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1 Oasi della Parola - Movimento Fac Ottobre - Dicembre 2012 In riferimento all’Anno della Fede: “Le domande di senso” + Diego Bona 1 - PER RISPONDERE ALLE DOMANDE PROFONDE CHE OGNUNO DI NOI SI PORTA DENTRO La porta della fede è sempre aperta e il Vangelo di Gesù ci aiuta ad entrarci. Come all’inizio della Sua predicazione in Galilea, Egli - che è nostro contemporaneo perché ci ha detto: Io sono con voi fino alla fine del mondo - ci ripete: Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo. La lettera che il Papa ci ha scritto per invitarci a varcare la porta della fede ci esorta a riscoprire la fede in tutto il suo valore e la sua bellezza, a conoscerla meglio, a riappropriarcene per farla diventare luce della nostra vita, perché chi trova la fede trova un chiaro orientamento per la sua esistenza. Ci siamo posti però anche il problema di alcuni, e forse anche molti, che fanno fatica a varcare quella porta perché viviamo in un mondo che sembra voler cancellare l’ipotesi di Dio dall’orizzonte della umanità, vivere “come se Dio non ci fosse”. All’inizio del secolo da poco concluso un filosofo aveva affermato: “Dio è morto” e abbiamo vissuto lunghi periodi con la presenza di ideologie contrarie alla fede (marxismo, nazismo, anticlericalismo) cui è seguita la lunga onda della secolarizzazione, che tende a leggere la realtà proprio “come se Dio non ci fosse”. La presenza di tante tradizioni religiose portate dagli immigrati insinua anche la domanda: ma in fondo le religioni non si equivalgono? Ecco allora la proposta: aiutare le persone che sono alla ricerca o vogliono meglio capire, come anche coloro che desiderano confermare la loro fede, a ritrovare le motivazioni e le ragioni della fede (che non deriva certo dalla ragione, ma senza di essa non avrebbe senso). La vorremmo chiamare: per rispondere alle domande profonde che ci portiamo dentro, a cominciare da quella fondamentale: la nostra vita sulla terra ha un senso oppure no? Potremmo elencarne alcune: Da dove vengo e dove vado? Perché vivo? Perché la sofferenza e l’ingiustizia della malattia? Perché la morte? Cosa ci sarà dopo la morte? Se guardiamo dentro noi stessi queste domande affiorano insistentemente e non è neppure facile rispondere, ma sono esigenti ed esigono risposta. Molti sfuggono a questi interrogativi ma è necessario trovare una risposta per dare un senso unitario alla vita. L’uomo è l’unica realtà che ha la coscienza della sua esistenza e quindi si interroga. La pietra e l’albero non si interrogano, e neppure l’animale che vive la sua esistenza guidato dall’istinto. Ma l’uomo si interroga. Anzi, come dice Giovanni Paolo II, soltanto all’uomo appartiene il sentimento del dovere essere, l’urgenza morale a realizzarsi (per gli altri esseri la situazione è solo biologica, ma l’uomo avverte il senso del dovere, del realizzare al meglio la propria esistenza).

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Oasi della Parola - Movimento Fac Ottobre - Dicembre 2012

In riferimento all’Anno della Fede: “Le domande di senso”

+ Diego Bona

1 - PER RISPONDERE ALLE DOMANDE PROFONDE CHE OGNUNO DI NOI SI PORTA DENTRO

La porta della fede è sempre aperta e il Vangelo di Gesù ci aiuta ad entrarci. Come all’inizio della Sua predicazione in Galilea, Egli - che è nostro contemporaneo perché ci ha detto: Io sono con voi fino alla fine del mondo - ci ripete: Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo.

La lettera che il Papa ci ha scritto per invitarci a varcare la porta della fede ci esorta a riscoprire la fede in tutto il suo valore e la sua bellezza, a conoscerla meglio, a riappropriarcene per farla diventare luce della nostra vita, perché chi trova la fede trova un chiaro orientamento per la sua esistenza.

Ci siamo posti però anche il problema di alcuni, e forse anche molti, che fanno fatica a varcare quella porta perché viviamo in un mondo che sembra voler cancellare l’ipotesi di Dio dall’orizzonte della umanità, vivere “come se Dio non ci fosse”. All’inizio del secolo da poco concluso un filosofo aveva affermato: “Dio è morto” e abbiamo vissuto lunghi periodi con la presenza di ideologie contrarie alla fede (marxismo, nazismo, anticlericalismo) cui è seguita la lunga onda della secolarizzazione, che tende a leggere la realtà proprio “come se Dio non ci fosse”. La presenza di tante tradizioni religiose portate dagli immigrati insinua anche la domanda: ma in fondo le religioni non si equivalgono?

Ecco allora la proposta: aiutare le persone che sono alla ricerca o vogliono meglio capire, come anche coloro che desiderano confermare la loro fede, a ritrovare le motivazioni e le ragioni della fede (che non deriva certo dalla ragione, ma senza di essa non avrebbe senso).

La vorremmo chiamare: per rispondere alle domande profonde che ci portiamo dentro, a cominciare da quella fondamentale: la nostra vita sulla terra ha un senso oppure no? Potremmo elencarne alcune:

Da dove vengo e dove vado?

Perché vivo?

Perché la sofferenza e l’ingiustizia della malattia?

Perché la morte?

Cosa ci sarà dopo la morte?

Se guardiamo dentro noi stessi queste domande affiorano insistentemente e non è neppure facile rispondere, ma sono esigenti ed esigono risposta.

Molti sfuggono a questi interrogativi ma è necessario trovare una risposta per dare un senso unitario alla vita. L’uomo è l’unica realtà che ha la coscienza della sua esistenza e quindi si interroga. La pietra e l’albero non si interrogano, e neppure l’animale che vive la sua esistenza guidato dall’istinto.

Ma l’uomo si interroga. Anzi, come dice Giovanni Paolo II, soltanto all’uomo appartiene il sentimento del dovere essere, l’urgenza morale a realizzarsi (per gli altri esseri la situazione è solo biologica, ma l’uomo avverte il senso del dovere, del realizzare al meglio la propria esistenza).

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Senza le domande di senso e la ricerca sincera di una soluzione si finisce di sprecare la propria vita, dominati solo dalle cose immediate, di essere vissuti invano.

È vero che tra gli uomini e le donne del nostro tempo è subentrata una certa fatica del pensare e si è imposta l’illusione dell’effimero (tanto rumore, tanta musica, tanta TV, tanto stordimento…). Questa strada è già stata percorsa da tanti prima di noi, come scrive Biagio Pascal (anno 1500): gli uomini non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza hanno deciso, per poter essere felici, di non pensarci. Pensano che l’unica consolazione che ci resta è il divertimento, che finisce di essere la più grande delle nostre miserie, perché ci impedisce di pensare e ci porta inavvertitamente alla morte.

Alcuni poi pensano che lo sviluppo delle scienze ci porterà a risolvere queste domande, ma nessuna scienza sperimentale, nessun computer il più sofisticato può rispondere a queste domande profonde.

Oppure c’è la tentazione di rifugiarsi nel limbo della ignoranza: ignoramus et ignorabimus, dicevano i Latini.

Ma è insopprimibile dentro di noi la volontà e la tendenza del comprendere e del capire per dare una ragione della nostra esistenza e delle cose che incontriamo nella nostra vita.

Non c’è uscita da questa situazione?

La mente non può arrendersi ma constatiamo la contraddittorietà della esistenza e la enigmaticità dell’uomo (l’uomo questo sconosciuto, intitolava un libro di alcuni anni fa).

“Viene il momento per tutti in cui, lo si ammetta o no, ognuno ha bisogno di ancorare la propria esistenza ad una verità conosciuta come definitiva, ad una certezza morale, non più sottoposta al dubbio” (Giovanni Paolo II).

Basta ricordare la storia di Pinocchio e la figura del grillo parlante che in fondo è la coscienza e quando il burattino lo schiaccia con un martello di legno del padre Geppetto, ne spegne la voce ma l’ombra del grillo parlante ritorna ancora e sempre, nella sua vita, quando incontra i due lestofanti del gatto e della volpe o quando si avvia al paese dei balocchi. Per fortuna incontrerà la fatina che lo porta fuori.

Abbiamo bisogno di capire e di vedere: la verità è una esigenza fondamentale dell’uomo. Basta vedere quello che avviene già nel bambino che continuamente domanda: perché? e non si acquieta finché non trova la risposta.

Ma in questo tempo ci troviamo di fronte a tre questioni che presentano qualche difficoltà nella ricerca della verità.

1. La tendenza positivistica di considerare verità solo quelle che si possono sperimentare, cioè quello che si può toccare e vedere, verificabile all’esperimento. Il resto è ipotesi. Benedetto XVI suggerisce di “allargare gli spazi della razionalità”, perché la conoscenza va oltre la sperimentazione (è anche constatabile nella storia delle scoperte scientifiche perché ragionando sulle nozioni acquisite, si arriva alle ipotesi che poi si rivelano esatte – come è successo per la scoperta del pianeta Nettuno - 1846 Le Verrier). Quando si vuole ridurre il campo di indagine e di ricerca entro i limiti di una posizione ideologica. si riduce lo spazio della scienza e si umilia la forza della ragione (d’altra parte non è così che sono state scoperte le leggi matematiche e sia possibile tutto il calcolo algebrico che rende possibili gli esperimenti spaziali!). La ragione è un occhio spalancato sulla realtà che riceve tutto, ne coglie i nessi e le implicazioni.

