INCONTRO DI AGGIORNAMENTO SULLE QUESTIONI NUOVE O ...DIRITTO SOSTANZIALE SEZIONI UNITE Cass. Sez....

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA UFFICIO DEI REFERENTI PER LA FORMAZIONE DECENTRATA DISTRETTO DI TORINO INCONTRO DI AGGIORNAMENTO SULLE QUESTIONI NUOVE O CONTROVERSE NELLA GIURISPRUDENZA PENALE Torino 24 gennaio 2008 1

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  • CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

    UFFICIO DEI REFERENTI PER LA FORMAZIONE DECENTRATA

    DISTRETTO DI TORINO

    INCONTRO DI AGGIORNAMENTO SULLE QUESTIONI NUOVE O

    CONTROVERSE NELLA GIURISPRUDENZA PENALE

    Torino 24 gennaio 2008

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  • SOMMARIO

    DIRITTO SOSTANZIALE

    Sezioni Unite Cass. Sez. Un. 27 settembre 2007 (dep. 16 gennaio 2008), n. 2451, Magera (inottemperanza all’ordine di espulsione e sopravvenuta condizione di cittadino comunitario dell’espulso)………………………………………………………………………………………………..4 Cass. Sez. Un. 29 novembre 2007 (dep. 20 dicembre 2007), n. 47472, Di Rocco (sostanza stupefacente al di sotto della soglia drogante)………………………………………………………………………………………16 Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2007 (dep. 18 dicembre 2007) n. 46982, p.o. in proc. Pasquini (oggetto giuridico dei reati contro la fede pubblica e diritto della perosna offesa all’opposizione alla richiesta di archiviazione)……………………………………………………………………………..………………..18 Cass. Sez. Un. 27 settembre 2007 (dep. 5 ottobre 2007 ) n.36692, Vuocolo (rilevanza delle condotte omissive ai fini della configurabilità del delitto ex art. 388 co.2 c.p.)………………………………………………….25 Cass. Sez. Un.12 luglio 2007 (dep. 26 settembre 2007 ) n. 35535, Ruggiero (attenuante del danno di speciale tenuità nel delitto di ricettazione)…………………………………………………………………………..27 Cass. Sez. Un. 19 aprile 2007 (dep. 27 aprile 2007) n.16568, Carchivi (rapporti tra art. 316-ter e art. 640-bis c.p.)……………………………………………………………………..…………………………………...34 Sezioni Semplici Cass. Sez. IV 2 luglio 2007 (dep. il 20 luglio 2007), n.1076, p.g. in proc. Farris (recidiva reiterata e giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p.)………………………………………………………………………………...38 Cass. Sez. IV 26 giugno 2007 (dep. 28 settembre 2007) Quayoud (esclusione dall’indulto dei reati in materia di stupefacenti aggravati ex art. 80 d.P.R. n. 309/1990)…………….....………………………………………..43 Cass. Sez. V 29 maggio 2007 (dep. il 18 luglio 2007) n. 28539, Barbierato (termini di prescrizione dei reati di competenza del giudice di pace)…………………………………………………………………………………………………………...44 Cass. Sez. VI 20 giugno 2007 (dep. 3 luglio 2007), n. 25418, Giombini ed altro (corruzione susseguente in atti giudizari)……………………………………………………………………………..………………………..45 Cass. Sez. IV 8.5.2007 (dep. 9.7.2007), n. 26432, Elkhinni (furto aggravato dal ricorso a mezzo fraudolento)…………………………………………………………………………………………………....46 Cass. Sez. II 27 giugno 2007 (dep. 26 settembre 2007) n. 35580, D’Angeli (stato di necessità ed occupazione di edifici)………………………………………………..………………………………………………………...47 Cass. Sez. V 20 marzo 2007 (dep. 17 maggio 2007), n. 19297, Celotti e Cass. Sez. V 18 ottobre 2007 (dep. 21 novembre 2007), n.43076, Rizzo (modifica della definizione di piccolo imprenditore e reati di bancarotta)………………………………………………………………………………………………………48 DIRITTO PROCESSUALE

    Sezioni Unite Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2007 (dep. 6 dicembre 2007) n. 45583, Volpe e altri (riduzione di pena per l’abbreviato e applicazione delle disposizioni sul cumulo materiale di pene)……………….……………………………..49 Cass. Sez. Un. 19 dicembre 2006 (dep. 10 aprile 2007 ) n. 14535, Librato (contestazioni a catena e misure emesse in procedimenti diversi)……………………………………………………………………………….64 Cass. Sez. un., 31 maggio 2007 (dep. 14 giugno 2007), n. 23381, Keci (sospensione dei tremini cautelari nei confronti del coimputato)……………………………………………...……………………………………. ..73 Cass. Sez. Un. 29 marzo 2007 (dep. 12 luglio 2007 ), n. 27614, p.c. in proc. Lista (appello della parte civile verso la sentenza di proscioglimento dopo la legge n.46/2006)………………………….…………………………...80 Sezioni Semplici Cass. Sez. IV n. 47030 13 luglio 2007 (dep. 15 ottobre 2007) p.m. in proc. Jankovic (applicabilità custodia cautelare in carcere al minore indagato per furto in abitazione)……………………..………………………91

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    Cass. Sez. fer. 13 settembre 2007 (dep. 11 ottobre 2007), n. 37368, Torino (avviso ex art. 415-bis c.p.p. e proroga termini custodia cautelare)………………………………………..………………………………….92

  • Cass. Sez. II 17 maggio 2007 (dep. 23 luglio 2007), n. 29914, Manganaro e altro (decreto di irreperibilità emesso dal p.m. in occasione della notifica dlel’avviso ex art. 415-bis c.p.p.)…………...…………………………...93 Cass. Sez. V 25 gennaio 2007 (dep. 27 febbraio 2007), n. 8108, Landro e Cass. Sez. III 20 settembre 2007 (dep. 8 novembre 2007), n. 41063, Ardito (notifiche ex art. 157 co.8-bis c.p.p.)…………………………………………………………………………………………………………..93 Cass. Sez. I 7 giugno 2007 (dep. il 20 giugno 2007) n. 24178, Cavaliere ed altri (utilizzabilità intercettazione ricerca latitanti)…………………………………………………………………...…………………………….95 Cass. Sez. VI 3 maggio 2007 (dep. 9 maggio 2007), n. 17807, De Silva (costituzione parte civile nel procedimento instaurato “ex novo”)…………………………………………………………………………….97 Cass. Sez. IV 2 aprile 2007 (dep. 15 ottobre 2007) p.m. in proc. Crientea (revoca dell’ordinanza di scarcerazione)……………………………………………………………...……………………………………97 Cass. Sez. IV 19 giugno 2007 (dep. 24 luglio 2007), n. 29965, Russo (revoca del consenso al patteggiamento e restituzione degli atti al p.m.)………………………………………….………………………………………..98 Cass. Sez.IV 8 maggio 2007 (dep. 9 luglio 2007), n. 26434, Osifo e altro (contestazione a catena e procedimento concluso con sentenza definitiva)………………………………………….……………………………………99 Cass. Sez. I 29 maggio 2007 (dep. 19 giugno 2007) n. 23967, Kaneva ed altri (investigazioni difensive all’estero)…………………………………………………………………………………..…………………….100

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  • DIRITTO SOSTANZIALE

    SEZIONI UNITE

    Cass. Sez. Un. 27 settembre 2007 (dep. 16 gennaio 2008), n. 2451, Magera, rv La Suprema Corte, sulla base di una ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali in tema di successione di leggi nel tempo (richiamando, in particolare, Sez. Un., 26 marzo 2003 n. 25887, Giordano), ha escluso, con riferimento al reato ex art. 14, comma 5-ter D.Lgs. n. 286 del 1998, l’applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 2, commi 2 e 4 cod. pen. in relazione alla sopravvenuta circostanza che dal 1° gennaio 2007 la Romania sia entrata a far parte dell’Unione Europea, poiché le norme modificatrici dello status dei cittadini rumeni “non possono considerarsi integratrici della norma penale, né possono operare retroattivamente” (“abstract” della sentenza tratto dal Servizio Novità di www.cortedicassazione.it). (omissis)

    2. Come ha ricordato l’ordinanza di rimessione, questa Corte ha ritenuto che non potesse trovare applicazione l’art. 2 c.p. in un caso di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di “stranieri” (si trattava di polacchi), divenuti, nel corso del giudizio, cittadini europei, perché, a suo avviso, si era verificata una «vicenda successoria di norme extrapenali che non integrano la fattispecie incriminatrice e tanto meno implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, bensì determinano esclusivamente una variazione della rilevanza penale del fatto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento normativo di adesione del nuovo paese all’U.E., limitatamente ai casi che possono rientrare nel nuovo provvedimento, senza fare venire meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso» (Sez. I, 11 gennaio 2007, n. 1815, Ferlazzo, rv. 236028).

    L’ordinanza ha aggiunto che un orientamento analogo in precedenza era stato espresso da Sez. VI, 16 dicembre 2004, n. 9233/2005, Buglione, rv. 230950, relativa all’applicazione di una misura cautelare personale per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cittadine lettoni, che dopo l’ingresso in Italia avevano perso la qualità di straniere per l’adesione del loro Paese all’Unione Europea.

    A questi precedenti, citati nell’ordinanza, si possono aggiungere, nello stesso senso, sempre in tema di favoreggiamento (ma questa volta di rumeni), Sez., I, 8 maggio 2007, n. 22805, Mathe e Sez. I, 15 giugno 2007, n. 29728, Afloarei.

    Invece Sez. I, 22 novembre 2006, n. 42412, Balota, rv. 235584 ha preso in considerazione il reato previsto dall’art. 14, comma 5 ter, d. lg. n. 286/98, in un caso singolare: il Tribunale monocratico di Crotone, con provvedimento del 1° febbraio 2006, aveva negato la convalida dell’arresto di un cittadino rumeno per la violazione dell’ordine di lasciare il territorio dello Stato rilevando che l’arrestato avrebbe dovuto ritenersi in via analogica cittadino europeo, perché era previsto che il 1° gennaio 2007 la Romania sarebbe entrata a far parte dell’Unione Europea. Il provvedimento è stato annullato in quanto, secondo la Corte di cassazione, il delitto dell’art. 14, comma 5 ter, cit. «si perfeziona con la mera realizzazione della condotta, sicché non rilevano né la previsione di un futuro ingresso dello Stato di appartenenza del cittadino extracomunitario nell’Unione europea, né l’adesione in itinere» del suo Paese d’origine all’Unione. La Corte ha aggiunto che l’arrestato non si sarebbe potuto giovare del regime di cui all’art. 2 c.p. neppure successivamente, perché il perfezionamento dell’adesione avrebbe dato luogo a «una

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  • vicenda successoria di norme extrapenali che non integrano la fattispecie incriminatrice e tanto meno implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, bensì determinano esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento … senza fare venire meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso».

