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In viaggio con Magellano n. XXV - Gennaio 2014In viaggio con Magellano n. XXV - Gennaio 2014

Cari amiciAnche l’anno 2013 è terminato e come consuetudine di ogni pubblicazione che si rispetti è il momento di bilanci.Non voglio tediarvi con lunghe relazioni sull’operato della redazione o sulle varie attività svolte dai soci dell’associa-zione “Magellano” e dal suo consiglio ma voglio semplice-mente ringraziare tutti quanti tra Voi hanno contribuito alla crescita dell’associazione in termini qualitativi.Voglio ringraziare quanti tra Voi hanno collaborato alla rea-lizzazione della rivista con articoli, foto, impaginazione ed anche idee su quali possano essere le scelte editoriali da coltivare per poter dare un sempre maggior contributo alla divulgazione dell’arte del modellismo.Penso però che nonostante gli sforzi profusi la “nostra” rivi-sta possa ulteriormente crescere ed offrire maggiori spunti per una migliore realizzazione dei modelli che stiamo tutti costruendo.Come certamente avrete notato sulla rivista vengono sem-pre pubblicati gli articoli ed i redazionali inviati dai modelli-sti, perché questa è una rivista di modellismo fatta dai mo-dellisti e mi auspico che in futuro gli articoli dei modellisti possano crescere di numero per poter dare pubblicità ai lavori che ciascuno di noi realizza con pazienza e precisio-ne e nello stesso tempo portare aiuto a chi si avvicina al meraviglioso hobby del modellismo navale.Da parte della redazione e del consiglio tutto non sono mai mancati gli interventi e le iniziative per cercare di dare risposte a tutti i nostri associati.Negli scorsi anni abbiamo dato corso ad una serie di pub-blicazioni ricavate da alcuni articoli già apparsi su una rivi-sta edita dallo scomparso Vincenzo Lusci del 1978 da cui era maturato l’intento di rendere omaggio ad un personag-gio che a parere nostro ha dedicato tutta la sua vita al mo-dellismo creando pregevoli opere dedicate particolarmente al modellismo navale, realizzando progetti di modelli navali ancor oggi in auge e ricercati, nonché il primo manuale di modellismo navale mai realizzato.Orbene, nel corso del 2013 tutte le pubblicazioni realiz-zate dal Dott. Sergio Bellabarba e apparse sulle riviste di Lusci sono state raccolte in un trattato completo sulla evo-luzione della vela quadra dalle sue origini che serve ad offrire notevoli spunti sulla realizzazione delle manovre di un veliero attenendosi alla realtà storica. Tutti gli articoli di Bellabarba sono corredati di disegni eseguiti da un altret-tanto famoso personaggio, Giorgio Osculati, con il quale ha anche realizzato la monografia sulla Royal Caroline.

Editoriale

Carlo Cavaletto (Artigliere)

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2 Editoriale 4 Storia di una nave La Fleuta 11 Cultura Navale Armi Navali 22 Attrezzature Modellistiche Macchina Commettitrice II Parte 28 Tecniche Modellistiche La Campana di quarto 30 Le Pagine Disegnate Curvare i listelli 32 Museo Navale Internazionale del Ponente Ligure

Sommario

Redazione

In questo numero

Contatti

Andrea Vassallo Antonio Uboldi Germano Oss Luciano Bragonzi Marco Topa Roberto Venturin Rodolfo Mattavelli

Grafica ed impaginazione : Adriano Antonini

Capo Redazione : Andrea Moia

Responsabile : Presidente AMN Roberto Venturin

Redazione di [email protected] AMN MagellanoVia Paravisi, 120092 Cinisello Balsamo (Milano)C.F. [email protected]

Foto in copertina “Gozzo Carnigiotto” modello di Antonio Uboldi

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In viaggio con Magellano n. XXV - Gennaio 2014

Il libro è stato completato con una serie di articoli, mai pubblicati da Lusci rendendo quest’opera completa in tutti i suoi aspetti. Il libro è stato spedito gratuitamente a tutti i soci dell’associazione, quale riconoscimento per la fiducia accordataci.Dopo l’interessante iniziativa redazionale, il consiglio e lo staff hanno già intrapreso la lavorazione di una nuova ope-ra intesa ad analizzare, descrivere e valorizzare un’imbar-cazione che ha solcato il Mediterraneo per più di 5 secoli. L’opera, già scritta dal Dott. Bellabarba e mai pubblicata tratta della galea Contarina adibita al trasporto dei pel-legrini in Terra Santa, completa di note storiche tratte dai diari degli stessi pellegrini. La monografia sarà corredata di disegni costruttivi e fotografie relative alla costruzione del modello che lo staff ha già iniziato a costruire.Pensiamo di riuscire a pubblicare gli avanzamenti dei la-voro sulla rivista per permettere ai soci di apprezzare il lavoro svolto.Nel corso dello scorso anno si sono svolte le nostre solite iniziative volte a divulgare l’arte del modellismo nelle sue classiche espressioni: La partecipazione alle grandi mani-festazioni fieristiche di Novegro e di Verona che ci ha visti impegnati con gli stand istituzionali.Anche quest’anno abbiamo già confermato la partecipa-zione di “Magellano” al prossimo Model Expo Italy che si terrà a Verona nei giorni 8 e 9 Marzo 2014. A tal proposito chiediamo, anche qui, la collaborazione di tutti i modellisti; Magellano partecipa a questa manifestazione per il mo-dellismo e per i modellisti….sarebbe opportuno che coloro che volessero collaborare e/o esporre i propri modelli a Verona dessero la propria adesione attraverso i soliti canali di contatto con staff e redazione.Vogliamo anche ricordare ai nostri soci che in sede esistono ancora in giacenza solo pochi libri del TRATTATO ELEMEN-TARE DELL’ALBERATURA DELLE NAVI di Forfait tradotta da Giovanni Santi Mazzini, della monografia PIROBARCA (Steam Cutter) - U.S.Navy 1900 realizzata dallo Staff su indicazioni di Giovanni Santi Mazzini e del nuovo libro LA VELA QUADRA di Sergio Bellabarba.I libri sono numerati e riservati ai soci, ai quali verrà chiesto solamente un rimborso spese, e terminati quelli esistenti riteniamo di non ristamparne ulteriori copie.Penso che per un gruppo di modellisti quale è Magellano, tra gli ultimi nati nel grande universo del modellismo, la nostra voglia di ricerca e di divulgazione sia ampiamente dimostrata con i fatti.

Abbiamo già iniziato a sistemare le varie carte per prepa-rarci alla prossima assemblea dei soci che quest’anno ve-drà anche l’elezione del nuovo consiglio direttivo che dovrà durare in carica tre anni.A breve verrà pubblicato un questionario che permetterà ai soci di candidarsi quali consiglieri per il nuovo direttivo e per il quale auspico una ampia adesione in modo tale da rinnovare le cariche e partire per il prossimo triennio con maggior spirito collaborativo......Aspettiamo molte adesioni.

Concludo questo breve editoriale invitandovi ad aderire alla prossima fiera di Verona, sia con la propria partecipazione che con i propri modelli ed alla partecipazione al prossimo consiglio direttivo.

Un sentito grazie a tutti i soci di questa meravigliosa asso-ciazione di cui io mi onoro di farne parte.