2. Nella cultura attuale e nella opinione pubblica la ragione sembra diventata più debole, a causa del relativismo, cioè del giudizio individuale che si estende su tutto e su ognuno e si illude di

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essere giudice del bene e del male (“per me è così… Per me questo non è male…). Diventa rischioso dimenticare che ci sono principi fondamentali che valgono per tutti e in ogni epoca: se non fosse così si aprirebbe la strada all’arbitrio e al sofisma. Il pensiero debole e il relativismo non sono in linea con l’esigenza dell’uomo che tende insopprimibilmente alla verità. Il relativismo è il pensiero filosofico che porta ad escludere la possibilità di principi che abbiano un valore unico ed assoluto nella sfera della conoscenza e del comportamento. In una parola si relega l’uomo in una sfera che gli permette di fare tutto ciò che vuole e andare dove vuole. D’altra parte è una malattia antica della filosofia come si evince dalla polemica di Socrate con i sofisti.

3. Facendo riferimento all’evoluzione, si afferma che l’uomo allo stato attuale è un frammento dell’universo arrivato ad un dato stadio di sviluppo, che ha una lunga storia alle spalle e non sappiamo dove ci porta. Nessuna difficoltà ad accettare la possibilità dell’evoluzione ma occorre anche considerare che oggi, a 5 miliardi di anni dal Big Bang, l’uomo ha raggiunto l’intelligenza razionale e coscienza e noi oggi abbiamo queste doti e queste capacità e dobbiamo rispondere a noi stessi nel momento in cui viviamo. Che ci sia stato un cammino ascensionale nella realtà è innegabile, dalla materia alla vita, alla conoscenza intellettuale e alla coscienza; e non potrebbe essere proprio questo il senso della evoluzione? Noi viviamo adesso con questa capacità di ragionare e dobbiamo rispondere di questa capacità.

4. Né è possibile giudicare la ragione con la ragione perché è l’unico strumento di cui disponiamo e la nostra coscienza individuale ci chiede di metterla a frutto. C’è questa incoercibile tendenza a conoscerla e la ragione è un occhio che spazia su tutto, vuole capire, ne coglie i nessi, le implicazioni, scopre altre verità. Non ci rassegniamo alla superficialità né a quello che dicono gli altri, senza una ragione di credibilità. La conoscenza è adeguamento della mente alla realtà, non costruzione arbitraria. L’esigenza della bontà, della giustizia, del vero, della felicità costituiscono il volto ultimo, l’energia profonda con cui gli uomini di tutti i tempi e di tutte le razze accostano ogni realtà e ogni cosa, al punto che possono vivere tra loro un commercio di idee e possono trasmettersi l’un l’altro la ricchezza a distanza di secoli, così che noi leggiamo con emozione frasi scritte migliaia di anni fa da antichi poeti e pensatori che ci appaiono di attualità sconcertante. Come è possibile tutto questo perché questa esperienza elementare è sostanzialmente uguale in tutti.

Concludendo: occorre mantenere vive le domande e i problemi del senso perché toccano la sfera esistenziale e nessuno ne è escluso. Le domande di senso non sono una fuga, tanto meno una imposizione estranea ed esterna: nascono dalla libertà dell’uomo che viene a trovarsi davanti interrogativi della sua vita a cui deve una risposta in grado di guidare la sua esistenza. Continueremo nella nostra ricerca cercando come l’umanità nella sua storia e nella sua complessità di razze e ambienti diversi ha cercato di rispondere, di trovare un approccio che potesse appagare le richieste del cuore e della mente.

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2 - IL SENSO RELIGIOSO DELL’UOMO

(Come la storia dell’umanità ha risposto alle domande che ci portiamo dentro) Sentiamo profondamente l’esigenza di rispondere alle domande profonde che ci portiamo dentro e non è facile trovare chi ci risponde. Concludevamo la volta passata di: “tenere vive le domande” perché l’uomo ha esigenza di capire e conoscere la verità. Non possiamo arrenderci né partire sconfitti, cioè dire che è difficile rispondere, oppure che “risposta non c’è”: sarebbe un suicidio della mente.

a. Dove rivolgerci per trovare risposta? I libri di scienza o il computer non danno questa risposta, perché trattano solo di cose concrete; d’altra parte, come dice il Santo Padre Benedetto XVI, il sapere della scienza, pur importante per la vita dell’uomo, da solo non basta.

Possiamo rivolgerci ai grandi pensatori, agli esperti di filosofia ma vediamo che le loro risposte sono molto diverse l’una dall’altra: da S. Agostino che afferma che trovando Dio troviamo il centro della nostra vita e della nostra speranza, al francese Sartre che afferma di non perdere tempo nella ricerca di risposte che non possiamo trovare, a Biagio Pascal che sottolinea come il non cercare risposta equivale al suicidio della nostra intelligenza.

Interroghiamo la storia dell’umanità, di come gli uomini nel corso dei secoli hanno cercato di rispondere. Noi non emergiamo dal nulla, altre generazioni ci hanno preceduto, portiamo dentro di noi indicazioni e tradizioni che vale la pena raccogliere, né possiamo trascurare perché è la sapienza dei secoli. L’uomo come natura originale da sempre si interroga per trovare una verità che appaghi la sua ricerca e coincida col desiderio e l’urgenza di una esauriente risposta, perché siamo costretti a vivere tutti i giorni della nostra esistenza dentro la prigione di un orizzonte sul quale incombe una grande incognita, che sembra irraggiungibile.

b. Ritroviamo questa condizione dell’uomo in tanti scrittori, pensatori, poeti, come ad esempio Giacomo Leopardi nella sua poesia “canto di un pastore errante dell’Asia”:

“Dico fra me pensando: a che tante facelle? Che fa l’aria infinita e quel profondo infinito seren? Che vuol dire questa solitudine immensa? Ed io chi sono?”

Questa tensione è lì, a livello di queste emozioni intelligenti e drammatiche, inevitabili, anche se l’ottusità della vita sociale sembra volerle tacitare, come dice un altro poeta, Rilke:

“E tutto cospira a tenere in noi, un po’ come si tiene un’onta, un po’ come si tace una speranza ineffabile”.

In quelle domande l’aspetto decisivo è offerto da interrogativi profondi: qual è il senso ultimo della vita? In fondo, perché, cosa vale la pena che io viva, operi, pensi, cerchi? Ancora la citazione di un poeta, Montale:

“Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello del mare va, né sosta mai, perché tutte le immagini portano scritto: più in là”.

Ciò che l’uomo può raggiungere con le sue sole forze, a proposito del suo destino, non perde mai l’inquietudine di una palude insicura, talvolta angosciosa, in cui è immerso e quanto più si addentra nel tentativo di rispondere e quanto più ne percepisce la potenza, tanto più scopre la propria sproporzione alla risposta totale.

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Diceva Edith Stein (Santa Teresa Benedetta della Croce) martire nel campo di concentramento di Auschwitz: “la filosofia è un modo di camminare sull’abisso”. Eppure in tutti i tempi l’uomo ha cercato di immaginare un rapporto, una relazione che intercorre tra il punto effimero della sua esistenza e il significato totale di essa. Lo afferma anche Einstein, citato da un suo grande amico Francesco Severi: “Chi non ammette l’insondabile mistero non può essere nemmeno uno scienziato”. È quello che diceva anche Galileo, da cui nasce la scienza moderna.

c. Qui nasce il senso religioso dell’uomo. In questa situazione di mistero l’uomo ha di fronte un duplice orientamento (escluso ovviamente quello di non pensarci):

immergersi nel flusso armonico del mondo (è la religione panteista, la tendenza orientale);

oppure nel considerare la propria limitatezza e fugacità prende coscienza del desiderio profondo che porta dentro di sé per una relazione con l’Assoluto, che gli garantisca di partecipare all’infinito e dare perennità al suo breve spazio di tempo. Rischiare cioè di rivolgersi già fiduciosi nella buona disposizione con l’immaginata potenza che guida il mondo e l’uomo.

Il senso religioso contiene due spinte: la prima è far prendere coscienza all’uomo della sua finitezza; la seconda accende e accresce in lui il senso dell’infinito, della speranza di raggiungere il mistero, nella fiducia di avere una risposta di senso che lo possa appagare.

Ripercorrendo la storia dell’umanità vediamo come in tutti i tempi e in tutti i luoghi l’uomo ha cercato e immaginato un rapporto e una relazione che intercorra tra il punto effimero della sua esistenza e la realtà che è il significato totale di essa.

Ritroviamo questo sentimento religioso in tutte le culture e in tutti i tempi della storia e vediamo che, soffocato dalla violenza e dalla visione materialista di ideologie e politiche, riaffiora prepotentemente e insistentemente (vedi la Russia nel secolo passato con 70 anni di ateismo di stato che vede oggi una primavera della sua Chiesa; come l’Albania dopo 40 anni di terrorismo antireligioso del dittatore Oxa, dove oggi rifiorisce la fede; e come il Messico, che ha visto negli anni ’20-30 una fortissima pressione anticlericale ed oggi registra una sorprendente fioritura di vocazioni religiose).

