 l’A.U. avrebbe esibito un verbale di accordo preliminare sottoscritto da Stemarlù SA ( divenuta socio unico di Capucci Corporation s.p.a.) e da Danter Company SA, con il quale quest’ultima società si impegnava a ricapitalizzare la controllante Stemarlù per euro 3.000.000,00 e una volta divenutane socia di maggioranza a ripianare la situazione economica della controllata Capucci Corporation; il tutto sarebbe dovuto avvenire entro il 23.4.2004;

solo alla riunione del 18.5.2004 il Collegio sindacale, tuttavia, avrebbe appreso dall’A.U. che la trattativa era slittata, e, pur riconoscendo la possibilità che Danter Company non avesse più interesse all’operazione, avrebbe deciso di attendere il deposito del bilancio di esercizio;

alla prima riunione utile, svoltasi il 4.6.2004, ufficializzata la perdita e fallita la trattativa con Danter Company SA, il Collegio sindacale avrebbe invitato formalmente l’A.U. ad adottare i provvedimenti ex artt. 2447 e 2484 cod. civ. e in data 9.7.2004 l’assemblea straordinaria avrebbe deliberato la messa in liquidazione della società e la nomina del dott. Maurizio Bocca come liquidatore.

che durante la liquidazione il Collegio Sindacale si sarebbe riunito due volte: il 22.11.2004 sarebbe stato informato dal liquidatore dell’esistenza di due istanze di fallimento rinviate all’udienza dell’8.3.2005 e della pendenza di trattative con un fondo franco-americano per il ripianamento dei debiti; il 24.2.2005 il Collegio Sindacale avrebbe appreso dell’esito negativo delle trattative con il fondo franco-americano ed espresso parere favorevole alla decisione del liquidatore di produrre memoria all’udienza dell’8.3.2005 in cui avrebbe concluso in senso favorevole al fallimento.

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In definitiva il dott. Navarra reputa di non poter essere ritenuto responsabile per non aver convocato - a seguito di inerzia degli amministratori - senza indugio l’Assemblea Straordinaria per deliberare la ricapitalizzazione o lo scioglimento ai sensi degli artt. 2446 e 2447 cod. civ., in quanto tale dovere sarebbe sorto solo con il deposito del bilancio di esercizio 2003 della società avvenuto il 4 giugno 2004. Infine, ha concluso, che mancherebbe la prova del nesso causale tra la condotta addebitata in termini di omissione della dichiarazione dello stato di insolvenza e il “ritardo” nella dichiarazione stessa, con ogni relativa conseguenza, atteso che già a partire dal 15.9.2004 erano state depositate tre istanze per la dichiarazione di fallimento onde era in corso il procedimento di discussione di dette istanze avanti al GD. Quanto al danno, che il criterio del differenziale dei netti patrimoniali sarebbe specialmente iniquo per il signor Navarra in quanto sarebbero comparati patrimoni netti risultanti da bilanci non omogenei. Ha chiamato in causa la propria assicurazione, l’Assicurazione Milanese s.p.a., per essere manlevato da ogni eventuale obbligo di pagamento. 6) Le difese del signor Libero Balata. Il signor Libero Balata, Presidente del Collegio Sindacale della società dalla messa in liquidazione (9.7.2004) alla dichiarazione di fallimento (14.3.2005), si è costituito deducendo : che i Sindaci nominati dall’Assemblea Straordinaria del 9.7.2004, in cui era stata

deliberata anche la messa in liquidazione della società, nella loro prima riunione avvenuta in data 22.11.2004, avevano chiesto al liquidatore, dott. Maurizio Bocca, di essere relazionati sullo stato della liquidazione, e di aver preso atto in quella sede della pendenza di due istanze di fallimento l’udienza di trattazione della prima delle quali era fissata l’8.3.2005;

che nella successiva riunione tenutasi il 24.2.2005 i sindaci avevano appreso che era stata presentata una terza istanza di fallimento e che tutte le istanze erano state riunite e rinviate all’udienza dell’8.3.2005 in cui il liquidatore avrebbe chiesto il fallimento della società;

che i Sindaci avrebbero fatto constare a verbale il loro parere adesivo e che il fallimento della società sarebbe stato dichiarato a seguito dell’udienza dell’8 marzo.

Il convenuto Balata ha formulato domanda riconvenzionale di condanna del fallimento ex art. 96 c.p.c. 7) Le difese delle Compagnie Assicuratrici. Le compagnie assicuratrici Assicuratrice Milanese e Aurora Assicurazioni si sono costituite associandosi alle difese svolte dagli assicurati nel merito, eccependo, in via subordinata, l'inoperatività della copertura assicurativa in relazione al disposto dell'art. 1917c.c e 1892 c.c

- Motivi della decisione -

Preliminarmente il Collegio conferma il decreto di fissazione d’udienza emesso dal GR anche in punto prove. A.) Le condotte contestate e il danno

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La curatela ha chiesto il risarcimento del danno derivato dal "peggioramento della situazione patrimoniale della società conseguente alla mancata cessazione dell'attività al momento della perdita del capitale sociale nonché alla mancata tempestiva dichiarazione di fallimento" (vedi sintesi pag. 50 memoria replica fall.). Invero ha dedotto: che la Capucci Corporation s.p.a. avrebbe perduto integralmente il capitale sociale

già al 31.12.2002, in ragione di una perdita di esercizio reale di euro 1.085.621,00 a fronte di quella di euro 55.540,00 risultante dal bilancio depositato;

che già dal primo semestre del 2003 avrebbe versato in "stato d’insolvenza" per lo stato di illiquidità, il forte indebitamento con le banche (circa 700.000,00 euro) e la totale assenza di ricavi.

Lo stato di insolvenza e, comunque, la perdita del capitale sin dal primo esercizio, sarebbe da attribuire alla negligente ideazione e realizzazione dell' operazione di acquisto del marchio "Capucci", che avrebbe condizionato - sin dalla fase di start up - l'esito dell'iniziativa imprenditoriale intrapresa impedendone il decollo. La curatela contestando la ragionevolezza dell'operazione di acquisto del marchio (che riguarda la società fallita in quanto finanziatrice dell’operazione stessa) non ha inteso chiedere il ristoro del danno specifico in ipotesi derivato dalla pattuizione relativa alla risoluzione del contratto (rinuncia della RC Trade ad ottenere la restituzione del prezzo versato, e correlata perdita per Capucci Corporation della possibilità di ottenere la restituzione del finanziamento erogato cui, peraltro, aveva espressamente rinunciato con i patti parasociali); bensì ha inteso dedurre l’erroneità della rappresentazione che della stessa era stata fornita nel bilancio al 31.12.2002 e l’insostenibilità ex ante dell’attività intrapresa.

*

Ciò precisato il Tribunale deve valutare : a) la fondatezza della censura mossa al bilancio 2002 con riguardo alla valorizzazione di detta operazione, onde verificare la fondatezza dell’assunto per cui sin da quel momento doveva reputarsi perduto il capitale: mentre gli amministratori considerarono l'investimento compiuto da Capucci Corporation in RC Trade Mark un cespite attivo, la curatela reputa che detto investimento in quanto "a fondo perduto" avrebbe dovuto essere considerato un mero "costo" di esercizio "da imputare a conto economico, con ogni conseguenza derivante sulla perdita del capitale della società”. b) la fondatezza dell’affermazione per cui, comunque, già dal primo semestre del 2003 la società avrebbe versato in "stato d’insolvenza" (a causa di uno squilibrio irrimediabile stante il modo “sconsiderato” in cui era stato concepito e realizzato l’acquisto e lo sfruttamento del ramo aziendale contenente il Marchio Capucci) o, comunque, in stato di liquidazione per erosione dell’intero capitale sociale.

*

A1.) L’operazione di acquisto del marchio e la correttezza del bilancio dell’esercizio 31.12.2002. L’assunto per cui l’operazione in parola sarebbe stata concepita in modo del tutto sconsiderato e irragionevole, tale che ex ante sarebbe stato ovvio il suo fallimento, non ha trovato fondamento.

