Imp per via di terra stampa processato

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Massimo Loche Per via di terra. In treno da Hanoi a Mosca LIBRI PICCOLI VOLAND•34

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Massimo LochePer via di terra.In treno da Hanoi a Mosca

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Massimo LochePer via di terra.In treno da Hanoi a MoscaVoland

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© della presente edizioneVoland Srl Roma 2014

Tutti i diritti riservati

Prima edizione: ottobre 2014

ISBN 978-88-6243-172-9

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A Gabriella,perché mi ha sempre incoraggiato a scrivere

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I have seldom heard a train go byand not wished I was on it.

PAUL THEROUX, The Great Railway Bazaar

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VENT’ANNI DOPO… PIÙ ALTRI VENTI PRIMA

Il viaggio raccontato in queste pagine lo feci nel no-vembre 1974, partendo da Hanoi, dove lavoravo comecorrispondente dell’“Unità”. Attraversai il Vietnam delNord, ancora in guerra, la Cina, dove ancora Mao erapresidente, poi la Mongolia e con la Transiberiana rag-giunsi Mosca. Un viaggio non banale ancora oggi, mache allora sembrava quasi impossibile e infatti orga-nizzarlo non fu semplice.

In quei giorni comunque non pensavo certo di scri-verci un libro, avevo progettato un reportage perl’“Unità” se non altro per giustificare la mia scelta, chea Roma appariva almeno bizzarra. Ma non lo scrissi:arrivato in Italia mi godetti le vacanze e non pensai piùal viaggio. Lasciavo il Vietnam per la prima volta dopoquasi due anni, e non erano stati anni facili.

Il 1974 – vale la pena ricordarlo – era stato un annoricco di avvenimenti. In Italia a maggio il referendumper abrogare la legge sul divorzio non passa e nellostesso mese un attentato terroristico contro una ma-nifestazione antifascista a Piazza della Loggia a Bre-scia provoca otto morti e oltre cento feriti; in agostouna bomba esplode in una carrozza sul treno Italicus

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a San Benedetto Val di Sambro nell’Appennino emi-liano, i morti sono dodici e i feriti quarantotto. En-trambi gli attentati sono attribuiti al terrorismo “nero”.Nell’aprile le Brigate Rosse con il sequestro del giudiceMario Sossi si impongono all’attenzione del Paese main settembre il loro capo Renato Curcio viene arre-stato.

Cadono due dittature. In Portogallo i militari in-sorgono contro il governo di Marcelo Caetano, suc-cessore di António de Oliveira Salazar, ponendo finea una dittatura fascista che durava dal 1926, e dannoinizio alla Rivoluzione dei Garofani che riporta il Paesealla democrazia. In Grecia finisce la dittatura dei Co-lonnelli che durava dal 1967, il ritorno di KonstantinosKaramanlis permette elezioni e un referendum chemette fine alla monarchia. Ma l’avvenimento più im-portante dell’anno, anche per le conseguenze che avràsulla guerra del Vietnam, è l’uscita dalla scena politicadel presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Tra-volto dallo scandalo Watergate, il 9 agosto si dimetteper sfuggire all’impeachment.

In Vietnam invece il 1974 è un anno grigio, di tran-sizione. Gli accordi di Parigi non hanno portato lapace, e la guerra tra Nord e Sud Vietnam continua inuno stillicidio di attacchi e contrattacchi che sono de-nunciati da entrambe le parti come violazione degli ac-cordi di pace. Il Vietnam sembra uscito dalla scena

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mondiale e lo è sicuramente dalle prime pagine deigiornali.

Ad Hanoi ero arrivato, quasi fortunosamente, il 25dicembre 1972 e ci ero arrivato proprio grazie al Natale.

Nel novembre 1972 ero ad Algeri e preparavo i ba-gagli per ritornare in Italia dopo tre anni passati comecorrispondente dell’“Unità”. Luca Pavolini, allora con-direttore del giornale – il direttore era Aldo Tortorella– mi chiamò al telefono proponendomi di partire per ilVietnam e aggiunse: “Oramai la pace è firmata, goditile vacanze e a gennaio, con calma, potrai partire.” Ov-viamente accettai subito, quasi senza riflettere. Certo imiei piani per il futuro cambiavano radicalmente, dopotre anni sentivo il bisogno di tornare in Italia, ma sareistato testimone dell’arrivo della pace in Vietnam, unfatto storico, e comunque il ritorno in patria sarebbestato rinviato per un periodo relativamente breve: al-lora l’“Unità” mandava i suoi corrispondenti ad Hanoiper soli sei mesi, viste le difficili condizioni di vita cheesistevano in quel Paese in guerra e poverissimo. Ma lecose andarono diversamente.

La mattina del 18 dicembre una telefonata mi rag-giunse a Cagliari, dove passavo le vacanze nella casadei miei genitori. “Gli americani stanno bombardandoHanoi, devi partire subito.” E subito partii per Moscadove avrei dovuto ritirare il visto vietnamita e pren-dere l’aereo, un turboelica Ilyushin Il-18 che a balzel-

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loni, passando per Erevan, Karachi, New Delhi, Ran-goon, Vientiane raggiungeva Hanoi.

L’aereo partiva da Mosca il mercoledì, tardi, versomezzanotte. Accompagnato da uno degli interpretidell’“Unità” che doveva aiutarmi nelle pratiche d’im-barco, aspettavo con trepidazione l’annuncio della par-tenza, eravamo arrivati con un certo anticipo ma a mesembrava che il tempo non passasse mai. Un paio divolte chiesi al mio accompagnatore di andare a infor-marsi, ma tornava invitandomi alla pazienza, tutto eraassolutamente “normale”. Quando finalmente l’an-nuncio arrivò rimasi sorpreso: l’elenco delle tappe pre-viste non si concludeva con Hanoi. L’ultimo aeroportocitato era Vientiane. Pensai di aver sentito male, l’an-nuncio era in russo, ma quando venne immediata-mente ripetuto in inglese di nuovo la parola “Hanoi”non fu pronunciata. Chiesi conferma a Jurij (se non ri-cordo male, si chiamava così l’interprete dell’“Unità”).Non ci aveva fatto caso, si era distratto, mi rispose, maforse avevo capito male, non c’era ragione per cui l’ae-reo non dovesse arrivare ad Hanoi. In quel momentol’annuncio fu ripetuto e questa volta Jurij confermò:Hanoi non era compresa fra le destinazioni. Ci preci-pitammo al banco delle partenze, dove regnava unanotevole confusione e la conferma arrivò: l’aeroportodi Hanoi era chiuso al traffico a causa dei bombarda-menti americani. Ma proprio a causa dei bombarda-

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menti americani io dovevo arrivare ad Hanoi, per fareil mio lavoro.

Sarebbe stato un fallimento inaccettabile, non erapossibile rinunciare, dovevo arrivare ad Hanoi.Quando era previsto il prossimo volo? Mercoledì pros-simo ci risposero, ma non c’era nessun’altra possibilità?Sì c’era, si poteva partire l’indomani con un aereo che,anche questo balzelloni, seguendo la linea della Tran-siberiana con scali a Omsk, Novosibirsk e Irkutsk at-terrava a Pechino dopo aver sorvolato la Mongolia. Unavolta a Pechino, un modo di raggiungere Hanoi si sa-rebbe trovato, magari attraversando la Cina in treno ecomunque mi sarei avvicinato notevolmente alla meta.

Ma c’era un problema e non piccolo: bisognavaavere un visto cinese e in quegli anni i rapporti tra Il Pcitaliano e quello cinese erano pessimi, anzi inesistenti,rivolgersi direttamente all’ambasciata cinese era im-possibile, ma si poteva ricorrere alla mediazione viet-namita. Debbo dire che i diplomatici vietnamiti nonmi sembrarono entusiasti di dover andare a chiedereun favore di questo tipo ai cinesi, i rapporti non eranoidilliaci sotto le dichiarazioni di grande e militante so-lidarietà, ma dopo una lunga mattinata d’attesa il vistofu rilasciato e la notte stessa partii per Pechino.

Ad aspettarmi all’aeroporto c’erano due funzionaridell’ambasciata vietnamita che si occuparono di tuttele pratiche e mi accompagnarono all’Hotel delle Na-

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zionalità. Mi raccomandarono di non muovermi per-ché il volo per Hanoi poteva partire a ogni momento econ scarsissimo preavviso quindi dovevo essere sem-pre pronto. Più tardi mi fu spiegato che era piuttostostrano che un occidentale fosse ospitato nell’Hoteldelle Nazionalità, riservato agli appartenenti alle mi-noranze etniche cinesi. Il fatto che in tutti i giorni pas-sati a Pechino non avessi visto o incontrato nessunaautorità cinese mi convinse che il mio visto era deltutto particolare, in realtà formalmente non avevomesso piede in Cina, ma vi ero solo passato chiuso nelguscio protettivo dell’Ambasciata vietnamita, vivendoin una sorta di extraterritorialità.

Ebbe inizio una lunga ed estenuante attesa che duròfino alla vigilia di Natale quando fu annunciato perl’indomani il volo per Hanoi: gli americani avevano de-ciso che per il 25 dicembre i bombardamenti sarebberostati sospesi.

Il volo seguiva all’incirca la direttrice della ferroviache un paio di anni dopo avrei percorso per rientrarein Italia. Ma erano i passeggeri a essere particolar-mente interessanti: personaggi mitici, almeno per me.Ne ricordo due: il giornalista australiano Wilfred Bur-chett, grande esperto di questioni asiatiche, e l’amba-sciatore cubano Raúl Valdés Vivó, che era seduto nelsedile accanto al mio. Una vera fortuna: era un uomoaffabile e aperto e mi parlò a lungo della situazione po-

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litica in modo molto spregiudicato per un ambascia-tore. Teneva molto, però, a sottolineare che il suo veromestiere era il giornalismo. Quando ci salutammo midisse il rituale “mi venga a trovare”, ma non lo incon-trai più.

L’aeroporto di Hanoi apparve all’improvviso vici-nissimo dopo una lunga discesa tra nuvole che nonsembravano finire mai. L’aereo si fermò ai marginidella pista, abbastanza lontano dalla costruzione bassadell’aerostazione e non spense i motori. Ci fecero scen-dere in fretta e furia, anche per evitare il vento pro-dotto dalle eliche. Ci avviammo, ci veniva incontro ungruppo di persone, erano dei visitatori rimasti bloccatiad Hanoi, correvano a perdifiato, forse per timore diperdere l’aereo. Ci incrociammo senza salutarci, masentii delle voci italiane. Seppi poi che era una troupedella Rai guidata da Furio Colombo.