Carlo Cavaletto

Editoriale

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La Fleuta

Durante il 16° e il 17° secolo gli olandesi, im-pegnati in una guerra senza fine con gli spagnoli, potevano contare solo sul commercio marittimo per finanziare la loro belligeranza per l’autonomia dal potere spagnolo. In questo contesto storico ed economico, sentirono la necessità di utilizzare per i loro commerci una nave sicura, economica da costruire e da mantenere e che possedesse una elevata capacità di carico. La soluzione fu l’invenzione della Fleuta, una nave

lunga e sottile, somigliante al calice da vino ancora oggi chiamato appunto “flute”.La fleuta è uno dei pochi tipi di navi la cui origi-

ne sia registrata. Lo storico della città di Hoorn, Velius, annuncia nel 1595 in uno scritto sulla sua città “…dove le navi sono chiamate Hoorensche Gaings o Fleute, costruite per la prima volta, sono 4 volte lunghe quanto larghe, alcune delle quali an-cora più lunghe, e molto adatte per il commercio marino, ben manovrabili . . . ”Può sicuramente essere oggetto di discussione

se una nave possa essere inventata nel contesto di una industria “tradizionale” di costruzione navale. Non conosciamo molto circa le tipologie di navi del 16° secolo, ma senza dubbio la costruzione di un nuovo tipo di nave veniva svolta partendo da un modello esistente ed evolvendolo.Velius cita anche il nome del padre intellettuale

della fleuta: “Pieter Janszoon Liorne, il principale promotore ed iniziatore di queste innovazioni”.Liorne era fondamentalmente un mercante che com-

merciava con Livorno, ma fu anche magistrato, mem-bro del concilio e borgomastro di Hoorn. Fu inoltre un membro dell’ammiragliato di Hoorn e, sotto tale carica, sostituì il vice-ammiraglio Jan Gerbrantsz, uf-ficiale della flotta costiera sulla Flemish coast.Liorne, persona molto religiosa, portò nella co-

struzione delle navi il rapporto fra lunghezza e larghezza a 6, probabilmente secondo l’esempio

dell’arca di Noè. Al-cuni studiosi ritengo-no che avrebbe fatto ciò in quanto Menno-nita (i Mennoniti po-trebbero essere visti un po come i pacifisti dell’epoca), tentando in questo modo di evitare l’inserimen-to dei cannoni sulle navi. Bisogna infatti ricordare che le navi con dei cannoni a bordo avevano un elevato peso, soprattutto nella parte della nave corrispondente all’opera morta, e dovevano perciò avere uno sca-fo piuttosto largo affinchè la nave potesse essere adeguatamente stabile.In ogni caso le ragioni economiche ebbero

anch’esse il loro innegabile peso.Ovviamente Liorne aveva un bagaglio tecnico-

culturale così ampio da convincere un carpentiere navale a costruire uno scafo così poco convenzio-nale, scafo che era non solo molto “moderno” nel suo rapporto tra lunghezza e larghezza, ma che incorporava tutte le qualità che avrebbero reso felice un armatore navale e commerciante: eco-nomico nella costruzione e nella gestione, grande capacità di carico, buone caratteristiche di naviga-zione, necessità di un numero ridotto di marinai

Storia di una NaveLa Fleuta

Sergio Galli (Jack Aubrey)

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(dovute ad una semplificazione delle manovre), infine economico nel calcolo dei pedaggi e delle tasse, che a quell’epoca erano calcolate in base all’ampiezza dei ponti.Che la fleuta avesse un aspetto rivoluzionario è

provato dal fatto che, secondo Velius: “c’era all’i-nizio molto vociferare attorno a questa nuova nave fra le popolazioni vicine; del suo possedere una linea considerata da “pazzi” ed un disegno da “malati”, ed infine appariva ai più così strano che vari mastri d’ascia e carpentieri navali venissero espressamente qui per vedere queste navi”.La linea della fleuta dimostrò di essere un suc-

cesso completo: il rapporto lunghezza-larghezza relativamente alto (per quel tempo) diede origine a qualità nautiche inaspettate. Nonostante il ver-detto inizialmente negativo sullo scafo, gli scettici inghiottirono in seguito la loro critica e “furono costretti successivamente a seguire le proporzioni della fleuta o avrebbero navigato fuori dall’acqua”.La fleuta si diffuse quindi sempre di più: “le fleute

furono così ricercate che in otto anni più di 80 navi così simili sono state costruite e rivendute, con grande profitto per i cittadini di Hoorn”. Quando la tregua dei dodici anni (1609-1621) finì, le fleute furono armate, comunque sempre in modo mo-desto, e il rapporto lunghezza/larghezza in breve cambiò a 5:1 o addirittura 4:1. Le fleute furono costruite non solo ad Hoorn, nell’area Zaan, Edam e Monnikendam, ma in breve tempo si iniziò a co-struire le fleute in altre parti dell’Olanda. Anche in Svezia, nel Nord della Germania e in

Francia le fleute furono costruite fino a tutto il 17° secolo. Esistono teorie secondo le quali l’invenzio-ne della fleuta e delle segherie potrebbero essere ritenute in gran parte responsabili della prospe-rità economica dell’Olanda durante l’Età D’oro. Certo è che la fleuta fu una svolta nel commer-cio dell’Olanda. Questa nave era adattabile a tutti i tipi di lavori. C’era la variante per il commercio del mais, chiamata “Oostvaerder” con alcuni piedi di profondità in meno di quelle adibite al commercio

del legno (dovuta questa differenza all’alto peso specifico del mais), denominate ”Houthaelder” o “Noortsvaerder”.In alcuni casi le “Houthaelder” non avevano al-

cun ponte superiore, per agevolare il carico del-le merci, ed erano provviste di porte di carico a poppa. Le fleute baleniere, un’altra variante, erano invece caratterizzate da un baglio orizzontale so-pra la poppa che serviva per le manovre con le balene, da un rafforzamento della parte prodiera della nave come protezione dai banchi di ghiaccio e da un albero più massiccio. Le “Straetvaerders” e “Spaensvaerders”, fleute che solcavano il Medi-terraneo, erano invece più lussuose. Le fleute fa-centi parte della compagnia delle indie olandesi (VOC) avevano numerosi carabottini nel ponte superiore per fornire passaggi di aria e luce nei ponti inferiori, dove alloggiavano i soldati che la compagnia inviava in gran numero nelle Indie. Ne-gli scritti di De Ruyter troviamo inoltre numerosi termini riguardanti le fleute come “Lysbonvaerder”, “Fransvaerder”, “Westervaerder”, “Vestindevaerder”, “oostindyvaerder” e “Waterfleute”. Troviamo infine anche fleute nelle flotte da guer-

ra dell’ammiragliato, sebbene in Olanda raramen-te esse furono utilizzate come navi da guerra, ma come navi supporto o navi da carico. Ovviamente, la compagnia VOC, utilizzò fleute anche per spe-dizioni geografiche, fra le quali di grande interes-se e importanza fu il viaggio di Abel Tasman alla scoperta della regione che da lui prese il nome: la

Storia di una Nave

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Tasmania, scoperta nel 1642.La struttura della fleuta non era però adatta per

la navigazione in acque tropicali. Le tavole di fascia-me, con una curvatura così accentuata nella parte superiore della poppa, non sopportavano bene il sole e le temperature tropicali, causando tutta una serie di inconvenienti. La compagnia VOC sosti-tuì quindi molte fleute con gli hookers (una sor-ta di pescherecci) e i galliots, anch’esse navi con la poppa tonda, ma senza la curvatura eccessiva delle fleute. Tuttavia, negli archivi troviamo ancora navi molto simili alle fleute, chiamati Tuiten, ope-ranti nelle acque della Malesia, fino al 18° secolo. Molto probabilmente il disegno della fleuta fu leg-germente adattato, conferendo una linea e spazi più ampi rispetto alla tipica poppa a forma di pera della fleuta.