    Inoltre, in vari altri casi la Corte di cassazione ha deciso ricorsi relativi al reato dell’art. 14, comma 5 ter, d. lg. n. 286/98 senza neppure prospettarsi la possibilità che in seguito alla perdita della qualità di straniero, che l’imputato aveva al momento del fatto, potesse essersi verificata un’abolitio criminis (ved., ad esempio, Sez. I, 27 febbraio 2007, n. 9345, Trandafir; Sez. I, 14 marzo 2007, n. 19096, Iordache; Sez. I, 27 marzo 2007, n. 17576, Todeanca).

    Tenuto conto delle decisioni finora intervenute, deve riconoscersi che, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, sulla punibilità dei reati previsti dagli artt. 12 e 14 d. lg. n. 286/98, relativi a stranieri che successivamente abbiano acquistato la cittadinanza europea, non è ravvisabile alcun contrasto; è vero però che, come ha rilevato l’ordinanza di rimessione, esistono orientamenti difformi sugli effetti che in genere può determinare sul trattamento penale la modificazione di una norma extrapenale (nel senso di norma esterna alla fattispecie penale, che potrebbe anche essere una norma penale, come avviene nel caso di calunnia o di associazione per delinquere), cui quella penale faccia in qualche modo riferimento, e che se si dovesse accogliere l’opinione che questa modificazione si risolve sempre in un fenomeno di successione di leggi penali si dovrebbe concludere che, diversamente da quanto è stato ritenuto dalle ricordate decisioni, l’acquisto della qualità di cittadino europeo fa escludere, a norma dell’art. 2, comma 2, c.p., la punibilità dei reati previsti dal d. lg. n. 286/98, commessi precedentemente.

    3. In seguito all’entrata in vigore, il 1° gennaio 2007, del Trattato di adesione della

    Romania all’Unione Europea (l. 9 gennaio 2006, n. 16) ha perso efficacia il decreto di espulsione emesso dal prefetto a norma dell’art. 13 d. lg. n. 286/98, ed è venuto meno l’obbligo per l’imputato di lasciare il territorio dello Stato, in ottemperanza all’ordine impartito a suo tempo dal questore, e correlativamente è cessato il reato previsto dall’art. 14, comma 5 ter, d. lg. n. 286/98. Poiché però il reato era già stato commesso c’è da chiedersi se ne permanga, o meno, la punibilità.

    La risposta deve essere ricercata facendo riferimento ai criteri già affermati in tema di successione di leggi penali da queste Sezioni unite con la sentenza 26 marzo 2003, n. 25887, Giordano. In quella sentenza le Sezioni unite hanno escluso la possibilità di accogliere la teoria della doppia punibilità in concreto e hanno affermato che per individuare il campo di applicazione del secondo comma dell’art. 2 c.p. non ci si può limitare a considerare se il fatto, punito in base alla legge anteriore, sia punito, o meno, anche in base a quella posteriore. Perciò non può escludersi che un fatto, divenuto non punibile per la legge extrapenale posteriore, rimanga punibile per la legge anteriore, vigente al momento della sua commissione.

    L’indagine sugli effetti penali della successione di leggi extrapenali va condotta facendo riferimento alla fattispecie astratta e non al fatto concreto: non basta riconoscere che oggi il fatto commesso dall’imputato non costituirebbe più reato, ma occorre prendere in esame la fattispecie e stabilire se la norma extrapenale modificata svolga in collegamento con la disposizione incriminatrice un ruolo tale da far ritenere che, pur essendo questa rimasta letteralmente immutata, la fattispecie risultante dal collegamento tra la norma penale e quella extrapenale sia cambiata e in parte non sia più prevista come reato. In questo caso ci si trova in presenza di un’abolitio criminis parziale, analoga a quella che si verifica quando è la stessa disposizione penale ad essere modificata con l’esclusione di una porzione di fattispecie che prima ne faceva parte (si pensi ad esempio

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  • alle modificazioni subite dal reato di abuso d’ufficio o da quello di false comunicazioni sociali).

    La successione avvenuta tra norme extrapenali non incide invece sulla fattispecie astratta, ma comporta più semplicemente un caso in cui in concreto il reato non è più configurabile, quando rispetto alla norma incriminatrice la modificazione della norma extrapenale comporta solo una nuova e diversa situazione di fatto.

    In altre parole, nel caso in esame occorre stabilire se la qualità di appartenenti all’Unione Europea, acquistata dai cittadini della Romania e degli altri Stati che sono di recente entrati a far parte dell’Unione, ha inciso sulla fattispecie dell’art. 14, comma 5 ter, d. lg. n. 286/98, con effetto retroattivo o ha solo dato luogo a una modificazione della situazione di fatto, che ha reso lecita la loro permanenza in Italia dal momento dell’ingresso dei rispettivi Stati nell’Unione.

    L’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite ha prospettato la possibilità che nel caso in esame la punibilità venga esclusa in applicazione del quarto comma dell’art. 2 c.p., anziché del secondo comma dello stesso articolo, con l’opportuno effetto in tal caso di rendere inoperante la vicenda successoria rispetto alle condanne divenute irrevocabili. Però il quarto comma dell’art. 2 c.p., come si desume dal suo contenuto dispositivo e si ritiene generalmente, riguarda la modificazione delle incriminazioni e non la loro abolizione, riguarda cioè l’ipotesi in cui, in seguito a una successione di leggi penali, il fatto continua a costituire reato ma è trattato in modo diverso, e pone la regola che in tale ipotesi deve applicarsi la disposizione più favorevole, «salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile». Nel caso in esame occorre invece stabilire se l’incriminazione sia stata o meno abolita in seguito alla modificazione della legge extrapenale, e una risposta affermativa non può non comportare anche il superamento delle eventuali sentenze irrevocabili di condanna, di cui, a norma del secondo comma dell’art. 2 c.p., dovrebbero cessare l’esecuzione e gli effetti penali.

    4. Sulla questione relativa agli effetti della successione di leggi extrapenali in

    giurisprudenza sono emerse opinioni diverse e i vari casi che si sono presentati sono stati risolti ora muovendo dell’affermazione di principio che l’art. 2, comma 2, c.p. si applica anche rispetto alla successione di leggi extrapenali, ora, invece, dall’affermazione opposta. Se però si considerano attentamente i diversi casi passati al vaglio della giurisprudenza ci si rende conto che per la loro soluzione non ci si può affidare all’affermazione di principio che tutte le modificazioni di dati normativi esterni, implicati dalla fattispecie penale, sono da trattare come un fenomeno di successione di leggi penali o all’affermazione opposta.

    Anche nella dottrina le opinioni sono diverse e si articolano variamente tra due estremi. Da un lato c’è la tesi di chi ritiene che ogni disposizione che rileva nella descrizione della fattispecie penale finisce, ai fini dell’art. 2 c.p., a connotarsi penalmente e a far assumere rilevanza alle modificazioni che la riguardano; dal lato opposto la tesi di chi invece è convinto che le modificazioni di leggi diverse da quella penale non rilevino se il nucleo penale della fattispecie non cambia. Le modificazioni secondo questa tesi sono assimilabili a quelle relative ai presupposti di fatto e quindi danno origine a una diversità di fatti concreti, rimanendo prive di rilevanza ai fini del secondo comma dell’art. 2 c.p.

    In mezzo coloro che distinguono tra leggi extrapenali le cui modificazioni sono rilevanti e leggi le cui modificazioni non lo sono, da individuare anche facendo ricorso a criteri valutativi, per riuscire a differenziare i casi in cui la modificazione ha determinato, anche per il passato, il venir meno della lesività del fatto da quelli in cui invece non ha determinato questo effetto.

    Al primo dei due estremi si colloca una tesi estremamente lineare, la quale dalla premessa che il significato del termine “fatto” nel primo e nel secondo comma dell’art. 2 c.p. deve essere uguale deduce che qualunque modificazione mediata, se da un lato non può

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  • avere l’effetto di rendere punibile un fatto che prima non lo era, dall’altro non può non far cessare la punibilità di un fatto che prima lo era.

    «Se per “fatto” ai fini dell’art. 2, comma 1, c.p. si deve … assumere il fatto storicamente determinato in tutti gli aspetti rilevanti ai fini dell’applicazione di una disposizione incriminatrice – si è detto – non si vede perché lo stesso concetto non debba più valere ai fini dell’art. 2, comma 2, c.p.».

    La tesi è suggestiva, però è dubbio che il “fatto” dell’art. 2, comma 1, c.p. sia quello «storicamente determinato in tutti i suoi aspetti rilevanti», ivi compresi quelli disciplinati dalle norme extrapenali.

    E’ vero che la modificazione di una norma extrapenale non potrebbe dar luogo a un’applicazione retroattiva, ma non sembra che ciò dipenda dal concetto di “fatto” accolto dall’art. 2, comma 1. c.p.p., perché è assai difficile ipotizzare che un fatto divenuto reato per la successiva modificazione di una legge extrapenale possa essere integrato da condotte precedenti, posto che in precedenza potevano esistere, e non sempre, gli elementi di fatto, ma non anche le qualificazioni normative presupposte dalla norma penale.

    Venendo al caso oggetto di giudizio si immagini una situazione in cui uno Stato cessi di far parte dell’Unione Europea. Il cittadino di questo Stato diviene uno straniero (nel senso precisato dall’art. 1 d.lg. n. 286/98) ma è impossibile ipotizzare che possa essersi verificata in precedenza una condotta riconducibile all’art. 14, comma 5 ter d.lg. n. 286/98 (secondo la sequenza: provvedimento di espulsione del prefetto, impossibilità di eseguire immediatamente l’espulsione e di trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea, provvedimento del questore e infine violazione) che potrebbe essere resa punibile in mancanza della regola dell’art. 2, comma 1, c.p.

    Ma alla stessa conclusione deve giungersi nei casi in cui il fatto commesso prima della modificazione potrebbe essere identico a quello che successivamente integrerebbe un reato.