Un gentile funzionario del servizio stampa del mi-nistero degli Esteri mi aiutò a sbrigare le pratiche al-l’ingresso e poi mi condusse all’Hotel Thong Nhat chesarebbe diventata la mia casa per i prossimi quattroanni.

La prima notte riuscii a dormire, le successive quat-tro no. Fino al 29 dicembre il Vietnam fu sottoposto,giorno e notte, a massicci bombardamenti. Nixon spe-rava di piegare i nordvietnamiti o di indebolirli per ga-rantire meglio i suoi alleati del Sud Vietnam e ottenere

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qualche modifica agli accordi che erano stati siglati aParigi alla vigilia delle elezioni presidenziali. Ma nonottenne quel che voleva e il 17 gennaio 1973 furono fir-mati definitivamente a Parigi gli accordi di pace.

Non era ancora la pace, ma non ci sarebbero statipiù bombardamenti sul Nord Vietnam. Fu così che surichiesta vietnamita “l’Unità” mi propose di prolun-gare il mio periodo di corrispondenza da sei mesi adue anni, che poi diventarono quattro.

Il 12 dicembre di quel 1974, mentre ero in Italia,l’esercito nordvietnamita aveva attaccato Phuoc Long,capoluogo di una provincia ai confini della Cambogia.La battaglia si concluse il 6 gennaio e non vi fu nessunacontroffensiva da parte dell’esercito del Sud Vietnam.Non era mai accaduto che un capoluogo di provinciafosse lasciato al suo destino e ad Hanoi il segnale fu in-terpretato come un grande segno di debolezza: e la de-cisione fu presa: partì la grande offensiva che portò allaliberazione del Sud (o alla conquista, secondo altripunti di vista) e all’unificazione del Vietnam.

Quell’anno non ebbi ovviamente il tempo di scri-vere del mio viaggio in treno, né lo ebbi l’anno succes-sivo, con il processo di unificazione, l’inizio della rico-struzione del Paese, l’aggravarsi delle tensioni con laCambogia e la Cina. In Italia tornai definitivamente al-l’inizio del 1977, ma ci fu da superare un adattamentodifficile: trovai un paese molto diverso da quello che

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avevo lasciato nel 1969 per coprire il posto di corri-spondente dall’Algeria.

Nel 1988 accettai la proposta di dirigere il quoti-diano più importante della mia isola, “l’Unione Sarda”.L’esperienza durò un anno e tre mesi in crescente con-flitto con l’editore e si sa come vanno a finire questecose. Fui licenziato, ma dal male nacque il bene: mi tro-vai ad avere molto tempo libero.

A ricordarmi del mio viaggio in treno fu una serie diarticoli di Renata Pisu che raccontavano1 di un viaggioda Pechino a Mosca sulla Transiberiana postcomuni-sta, molto diversa da quella che avevo conosciuto io,frequentata da commercianti, trafficanti, loschi per-sonaggi, “prostitute da cuccetta”. Il mitico treno era di-ventato un luogo mobile di traffici, un vero bazar fer-roviario non nel senso metaforico del bel libro di PaulTheroux, The Great Railway Bazaar, che racconta ungiro del mondo in treno.

Mi misi alla tastiera del computer e scrissi di gettole prime pagine. Poi nelle settimane successive rico-struii il viaggio con l’aiuto di poche carte: non avevopreso appunti, avevo solo conservato il biglietto deltreno e l’opuscolo scritto in vietnamita e cinese conl’orario del treno Hanoi-Pechino. Per via di terra non èun resoconto del tutto fedele, ho usato il viaggio in fer-rovia come filo conduttore di tanti altri ricordi di quelperiodo.

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Ci volle un bel po’ di tempo per trovare un editore.Finalmente il primo Per via di terra uscì nel 1994, ventianni dopo il viaggio, per Liber Internazionale, casa edi-trice piccola e raffinata che però fallì non molto tempodopo. Esattamente altri vent’anni dopo conobbi a unacena Daniela Di Sora e per caso le parlai di questo miolibro, mi chiese di farglielo leggere e le mandai il testoche avevo conservato negli anni da un computer all’al-tro. Il libro è piaciuto, io stavo per rientrare in possessodei miei diritti e, verrebbe da dire… eccoci qui.

Ma quarant’anni sono tanti e in questi quarant’annimolte, troppe cose sono cambiate, tanti viaggiatorihanno ripercorso in tutto o in parte quella strada fer-rata e, rimettendo mano al manoscritto, non potevoignorare quelle testimonianze. Le ho usate per fare deiparagoni con quello che io avevo visto, per arricchiree dare più corpo alle mie riflessioni di allora, per mi-surare i cambiamenti avvenuti, per dare indicazionipiù precise a chi volesse rifare quel viaggio.

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TRENO AMORE MIO

I treni mi sono sempre piaciuti, tanto che quando siusavano quei giochini come “I Dieci Libri Da Salvare”o da portarsi in un’isola deserta indicavo tra le miescelte un atlante geografico, un vecchio Zanichellicome quello che avevo alle scuole medie e un orarioferroviario, con una preferenza per il Thomas Cook Eu-ropean Timetable e il Thomas Cook Overseas Timetable.

Sulle tavole di quell’atlante ho fantasticato per ore,cambiando confini, creando Stati, deviando fiumi, co-struendo strade e soprattutto ferrovie. E naturalmentesu quelle ferrovie viaggiavo seguendo le linee rosse onere che attraversavano pianure e montagne senza fer-marsi mai. “La carta geografica, anche se statica, pre-suppone un’idea narrativa, è concepita in funzione diun itinerario, è Odissea.”2

Più tardi ho scoperto l’orario ferroviario, letturaevocativa di terre lontane più di qualsiasi racconto diviaggio e d’avventura. In un’isola deserta un orario fer-roviario serve intanto a fantasticarci sopra. E già nonè poco. Un orario ben letto non stimola solo la fantasia,può raccontare molte cose dell’organizzazione sociale,dell’economia, della storia di un paese. Oggi gli orari

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ferroviari su carta non esistono quasi più. La ThomasCook nel 2010 sospese le pubblicazioni dell’Overseas Ti-metable dopo 30 anni. Nell’agosto del 2013 anche l’Eu-ropean Timetable è finito, erano 140 anni che informavai passeggeri di tutta Europa. Per fortuna un gruppo diex redattori della Thomas Cook nel marzo 2014 ha ri-preso la tradizione dell’Orario europeo che contieneun’appendice sul resto del mondo, grazie a questo vo-lume ho potuto aggiornare il mio testo.

***

Viaggiare è, almeno per quanto mi riguarda, sinonimodi prendere il treno. Venti anni fa la ferrovia sembravaoramai appartenere a un mondo superato, al passato.Il treno era stato in apparenza definitivamente scon-fitto dall’aereo per i viaggi veloci e dall’automobile pergli spostamenti brevi. Eppure anche allora pensavoche viaggiare in treno fosse ancora il modo più co-modo e sicuro per misurare la vastità e la diversità delmondo, per conoscere la gente assieme al paesaggio,per dare al viaggio un senso più ampio del semplicefarsi trasportare da un luogo all’altro. Da allora moltoè cambiato, l’avvento dell’alta velocità ha ridato alleferrovie un prestigio che sembrava perduto per sem-pre, il treno vince per rapidità, sicurezza e perchémeno inquinante dei motori che bruciano diretta-

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mente carburante. La rinascita del treno non riguardasolo l’Europa, anche negli Stati Uniti le ferrovie stannoconoscendo una nuova stagione di sviluppo per nonparlare dell’India, (che già aveva ereditato un ottimosistema ferroviario dall’Impero britannico) e dellaCina che sta ampliando con criteri modernissimi la suarete, con imprese spettacolari come la linea che da Pe-chino conduce fino in Tibet.

Malgrado buchi e smagliature la rete delle ferrovieavvolge tutta la terra. Nel frontespizio di un bel libro3

sulle mappe ferroviarie di tutto il mondo si può vedereun planisfero dove su uno sfondo grigio azzurro sonosegnate in nero le linee ferroviarie4, quattro milioni dichilometri di binari. L’Europa e gli Stati Uniti orien-tali, il Giappone, la regione di Buenos Aires sono gro-vigli intricatissimi che a volte diventano indistintemacchie nere. Poi in Europa guardando verso est enegli Stati uniti verso ovest la rete si dirada e si fran-tuma fino agli immensi spazi bianchi del Sahara e delcentro dell’Africa, della foresta amazonica, delle di-stese artiche.

Volendo dunque si possono percorrere grandi di-stanze senza mai abbandonare il treno. Il viaggio piùlungo possibile è quello che partendo dal Nord Africaarriva all’Estremo Oriente. Una linea ferroviaria partedall’oasi di Tozeur, ai bordi della grande distesa salatadel Chott El Jerid, e via Gafsa e Sfax porta a Tunisi,

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dove inizia la linea Transmagrhebina che attraversaAnnaba, Costantina, Algeri, Orano, Fez e Tangeri. Aquesto punto è necessario prendere un traghetto, mail braccio di mare è breve, abbandonare per così pocotempo il treno può essere considerato un piccolo tra-dimento lecito. In Nord Africa si possono sceglieredelle varianti: si può partire dall’Oasi di Touggourt oda Béchar in Algeria, volendo da Marrakech, in Ma-rocco. Anzi probabilmente questa è l’unica variabileoggi possibile: dagli anni ’90 il confine tra Algeria eMarocco è chiuso e non esiste più un servizio tra i paesidel Maghreb, le reti ferroviarie, giungono, ma nessuntreno va da Tunisi a Algeri e tantomeno da Algeri a Ca-sablanca.