“Il soggetto umano possiede una dimensione umana e sociale, sessuale e politica, economica e artistica. Ma insieme a queste ha una componente religiosa che lo spinge a guardare l’orizzonte ultimo come il navigante la stella polare. In forza di questa componente religiosa l’uomo, unico fra gli esseri, può travalicare l’universo e dirigersi all’infinito nel suo conoscere aspirare ed amare. Una lunga consuetudine di incontri e di dialoghi con uomini religiosi di ogni parte della terra hanno dato a questa mia persuasione il sapore e la certezza dell’esperienza” (Piero Rossano, già Segretario del Consiglio per il dialogo interreligioso).

Perché l’uomo ha dominato i mari, sottomesso le fiere, possiede la parola e il pensiero, costruisce città, si rivolge ora al male ora al bene (Sofocle): ma si direbbe che ha bisogno di qualcuno che gli dia una mano. Non solo per la Bibbia, ma per Socrate e l’Induismo, l’Islam e le altre forme religiose, l’uomo ha bisogno di un soccorso dall’alto per vedere chiaro tra il bene e il male, per superare il muro della morte.

Il senso religioso dell’uomo precede ogni religione strutturata, perché si lega alla domanda che l’uomo pensante non può non porsi sulla vita e sulla morte. Lo vediamo anche nell’affermazione di Emanuele Kant: “due cose si impongono alla mia mente e al mio pensiero: la volta stellata del cielo e l’imperativo del dovere della coscienza” (sono diventati i suoi postulati della ragione pratica).

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Due ricercatori hanno impegnato tutta la vita in questa ricerca sul senso religioso dell’uomo: il romeno Mircea Eliade tra il 1925 e il 1972, studiando culture e tradizioni in ogni parte del mondo per concludere che il sacro è un elemento della struttura della coscienza, e non solo uno stadio della storia della coscienza stessa. Fin dai livelli più arcaici della cultura vivere da essere umano è in sé e per sé un atto religioso, poiché l’alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno un valore sacrale. In altre parole essere, o piuttosto divenire un uomo significa essere religioso.

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3 - L’INELUDIBILE QUESTIONE DI DIO

Considerando la storia dell’umanità vediamo come da sempre l’uomo, che si interroga sul senso della sua vita (le domande profonde che ci portiamo dentro) si orienta verso una realtà superiore, cioè sente il bisogno di qualcuno che gli dia una mano. Troviamo in tutte le culture e in tutte le età della storia qualche forma di religione (è il senso religioso dell’uomo) e “dalle varie religioni l’uomo si aspetta la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano il suo cuore, cercando l’ultimo e inafferrabile mistero che avvolge la nostra esistenza, da dove abbiamo origine e dove tendiamo” (Concilio Vaticano II – Nostra Aetate). Si affaccia all’orizzonte dell’uomo la parola Dio, chiamato con nomi diversi, visto qualche volta in forma politeistica: una presenza perennemente sull’orizzonte umano, che sembra ritrarsi sempre più in là di esso, quanto più lo ricerchi. “Noi cerchiamo l’Assoluto, ma ci aspettano le cose” (Novalis). Secondo tutti i grandi dell’umanità, da Omero ai Veda indiani, da Platone a Buddha, l’uomo si realizza soltanto nello slancio verso il vero, il bene e il bello. Cerca il bene, cerca dove trovarlo, cerca un approdo. Questo è il destino dell’uomo. La domanda se esiste Dio è sensata ed esige una risposta, sia dalla persona credente che deve giustificare la sua fede, come dalla persona non credente che deve motivare l’esistenza delle cose che vede e incontra. Immettersi nella storia dell’umanità che ha ricercato l’esistenza di Dio vuol dire ripercorrere secoli di storia, da Platone a Aristotele, da sant’Anselmo ad Emanuele Kant, da Sant’Agostino a Cartesio. “Chiuso tra le cose mortali, (anche il cielo finirà) perché cerco Dio?” (Ungaretti). Dieci giorni prima di morire suicida Cesare Pavese scrive nel suo diario: “o Tu, abbi pietà”. Che cosa è questo grido verso il Tu eterno espresso nell’ora della angoscia? C’è chi dice: io non credo in Dio, ma credo nella giustizia, nell’eguaglianza, nell’uomo, nella libertà… ma questo è già attribuire a questi valori una realtà assoluta, inviolabile e sacra che viene a coincidere con l’uomo immagine di Dio. “È difficile per l’uomo fare a meno di Dio” (P. Rossano). 1. L’esistenza di Dio si può dimostrare con maggior rigore e certezza della tesi opposta che ne

vorrebbe negare l’esistenza, perché dobbiamo dare una risposta alle cose che esistono, noi e la realtà che sta intorno a noi, le cose che una volta non c’erano e oggi ci sono e che finiranno. Il contesto culturale e scientifico in cui viviamo richiede necessariamente che le prove dell’esistenza di Dio siano coerenti con le conquiste scientifiche che sono state raggiunte. Oggi noi possiamo calcolare l’età della terra e dell’universo che ci circonda, affermare con una certa tranquillità che ha circa 5 miliardi di anni. Siamo in grado di determinare la longevità delle stelle e i gradi della loro evoluzione. In una parola oggi conosciamo con assoluta certezza che l’universo è un processo fisico genetico, storico ed evolutivo: ha cominciato ad essere, si sviluppa e avrà una fine. Ci domandiamo: da dove la sua esistenza? Da se stesso non può dare la risposta né della sua composizione né del suo sviluppo, né della intelligibilità che contiene, che non è data dall’uomo. Rimangono sul tappeto due possibili risposte, una è quella che viene sintetizzata da J. P. Sartre: “ogni essere nasce senza ragione, si prolunga per debolezza e muore per caso”; l’altra deve dedurre che l’universo dipende da un Altro. Non c’è possibilità di fuga. La prima posizione appare quanto mai fragile, di fatto non è una risposta: questo universo c’è, esiste e non proviene dal nulla. Il niente non può produrre qualche cosa, invece il mondo c’è.

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Questo universo però non riesce a dare una risposta da se stesso, né del suo esistere, né della sua natura perché comincia, si sviluppa e perché termina. Siamo necessariamente costretti a ricercare un Essere che sia distinto dall’universo e ne possa giustificare l’esistenza: non possiamo fare altrimenti. La domanda si ingigantisce nel momento in cui si va a verificare l’apparizione della vita. I problemi della biochimica e della biogenetica sono sotto gli occhi di tutti. Davanti alla scoperta della vita ed alla organizzazione della materia restiamo ammutoliti, dalla forma più semplice della vita come la cellula alla scoperta del genoma. Da dove viene la vita? E ancora: l’universo si presenta con una sua propria struttura intelligibile che gli permette di farsi conoscere all’uomo. Ma questa intelligibilità interna dell’universo, questo disegno intelligente inscritto nell’universo da dove proviene? È necessario giungere alla causa che sta all’origine di tutto. Non si offende la ragione nell’affermare che in ultima istanza è necessario porre un essere vivente che può essere origine della vita e del pensiero, mentre è troppo facile dire che la materia si organizza da sé perché una materia che non vive non può dare esseri che vivono, danno vita e che pensano. Dal semplice al complesso, dal diffuso all’organizzato, dal non vivente al vivente, dal vivente al pensante… un processo troppo perfetto per essere lasciato solo al caso. Qui si viene a pronunciare la parola fatidica: il Creatore che sta all’origine di tutto e che tutto muove. Di qui tutta la strada percorsa dalla filosofia: a) un essere “necessario” altrimenti non ci sarebbero gli esseri che oggi ci sono e domani non più; b) I segni di una intelligenza superiore, che conduce questo mondo e dalla materia inerte arriva alla vita e alla coscienza.

2. Ma c’è anche un’altra strada: quella dei segni. Guardando intorno a noi troviamo dei segni, delle tracce di questa Realtà che deve esserci all’inizio di tutto, il Principio, l’Assoluto, il Creatore.

A. Lo stupore

Noi siamo abituati a vedere le cose fin dalla nascita e quindi le consideriamo naturali, ma pensiamo ad un cieco che con una operazione riacquista la vista e si trova di fronte alle cose che lo circondano, una realtà che non è sua, che non dipende da lui eppure c’è e costituisce un dono. Tutto questo non viene da me, mi è dato, e desta in me lo stupore. - (Cfr. il Salmo 8: “O Signore, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra”; - il libro di Giobbe che descrive la creazione; - e la lettera dell’apostolo Paolo ai Romani che dice: “inescusabili sono i pagani perché

vedendo le meraviglie del mondo, posti di fronte alle cose che esistono, non arrivano a Dio”.)

B. Il cosmo, cioè la bellezza

Il mondo non è il caos ma ha un ordine e una armonia. Così l’uomo dopo essersi accorto della complessità delle cose, si accorge che ci deve essere un ordine, che si scopre nelle stelle, nell’organismo, nell’atomo. Una realtà cosmica cioè ordinata, una bellezza e una attrazione che meraviglia la nostra intelligenza.