    Si pensi all’abuso d’ufficio, per la cui integrazione occorre una «violazione di legge o di regolamento», e si pensi a un atto amministrativo adottato in conformità di una legge che successivamente venga modificata. In seguito alla modificazione l’atto non sarebbe più conforme alla legge e c’è da chiedersi, se in mancanza della regola del primo comma dell’art. 2 c.p. (e dell’art. 25, comma 2, Cost.), la precedente condotta del pubblico ufficiale potrebbe diventare punibile come abuso d’ufficio. La risposta dovrebbe essere certamente negativa perché l’atto non è stato adottato in violazione di legge e la successiva modificazione legislativa non può mutare questo dato di fatto. Come è stato esattamente precisato da Sez. I, 15 gennaio 2003, n. 10656, Villani (per escludere che il reato possa venir meno per effetto della modificazione della norma extrapenale) la violazione di legge nella fattispecie dell’art. 323 c.p. costituisce un “requisito di fatto”, e il fatto in quanto tale, una volta accaduto, non può subire modificazioni.

    Perciò non può concludersi che il concetto di “fatto” accolto dal primo comma dell’art. 2 c.p. è necessariamente comprensivo di tutti gli elementi normativi extrapenali e che questo concetto è recepito anche dal secondo comma dello stesso articolo.

    E’ vero che c’è una corrispondenza tra il primo e il secondo comma dell’art. 2 c.p., ma questa corrispondenza si riscontra nei casi in cui, come si vedrà, la legge extrapenale, per il ruolo che svolge nella fattispecie o per sua natura, è in grado di operare retroattivamente. E’ in questi casi infatti che l’innovazione, per lo sbarramento del primo comma, non può avere un effetto di incriminazione retroattiva, mentre può avere l’effetto abolitivo previsto dal secondo comma.

    In realtà l’art. 2 c.p. non offre argomenti per sostenere che, benché nella rubrica si riferisca letteralmente solo alla legge penale, detti delle regole da valere anche per tutte le leggi extrapenali, richiamate in qualche modo dalla disposizione incriminatrice; leggi che possono essere le più varie e possono venire in considerazione anche indirettamente,

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  • attraverso una pluralità di rinvii, dalla legge penale a quella extrapenale e da questa ad altre leggi.

    Ad esempio, come si è visto, per l’integrazione della fattispecie dell’abuso di ufficio l’art. 323 c.p. richiede genericamente la «violazione di norme di legge o di regolamento» e un rinvio di un’ampiezza così smisurata rende arduo sostenere che qualunque modificazione di tali norme, intervenuta dopo la loro violazione, possa costituire una parziale abolitio criminis. Conclusione questa che del resto la giurisprudenza rifiuta decisamente, escludendo che una modificazione del genere abbia rilevanza ai fini dell’art. 2 c.p. (Sez. VI, 15 gennaio 2003, n. 10656, Villani; Sez. II, 2 dicembre 2003, n. 4296, Stellaccio).

    Di recente il d.lg. 10 agosto 2007, n. 154 ha modificato alcuni articoli della l. n. 286/98 in attuazione della direttiva 2004/114/CE, relativa alle condizioni di ammissione dei cittadini di Paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato, e non sembra sostenibile che la punibilità per la violazione dell’ordine di lasciare lo Stato a suo tempo legittimamente dato dal questore al cittadino di un Paese terzo possa diventare non punibile perché successivamente la legge sopravvenuta ne avrebbe potuto legittimare la sua permanenza nel territorio dello Stato.

    La fattispecie dell’art. 14, comma 5 ter, d.lg. n. 286/98 è rimasta immutata e la modificazione intervenuta nella disciplina dei permessi può incidere sulla condizione dello straniero, consentendogli di ottenere un permesso che prima gli era precluso, ma non può far venir meno la punibilità di un fatto già commesso.

    Diversa a quanto pare dovrebbe essere la conclusione se a cambiare fosse proprio la definizione di straniero contenuta nell’art. 1 d.lg. n. 286/98. Se dalla categoria venisse escluso il cittadino di uno Stato in attesa di adesione all’Unione sarebbe la stessa fattispecie penale a risultare diversa e a vedersi sottrarre una parte della sua sfera di applicazione, secondo lo schema tipico dell’abolizione parziale, riconducibile all’art. 2, comma 2, c.p. (Sez. un. 26 marzo 2003, n. 25887, Giordano).

    In un caso del genere dall’ambito della precedente fattispecie verrebbe esclusa una sottoclasse, quella relativa ai cittadini dei Paesi candidati all’ingresso nell’Unione Europea, e rispetto a questa sottoclasse si potrebbe parlare di abolitio criminis, come avviene quando in una vicenda di successione di leggi penali una fattispecie più ampia viene sostituita con una più limitata (si pensi alla modificazione del reato di abuso di ufficio o di quello di false comunicazioni sociali, dei quali la giurisprudenza ha avuto occasione di occuparsi ampiamente), facendo venire meno la punibilità dei fatti che, pur integrando precedentemente il reato, non rientrano nella nuova fattispecie.

    Lo stesso dovrebbe dirsi se dalla più ristretta categoria degli stranieri che devono essere espulsi, individuata dall’art. 13, comma 2, d.lg. n. 286/98, venisse escluso lo straniero che «si è trattenuto nel territorio dello Stato in assenza della comunicazione di cui all’art. 27, comma 1 bis, o senza aver richiesto il permesso di soggiorno nei termini prescritti», nei cui confronti, in ipotesi, una legge successiva introducesse un regime meno rigoroso di quello stabilito nei confronti dello straniero «entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera». Anche in questo caso verrebbe ad essere modificata la fattispecie dell’art. 14, comma 5 ter, cit. attraverso una ridefinizione della categoria delle persone alle quali è applicabile la normativa sull’espulsione.

    Al contrario, la cittadinanza dell’uno o dell’altro Stato, membro oppure no dell’Unione Europea, rispetto alla fattispecie dell’art. 14, comma 5 ter, d.lg. n. 286/98 non dà luogo a sottoclassi, non designa nell’ambito della categoria una parte con caratteristiche specifiche, ma individua più semplicemente l’appartenenza all’una o all’altra categoria, cioè a quella dei cittadini extracomunitari o dei cittadini comunitari. L’essere rumeno o albanese significa oggi essere o non essere cittadino dell’Unione Europea, perciò, ai fini del reato in questione, l’ingresso di uno Stato nell’Unione, così come in ipotesi la sua

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  • esclusione, non dà luogo a una successione di leggi riconducibile all’art. 2, comma 2, c.p., non modifica, sia pure in modo mediato, la fattispecie penale, ma costituisce un mero dato di fatto, anche se frutto di un’attività normativa.

    5. Come si è visto, nell’ambito della fattispecie penale le norme extrapenali non

    svolgono tutte la stessa funzione e, nel caso delle norme penali in bianco, possono addirittura costituire il precetto, anche se in questo caso, vista la funzione che svolgono, si parla forse impropriamente di norme extrapenali; perciò occorre operare una distinzione tra le norme integratrici della fattispecie penale e quelle che tali non possono essere considerate.

    E’ una distinzione alla quale si ricorre anche nell’applicazione del terzo comma dell’art. 47 c.p., per decidere se un errore su una legge diversa da quella penale escluda o meno la punibilità, e non è questa la sede per stabilire se ai fini dell’art. 2 e dell’art. 47 c.p. la qualificazione di una norma extrapenale debba essere la stessa; qui è sufficiente considerare che nell’art. 47 c.p. il legislatore ha riconosciuto l’esistenza di leggi diverse da quelle penali, alle quali ha ricollegato un diverso trattamento dell’errore, e non è arbitrario pensare che anche agli effetti dell’art. 2 c.p. le leggi diverse da quelle penali possano avere trattamenti diversi.

    E’ da aggiungere che la retroattività, mentre per le norme penali di favore rappresenta la regola (art. 2, commi 2, 3 e 4, c.p.), anche se può subire deroghe (Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393), per le norme diverse da quelle penali costituisce un’eccezione (art. 11 disposizioni sulla legge in generale), sicché una nuova legge extrapenale può avere, di regola, un effetto retroattivo solo se integra la fattispecie penale, venendo a partecipare della sua natura, e ciò avviene, come nel caso delle disposizioni definitorie, se la disposizione extrapenale può sostituire idealmente la parte della disposizione penale che la richiama. Ad esempio nell’art. 14, comma 5 ter, d.lg. 286/98, come è già stato rilevato, le parole “lo straniero” ben potrebbero essere sostituite con le parole “il cittadino di Stato non appartenente all’Unione Europea e l’apolide” (secondo l’indicazione dell’art. 1 d.lg. n. 286/98), e si verificherebbe certamente una successione di leggi penali se questa definizione cambiasse, escludendo l’apolide o il cittadino di Stati di cui è previsto l’ingresso nell’Unione.

    Analogamente le parole “minori” o “minorenni”, che figurano in numerose disposizioni del codice penale, potrebbero essere sostituite con le parole “persone che non hanno compiuto il diciottesimo anno di età”, perciò l’art. 2, comma 1, c.c. sulla maggiore età ben può essere considerato una disposizione integratrice dei precetti penali che si riferiscono a maggiorenni o a minorenni. E tale infatti la giurisprudenza ha considerato la disposizione civilistica quando è stata modificata dall’art. 1 l. 8 marzo 1975, n. 39, che ha ridotto il limite della maggiore età da ventuno a diciotto anni: la vicenda è stata ricondotta nell’ambito dell’art. 2 c.p. ed è stata esclusa la punibilità dei fatti di sottrazione consensuale di minorenni (art. 573 c.p.) commessi nei confronti di persone di età tra i diciotto e i ventuno anni prima che il limite della maggiore età venisse ridotto (Sez. VI, 11 aprile 1975, n. 8940, Centone, rv. 130790; Sez. VI, 29 dicembre 1977, n. 3791, Amato, rv. 138463).

    In casi come questi si può parlare di modificazioni mediate della norma incriminatrice, da trattare, alla stregua dell’art. 2 c.p., come una successione di norme penali.

    6. Oltre che rispetto alle norme integratrici di quelle penali, l’art. 2 c.p. può trovare

    applicazione rispetto a norme extrapenali che siano esse stesse, esplicitamente o implicitamente, retroattive, quando nella fattispecie penale non rilevano solo per la qualificazione di un elemento ma per l’assetto giuridico che realizzano, come può accadere

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  • per le norme penali richiamate dalla norma incriminatrice (e da considerare perciò alla stregua di norme extrapenali, nel senso di norme esterne a quella penale descrittiva del reato).