Una volta in Europa tutto è più semplice, quasi au-tomatico. Da Algeciras a Madrid, Parigi, Berlino, Var-savia e Mosca. Poi la Transiberiana e la Transmongo-lica fino a Pechino, poi attraversando la Cina si arrivaad Hanoi e da Hanoi a Saigon. Qui si concludeva l’arcoche univa tutta la grande estensione dei tre continenti“antichi”. C’è stato solo un breve periodo di tempo, at-torno al 1978, durante il quale era possibile continuareil viaggio iniziato nel deserto tunisino fino al Delta delMekong. In quell’anno i giornali vietnamiti avevanoannunciato il ripristino della ferrovia Transindocinese.Ma già l’anno successivo il viaggio diventava impossi-bile. I cinesi attaccarono il Vietnam per punirlo dell’oc-

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cupazione della Cambogia e, ritirandosi, portarono viabinari e traversine. La ferrovia è stata riaperta nel feb-braio del 1996, ma abbiamo già visto che l’interruzioneora riguarda il tratto africano del viaggio. Ciò non si-gnifica che non si possa tentare, magari abbandonandoil treno per un altro mezzo di trasporto. Tiziano Ter-zani racconta in Un indovino mi disse il suo viaggio daBangkok a Firenze nel 1993. Il treno funzionava dallacapitale della Tailandia fino alla città di frontiera di Ara-nyaprathet. “Prima della guerra la linea ferroviariacambogiana arrivava fino alla Tailandia: ma, con ilpaese in rovina […] le rotaie dei primi 30 chilometri apartire dal confine sono state vendute come ferraglia,per cui il treno per Phnom Penh parte solo dalla cittàdi Sisophon.”5 Terzani continua il suo viaggio in auto-mobile da Phnom Penh a Saigon, dove ritrova il trenoche lo porta fino a Dong Dang, ultima stazione vietna-mita prima della frontiera cinese. Da qui si fa portarein motorino al confine e attraversa a piedi la terra dinessuno. Non so se questo sia possibile tra Algeria eMarocco: andando ai miei ricordi di viaggiatore possoannoverare tra i controlli più pignoli e sospettosi maisubiti quelli che dovetti affrontare nel 1972 viaggiandoin treno da Casablanca ad Algeri. Ed erano anni digrande retorica sulla fraternità del Maghreb arabo.

Il futuro potrebbe riservare altre sorprese, viaggisempre più lunghi. Le ferrovie asiatiche già oggi arri-

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vano ancora più a sud, fino a Singapore partendo daBangkok, per continuare il grande viaggio basterebbecollegare la rete ferroviaria thailandese e quella viet-namita. Non sarebbe impresa facile, ma nemmeno im-possibile: i giapponesi avevano progettato, durante laseconda guerra mondiale, una strada ferrata che, at-traverso il Laos, avrebbe dovuto collegare il porto diDanang alla Tailandia. Il progetto rimase tale e nes-suno lo ha mai più ripreso. Oppure si potrebbe com-pletare la linea tra la Tailandia e Phnom Penh e co-struire il collegamento ferroviario tra Saigon e PhnomPenh che nemmeno i francesi avevano voluto, forseper una loro politica coloniale di divide et impera. Vistoil grande sviluppo recente delle ferrovie asiatiche, que-ste sono ipotesi assai probabili.

Si è molto parlato di un progetto avveniristico: untunnel ferroviario, ma anche stradale, accompagnatoda un oleodotto, sotto lo stretto di Bering. Era un vec-chio sogno dell’ultimo zar, Nicola II, quello di collegarela Russia all’America, ma allora si pensava a un ponte.Nel 2014 il progetto è stato rilanciato dalla Cina. Do-vrebbe essere una linea ad alta velocità che da un latocollegherebbe lo stretto alla Transiberiana e dall’altro,scendendo attraverso Alaska e Canada, si inserirebbenel sistema ferroviario nordamericano. Si può alloraimmaginare di chiedere un biglietto per New YorkPennsylvania Station, via Mosca o Pechino? Sembra

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un’utopia, ma chissà. Del resto chi avrebbe pensato chela linea progettata da decenni tra l’Asia centrale ex so-vietica e la Cina sarebbe mai stata completata. Inveceoramai si può andare in treno da Alma Ata, nel Kaza-khistan, a Ürümqi nel Xinjiang cinese in un paio digiorni.

Questa alternativa meridionale alla Transiberianapotrebbe dare nuovamente un gusto d’avventura alviaggio in treno dall’Europa all’Asia. La vecchia Tran-siberiana è oramai frequentata da comitive di viaggia-tori organizzati e da piccoli contrabbandieri che hannotrasformato la linea ferroviaria più lunga del mondoin un mercatino internazionale viaggiante. Uno deitanti effetti della spregiudicata trasformazione dei si-stemi economici cinese e russo.

I piccoli traffici di questi anni non hanno nulla incomune con le leggende della Transiberiana roman-zesca degli anni ’20 e ’30, quando quei vagoni pote-vano essere frequentati solo da agenti del Komintern,spie giapponesi, contesse russe bianche, signori dellaguerra cinesi e avventurieri di ogni sorta.

Il contrasto è ancora maggiore con altri anni inaltro modo leggendari, quelli della guerra del Vietnam.Allora la ferrovia fu molto importante per far arrivaread Hanoi i rifornimenti dall’Urss e, malgrado i violenticonflitti tra Mosca e Pechino, sembra che abbia sem-pre funzionato, a parte rare interruzioni provocate da

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qualche intervento eccessivo delle guardie rosse aitempi della rivoluzione culturale.

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HANOI-DONG DANG

Nel 1974 si poteva partire da Hanoi ogni domenica perraggiungere l’Europa. La partenza del treno numero 6era fissata alle 5,25 e ci voleva l’intera mattinata per ar-rivare, attorno a mezzogiorno, alla stazione di fron-tiera di Dong Dang. Il servizio oggi deve essere mi-gliorato perché invece delle sei ore e passa, secondol’orario ne bastano poco più di quattro.

Il percorso pianeggiante, attraverso il terrenoumido del delta del Fiume Rosso, non presentava dif-ficoltà naturali. C’erano però quelle create dalla guerraancora in corso. I bombardamenti americani eranocessati da quasi due anni, ma i ponti avevano quasitutti un aspetto quanto mai precario, sembravano te-nuti insieme con bambù, come le passerelle per i pe-doni che li fiancheggiavano. Uno particolarmentelungo sul Fiume Nero sembrava quasi oscillare men-tre il treno lo attraversava a una velocità talmentebassa da sembrare impercettibile. Sicuramente i bu-fali, che sguazzavano nella zona fangosa accanto alfiume vero e proprio, procedevano più spediti.

Forse per questa lentezza, forse perché il tracciatodella strada ferrata era più vicino ai campi di quello

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delle strade, malgrado tutto più moderne e in miglioricondizioni, il treno entrava nella risaia e finiva in qual-che modo per farne parte. Ma anche la risaia entravanel treno. I terrapieni, i fianchi delle trincee erano co-perti di verde, terrazzati, divisi in piccoli quadrati neiquali crescevano legumi, piccole lattughe, altre piante.Nel delta del Fiume Rosso non esiste terra coltivabile,esiste solo terra coltivata. E probabilmente proprio perqueste coltivazioni ferroviarie si può dire che l’utiliz-zazione del suolo agrario in Vietnam è più alta diquella già intensissima della Cina meridionale.

Le fermate erano poche, ma le soste lunghe, anchese in genere prive di interesse. Gli edifici delle stazionierano semidistrutti dalle bombe e, nel migliore dei casi,cadenti e corrosi dal tempo, dall’umidità onnipresentee pervasiva, caratterizzati da una certa incuria giustifi-ca ta dagli avvenimenti di guerra ma non in caratterecon il decoro a cui i vietnamiti, almeno quelli di città,sembravano tenere molto. Del resto nessuno saliva enessuno scendeva dal treno internazionale. Alla sta-zione di Hanoi avevo visto salire molti studenti in se-conda classe e un paio di diplomatici in prima, ma sta-vano chiusi nei loro rispettivi vagoni. Quello su cui viag-giavo, riservato agli stranieri, era vuoto ed ermetica-mente sigillato, non era possibile andare su e giù per lecarrozze.

L’unica presenza umana fu quella di un cameriere28

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che a un certo punto portò il vassoio con il pasto: riso,carne, verdura e birra Ha Noi, la birra della capitale.Un liquido insapore (la dose di luppolo doveva essereminima), e quasi analcolico. Era fatta, si diceva, con lapula di riso.

Non era certo un pasto luculliano, peraltro di diffi-cile consumazione nello scompartimento già predi-sposto per la notte, con le cuccette superiori abbassate,il che rendeva scomodissimo stare seduti. L’ideale delviaggiatore straniero in quei tempi in Vietnam era, conogni evidenza, il viaggiatore addormentato, quandol’accesso ai treni gli veniva consentito.

Della difficoltà per gli stranieri di viaggiare in trenoavevo avuto una prova proprio nel gennaio del 1974. Do-vevo andare al porto di Haiphong per seguire l’arrivodella nave Australe6. Avevo chiesto di poter andare coltreno che vedevo passare tutti i giorni sul ponte di LongBien che scavalca il Fiume Rosso ad Hanoi. Mi fu rispo-sto che era impossibile, ma io insistetti ribattendo a tuttele obiezioni, alle supposte difficoltà e alle scuse che mivenivano opposte. A risolvere la questione fu una coltasignora, abitualmente sorridente e gentile, che curava irapporti con i giornalisti stranieri. Alla mia ennesimarichiesta rispose seccamente: “I treni non sono per glistranieri. Servono solo per i vietnamiti e per le merci.”

Che in Vietnam i treni fossero giudicati poco adattie sconsigliati con decisione agli stranieri non era solo

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una convinzione dei vietnamiti del Nord. Paul The-roux racconta7 delle difficoltà che i vietnamiti del Sudgli fecero quando, più o meno nello stesso periodo,volle prendere il treno Saigon-Bien Hoa. Alla fine laspuntò, ma viaggiò nel vagone speciale del direttoredelle ferrovie sudvietnamite. Evidentemente anche alSud i treni normali erano riservati “ai vietnamiti e allemerci”. Si sarebbe potuto pensare che una richiestabizzarra – perché affrontare le scomodità di treni piut-tosto malandati? – nascondesse qualche oscuro pro-posito e, si sa, in tempo di guerra i sospetti sugli stra-nieri aumentano, ma non è così. Molti anni dopo, inperiodo di pace, Tiziano Terzani fatica non poco a ot-tenere dal consolato del Vietnam i visti per via terre-stre e anche alla frontiera tra Tailandia e Cambogia ri-schia di essere respinto perché “gli stranieri viaggianoin aereo”8. Un’altra viaggiatrice, Mary Morris, raccontale mille difficoltà per ottenere un visto di transito perla Mongolia9.

Quello su cui viaggiavo in quella mattina di no-vembre invece era un treno del tutto speciale: per stra-nieri e vietnamiti autorizzati. Qualche viaggiatore abu-sivo locale c’era ma viaggiava sui respingenti dell’ul-timo vagone. Per salire o scendere non c’era bisognodelle stazioni. I rallentamenti erano tanti e permette-vano di saltare sul treno con una corsetta, o anche soloaccelerando il passo, e di scendere senza rischi. I con-

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trollori non si accorgevano di questo traffico non au-torizzato, più probabilmente fingevano di non accor-gersene.