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Tantomeno è fondato l’assunto sub a) per cui il capitale della società doveva ritenersi perduto già al 31.12.2002 . Premesso che agli amministratori di una società non può essere addebitato ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, poiché il sindacato giurisdizionale non può riguardare il merito di un’attività discrezionale ma solo la sua legittimità (onde sotto il profilo della diligenza il giudice può solo verificare che determinate scelte siano state assunte alla luce delle cautele, verifiche e informazioni preventive che normalmente sono richieste in quei casi), si osserva che dai documenti di causa risulta che:

Capucci Corporation s.p.a. fornì alla controllata RC Trade Mark la provvista per il pagamento dell’acconto per l’acquisto del ramo d’azienda che quella effettuò da Roberto Capucci;

nel bilancio al 31.12.2002 la società controllata, iscrisse tra le immobilizzazioni immateriali al costo storico di acquisto, il valore del ramo d’azienda ceduto dall’impresa individuale Roberto Capucci (645.571,12) e, tra i debiti esigibili oltre i 12 mesi il debito verso soci per finanziamenti ricevuti pari ad euro 536.456,90, nonché il debito residuo verso Roberto Capucci per euro 129.114, 22 (pari al saldo del prezzo dovuto al 31.12.2004);

nel bilancio al 31.12.2002 la società fallita controllante iscrisse nell’attivo circolante dello stato patrimoniale un credito esigibile oltre i 12 mesi verso la controllata pari a 530.457,00;

reputa il Tribunale che, a prescindere dalla qualificazione giuridica dell’apporto della controllante (finanziamento tout court o finanziamento in conto aumento capitale come si desumerebbe dagli accordi contenuti nei patti parasociali, ove era prevista che la società “veicolo” Trade Mark non avesse alcun obbligo di restituzione verso Capucci Corporation), e quindi a prescindere da quale che fosse la corretta iscrizione a bilancio della posta in questione, l’esborso compiuto in favore della controllata era comunque una posta attiva da considerare agli effetti del calcolo del patrimonio netto: detto esborso, invero, aveva comunque accresciuto il patrimonio della controllata e conseguentemente quello della controllante, in termini di aumentato valore della partecipazione iscritta tra le immobilizzazioni immateriali;

né può condividersi quanto sostiene la curatela a proposito del fatto che la valorizzazione della partecipazione fosse ingiustificata perché RC Trade avrebbe a convenuto il pagamento di quasi l'intero prezzo (530.456,90 su 645.571,12) per un bene - il Marchio Capucci - privo di valore economico perché "separato" dal diritto di sfruttamento: RC Trade (partecipata al 30% dalla fam. Capucci) acquistò, invero, con quell’apporto il ramo d’azienda e la titolarità del Marchio Capucci (anzi dei Marchi, ovvero anche quello posseduto da Roberto Capucci s.r.l.), il quale, secondo la relazione estimativa redatta in vista della cessione dal perito nominato dal Presidente del Tribunale di La Spezia (in vista di quello che secondo un’iniziale accordo con Capucci doveva essere un “conferimento”; cfr. doc. n. 49) aveva in sé (a prescindere dal compenso derivante dalla concessione in licenza a terzi, quindi sulla sola base dell’elemento “notorietà”; cfr. relazione pag. 9) un valore di circa 1.250.000,00; pur dovendosi dedurre da detta valorizzazione il valore dell’archivio storico degli abiti (500.000) e dei disegni (250.000) che non furono poi ceduti a RC Trade Mark (anche se l’accordo prevedeva il diritto di utilizzare i disegni e i bozzetti in perpetuo ed in esclusiva da parte di Capucci Corporation ) il marchio Capucci - di grandissima storica notorietà - aveva, dunque un valore commerciale di almeno euro 500.000,00;

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il fatto che sino al 31.12.2004, il diritto di sfruttamento del marchio fosse stato concesso (con contratto di licenza) alla società Roberto Capucci s.r.l., non interferiva con la valorizzazione del Marchio – come espressamente specificato dal perito – giacché tale licenza esclusiva a terzi era stata concessa senza corrispettivo; ma l’intento imprenditoriale di Capucci Corporation di sfruttare in esclusiva il Marchio acquistato attraverso la società target RC Trade per una nuova linea di abbigliamento femminile ed accessori prima della scadenza della licenza in atto, implicava il contratto di sub – licenzia, e l’esborso temporaneo (per il 2002, 2003 e 2004) specifiche royalties alla attuale licenziataria; del resto anche per il periodo successivo Capucci Corporation si dovette assicurare la possibilità di sfruttamento del Marchio stesso di proprietà di terzi, con contratti di licenza stipulati direttamente con Rc Trade Mark, che prevedevano anch’essi royalties minime sul fatturato.

Si deve concludere, quindi, che RC Trade, grazie alle risorse finanziarie fornite dalla Capucci Corporation, acquistò un ramo aziendale che comprendeva un bene che aveva un valore di mercato in sé di almeno 500.000,00, e, senza ulteriore corrispettivo si assicurò anche l’acquisto della titolarità dell’ulteriore Marchio non compreso nel ramo aziendale ceduto in quanto relativo ad altri settori merceologici, di proprietà della licenziataria s.r.l. Roberto Capucci (questa invero si impegnò a trasferirlo alla RC Trade Mark alla scadenza della licenza; cfr. contratto di cessione), entrambi cespiti essenziali per l’attività che intendeva avviare la controllante. Perciò come non sussistono ragioni per considerare irragionevole il corrispettivo convenuto da RC Trade Mark per la cessione del ramo aziendale e dei Marchi, così appare giustificata la valorizzazione dell’attivo di Capucci Corporation corrispondente all’incremento di valore della partecipazione nella controllata determinato dall’apporto funzionale alla predetta acquisizione. Altra questione è quella che riguarda la pattuizione da parte di RC Trade Mark del diritto del cedente, in caso di risoluzione del contratto di cessione per inadempimento dell'acquirente - di trattenere l'ingente acconto sul prezzo frattanto versato; sul punto si osserva: a) si tratta di condotta dei convenuti quali amministratori di RC Trade Mark; b) non è dedotto un titolo di responsabilità dei convenuti in proposito quali amministratori di Capucci Corporation ex art. 2497c.c.; c) la curatela non ha chiesto qui il danno specifico derivante dalla predetta decisione gestionale, avendo anzi ottenuto autorizzazione dal G.D. per promuovere, quale socio di RC Trade Mark, azione sociale ex art. 2476 c.c. contro gli amministratori e contro i soci di minoranza ( Capucci) e "contro RC Trade Mark" ( cfr doc. n. 63). Tale aspetto non ha perciò alcuna rilevanza in questa causa.

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Fermo quanto precede relativamente alla prima censura mossa al bilancio del 2002 dalla curatela, si osserva che corrette devono reputarsi anche le altre appostazione attive contestate, in ragione della natura dell’attività economica intrapresa e della prolungata fase di start up fisiologicamente ad essa connessa, ed espressamente prevista e descritta dal business plan redatto su incarico degli amministratori di Capucci Corporation nel settembre/ottobre 2002 dalla società Network Consulting Group ( cfr doc. 12 Penè):

la capitalizzazione di costi per euro 258.228,44 relativi al corrispettivo convenuto per lo sfruttamento del Marchio in vista della produzione della linea di

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abbigliamento ( che a dire della curatela avrebbero dovuto essere riportati nel conto economico e non tra le immobilizzazioni immateriali) è corretta: come affermano i convenuti il Principio contabile n.24, relativo alle Immobilizzazioni immateriali, consente la capitalizzazione dei costi di start-up se : i costi siano direttamente attribuibili alla nuova attività e siano limitati a quelli sostenuti nel periodo antecedente il momento del possibile avvio; il loro differimento sia comunque accettato come prassi del settore aziendale in cui si sta avviando la nuova attività; il principio della recuperabilità dei costi sia rispettato; nella specie l’importo capitalizzato di euro 258.228,44 ( pari al corrispettivo dell’utilizzo del marchio per il primo esercizio) corrisponde pacificamente a costi sostenuti dalla società in funzione dell’avvio dell’attività di creazione promozione di una nuova linea di abbigliamento femminile sotto il Marchio Capucci, che, senza il versamento di quel corrispettivo non avrebbe potuto essere utilizzato per mettere in produzione la nuova collezione A/I 2003; (né pare affatto “un pagamento ricorrente” alla stregua di un canone di locazione ( cfr pag. 18 relaz. sub doc. n 65) tanto meno in relazione al primo esercizio ove neppure è ancorato in termini percentuali ad una soglia di ricavi, ma stabilito con pattuizione una tantum) ; parimenti potevano essere capitalizzati - in considerazione della loro funzionalità all’avvio dell’attività - anche i costi per euro 20.448,72 relativi pacificamente ( il fatto non è contestato) a spese di viaggio, certamente compatibili con la necessità di prendere contatto con fornitori, clienti e nuovi licenziatari;

corretta appare anche l’omissione degli ammortamenti e delle svalutazioni relative ai costi immobilizzati: il Principio Contabile n.24, definendo l’ammortamento come un processo di ripartizione del costo delle immobilizzazioni immateriali in funzione del periodo in cui l’impresa ne trae beneficio, consente di ritenere corretta la decisione degli amministratori di omettere l’ammortamento delle immobilizzazioni nella fase di start-up, in quanto l’immobilizzazione nel 2002 non aveva prodotto benefici economici per l’impresa, che erano previsti per la seconda metà dell’esercizio successivo (in cui sarebbe potuto iniziare l’ammortamento, come peraltro avvenne);

corretto infine appare il risconto dei costi di produzione per euro di euro 178.410,00: il principio di competenza ex art. 2423-bis n.3 c.c., implica la necessaria correlazione tra costi e ricavi; i risconti, in quanto rettifiche di storno che hanno la funzione di detrarre dal periodo partite di costo liquidate finanziariamente nell’esercizio ma di competenza di quello successivo, servono a sostituire al criterio di cassa quello di competenza (cfr. Trib. Milano 7.3.1991); ebbene, come è spiegato nella nota integrativa al bilancio 2002 (“operando la Società nel settore della moda, nel corso del secondo semestre di ogni anno si sostengono costi di competenza dell’esercizio successivo”) i costi affrontati nel secondo semestre 2002 per la collezione A/I 2003/2004 sono stati correttamente rinviati all’esercizio successivo, attraverso il meccanismo dei “risconti” proprio perché – stante il ciclo specifico dell’attività caratteristica - in quello, prevedibilmente, si sarebbero realizzati i relativi ricavi.