    Sotto questo aspetto si può ricordare che una recente decisione ha escluso la configurabilità del reato di associazione per delinquere per l’avvenuta depenalizzazione del reato fine, rilevando, tra l’altro, che «l’abrogatio criminis svuota di contenuto penalmente rilevante le finalità del sodalizio» (Sez. I, 9 marzo, 2005, n. 13382, Screti, rv. 232491). In questo caso l’effetto retroattivo della norma abolitrice del reato ha inciso sulla fattispecie associativa privandola del scopo della commissione di fatti-reato. Si pensi al caso ancora più semplice di fatti delittuosi successivamente divenuti leciti e addirittura, in ipotesi, apprezzati positivamente (come potrebbe avvenire per delitti collegati a un particolare regime politico, poi abbattuto). Una volta divenuti non punibili questi fatti non ci sarebbe ragione di punire chi si è associato per commetterli, e se fosse intervenuta condanna sia per i delitti scopo sia per quello associativo la revoca non potrebbe certo riguardare solo i primi. L’effetto abolitivo del reato associativo è conseguenza necessaria dell’effetto retroattivo dell’abolizione del reato scopo.

    Diverso è il caso della calunnia, che secondo la giurisprudenza consolidata rimane insensibile all’abolizione del reato oggetto dell’incolpazione (Sez. VI, 8 aprile 202, n. 14352, Bassetti, rv. 226425; Sez. VI, 21 maggio 1999, n. 8827, Zini, rv. 214674; Sez. VI, 21 novembre 1988, n. 12673, Caronna, rv. 180011). Nella calunnia infatti rileva la qualificazione come reato del fatto oggetto dell’incolpazione, nel momento in cui è avvenuta, e non l’assetto giuridico realizzato dalla norma incriminatrice, sicché l’abrogazione di questa non è in grado di incidere sul reato precedentemente commesso. Ciò che conta ai fini della calunnia è l’incolpazione di un innocente, in modo tale che a suo carico possa iniziare un procedimento penale, e, una volta avvenuta l’incolpazione, l’eventuale successiva abolizione del reato addebitato resta priva di effetti. L’abolizione potrebbe anche avvenire quando il procedimento non solo è iniziato ma ha anche gravemente pregiudicato l’incolpato e in un caso del genere la lesione sarebbe evidentemente irretrattabile.

    Esemplare in proposito è il caso giudicato da Sez. III, 7 aprile 1951, Ottazzi (in Giust. pen., 1951, II, c. 1073). L’imputato, con denuncia presentata alle autorità politiche e di polizia fasciste dell’epoca, aveva incolpato falsamente una persona di appartenere al Comitato di liberazione nazionale e questa era rimasta incarcerata fino alla liberazione del territorio nazionale. Il fatto che l’appartenenza al Comitato di liberazione nazionale avesse cessato di costituire reato e fosse divenuta titolo di onore non ha impedito alla Cassazione di ritenere ancora punibile la calunnia, perché «la successiva esclusione legislativa del reato incolpato (abolitio criminis) è un posterius del tutto irrilevante, che non elimina l’inganno teso all’amministrazione della giustizia deviata dalle sue funzioni ordinarie mercé la incolpazione di un fatto che all’epoca costituiva reato», e tanto meno elimina il grave danno subito dall’incolpato.

    7. L’applicazione dell’art. 2 c.p. rispetto a leggi extrapenali non integratrici del

    precetto penale e prive di retroattività sarebbe ingiustificata e potrebbe dar luogo a uno sfasamento tra la disciplina extrapenale e quella penale, se per la seconda dovesse valere la regola della retroattività, esclusa invece per la prima. Sfasamento che da Sez. V, 11 maggio 2006, n. 21197, Formaggia, rv. 234113, in un caso particolare, è stato evitato respingendo la tesi che un’avvenuta evasione dell’iva all’importazione fosse divenuta non punibile perché «l’entrata in vigore del Mercato unico europeo a far data dal 1° gennaio 1993 ha fatto decadere per il commercio intracomunitario tutta la disciplina relativa alle attività di esportazione e importazione». La Corte ha respinto la tesi con l’affermazione che «l’abolizione delle barriere doganali … non ha fatto venir meno la punibilità delle condotte

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  • di contrabbando commesse anteriormente, permanendo comunque il debito derivante dall’obbligazione tributaria già evasa».

    Insomma, se, nonostante la modificazione normativa, l’imposta, per il passato, continuava ad essere dovuta non poteva non costituire reato la sua evasione. Il cambiamento avvenuto nella normativa extrapenale, modificando il contesto giuridico, ha determinato una diversità del fatto e non della fattispecie: da quando non è più dovuta l’imposta non è più configurabile il reato, ferma però rimanendone la configurabilità fino al momento in cui invece l’imposta era dovuta.

    A fondamento della regola della retroattività della norma penale di favore e delle norme extrapenali che la integrano è stato richiamato in dottrina il principio di parità di trattamento, sancito dall’art. 3 Cost., e il richiamo è certamente corretto, con l’avvertenza però che l’art. 3 Cost. riguarda situazioni uguali e legittima, all’opposto, trattamenti diversi quando le situazioni da regolare sono diverse. Generalmente la novazione della norma extrapenale, che non sia retroattiva o meramente ricognitiva di un mutamento già avvenuto, segna il punto di passaggio tra due contesti giuridici (con correlate situazioni di fatto), che si sono succeduti nel tempo, sicché fare applicazione ai primi del trattamento penale valido per i secondi significherebbe applicare la nuova norma a una situazione diversa da quella alla quale essa si riferisce.

    8. Prima di concludere che nella previsione dell’art. 2, comma 3, c.p., oltre alle

    modificazioni di norme extrapenali integratrici della norma penale, rientrano quelle di altre norme extrapenali, solo se si tratta di norme retroattive, occorre considerare un precedente in senso diverso delle stesse Sezioni unite. Si tratta della sentenza 23 maggio 1987 – 16 luglio 1987, Tuzet, nella quale le Sezioni unite, dopo aver premesso che «per legge incriminatrice deve intendersi il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini della descrizione del fatto», hanno riconosciuto effetto retroattivo a una novazione legislativa che aveva fatto venir meno per i dipendenti bancari la qualità di incaricati di pubblico servizio, e hanno conseguentemente dichiarato non punibile un reato di peculato commesso precedentemente.

    Va detto che alle Sezioni unite non era stata sottoposta specificamente la questione relativa alle modificazioni mediate della norma penale e che la sentenza non ha approfondito il tema ma si è limitata ad alcune affermazioni di principio, dopo aver riconosciuto che «la giurisprudenza … in materia di successione di norme integratrici si mantiene oscillante e sembra influenzata nelle opposte soluzioni dalla specificità dei casi».

    E all’influenza della specificità del caso non si sono sottratte neppure le Sezioni unite. La sentenza Tuzet era chiamata ad affrontare una questione risalente, relativa alla

    qualificazione dei dipendenti degli istituti di credito, che una precedente sentenza delle Sezioni unite (10 ottobre 1981 – 19 novembre 1981, Carfì) aveva risolto riconoscendo loro la qualità di incaricati di pubblico servizio. La soluzione non era rimasta immune da critiche; la questione non si era sopita e ne erano state inutilmente investite anche la Corte costituzionale e la Corte di giustizia delle Comunità europee. La prima (sent. 1°luglio 1983, n. 205) aveva concluso con un non liquet, in quanto la questione di legittimità costituzionale sollevata coinvolgeva scelte in tema di diritto penale dell’impresa bancaria che spettavano alla discrezionalità del legislatore, mentre la seconda (sent. 7 aprile 1987) aveva dichiarato che «né le disposizioni, né l’obiettivo della direttiva n. 77/780 si oppongono a che sia conferita ai dipendenti degli enti creditizi la qualità di “pubblico ufficiale” o di “persona incaricata di un pubblico servizio” ai fini dell’applicazione del diritto penale di uno Stato membro».

    Così la questione era ritornata alle Sezioni unite, che con la sentenza Tuzet hanno mutato orientamento, affermando che per effetto della direttiva comunitaria n. 77/780 e delle norme di attuazione (l. 5 marzo 1985, n. 74 e d.P.R. 27 giugno 1985, n. 350) era

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  • cambiata la regolamentazione degli istituti di credito e correlativamente i dipendenti avevano perso la qualità di incaricati di pubblico servizio. La modificazione normativa non aveva però impedito ad altre decisioni della Corte di cassazione (Sez. VI, 13 novembre 1985, Ercolano; Sez. II, 20 marzo 1986, Di Gianni) di ribadire il precedente orientamento, mentre la sentenza Tuzet, come è stato rilevato in dottrina, era giunta a una conclusione diversa operando un «ribaltamento della tesi emersa nella decisione Carfì, attraverso un discreto ma sistematico smantellamento dei principali elementi di prova … addotti dalle Sezioni unite del 1981 a favore della soluzione “panpublicistica”».

    Insomma la diversa qualificazione data ai dipendenti bancari dalla sentenza Tuzet, più che di una modificazione normativa, era stato il frutto di una diversa interpretazione, alla quale le Sezioni unite avevano inteso riconoscere valore retroattivo, come avviene normalmente per le operazioni interpretative.

    Perciò dalla sentenza Tuzet non possono trarsi argomenti decisivi per sostenere che tutte le modifiche mediate della norma penale sono riconducibili all’art. 2, comma 2, c.p., né può condividersi la tesi che, come è stata riconosciuta efficacia retroattiva alla perdita, da parte dei dipendenti bancari, della qualità di persone incaricate di un pubblico servizio, analogamente deve riconoscersi efficacia retroattiva alla perdita, da parte dei cittadini rumeni, della qualità di stranieri.

    9. Le norme che hanno modificato lo status dei rumeni, facendoli diventare cittadini

    dell’Unione Europea, non possono, come si è detto, considerarsi integratrici della norma penale, né possono operare retroattivamente.

    L’adesione di uno Stato all’Unione Europea non costituisce un dato formale ma giunge al termine di un percorso di non breve periodo che lo Stato candidato è tenuto a compiere sotto il controllo dell’Unione per adeguare le proprie strutture economiche, sociali e ordinamentali ai parametri stabiliti. E l’adesione a sua volta è produttiva di rilevanti effetti, uno dei quali è costituito dalla libertà, per i cittadini dello Stato, di circolare all’interno dell’Unione. Perciò non può ritenersi che i cittadini rumeni, ai fini penali, vadano trattati come se fossero sempre stati cittadini dell’Unione e che i reati commessi quando essi per il nostro ordinamento erano stranieri siano divenuti non punibili in forza dell’art. 2, comma 2, c.p. La situazione di fatto e di diritto antecedente all’adesione e quella successiva sono diverse e richiedono quindi logicamente trattamenti, anche penali, diversi.

    Se si dovesse ritenere il contrario, rispetto ai cittadini degli Stati in attesa di entrare a far parte dell’Unione Europea si verificherebbe una situazione paradossale, che darebbe luogo a procedimenti penali inutili, per reati destinati a venire meno nel momento in cui diventerebbe efficace l’adesione. Inoltre, come è stato giustamente rilevato, «la consapevolezza dell’agente che di lì a breve il proprio Stato entrerà nella CE lo indurrebbe a trasgredire senza timore alcuno l’art. 14, comma 5 ter, d.lg. 286 del 1998, confidando poi nella successiva abolitio criminis».