A Dong Dang, ultima stazione in territorio vietna-mita, il treno si fermava per quasi un’ora e mezza. L’ar-rivo era previsto per le 11,48 e la partenza per le 13,12.Tutto questo tempo serviva ai minuziosi controlli didogana e della polizia di frontiera.

A parte la sorpresa di vedere sul treno un Thay, dalmomento che sul treno al massimo viaggiavano i LienXo10, i controlli nei miei confronti non furono moltoseveri. Le formalità di dogana vennero espletate conuna certa fretta, ma con il cipiglio di tutti i doganieridel mondo che vi fanno sempre sentire, con un solosguardo, trafficanti, contrabbandieri, addirittura spie.

L’unico problema fu quello dei rullini fotograficiche volevo far sviluppare in Europa. Potevo esportaresolo quelli non impressionati, le immagini vietnamitedovevano restare in Vietnam. “Ragioni di sicurezza”mi disse il poliziotto, ma tutto sarebbe stato restituitoal mio ritorno. Non dovevo preoccuparmi. Anzi avreb-bero sviluppato loro stessi i miei rullini. E questo in-vece mi preoccupava. Ritornato in Vietnam qualchemese dopo, riavere indietro i rollini da stampare fu im-possibile. Persi per sempre.

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DONG DANG-NANNING

Dopo Dong Dang il treno entrava in una sorta di terraincognita. Venivano attaccate due locomotive, vapo-riere dall’aspetto antico, forse addirittura un’ereditàfrancese, e si cominciava a salire. Finiva il vasto pae-saggio liquido delle risaie e si viaggiava tra montagne aforma di pan di zucchero e fitte di selve come quelle chesi vedono nei dipinti dei paesaggisti cinesi. Tutte velateda una nebbia che man mano si infittisce e si trasformain nuvole tra le quali si perdono le cime più alte.

Anche il paesaggio umano cambiava. Non più ilbrulicare continuo di figure indaffarate, in verde mili-tare gli uomini, in pantaloni neri e camicia bianca ledonne, ma il deserto. Nemmeno un’anima viva lungol’unico binario che si arrampicava verso la Cina. Solaapparizione era stata quella di un uomo nelle vesti bluscuro, quasi indaco, delle minoranze Nung che abi-tano quella zona di montagna, che camminava a passienergici sulla stradina che correva a fianco della fer-rovia.

Mentre il treno arrancava, doganieri e poliziotticontinuavano ad aggirarsi nei corridoi con un’ariamolto indaffarata e tesa. A un certo punto, tra alti ter-

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rapieni verdi, il treno si fermava, doganieri, poliziotti,inservienti, controllori e macchinisti vietnamiti scen-devano e al loro posto salivano doganieri, poliziotti,inservienti, controllori e macchinisti cinesi, sbucati al-l’improvviso da dietro gli alberi, dal nulla.

Quello era il punto preciso del confine tra Vietname Cina, preciso ma contestato, origine di molte diffi-denze tra i due paesi. Cinque anni dopo la diffidenzadivenne ostilità, ci fu la guerra di frontiera la cui vit-tima maggiore forse fu proprio quella ferrovia: i cinesiprima di ritirarsi portarono via binari e traversine. E,come ho già detto, per molti anni i treni non viaggia-rono più tra Dong Dang e Pingxiang.

Mentre il treno ripartiva mi sfilarono sotto gli occhitutti i vietnamiti rimasti ad aspettare, accosciati, in-tenti a chiacchierare, ridere e fumare, in attesa di risa-lire sul treno che più tardi sarebbe ritornato indietro aDong Dang.

***

A Nanning il treno vietnamita arrivava in un binario ditesta che terminava prima dell’edificio della stazione,un vero edificio di stazione, costruito da europei qual-che decennio prima e conservato con una certa cura.Una pensilina ampia terminava con un fregio in ferronel quale, in omaggio al paese un ingegnere tedesco,

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francese o britannico aveva inserito motivi orienta-leggianti, dragoni, fenici. Sotto la pensilina attendevail treno cinese, più largo, quasi imponente rispetto aquello da cui ero appena sceso.

I francesi avevano costruito le ferrovie vietnamite ascartamento ridotto e tali erano rimaste, per ragionieconomiche sicuramente, ma anche per la mai sopitadiffidenza tra vietnamiti e cinesi.

La stazione sembrava deserta, solo qualche ferro-viere e qualche guardia di frontiera passeggiavanolungo il marciapiede. La fila dei passeggeri arrivati daHanoi si avviava lentamente alle carrozze. I posti eranogià assegnati, ma questo non impediva ai vietnamiti difare molto chiasso e molta ressa lungo il marciapiede,sotto lo sguardo ufficialmente impassibile dei doga-nieri cinesi, turbato da lampi di contenuta superiorità.

Ma dov’erano i passeggeri arrivati da Pechino? Nonsi vedeva nessuno. Il mistero si svelò più tardi, quandoil nostro treno si mosse. Dalle sale d’aspetto, fino a quelmomento rigorosamente chiuse, uscì una frotta divietnamiti che si avviarono verso il binario di testa.Non era evidentemente visto di buon occhio che pas-seggeri in arrivo e passeggeri in partenza potesseroscambiarsi saluti e magari informazioni sul marcia-piede della stazione.

Secondo l’orario il treno vietnamita sarebbe già do-vuto partire da più di un’ora, alle 13,26 (fuso orario di

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Pechino) e avremmo dovuto incrociarlo a Dong Dang,invece aveva atteso la nostra partenza.

Una volta sistemati sul treno iniziava l’ispezione delleguardie di frontiera cinesi. Un’ispezione meticolosa esorridente. Mi furono sequestrati tutti i rullini fotogra-fici che erano sfuggiti al controllo dei vietnamiti.

Ai vietnamiti interessavano i rullini già impressio-nati, ai cinesi invece quelli vergini. In uscita bisognavacontrollare che non venissero esportati possibili vei-coli di spionaggio, e la “spionite” dei vietnamiti eraparticolarmente acuta, cosa comprensibile, visto chela guerra durava ancora. Meno comprensibili erano glieccessi spesso ridicoli di questi controlli. I cinesi invecetagliavano il male alla radice, impedendo che venis-sero scattate foto di qualsiasi genere. Anche i cinesipromettevano la restituzione: i rullini vergini furonomessi in una scatola di cartone, che davanti ai mieiocchi fu sigillata con strisce di carta e colla e furono ap-posti dei timbri. Le guardie si informarono con insi-stenza minuziosa della data prevista per l’uscita dallaCina, mi fecero firmare una ricevuta e in qualchemodo mi fecero capire che esibendola i rullini mi sa-rebbero stati restituiti alla frontiera mongola.

Finalmente il treno si mosse, abbastanza in orario,verso le quattro e mezza del pomeriggio, e nello scom-partimento si riversò una squillante marcia militare,poi una canzoncina cantata da una voce in falsetto: mi

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sembrava di riconoscere a ogni verso le parole Mao Ze-dong, ma forse era un’illusione acustico-ideologica.

Ma da dove veniva la musica? Dove stava l’altopar-lante? Era una scatola di bachelite ingiallita piazzatain alto sopra il finestrino. Apparentemente non potevaessere spento, non si vedeva nessun interruttore, nes-sun bottone in grado di far tacere quel fiume di note edi parole tutte pronunciate con grande enfasi. Noti-ziari? Slogan di propaganda? Non è difficile arguireche fossero entrambe le cose.

Alla fine, dopo molte ricerche trovai la manopola,anche quella di bachelite bianca, nascosta sotto il ta-volino. Ma non si poteva far tacere l’altoparlante, lo sipoteva solo ridurre a un sussurrare di sottofondo chenon cessò mai fino a Pechino.

Il vagone cinese era più confortevole di quello viet-namita, arredato con alcune ricercatezze: un vasettodi fiori di plastica poggiato su di un centrino ricamato,una teiera e due tazze, un thermos per l’acqua calda,un pacchetto di tè. Con una previdente scorta di zuc-chero e caffè solubile il viaggio sarebbe stato più gra-devole, ma il caffè solubile ad Hanoi era introvabile.

Lo scompartimento prevedeva quattro posti, masolo una cuccetta era abbassata, così si poteva stare co-modamente seduti, senza dover curvare la schienacome nello scompartimento vietnamita.

Nella luce grigia di quella domenica di novembre36

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piuttosto nuvolosa, sfilava un paesaggio molto simile aquello vietnamita. Anzi identico, ma se si alzavano gliocchi verso le montagne, pure vi era qualcosa di stranoo di estraneo. Mi ci volle un po’ di tempo per capirequali elementi comunicavano questo sentimento diestraneità.

Ero in un paese diverso, avevo passato i confini, masapevo che da entrambe le parti della frontiera vive-vano le stesse etnie, che parlavano la stessa lingua eanche le popolazioni dominanti, cinesi e vietnamiti,erano tra loro molto più simili di quanto non volesseroessi stessi far credere. Eppure una diversità c’era. Tuttoappariva più ordinato e pulito e quando la ferrovia rag-giunse una strada e vi si affiancò finalmente capii. Lastrada era asfaltata, senza buche, e traversava i fiumisu ponti solidamente piantati. Le case erano tutte in-tatte e quelle in mattoni costituivano la stragrandemaggioranza, le risaie erano regolari, piane, senza chenessun cratere di bomba venisse a interrompere l’alli-neamento perfetto delle piantine di riso, la gente che sivedeva passare era vestita dignitosamente: in Cinanon c’era la guerra.

Il treno per fortuna viaggiava a una velocità tal-mente moderata che si poteva controllare ogni detta-glio del paesaggio. Viaggiava come dovrebbero sem-pre viaggiare i treni per permettere che si svolga ilgrande spettacolo di cui sono il mezzo. Il treno è come

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il cinema. Fare un viaggio in treno non è molto diversodall’entrare nel buio di una sala cinematografica. Il pa-ragone tra il viaggio in treno e uno spettacolo non èmio, anzi è ottocentesco e risale all’avvento e alla dif-fusione della ferrovia, quando “l’acquisto di un bi-glietto ferroviario equivale all’acquisto per un bigliettodi teatro. Il paesaggio di cui si entra così in possesso sitrasforma in spettacolo”11. E ancora: “…qualche stu-dioso di cinema, come per esempio Joachim Paech, hainsistito sulle analogie tra mondo ferroviario e mondocinematografico e sul rapporto profondo, di affinità,che c’è fra la visione del viaggiatore attraverso il fine-strino del treno e quella di uno spettatore seduto in uncinema che osserva i movimenti delle immagini nel ri-quadro dello schermo”12.