Pertanto può concludersi che il bilancio al 31.12.2002 risultava correttamente redatto, e che il risultato dell’esercizio corrispondeva ad una perdita di circa euro 55.540,00 a fronte di un capitale versato di 1.000.000,00 di euro.

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Non ha trovato fondamento neppure l’allegazione del fallimento relativa all’emissione indebita, meramente funzionale all’anticipazione bancaria, in data 14.4.2003 di una fattura per un credito di 254.073,94 con saldo al 15.7.2003 nei confronti della licenziataria Corporate s.r.l. , che avrebbe alterato, in senso da occultare la maggior perdita, il risultato del bilancio di verifica al 31.5.2003: anzitutto la procedura non ha prodotto la documentazione relativa agli accordi con Corporate ma solo la lettera di contestazione della licenziataria del 30.10.2003 secondo cui, stanti gli accordi contrattuali, questa avrebbe dovuto pagare royalties non sul “venduto” ma sui “pagamenti” ricevuti dai clienti (doc. n. 9 fall.); in secondo luogo risulta (doc. n. 56, 57) che l' 8.11.2003 le parti si accordarono con riguardo al pagamento di detta fattura (che non fu quindi “respinta” come affermato dal fallimento ) per l'emissione da parte di Capucci Corporation di una nota di credito di euro 37.728,28 + Iva e per far pervenire a BNL (che l'aveva anticipata) la giustificazione dello storno con la "specificazione": (i) che la fattura avente ad oggetto royalties, contributo pubblicitario e commissioni di vendita, era stata emessa “sulla scorta degli ordini acquisiti e confermati per la stagione autunno-inverno 2003-2004”; (ii) che le competenze in forza del contratto tra Capucci e Corporate “diventano esigibili al momento del pagamento dei clienti finali”; (iii) che infine – a seguito dei conteggi effettuati e delle disdette di ordini frattanto pervenute, le commissioni maturate in favore di Capucci in relazione a quella fattura ammontavano a circa 112.000,00, e quelle da maturare a circa 190.000,00 oltre IVA; peraltro nella stessa lettera di contestazione Corporate chiede l’annullamento della nota di credito emessa a storno di altra fattura ( la n. 29 del 30.9.2003, per euro 42.941,99) che Corporate riteneva corretto pagare. Sicché, tanto più in mancanza degli accordi contratuali sul punto non risulta chiaro se l’emissione della fattura (che peraltro indicava l’esigibilità differita del 50% della somma a partire dalla fine di settembre con saldo a fine ottobre) fu indebita come asserisce il fallimento; certo è, comunque, che a ottobre Capucci vantava nei confronti di Corporate a titolo di royalties la somma complessiva di euro 173.271,72 + e IVA ( fattura n. 8 meno “storno” convenuto), che invero pagò. Quindi deve concludersi che la curatela non ha assolto all’onere della prova con riguardo al presupposto della rettifica che intende apportare al bilancio di verifica del 31.5.2011 onde dimostrare che la “perdita” di periodo aveva già eroso il capitale oltre il limite di cui all’art. 2447 c.c.: se da un lato – in mancanza di risultanze certe di segno contrario - può ritenersi corretto anche il bilancio provvisorio di verifica al 31.5.2003 e la perdita ufficiale ivi registrata di euro 708.246,42; dall’altro si osserva che quand'anche si dovesse incrementare detta perdita dell'importo “stornato” (euro 37.728,28) o anche dell’importo all’epoca presuntivamente non ancora “maturato” secondo gli accordi (euro 142.073,94, pari alla differenza tra l’importo della fattura comprensivo di IVA e le royalties effettivamente maturate + di Iva ) nulla cambierebbe agli effetti della insussistenza della situazione ex art. 2447 c.c.. (la perdita di 850.320,36, invero non sarebbe tale da erodere il capitale sociale oltre il minimo di legge)

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A 2.) Lo stato di insolvenza della società al primo semestre 2003. Escluso che il capitale sociale fosse perduto già al termine del primo esercizio, deve valutarsi la fondatezza dell’affermazione per cui dal primo semestre del 2003 la società avrebbe versato in "stato d’insolvenza" o, comunque, in stato di liquidazione. Premesso che una società può prevedere di dover attraversare una fase di start up in perdita anche per più esercizi purché possa contare su risorse finanziarie adeguate a sostenerla, nella specie risulta che:

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era previsto che la Capucci Corporation dovesse attraversare una medio-lunga fase di start up (3 anni) che necessitava di intenso sostegno finanziario in ragione tanto dell’entità dei costi necessari a realizzare i primi due cicli produttivi ( collezione A/I 2003 e P/E 2004) che avrebbero portato alla vendita e ai successivi incassi, rispettivamente, solo nella seconda parte del 2003 e nel periodo che va tra maggio e luglio 2004, quanto dell’entità dei costi assunti con Roberto Capucci in termini di corrispettivo per lo sfruttamento del Marchio prima della scadenza dei contratti di licenza in esclusiva in essere con la s.r.l. Roberto Capucci;

era stato, invero, approntato tra settembre e ottobre 2002 apposito piano industriale (doc. n. 12 cit.) che mostrava come solo con le vendite delle prime due collezioni si sarebbe potuta ritenere conclusa la fase di start-up dell’iniziativa, in quanto la società sarebbe entrata in un ciclo continuo di produzione/vendite/ricavi; il fabbisogno finanziario della società secondo il predetto piano, era stimato per i primi tre anni pari a 6,5 milioni di euro, di cui 1,5 di capitale proprio e 5 di indebitamento bancario complessivo; il piano era noto ai sindaci che lo avevano ottenuto nella verifica del 15 1.2003;

il capitale investito dai soci sino all’autunno 2002 era pari a 1.000.000 di euro; tuttavia, come risulta dalla stessa allegazione del sig. Penè, già alla fine di ottobre 2002 la socia Economa s.r.l. - riferibile a Franco Penè – cedette all’altra socia, Stemarlù S.A, il 40% della propria quota, ottenendo anche un’opzione put per il restante 10%, (che esercitò il luglio successivo) segno inequivocabile del fatto che non intendeva affatto contribuire ulteriormente in termini di capitale di rischio all’iniziativa imprenditoriale intrapresa (Penè peraltro rinunciò a qualsiasi delega operativa come risulta dal CdA del 24.10.2002); invece la socia Stemarlù (riferibile a Bruccoleri) tra la fine del 2002 e il febbraio 2003 provvide a finanziare la società con il versamento di ulteriori 500.000,00 euro (cfr. verbale assemblee del 12.12.2002 e dl 20.2.2003) che vennero, però, iscritti come un finanziamento/soci fruttifero, non come apporto in conto futuro aumento di capitale;

nel marzo 2003, nonostante “la stagione in via di chiusura rappresenta(sse) un importante avviamento e una solida base su cui lavorare” il fabbisogno finanziario della società si era modificato (cfr. aggiornamento business plan al marzo 2003, sub doc. n 13 Bocca pag. 11) nel senso che i costi operativi rendevano necessario l’aumento della finanza propria della società ( 2 milioni di euro di capitale nel 2003, 2 milioni di euro di capitale nel 2004 e 1 milione nel 2005) poiché era chiaro che “ nonostante l’effetto di risconti e capitalizzazioni i primi 4 esercizi ( 2002 – 2005) erano destinati a chiudersi in perdita); lo sfasamento temporale dei costi e dei ricavi rendeva prevedibili risultati di gestione che imponevano nel 2003 e 2004, entro il primo semestre di ciascun anno, “coperture preferibilmente tramite capitale di rischio” di 2 milioni di euro ; la società, tuttavia, continuava ad avere un capitale di 1 milione di euro, né furono programmati interventi di ricapitalizzazione o di incremento delle riserve.

Pertanto: se è vero – come sostengono i convenuti - che la società per tutto il primo semestre 2003 aveva goduto di credito bancario, e pagato le proprie obbligazioni regolarmente o con ritardi del tutto tollerabili (cfr. verifiche sindacali di periodo) – e che, quindi, né aveva perso il capitale né versava in stato di insolvenza - è anche vero che dalla fine del semestre in poi la situazione si presentava assai più critica:

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l’ analisi del fabbisogno finanziario compiuta dalla società di consulenza NCG fondata sui risultati di esercizio del marzo 2003, aveva già reso evidente agli amministratori l’insufficienza in prospettiva della capitalizzazione della società;

il versamento da parte della socia Stemarlù di complessivi euro 500.000,00 ( 400.000 nel 2002 e 100.000,00 nel febbraio 2003; cfr. verbale CdA del 20.2.2003) era stato effettuato ed iscritto come finanziamento fruttifero, (tanto che nel business plan di marzo ne è prevista la conversione in capitale);

l’aumento dell’esposizione debitoria verso le banche se non può essere invocato come sintomo di uno stato d’insolvenza in atto perché, semmai, è indice del credito che godeva in quel momento la società ( cfr. doc. 52 lettera del 5.6.2003 con cui BNL aumenta il fido a 550.000,00, e concede credito sul c/c sino a 203.000) era tuttavia certamente un fatto che doveva essere tenuto sotto controllo e valorizzato al fine di verificare la concreta reperibilità del fabbisogno finanziario futuro;

anche i contratti conclusi con le licenziatarie dei prodotti (Corporate s.r.l., Maglificio Emmevizeta e soprattutto con la società giapponese Itochu, che avrebbe distribuito i prodotti nel mondo asiatico garantendo royalities annuali di 750.000,00 a partire dal 2004) consentivano di contare su flussi di ricavi certo solo a partire dal 2004 ( il fatto è pacifico: cfr. difesa Penè pag. 24), e detti ricavi presupponevano che la società potesse nel frattempo affrontare tutti costi necessari a chiudere i cicli produttivi che avrebbero generato i prodotti da collocare attraverso le licenziatarie;