    E’ da aggiungere che esiste una regolamentazione dell’ingresso, del soggiorno in Italia e dell’allontanamento dei cittadini dell’Unione Europea, diversa da quella prevista per gli stranieri e più volte modificata nel tempo (d.P.R. 30 dicembre 1965, n. 1656; d.P.R. 18 gennaio 2002, n. 54; d. lg. 6 febbraio 2007, n. 30 e, da ultimo, d.l. 29 dicembre 2007), e che l’essere in un dato momento cittadino dell’Unione o straniero comporta l’applicazione dell’una o dell’altra normativa. Perciò può ben darsi il caso di una persona soggetta ad espulsione, in quanto straniera, ma che avrebbe anche potuto essere allontanata, ricorrendone le condizioni, se fosse stata cittadino dell’Unione. Ciò significa che alla diversa qualità della persona si collegano due statuti diversi (anche per quanto riguarda il trattamento penale) e che al cambiamento della qualità consegue il cambiamento dello statuto, il quale non può operare retroattivamente.

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  • In conclusione deve escludersi che l’adesione della Romania all’Unione Europea abbia determinato l’abolizione del reato previsto dall’art. 14, comma 5 ter, d.lg. n. 286/98, commesso dai cittadini rumeni prima del 1° gennaio 2007, giorno di entrata in vigore del trattato di adesione.

    E’ quindi esclusa l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non è più previsto come reato, e poiché il Tribunale di Genova ha erroneamente ritenuto l’insussistenza del fatto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Genova, perché, a norma dell’art. 569, comma 4, c.p.p., proceda al giudizio di appello. (omissis) E’ impossibile sintetizzare in questa sede l’articolato orizzonte degli orientamenti della Suprema Corte ad oggetto l’art. 2 c.p. Limitandosi all’ambito dell’analisi del fenomeno successorio riguardante norme extrapenali comunque rilevanti ai fini dell’applicazione di quella incriminatrice è opportuno ricordare – per l’evidente somiglianza con la fattispecie oggetto della sentenza Magera - innanzi tutto la vicenda delle disposizioni sul ridimensionamento del servizio militare di leva e la sua incidenza sui reati militari che, a seguito dell’abolizione della leva obbligatoria e dell’introduzione del servizio militare “professionale”, così come disposto dalla legge 14 novembre 2000 n. 331, presuppongono lo status di militare di leva. Sul punto copiosa è stata la produzione della giurisprudenza di legittimità, che registra numerose pronunzie (raramente massimate) attestate su una linea esegetica che esclude la punibilità in applicazione del principio del favor rei, secondo un modulo applicativo che ruota intorno all’art. 2, comma quarto, c.p., ma non consente – tenuto conto della non avvenuta abolitio criminis, per essere rimasto in vita, sia pure in casi eccezionali, il servizio militare obbligatorio – la revoca del giudicato di condanna già intervenuto, data la preclusione stabilita dalla citata disposizione (tra le più recenti, sez. 1a, 7 febbraio 2007 n. 8895, Marro; 9 febbraio 2007 n. 10323, Guarnieri; 15 febbraio 2007 n. 9281, Pettè; 15 febbraio 2007 n. 9283, Ciuffi; 15 febbraio 2007 n. 9284, Golfari; 15 febbraio 2007 n. 9285, Marchesan; 15 febbraio 2007 n. 9286, Arcerito; 7 marzo 2007 n. 13481, Carrozzo, 7 marzo 2007 n. 13487, Russo; 27 marzo 2007 n. 14426, Cardinetti). Sostanzialmente, la prima sezione ha ritenuto che le innovazioni di cui alla legge 14 novembre 2000 n. 331 (norme per l’istituzione del servizio militare professionale), e successive integrazioni quanto alla data di sospensione della chiamata obbligatoria alla leva (legge 23 agosto 2004 n. 226 e d.l. 30 giugno 2005 n. 115, convertito nella legge 17 agosto 2005 n. 168), non hanno abolito il servizio di leva militare obbligatoria, ma ne hanno limitato l’operatività a specifiche situazioni e a casi eccezionali, riferiti anche al tempo di pace, con la conseguenza di avere determinato la modificazione del precetto penale che non comprende più la condotta penalmente sanzionata dalle disposizioni precedentemente in vigore; sicché è stata ritenuta la ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 2, comma quarto, c.p., secondo il quale “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”1. La situazione presa in esame dalla Corte con riferimento ai reati militari è, come accennato, sostanzialmente identica a quella che ha luogo nel caso qui in esame, entrambe registrando la perdurante esistenza del reato proprio e, simultaneamente, un rinnovato assetto legislativo che esclude, in capo all’agente (definitivamente per l’ex cittadino straniero, non del tutto definitivamente per il già militare di leva) la qualifica soggettiva necessaria a commettere il reato. Su un piano più generale, occorre segnalare invece che le Sezioni unite sono intervenute in molteplici circostanze sull’art. 2 c.p. e, almeno in un’occasione (Sez. un., 23 maggio 1987 n. 8342, Tuzet, rv. 176406), per risolvere una questione sovrapponibile a quella qui esaminata (si tratta della nota pronunzia relativa alla “perdita” della qualifica di 1 Critico sulla giurisprudenza della Corte in materia è BRUNELLI, Rilevanza penale dell’abolizione del servizio militare obbligatorio: tra successione di norme e “scomparsa” del fatto tipico, in Cass. pen., 2006, p. 1680 ss., all. sub 17, il quale osserva che alla soluzione da ultimo trovata (nessuna successione di leggi extrapenali integratrici e quindi nessuna caducazione delle sentenze irrevocabili) si sarebbe potuti giungere anche seguendo un’altra prospettiva, quella per cui basta verificare se il fatto concreto, dopo l’intervenuta modificazione, sia ancora punibile, o non, dovendosi concludere per l’applicazione dell’art. 2, comma secondo, c.p., in caso di risposta negativa. Questa conclusione, a prescindere da ogni altra considerazione sulla “rilevanza normativa” dell’intervenuta modifica, sarebbe imposta dalla ratio di eguaglianza che ispira la norma, nonché dal principio rieducativo che la riempie di contenuto.

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    A commento di sez. 1a, 24 gennaio 2006 n. 7628, Bova, rv. 233445, NATALINI, La leva volontaria è un’abolitio criminis, in Dir. giust., 2006, n. 15, p. 74 ss., allegato sub 18, sottolinea come la Corte suprema abbia finito per aderire alla tesi strutturalista, intermedia rispetto alle posizioni che negano in radice l’applicabilità dell’art. 2, comma secondo, c.p. in caso di modificazione di norme extrapenali integratrici, i cui effetti ricadono solo sulle condotte successive ad essa e a quelle, collocate sull’opposto versante, le quali attribuiscono rilievo, ex art. 2, comma secondo, c.p., ad ogni ipotesi di modificazione del parametro cui fa rinvio l’elemento normativo di una fattispecie incriminatrice.

  • pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dei dipendenti bancari a seguito dell’evoluzione della normativa di settore, pronunzia oggetto di puntuale critica da parte della sentenza Magera). Viene poi in rilievo soprattutto la sentenza delle Sezioni unite 26 marzo 2003 n. 25887, Giordano, rv. 224607, per quanto essa, resa sulla successione di differenti norme penali in tema di false comunicazioni sociali, non appaia pertinente se non lato sensu alla questione qui proposta, nella quale non sussiste modificazione della disposizione incriminatrice, come per il caso allora all’esame del massimo consesso. Secondo tale decisione, l’art. 2 c.p. pone, nei commi che lo costituiscono, una sequenza di regole tra loro collegate in modo che si chiariscono a vicenda: perché operi la regola del terzo comma (oggi quarto, dopo l’inserimento di un ulteriore comma, ad opera dell’art. 14 della legge n. 86 del 2006 ) deve essere esclusa l’applicabilità del primo e del secondo comma. L’orientamento giurisprudenziale in tema di reati militari che si è andato di recente consolidando in seno alla prima sezione penale e del quale si è testé dato atto affonda le sue radici proprio nel principio sopra enunciato: non potendo, infatti, configurarsi – come si è ritenuto – un’ipotesi di abolitio criminis, non trovano applicazione né il primo, né il secondo comma dell’art. 2 c.p., mentre il quarto (già terzo) comma può essere applicato, in quanto ne sussistono i presupposti, e cioè una legge sopravvenuta che comunque è più favorevole al reo. Nel solco di questa ricostruzione del sistema si segnalano, in modo particolare, due decisioni, tra quelle successive alla sentenza Giordano. La prima si riferisce a un’ipotesi di abuso di ufficio commesso dal Sindaco di un Comune e connesso all’omessa esecuzione di demolizione dovuta per violazione di leggi in materia edilizia (sez. 2a, 2 dicembre 2003 n. 4296/2004, Stellaccio, rv. 228152). Nella specie, tra i motivi di ricorso era stata anche invocata l’applicazione della disposizione contenuta nell’articolo 2, comma secondo, c.p., secondo cui “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato”, sul rilievo che la condotta contestata non si sarebbe più potuta ascrivere al sindaco dal momento che, ai sensi dell’art. 136 d.p.r. n. 380 del 2001, sopravvenuto al fatto, il soggetto titolare del potere-dovere di provvedere in merito alle ingiunzioni di demolizione, rimozioni e ripristino non era più il sindaco, ma il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale. La Corte ha premesso che l’individuazione della disciplina applicabile nei casi di successione di norme integratrici della legge penale ha dato luogo a contrasti, e che “è in particolare controverso se e quando sia applicabile in tali ipotesi il principio della retroattività della legge più favorevole all’imputato, non ponendo alcuno in dubbio che l’introduzione di una norma «integratrice» di qualsivoglia tipo non possa retroattivamente rendere penalmente rilevante un fatto altrimenti irrilevante, oppure modificarne la disciplina in senso sfavorevole al reo.” Ha, poi, così proseguito: “Per il vero, nella giurisprudenza, ma anche nella dottrina, prevale la soluzione negativa, basata sul rilievo che siffatte leggi successive non modificano in alcun modo la struttura del fatto reato. Tuttavia, questo Collegio non aderisce a tale drastica soluzione, e ritiene invece che la disciplina prevista dall’articolo 2, commi 2 e 3, c.p. debba trovare applicazione in alcuni sia pure limitati casi in cui venga modificata non la disposizione di legge penale, ma quella così detta integratrice; e però, a condizione che la modifica della legge richiamata incida sulla struttura della norma incriminatrice ovvero sul giudizio di disvalore in essa espresso. Così, in adesione a tale tesi, si verifica successione di leggi penali, ai sensi dell’articolo 2 c.p., in occasione della modifica o della abrogazione della norma richiamata da una così detta norma penale in bianco, che rinvia cioè ad altra norma per l’individuazione in tutto o in parte del precetto; ovvero nell’ipotesi che venga modificata una norma «definitoria», cioè una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici, concorrendo a individuare il contenuto del precetto penale; e si ha pure un fenomeno di integrazione della norma penale – rilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 2 c.p. – allorquando una disposizione legislativa commini una sanzione penale per la violazione di un precetto contenuto in un’altra disposizione legislativa, che venga abrogata in tutto o in parte. Sennonché, la vicenda in esame non rientra in alcuna di tali ipotesi; né la modifica legislativa, concernente la competenza a emettere il provvedimento amministrativo omesso dallo Stellaccio, incide sulla descrizione della condotta vietata, o in alcun modo affievolisce il divieto e il disvalore delle avvenute violazioni: dunque non può trovare applicazione la disposizione di legge invocata dal ricorrente.” La seconda (Sez. 6a, 9 dicembre 2002 n. 1751/2003, Di Campli Finore, rv. 223341) riguarda un caso di esercizio abusivo della professione da parte di un procuratore, abilitato all’epoca del fatto al solo patrocinio dinanzi alle preture, per avere egli difeso un minore all’udienza di convalida dell’arresto dinanzi al g.i.p. presso il tribunale minorile. La Corte territoriale aveva osservato che la modifica legislativa introdotta dall’art. 7 della legge 16 dicembre 1999 n. 479 non incide sulla fattispecie, considerato che la condotta dell’imputato aveva determinato una concreta e grave lesione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, lesione che permaneva nella sua rilevanza anche in base al sistema normativo sopravvenuto, essendo rimasta ferma la declaratoria di nullità dell’interrogatorio dell’indagato e di tutti gli atti conseguenti, per essere stato il minore assistito da difensore non abilitato. La sesta sezione penale, investita del ricorso, con il quale si deduceva la non punibilità alla stregua della lex superveniens, ha premesso che l’art. 348 c.p. – che punisce il reato di abusivo esercizio di una professione – ha natura di norma penale in bianco in quanto postula l’esistenza di altre disposizioni di legge che stabiliscano le condizioni oggettive e soggettive in difetto delle quali non è consentito – ed è quindi abusivo – l’esercizio di determinate professioni (quelle per cui occorre l’abilitazione statale): disposizioni che, essendo sottintese nell’art. 348, sono