E infatti: attraverso i finestrini, piccoli schermi cheriproducono il movimento, sfila davanti ai vostri occhiun lungo documentario paesaggistico. Un documen-tario il cui testo è scritto, o piuttosto immaginato, davoi stessi: un grande vantaggio, nei documentarimolto spesso la parte peggiore, noiosa, quasi semprescritta in cattiva prosa poetica, è il commento. Nel vo-stro scompartimento siete voi a decidere i commentiche vi detta l’umore o la fantasia del momento, oppuresemplicemente a far tacere del tutto pensieri e im-pressioni e contemplare lo spettacolo che vi sfila da-vanti agli occhi. Per questo è essenziale che il treno

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non sia veloce. I supertreni moderni sono sempre piùsimili agli aerei che vorrebbero emulare, i loro fine-strini diventano sempre più minuscoli, sempre più si-mili a oblò. Restano comunque treni e, malgrado laloro velocità di 200 o 300 chilometri all’ora, nonescludono la possibilità di contemplare il paesaggio.Sfilano immagini indistinte; si combinano forme im-mobili nella distanza con rapidissimi fantasmi chenon si ha il tempo di fissare. Vedreste Via col vento ac-celerato alla velocità di una vecchia comica? Ciò av-viene soprattutto se si insiste a guardare le cose vi-cine, come succedeva a Victor Hugo: “I fiori sul cigliodel campo non sono più fiori, ma macchie di coloreanzi strisce rosse o bianche; non ci sono più puntitutto si trasforma in strisce; i campi di grano diven-tano lunghe ciocche gialle; i campi di trifoglio sem-brano lunghe trecce verdi; le città, i campanili e glialberi eseguono una danza e si mescolano pazza-mente all’orizzonte”13. Il grande poeta trasforma lavisione dal treno in corsa in un’anticipazione lettera-ria dell’impressionismo. Ma il viaggiatore deve “tra-scurare gli oggetti e i dettagli più vicini e indirizzarelo sguardo su ciò che è più lontano che passa lenta-mente davanti ai suoi occhi”14 così si può nuova-mente godere del paesaggio e far lavorare la propriafantasia. Un esempio? Il magnifico scorcio che si vededalla linea ad alta velocità dalle parti di Reggio Emi-

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lia. Il treno in quel punto, percorrendo una larghis-sima curva, corre su una sopraelevazione che dominala pianura e in lontananza sfilano le linee avveniri-stiche dei ponti di Santiago Calatrava.

Probabilmente si tratta solo di abituarsi alla velo-cità. È passato poco più di un secolo da quando JulesMichelet scriveva: “L’estrema rapidità dei viaggi in fer-rovia non è consigliabile dal punto di vista medico. An-dare, come si fa, in venti ore da Parigi al Mediterraneo,attraversando di ora in ora climi così diversi, è la cosapiù imprudente per una persona nervosa. Giungerà aMarsiglia ubriaca, piena di agitazioni e di vertigini.Quando Madame de Sévigné impiegava un mese perrecarsi dalla Bretagna in Provenza, superava a poco apoco, per gradi, il violento contrasto tra i due climi.Passava impercettibilmente dalla regione marittimadell’ovest a quella dell’est, nel clima schiettamente con-tinentale della Borgogna. Poi, procedendo lentamentesull’alto Rodano, nel Delfinato, affrontava con minoredisagio i grandi venti, Valence, Avignone. Finalmentesi riposava ad Aix, nella Provenza interna, lontano dalRodano e lontano dalle coste, e qui diventava proven-zale di petto e di respirazione. Allora, solamente allora,si avvicinava al mare”15.

Sempre Wolfgang Schivelbusch, nella sua Storia deiviaggi in ferrovia, riferisce che alla metà del secoloscorso si accusava la ferrovia di aver trasformato il

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viaggiatore in un “pacco vivente”. L’espressione è diJohn Ruskin che scriveva del viaggio in treno:

“Poco importa se avete occhi per vedere o siete cie-chi oppure dormite, se siete intelligenti o cretini, quelche nel migliore dei casi potete apprendere sul paeseche state attraversando è la sua configurazione geolo-gica e la sua superficie in generale”16.

Insomma lo spazio paesaggistico col treno si tra-sformerebbe in spazio geografico, accusa almeno esa-gerata da rivolgere semmai all’aereo, dal quale,quando la fortuna vi assiste regalandovi un cielo com-pletamente terso, potete vedere la forma dei conti-nenti, esattamente come su una carta geografica.

A proposito del treno ha ragione invece Dolf Ster-nberger, che scrive:

“La ferrovia trasformò in panorama il nuovomondo terrestre e marino che si apriva alla cono-scenza. [...] Consentì allo sguardo del passeggero [...]di volgersi all’esterno offrendogli il ricco nutrimentodi immagini sempre nuove che rappresentavanol’unica esperienza possibile durante il viaggio”17.

L’unica esperienza possibile e un grande spettacolo.Uno spettacolo che si gode nel più confortevole deimodi, in una casa viaggiante, sicura. Nulla è più rassi-curante del treno. Un mio amico me ne ha dato la spie-gazione riferendomi una raccomandazione di suamadre: “Porta sempre con te un buon orario ferrovia-

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rio, perché quando hai un buon orario ferroviario nonti può succedere nulla di male, e comunque sai semprecome tornare a casa.” Ovviamente ora basta portare consé un qualsiasi strumento che si colleghi a internet.

Ma il treno offre anche un altro tipo di spettacolo, equi passiamo a un vero e proprio film a soggetto. Com-media? Tragedia? Farsa? Dipende solo da voi. Esami-nate i vostri compagni di scompartimento, magari te-nendo gli occhi appena socchiusi in modo che gli altrinon capiscano che li state osservando, fate di ognunoun personaggio, cercate di indovinarne destinazione,scopo del viaggio, professione, carattere, sentimenti,passioni, interessi, la vita insomma. Poi fateli agire, in-dovinate o immaginate possibili relazioni e la storiaverrà fuori.

Il treno internazionale Hanoi-Pechino non si pre-stava affatto a questo tipo di spettacolo: i passeggeridel “vagone morbido” se ne stavano confinati nei loroscompartimenti riservati. Ed erano solo due.

Più in là nel viaggio scoprii che si trattava degli am-basciatori vietnamiti a Berlino Est e a Stoccolma cheraggiungevano le rispettive sedi attraverso il lungoviaggio transcontinentale. Ebbi l’impressione che nonparlassero nemmeno fra loro. Uscendo dal mio scom-partimento per osservare il paesaggio dalla parte op-posta, li sorprendevo in piedi nel corridoio, gli sguardifissi al di là del vetro, ma appena mi scorgevano con la

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coda dell’occhio mi rivolgevano una specie di sorriso,un mezzo ghigno, rientravano rapidamente ognunonel proprio scompartimento e la porta si chiudeva conun colpo secco.

Nei “vagoni duri” immaginavo che ci fosse più vita,ma anche qui, come nel tratto vietnamita, mi erano ri-gorosamente preclusi, porte sbarrate, carrozze inac-cessibili. E i viaggiatori dei vagoni duri non venivano alvagone ristorante che era agganciato a quello morbido.

La solitudine era totale, non c’era nessuno con cuiscambiare una parola.

***

La sera calava lenta mentre il treno si dirigeva versoNanning, e quella domenica di novembre era piuttostonuvolosa, ben presto dai finestrini non si vide piùnulla. Tutti gli spettacoli erano finiti.

Qualcuno bussò alla porta dello scompartimento epoi la aprì con decisione. Era un cameriere, sorridevae aveva in mano un menu rilegato in pelle marrone,un po’ consunta per il troppo lungo uso. Aveva il co-lore, la consistenza e il sapore di un’altra epoca, di altritreni, frequentati da altri passeggeri. C’era molta storiain quel menu. Era scritto in cinque lingue, accanto agliideogrammi cinesi figuravano i nomi dei piatti in fran-cese e in inglese. Con caratteri diversi, un po’ più rozzi,

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i nomi erano ripetuti in russo e in vietnamita. Due epo-che differenti della storia della Cina.

Mi aspettavo anche qui di ricevere un vassoio conqualcosa di mal cucinato e mal presentato, ma eviden-temente non era così. Il menu, come tutti i menu deiristoranti cinesi, era ricchissimo: pagine e pagine dipiatti divisi per tipo: pollame, maiale, manzo, pesce,verdure...

Il cameriere mi guardava con un sorriso gentile einterrogativo mentre sfogliavo con calma le pagine delmenu. Cercavo un piatto molto complicato, per con-trollare se davvero la cucina era in grado di prepararetutto quel che annunciava la lunga lista.

Il treno rallentava, dovevano essere circa le sei delpomeriggio e la notte era oramai calata. Qualche lucefioca dai finestrini annunciava un centro abitato. Il ca-meriere sembrava sempre più nervoso, ma sorri-dendo mi disse qualcosa in cinese e la ripeté, al miosguardo interrogativo, in vietnamita. Con quel pocoche ne sapevo, capii due parole “mangiare” e “prego”,così mi decisi a ordinare un pesce in agrodolce allacantonese.

Il cameriere scrisse frettolosamente la mia ordina-zione su un quadernetto con la copertina di plasticarossa, come quella dei libretti dei pensieri del presi-dente Mao, e filò via dallo scompartimento verso il va-gone ristorante.

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Stavamo entrando nella stazione di Chóng zuô. An-ch’io uscii dallo scompartimento e mi avviai per il cor-ridoio. L’orario appeso alla parete mi informava che cisaremmo fermati per dieci minuti. Potevo passeggiareun poco per sgranchire le gambe.

Mentre scendevo sul marciapiede vidi arrivare uncarrettino. Il cameriere era già fuori dal vagone risto-rante con il suo taccuino in mano. Dal carretto inco-minciò a scegliere: verdure, dei pezzi di carne e poiuna grossa carpa. In quel momento il treno fischiò erisalii. Non avevo fatto in tempo ad avvicinarmi percontrollare le dimensioni della cucina.

Un’ora più tardi la carpa in agrodolce stava davantia me nel vagone ristorante. Era deliziosa.

Finii la cena in tempo per scendere a Nanning. Quiil treno si fermava per quasi venti minuti e mi concessiuna passeggiata digestiva tra gli sguardi molto curiosidei rari passeggeri che salivano e scendevano. Anchequi un carretto stava vicino alla cucina del treno dadove venivano scaricati avanzi, ma anche carne e ver-dure. La cucina del treno era minuscola, come tutte lecucine di tutti i vagoni ristoranti del mondo. Il came-riere mi vide e mi sorrise.