E’ questo dunque il contesto nel quale si collocano e devono essere valutati i seguenti fatti:

a) il bilancio di verifica al 31.5.2003 che registrava una perdita (provvisoria) di euro 708.246,42;

b) una obiettiva grave crisi di liquidità della società, che in mancanza di apporti finanziari cominciava a non poter far fronte alle obbligazioni: è, infatti, di questo periodo il ritardo nel pagamento della rata scadente il 30 giugno della royalty 2003 di euro 64.557,11, che venne pagata con grave ritardo e in due tranches ( in data 10.11.2003 ed in data 3.12.2003); mentre le seguenti rate della detta royalty – scadenti a settembre e dicembre - non vennero pagate affatto, tanto da dar luogo il 28.4.2004 ( doc. n. 13 Penè ) alla risoluzione del contratto di sublicenza e di cessione del marchio; c) le numerosissime fatture scadute anche risalenti ai primi mesi dell'anno 2003 ed anche per importi assai modesti, le lettere di sollecito, ed anche quelle della stessa Capucci che chiedeva ai fornitori di pazientare rappresentando difficoltà finanziarie e "temporanea illiquidità (cfr. doc. n. 55, in particolare sub 15,16,19,51 solo per citare i casi più manifesti; ma anche sub 19,23,31,34,36,39,41,44,45,46,47,48 51) ;

d) la richiesta da parte dei sindaci all’esito della verifica del 15.7.2003 (ove, era emersa una esposizione verso BNL già di oltre 800.000,00) di essere tenuti aggiornati della verifica di bilancio del 30.9.2003 e dell’evoluzione del progetto CTO, una sorta di “joint venture” con la società Sportiva Virtus ( proprietaria della squadra di pallacanestro del Bologna) che prevedeva la produzione di una linea di abbigliamento sportivo e l’impegno della società ad effettuare un investimento in Capucci Corporation onde assicurare flussi finanziari e nuova liquidità alla società

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(progetto che, invece naufragò perché la Virtus venne cancellata in agosto dal campionato di serie A per perdite e poi dichiarata fallita, come riferirì Bruccoleri nel corso della verifica sindacale del 10.11.2003);

e) le dimissioni dell’amministratore Penè e del sindaco Sesia di cui prende atto il CdA dell’8.11.2003;

f) l’esito della verifica sindacale del 10.11.2003 (cui partecipò già il nuovo sindaco dott. Navarra, essendosi il dott. Sesia dimesso con lettera del 22.10.2003) avente ad oggetto il bilancio di verifica al 30.9.2003, che evidenziava una perdita di euro 1.209.358,51 e, quindi, la perdita del capitale sociale: gli stessi sindaci evidenziarono che il dato imponeva all’organo amministrativo le misure previste dagli artt. 2446, 2447 ed eventualmente 2448 c.c. per la copertura delle perdite o la messa in liquidazione della società; sottolinearono, inoltre, che la disamina dei dati contabili destava “ non poche preoccupazioni” in relazione alla “ posizione debitoria nei confronti di fornitori (euro 1.038.934,00 ) nonché quella verso gli istituti di credito ( euro 1.237.555,00)”; g) la lettera con cui in pari data (10.11.2003) il collegio sindacale si rivolgeva direttamente all'amministratore chiedendo che venisse “rappresentato il reale stato economico e finanziario della Capucci Corporation, nonché quali misure l’organo amministrativo ed i soci intendano adottare per far fronte a tale situazione negativa”; e la risposta del 15.12.2003, in cui l’A.U. affermava che la “perdita trova già sin d’ora copertura nelle voci iscritte in contabilità: si veda il conto soci c/finanziamento e il conto debiti crediti diversi”; h) il mancato pagamento della terza rata delle royalties, e l'invio da parte di Capucci il 9.1.2004 della lettera con cui intima il pagamento del dovuto entro 15 giorni ed annuncia l’avvio della procedura di risoluzione; h) la verifica sindacale del 15.1.2004 nel corso della quale l’amministratore riferiva di una trattativa per l’ingresso di un nuovo socio che avrebbe apportato la liquidità necessaria alla copertura delle perdite, precisando che la trattativa doveva definirsi nel giro di 30-45 giorni; i) la verifica sindacale del’8.4.2004, in cui Bruccoleri presentò un accordo preliminare siglato il 5.4.2004 con closing al 21.4.2004, per l’ingresso in Stemarlù S.A (controllante al 100% Capucci Corporation) di tale Danter Company S.A. che avrebbe sottoscritto il 60% del capitale di Stemarlù con un sovraprezzo di euro 2.953.500,00 (cfr. sub doc. 26); (sul punto vale osservare che, a prescindere dal fatto che dal verbale risulta che nessuna informazione venne chiesta od offerta sulla solidità della società uruguaiana predetta e quindi sulla serietà dell’impegno preliminare esibito, il progetto naufragò subito dato che con lettera del 21.4.2004 Roberto Capucci aveva intimato il pagamento del debito di euro 193.671,33 oltre Iva agli effetti della risoluzione del contratto di cessione del marchio e di sublicenza a far data dal 29.5.2004: da tale data la società Capucci Corporation non avrebbe più potuto utilizzare il marchio); ciò nonostante il 18.5 2004, ad una riunione appositamente convocata dai sindaci, Bruccoleri riferì solo di uno slittamento del closing per questioni burocratiche);

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l) la riunione del 4.6.2004 in cui i sindaci diedero parere favorevole all’approvazione del bilancio di esercizio al 31.12.2003 che evidenziava una perdita di euro 3.355.805,00, e invitarono l’amministratore a convocare in tempi brevissimi l’assemblea per i provvedimenti ex art. 2446, 2447 c.c.; m) l’assemblea straordinaria del 9.7.2004 che decise la messa in liquidazione della società, la quale il 15.3.2005 – dopo una lunga istruttoria prefallimentare finalizzata a consentire al liquidatore di sviluppare le trattative in corso per la cessione dell'azienda – venne dichiarata fallita.

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Alla luce di questi elementi di fatto, si può, ritenere che se anche non vi sono elementi univoci e certi per ritenere che dopo la fine del primo semestre sussistesse una causa di scioglimento ex art. 2447 c.c. vi sono senz'altro plurimi e convergenti elementi per ritenere che quantomeno da settembre 2003 si fosse già resa manifesta una situazione di insolvenza;

a giugno del 2003 gli amministratori erano consapevoli che il livello della perdita di

periodo e l’assenza di immediate prospettive di ricavi adeguati (per quanto fisiologiche) avrebbe imposto un significativo rifinanziamento della società (lo stesso piano industriale lo aveva del resto previsto già a marzo come intervento necessario entro il primo semestre); così come erano consapevoli del fatto che la situazione di obiettiva illiquidità della società comprometteva la possibilità di pagare regolarmente le royalties, fatto decisivo per poter ragionare nella prospettiva di continuità aziendale, stanti gli impegni contrattuali assunti con la famiglia Capucci e le conseguenze che ne sarebbero derivate in termini di impossibilità di sfruttamento del Marchio;

stessa consapevolezza dovevano avere i sindaci che avevano seguito puntualmente l’evolversi della situazione (anche richiedendo il business plan e i contratti );

tuttavia deve ritenersi (mantenendo nella valutazione del loro operato la corretta

prospettiva “ex ante”) che gli organi sociali potessero, in quel segmento temporale, ancora ragionevolmente contare sull’esito positivo dell’operazione CTO, e ritenere che il finanziamento soci per 500.000,00 effettuato da Stemarlù (nella disponibilità di Bruccoleri), potesse essere oggetto di rinuncia in funzione della riduzione della perdita, come previsto peraltro nel piano industriale;

ma da fine settembre 2003 la situazione si presentava ben diversa:

- il bilancio di verifica al 30.9.2003 evidenziava una perdita in formazione che aveva ampiamente superato il capitale sociale; - la società non era riuscita ancora a pagare la seconda rata delle royalties scaduta a giugno e, pertanto, non era in grado neppure di pagare la terza rata scaduta a settembre; - le fatture scadute da tempo anche per importi molto modesti non venivano saldate regolarmente e i creditori avevano già iniziato a inviare i solleciti; - era fallita l’operazione CTO e quindi la possibilità che un terzo o un nuovo socio apportasse finanza alla società;