C. Una realtà provvidenziale

Non solo l’uomo si accorge delle cose, e che sono belle e ordinate, ma constata che gli sono favorevoli (la sera e il mattino, l’inverno e l’estate, la primavera e l’autunno, il caldo e il freddo…): tutto ha un senso che permette all’uomo di sostenersi, di vivere e di riprodursi.

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Come leggiamo nella Bibbia: “fin che durerà la terra semi e messi, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno” (Genesi 8,21-22).

D. L’io dipendente

Avverto che quanto più scendo in me stesso comprendo che non vengo da me stesso ma da un altro che mi ha fatto. Si tratta di una intuizione che lo spirito dell’uomo ha compreso: questo suo essere, questo suo istante, questo suo io è reso possibile perché qualcuno lo ha fatto. C’è qualcuno che è di più di me da cui vengo fatto, come il fiotto da una sorgente. E allora sento di dovermi rivolgere alla sorgente da cui provengo usando la parola “Tu”. “Tu che mi fai” è pertanto quello che la tradizione religiosa chiama Dio. L’uomo si sperimenta “contingente”, che sta in piedi perché si appoggia ad un altro, come il bimbo in braccio a sua madre o che dà la mano al padre.

E. La legge del cuore

Avverto dentro di me una voce che mi dice quello che devo fare e quello che non devo fare, quello che è bene e quello che è male, quello che è giusto e quello che è ingiusto. È qualcosa che mi si impone, mi obbliga a riconoscerlo come bene o male, giusto o ingiusto. Anche i pagani parlano dei “sacri limiti delle leggi mai scritte e non mutabili” (Sofocle, Antigone) - (cfr anche Lettera ai Romani 2, 14-15). Il filosofo Emanuele Kant scrive che due cose lo soggiogano e si impongono alla sua intelligenza: la volta stellata e l’imperativo della coscienza richiamano necessariamente l’esistenza di Dio.

Concludendo: non si offende la ragione nell’affermare che in ultima istanza è necessario porre un Essere vivente che è all’origine di tutto. Resta difficile e inspiegabile l’ipotesi contraria.

La questione di Dio oggi

Mentre nei tempi passati si discuteva animosamente sull’esistenza o meno di Dio, oggi assistiamo ad una eclissi della idea di Dio dall’orizzonte della umanità. La cultura e la società presente sembra portarci a vivere “come se Dio non esistesse” oppure ridurlo ad una questione privata. Benedetto XVI più volte è tornato sulla affermazione che l’uomo, se dimentica Dio, perde l’orientamento della sua vita, come il capitano di una nave che ha perso la bussola in mezzo all’infuriare di una tempesta. Lo diceva già Dostojewski nei suoi romanzi che anticipavano l’avvento della rivoluzione bolscevica: senza Dio l’uomo non ha più nessuna regola. Occorre che Dio torni all’orizzonte della umanità. È l’impegno su cui torna costantemente il pensiero del nostro attuale Papa.

Un’ultima osservazione: abbiamo toccato la questione di Dio. Molti oggi non ci pensano, altri fanno fatica ad arrivarci, altri lo mettono in dubbio. Lo diceva già San Tommaso D’Aquino che pure ha steso le 5 prove razionali della esistenza di Dio che sono tutt’ora inattaccabili. All’inizio della Summa Teologica scrive: la verità che la ragione può raggiungere su Dio di fatto è possibile soltanto per un piccolo numero, e dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori. D’altra parte dalla conoscenza di questa verità dipende tutta la salvezza dell’essere umano, poiché questa salvezza è in Dio. (Per rendere questa salvezza più universale e più certa sarebbe dunque necessario trovare una strada più semplice e più sicura).

Scrive don Giussani: “ciò che l’uomo può raggiungere con le sue forze a proposito del divino e del senso del suo destino, non perde mai l’immagine d’essere entro una palude insicura e talvolta angosciosa in cui è immerso”.

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È la più sintetica espressione della situazione esistenziale della ricerca di senso della umanità. In tanti modi il genio religioso umano ha gridato ad una nostalgia della liberazione da questa prigionia inestricabile dell’impotenza e dell’errore.

C’è una strada più sicura, una via più percorribile per questa nostra ricerca?

Esiste e la cercheremo insieme, perché il destino (meglio dire l’Assoluto) non ha lasciato solo l’uomo ma gli è venuto incontro.

La nostra ricerca continua.

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4 - L’AFFACCIARSI DI UNA PROPOSTA CHE CHIEDE VERIFICA

Nella nostra ricerca sulle motivazioni della fede - la porta che il Papa ci esorta a varcare, sempre aperta, in particolare in quest’anno - siamo partiti dalle domande di senso, dagli interrogativi che ci portiamo dentro e chiedono risposta, non facile a trovare con la nostra mente, con la nostra ragione e nemmeno ricercandola nelle risposte dei grandi maestri del pensiero e della vita.

Abbiamo visto, nel secondo incontro, che in questa situazione da sempre presente nella mente e nel cuore degli uomini, in ogni età della storia e della cultura l’umanità ha cercato un approdo in una Realtà superiore, di cui avverte il bisogno per avere una risposta che l’aiuti nell’orientamento della propria vita (è la nascita del “senso religioso” di ogni uomo).

L’ultimo incontro lo abbiamo dedicato alla questione di Dio, un nome e una realtà che si presenta sempre, e abbiamo cercato di seguire le orme della sua presenza, di fronte a questo mondo così vario e complesso e questo universo che ci circonda. Un mondo che, come ci dice la scienza di oggi, ha avuto un inizio (il Big Bang di 5 miliardi di anni fa), che si sviluppa e che va verso la sua fine e ha bisogno di una spiegazione, anche per la presenza della vita che è una meraviglia che ci sorprende ogni giorno nella sua complessità, del pensiero e della coscienza che esiste nell’uomo. C’è un inno nella liturgia della Chiesa che esprime bene questa convinzione:

“tutto il mondo annunzia Te, Tu l’hai fatto come un segno, ogni cosa porta in sé il sigillo del tuo Regno”.

Se nell’impatto con la conoscenza dell’uomo il mondo costituisce un segno, un’orma, una traccia di Qualcuno che è alla sua origine, dobbiamo concludere che ci deve essere una Realtà grande, viva e sapiente che tutto ha originato e tutto sostiene. Il vertice della conquista della ragione è la percezione di questo Essere ignoto, che sembra irraggiungibile. È l’idea del “mistero” che non è un limite alla ragione ma una esigenza del suo ricercare, anche se sembra allontanarsi quanto più lo ricerchiamo. Come scrive Einstein: “la più bella e la più profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero: sta qui infatti il senso di ogni arte e di ogni vera scienza”. Per quanto ignoto, enigmatico, velato sia questo Altro, questo “Tu” cui si rivolgeva Pavese angosciato dalla morte, è innegabile che costituisce il termine cui tende l’impegno umano. A. Nell’ultimo incontro si sono affacciate alcune domande: come mai molti non accettano Dio,

non ci pensano, addirittura lo negano? Ci sono alcuni motivi che vanno considerati. La nostra società e cultura attuale tende a togliere l’idea di Dio dall’orizzonte della umanità, cioè come un’ipotesi inutile oppure valida nella sfera privata. Così molta gente è orientata a non pensarci, tanto più se qualcuno è inclinato al male e non gli conviene turbare la sua coscienza con un Essere che è giudice del bene e del male. Ma c’è anche una tendenza positivistica della scienza e della ricerca che sostiene la possibilità di conoscere solo quello che possiamo sperimentare, vedere, toccare e verificare materialmente. È ovvio che questa riduzione dello spazio della conoscibilità da parte della mente dell’uomo gli impedisce di raggiungere la verità della giustizia, dell’amare, del dono di sé, del bene e del male. Come già diceva Dante: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Divina Commedia). C’è una seconda ragione anche più insidiosa: dipende dai preconcetti che abbiamo in mente, in fondo dalla nostra volontà e libertà.

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Lo diceva già Gesù a quelli che chiedevano con insistenza: “dacci un segno di quello che sei” ed egli rispondeva: “Ve ne ho dati tanti, ma voi non volete credere”. Di fatto l’uomo nella sua libertà accetta, afferma e crede quello che ha già deciso di accettare. O andiamo alla ricerca della verità senza pregiudizi, come il bambino che chiede sempre il perché e accetta la spiegazione del padre e della madre, oppure partiamo con una preclusione a quello che ci viene detto e che incontriamo, con fuoco di fila dei “ma e se”, di obiezioni che impediscono di vedere quello che realmente avviene. Dobbiamo essere liberi dentro, per poter vedere e giudicare le cose e non partire da preconcetti. (Il proverbio dice che nessuno è più cieco di chi non vuol vedere e più sordo di chi non vuol sentire). Il dubbio sistematico poi è un suicidio e non vale nella vita: infatti ci fidiamo dei prodotti che compriamo e delle medicine che ci vengono date dal medico, e il ricercatore scientifico raccoglie le scoperte fatte precedentemente da altri prima di lui. Non c’è nulla di più patologico, altrimenti la vita sarebbe impossibile. (Sarebbe un ragionare come Pirandello che scrive “Uno, nessuno centomila” e “Così è se vi pare”.) È il “bel rischio della fede”: quando ci sono le ragioni sufficienti e chiare è possibile fare questo salto nella fede, perché se cerchi l’evidenza (due più due fa quattro) non è più fede. Quanto sopra abbiamo esposto aiuta a comprendere come possiamo arrivare alla conoscenza di Dio, come si esprime l’Apostolo Paolo parlando all’Areopago di Atene: “Dio creò gli uomini dotandoli di intelligenza, perché possano cercarlo, se mai arrivano a trovarlo, come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi”.