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  • integrative della norma penale ed entrano a far parte del suo contenuto quasi per incorporazione; cosicché la violazione di esse si risolve nella violazione della norma incriminatrice. Naturalmente, la sentenza riconosce che la successione di norme giuridiche integrative di una norma penale in bianco o anche soltanto di un elemento normativo della norma penale di per sé non dà luogo ad una successione di leggi penali e tanto meno determina un’ipotesi di abolitio criminis, occorrendo accertare se tale successione comporti, o non, rispetto al “fatto”, quella effettiva immutatio legis, che è la ratio giustificatrice del principio di retroattività della legge più favorevole sancito dall’art. 2, comma secondo, c.p.; e conclude affermando che la disciplina dell’art. 2 c.p. può venire in considerazione solo in presenza di una modifica della norma richiamata che incida sulla struttura della norma incriminatrice o, quanto meno, sul giudizio di disvalore in essa espresso. Nella specie, l’epilogo della vicenda è stato l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per non essere più il fatto previsto dalla legge come reato. Ma l’elaborazione più completa che si è registrata in epoca recente sul tema generale della successione nel tempo di norme extrapenali integratrici del precetto è contenuta in Sez. 5a, 11 maggio 2006 n. 21197, Formaggia, rv. 234113, la quale premette che sulla questione posta2 (non esattamente sovrapponibile alla presente), “la giurisprudenza è incerta, essendosi talora affermato che l’espressione «legge penale», contenuta nell’art. 2, c.p., comma 33, deve ritenersi comprensiva non solo delle leggi extrapenali espressamente richiamate dalla norma penale, e integranti il precetto, ma anche di quelle leggi che ne costituiscono l’indispensabile presupposto o che concorrono a determinarne, anche parzialmente e implicitamente, il sostanziale contenuto o dalle quali comunque non può prescindersi nel valutare gli elementi penalmente rilevanti della condotta (Cass., sez. 5a, 22 aprile 1981, Bura, m. 150581, con riferimento alle modifiche nella legge notarile, ritenute rilevanti per la configurabilità di un falso ideologico) e altre volte ritenuto che la successione di norme giuridiche integrative di una norma penale in bianco o anche soltanto di un elemento normativo della norma penale di per sé non dia luogo ad una successione di leggi penali e tanto meno determini una ipotesi di abolitio criminis (Cass., sez. 6a, 9 marzo 1994, Paris, m. 199200, con riferimento al mutato regime di pubblicità degli atti del procedimento penale ai fini del reato previsto dall’art. 684; contra, in generale per le norme penali in bianco, Cass., sez. 3a, 27 maggio 1997, Marcelletti, m. 209361).” Dopo avere passato in rassegna copiosa giurisprudenza resa in fattispecie molto diverse l’una dall’altra e non agevolmente riconducibili a casi omogenei, se pur accomunati tutti dalla riferibilità a problemi di applicazione dell’art. 2 c.p., la sentenza osserva che “anche in dottrina è controverso quale rilevanza abbiano, ai fini dell’applicazione dell’art. 2 c.p., gli interventi legislativi che incidano solo indirettamente sulla norma incriminatrice, mediante modificazioni relative a norme da essa richiamate o presupposte: come quando venga ad esempio abrogato, dopo la commissione del fatto, il reato presupposto dal delitto di calunnia, quale oggetto della falsa incolpazione, o dal delitto di associazione per delinquere, quale scopo del sodalizio criminoso; ovvero venga esclusa la determinante qualifica di pubblico ufficiale in precedenza rivestita dall’autore dell’illecito”, soggiungendo che “benché si ritenga per lo più che sia comunque riconducibile all’art. 2 c.p. la modifica delle norme penali in bianco, non rileva se la norma richiamata o presupposta abbia o meno natura penale, come pure taluno sostiene, bensì la funzione che la norma svolge nella definizione della fattispecie.” Quindi, “secondo una parte della dottrina non sono riconducibili alla disciplina della successione delle leggi penali le modifiche di elementi normativi della fattispecie o di norme di rinvio, penali o extrapenali, che non incidano sul giudizio di disvalore del fatto. Sicché, ad esempio, non avrebbe rilevanza la sopravvenuta cessazione del corso legale di una banconota falsificata o della qualificazione soggettiva di pubblico ufficiale per l’autore di un reato che la presupponeva; né l’abolizione del reato oggetto di calunnia o di associazione per delinquere. Determinerebbe invece una parziale abolitio criminis la norma che modificasse l’art. 368 c.p. qualificando come calunniose solo le false incolpazioni relative ad alcuni reati e non ad altri; o l’abrogazione di una norma giuridica cautelare, come quelle relative alla circolazione stradale, destinata a prevenire un evento, ad esempio la morte di un passante, addebitato a taluno, ad esempio un automobilista, a titolo di colpa. Altri autori rilevano in contrario come nessun reato sarebbe stato configurabile se al momento del fatto fosse stata diversa ovvero non fosse esistita la norma richiamata o presupposta: ad esempio non sarebbero stati possibili addebiti di calunnia o di associazione per delinquere se il fatto oggetto della falsa incolpazione o del programma associativo fosse stato qualificato come reato solo successivamente. Sicché non vi sono ragioni per non ricondurre anche queste vicende normative alla disciplina della successione delle norme penali, considerato che il concetto di fatto deve avere lo stesso significato nell’art. 2 c.p., comma 1 e 2. E questa impostazione appare certamente da condividere, ma con alcune puntualizzazioni. Come è stato ben chiarito, invero, queste vicende normative hanno la peculiarità di modificare la classe degli oggetti denotati da una fattispecie senza modificarne la struttura (linguistica) tipica, in quanto sono appunto i connotati normativi degli oggetti designati a subire modificazioni immediate.

    2 Riguardante la sopravvenuta insussistenza del delitto di contrabbando contestato come commesso nel 1991, posto che l’entrata in vigore del mercato unico europeo dal 1o gennaio 1993 avrebbe fatto decadere per il commercio intracomunitario tutta la disciplina relativa alle attività di esportazione e importazione, mentre era mutata, con l’entrata in vigore del d.l. n. 16 del 1993, la stessa disciplina dell’i.v.a. e la Corte di giustizia europea aveva stabilito sin dal 1986 che l’i.v.a. non potesse essere considerata come diritto di confine la cui evasione integri gli estremi del contrabbando.

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    3 Recte: quarto.