La struttura della fleutaLa fleuta è un tipo di nave facilmente riconosci-

bile sopratutto per la sua poppa arrotondata con sopra un cassero molto stretto, ma anche per le linee generali del suo scafo, arrotondato in modo

piuttosto pronunciato.Lo scafo arrotondato, con la sezione che ricorda

vagamente la forma di una pera, era in particolare il risultato del modo in cui i pedaggi venivano cal-colati, basato cioè sulla larghezza del ponte supe-riore. Costruendo quindi il ponte più stretto pos-

sibile, il pedaggio veniva significativamente ridotto. Tuttavia, quando i danesi aumentarono il loro pe-daggio nel 1644, l’ammiraglio Witte de With, con gran dimostrazione di potere, veleggiò con nume-rose navi da guerra e mercantili attraverso le ac-que della Danimarca e pagò a titolo dimostrativo l’intera tariffa. L’anno successivo egli ritornò ma non pagò nulla. In questo modo fece sì che i da-nesi adattassero i loro pedaggi alle necessità degli olandesi.Le fleute variavano in dislocamento fra le 100 e

le 500 tonnellate, ma la maggioranza era di circa 150 tonnellate, peso che le rendeva facilmente ge-

stibili, manovrabili e soprattutto veloci nei porti. Occasionalmente raggiungevano un rapporto lun-ghezza/larghezza di 6:1, ma questa proporzione estrema le rendeva lente nella virata, sebbene fos-sero generalmente stabili e ben controllabili. Da un punto di vista economico, il grande vantaggio delle fleute era dato dalla loro limitata necessità di equipaggio, che significava meno spese e meno carico passivo dedicato ai rifornimenti. La tipica fleuta poteva infatti essere manovrata da meno di un terzo dell’equipaggio di un veliero tradizionale delle sue stesse dimensioni. Per esempio, da una registrazione risulta che una fleuta norvegese da 150 tonnellate aveva come equipaggio solamente sette uomini e un ragazzo.Molte innovazioni legate ad aumentare l’efficien-

za delle manovre sono state ottenute dallo svilup-po della fleuta. Nei decenni prima dell’invenzione

Storia di una Nave

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Storia di una Nave

della fleuta, le navi avevano raggiunto un punto tale che la vela maestra aveva dimensioni molto gran-di e diventava quindi difficile da governare. Il ma-novrare queste navi era particolarmente difficile soprattutto vicino alle coste, nei fiumi o nei porti, dove gli edifici del lungomare influivano sulla ma-novrabilità e potevano bloccare il vento.L’armamento della fleuta consisteva di tre alberi.

L’albero maestro, l’albero di trinchetto e l’albero di mezzana, più ovviamente l’onnipresente bom-presso. I primi due alberi montavano vele di gabbia ma erano sprovvisti delle vele di velaccio. Le vele di gabbia erano estremamente alte se confrontate con le stesse vele sulle altre navi del tempo. Tali vele erano estremamente efficienti e in condizioni di cattivo tempo la fleuta poteva essere gestita con sicurezza utilizzando le sole vele di gabbia. Grazie a queste vele di gabbia le altre vele erano ridotte di dimensione, quindi di gran lunga più maneggevo-li e gestibili da parte di un piccolo equipaggio.Un altro motivo dell’economicità delle fleute era

dovuto al tipo di legno prevalentemente utilizza-to per la loro costruzione: mentre nella maggior

parte delle altre navi del tempo veniva utilizzato legno di quercia, nella costruzione delle fleute ve-niva usato il pino. Sebbene il pino sia un legno più morbido e meno durevole del legname di quercia, era più economico e più facile da lavorare e que-sto riduceva di molto sia i costi di lavoro che i tempi di costruzione.Le varianti specializzate delle fleute si sono svilup-

pate molto velocemente, aiutate dalla linea fonda-mentalmente adattabile di questo tipo di nave. Le fleute che trasportavano legno avevano aperture

sulla poppa, in modo da portare tronchi più lunghi della nave stessa. Le “fleute settentrionali” furono progettate con strutture stagne per il carico, in modo da trasportare grano in grossi quantitativi piuttosto che in inefficienti barili o sacchi. Per le rotte commerciali più rischiose, furono costruite fleute più solide e armate, chiamate “Straetsvae-der”, il cui nome deriva dal compito che avevano tali navi: passare lo stretto di Gibilterra per porta-re il loro commercio nel mar Mediterraneo.Alla fine del 1669, tuttavia, fu raggiunto un accor-

do sui pedaggi, per via del quale svanì il vantaggio del ponte stretto delle fleute. È abbastanza vero-

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simile che negli anni successivi alla riduzione dei pedaggi, la ragione del restringimento dello scafo della fleuta non avesse più ragion d’essere, per cui si sviluppò un nuovo tipo di nave, chiamato ‘hekbo-ot’, avente scafo arrotondato e poppa simile alla fleuta, ma con una struttura superiore più larga, come la pinnace. Il nome fleuta appare però anche nel 18° secolo, ma è ragionevole supporre che in questi casi il nome descrivesse più la funzione di una nave che il tipo. In ogni caso, il tipico scafo ar-rotondato della fleuta fu osservato solo durante i primi ¾ del 17° secolo.È straordinario che così poco rimanga di una

nave così diffusa, forse una fra le innovazioni mag-giori della navigazione in Olanda, non solo per lo scafo, ma anche per le manovre. Sui dipinti e sulle stampe vediamo regolarmente fleute, ma di solito come soggetti secondari. Raramente troviamo le fleute rappresentare i soggetti principali di un di-pinto. Sembrerebbe quasi che la fleuta, a causa del suo essere così comune e frequente, fosse come “invisibile”. Questo fatto comporta chiaramente una notevole difficoltà nel reperire documenta-zione originale. Nicolaes Witsen (vedi inserto) in un suo libro presenta un disegno tecnico di un ‘Noortsvaerder’, mentre nel libro ‘Skeps Byggerij” del 1691 (autore Ake Classon, Ralamb), troviamo un buon disegno di una fleuta del tardo 17° secolo. Su tale disegno sono indicati i ponti e le linee dello scafo, insieme ad una breve descrizione e qualche misura di lunghezza. Lo Scheepvaartmuseum Am-sterdam (Museo della Marina di Amsterdam) pos-siede un disegno generico di una fleuta lunga 130 piedi (autore Frans Cornelisz Keyzer), e l’archivio Archief de Westfriese Gemeenten Hoorn possie-de un disegno unico della fleuta ‘Langewijck’ fatto da Gerard Pomp nel 1692.Inoltre, non esiste alcun modello antico affida-

bile (forse perché non sono mai stati costruiti). L’Amsterdam Marittime Museum espone un buon modello di una fleuta, ma da un punto di vista tec-nico non sembra soddisfacente. Anche nel Museo

Marittimo di Rotterdam è esposta una fleuta della fine del 17° secolo, l’’Houtpoort’. Anch’esso però, sia per le dimensioni che per la forma, non è com-pletamente convincente. In ogni caso, di questo modello esistono eccellenti progetti (autori: Pe-trejus e Van Beffien), ancora reperibili. Inoltre, il ‘Nederlandse Vereniging voor Modelbouwers’, as-sociazione olandese, vende il progetto di un ‘Hol-lands Fluitschip’ eseguito da B.E. Van Bruggen, ma le fonti e l’attendibilità di questo modello riman-

gono dubbie. Inoltre, un set completo di disegni di una fleuta, utili soprattutto per chi volesse costru-ire un modello, possono essere trovati nel libro ‘Risse von Schiffen des 16 und 17. jahrhunderts’. Questo progetto, disegnato da Rolf Hoeckel, sono basati su un grande dipinto “‘The Fleet of the gre-at elector” di Lieve Verschuier (1684), sul quale appare la fleuta Derfflinger. Questa nave costituiva una parte della flotta brandenburghese del princi-pe eletto Friedrich Willhelm. Anche tale progetto però non risulta completamente convincente. Gli stessi sono stati utilizzati per i disegni del Lusci e della Euromodel.A parte il relitto della “Anna Maria”, trovato in

acque svedesi a Dalaro vicino a Stoccolma, non ci sono relitti ben conservati. Anche il relitto dell’An-na Maria risulta comunque molto danneggiato e di limitata utilità, a causa dell’incendio che divampò a bordo e della successiva esplosione, fattori che distrussero gran parte della nave.

Storia di una Nave

Nicolaas o Nicolaes Witsen (Amsterdam, 8 Maggio 1641-Amsterdam, 10 agosto 1717) è stato un diplomatico, carto-garafo e scrittore olandese.

È stato tredici volte sindaco (burgemeester) di Amsterdam tra il 1682 ed il 1706. Inoltre, è stato un rappresentante degli Stati Generali dei Paesi Bassi, nel 1693 amministratore della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC) e ambascia-tore straordinario presso la corte inglese.

Membro della Royal Society, è un’autorità nel campo dell’ingegneria navale (discendente d a una famiglia di ingegneri n avali) e d i suoi libri s u questo argomento sono importanti fonti sulla costruzione n avale olandese del XVII secolo.