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NANNING-PECHINO

Il treno si mosse e dal finestrino vidi le luci della sta-zione di Nanning sparire velocemente. Solo in quelmomento mi resi perfettamente conto di essere dav-vero in Cina. Finalmente in Cina e su un treno. Misdraiai sulla cuccetta che intanto era stata preparataper la notte con lenzuola fresche. Non mi rimanevaaltro da fare che leggere o dormire. Fuori nel buio,senza che la potessi vedere, c’era la Cina.

Era stata necessaria una lunga trattativa per otte-nere il visto di transito per via di terra. Si ripresentavail problema già avuto a Mosca nel viaggio verso Hanoidovuto al fatto che i rapporti tra il Pci e i comunisti ci-nesi erano pessimi, anzi inesistenti. E, in generale, i ci-nesi concedevano i visti con parsimonia e grande at-tenzione politica, l’era del turismo non era ancora ve-nuta, anche se si avvicinava a grandi passi.

Da Pechino, come ho raccontato, ero passato dueanni prima. Ma allora era intervenuta l’ambasciata viet-namita che mi aveva “preso in carico” in tutto e per tuttoed ero rimasto in pratica prigioniero per tre giorni, traun aereo e l’altro, all’Hotel delle Nazionalità. E c’eranoragioni serie perché raggiungessi in fretta Hanoi.

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Questa volta volevo solo soddisfare un desideriopersonale, diciamo pure un capriccio agli occhi deivietnamiti ai quali mi rivolsi perché intercedessero an-cora per me presso l’ambasciata cinese.

“L’aereo per Mosca è molto comodo” mi risposero. Insistetti e un giorno mi suggerirono che potevo

chiedere un appuntamento all’addetto stampa del-l’ambasciata cinese. “È un persona gentile, ti ascol-terà.”

Chiesi l’appuntamento e mi ricevette.L’ambasciata cinese ad Hanoi era alloggiata in una

vecchia villa coloniale, con un grande giardino in-terno dove, malgrado la rivoluzione culturale e tuttoquello che ne era seguito, si coltivavano fiori e non or-taggi. Ma sembrava una novità abbastanza recente,poco tempo prima, mi era stato detto, lì c’era un veroorto.

Attorno al giardino, come nel chiostro di un con-vento, correva un porticato dove si aprivano una seriedi stanzette. In una di queste mi aspettava l’addettostampa.

Forse era gentile, ma a me parve freddissimo. I con-venevoli di rito furono ridotti a quasi nulla e venimmosubito allo scopo della visita. Lo spiegai.

“Ci sono tanti altri modi per tornare in Italia,” mirispose il diplomatico “perché vuole passare per laCina?”

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“Non ci sono tanti modi,” insistetti “e per via diterra ce n’è uno solo. Del resto io non chiedo altro cheun visto di transito.”

“Vuol dire che lei starà sempre in treno, senza scen-dere mai?”

“Sa bene che è impossibile. Gli orari dei treni mi ob-bligano comunque a passare una notte a Pechino.”

“Non sono uno specialista in orari dei treni” mi ri-spose secco e tacque.

Per un attimo mi sentii perduto, se la conversa-zione fosse finita lì non avrei certo ottenuto il visto.Ma come riprendere il discorso? Poi – forse perché in-cominciavo ad assimilare un po’ di psicologia orien-tale, come cercai di congratularmi con me stesso acose fatte, più probabilmente per disperazione e osti-nazione – ripresi da capo, parola per parola il discor-setto iniziale, che mi ero preparato con cura. Lo sa-pevo a memoria.

Il colpo era buono: la palla era di nuovo nel suocampo.

L’addetto stampa mi guardò stupito, poi mi disse:“Valuteremo la sua richiesta.” E mi congedò.Dovetti aspettare un giorno intero per avere la ri-

sposta che arrivò sotto forma di un plico con i modulie le istruzioni per la richiesta di un visto di transito.

Una volta consegnati i moduli, l’attesa fu lunga, mainfine arrivò la telefonata che annunciava: “Il visto è

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pronto.” Corsi felice all’ambasciata cinese e nella stessastanzetta lo stesso diplomatico mi consegnò il passa-porto aperto alla pagina dove, con il suo sigillo rosso ei neri caratteri a inchiostro di china, spiccava il vistodella Repubblica popolare cinese. Un visto di transitoper l’aeroporto di Pechino.

“Ma io avevo chiesto un visto di transito per via ter-restre,” protestai “lo scopo del viaggio è proprio iltreno.”

“Ma non trova che l’aereo sia più comodo e rapido?”“Non ho dubbi sulla rapidità, ma io vorrei andare

col treno.”“Ma oramai il visto è rilasciato, per rifarlo bisogna

di nuovo chiedere tutte le autorizzazioni a Pechino. Civuole tempo, almeno altri dieci giorni e lei ha la par-tenza fissata tra quattro giorni. Almeno così ha di-chiarato.”

“Rinvierò la partenza, se necessario. Ma eravamod’accordo fin dall’inizio che il mio visto sarebbe statoper un viaggio in ferrovia.”

A questo punto il diplomatico sbottò, al modo ci-nese, ma sbottò:

“Ma perché si ostina a voler andare in treno?”“Perché voglio vedere il vostro bel paese” risposi

calcando la voce sulle due ultime parole.Lui sorrise e due giorni dopo ebbi un nuovo visto di

transito che mi permetteva di viaggiare in treno.49

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Allungato sulla cuccetta ora anch’io sorridevo nelbuio, la Cina era lì fuori e io ci correvo attraverso, don-dolando su un treno che di tanto in tanto faceva sen-tire il suo fischio. E dondolando insieme al treno miaddormentai.

Una canzoncina gracchiante che ripeteva “Mao-giusì” mi svegliò l’indomani mattina. Dalle fessure delletendine filtrava una luce pallida e fredda. Ma come maila radio era di nuovo in funzione? Qualcuno era entratoper alzare il volume? Ebbi un brivido pensando al passofelpato di un cinese che, durante la notte, era entratonel mio scompartimento per correggere l’occidentaleche aveva osato ridurre al minimo la voce ufficialedella Cina. Allungai la mano per riportare al minimol’altoparlante, come avevo fatto la sera prima. L’alto-parlante era già al minimo. E, via via che mi abituavo,la vocetta tornò a essere quasi impercettibile.

Era stato solo l’inizio delle trasmissioni che, rom-pendo il silenzio notturno, mi aveva svegliato.

Guardai il mio orologio, le sei meno un quarto. Cer-cai di riaddormentarmi, ma non ci riuscivo, così mipreparai un tè, l’acqua del thermos era ancora bencalda, e andai a lavarmi. Mentre ero chiuso nello stan-zino della toilette il treno si fermò. Se eravamo in ora-rio doveva essere la stazione di Quanzhou. Avevo persoun’occasione per scendere ancora qualche minuto suterra cinese.

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Poi rimasi a guardare il panorama che scorreva, inpiedi nel corridoio.

Ora il paesaggio era cambiato, all’infinito si vede-vano solo collinette tondeggianti di terra giallo-grigiasotto un cielo basso e coperto, il sole stava sorgendo daqualche parte alle mie spalle e le ombre erano lunghee pallide. Il paesaggio era deserto, non apparivano néesseri umani, né strade, né case. Dovevo aspettare alungo per il passaggio dello Yangzi, il grande fiume.“Uno spettacolo da non perdere” mi avevano detto. Se-condo l’orario ci saremo passati dopo le otto di sera.C’era ancora tempo.

Per ora il treno correva tra quei mammelloni gialli.Secondo la carta e l’orario eravamo nello Hunan, unaprovincia importante. Qui era nato il presidente Maoe da qui aveva portato la passione per il peperoncino eun accento incomprensibile per la stragrande mag-gioranza dei cinesi. Almeno così dice la vulgata dellaCina contemporanea.

Una fabbrica di auto venne a interrompere la mo-notonia del paesaggio. Nel vasto cortile davanti allafabbrica erano allineate le jeep verde ramarro che co-noscevo bene dal Vietnam e che gli autisti vietnamitinon amavano: “Troppo leggere” dicevano, preferivanole massicce GAZ sovietiche.

Il vagone ristorante doveva essere aperto a que-st’ora e mi avviai, sorprendendo uno degli ambascia-

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tori vietnamiti che usciva dal suo scompartimento. Siritirò immediatamente.

Quel che c’è di bello nei viaggi in treno è la possi-bilità di leggere. Io però avevo fatto una scelta sba-gliata. Avrei voluto avere con me libri sulla Cina, ma-gari soltanto una guida (peraltro impossibile da tro-vare ad Hanoi). Invece avevo preso solo alcuni nu-meri di “Espériences Vietnamiennes”, una rivista checonteneva dei saggi da consultare per un lungo arti-colo che avrei dovuto consegnare al mio arrivo in Ita-lia. Una scelta infelice: mi dovevo rassegnare a letturee appunti che in quel momento mi interessavanopoco.

Verso mezzogiorno e mezzo arrivammo a Zhuzhou,dove il treno si immetteva nella linea Canton-Pechino,e subito dopo fummo a Changsha. Una stazione note-vole, molto ben tenuta e moderna, con appesi quattrogiganteschi ritratti: Marx, Engels, Lenin e Mao, e dap-pertutto striscioni rossi a caratteri dorati. Alcuni in in-glese: “Lunga vita al presidente Mao” dicevano, “Stu-diamo il Mao Zedong pensiero”; “Proletari di tutto ilmondo unitevi” e così via. Mi sorpresi per quelle scrittein inglese, ma la spiegazione era semplice: a Chan-gsha, per chi proveniva dalla capitale, si cambiava perla linea di Kunming e una delle prime stazioni di que-sta linea era Shaoshan, il villaggio dove era nato Mao.Meta obbligata allora di molte delegazioni internazio-

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nali e di circa tre milioni di cinesi l’anno. Diciannoveanni dopo, percorrendo la stessa linea, Tiziano Terzanidescrive così la stazione di Changsha: “1 agosto 1993 Intreno da Nanning a Xian (Cina). Ore dieci del mattino, iltreno si ferma a Changsha, il luogo dove è nato Mao.Penso al passato eroicizzante. E ora? Una stazione mo-derna, piena di gente sudata, carica di pacchi, valigie,sporca, mal messa. Strana la libertà. Ora che i cinesi simuovono senza le unità di lavoro, ora che hanno piùsoldi, i problemi crescono, con la immensa massa chesi muove”18. Nella mia mattina di novembre pochis-sime persone, per lo più ferrovieri, si muovevano inquella stazione semideserta.