  • Non è possibile, perciò, distinguere, in questo ambito, gli eventi normativi idonei a incidere sulla tipicità della fattispecie astratta, piuttosto che sui connotati del fatto in concreto, come pure si propone, perché per definizione queste vicende non incidono sulla fattispecie astratta dell’illecito in discussione. È evidente, infatti, come non abbia alcuna incidenza sulla fattispecie descritta dall’art. 453 c.p., ad esempio, la sopravvenuta cessazione del corso legale di una banconota che tale corso aveva al momento della sua falsificazione o della sua spendita. Ma una tale incidenza non ce l’ha neppure l’abolizione del reato che costituisca l’unico scopo di un’associazione, benché escluda la stessa possibilità di considerare il sodalizio come destinato a delinquere. È, quindi, inevitabile anche in questa materia il ricorso a criteri in qualche misura valutativi, che tengano conto, ad esempio, della già verificata lesione dell’interesse tutelato dall’immutata fattispecie principale. E tuttavia deve ritenersi che, contrariamente a quanto pure si sostiene, queste vicende vadano eventualmente ricondotte alla disciplina dell’art. 2 c.p., comma 34, piuttosto che a quella del suo comma 2. Infatti la modificazione mediata dell’ambito di applicazione di una norma penale è del tutto analoga alla modificazione, pur essa solo mediata, che una fattispecie generale subisce in conseguenza dell’abrogazione, o dell’introduzione ex novo di una fattispecie speciale per aggiunta: con la differenza che, mancando qui un rapporto di specialità tra le fattispecie, non sarebbe possibile alcuna valutazione di rilevanza di tale rapporto. Sicché la vicenda dovrebbe essere considerata sempre come meramente modificativa; con la conseguenza che, quand’anche la valutazione in concreto portasse a considerare caducata la lesività del fatto, questa vicenda avrebbe rilevanza solo se non fosse intervenuta una sentenza definitiva di condanna. E la salvaguardia del giudicato renderebbe anche meno impegnative le inevitabili valutazioni circa il “peso” delle diverse vicende normative5.” Si è ritenuto di riportare, nelle sue parti essenziali, il ragionamento della Corte perché esso in modo estremamente lucido e puntuale espone le conclusioni “empiriche” – come sottolineato in dottrina – che una pluriennale esperienza interpretativa ha maturato sull’art. 2 c.p., senza poter giungere ad affermare principi muniti di valenza generale come chiave di soluzione di qualsivoglia caso la prassi offra all’attenzione del giudice. Sotto altro profilo, il carattere ondivago e in qualche misura aleatorio delle pronunce sull’argomento della Corte di cassazione è stato posto in evidenza dalla dottrina che ha segnalato le antinomie di questa giurisprudenza con quella formatasi sul tema contiguo di errore su legge extrapenale, affermando che “il Supremo Collegio realizza da tempo una sostanziale interpretazione abrogatrice dell’art. 47, comma 3o, c.p., sul presupposto che la norma extrapenale integri sempre la norma penale, contribuendo addirittura a definirne il senso del divieto. Ma questo rapporto di necessaria integrazione viene poi spesso smentito nel distinto – seppur contiguo – territorio della successione di norme extrapenali richiamate da un elemento normativo di fattispecie, laddove, al contrario, si afferma con insistenza un antitetico rapporto di «non interferenza», quasi di «separatezza», tra norma extrapenale e norma penale. La contraddizione è palese: se la legge extra-penale integra la fattispecie penale, contribuendo a definirne il contenuto e l’ambito di estensione, non si vede per quale ragione tale relazione, affermata con accenti enfatici sul versante applicativo dell’art. 47, comma 3°, c.p.6, non venga poi ribadita su quello dell’art. 2 c.p.”7.

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    Cass. Sez. Un. 29 novembre 2007 (dep. 20 dicembre 2007), n. 47472, Di Rocco Le Sezioni Unite hanno rigettato il ricorso, non esaminando la controversa questione della configurabilità come reato delle condotte previste dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 anche quando la quantità delle sostanze sia inferiore alla cd. “soglia drogante”. La Corte ha osservato,

    4 Recte: quarto. 5 Nel caso in esame, trattandosi della violazione di norme fiscali, la Corte ha ritenuto che il disvalore del fatto rimanesse integro nonostante le successive modificazioni della disciplina dei presupposti dell’obbligazione tributaria il cui inadempimento era previsto come reato: anche perché permaneva comunque il debito derivante dall’obbligazione tributaria già evasa. Conseguentemente, il delitto di contrabbando non si poteva considerare abolito anche per il passato sol perché in ambito europeo erano state abolite le barriere doganali. Infatti l’evasione dei diritti di confine esigibili all’epoca dei fatti determinò per l’interesse tutelato una lesione non venuta meno. 6 Giurisprudenza assolutamente incontrastata: tra le ultime si vedano sez. 3a, 15 aprile 2005 n. 22813, Ferri, rv. 229227; sez. 5a, 23 marzo 2004 n. , 24699, Olivan, rv. 229549; sez. 1a, 10 dicembre 2003 n. 1668/2004, Bevilacqua, rv. 227107; sez. 4a, 30 ottobre 2003 n. 14819/2004, Tomassoni, rv. 227875.

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    7 V., da ult., RISICATO, Gli elementi normativi della fattispecie penale – Profili generali e problemi applicativi, Milano, 2004, p. 230 ss..

  • in particolare, che nel caso di specie la questione sottoposta alla sua attenzione risultava priva di rilevanza, dovendosi escludere, anche sulla base della indicazione dei limiti quantitativi massimi previsti dal D.M. 11 aprile 2006, che il quantitativo della sostanza oggetto della condotta di cessione (eroina in misura pari a 33 mg.) non producesse un apprezzabile effetto stupefacente. omissis Il ricorso va deciso a seguito della valutazione della questione preliminare attinente al superamento o meno della soglia drogante del quantitativo di eroina spacciato dal ricorrente. Come è stato precisato, tale quantitativo è di 33 mg., e, come tale, non si può assolutamente ritenere che si tratti di un dato ponderale che non produca un apprezzabile effetto stupefacente. Premesso che lo stesso ente (A.R.T.A. di Pescara) che ha proceduto alle analisi – la cui attendibilità, pur in assenza di perizia o consulenza tecnica disposte dal giudice o dal P.M., non è in discussione, né contestata da alcuna delle parti processuali in nessun grado di giudizio di merito – ha ritenuto unicamente che il quantitativo indicato “non supera la dose media giornaliera”, va precisato che tale valutazione non contempla il mancato superamento anche della “soglia drogante” e l’assenza di effetti stupefacenti sull’assuntore. Nella premessa del Decreto del Ministero della Salute 11.4.2006, che ha proceduto alla indicazione dei limiti quantitativi massimi ai fini previsti dall’art. 73, comma 1 bis D.P.R. 309/90, è precisato che è stata individuata la dose media singola (essendo molto variabile da persona a persona la dose media giornaliera), “intesa come la quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo”, come base del calcolo per ritenere presunta la detenzione al fine di spaccio. Ciò in quanto la dose media singola è “espressione di evidenza scientifica”, e dai lavori preparatori delle tabelle di cui al citato decreto ministeriale si evince che la determinazione della dose media singola delle varie sostanze è stata calcolata con cautela. Per l’eroina la dose media singola, così valutata, è stata individuata in 25 mg., in quanto tale quantità è senza dubbio idonea a produrre un effetto stupefacente e psicotropo in soggetto aduso costantemente al consumo di quel tipo di droga, in altre parole nel tossicodipendente. Il dato fornito dal D.M. 11.4.2006 costituisce quello scientifico più recente, e quindi più aggiornato e adeguato alla realtà dei tempi, ed è conforme alle valutazioni di questa Corte, che ha già individuato la soglia dell’effetto drogante in quantità analoga ai 25 mg. (Cass. sez. 4° 9.11.1993 n. 1010; Cass. sez. 6° 15.10.1996 n. 10689), ovvero addirittura inferiore (18,4 mg. in Cass. sez. 4° 24.1.1996 n. 2502; 5-6 mg. in Cass. sez. 6° 13.1.1990 n. 12068). Pertanto, non rileva il superamento della dose media giornaliera, che nella specie non vi è stato, ma la circostanza che l’eroina spacciata aveva certamente effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente, considerata la dosimetria del principio attivo individuato, e pertanto risulta priva di rilevanza la questione sottoposta alle Sezioni Unite. Nella specie, va posto in evidenza che dalla motivazione della sentenza impugnata risulta che la Corte di merito non ha valutato tale aspetto, e ha quindi confermato la condanna del DI ROCCO per motivi diversi dall’esclusione del fondamento del motivo di appello riguardante l’inefficacia dell’eroina spacciata per produrre un effetto stupefacente. Ritenuta ampiamente provata la sussistenza del fatto costituente “spaccio” per la confessione dell’imputato, per il ritrovamento in suo possesso della somma sequestrata, e per gli esiti dell’attività di osservazione dei Carabinieri, il giudice di legittimità può procedere alla correzione dell’apparato argomentativo della sentenza impugnata mediante una integrazione che consente di eliminare ogni ragionevole dubbio sulla responsabilità dell’imputato (art. 533, comma 1, c.p.p.) e vanifica la necessità di esaminare la questione posta all’attenzione delle Sezioni Unite. Infatti, l’accertamento che la quantità di eroina spacciata dal DI ROCCO supera la “soglia drogante” e cioè ha effetto stupefacente anche su persona costantemente dedita al consumo di eroina, consente di affermare la responsabilità penale del ricorrente senza fare riferimento al

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  • principio della irrilevanza del mancato superamento della soglia drogante, richiamato dalla sentenza impugnata. omissis

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    Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2007 (dep. 18 dicembre 2007) n. 46982, p.o. in proc. Pasquini, rv I delitti contro la fede pubblica tutelano anche il soggetto sulla cui concreta posizione giuridica l’atto incide direttamente, soggetto che, in tal caso, è legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione. (massima provvisoria) (omissis) La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite può così sintetizzarsi: se i delitti contro la fede pubblica tutelino l’interesse pubblico e solo di riflesso l’interesse del singolo al quale, di conseguenza, non verrebbe riconosciuta la qualità di persona offesa, oppure, in quanto reati plurioffensivi, tutelino anche la sfera giuridica del soggetto (denunciante-danneggiato) nei cui confronti il documento o la falsa dichiarazione vengano fatti valere, soggetto che, in tal caso, sarebbe legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione. Su detta questione, come richiamato dall’ordinanza di rimessione, è insorto un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Suprema Corte, ed in particolare anche all’interno della stessa Quinta Sezione alla quale, secondo la previsione tabellare, spetta la competenza a decidere i ricorsi in materia di reati di falso.