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Considerazioni sulla tecnica di costruzione

Come menzionato precedentemente, non esi-stono informazioni sufficienti per costruire un modello dettagliato di una nave originale olandese di questo periodo. Ciò deriva anche dal metodo di costruzione della navi olandesi, compresa la fleuta.Le intuizioni acquisite attraverso anni di successi e

fallimenti nella costruzione navale avevano portato a formule di costruzione, mediante le quali era pos-sibile arrivare ad un buon risultato senza proget-tazione e senza disegni. Quindi, non esiste nessun progetto navale di navi olandesi del 17° secolo.

L’unica prova tangibile che è rimasta del lavoro dei maestri d’ascia dell’epoca è costituita dai con-tratti di costruzione, accordi scritti fra i commit-tenti ed i carpentieri navali che descrivono la co-struzione delle navi ordinate.Relativamente a tali contratti, è da notare che

molta attenzione era posta sulle dimensioni dei vari elementi della nave piuttosto che sulla forma

dello scafo e soprattutto dell’opera viva. Solo il maestro d’ascia conosceva la forma dello scafo.Il contratto comprendeva la robustezza della

nave, la sua suddivisione e possibilmente il prezzo e la consegna della nave. I contratti erano anche un pro-memoria per il carpentiere navale, in modo che se una nave riusciva bene, lo stesso contratto poteva essere utilizzato come base per la costru-zione di una nuova nave. La costruzione avveniva quindi in base all’esperienza del maestro d’ascia. Gran parte di questa esperienza era riassunta in formule note a ogni carpentiere navale, e traman-data da padre a figlio. Tali formule sono descritte nei libri di Nicolaes Witsen e Cornelius van Yk.

Van Yk era un carpen-tiere navale che suc-cessivamente divenne l’ispettore di pesi e mi-sure a Delfshaven. Nel 1697 pubblicò il suo li-bro “Te Nederiandsche Scheeps-Bouw-Konst Aprire Gestelf”.Durante la prima im-

portante fase della co-struzione, il metodo seguito era quello del “shell-first” (prima il rivestimento). Benché tale metodo di costru-zione olandese sia mol-to antico, non esiste un nome olandese che lo caratterizza La caratte-

ristica principale di questo metodo era che le ta-vole di fasciame non venivano inchiodate sui quinti o su una sorta di costole fissate preventivamente alla chiglia, ma venivano poste, a partire dalla chi-glia, fissate solamente alla chiglia stessa, sorrette da paletti di legno che da terra tenevano le tavole. In questo modo veniva creato un rivestimento, poi rinforzato internamente da costole non collegate alla chiglia. Uno dei vantaggi di questa tecnica è

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che il tavolato correva sempre in modo preciso, senza formare cavità o protuberanze dovute ad errori nella costruzione dei quinti.Successivamente, dopo la posa di più corsi di fa-

sciame applicati in questo modo, venivano appli-cati i quinti. Il processo di costruzione dello scafo era molto veloce. Basti pensare che lo scafo del famoso vascello olandese da 80 cannoni, lo “Zeven Provincien”, fu costruito in 6 mesi . . Questa velo-cità di costruzione era dovuta anche alla veloce consegna dei legnami già prelavorati, cioè tagliati allo spessore richiesto, alla lunghezza delle gior-nate (in Olanda le giornate sono più lunghe che in Italia) e anche perché parte del lavoro veniva spesso sub-appaltato. Tuttavia, il metodo “shell-first” era in una buona parte responsabile di tale velocità di costruzione. Alcuni autori fanno notare che questo metodo può essere applicato anche nella costruzione di un modello, con ottimi risul-tati e ottima velocità di realizzazione.Non importa infatti come i componenti interni

vengono inseriti nel rivestimento, l’importante è che essi riescano a tenere insieme la struttura. La messa in posa di questi componenti interni veni-va effettuata semplicemente selezionando, per una data parte dello scafo, la tavola di legno che avesse

la forma più simile a quella parte dello scafo dove doveva venire applicata, in modo da diminuire al minimo la lavorazione di tale pezzo di legno. Ciò portava quindi ad una riduzione dei tempi di lavo-ro e anche al risparmio del legno.Il risultato potrebbe sembrare estremamente di-

sordinato, ma ciò poco importava ai maestri d’a-scia olandesi. Finché i legnami erano collegati ed uniti in modo sicuro, il resto contava poco. Non era infatti necessario produrre una struttura or-dinata di quinti, come invece nei metodi inglesi e francesi.

BibliografiaT. Velius: Chronyck van Hoom., Hoorn 1648.Cornelius. Van Yk: De Nederlandse ScheepsBouw

Konst Open Gestelt. Amsterdam 1697,Ake C., Ralamb, Skeps Byggerij (Stockholm, 1691).L. Koelmans: Zeemans Lexicon. Zutphen 1997.B.M. Petersen: The Dutch Fluítschíp ‘Anna Maria

‘foundered in Dalard Harbour in 1709.International journal for Nautical Archaeology 16

4 1987. R, Hoeckel: Risse von Schiffen des 16. und 17

jahrhunderts. Bielefeld 1978.

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ARMI NAVALI

«Come eravamo», fortunato titolo cinematogra-fico, esprime correttamente una delle due lodevo-li pulsioni conoscitive moderne: passato e futuro fra loro intimamente connessi, come se nel primo fosse scritto il secondo, ed in questo si potesse sperare di non ripetere gli errori del primo. Chi si occupa del presente fa, nel migliore dei casi, della cronaca; nel peggiore della sterile logorrea.Fortunatamente, chi si occupa del passato non

corre il rischio di errori irreparabili, purché non ne tragga lezioni assolute. Meglio ancora, o peggio, quando la ricerca verte sulle armi il pelago del pas-sato si fa meno torbido: si può anzi affermare con prove statistiche che la parte peggiore dell’Uomo (la sua individualità vera?) sia sopravvissuta ab ovo in testimonianze quasi mai casuali, I grandi del passato si sono sempre preoccupati di farsi ritrarre in abiti marziali, possibilmente in arcione a potenti destrieri calpestanti nemici. Oppure, gli stessi personaggi, in vesti sacerdotali, vicari di altrettanti dei guerrieri.Si comprende allora perché la medicina abbia

proceduto lentissimo pede, mentre la tecnica bali-stica sia stata l’avanguardia della civiltà: buoni me-dici desiderosi di esplorare il corpo umano fini-

vano arrostiti per empietà ed eresia, mentre i miglio-ri armaioli ed ingegneri militari godevano di ogni onore, al sicuro da qua-lunque Inquisizione. Così, oggi abbiamo bombe ato-miche sporche e neutro-niche pulite, e la Vecchia Signora per compagna quotidiana. E abbiamo il Cancro e la Schizofrenia...Ho voluto, e dovuto,

premettere queste ama-re constatazioni, perché è tale il fascino delle armi, sopratutto antiche, che

sarebbe facile lasciarsi trascinare dalla loro intrin-seca bellezza, dimenticandone lo scopo: offensive o difensive, non sono concepite, che ad un fine. La Morte. Altrui, naturalmente.Come ho già detto, la storia delle armi non pre-

senta quei gravi problemi che spesso tormentano gli archeologi, per insufficiente documentazione dell’epoca: anzi, l’antropologia culturale procede per due fondamentali parametri, il tipo di sepoltu-ra e il tipo di arma. È proprio per quest’ultima che acquista tutto il suo valore la suddivisione delle epoche storiche in Età della pietra, del bronzo, e del ferro, anche se l’abbandono del nomadismo e l’adozione dell’agricoltura stanziale costituiscono un criterio parallelo. L’attività primordiale, però, la caccia ad esseri viventi, non venne mai abbando-nata, e l’abitudine di nutrirsi di proteine animali è certamente la causa, e la dannazione, dell’aggres-sività e della superiore intelligenza dei carnivori. L’Uomo primitivo, per quanto più veloce di quello moderno potesse essere, non poteva competere con altri animali nella corsa, perciò sopperì a que-sta limitazione con una delle più prestigiose inven-zioni di tutti i tempi, l’arco.