La giornata scorreva con lentezza tra le immaginisempre diverse che venivano dal finestrino, le letturepoco gradite, le visite al ristorante molto gradite. Iltraffico di cibi freschi e di rifiuti era continuato a tuttele stazioni che precedevano e seguivano i pasti del va-gone ristorante. Il cameriere si presentava puntualecon il suo menu enciclopedico due ore prima di ognipasto. Tutto filava nel più rassicurante dei modi allagradevole velocità del treno.

Stavo cenando quando attraversammo lo Yangzijiang. Ma lo spettacolo promesso non ci fu. Ci furonosoltanto lunghi minuti a velocità ridotta sul ponte diferro: le lampade che l’illuminavano impedivano di ve-dere alcunché. Usciti dal ponte, nel buio si scorgevano

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in lontananza le tante luci fioche di una grande città,Wuhan.

L’indomani il paesaggio era cambiato completa-mente, dopo le montagne a pan di zucchero della zonadi confine, dopo i mammelloni gialli e polverosi, dopole risaie, ora il treno correva in una zona densamentepopolata, villaggi, case con cortili e orticelli che guar-davano la ferrovia, campi con i contadini al lavoro,strade affollate di carretti, biciclette, pedoni, camion erarissime automobili. Ci stavamo avvicinando a Pe-chino.

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PECHINO

I treni cinesi sono puntuali. Questo lo avevo constatatoper tutta la durata del viaggio, ma l’unica puntualitàche conta è quella finale, quella dell’arrivo. Verso l’unae venti si cominciarono a vedere i segni della grandecittà. Non più campi coltivati ma distese di costruzionigrigie di cemento, con le ringhiere esterne, molto si-mili, se non identiche, a quelle dei nuovi quartieri diHanoi. Tristi, desolati. Qualche orticello nei cortili. Lestrade, qualche passante, negozi di generi alimentari,riconoscibili per enormi e ordinate piramidi verdi digrossi cavoli accumulati sui marciapiedi.

E alle 13,42 in punto il treno si fermò alla stazione diPechino.

Gli ambasciatori scesero mentre tiravo giù i baga-gli, riuscii a scorgere la sagoma di uno dei due che siprecipitava dal predellino. Mi affacciai al finestrino e lividi sparire in mezzo alla folla degli studenti che scia-mavano verso l’uscita.

Scesi anch’io. Il marciapiede si era svuotato quasicompletamente.

“Un addetto del China Travel Service si occuperà dilei all’arrivo del treno.” Così mi avevano assicurato al-

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l’ambasciata cinese di Hanoi. All’arrivo del treno checosa significa? Quando? Dove?

Sul marciapiede erano rimasti solo alcuni militari,dei ferrovieri e un solo portabagagli. Mi bastò guar-darlo e si avvicinò, prese le valigie senza dire una pa-rola e si avviò lentamente, voltandosi indietro per ve-dere se lo seguivo. Sapeva dove andare. Passando peruna grande porta dai vetri opachi entrammo in un sa-lone circondato di piante e delimitato da una tran-senna. Al di là della transenna c’era la folla verde e az-zurra. La parte cinese della stazione. Questa invece erasenza dubbio la parte riservata agli stranieri.

C’erano delle panche e in mezzo alla sala un tavoloverde, seduto al tavolo un impiegato di mezza età, sultavolo un cartello bilingue, cinese e inglese: “China Tra-vel Service.”

L’impiegato mi chiese il passaporto e i biglietti. Poiconsultò dei fogli, mi guardò, guardò ancora il passa-porto, guardò di nuovo i fogli.

Poi, in inglese disse: “Lei non doveva arrivare.”“Come?”“Lei non doveva arrivare, non è nell’elenco.”“Ma è tutto in regola, i biglietti, il passaporto. Parto

domani per Mosca.”Mi guardò interrogativo e scuro in volto, poi prese

il telefono che stava sul tavolo, compose un numero, e56

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soltanto dopo un lunghissimo minuto qualcuno ri-spose.

Discuteva animatamente, sempre scuro in volto. Poiimprovvisamente sorrise e agganciò la cornetta.

“La comunicazione da Hanoi è arrivata solo in que-sto momento. C’è stata un’interruzione del telegrafo.”

“Bugiardo” pensai, ma non dissi nulla.“Forse il treno per Mosca è completo. Deve passare

questo pomeriggio, prima delle cinque, al nostro uffi-cio centrale.”

Disse qualcosa al portabagagli, poi si rivolse nuova-mente a me:

“Prego, hotel, benvenuto in Cina.”“Grazie, arrivederci.”Il portabagagli se ne era già andato, per raggiun-

gerlo feci una breve corsa.Un taxi mi portò all’Hotel Xin Qiao.Era considerato il primo albergo di Pechino, non

erano ancora stati nemmeno progettati i mastodonticihotel delle catene internazionali, e il Peking Hotel eraancora in costruzione. Questo edificio liberty, con la suagrande scala di legno, aveva tutto il fascino della vecchiaCina. La Cina degli europei, la Cina delle Concessioni,un Paese che era sparito più di un ventennio prima. Lastanza era immensa e il bagno forse ancora più grande,ci sarebbe entrata una piscina invece della vecchia vascadi ghisa smaltata, dritta sulle sue zampe di leone.

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Ma fuori mi aspettava Pechino; avevo poche ore pervedere qualcosa e soprattutto mi attendeva il ChinaTravel Service e la conferma del mio biglietto.

La sede centrale del China Travel Service era in unapalazzina dipinta in giallo ocra, in un altro quartiereche risaliva a tempi andati. Circondata da un giardi-netto aveva il portoncino chiuso. Mi fermai a guar-darlo.

Il tassista, sporgendosi dal finestrino, mi facevacenni di incoraggiamento. Spinsi ed entrai. Nell’in-gresso non c’era nessuno, almeno in quel momento.Una scala con la ringhiera di ferro saliva a sinistra e difronte un lungo corridoio, mal illuminato da una lam-padina fioca, finiva con un altro portoncino chiuso,apparentemente identico a quello da cui ero entrato.

Salii per la scala. Dopo la prima rampa sentii un de-bole brusio e alla fine della seconda rampa una porta avetri immetteva in un grande salone. Dietro un ban-cone scuro in legno massiccio c’erano gli impiegati.Regnava una grande calma, non si sentiva volare unamosca. Un’atmosfera molto diversa da quella descrittada Mary Morris dodici anni dopo.

“La stanza, calda e soffocante era piena di persone,la maggioranza delle quali urlava. Europei in jeans conzaini lerci, europei dell’est in abiti scuri in poliestere ecravatta, inglesi che si tenevano in disparte, gente del-l’Asia centrale con i loro caffettani e zucchetti, tutti lot-

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tavano per guadagnare posizioni, urlando, agitandodei voucher, cercando di attirare l’attenzione di unodei tanti burocrati cinesi che rispondevano urlandoanche loro, afferravano i voucher, sparivano, torna-vano indietro, sparivano di nuovo, stavano seduti allascrivania a consumare il loro pasto, andavano e veni-vano continuando a ripetere “mali, mali”. “Non sap-piamo, non sappiamo”19.

Nella sala silenziosa dove mi trovavo, sulle scriva-nie davanti a ognuno degli impiegati c’era un cartello.Mi rivolsi a quello seduto dietro la scritta: RAILWAYS.

Lui prese il mio carnet di biglietti e incominciò asfogliarlo con attenzione. Era un documento compli-cato, con tanti tagliandi per le varie tappe, quelli per ipasti in vagone ristorante, e molte pagine di spiega-zioni e regole in cinque lingue.

L’impiegato guardava il biglietto, guardava me e poiriguardava il biglietto, infine disse qualcosa che potevaessere “Un momento” in una lingua che poteva essereinglese o francese, e sparì dietro una porticina che finoad allora non avevo notato.

Mi misi a passeggiare per lo stanzone. Sentivo sullespalle gli sguardi curiosi degli altri impiegati. Ma se mivoltavo verso il bancone, vedevo solo teste chine, tuttisembravano concentrati a scrivere qualcosa. Mi avvi-cinai alle finestre e vidi che il mio taxi mi aspettava an-cora. L’autista appoggiato alla portiera fumava. C’era

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un portacenere su un tavolino, così anch’io accesi unasigaretta. Quando la finii il mio impiegato non era an-cora tornato.

Incominciavo a sentire l’ansia avvolgersi semprepiù stretta attorno al mio stomaco. Gli altri impiegati sierano stancati di far finta di lavorare e mi fissavanotutti da dietro il bancone. Di tanto in tanto, parlotta-vano tra di loro.

Dopo circa un quarto d’ora il mio uomo ricomparve,mi avvicinai a lui che senza batter ciglio mi chiese:

“Passaporto.”Glielo diedi, lo sfogliò, due o tre volte, si fermò sul

visto di transito per via aerea che era stato annullato,poi su quello per via di terra. Prese i due foglietti cheospitavano il visto mongolo e quello sovietico e me litese tenendoli con due dita. Un po’ schifato. E sparì dinuovo.

Questa assenza durò ancora più della prima. Due si-garette. Finalmente tornò con la faccia scura.

“Il treno di domani è completo.” Parlava inglese.“Come completo? Io ho prenotato da Hanoi... e il

mio visto scade. Non posso fermarmi a Pechino più diuna notte.”

Poi, quasi speranzoso, aggiunsi: “A meno che voi non prolunghiate il visto.”Mi guardò quasi spaventato: “Noi non ci occupiamo di visti, solo di biglietti.”

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“E allora debbo partire.”Mi guardò sempre più perplesso, sparì e tornò quasi

subito con un altro impiegato, più anziano. Doveva es-sere il capo. Sorridente mi disse:

“Sul treno di domani c’è posto solo nella classe spe-ciale.”

“Ma il mio biglietto è per la classe speciale.”Smise di sorridere, prese il biglietto, lo guardò, lo

rigirò, lo esaminò. Si illuminò e sorrise ancora.“È per la classe speciale! Ma questo è stato scritto

nel posto sbagliato.” Poi si rivolse al primo impiegato parlando velocis-

simo e secco. Quello annuiva con aria umile. Il capo sirivolse di nuovo a me:

“L’errore è di chi ha scritto il biglietto. Non di que-sto compagno. Capito?”