Concludendo, come già abbiamo detto l’altra volta: il mondo c’è ed esige una spiegazione. Tanti segni e tante tracce portano ad una realtà più alta. La ragione, per essere fedele alla sua naturale sete di verità, arriva a capire l’esistenza di un Altro che tutto sostiene e per cui tutto si spiega.

B. Ma dicevamo anche con Tommaso d’Aquino che “la verità che la ragione può raggiungere su Dio sembra di fatto possibile solo per un piccolo numero, e dopo molto tempo e non senza mescolanze di errori”. D’altra parte dalla conoscenza di questa verità dipende la salvezza dell’essere umano, poiché questa salvezza è in Dio. Per rendere questa salvezza più universale e certa “sarebbe dunque necessario insegnare agli uomini la verità divina con una divina rivelazione” (Summa teologica 1,1). È la più sintetica descrizione della situazione esistenziale del senso religioso dell’umanità. In tanti modi il genio religioso umano ha gridato la nostalgia di una liberazione da questa prigionia inestricabile che la nostra mente avverte. Forse l’espressione più potente è quella che si trova nel Fedone di Platone, dove racconta del dialogo di Socrate coi suoi ascoltatori: “pare a me, o forse anche a te Fedone, che la verità sicura in queste cose nella vita presente non si possa raggiungere in alcun modo, o per lo meno con grandissima difficoltà. Però io penso che sia una viltà il non studiare sotto ogni rispetto le cose che sono state dette in proposito, o lo smettere di ricercare prima di aver esaminato ogni mezzo. A meno che non si possa con maggior agio e minore pericolo fare la traversata di questo mare insidioso della ricerca della verità con qualche più solido trasporto, una zattera più sicura, con l’aiuto cioè di una parola rivelata da un Dio”. (Platone, Fedone 35) Questo scriveva Platone il grande filosofo greco, 400 anni prima di Cristo.

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C. Di fatto l’esigenza di una rivelazione sottende l’attesa di una risposta adeguata a quel bisogno di senso della vita che non può essere braccato o raggiunto dall’uomo, né come conoscenza teorica, né come competitività di forza. Unico aiuto adeguato alla riconosciuta impotenza esistenziale dell’uomo non può essere che il divino stesso, quella divinità nascosta, il mistero, che in qualche modo si coinvolga con la fatica dell’uomo illuminandolo e sostenendolo nel suo camminare. Di fatto l’attesa, la speranza, l’esigenza di una rivelazione accompagna tanta storia dell’umanità, cioè il bisogno di una via più facile e più praticabile per ricercare le verità profonde cui la mente e il cuore dell’uomo aspirano. D’altra parte è una ipotesi perfettamente ragionevole, perché la ragione non può dire nulla di ciò che il mistero possa o non possa fare: proprio per essere fedele a se stessa, non può escludere nulla di ciò che il mistero possa intraprendere. Se la ragione pretendesse di imporre una misura al divino, ad esempio un impossibilità di questo ad entrare nel gioco dell’uomo per sostenerlo nel suo cammino, se arrivasse alla negazione della possibilità della rivelazione, sarebbe l’ultima estrema forma di idolatria, l’estremo tentativo della ragione di chiudersi orgogliosamente in se stessa. Sarebbe di fatto il gesto supremo di irrazionalità. Il presentimento o l’affermazione di questa ipotesi di aiuto per l’uomo sta nel cuore della più grande arte di tutti i luoghi e di tutti i tempi: da Platone a Sant’Agostino, da San Tommaso a Leopardi si può leggere il grido della ragione che si lancia verso questa attesa che in varia misura emerge nella storia dell’umanità, tanto essa è razionale, tanto è secondo la nostra natura.

Percorrere questa storia nella vita della umanità comporterebbe una lunga ricerca: ci limitiamo a qualche accenno. L’uomo ha sempre espresso nella sua storia la convinzione di poter essere illuminato dal tutt’altro da sé, l’Ignoto, in quanto esso può manifestarsi nella realtà. “L’uomo - osserva Julien Ries - conosce il sacro perché il sacro si manifesta, un atto misterioso per cui il “tutt’altro” si manifesta in un oggetto o in un essere di questo mondo profano”.

Così il Mito è stato vissuto nella storia come il grande strumento rivelativo del mistero: “i miti hanno la funzione di destare e mantenere la coscienza di un mondo diverso dal mondo profano, il mondo divino”. (Mircea Eliade)

L’uomo ha sempre riconosciuto che per il contatto con il divino c’è bisogno del tramite di altri uomini. “Esistono degli specialisti del sacro, uomini capaci di vedere gli spiriti, di incontrare gli dei, di scendere agli inferi e di combattere la malattia e la morte” (Mircea Eliade). Dice la Donna W, della antica forma di sciamanesimo cinese: “con grandi slanci scende il mio dio. Oh eccolo! Tutta luce e splendore così chiara e senza limiti.”

Significativa della profondità quasi sconvolgente del desiderio umano di rivelazione è, nel contesto delle religioni della antica Grecia, l’esperienza dionisiaca, i misteri di Dioniso, largamente diffusi anche nel mondo romano: “poiché si tratta di scoprire quanto la natura tiene nascosto, come è possibile penetrare questo segreto se un dio non lo rivela?”

Ciò che accomuna gli iniziatori di religioni è la certezza di essere portatori di una essenziale rivelazione di un dio.

Così Zarathustra per la religione eranica dichiara di ricevere la rivelazione della nuova religione direttamente da Ahuura Mazda.

Mani, fondatore del manicheismo, parla delle rivelazioni ricevute all’età di 12 e 24 anni quando un angelo gli manifestò i messaggi ricevuti dal “re del paradiso di luce”.

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Il Corano descrive i modi della rivelazione: “a nessun uomo dio può parlare altro che per rivelazione, o dietro un velame, o invia un messaggero il quale rivela col suo permesso quello che lui vuole”.

Da ultimo citiamo la certezza rivelativa della fede di Israele, la più familiare all’occidente cristiano. Il credo di Israele sceglie la storia e il tempo come ambito privilegiato entro cui Dio si rivela, attraverso i Patriarchi e i Profeti.

D. Abbiamo visto nel corso della nostra ricerca che, nel nobile sforzo razionale e morale che esprimono, tutte le religioni sono degne di rispetto, hanno la loro verità e che l’uomo, spinto dalle esigenze della sua umanità, cerca di avere una religione.

Abbiamo poi visto che l’esigenza di una rivelazione è presente nelle diverse esperienze religiose. Cioè l’uomo cerca una strada più percorribile e più adatta per incontrare il mistero.

Nella libertà e pluriformità dei tentativi e dei messaggi religiosi, se c’è un delitto che una religione può compiere è quello di dire “io sono la religione, l’unica strada”.

È esattamente ciò che pretende il cristianesimo. Di conseguenza non è ingiusto sentirsi ripugnare di fronte a questa affermazione. Ingiusto

sarebbe il non domandarsi il perché di tale affermazione, il motivo di questa grande pretesa.

È quanto andremo a considerare nel prossimo incontro che potrebbe intitolarsi: All’origine della pretesa cristiana.

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5 - UNA IPOTESI CHE NON È PIÙ UNA IPOTESI

Abbiamo considerato nel corso della nostra ricerca che nel nobile sforzo dell’uomo che cerca di dare una risposta alle domande inquietanti che si porta dentro, soffrendo l’incertezza del dubbio e della insicurezza, si rivolge ad un Essere Superiore (Mistero, Destino, Realtà ultima) con la religione, cercando strade per raggiungerlo, molto diverse l’una dall’altra, ma tutte degne di rispetto, come piste diverse per arrivare alla vetta di un monte. Lo dice anche l’Apostolo Paolo nel suo discorso all’Areopago di Atene parlando del “Dio ignoto” cui ha visto eretto un altare ad Atene: Dio ha creato l’uomo perché lo possa ricercare “anche a tentoni” se mai lo possa trovare. Perché, come abbiamo considerato nelle volte passate, la strada è difficile e “solo per un piccolo numero è possibile trovarla, e con grande sforzo, mentre è cosa estremamente importante, in quanto trattasi della salvezza dell’uomo” (San Tommaso d’Aquino). A meno che il destino, o questa Realtà Superiore, venga incontro all’uomo, come diceva già Socrate a quanti lo interrogavano, onde “fare la traversata di questo mare oscuro che ci separa dal mistero, su una zattera più sicura, un mezzo più facile cioè una voce che viene dall’alto” (vedi Platone nel Dialogo “il Fedone”).