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- non v’era disponibilità da parte dei soci ad apportare le risorse finanziarie in termini di capitale di cui - secondo lo stesso business plan – la società necessitava ( fatto del tutto evidente atteso che oramai unico socio era la Stemarlù S.A riferibile all’amministratore Bruccoleri); - la posizione debitoria nei confronti di fornitori ammontava ad euro 1.038.934,00 e quella verso gli istituti di credito ad euro 1.237.555,00; In siffatta situazione - che avrebbe imposto agli amministratori almeno la convocazione immediata dell’assemblea ex art. 2447 c.c., per verificare la disponibilità del socio alla copertura delle perdite ( anche rinunciando ai crediti fruttiferi) e alla ricapitalizzazione della società, o, in caso contrario, per dare atto dello stato di scioglimento – uno degli amministratori (Penè) si dimise; si dimise anche il dott. Sesia, uno dei sindaci - cui il livello di criticità della situazione era (o doveva essere) certamente ben chiaro dal momento che avevano accuratamente monitorato la situazione dei conti e quella gestionale onde conoscevano bene i termini dei contratti di cessione del marchio e di sub- licenza stipulati e il business plan. Gli altri sindaci invitarono l’A.U a fornire chiarimenti circa la situazione dei conti e circa le iniziative che intendeva assumere (condotta in linea con i doveri dell’organo di controllo). Tuttavia - dopo aver atteso la risposta per un tempo eccessivo in una situazione così allarmante (più di 40 giorni quando già la verifica di periodo era stata rinviata rispetto al 15.10.2003 senza, in effetti, alcuna plausibile ragione) - reputarono "rassicurante" l'affermazione dell’A.U. per cui la “perdita trova già sin d’ora copertura nelle voci iscritte in contabilità: si veda il conto soci c/finanziamento e il conto debiti crediti diversi”

Ebbene, benché appaia del tutto ingiustificato il fatto che i sindaci abbiano tratto “rassicurazione” circa l’insussistenza di una perdita di capitale rilevante ai sensi dell’art. 2447 c.c. dalla generica dichiarazione predetta (una rassicurazione, invero, avrebbe potuto derivare legittimamente solo da un passaggio in Assemblea che i sindaci avevano il dovere ex art. 2406 c.c. di convocare in assenza di iniziative dell’ A.U., onde verificare che il socio -Stamarlù S.A- o il terzo - Bruccoleri stesso- avessero ufficialmente deciso di “coprire” le perdite con la rinuncia ai crediti per finanziamenti fruttiferi, o, a tutto voler concedere, da un impegno scritto esplicito della Stamarlù e di Bruccoleri di rinuncia ai crediti) la questione perde di rilevanza alla luce dell’assorbente considerazione che la società – avesse o meno eroso il capitale minimo - versava sicuramente in stato di insolvenza. In altre parole quand’anche si ritenesse che gli organi sociali, contando sulla rinuncia ai crediti fruttiferi predetti, reputassero non intaccato il capitale legale (i crediti in questione erano pari ad euro 631.735,84 secondo il bilancio di verifica al 30 settembre, onde la loro imputazione a capitale tramite rinuncia avrebbe fatto sì che la perdita di euro 1.209.358,51, pur ampiamente superiore al terzo del capitale, non lo avrebbe intaccato oltre il minimo legale, perchè sarebbe rimasto al livello di euro di 422.377,29) non avevano invece alcuna giustificazione per non avvedersi dello stato di insolvenza. La questione delicata nella specifica contingenza non era la sussistenza della insufficienza patrimoniale agli effetti dell’art. 2447c.c. e della violazione dell’art. 2449 c.c. ( sulla cui insussistenza infatti insistono le difese) bensì la sussistenza dello stato di insolvenza sui cui fondatamente la curatela ha correttamente insistito, che, a prescindere dalla situazione del

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patrimonio netto, in assenza di plausibili soluzioni alternative, avrebbe imposto l’arresto dell’attività aziendale:

era pacifico già a ottobre/novembre che la società non aveva pagato due rate della royalties: Capucci, con lettera del 17.11.2003, aveva chiesto l’immediato pagamento del saldo della rata di giugno, e si dichiarava disponibile ad attendere fino al 30.11.2003 per la rata di settembre, annunciando in mancanza l’avvio della procedura di risoluzione con diffida ad adempiere ( cfr. doc. 34 fall.);

era altrettanto pacifico che la società non aveva pagato numerosi creditori (cfr. doc. n. 55 e verifica sindacale che evidenzia l'ammontare dell'esposizione verso fornitori per euro 1.038.934,00 ) e non aveva flussi di cassa sufficienti (come era di certo noto ai sindaci tanto più per il fatto che i Bocca erano anche i commercialisti della società tramite la loro società CIE s.r.l.);

era pacifico che la società non poteva contare su risorse proprie stante il disavanzo costi/ricavi di settembre, pari a oltre 1.200.000,00;

era pacifico che aveva debiti nei confronti degli istituti di credito per euro 1.237.550,00;

era pacifico che Bruccoleri (dopo l’uscita di Penè) non aveva trovato altri partner finanziari.

*

Pertanto certamente dopo il 30.9.2003 in ragione del combinato disposto degli artt. 6 e 217 n. 4 l.f.:

a) gli amministratori ( entrambi) avrebbero dovuto dichiarare lo stato di insolvenza;

b) in mancanza, i sindaci avrebbero dovuto assumere le iniziative necessarie ad impedire la prosecuzione illegittima dell’attività sociale : ovvero pretendere la dichiarazione dello stato di insolvenza da parte dell’organo gestorio o anche denunciando ex art. 2409 c.c. l’irregolare condotta degli amministratori); e, in mancanza, attivarsi presso i competenti uffici (il pubblico ministero) affinché provvedessero alla luce delle loro prerogative.

Non hanno alcun fondamento (ed appaiono addirittura temerarie) le difese dei convenuti – e specialmente quelle di Penè e Sesia, il quale ultimo, comunque ha poi transatto la lite - a proposito del fatto che a novembre 2003 la società aveva superato la fase iniziale, poteva contare su un futuro che si presentava “di grande successo” e “doveva solo aspettare di incassare i proventi delle vendite della prima collezione presentata” ( pag. 27 comparsa di costituzione e risposta), affermazioni che risultano del tutto incongruenti rispetto ai fatti (compresa la loro repentina decisione di rassegnare le dimissioni che verosimilmente comportò lo slittamento della verifica sindacale di ottobre). Particolarmente infondata è la difesa dei due convenuti che, con riguardo allo stato d'insolvenza, contesta le risultanze della corposa documentazione prodotta sub 55 dalla curatela: la verifica della stessa, infatti, ha permesso al Tribunale di evincere che la Capucci nel settembre 2003, a fronte della scadenza del fatture e dei solleciti di pagamento dichiarava essa stessa di essere in stato di illiquidità; così al creditore "Nava" ( 55/1); al creditore Condè Nast ( che vantava oltre 100.000 euro solo per fatture scadute tra febbraio e luglio 2003), cui chiedeva di attendere e proponeva solo un acconto per essere in un " momento di difficoltà finanziaria" (55/15); al creditore Elite Model Managment ( 55/16). La situazione d’insolvenza che era rappresentata nella contabilità e nei bilanci di verifica di periodo, e che era stata perfettamente prevedibile alla luce del piano industriale, non era

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“transitoria” – come sostiene Penè nella sua difesa - ma ormai consolidata, non fosse altro perché il credito bancario ( come affermano gli stessi convenuti) era pari a circa a euro 1.200.000,00 ( cfr. lettera con cui BNL il 3.6.2004 chiede il rientro dalla posizione debitoria di euro 1.321.622,00) mentre avrebbe dovuto essere pari almeno a 5.000.000,00 di euro, secondo il piano industriale. La situazione non consentiva alcun temporeggiamento, e avrebbe dovuto condurre gli organi sociali ad assumere tempestivamente le iniziative dovute per legge. ( sul punto cfr. Cass. 27.2.2002 n. 2906) E’ ben vero, infatti, che esiste un dovere degli amministratori di conservare il valore del patrimonio sociale che costituisce la garanzia generica su cui possono contare i creditori, e che questa salvaguardia può implicare la necessità di non interrompere l’operatività aziendale, ma un’attività “conservativa” deve poter contare su adeguati mezzi finanziari, altrimenti finisce per essere attività d’impresa il cui è rischio è trasferito per intero sui terzi creditori. Pertanto in una situazione di insolvenza ovvero di illiquidità così grave da non consentire il regolare adempimento delle obbligazioni, ed a fronte dell’indisponibilità dei soci a far fronte al fabbisogno finanziario e di cassa in modo strutturale, non basta valutare che il capitale sociale non sia eroso oltre il limite minimo previsto dalla legge (valutazione che peraltro nella specie fu effettuata in modo assai superficiale, soprattutto da parte dei sindaci, che non pretesero nessuna formalizzazione da parte del socio/amministratore della volontà di rinunciare ai crediti fruttiferi): infatti altro è l’insufficienza patrimoniale, che invero può sussistere anche a fronte della contingente capacità di far fronte - con i flussi finanziari - ai costi operativi, altro è l’insolvenza, che può essere conclamata anche a fronte di una patrimonio netto positivo. In una situazione siffatta la gestione della crisi d‘impresa secondo il legislatore non può essere affidata agli organi sociali (come avviene invece per la "liquidazione" dell' attività conseguente ad uno stato di scioglimento dovuto alla perdita del capitale, che fisiologicamente è rimessa al liquidatore nominato dall'assemblea dei soci ) ma deve essere affidata, sotto il controllo del Tribunale fallimentare, agli organi delle diverse procedure concorsuali previste, affinché sia assicurata la salvaguardia del patrimonio sociale che funge da garanzia dei creditori (eventualmente anche attraverso l'esercizio provvisorio, ove si fosse trattato di salvaguardare l'avviamento e il presunto potenziato valore del marchio) e la liquidazione avvenga nel rispetto della par condicio creditorum. In mancanza gli organi sociali rispondono delle conseguenze dannose che la loro scelta illegittima ha prodotto sul patrimonio della società a danno della stessa e dei creditori sociali, in quanto conseguenza immediata e diretta della mancata dichiarazione dello stato di insolvenza secondo un criterio di ragionevole prevedibilità: secondo il criterio della "causalità adeguata" una data condotta si considera causa, in senso giuridico, di un determinato evento se, sulla base di un giudizio ex ante, detto evento ne risultava la conseguenza prevedibile ed evitabile; se, detto in altri termini, quella data condotta è normalmente, sulla base delle comuni regole di esperienza, adeguata a cagionare quel determinato evento dannoso ( cfr. Cass. S.U. n. 576, 579, 582, 583, 584 dell'11.1.2008); ciò significa che il nesso causale tra una determinata condotta - pur costituente condicio sine qua non dell'evento - e l'evento stesso, si interrompe - con conseguente esonero da responsabilità di chi l'ha posta in essere - se la causa prossima, imprevedibile ed inevitabile da parte di chi ha posto in essere la causa remota, risulta di per sé sola sufficiente a produrre l'evento; diversamente chi ha posto in essere la causa remota risponderà pur esso dell'evento dannoso. Pertanto rispondono delle conseguenze dannose prodottosi per effetto della prosecuzione illecita dell'attività d'impresa coloro che hanno di fatto proseguito l 'attività produttiva ( causa prossima) sia coloro che essendo tenuti a dichiarare o a far dichiarare l'insolvenza, non