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    4.1- Un primo indirizzo interpretativo è seguìto da coloro i quali ritengono che il bene giuridico protetto nelle falsità documentali sia la fede pubblica e in essa si esaurisca: i sostenitori di tale tesi escludono, dunque, che al privato danneggiato dal reato spetti l'avviso della richiesta di archiviazione e la legittimazione a proporre opposizione. In questi termini si esprime la decisione Della Gatta (ordinanza, Sez. V, 27 marzo 2001, p.o. in proc. Della Gatta, dep. 13 luglio 2001, n. 28608, rv. 219639), la quale - premesso che l'opposizione alla richiesta di archiviazione compete unicamente alla persona offesa, che deve essere identificata nel titolare del bene giuridico immediatamente leso dal reato - afferma quanto segue: "poiché l'elemento del danno è del tutto estraneo alla struttura dei reati di falso (la cui obbiettività giuridica consiste nella tutela della genuinità materiale e nella veridicità ideologica di determinati documenti), il privato, anche se - in concreto - risulti ingiustamente danneggiato dalla condotta dell'indagato, non è legittimato alla proposizione del ricorso per cassazione avverso l'ordinanza di archiviazione". Detto principio muove dal presupposto che "per il perfezionarsi del reato è sufficiente il mero pericolo che dalla contraffazione o dall'alterazione possa derivare alla pubblica fede, che è l'unico bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice". Analogamente la sentenza Saccucci (Sez. V, 18 ottobre 2002, dep. il 29 novembre 2002, rv. 222981), per la quale "il denunziante-danneggiato non è legittimato a ricevere l'avviso della richiesta di archiviazione....in quanto si tratta di reati che offendono direttamente e specificamente l'interesse pubblico - costituito dalla fiducia che la società ripone su oggetti, segni e forme esteriori ai quali l'ordinamento riconosce particolare credito - e solo mediatamente e di riflesso ledono l'interesse del singolo il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa dal reato". Argomentazioni che sostengono anche le conclusioni della sentenza Cucullo (Sez. V, 16 marzo 2004, dep. il 22 giugno 2004, n. 27967, rv. 228891), per la quale i delitti contro la fede pubblica offendono direttamente l'interesse pubblico costituito dalla fiducia che la società ripone su oggetti, segni e forme esteriori ai quali l'ordinamento riconosce particolare

  • credito e solo di riflesso ledono l'interesse del singolo, il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa dal reato: ergo, il denunziante-danneggiato non è legittimato a ricevere l'avviso della richiesta di archiviazione; dette argomentazioni sono altresì proprie della sentenza Zaccaria (Sez. V, 19 settembre 2005, p. o. in proc. Zaccaria, dep. il 16 dicembre 2005, rv. 233208), della sentenza Erdas (Sez. V, 17 febbraio 2005, dep. il 24 marzo 2005, n. 11669, rv. 231497), della sentenza della V Sezione n. 13 del 3 gennaio 2006 (p.o. in proc. ignoti, rv. 232614), della sentenza Scarano (Sez. V, 19 settembre 2005, p.o. in proc. Scarano, dep. il 16 dicembre 2005, rv. 233204). In senso analogo si esprime anche la sentenza Reggiani (Sez. V, 15 gennaio 2007, dep. 9 febbraio 2007, rv. 235864), la quale, in tema di falso in testamento olografo, afferma che nei delitti contro la fede pubblica “deve comunque ritenersi che, solo quando si tratti di reati non perseguibili d’ufficio, il riconoscimento della legittimazione a proporre la querela possa comportare l’equiparazione del danneggiato alla persona offesa anche ai fini processuali”: conseguentemente, stante la procedibilità d’ufficio, viene esclusa la legittimazione del danneggiato, costituito parte civile, a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere, che la legge attribuisce solo alla persona offesa costituita parte civile. Alla base di questo orientamento vi è, dunque, la nozione di fede pubblica come bene immateriale a carattere collettivo che fa capo all'intera collettività non personificata, a tutti i cittadini ed a ciascuno non uti singulus ma uti civis: il danno sociale del falso si concreta e si manifesta esclusivamente nella c.d. immutatio veri mentre nessun rilievo, ai fini della sua illiceità, ha l'interesse del soggetto danneggiato in concreto dal falso, il quale non essendo titolare dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice, non è, con riferimento al problema che in questa sede rileva, persona offesa dal reato e, pertanto, non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione. 4.2- Le conclusioni appena esposte non sono condivise da un diverso indirizzo interpretativo, il quale appare orientato a recuperare le fattispecie di falso ad una dimensione di "dannosità". In questo filone si inserisce la sentenza Arnoldi (Sez. V, 12 marzo 2001, p.o. in proc. Arnoldi, dep. il 20 giugno 2001, rv. 219472), la quale afferma che nei delitti contro la fede pubblica, la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione "può competere anche al denunziante". E ciò in quanto si tratta di reati idonei "a ledere anche la sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l'atto, il documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere", quindi reati aventi "carattere plurioffensivo, che li rende non assimilabili, sotto tale profilo, ai delitti contro l'amministrazione della giustizia", i quali integrano "fattispecie lesive dell'interesse della collettività al corretto procedere della giurisdizione, con la conseguenza che l'interesse del privato può assumere rilievo solo riflesso e mediato" (nella specie il denunciante, avendo scoperto una falsa firma recante il proprio nome e cognome su un modulo di adesione ad un partito politico, caratterizzato da una ben precisa denominazione, aveva presentato atto di denuncia-querela nei confronti dei responsabili territoriali di tale partito; la Suprema Corte ha annullato il decreto di archiviazione del G.I.P., sulla base del principio come enunciato). Nella stessa direzione si pone anche la decisione Moscato (Sez. V, 4 luglio 2005, p.o. in proc. Moscato ed altri, dep. 29 luglio 2005, n. 28712, rv. 232205), la quale afferma che nell'ipotesi in cui il reato di falso (nella specie quello di cui all'art. 479 cod. pen.), leda, oltre l'interesse pubblico, anche diritti soggettivi, il titolare di tali diritti è persona offesa dal falso, con la conseguenza che gli spettano, quale denunciante, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale in ordine alla richiesta di archiviazione ai sensi dell'art. 408, commi 2 e 3 cod. proc. pen.: nella concreta fattispecie si ipotizzava la falsità di un rapporto dei Carabinieri relativo ad un sinistro automobilistico, falsità – come poi affermato dalla Cassazione - che "si riflette sul diritto del ricorrente a non subire gli effetti (patrimoniali) di un evento asseritamente mai verificatosi”, con conseguente legittimazione del denunziante all'esercizio delle facoltà proprie della persona offesa nel procedimento archiviatorio (anche se poi il ricorso è stato dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, sul rilievo che i temi proposti con l'atto di opposizione erano risultati "palesemente estranei all'accertamento del reato di falso ex art. 479 cod. pen." e, quindi, privi dei requisiti tassativamente previsti dall'art. 410, comma 1, cod. proc. pen.", con la conseguente

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  • legittimità, nella concreta fattispecie, del provvedimento di archiviazione de plano adottato dal G.I.P.). In conformità si esprime poi la sentenza Ziino (Sez. V, 13 giugno 2006, p.o. in proc. Ziino, dep. l'11 settembre 2006, rv. 235146), la quale afferma che, nei delitti contro la fede pubblica, "la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione spetta anche al denunziante qualora, in relazione al caso concreto, si accerti che la falsità abbia leso anche la sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l'atto, il documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere, trattandosi di reati plurioffensivi". Più precisamente, la sentenza Ziino, premesso che l'interesse tutelato dal falso documentale è senz'altro la fede pubblica, afferma che "ciò non esclude che la falsa attestazione possa essere per sé direttamente pregiudizievole di un diritto del singolo, la qualcosa va stabilita in concreto". Con la conseguenza che "solo se la giustificazione del decreto de plano fosse stata espressamente e concretamente rapportata all'esclusione di qualità di parte offesa del denunciante, che aveva richiesto di essere avvisato della richiesta di archiviazione del P.M., per l'assenza di incidenza diretta sul suo diritto privato del falso ipotetico, si sarebbe potuto stabilire se il giudice aveva o non violato il suo diritto al contraddittorio, unica ragione che giustifica il ricorso in questa sede": in sostanza, il giudice ha deciso de plano senza previamente verificare se il denunciante, che aveva fatto richiesta ai sensi dell'art. 408, comma 2, cod. proc. pen., avesse realmente diritto all'avviso della richiesta di archiviazione, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato. Alle medesime conclusioni perviene la sentenza Consolo (Sez. V, 15 gennaio 2004, dep. il 23 febbraio 2004, rv. 227939), la quale afferma che "il falso in atto pubblico, a seconda del suo tenore, può ledere la certezza di diritti soggettivi, oltre che l'interesse pubblico". Ne consegue che "se l'attestazione contraria al vero concerne un fatto che si connette direttamente ad un diritto soggettivo o al suo esercizio, il titolare del diritto è persona direttamente offesa dal reato cui spettano, quale denunciante, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale a fronte della richiesta di archiviazione del P.M.": nel caso portato all’esame della Suprema Corte, il falso ipotizzato riguardava la dichiarazione dell'atto pubblico che indicava la data di edificazione di una unità immobiliare cui era seguita la demolizione del manufatto, con danno per i muri portanti che interessavano la proprietà del denunziante; la Cassazione ha, quindi, dichiarato inammissibile il ricorso in quanto "nella specie il diritto del ricorrente non è oggetto dell'atto che si assume falsificato, che concerne esclusivamente la proprietà privata del denunciato e non quella del denunciante, laddove le conseguenze di danno nei confronti di quest'ultimo si dicono scaturite da un comportamento ulteriore (demolizioni che hanno pregiudicato parti comuni dell'edificio), sebbene trovi presupposto storico nel tenore dell'atto". Nel medesimo filone si colloca la sentenza Todesca (Sez. V, 5 novembre 2002, p.o. in proc. Todesca, dep. 10 dicembre 2002, n. 43703, rv. 223220), la quale - premesso che l’interesse giuridico protetto dai delitti di falsità in atti ha carattere plurioffensivo - afferma che “riveste la qualità di parte offesa il denunziante di un falso documentale, incidente, anche in via di pericolo, sul suo specifico diritto, con la conseguenza che anche nei suoi confronti il G.I.P. ......deve provvedere a fare notificare l’avviso dell’udienza preliminare” (nella fattispecie il giudice dell’udienza preliminare aveva dichiarato non luogo a procedere nei confronti di un funzionario del Provveditorato agli Studi, il quale aveva omesso ogni verifica su una nota pervenuta all’Ufficio, contenente la falsa attestazione della rinunzia di una docente all’immissione in ruolo per un determinato anno scolastico; la Suprema Corte ha ritenuto che il provvedimento adottato sulla base della falsa attestazione della avvenuta rinunzia alla immissione in ruolo compromettesse anche le effettive funzioni di verità e di certezza, relative alla posizione del docente di cui era stato falsificato l’atto, che derivavano dalla falsa documentazione). Nella stessa direzione è anche la sentenza Ongaro (Sez. V, 19 settembre p.o. in proc. Ongaro 2005, dep. il 22 novembre 2005, rv. 232442), la quale, in tema di commercio di prodotti con segni falsi, sostiene che “il titolare del marchio contraffatto è persona offesa dal reato posto che la norma di cui all’art. 474 cod. pen., oltre alla fede pubblica, tutela anche il diritto all’esclusiva del legittimo titolare: ne consegue che questi, nell’ipotesi di richiesta di archiviazione, ha diritto a ricevere l’avviso di cui all’art. 408 cod. proc. pen.”.

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  • 4.3- Come è agevole rilevare, i due orientamenti, appena illustrati, che hanno dato vita al contrasto che ha reso necessario l’intervento di queste Sezioni Unite, muovono dalla diversa interpretazione circa la natura dei delitti contro la fede pubblica ed il bene oggetto della tutela penale in materia: a) il primo indirizzo tende a privilegiare in maniera assoluta la valenza pubblicistica di detta tutela, con esclusivo riferimento alla fede pubblica quale esigenza dei cittadini di poter fare affidamento sulla genuinità e veridicità di atti e documenti che h