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Giovanni Santi Mazzini

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Quasi subito, dovette accorgersi che poteva ser-virsene efficacemente anche contro i suoi simili, e da questo momento, io credo, ebbe termine la rissa animalesca, sia pure con clave o asce, ed ebbe inizio la guerra, quale ancora oggi la conosciamo: uccidere a distanza. L’altra fondamentale arma, più rudimentale, era il lancio di un corpo solido per mezzo di una striscia di cuoio, la fionda. Nel primo caso, l’energia di lancio proviene dalla flessibilità di un segmento ligneo, metallico o corneo, nel secon-do si sfrutta la velocità tangenziale di uscita da un moto circolare, proporzionale al raggio (il quale è dato dal braccio più la lunghezza della fionda).Mi sono soffermato su queste due armi, perché,

fino all’invenzione della polvere da sparo, non si ebbero che applicazioni e modifiche dello stesso principio, fatta eccezione per il fuoco greco, pri-ma arma chimica. Era inevitabile che la nave non potesse sfuggire alla logica della guerra «totale»,

concetto solo apparentemente moderno: perciò iniziò la sua carriera bellica come trasporto di guerrieri, per quanto sappiamo con certezza fino ad ora, nel 17° sec. a.C. (spedizione della regina Hatsepsut contro i Somali), e continua, sempre con documenti certi, nel 12° con una battaglia na-vale di Ramesse 3° contro i «Popoli del mare». E come poter trascurare la spedizione degli Achei in Asia Minore? Dunque la nave come mezzo, al massimo come piattaforma galleggiante per uno scontro di uomini. Bisogna attendere l’8° secolo a.C. per imbattersi nella prima vera arma navale: la nave stessa fornita di uno sperone. In un bassori-

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Catapulta. Disegno e modello dell’autore. Il modello oltre ad essere molto realistico ed attraente - davvero un simpatico soprammobile - è perfettamente funzio-nante e lancia ad una certa distanza piccoli sassi. Il dott. Santi - Mazzini, - medico nella vita civile, è un appas-sionato studioso di tutto quanto riguarda la marina. Ha costruito moltissimi modelli di ogni genere ed ha una ricchissima biblioteca di libri di carattere navale, di cui

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lievo del palazzo di Sennacherib, a Ninive, la nave è appunto raffigurata con un «punteruolo» solidale alla chiglia: l’anonimo inventore deve aver tratto una proficua lezione dal semplice gesto di piantare un cuneo in un impiantito di legno. È notevole il fatto che questa arma così semplice sia rinata a più riprese: sulle galere mediterranee medioevali e dalla metà del secolo scorso fino al primo quarto di quello attuale, per essere infine modificato in «prua a bulbo» per ragioni idrodinamiche. Vedre-mo in seguito le loro forme, il loro uso moderno, mentre nell’antichità basteranno due nomi, l’uno glorioso, l’altro carico d’onta, per lo stesso Stato. A Salamina lo sperone delle triremi ateniesi fece giustizia dell’imperialismo persiano, mentre a Sira-cusa, settanta anni dopo, gli speroni dei Greci di Sicilia resero un pari servizio a quello ateniese.

Nelle sei foto che seguono, particolari dell’affusto, delle ruo-te, della culatta, della bocca del cannone da 24 che si trova nel lungomare di Porto Maurizio.

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Questo episodio, una delle più vergognose mac-chie sulla gloria ambigua di Atene, si inscrive nel-la guerra del Peloponneso, mirabilmente narrata da Tucidide. La lettura di questa opera senza età è raccomandabile, oltre per il fatto di essere un modello di storiografia, e per contenere situazioni e fatti, ahimè, attuali, anche per essere una vera miniera di notizie di armamenti navali. Vi troviamo infatti descritti: i delfini, le epotidi, i brulotti (!). Vi è anche descritta la prima tattica antisbarco e l’isti-tuzione (inconsapevole) dei sommozzatori. I Sira-cusani, per impedire lo sbarco degli Ateniesi, pian-tarono dei pali sul fondo, lasciandone le punte a fior d’acqua. Gli Ateniesi, allora, li svelsero serven-dosi dei loro marinai più esperti nel nuoto (dietro compenso...). Nel corso della 2° guerra mondiale, il Vallo Atlantico fu guernito da Rommel in modo sostanzialmente analogo, come pure alcune isole del Pacifico in mano ai Giapponesi: fu così che la U.S. Navy istituì il corpo degli uomini Rana. Una volta di più, la Storia si ripete, perché gli uomini non cambiano.Qui di seguito un cannone del XV secolo e bombe da mor-taio (Museo Navale di Pegli). di seguito lo stemma inciso sul-la canna e due viste del cannone da 24 di Porto Maurizio.

I delfini erano masse oblunghe di ferro e piombo, sospese a tralicci montati a terra o sulle navi, che venivano improvvisamente lasciate cadere sulle navi avversarie. Le epotidi (=orecchioni) altro non erano che grosse travi rinforzate, aventi il duplice scopo di tenere sospese le ancore (quindi caponi) e di sfondare gli atrebici avversari. Quanto ai bru-lotti, lasciamo la parola all’Autore: «..(i Siracusani).. volendo incendiare anche le altre, riempirono una vecchia nave da carico di legna e di rami di pino; quindi, approfittando del vento che spirava in dire-zione degli Ateniesi, ve la lasciarono andare, dopo avervi appiccato il fuoco». All’epoca di questi fatti, mentre gli Elleni esaurivano le proprie risorse nelle quotidiane beghe di Joni contro Dori, i Romani non

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erano che un piccolo e prepotente popolo di con-tadini, alle prese in continuazione con tutto il loro mondo; avuta ragione del quale, ne scopersero uno più vasto oltre il mare. Nel 510 avevano già dovuto piegare la testa davanti ai Fenici di Cartagine, rico-noscendo loro una supremazia commerciale.Ma due secoli e mezzo più tardi, saldato il conto

a Sanniti, Etruschi e Galli, si trovarono di fronte la stessa potenza con una comune zona d’influen-za, la Sicilia. Il popolo di contadini-guerrieri non era decisamente fatto per il mare, al contrario dei nemici mercanti-guerrieri. Tuttavia, non man-cando di intelligenza, ne ebbe momentaneamente

ragione a Milazzo (260 a.C.) facendo in modo di trasformare uno scontro navale in una battaglia di terra per mezzo di passerelle uncinate (i corvi): il che rappresenta, a mio parere, un regresso nel-la tecnica dell’armamento navale. Anche in fatto di architettura navale, almeno in quell’occasione, i Romani non inventarono niente, avendo costruito la loro flotta sul modello di una quinquireme pu-nica naufragata. Lo stesso corvo, poi, altro non era che un’applicazione dell’arpagone greco, ma non è detto che Caio Duilio ne fosse al corrente.Giulio Cesare si dimostrò quale genio, una volta

ancora, inventando le falci, o forse trasferendole

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Tipico affusto di cannone terrestre da 6 pound visto di fianco e dall’alto. A destra. Dall’alto: spaccato di fregata (da Charnock), granate, shrapnels, macchina per rifilare la spo-letta (da Muller) e arma da fuoco di marina a tre canne (Museo Navale di Lisbona).