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l'hanno impedita (causa remota): invero è del tutto evidente ( per qualunque amministratore e sindaco) che la mancanza di un'iniziativa doverosa che porti all'arresto dell' attività imprenditoriale o alla sua prosecuzione entro lo schema di una procedura concorsuale o di ristrutturazione del debito, condurrà alla sua prosecuzione vietata; il che non è, invece, per la omessa dichiarazione dello "stato di liquidazione", in mancanza della quale non è vietato proseguire l'attività se essa mantiene esclusivamente uno scopo conservativo in vista di un' utile dismissione delle attività. Perciò in una ipotesi siffatta potrà liberarsi da responsabilità solo chi dimostri che anche il comportamento alternativo corretto non avrebbe potuto provocare un danno minore, che, in sostanza non v'è stato un danno imputabile, perché, per esempio, si è proseguito sulla base di un nuovo "piano" aziendale, idoneo e razionale ex ante, coerente con l'istituto fallimentare dell'esercizio provvisorio anche se poi ex post si sia rivelato inefficace, o con la prospettiva comunque coerente con lo schema fallimentare, della cessione del compendio aziendale in funzionamento, onde salvaguardare il valore complessivo del patrimonio.

* Ciò precisato in linea di principio, si deve concludere quanto alla fattispecie all'esame del Tribunale che devono rispondere dei danni contestati in termini di aggravamento delle perdite sia coloro che hanno proseguito l’attività ( Bruccoleri), sia coloro che omettendo la doverosa dichiarazione di insolvenza, (Penè), ovvero omettendo di assumere le doverose iniziative in tal senso connesse all’incarico assunto (Maurizio e Piercarlo Bocca, Sesia e poi Navarra subentrato a questi), hanno consentito che il dott. Bruccoleri continuasse nell’attività imprenditoriale intrapresa a fronte di una conclamata insolvenza. I sindaci, infatti, hanno chiaramente contravvenuto a loro autonomi doveri come specificato sopra sub b), e la loro omissione ha determinato in modo del tutto concorrente rispetto alla violazione compiuta dagli amministratori, il danno che è derivato dalla prosecuzione di un’attività gestoria che non poteva che essere interrotta in quel momento stante la situazione di insolvenza, e che protraendosi indebitamente, ha di fatto solo continuato a produrre incremento dei debiti e degli oneri finanziari, e a erodere il patrimonio della società, senza neppure salvaguardare il valore dell’unico cespite attivo acquisito, ovvero il diritto di utilizzo in esclusiva del marchio acquistato tramite RC Trade Mark. Né Pené e Sesia possono invocare, per scongiurare la responsabilità, le “dimissioni” dalle rispettive cariche che rassegnarono quando la società era già insolvente, poiché solo l’esercizio del potere/dovere connesso all’ufficio può conseguire i risultati previsti dalla legge ed evitare la responsabilità derivante dall’inadempimento ai doveri inerenti alla carica . In questo contesto neppure la posizione del dott. Navarra, subentrato nell’ottobre 2003 al dott. Sesia, può essere considerata diversamente: egli accettò l’incarico di controllo con tutti i doveri inerenti, proprio nel momento più critico della società, che peraltro gli era chiaramente noto – come si evince dal verbale della verifica sindacale del 10.11.2003 – onde avrebbe dovuto, al pari degli altri componente del Collegio, assumere le iniziative idonee ad impedire la prosecuzione dell’attività sociale ad opera del Bruccoleri, che con tutta evidenza - specialmente alla luce della già minacciata risoluzione del contratto di acquisto del Marchio e di quello, conseguente, di licenza esclusiva - stava tentando con estrema imprudenza un salvataggio della situazione della società secondo una prospettiva ( ricerca di nuovi partner finanziari della socia Stemarlù ) in cui il rischio d’impresa era fuori dal suo controllo ed era posto di fatto interamente a carico del ceto creditorio.

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Quantificazione del danno. La prosecuzione dell’attività caratteristica ha prodotto un aggravamento della perdita che - senza alcuna necessità di ricorrere al criterio sintetico e presuntivo c.d. della differenza dei patrimoni netti suggerito dalla curatela - il Tribunale può determinare con riguardo ai risultati ufficiali di ogni esercizio, o segmento di esercizio, risultati cui la curatela non muove in effetti alcuna censura (se si escludono quelle già ritenute infondate mosse al bilancio del primo esercizio) e da cui vanno detratti solo i cespiti negativi frutto di rettifiche meramente contabili (es. ammortamenti) dunque non imputabili alla condotta gestoria. Considerato che l’attività aziendale avrebbe dovuto essere interrotta da ottobre, deve ritenersi che vada sicuramente imputata a titolo di danni la perdita gestionale registrata sino alla messa in liquidazione della società ( 9.7.2004), individuata :

1. per l’intervallo di tempo 30.9.2003 / 31.12.2003 in euro 120.641,49, pari alla differenza tra la perdita d’esercizio in termini di mera differenza tra ricavi e costi di produzione registrata al 30.9.2003 e quella registrata al 31.12.2003 (cfr. “bilanci di verifica” allegati ai verbali delle verifiche sindacali del 10.11.2003 e del 15.1.2004 nei quali non sono effettuati e, dunque, non incidono ammortamenti e svalutazioni);

2. per l’intervallo di tempo 31.12.2003 / 31.7.2004 (data della messa in liquidazione della società) in euro 1.643.569,00 pari alla perdita d’esercizio registrata al 31.7.2004 (euro 1.780.080,24 secondo il bilancio al 31.7.2004 sub doc. n. 14) dedotti gli ammortamenti pari ad euro 136.511,2 (si tratta di un calcolo che somma la differenza negativa ricavi/costi di produzione, la differenza negativa proventi/oneri finanziari, e sottrae proventi straordinari e ammortamenti)

Detti danni complessivamente pari ad euro 1.764.210,49 vanno imputati in solido agli amministratori Bruccoleri e Penè, nonché ai sindaci Maurizio e Piercarlo Bocca, Sesia e Navarra. I sindaci Bocca hanno chiesto infondatamente di essere “manlevati” dagli amministratori ( in caso di responsabilità solidale, invero, vi può essere , in capo a colui che risarcisca l’intero danno, solamente il diritto di regresso nei confronti dei condebitori in solido per la parte eccedente la misura della sua obbligazione) ed in subordine che fosse individuata la misura interna della loro responsabilità, in ragione del diverso apporto e della diversa entità della colpa. Il Tribunale reputa che se l’apporto causale al danno di amministratori e sindaci è identico, diversa e più intensa è la colpa degli amministratori, che hanno omesso una dichiarazione di insolvenza che avevano tutti gli strumenti gestionali – anche sul piano della specifica competenza in materia - per prevedere tempestivamente. Pertanto nei rapporti interni la responsabilità per il danno predetto va attribuita agli amministratori nella misura del 60% ed ai sindaci nella misura del 40% (2/5). Ciò detto è necessario stabilire in che termini incida rispetto al debito predetto la transazione del dott. Sesia. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità seguito da questo Tribunale “il primo comma dell'art. 1304 cod. civ. nel disciplinare gli effetti della transazione intervenuta fra il creditore ed uno dei condebitori solidali, si riferisce alla transazione concernente l'intero debito (solidale), mentre quando l'oggetto del