Questa ipotesi è un presentimento che sta nella più grande arte e religiosità di tutti i tempi, dalla filosofia greca di Socrate e Platone (400 anni prima di Cristo) a Leopardi e Pavese scrittori del nostro tempo. Una ipotesi che va considerata: che questa enigmatica presenza che incombe sulla umanità (l’abbiamo chiamata l’ineludibile questione di Dio) venisse incontro all’uomo con la sua voce, con la sua presenza, con l’indicazione chiara per poterlo raggiungere. Non possiamo dire in partenza: non è possibile, perché non possiamo mettere un limite al divino, e sarebbe una arroganza della ragione chiudersi in se stessa pensando di essere capace a risolvere un problema che non trova soluzione. Dobbiamo cercare attentamente e verificare se questa ipotesi si è avverata, cioè se è avvenuta nella storia della umanità.

Ebbene, il cristianesimo si propone proprio come un fatto, come un avvenimento: questo è avvenuto. Scrive il filosofo danese Kierkegaard nel suo diario: “la forma più bassa dello scandalo, umanamente parlando, è lasciare senza soluzione il problema attorno a Cristo. Che il cristianesimo sia stato annunciato, che tu ne abbia sentito parlare significa che devi prendere posizione di fronte a Cristo, perché il fatto che egli sia esistito e ti abbia parlato è la decisione di tutta la nostra esistenza”. Impedirebbe ad un uomo di essere se stesso ragionevole e responsabile dire: non mi interessa, oppure non cercare la verifica, perché occorre dare una risposta di fronte ad un fatto avvenuto. D’altra parte non potrai mai essere convinto della tua adesione a Cristo se non ti sei dato una risposta a questo interrogativo.

Ebbene questa è la pretesa cristiana: un fatto, un avvenimento accaduto nella storia nella persona di Cristo. Che un uomo abbia affermato di essere venuto da Dio e questo venga ritenuto un fatto vero e presente esige una presa di posizione. C’è chi sorride con sufficienza, c’è chi deride come fosse una vuota credulità, c’è chi dice: non mi interessa… ma tutto questo non è onesto.

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È vero che la nostra cultura e società occidentale, permeata di secolarismo, tende ad allontanare questo problema o al massimo accantonarlo nella penombra di una Chiesa, ma non è degno della ragione e della responsabilità dell’uomo. Perché questo è il problema fondamentale: che Cristo sia esistito e ci abbia parlato richiede una decisione che è la più vera e autentica che possiamo prendere nella nostra vita.

Se qualcuno dice: questo è dispotismo, intolleranza, arroganza, prepotenza… ma è prepotenza dare notizia di un fatto accaduto per quanto possa sembrare impossibile? Anche perché se questa ipotesi è possibile, è una via favorevole all’uomo, perché diventa più semplice ascoltare ed apprendere la verità invece di ricercarla con le nostre sole forze che non arrivano mai a conclusione; è più chiara e più completa in quanto viene dalla fonte di ogni verità e non comporta tutta la fatica che siamo andati considerando negli incontri precedenti.

Inoltre non porta a disprezzare le altre vie di accesso a Dio, che sono tutte sforzi di buona volontà, come un insegnante che a scuola assegna un compito difficile che gli alunni, con tutta la loro buona volontà vogliono portare a termine ma lo fanno in maniera incompleta. L’insegnante propone poi la soluzione, come deve essere fatto, ma tiene in conto lo sforzo degli alunni anche se uno non è arrivato a risolvere l’intero problema. Ecco perché sono degne di rispetto tutte le forme religiose che l’uomo ha espresso. Inoltre non diventa più una arroganza e un delitto affermare che la via indicata da Dio è l’unica strada, proprio perché discende dalla sorgente dell’essere e della verità.

Ora l’annuncio cristiano dice proprio questo: sì, questo è avvenuto. Quando è uscito il catechismo olandese negli anni 60, un tentativo di parlare della religione cristiana alla gente di oggi, l’inizio suonava così: “corre per il mondo la sorprendente notizia che Dio ci è venuto incontro in Gesù Cristo”, perché tutti siano salvi, tutti amici e chiamati ad essere figli.

Arrivati a questo punto non ci troviamo più di fronte ad un problema teorico, cioè filosofico o morale, ma a un problema storico e allora la prima e fondamentale decisione diventa questa. Chiederci: è veramente accaduto o no? Si è verificato questo fatto o no? Questo ci porta a riferirci a quella pretesa senza paragoni che è Gesù di Nazareth, che ha affermato di essere venuto dal cielo, da Dio: è un problema che deve essere affrontato, valutato e risolto. Lo scrittore russo Dostojewski, all’inizio del 900 scriveva: “la fede si riduce a questo problema angoscioso ma stringente: un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio alla divinità del Figlio di Dio Gesù Cristo?” Che Cristo sia esistito e ci abbia parlato, che Cristo abbia detto o no di essere venuto da Dio e di essere il Figlio di Dio, che questo sia accaduto e che ci raggiunga anche oggi è un problema di storia e di verifica storica e perciò questo deve essere il metodo corrispondente alla natura e alla importanza del problema. Cristo è l’unico caso della storia che un uomo si sia non genericamente divinizzato (lo facevano anche gli imperatori romani e altri nella storia), ma sostanzialmente identificato con Dio. C’è una annotazione che vale la pena fare: quanto più un uomo è “religioso” tanto più sente e afferma la sua distanza da Dio, la sua povertà e indegnità, a meno che sia non sano di mente, un esaltato. In Cristo noi vediamo da una parte la massima affermazione della sua identità: venuto dal Cielo per rivelarci l’amore del Padre, talmente unito a Dio da poter dire all’apostolo Tommaso che lo interroga: “mostraci il Padre e ci basta”; ed ecco la risposta di Gesù: “Tommaso, sono tre anni che sto con voi: e ancora non hai capito: chi vede me vede il Padre!” E insieme la massima umiltà fino a dire: “io sono in mezzo a voi come uno che serve… il Figlio dell’uomo è venuto non per essere servito ma per servire e dare la vita per molti”.

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A questo punto si apre tutto il campo della verifica storica su Gesù di Nazareth, su quanto ha detto e ha fatto e se è ragionevole credere alla sua parola.

È la porta della fede e ci invita ad entrare, ma abbiamo tutto il diritto e anche il dovere di chiederci se tutto questo è ragionevole ed accettabile alla nostra mentalità di uomini del 21° secolo. Perché la fede va oltre la ragione, ma la fede senza la ragione non è neppure fede.

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6 - ALLA PORTA DELLA FEDE: “Voi chi dite che Io sia?” (Mt 18)

Ci siamo proposti un cammino di ricerca per trovare risposta alle inquietanti domande di senso che ci portiamo dentro. Sentiamo il bisogno di una risposta per orientare la nostra vita di fronte a questo interrogativo: perché vivo? Ha un senso questa mia esistenza?

Abbiamo trovato che da sempre l’umanità, trovandosi smarrita e incerta di fronte al suo destino in questa ricerca, si è rivolta verso una realtà superiore che non conosce ma di cui sente il bisogno per trovare un punto di riferimento. È il senso religioso dell’uomo, presente ovunque e in tutta la storia, e che, anche quando è violentemente represso, come abbiamo visto nell’ultimo secolo, riaffiora appena sono cadute le ideologie del momento. Incombe su di noi “l’ineludibile questione di Dio”, pensato e chiamato in molti modi, perché sentiamo la necessità di una Realtà, di una presenza che possa spiegare il mondo e l’uomo (questo mondo che un tempo non c’era e oggi c’è e va verso la fine: da dove viene? E la vita e la coscienza umana da dove vengono? E il disegno intelligente che scopriamo nella natura e che Alberto Einstein vedeva talmente grande che a paragone di questo tutta la nostra scienza e conoscenza sono insignificanti?). Anche Emanuele Kant confessava che la volta stellata e l’imperativo della coscienza costituiscono due presupposti categorici nella nostra ricerca. Di qui la presenza di tante religioni che sono strade per giungere a Dio, come diceva l’apostolo Paolo ai sapienti dell’Areopago di Atene: Dio ha dato intelligenza all’uomo perché lo possa cercare, anche a tentoni, per poterlo trovare. In tutta questa fatica difficilmente l’uomo arriva ad una serena certezza, e questo può essere possibile solo per “un piccolo numero e dopo molta fatica e non senza errore”, a meno che questa Realtà superiore (che può essere chiamato mistero, destino, Dio) venga incontro alla ricerca dell’uomo indicando una strada più facile e percorribile per arrivare alla verità, con una rivelazione, una voce che viene dall’alto. Questa speranza e attesa è presente nella più grande riflessione filosofica e nell’arte di tutti i secoli, da Socrate (400 anni prima di Cristo) a Leopardi, Ungaretti e Pavese dei giorni nostri. E allora: sarebbe una via più sicura esente da errori, meno faticosa perché non è frutto dello sforzo dell’uomo ma ascolto, e diventa praticabile per tutti.