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dalle ruote dei carri alle antenne sulle navi: si servì di esse, infatti, per recidere le manovre delle navi Galliche. Tali falci sopravvissero, fissate agli estremi dei pennoni, fino al 15° secolo d.C.Mentre la guerra sul mare continuava con criteri

quasi terrestri, sulla terraferma gli ingegneri milita-ri avevano messo a punto criteri di fortificazione

tali da richiedere efficaci contromisure, cioè mac-chine da assedio. Tralasciamo quelle tipicamen-te terrestri come gli arieti (per quanto pare che Archimede se ne servisse contro le navi di Mar-cello), e vediamo due macchine offensive derivate direttamente dall’arco l’una, e dalla combinazione dell’arco e della fionda l’altra. La balista, o ballista

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NOMENCLATURA DI UN AFFUSTO MARINO1:Aloni; 3 Gradini; 3: Centinatura; 4: Incastri delle sale; 5: Incastri del calastrello; 6 Incastri dello sporto lunare; 7: Calastrello; 8: Incastro di volata (garbo del calastrello); 9: Sostegno dello sporto lunare; 10: Sporto lunare (cernierato sul sostegno 9); 11: Sala anteriore; 12: Sala posteriore; 13: Fusi; 14: Ghiere in ferro dei fusi; 15: Suola (talvolta scanalata lungitudinalmente per far scorrere il 16); 16: Cuscino; 17: Cuneo di mira; 18: Copriorecchioni; 19: Chiavette o catenelle; 20: Anelli di braca; 21 : Golfari del paranco di ritirata; 22: Ruote; 23: Bandelle centinate; 24: Acciarini; - Perni verticali; a: perni ad occhio; b: perni a testa quadra; c: perni a testa tonda; d: perni a testa piana; e: perni a testa monachetta; - Perni di collegazione (orizzontali)Franco Gay

Qui accanto: sollevamento della can-na di un cannone (da Acton). A destra: modo di trasportare i cannoni imbra-candoli sotto la barca - (da Acton).

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(dal greco bàlio - lancio) altro non era che un arco molto grande e robusto, teso da un argano, e in grado di lanciare grossi dardi. Si tratta di un’arma antiuomo piuttosto che antinave, come dimostra-no reperti archeologici terrestri (scheletri di bar-bari assediati recanti infissi i dardi da balista). La catapulta (catapàllo = vibro) invece fu concepita come arma di distruzione, e se il suo effetto nei confronti di una muraglia poteva essere inefficace, al fragile insieme ligneo di uno scafo non lasciava scampo. Certamente il console Marcello si dovette ricordare dei macigni lanciati da Polifemo contro la nave di Ulisse: ma il ciclope era cieco, mentre le catapulte di Archimede centravano le sue navi con micidiale precisione. La macchina consisteva di un robusto arco montato su un altrettanto solido te-laio, alla base del quale era incernierato l’estremo di un cucchiaio. L’altro estremo veniva portato indietro, quindi abbassato, da una corda traziona-ta da un argano, anch’esso fissato alla base della macchina: il tutto, contro la resistenza della corda dell’arco. Fatto compiere un quarto di cerchio al cucchiaio,e posto un macigno nella sua concavità, la corda veniva liberata, il cucchiaio spinto in avanti fino ad un arresto, e la pietra usciva per la tangen-

te. Abbiamo pertanto una leva di 3° genere combi-nata al principio di deformazione dei corpi (futura legge di Hook: «ut tensio sic vis»), senza contare l’argano, che è una macchina semplice (asse della ruota). Pertanto si trattò di una tecnologia molto avanzata, e possiamo affermare che in quel mo-mento nacque l’artiglieria (se vogliamo usare un termine strettamente militare) o la balistica, (ter-mine più proprio in senso fisico).Tali macchine pare siano state montate sulle navi

a partire dal 3° secolo a.C, ma è lecito ritenere che il loro uso fosse preferito come «mare-terra» piuttosto che come «mare-mare», giusta la con-cezione dello scontro fisico anche in mare. Tale intendimento non dovette essere molto gradito ai Bizantini, accerchiati com’erano da barbari di ogni specie, se inventarono la superarma del tempo, un «fuoco che brucia in terra e in acqua». Questo diabolico ritrovato, il fuoco greco, deve i natali a Callinico nel 7° secolo a.C.Fu sperimentato con successo contro gli Arabi

nel 678 a.C, e da allora permise all’Impero d’O-riente, che pure in terra faceva acqua su tutti i fronti, di tenere a bada i barbari sul mare. La com-posizione della miscela fu mantenuta segreta, e il mistero era tale ancora nel 1453, anno della ca-duta di Costantinopoli, al punto che un contem-poraneo difensore fiorentino, Jacopo Tedaldi, ne parla come di «arte diabolica». Oggi, possiamo soltanto supporre che fosse composto da zolfo, salnitro e nafta: è possibile che tale fosse la for-mula, visto che il fuoco greco moderno è costi-tuto da zolfo, salnitro e realgar (AsS). Comunque fosse, la nave che ne era colpita, bruciava anche sott’acqua: se ne comprende perciò l’importanza strategica. Il lancio avveniva con un sifone, (ma non se ne conosce il meccanismo) oppure in vasi, con la catapulta. L’importanza del fuoco greco andò di-minuendo nel 14° e 15° secolo, sia perché vi fu trovato un parziale rimedio con feltri imbevuti di aceto, sia perché nel corso del 1300 fece la sua comparsa in Europa la polvere nera. La tradizio-ne ne attribuisce la reinvenzione (esistono fondati

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Questo cannone armava una caravella portoghese del XVI secolo (Museo Navale di Lisbona). Nella pagina accanto si vede tra l’altro come venivano imbracate e portate nei ponti inferiori le canne dei cannoni.

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motivi per attribuire il merito del primato ai Cine-si) al monaco Berthold Schwartz, che vanterebbe anche la discutibile paternità, in quanto religioso, del cannone di bronzo. Di chiunque sia il merito, o il demerito, la polvere nera resta l’unico esplo-sivo fino all’invenzione della nitroglicerina e subi-to dopo della balistite da parte di Alfred Nobel (1888). I primi cinque secoli sono caratterizzati da molto fumo e da una potenza relativamente limi-tata; da Nobel in poi il fumo scompare, la potenza aumenta, e il lavoro della Vecchia Signora aumenta. La caratteristica, anzi la definizione di un esplo-sivo è quella di dirompere, cioè di spostare aria: per far ciò, l’esplosivo deve trovarsi, al momento della combustione, in un ambiente ristretto che lo contenga fortemente. Pertanto, se ne fece un duplice uso: demolire fortificazioni e propellere missili, cioè proiettili. Nel secondo caso, occorreva poter disporre di un tubo ben robusto, chiuso da

un lato, riempito di polvere e tappato con una pal-la. In altre parole, un ambiente ristretto, con una via d’uscita controllabile.Era la fine di un mondo: anche i nobili signori

ricoperti di bellissime, costosissime armature, ve-nivano spazzati dalle anonime palle di pietra al pari della turba di plebei, un tempo piatto preferito delle loro nobilissime spade. La cosa era tanto più irritante se si pensa che le prime artiglierie non erano affatto militari, ma in appalto: intraprenden-ti privati affittavano sé stessi e le loro armi agli eserciti in guerra, battendo in precoce ritirata se le cose volgevano al peggio. In mare le cose anda-rono diversamente, perché non esistevano nette distinzioni fra mercantili e navi da guerra, almeno fino a tutto il ‘400. Le acque europee non erano af-fatto sicure, sia per le eterne guerre anglofrancesi, sia, e peggio, per la costante minaccia islamica nel Mediterraneo. Non c’è stampa o dipinto dell’epo-

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Dimensioni dei cannoni di ferro per la marina, secondo il regolamento del 1 786 (da Stratico)