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negozio transattivo sia limitato alla quota interna del debitore solidale stipulante, si riduce l'intero debito dell'importo corrispondente alla quota transatta con il conseguente scioglimento del vincolo solidale fra lo stipulante e gli altri condebitori, i quali pertanto rimangono obbligati nei limiti della loro quota.” ( Cass. n.7845 del 27.3.2007; Cass. n.8946/2006). Il dott. Sesia pertanto ha determinato, come stabilisce la giurisprudenza di legittimità citata, una riduzione dell’intero debito dell’importo corrispondente alla quota transatta (e non alla somma versata) Poiché la quota interna del danno attribuibile ai quattro sindaci è pari ai 2/5 del danno, la quota del danno transatta da Sesia è pari a 1/10 ovvero ad euro 176.421,04. Conclusivamente il danno residuo dedotta la quota transatta dal dott. Sesia è pari 1.587.789,44. Trattandosi di debito di valore accertato alla data del fallimento (14.3.2005) sulla somma liquidata dalla data del fallimento fino alla data del deposito della sentenza odierna deve essere calcolata la rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT e devono essere computati gli interessi c.d. compensativi ex art. 1226 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.) nella misura – ritenuta equa da questo Tribunale - degli interessi legali (infatti trattandosi di una voce di danno separata sub specie di lucro cessante che mira a ricomporre il patrimonio rimasto alterato per la privazione del bene con il suo equivalente pecuniario dalla data dell’illecito, può essere accertata con metodi presuntivi e liquidata con criteri equitativi riferiti alla misura dell’interesse legale). Per evitare duplicazioni di risarcimento (Cass. Sez. Un. 1712/1995) gli interessi andranno applicati sulla somma rivalutata di anno in anno dalla data dell’illecito alla data della pronuncia. Infine sulla somma così definita spettano gli interessi di mora nella misura legale dalla data della pronuncia al saldo effettivo. Di detto danno Bruccoleri, Penè, Maurizio e Piercarlo Bocca, e Navarra rispondono: verso la curatela in solido per l’intero residuo debito; nei rapporti interni nei limiti delle rispettive quote (pari a 1/10 ovvero a euro

158.778,94 per ciascuno dei sindaci, e a 6/10, ovvero 3/5 e quindi per euro 952.673,64 per gli amministratori.

Nonostante il convenuto Penè abbia svolto un’articolata difesa contro la infondata domanda di “manleva” svolta dai sindaci Bocca, ha poi chiesto - in via subordinata rispetto al rigetto della domanda attorea - di “condannare i coobbligati in solido a rivalere gli stessi ( Penè e Sesia ndr) delle somme che saranno costretti a versare a qualsiasi titolo in conseguenza della domanda attrice per intero (il che è a sua volta una domanda infondata di manleva) ovvero nella misura che sarà determinata” . Reputa, tuttavia, il Tribunale che tale confusa domanda sia stata poi chiarita nel corso del contraddittorio e nella memoria conclusionale, sicché può farsi luogo all’accertamento del minor grado di colpevolezza del sig. Penè, responsabile per omissione, rispetto al sig. Bruccoleri che ha direttamente portato avanti l’attività sociale in violazione dei doveri imposti dalla legge. In ragione del minor grado di colpa del sig. Penè, deve ritenersi che nei rapporti interni la responsabilità degli amministratori debba dividersi al 70% per il sig. Bruccoleri e al 30% per il sig. Penè; pertanto rispetto alla somma di euro 952.673,64, questi sarà tenuto eventualmente a rifondere Bruccoleri solo nella misura di euro 285.802.092, ovvero avrà diritto di regresso nei confronti dello stesso per euro 666.871,54.

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La liquidazione della società. Anche nel corso della liquidazione gestita da Maurizio Bocca sotto il controllo del collegio sindacale composto da Piercarlo Bocca, Roberto Lattanzi e Libero Balata la società ha registrato perdite di esercizio:

1. euro 470.641,98 al 31.12.2004 ( cfr. bilancio di liquidazione al 31.12.2004 sub doc. n. 15); tuttavia esclusi gli ammortamenti e le svalutazioni, e considerato che i ricavi sono negativi possono essere considerati quali perdite imputabili solo i costi di gestione (acquisto campionario, spese per varie consulenze, per servizi e leasing ), che ammontano a euro 79.057,00, cui vanno aggiuntI euro 311,59 ( Inail) 2.299,79 ( altri oneri di gestione) e la differenza negativa tra proventi e oneri finanziari pari ad euro 3.715,15; sicché la perdita effettivamente definibile di gestione ammonta ad un totale di euro 85.383,63;

2. euro 64.032,97 al 28.2.2005 ( cfr. bilancio di liquidazione al 28.2.2005 sub doc. n.

16) di questi però solo euro 60.021, 96 costituiscono costi di gestione ( compensi per consulenze e spese di trasporto e leasing), onde solo in tali termini si può parlare di perdita gestionale.

Secondo l’impostazione della curatela anche dette perdite - che ammontano complessivamente ad euro 145.405,59 - vanno imputate ai convenuti in solido. Reputa il Tribunale, tuttavia, che l’assunto sia solo parzialmente fondato:

anche il liquidatore e i sindaci nominati dopo la messa in liquidazione avevano il

dovere di dichiarare lo stato di insolvenza; la possibilità di un accordo con Danter Company era notoriamente fallita i primi di maggio del 2004, e alla fine dello stesso mese Capucci aveva risolto il contratto, intimando di non utilizzare più il marchio; erano inoltre stati richiesti ed ottenuti già numerosi decreti ingiuntivi ( cfr. doc. n 55): sicché era palese che uno stato di insolvenza strutturale perdurava da almeno 9 mesi;

era - o doveva essere - al contempo chiaro che "la liquidazione", in difetto di una “fortunosa” opportunità di cedere l'azienda ( del tutto aleatoria in quella fase in quanto non ancorata a serie trattative in corso di definizione), non avrebbe potuto che condurre ad un rovinoso fallimento, con un'aggiunta ingiustificata ex ante di costi; sicché sono infondate le difese del dott. Bocca, le cui buone intenzioni (vendere “in blocco i beni sociali ovvero di cedere l’azienda con valorizzazione dell’avviamento che implicava la continuazione dell’esercizio dell’impresa") avrebbero dovuto essere governate, e valutate dai sindaci, alla luce della obiettiva insufficienza delle risorse finanziarie, che rendeva assai probabile che "gli atti utili per la liquidazione della società" si risolvessero in mera ulteriore perdita;

però è altrettanto pacifico che a partire dal 12.11.2004, quando si svolse la prima udienza prefallimentare, il fatto che sia mancata la dichiarazione di fallimento e che l’attività di liquidazione sia proseguita in capo al liquidatore anziché in capo alla curatela fino ala dichiarazione di fallimento (marzo 2005), non è più imputabile ad omissioni del liquidatore e neppure dei sindaci;

perciò il Tribunale può attribuire ai convenuti il solo danno in termini di "perdita gestionale" verificatosi tra il 31.7.2004 (data del bilancio di liquidazione) e il 12.11.2004, non è in alcun modo provato – infatti – che, come sostengono i convenuti ma soprattutto il dott. Maurizio Bocca - si trattò di perdite generate da

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costi funzionali ad un'attività rivelatasi "conservativa" di valori dell’attivo fallimentare, anche perché il Marchio ritornò in possesso di Capucci, con ogni conseguenza anche in termini di perdita definitiva dell’acconto prezzo versato;

poiché la documentazione prodotta non consente una verifica più puntale, il Collegio reputa plausibile ed equo imputare al liquidatore e ai sindaci di periodo i 3/5 della perdita predetta (corrispondenti presuntivamente all'attività svolta nel periodo di agosto, settembre ed ottobre) pari ad euro 51.230,17.

Di tale danno rispondono in solido per l'intero verso il fallimento Maurizio Bocca, nonché i sindaci Maurizio Navarra, Libero Balata, e Roberto Lattanzi. In solido con costoro devono rispondere anche Bruccoleri, Penè, Sesia, (che ha transatto la controversia) nonché Piergiorgio Bocca, poiché le condotte e le omissioni che si sono riconosciute fonte di responsabilità di costoro devono ritenersi aver determinato anche detto segmento del danno, che, invero, non si sarebbe prodotto se essi avessero provveduto a dichiarare tempestivamente la situazione d'insolvenza, o - in ragione del diverso ruolo organico - si fossero attivati per farla dichiarare. Poiché il dott. Sesia ha transatto con la curatela la sua quota di responsabilità anche detto segmento di danno va decurtato della misura corrispondente: poiché i sindaci - come s'è detto - devono ritenersi responsabili nella misura del 40% dell'intero danno (pari ai 2/5) la quota nella specie transatta da Sesia ( considerato che i sindaci che rispondono sono in tal caso 5) è pari a due 2/25 dell'intero; sicché l'ulteriore danno residuo di cui i convenuti rimasti in causa rispondono in solido - oltre accessori come indicato poco sopra - è pari a euro 47.131,71