“Corre per il mondo la lieta notizia che questo è avvenuto, che Dio ci è venuto incontro in Gesù di Nazareth” (Catechismo olandese 1960). Se questo fatto fosse avvenuto sarebbe non degno dell’uomo non verificarlo (Kierkegaard) circa la storicità e credibilità. Siamo qui di fronte all’affermazione del cristianesimo che Dio ci è venuto incontro in Gesù di Nazareth. Occorre verificare se è vero e se c’è ragione sufficiente per accettare questo avvenimento. Questo giustificherebbe anche la pretesa cristiana di essere la religione vera, che non è disprezzo per le altre che sono onesti e lodevoli tentativi dell’uomo per arrivare alla verità, ma ha la garanzia di essere una parola che viene da Dio.

Siamo arrivati alla porta della fede: accettare o no Gesù di Nazareth come Salvatore e Signore? Tre domande ci stanno davanti:

a) Chiederci chi è e che cosa dice Gesù Cristo.

b) La verifica storica su questo avvenimento.

c) Se è ragionevole accettare la Sua proposta.

Sono le tre domande che ci faremo quest’oggi. 1. La statura e la figura di Gesù

2. La verifica storica su quello che ha detto e ha fatto

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3. Se è ragionevole accettarlo nella identità con cui si presenta: venuto da Dio e che ci parla

in nome di Dio.

1) La Figura di Gesù

Dobbiamo riconoscere come, anche ai nostri giorni, la figura di Gesù continua a godere di un alto indice di gradimento. Religione, Chiesa, Dio sono sottoposti nella cultura e società di oggi a discussione e critica, mentre la figura di Cristo resiste a ogni contestazione. Scrive il Catechismo dei giovani: “In questo nostro secolo in cui sono caduti molti idoli e non pochi miti individuali e collettivi Gesù resta sempre, per moltissime persone, la figura più affascinante per la storia dell’umanità”. Anche persone che non sono vicine alla fede cristiana lo riconoscono: Benedetto Croce afferma che il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto; il filosofo Hegel lo considera il cardine della storia “fin qui giunge la storia e di qui ricomincia”; Nietzsche, che ha proclamato “Dio è morto”, lo considera il padrone invisibile che governa la nostra razza. Effettivamente emana un fascino dalla persona di Gesù e potremmo dire che come Lui non c’è nessuno. Leggendo i Vangeli incontriamo in lui la massima autorevolezza, tanto che la gente ascoltandolo si chiedeva da dove veniva questo linguaggio nuovo, “come di uno che ha autorità”. Ci meraviglia la sua grande saggezza e sapienza, perché parla a tutti con un linguaggio semplice, comprensibile anche ai piccoli (le parabole) ed è pronto a rispondere su ogni domanda insidiosa che gli pongono i suoi oppositori. Ci meraviglia la sua padronanza su tutte le cose, la sua potenza nell’operare, così da comandare al vento e al mare, guarire ogni sorta di infermità, moltiplicare i pani e risuscitare Lazzaro, che egli porta a conferma della testimonianza di Dio sulla sua missione. Ci sorprende il massimo livello di intransigenza nelle condizioni che chiede ai suoi discepoli per seguirlo e nell’interpretare la legge di Mosè, che è la legge ricevuta da Dio (“è stato detto… ma io vi dico”), unita alla profonda umanità nell’accogliere ogni persona, anche chi ha molto peccato, restituendola col perdono alla sua dignità; il suo amore senza limiti, che lo porta a dare la sua vita per noi. Parla di Dio con accenti che ci meravigliano: che è Padre, che conosce ciascuno di noi e sa quello di cui abbiamo bisogno, che ci perdona sempre, che riserva il regno ai poveri, il primo posto ai piccoli, il perdono ai peccatori, l’intelligenza agli incolti. Come ci sorprende la sua preghiera: tutto il giorno impegnato nella predicazione, nelle guarigioni, nel colloquio con le persone che lo cercano, riserva la notte o le prime ore del mattino per la preghiera; come restiamo ammirati incontrandolo sempre in mezzo alle persone che sono in difficoltà, gli ultimi (i piccoli, i poveri, i malati, i peccatori, le donne che non godevano di stima da parte dei rabbini e maestri del tempo). Una persona che affascina, cui nessuno regge al confronto, e spiega la domanda che tutti si facevano: chi è costui?

2) La verifica storica

Le fonti a cui attingiamo la conoscenza di Gesù sono piuttosto scarse nella storiografia del tempo. Lo ricordano Tacito che parla del suo supplizio sotto Tiberio, Svetonio che racconta come gli Ebrei furono cacciati da Roma per una controversia riguardo ad un certo Cristo, Plinio il giovane che scrive all’imperatore circa i cristiani che si rivolgono a lui come a Dio. Anche lo storico Flavio Giuseppe parla di Lui, ma la sua testimonianza è controversa così come il Talmud babilonese, che lo descrive in maniera ostile. La fonte principale ci è data dai Vangeli, nella quadruplice redazione di Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Sui Vangeli non c’è stata questione fino al secolo XVIII, perché ritenuti da tutti come testimonianza autorevole, ma con l’avvento dell’illuminismo le cose cambiano e con Reimarus

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(1768) viene posto per la prima volta il problema di Gesù storico, leggendo i vangeli fedeli al dettato illuministico della “religione nei limiti della pura ragione” (E. Kant) e la persuasione che la religione di Cristo e la religione cristiana sono due cose diverse. Così è iniziata una proliferazione di scritti che narrano la vita di Gesù fermandosi ai presupposti unicamente naturali e razionali e ne sono venute fuori tante immagini di Cristo (laico-umanistica che considera Gesù un uomo unico e incomparabile ma solamente uomo; marxista che lo vede come un portatore di un messaggio di alto potere rivoluzionario; politico come un rivoluzionario non violento con tendenze anarchiche, annunciatore della fine del mondo; ed altre di questo genere). Presentando un bilancio di tutte queste ricerche, all’inizio del ‘900, A. Schweitzer afferma che esso è del tutto fallimentare e che il Gesù della storia che i vari autori pretendevano di aver delineato non era altro che il riverbero delle idee dei singoli ricercatori, che scrivevano quello che in realtà avevano già in mente. Nel secolo XX la ricerca è stata impostata su basi nuove, iniziando con alcuni protestanti tedeschi e poi proseguita con impegno anche dai cattolici, una ricerca rigorosa e appassionata che è approdata alla conclusione che le vicende del Gesù terreno non furono travisate dalla comunità cristiana, ma interpretate alla luce della risurrezione (Bornkamm). Il clima è decisamente mutato rispetto allo scetticismo imperante di qualche tempo fa. Gli studiosi sono generalmente persuasi che tra Gesù storico e l’annuncio della Chiesa primitiva vi è continuità. Gli studiosi hanno messo a punto dei metodi e dei criteri che ci permettono di raggiungere con sufficiente certezza il messaggio e la persona del Gesù storico. È risaputo che i Vangeli sono stati scritti alla luce della risurrezione e di conseguenza la vita di Gesù viene letta tenendo conto di questo fatto unico nella storia. Sarebbe interessante leggere la valenza di questi criteri di ricerca, ormai accettati da tutti gli studiosi seri sull’argomento, cosicché la fede non è sospesa in aria, ma si fonda sulla vicenda e sulla persona di Gesù Cristo. La ricerca storica ha per scopo di accertare se la vicenda di Gesù abbia o no solido fondamento nella vita di Gesù e nella sua storia. Possiamo qui accennare ad alcuni di questi appassionati ricercatori: Kasemann, Bornkamm, Jeremias, Ricciotti, Martini, Garrigou-Lagrange, Grandmaison, Guitton, Latourelle, Lambiasi, Segalla, R.Penna, Schillebeeckx. Anche l’opera “Gesù di Nazareth” di Benedetto XVI tiene in conto il metodo storico-critico.

3) Se è ragionevole accettare l’identità con cui Gesù si presenta (venuto da Dio, che parla in

nome di Dio, figlio di Dio)

In tutta la storia di Israele è forte l’attesa della promessa di Dio di un Messia, un profeta come Mosè, che salverà il suo popolo. Gesù non si è mai presentato come Messia, perché nel tempo in cui è vissuto il Messia veniva atteso come un liberatore del popolo dalla servitù sotto l’occupazione romana, che era molto sospettosa della irrequietezza della popolazione di Israele. Ha chiesto sempre di non divulgare i prodigi, le guarigioni e i miracoli che operava, perché sarebbe stato un pretesto per toglierlo di mezzo. Ha accettato il riconoscimento di Pietro: “tu sei il Cristo, il Figlio di Dio benedetto”. Agli inviati di Giovanni il Battista che riportavano la domanda del profeta: “sei tu che devi venire o ne aspettiamo un altro?”, risponde invitando a vedere quello che sta facendo: i ciechi vedono, gli storpi camminano, i muti riacquistano la parola e i poveri sono evangelizzati. Sono i segni che il profeta Isaia enumera per riconoscere il Messia. Di fronte a Caifa, nel processo nel Sinedrio, afferma di essere il Cristo, in quanto non c’è più nessun pericolo di interpretarlo in modo sbagliato. In più Gesù non ha mai detto di essere il Figlio di Dio, perché il rigido monoteismo del popolo Ebraico non avrebbe minimamente accettato questa affermazione, ma ha usato una intelligente pedagogia nel definire la sua identità, con espressioni implicite e concrete su quello che poi

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avrebbe confermato chiaramente, nei gesti che compiva e nell’insegnamento ai suoi discepoli e a quanti lo ascoltavano.