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A Cannone Canon Cannon Kanone b-r lunghezza del c. longueur du c. lenght of the c. (a-r: lunghezza totale) ab bottone, codone bouton cascabel, button, pomillon Traube b-c culatta culasse breech Stofs c-d piattabanda della c. platebande de la c. Base ring & ogee Hinterfries e-g campo del focone campdelalumière ventfield Zundfeld f focone lumière vent Zundloch g-h astragalo del foc. astraga/e de fa l. vent astragal Kammerband i piattab. del 1° rinf. plat. du 1er renfort 1st reinfort ring & ogee Friesen am ersten Bruch l maniglia anse dolphin Handhaben, Delphine m orecchioni, perni tourillons trunions Schildzapfen n-r volata volée chace Mundstuch, lange Feld c-i 1° rinforzo 1er renfort 1st reinfort Bodenfeld i-n 2° rinforzo 2emerenfort 2ndreinfort Zapfendeld n piattab. del 2° r. plat. du 2eme r. 2nd reinfort ring & ogee Friesen am zweiten Bruch o astragalo della astraga/ede chaceastragal&fillets Mittelband cintura di volata la volée p astragalo della bocca astr.(delabouche) muzzleastr.&fillets Halsband tulipe p-r bocca del c. bouche du c. muzzle Mundung, Mund g-r gioia, borletto corona bourrelet swelling of the muzzle Kapf s-r anima ame, calibre bore, caliber Seele, Lauf s Fondo dell’a. (chambre? ) t-u cielo dell’a. vz piano dell’a. B Affusto, carretta affut carriage Rampert, Rapert Rollpferd a sale, assi essiux axle trees Achsen (eines raperts) b ruote roues trucks Ràder eines raperts c ancerrini, acciarini esses d’a. fore-locks Lunzen (eines raperts) d sola, fondo sole, semel le sole, bottom Bodenstuck (eines raperts) e guance,fiasche fflasques cheeeks,sides Seitenstucke(einesraperts)

f calastrello entretoise transom Kalb (eines raperts)g occhi degli orecch. yeux des tourill. trunions eyes Schifdzapfenauge (?)h piattebande platebandes cap-squares,clamps Flappeni traversanti chevilles traver. bed-bolts Bolzen (eines Rapert)l Occhi di ferro oeillets de fer loops, eye bolts Augbolzen

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ca che non mostri navi più o meno irte di bocche da fuoco, di proprietà del Re o della compagnia commerciale o del privato. Inoltre, non dispo-nendo di un piano fermo, il sostegno del cannone (non ancora affusto), doveva avere caratteristiche diverse da quelle terrestri, per cui si può dire che il divorzio fra i due tipi di artiglieria avvenne quasi subito, dando luogo a due distinte tradizioni e tec-nologie. Il ramo navale è oggi in via di estinzione. La sua fine è stata segnata a Midway. Quando il Cannone fu trasferito sulla nave, non era che un tubo di bronzo incastrato e legato ad un ceppo di legno; aveva due caratteristiche: la canna era rin-forzata ad intervalli regolari da cerchioni di rinfor-zo, e sulla parte superiore della culatta presentava un varco rettangolare in cui era inserito un cilin-dro provvisto di maniglia.Questo serviva da contenitore della polvere, e ci

dovremmo molto meravigliare che questo sistema di retrocarica sia sparito per più di quattrocento anni, se non fosse per gli inconvenienti relativi. Si pensi infatti che la maggior pressione esercitata dallo scoppio viene esercitata ivi stesso, e decre-sce distalmente: perciò il cannone primitivo, pre-sentava un luogo di minor resistenza proprio nel-la camera di scoppio e sarebbe stato impossibile aumentare il quantitativo di polvere per ottenere una maggior gittata.Il cannone cilindrico a retrocarica cedette perciò

il posto a quello conico ad avancarica, ma, per far questo nell’ambiente ristretto della nave, si dovet-te dotare la canna di ruote, e quindi di un sostegno meno bruto di un ceppo.Dal 16° secolo in poi, cioè fino a quasi tutto il

19°, inizia per l’artiglieria di marina un periodo di stato, quanto alla fabbricazione, costellato di in-

venzioni di nuovi tipi di canne e di carriaggi, per cui sarà bene descriverne analiticamente tutte le fasi evolutive, le caratteristiche tecniche e le fasi di costruzione. Prima però, occorre specificare quali erano i supremi concetti dell’artiglieria, e quindi della guerra, navale. Oggi, l’armatore o il Ministero della Difesa ordinano ai cantieri «una petroliera da 120.000 tonnellate» o «una fregata antisom-mergibile»: allora, la Compagnia o l’Ammiragliato commettevano «una nave da X cannoni». Il che significa fondere gli X cannoni e poi costruirvi in-torno la nave; se questa era classificata «di linea», il suo destino era di affrontarne una simile, pres-soché affiancata, e sparare e ricevere bordate su bordate, finché quella ridotta a un gruviera con più buchi soccombeva. Questa concezione tattica, che oggi ci appare completamente idiota, fu talmente apprezzata dai militari di carriera, tutti aspiranti epigoni di Nelson e De Ruyter, che ancora nel no-stro secolo avvennero furibonde mischie a Tsushi-ma, alle Faliland, allo Jutland. e perfino 33 anni fa a Leyte, nonostante la strategia navale fosse stata ormai sovvertita dall’apparire del sommergibile, dell’aereo e dei convogli. Quanto al costruire scafi intorno ai cannoni, non c’è molto da sorridere: nel 1925, l’Ammiragliato britannico aveva trasforma-to in portaerei gli incrociatori da battaglia Cou-rageous e Glorius, e ne aveva conservato le torri binate da 381 /42. Ma all’inizio del ‘40 le cose non andavano bene per la Royal Navy, e si era già dovu-to rinunciare alla modernissima classe Lyon. Allora, il direttore delle costruzioni navali si ricordò dei ferri-vecchi: perché non costruirvi intorno una co-razzata? Nacque così la Vanguard, inutile e splendi-da, ultima nave da battaglia della R.N., irta di contra-erea e di radar, e armata con avanzi di magazzino...

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Macchina Commettitrice parte II

La masuola è costituita da tre parti: la tavoletta di base; il pacco ingranaggi; il motore con la parte elettrica.La tavoletta di base, ricavata da un pezzo di legno

massello presenta nella parte inferiore le svasatu-re per alloggiare le teste delle viti di montaggio e nella parte superiore due fresature parallele per alloggiare il pacco ingranaggi, una fresatura dise-gnante un rettangolo dove si incastrerà il carte-rino a protezione del motore e una fresatura per ospitare un profilo in alluminio che ha la funzione di guida per l’eventuale morsetto da tavolo.

Il pacco ingranaggi

Il pacco ingranaggi è composto da due elemen-ti in plexiglass® che a sandwich reggono in po-sizione le ruote dentate. Per garantire che i due elementi risultassero perfettamente uguali li ho

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Gaetano Bracale

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lavorati contemporaneamente come se fossero uno solo. Ho attaccato con un nastro da pacchi due pezzi di plexiglass® a cui ho sovrapposto il disegno stampato su un foglio adesivo. Ho fora-to gli alloggiamenti dei cuscinetti flangiati con una punta autocentrante e con la sega a nastro ho ta-gliato lungo il perimetro avendo l’accortezza di distanziare tramite una tavoletta di legno il pezzo da tagliare dal piano della sega. Il calore dovuto all’attrito della lama contro il pezzo da sezionare aggrega la segatura di plexiglass® ostacolando il taglio. Con l’escamotage della tavoletta attaccata con nastro biadesivo sotto il pezzo a poca distan-za della linea di taglio sono riuscito a fare un lavo-ro abbastanza pulito.

Per assicurate la ruota dentata al proprio asse ho praticato una scanalatura diametralmente al mozzo della stessa che farà da alloggiamento per una spina elastica passante in un foro praticato nell’asse.

Gli assi necessari al pacco ingranaggi sono otto e di tre diversi tipi. Uno centrale di diametro più grosso, a servizio della ruota condotta, la più gran-de, presenta un ringrosso che fa da testa, un foro passante per la spina elastica e una gola per l’anel-lo elastico di chiusura.L’asse della ruota motrice presenta anch’esso gli

alloggiamenti per la spina e gli anelli elastici: foro e gole. Inoltre la parte finale, fuoriuscente di un’ade-guata misura dal pacco ingranaggi è stata confor-mata a sezione esagonale, giusto presupposto per l’accoppiamento con l’avvitatore.

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Sei sono gli assi, che, oltre a presentare gli stessi elementi dei precedenti, sono forati in testa per poter ospitare il gancio di torcitura dei trefoli il quale è stato spinato e poi saldato a stagno. I ganci sono stati ricavati da un tondino di ottone poi rifi-niti a lima, giusto per dare un po’ di garbo estetico. Ogni asse gira montato su due cuscinetti a sfere flangiati. La scelta dei flangiati l’ho fatta per avere una maggiore facilità di montaggio ed un minore margine d’errore di parallelismo.