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La chiamata in garanzia delle Assicurazioni Milanese e Unipol ( già UGF) da parte dei sindaci Navarra e Bocca. 1. Piercarlo e Maurizio Bocca hanno chiamato in causa Aurora Assicurazioni s.p.a. - poi UGF ora UNIPOL Assicurazioni - per essere manlevati da ogni eventuale obbligo di pagamento in virtù della polizza assicurativa n.70159523/5 sottoscritta dalla C.I.E. Consulenze Intermediazioni Elaborazioni s.r.l. a copertura di eventuali danni patrimoniali cagionati involontariamente a terzi dal Collegio Sindacale. Risulta dal contraddittorio e dai documenti che i sig.ri Bocca con polizza Winterthur n. 70159523/5 emessa il 12.3.2003 estesero la garanzia all’attività di sindaco. Poiché i fatti di cui sono chiamati a rispondere sono successivi a tale data nessuna rilevanza ha l’eccezione di inoperatività della polizza per danni relativi a fatti già noti all’assicurato all’inizio del periodo di assicurazione, né quella ex art. 1892 e 1894 c.c. sollevata dalla convenuta compagnia di assicurazioni. Essendo stata esclusa, inoltre, la sussistenza di alterazioni del bilancio di esercizio, non ha rilevanza neppure l’eccezione da ultimo sollevata dalla compagnia con riguardo all’art. 1900 c.c. Quanto all’oggetto della polizza, effettivamente essa non può ritenersi estesa all’attività di liquidatore svolta dal dott. Maurizio Bocca. Sicché la Compagnia deve essere condannata a tenere indenne ciascuno degli assicurati Maurizio e Piercarlo Bocca nei limiti del massimale annuo previsto (euro 1.000.000,00, nella fattispecie ampiamente capiente), per quanto costoro sono tenuti a pagare in favore della procedura in ragione della presente decisione in relazione alla loro qualità di sindaci della

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società fallita; restando esclusa, dunque, dalla pretesa di manleva solo la condanna di Maurizio Bocca quale liquidatore al risarcimento del danno di euro 47.131,71. 2. Maurizio Navarra ha chiamato in causa Assicurazioni Milanesi per essere manlevato da ogni eventuale obbligo di pagamento. Devono ritenersi infondate:

tanto l’eccezione con cui la Compagnia assicuratrice - per l’ipotesi di condanna dell’assicurato al risarcimento del danno in favore della curatela - deduce la sussistenza del dolo del dott. Navarra, elemento soggettivo che il Tribunale non ha affatto ravvisato nella ricostruzione di fatti e delle responsabilità ascritte ai convenuti,

quanto la – temeraria - eccezione con cui la Compagnia assicuratrice deduce la reticenza dell’assicurato, ovvero l’omessa dichiarazione ( dolosa o gravemente colposa) da parte dell’assicurato al momento della stipula del contratto di circostanze di rischio rilevanti ai fini della formazione del consenso della Compagnia ai sensi dell’art. 1892 c.c. e art. 17 delle condizioni di polizza: invero la polizza invocata non fu stipulata il 4.10.2004, come sostiene la terza chiamata, poiché in quella data fu oggetto di un “rinnovo senza soluzione di continuità” la polizza precedente (n. 130/99/1740/3505) stipulata fin dal 6.10.1999 ed estesa all’esercizio delle funzioni di sindaco il 12.5.2003; fatto questo oggetto di specifica difesa del convenuto Navarra, non contestato dalla terza chiamata, e riscontrato dai documenti depositati in causa (cfr. doc. n.14,15, 16 e 17, e n. 24 ove si legge “(...) della nuova polizza in sostituzione di quella in corso (…) retroattività illimitata( …) Le garantisce il prosieguo della garanzia senza soluzione di continuità”); sicché eventuali dichiarazioni reticenti (sulle condizioni di rischio) rese in sede di rinnovo sarebbero irrilevanti, stante l’operatività della polizza precedente con riguardo al sinistro qui rilevante derivante da condotta omissiva illecita tenuta dall’ottobre 2003 all’ottobre 2004.

La domanda formulata verso Assicuratrice Milanese va perciò accolta e la stessa va condannata a tenere indenne l’assicurato - nei limiti del massimale previsto - per quanto costui è tenuto a pagare in favore della procedura in ragione della presente decisione in relazione alla sua qualità di sindaco della società fallita. Resta assorbita da quanto precede in termini di accertamento della diversa quota di responsabilità dei convenuti la relativa domanda della Compagnia in vista dell’eventuale esercizio ai sensi dell’art. 1916 c.c. del diritto di regresso spettante all’assicurato verso gli altri coobbligati ex art. 2055 c.c.

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Spese L’onere delle spese della lite, deve seguire la soccombenza. Vanno poste quindi a carico dei convenuti in solido fra loro le spese sopportate dalla curatela che – tenuto conto dell’ammontare del danno effettivamente accertato - si liquidano in complessivi euro 31.200,00 di cui 10.000,00 per diritti 20.000,00 per onorari, 1.200,00 per spese oltre spese generali 12,5% CPA e IVA come per legge; Anche le terze chiamate sono risultate soccombenti rispetto alla domanda di manleva formulata nei loro confronti, cui hanno resistito infondatamente e - nel caso di Assicuratrice Milanese - con colpa grave: tuttavia in mancanza di domanda di condanna ex art. 96 c.p.c da parte del convenuto Navarra il Tribuanle non può provvedere ex art. 96 3° comma c.p.c., trattandosi di una fattispecie di responsabilità introdotta ben dopo l’inizio della presente vertenza.

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Esse vanno condannate pertanto a rifondere ai rispettivi chiamanti le spese di lite liquidate in complessivi euro in 6.500,00, di cui 1500 per diritti 5.000,00 per onorari, oltre spese generali 12,5% CPA e IVA come per legge.

P.Q.M.

Il Tribunale di Milano, sezione VIII civile, ogni altra domanda ed eccezione respinta così provvede, in parziale accoglimento della domanda del Fallimento Confezioni C.C. s.p.a. in liquidazione: 1) dichiara estinto a spese compensate il rapporto processuale tra il Fallimento Confezioni C.C. s.p.a. in liquidazione e il dott. Piercarlo Sesia che ha transatto la lite; 2) dichiara i convenuti Franco Bruccoleri e per esso il curatore della sua eredità giacente Andrea Bordino contumace, Franco Penè, Piercarlo Bocca, Maurizio Bocca, Maurizio Navarra, responsabili dei danni arrecati alla società e ai creditori sociali con la condotta illecita descritta in motivazione; e per l’effetto li condanna in solido fra loro a risarcire i danni in favore del Fallimento Confezioni C.C. s.p.a. in liquidazione nella misura complessiva di euro 1.634.921,15, oltre rivalutazione e interessi come indicato in motivazione; 3) dichiara i convenuti Libero Balata, Roberto Lattanzi, contumace, responsabili in solido con i convenuti Franco Bruccoleri e per esso il curatore della sua eredità giacente Andrea Bordino contumace, Franco Penè, Piercarlo Bocca, Maurizio Bocca, Maurizio Navarra, dei danni arrecati alla società e ai creditori sociali con la condotta illecita descritta in motivazione nei limiti della somma di euro 47.131,711; e per l’effetto li condanna in solido fra loro e con i predetti convenuti a risarcire detta somma in favore del Fallimento Confezioni C.C. s.p.a. in liquidazione, oltre rivalutazione e interessi come indicato in motivazione; 4) accerta che nei rapporti interni la responsabilità dei diversi convenuti è diversa, secondo la misura indicata in motivazione onde gli amministratori rispondono del danno nella misura del 60% e i sindaci in quella del 40%; inoltre l'amministratore Bruccoleri - e per esso il curatore della sua eredità giacente Andrea Bordino contumace - risponde nei rapporti interni con l'amministratore solidale Penè del 70% del danno; 5) condanna Franco Bruccoleri e per esso il curatore della sua eredità giacente Andrea Bordino contumace, Franco Penè, Piercarlo Bocca, Maurizio Bocca, Maurizio Navarra, Libero Balata, Roberto Lattanzi contumace in solido far loro a rifondere al Fallimento Confezioni C.C. s.p.a. in liquidazione attore le spese di lite liquidate in euro 31.200,00, oltre spese generali 12,5% su diritti ed onorari CPA e IVA come per legge; 6) dichiara Aurora Assicurazioni s.p.a. ora UNIPOL Assicurazioni s.p.a. tenuta a manlevare Maurizio Bocca e Piercarlo Bocca - nei limiti precisati in motivazione - per quanto costoro sono tenuti a pagare in favore della procedura in ragione della presente decisione in relazione alla loro qualità di sindaci della società fallita e la condanna a rifondere agli stessi le spese di lite liquidate in euro 6.500,00 oltre spese generali 12,5% su diritti ed onorari CPA e IVA come per legge; 7) dichiara Assicuratrice Milanese s.p.a. tenuta a manlevare Maurizio Navarra per quanto costui è tenuto a pagare in favore della procedura in ragione della presente decisione in

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relazione alla sua qualità di sindaco della società fallita e condanna a rifondere allo stesso le spese di lite liquidate in euro 6.500,00 oltre spese generali 12,5% su diritti ed onorari CPA e IVA come per legge.

Milano, così deciso nella camera di consiglio del 16.2.2010

Il Giudice Estensore Il Presidente dott.ssa Alessandra Dal Moro dott. Vincenzo Perozziello