Il messaggio centrale di Gesù è il Regno di Dio. Comincia la sua predicazione dicendo: il tempo è

compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo. Regno di Dio non è

questione di territorio e governo, ma è sinonimo di giustizia, speranza, salvezza, bene e pace. È

il tema dominante del messaggio di Gesù che non solo annuncia il Regno ma lo dice presente e

legato alla sua attuale missione, e che lui in persona è l’inizio del Regno che viene (“il Regno di

Dio è in mezzo a voi… se io caccio i demoni in nome di Dio vuol dire che il Regno di Dio è giunto

fino a voi”). Così le opere che Gesù compie (guarigioni e miracoli) sono i segni del Regno di Dio

che irrompe nella storia.

Il suo atteggiamento circa la legge di Mosè, che per Israele è tutto, denota una grande libertà

nel discorso della montagna (“è stato detto ma io vi dico”), nella questione del sabato dove

guarisce nonostante la contestazione degli Scribi e dei Farisei (“il figlio dell’uomo è signore

anche del sabato”), nel mettersi al di sopra della legge sulla questione del divorzio. Gesù non si

pone mai contro la legge ma di fatto rivendica una autorità che lo pone inevitabilmente al di

sopra della legge e questo inaudito superamento lo contraddistingue in maniera unica, aprendo

uno squarcio sul suo mistero.

Anche nella chiamata dei suoi discepoli e nelle condizioni di adesione che loro richiede

(abbandono di tutti gli averi, non amare il padre e la madre più di lui, disponibilità a perdere la

vita per lui…) dimostra la coscienza non soltanto di essere sopra l’obbedienza della legge ma al

posto di Dio, come anche nel gesto di purificazione del Tempio che si può leggere come la fine

della funzione del Tempio e l’affermazione che la salvezza è in relazione stretta con la sua

presenza e la sua missione.

Per arrivare all’affermazione che la salvezza dipende dal professare la fede in lui (Mt 12,32 – Mc

8,18 – Mt 25 giudizio finale).

Lo scandaloso comportamento, secondo gli Scribi, i Farisei e i ben pensanti nell’accogliere i

peccatori e sedere a mensa con loro (un segno di accoglienza che significa comunione, simpatia,

amicizia e perdono), come insegna del Padre suo nelle parabole della pecorella perduta, della

dramma ritrovata e del figliol prodigo. Manifesta cioè di essere colui che agisce come Dio e

inaugura la stagione della salvezza.

Chiede agli uomini di decidersi per Dio e questa decisione si attua nel rapporto che gli uomini

hanno con Gesù stesso (“chi si vergognerà di me… anch’io non lo riconoscerò davanti al

Padre”): accogliere Gesù è pertanto determinante per la salvezza finale.

Dalle parole di Gesù proclamate con autorità e dai gesti che compie emerge la “cristologia indiretta” sulla sua identità di Figlio di Dio.

Da dove viene questa sua convinzione? Dalla coscienza della relazione unica, senza termini di paragone, che Gesù ha con Dio Padre che chiama “Abbà”, da come lo descrive “Padre mio e Padre vostro”, dalla parabola dei vignaioli omicidi, dalla affermazione “tutto mi è stato dato dal Padre e

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nessuno conosce il Padre se non il Figlio e quelli a cui il Figlio lo vuole rivelare” (Mt 11,27), una consapevolezza di essere in modo unico e singolare il destinatario e il mediatore del Padre che si traduce nelle parole: “sono venuto… sono stato inviato… beati i vostri occhi che vedono e i vostri orecchi che sentono…” e fanno vedere come egli non si concepisce dal basso ma dall’alto.

Dobbiamo però affermare che l’identità di Gesù non è la conclusione di un sillogismo, o come una equazione di matematica: egli lascia la libertà di accoglierlo pur restando nel mistero. Suggerisce, non si impone col fulgore dell’evidenza, ma la sua identità va colta mediante il chiaroscuro delle allusioni (cristologia implicita e indiretta). Si può dire che egli “suggerisce”, non impone. Ciò poi è certo ragionevole, fondato su ragioni sufficienti, ma non permette che Gesù venga ridotto a puro oggetto di un freddo atto intellettuale, bensì coinvolge il credente in una condivisione viva e personale del suo mistero. Il card. Martini afferma che egli ci dà abbastanza luce per comprendere e poter scegliere per lui ma anche libertà che consente di rifiutarlo. Fino al momento decisivo della verità. Tutto quello che Gesù ha fatto e ha detto finisce nella ignominia della condanna, come un malfattore e un bestemmiatore, da parte di Pilato, pressato dai capi dei giudei che affermano di non avere altro re che Cesare, e si conclude con la tomba del venerdì santo. Ma non è l’ultima parola perché il mattino dopo il sabato le donne che vanno al sepolcro trovano la pietra ribaltata e ascoltano il messaggio: “è risorto, non è qui! Andate a dirlo ai discepoli” (da notare che le donne non erano giudicate credibili nella testimonianza tanto che non venivano ammesse in tribunale). Il fatto che lo scandalo e la stoltezza della croce, strumento della condanna di Gesù, sia stato superato da un gruppo di giudei, sia pure discepoli del Nazareno, richiede una spiegazione che sia proporzionata alla difficoltà di un passo così inaudito, dato che i discepoli erano fuggiti subito all’arresto di Gesù nel Getsemani e si erano dileguati nella vicenda della passione. Persino un protestante razionalista del secolo XIX (D.F.Strauss) riconosce che “la formidabile sterzata che dalla disperazione per la morte di Gesù porta alla forza e all’entusiasmo di riconoscerlo come Messia e Signore nel giro del breve tempo che intercorre tra la Pasqua e la Pentecoste, non si potrebbe spiegare se nel frattempo non si fosse prodotto un avvenimento eccezionalmente incoraggiante”. Se Gesù di Nazareth non fosse risorto e manifestato più volte ai suoi discepoli il cristianesimo non sarebbe mai nato. Tutto nel cristianesimo sta o cede con la verità di questo annuncio: è risorto! Un avvenimento che anche i suoi discepoli non si aspettavano, tanto è vero che Giuda lo tradisce, Pietro lo rinnega, i discepoli fuggono tutti e le donne vanno al sepolcro a piangere e a portare gli unguenti, come usavano allora per la sepoltura. Alla morte di Gesù i discepoli si trovano in una condizione di smarrimento e di delusione da cui non vedono via di uscita. C’è prima il sepolcro vuoto, un segno che non è ancora la fede nel risorto ma desta sconcerto e paura, anche se è un dato incontestabile, verificabile anche dai nemici di Gesù. E poi le apparizioni che nei vari vangeli concordano nell’affermare che dopo la morte Gesù è apparso ai discepoli, ha dimostrato di essere vivo e presente ed è stato annunciato come risorto da morte. Apparizioni che non vengono presentate come rapimenti estatici o visioni, ma avvengono nel concreto di una normale esperienza umana (i discepoli chiusi nel cenacolo per timore dei giudei, Tommaso che non crede al racconto dei suoi amici, la pesca al lago di Galilea, il cammino dei discepoli di Emmaus, tristi per gli avvenimenti di quei giorni). A chi nega la risurrezione spetta il compito di provare storicamente e psicologicamente come sia stato possibile che, dopo la morte di Cristo, sia risuonato l’annuncio della risurrezione. Bisogna spiegare in modo plausibile questo straordinario dinamismo del cristianesimo delle origini, con gli apostoli che non temono di affrontare persecuzioni e morte per testimoniare quello che hanno visto. (Si crede facilmente a chi è disposto a morire per affermare un fatto che ha vissuto).

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Conclusione: Giunti a questo punto del cammino sulla credibilità di Gesù di Nazareth che gli apostoli hanno riconosciuto Cristo e Signore, e Figlio di Dio, possiamo trarre le nostre conclusioni, che sono la porta della fede. Chi si presenta come Gesù con le parole e gli atteggiamenti che sono pretese superiori alle possibilità di un uomo fa pensare ad una persona che non sia a posto di mente. Dallo scandalo della croce, rileggendo la storia di Gesù che hanno vissuto per tre anni con lui alla luce della risurrezione, i discepoli giungono ad annunciare il Kerigma di Gesù risorto e Signore. È un processo umano e ragionevole che passa dalla credibilità alla credendità, cioè dalla ragionevolezza alla adesione nella fede. Il Nazareno ha posto le basi sufficienti ed adeguate nella sua predicazione e nella sua vita pubblica su cui la cristologia post-pasquale avrebbe poi costruito se stessa. La risurrezione avrebbe poi conferito ulteriore contributo al riconoscimento della sua identità. L’identità di Gesù non sta al termine di un sillogismo, non si impone col fulgore dell’evidenza, ma va colta nel chiaroscuro delle allusioni e affermazioni della cristologia implicita, che è ragionevole, cioè fondata su motivazioni sufficienti. A chi cerca la risposta con cuore aperto e attento, è aperta la porta della fede.