Quattro blocchetti di legno fanno da distanziato-ri, due di essi, gli inferiori, più lunghi, fanno anche da elementi di unione tra il pacco ingranaggi e la tavoletta di base. I blocchetti sono scanalati onde poter alloggiare le parti di chiusura perimetrali.L’impronta personale che ho dato a questa parte

della macchina è rappresentata da due cose: la pri-

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Attrezzature Modellistiche

ma ho disposto i ganci posizionandoli sui vertici di un triangolo equilatero e di un quadrato: commet-titura a tre e quattro trefoli. Il graffito a due colori, che sa un po’ di esoterico e che vedi sulla foto che

segue, chiarisce maggiormente l’idea. Questo per dare un angolo di commettitura più preciso.La seconda innovazione “se così si può definire” è

stata quella di rendere motrice una settima ruota

avente lo stesso diametro delle ruote che portano il gancio. Così facendo il numero di giri del motore si demoltiplica sulla ruota condotta che a sua volta moltiplica con lo stesso rapporto il numero di giri dei ganci. Risulta alla fine che i ganci ruotano con lo stesso numero di giri del motore che avendo una velocità consona alla commettitura mi ha fat-to risparmiare l’acquisto di un variatore elettroni-co di velocità.

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L’uso di un avvitatore è dovuto alla necessità di avere una coppia torcente adeguata, specialmente per la commettitura dei cavi torticci.Detta coppia viene garantita dalla serie di ingra-

naggi costituenti il riduttore epicicloidale posizio-nato nella testa dell’avvitatore.

Una volta aperto l’avvitatore sfilando il gancio ad U, ho ridotto in lunghezza la scocca servendomi di un disco separatore montato sul flessibile del trapanino, ho saldato due cavi ai poli del motorino facendoli poi fuoriuscire da quella che era la cavi-tà degli interruttori precedentemente eliminati. Il fissaggio sugli appositi supporti con due fascette ricavate da un lamierino ha completato la lavora-zione.

Attrezzature Modellistiche

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In viaggio con Magellano n. XXV - Gennaio 2014 27

A protezione del motore e della parte elettrica ho costruito un carterino di plexiglass®. La piegatura del materiale l’ho fatta a caldo usando una forma di legno e un erogatore di aria calda.

Ho fissato a quest’ultimo una presa per l’alimentatore e un interruttore deviatore per scegliere il verso del moto.

Attrezzature Modellistiche

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La campana di quarto

Su tutte le imbarcazioni di una certa dimensione esiste una campana di quarto.Sulla stessa, per tradizione, viene inciso il nome

della nave.Molte volte, nel rintracciare un relitto, si riesce

arisalire al nome della nave se si riesce a trovare la campana di quarto che, essendo in bronzo, non viene corrosa dall’acqua salmastra.Per costruire una campana di quarto ho usato un

tornio ed un trapano a colonna.Per chi non possiede un tornio, va bene anche un

trapano, per chi non possiede un trapano a colon-na, va bene anche un trapanino manuale. L’unica differenza è che ci si impiega più tempo.Operazione 1.Da un tondino di ottone, si ottiene in cilindro

corrispondente a quello della bocca della campana.

Operazione 2Si realizza un cono dell’altezza corrispondente a

quella di tutta la campana.

Operazione 3Con una limetta tonda (a coda di topo) si incide

il cono e si ottiene una gola.

Operazione 4Con una limetta a sezione triangolare si incide la

parte terminale

Operazione 5Sempre con la stessa limetta triangolare si conti-

nua la lavorazione, ruotando la lima a destra e si-nistra, tenedola appoggiata sul solco, per stondare gli spigoli.

Tecniche modellisticheLa campana di quarto

Benedetto Albino

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In viaggio con Magellano n. XXV - Gennaio 2014 29

Operazione 6Si toglie il pezzo dal tornio e si procede alla sfac-

ciatura del supporto con una limetta piatta.

Operazione 7Con una micropunta si fora il supporto.

Operazione 8Si ritorna sul tornio per tagliare il pezzo dal mas-

sello, lasciando un “codino”.

Operazione 9Si separa il pezzo dal massello, a mano. Il “codino”

riproduce il battacchio.

La campana è finita e viene montata sulla chie-suola.Le dimensioni reali sono dimostrate confrontan-

do il pezzo con una moneta da 1 centesimo di Euro

Tutta l’operazione, una volta “presa la mano” ri-chiede non più di 10 minuti.Per i più curiosi, dirò che la chiesuola in questio-

ne è in scala 1:75 ed è destinata ad una baleniera ammericana (Kate Kory).

Buon LavoroA. BENEDETTO

Tecniche modellisticheLa campana di quarto

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Curvare i Listelli

Abbiamo già visto e letto diversi articoli su come piegare i nostri listelli. Il concetto principale resta sempre il calore e l’umidità del legno. Con questi due fattori possiamo permetterci di piegare a piaci-mento qualsiasi tipo di legno. La logica è sempre la stessa.Oggi però vi voglio proporre un nuovo suggerimento per la piegatura dei listelli eseguita con la tecnica

della lattina. Nei vari articoli pubblicati si faceva riferimento ad un barattolo di latta utilizzato (ad esem-pio) per contenere il caffè, oppure i passati di pomodoro, ecc... ecc... Questi contenitori eseguono il lavoro egregiamente, e senza troppe spese si aveva a disposizione un

attrezzo utilissimo. A differenza degli attrezzi che si trovano in commercio, il barattolo permette di pie-gare il listello ma solo al massimo della curvatura data dalla circonferenza del barattolo stesso.

Le Pagine DisegnateCurvare i Listelli

Luciano Bragonzi (Lubra)

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Se però abbiamo la necessità di piegare il listello oltre tale raggio non ci riusciamo. Con le varie pinze o scalda-legno esistenti in commercio si riesce a superare questo ostacolo... però si deve spendere! Una soluzione molto più economica è procurarsi un lamierino (di latta) che abbia uno dei lati curvi più lungo dell’altro. In questo modo avremo la possibilità di curve più o meno grandi.

Per il lamierino possiamo tagliare tranquillamente anche una lattina di alluminio di bibita vuota, ed il gioco è fatto.La tecnica poi è sempre la stessa: mettiamo a mollo il nostro listello, accendiamo la candela sotto il

lamierino e dopo alcuni secondi potremo piegare il legno a nostro piacimento, con le curvature deside-rate. Cambio di curvatura = cambio di lamierino.E facciamo sempre attenzione che.... SCOTTA !!!

Le Pagine DisegnateCurvare i Listelli

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Museo Navale Internazionale del Ponente Ligure

Fondato nel 1980 dal comandante Flavio Serafini, già ufficiale idrografo presso l’Istituto Idrografico, occupa attualmente 700 mq, articolati in ampio corridoio centrale e quattordici sale gremite di materiali. Tra gli strumenti esposti nel corridoio, la bussola del veliero Narcissus, su cui fu imbarcato Joseph

Conrad, che ad esso dedicò il romanzo The nigger of the Narcissus. E poi ottanti e sestanti, tra cui il sestante tascabile di Giacomo Bove; uno scandaglio per grandi profondità, modello “Magnaghi”, conces-so dall’Istituto Idrografico della Marina; cronometri e bussole, e un mareografo proveniente dal Genio Civile - Opere Marittime.Il museo raccoglie una gran mole di documenti - diari di bordo, polizze, libretti di navigazione, documenti contabili, patenti, contratti - dalla metà del Settecento in poi; quadri marinari, uniformi, ex-voto, libri e carte nautiche ottocentesche, cimeli e documenti sulla navigazione velica del Capo Horn, e una ricchissima panoramica sui cantieri navali, unita ad attrezzi di lavoro e diorami.

Museo Navale Internazionale del Ponente Ligure

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Museo Navale Internazionale del Ponente Ligure Piazza Duomo, 11 - 18100 IMPERIA - tel. 0183/651541

Orario di apertura:invernale: martedì 09.00-11.00 (per le scuole) - mercoledì 15.30 -19.30 - sabato 16.30 -19.30

estivo: mercoledì 21.00-23.00 - sabato 21.00-23.00Fonte: http://www.sullacrestadellonda.it/musei/imperia.htm

Museo Navale Internazionale del Ponente Ligure

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