“Capito” dissi, sollevato.L’impiegato scarabocchiò degli ideogrammi e dei

numeri sulla copertina del biglietto e me lo restituì: “Il treno parte domani alle 7,40. Lei deve arrivare

alla stazione mezz’ora prima. Buonasera e benvenutoa Pechino.”

“Buonasera” risposi e me ne andai, ancora tuttoteso.

Avevo temuto molto. Debbo dire che rispetto alle di-savventure di Mary Morris dodici anni dopo sono statofortunato. In tutto quel periodo di tempo le compe-

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tenze professionali e linguistiche del personale delChina Travel Service non sembra siano migliorate,anzi. E la povera viaggiatrice dovrà tornare più voltenegli uffici trovando sempre impiegati che parlanosolo cinese e che non capiscono cosa voglia questaamericana. Riuscirà ad avere il suo biglietto solo grazieall’intervento fortuito di un giovane cinese che desi-dera impratichirsi nell’inglese e le fa da interprete.20

***

Avevo ancora qualche ora di luce, una luce chiara e in-vernale.

A novembre a Pechino fa già molto freddo e io, duegiorni prima, avevo lasciato Hanoi sotto una piogge-rellina quasi tiepida che odorava leggermente dimuffa, di stantìo e con una temperatura che sfiorava i30 gradi. Avevo voglia di vedere qualcosa della città. Ildesiderio era rimasto dalla prima visita, quando avevopassato le mie ore di Pechino soprattutto leggendo escrivendo chiuso in una stanza d’albergo. Non riuscivonemmeno a dormire molto in quei giorni. Mi ero con-cesso delle piccole evasioni, in una delle quali avevometicolosamente percorso tutto il perimetro dellapiazza Tian’anmen. Questo è il solo modo, del resto, dimisurare quanto sia grande la piazza. Altrimenti si per-cepisce solo che è grande, immensa, vastissima, tutto

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quel che si vuole, ma non più né meno di tante altregrandi piazze del mondo.

Avevo anche faticosamente convinto a gesti un tas-sista a farmi fare un giro della città. Ma i miei gesti per“giro di Pechino” erano stati interpretati alla letteraperché per un’ora non vidi altro che palazzoni di peri-feria e scorci di campagna.

Questa volta, non volendo ripetere un’esperienzafrustrante, convinsi il portiere dell’albergo a spiegareal tassista le mie mete: la Città proibita e il Tempio delCielo.

La città proibita era effettivamente proibita, non cisi poteva entrare, credo solo perché ormai l’orario divisita era finito.

Rimaneva il Tempio del Cielo. I due edifici che locompongono si fronteggiavano nella luce limpida diquel tardo pomeriggio, non c’era il sole, ma i tetti bril-lavano di turchino e di verde, quasi di luce propria,come si dice per le stelle.

***

Fred era americano e viveva in Cina da quasi ven-t’anni. Non era un sinologo, ma solo un comunista.Il Pc degli Usa lo aveva mandato a Pechino negli anni’50, per “aiutare la nuova Cina”. Ma in tempi di mac-cartismo andare in Cina significava per un ameri-

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cano fuggire, espatriare clandestinamente e Fredaveva perso il passaporto americano. Da allora erastato praticamente prigioniero a Pechino, dove avevasposato una sinologa, italiana, ma proprietaria di uncurioso nome anglosassone: Christabel, e ne avevaavuto due figli.

Li avevo conosciuti ad Hanoi dove erano venuticome turisti, avevamo fatto amicizia e mi avevano in-vitato ad andare da loro a Pechino. Per poterli trovarenel compound dove abitavano avevo dovuto annotaresull’agendina il loro numero telefonico interno 5370,trascrivendo il cinese con gli accenti tonici: wu sàn chiling. Tutte le telefonate per gli ospiti del compoundpassavano obbligatoriamente attraverso il centralino.

Lavoravano entrambi alle Edizioni in lingue estere.Fred era un revisore, cioè ricontrollava le traduzionifatte dai cinesi per renderle più simile possibile all’in-glese parlato nel mondo anglosassone. Un lavoro diffi-cile perché i cinesi non sempre accettavano le sue cor-rezioni. Spesso questioni grammaticali e sintattiche di-ventavano problemi politici e ideologici. Ma Christabelaveva un compito ancora più difficile: le era stata affi-data la traduzione italiana delle opere complete del pre-sidente Mao. Qualche mese prima, quando li avevo co-nosciuti ad Hanoi, aveva raccontato, facendomi riderefino alle lacrime, quanto fosse difficile convincere i suoiinterlocutori cinesi che la parola composta marxismo-

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leninismo-mao-tse-tung-pensiero non fosse un’espres-sione accettabile in italiano (e probabilmente in qual-siasi altra lingua, a parte, forse, il cinese).

Chiamai il compound e alla voce della centralinistaprovai a recitare il numero 5, 3, 7, 0, in inglese. La cen-tralinista riattaccò. Riprovai e recitai i numeri cinese“wu, sàn, chi, ling” sperando di non sbagliare la pro-nuncia, sentii un grugnito dall’altra parte, rumori dicontatti, poi lo squillo e finalmente la voce di Fred.

Era solo a Pechino. Christabel era partita per l’Italiae sarebbe tornata tra pochi giorni, non aveva ricevutoil mio telegramma, che arrivò soltanto l’indomani, macomunque quella sera avremmo cenato assieme in unristorante.

Il ristorante si chiamava “Dei tre tavoli” ed era spe-cializzato in cucina cantonese. Era uno dei locali piùantichi e famosi di Pechino. Un locale grande e oscuro,illuminato da poche lampadine. Eravamo i soli clientiattorno a un enorme tavolo rotondo sul quale troneg-giava il piatto principale: un gigantesco e squisitopesce in agrodolce. Quella sera imparai molte cosesulla “grande rivoluzione culturale proletaria”.

Imparai che era stata un’esperienza tragica e terri-bile per la maggior parte dei cinesi, un periodo di in-sicurezza, di paura, distruzione e morte. Tutte cose chesarebbero state svelate qualche anno più tardi, dopo lasconfitta definitiva della “banda dei quattro”, dopo la

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morte di Mao e l’eliminazione dal potere di Hua Guo-feng. Ma allora nemmeno i più severi critici del comu-nismo cinese potevano immaginare quali tragedie at-traversassero la Cina.

La maggioranza della sinistra in Occidente credevaancora, anche quando non ne condivideva gli estre-mismi, alla rivoluzione culturale come grande movi-mento libertario, spontaneo e “dal basso”. Nelle paroledi Fred scoprivo una realtà tutta diversa. Il mito venivasmantellato un pezzo alla volta come il pesce in agro-dolce che ci stava davanti.

Fred parlava a bassa voce, circospetto, non genera-lizzava, non traeva conclusioni politiche definitive. Ri-cordava solo episodi e aneddoti che non facevano ri-dere neanche quando erano grotteschi. Raccontavacon concretezza pacata e terribile cosa aveva signifi-cato per lui, per la sua vita e la sua famiglia la “Granderivoluzione culturale proletaria”.

Erano problemi molto piccoli, diceva, rispetto aquelli che avevano dovuto affrontare i cinesi. Nessunoaveva mai pensato seriamente di poter mandare Fredo sua moglie a dissodare i campi o a raccogliere con-cime nei villaggi. Ma l’insicurezza era grande. C’era unclima di paura, nulla era certo, nei posti di lavoro gliinterlocutori cambiavano continuamente e in peggio.Letterati sensibili e studiosi attenti sparivano da ungiorno all’altro e venivano sostituiti da ideologi rozzi,

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ignoranti. Nel 1974 nessuno era ancora tornato, e moltinon sarebbero tornati mai.

Ma tutto sommato, secondo Fred, i peggiori nonerano i cinesi ma altri stranieri che sposavano stupi-damente gli slogan delle guardie rosse. Persone temi-bili a causa del loro settarismo, che li rendeva ottusi ecapaci di denunce e di bassezze allo scopo di apparire“puri rivoluzionari”, veri maoisti agli occhi dei diri-genti cinesi.

Per una discussione su un aggettivo, si rischiavanoaccuse pesanti e anche molto rischiose: nemico del po-polo, elemento controrivoluzionario, spia. Fred, ame-ricano senza passaporto, considerato in patria un co-munista pericoloso, non aveva un retroterra, una viadi fuga, come gli altri stranieri, era praticamente im-possibile espellerlo dalla Cina, e allora quale poteva es-sere la punizione per lui?

Fred era rimasto non per questa impossibilità difuga, ma perché amava la Cina profondamente e per-ché nel momento più difficile era intervenuto il primoministro Zhou Enlai, con tutta la sua autorità, per pro-teggere il lavoro degli “esperti stranieri amici del po-polo cinese”.

I camerieri si affacciavano di tanto in tanto allaporta e Fred abbassava la voce. Il nostro pesce nonc’era più, nel grande piatto bianco e azzurro rimanevauna lunga lisca desolata. L’atteggiamento sempre più

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impaziente dei camerieri non lasciava dubbi: era arri-vata l’ora di chiusura e bisognava andare via.

La città ormai era deserta, immensa e vuota e cosìerano i corridoi del Xin Qiao. Ora mi sembravanotroppo grandi e sinistri. I racconti di Fred mi tennerosveglio a lungo con un senso di insicurezza e di ansia,molto simile alla paura. Ero quasi contento, tutto som-mato, di dover partire il mattino dopo. Mi consolavasapere che poche ore dopo sarei salito sul treno inter-nazionale per Mosca.

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PECHINO-ERLIAN

C’era molta animazione al primo marciapiede dellastazione di Pechino, l’indomani mattina verso le sette.

Mi ero svegliato presto, dopo aver dormito male, edero uscito dall’albergo con grande anticipo sull’orario.Eppure, mentre il taxi avanzava lentamente tra la follache a quell’ora del mattino aveva invaso le stesse stradedeserte la sera prima, sentivo una contrazione allo sto-maco, troppo forte per essere spiegata con la paura,peraltro del tutto ingiustificata, di perdere il treno. Misentivo assediato, chiuso in quella scatola di latta giap-ponese, incapace di comunicare con l’autista impassi-bile che mi portava verso la sicurezza del treno.

Le biciclette occupavano ogni spazio, facendo va-lere la loro legge e la loro velocità sull’automobile cherombava e sbuffava, imprigionata e impotente nel traf-fico. A Pechino sarei ritornato solo nel 1996 per costa-tare che, pur non essendoci più biciclette ma solo au-tomobili, tante automobili, troppe automobili, la velo-cità di spostamento non era aumentata, e per di piùl’aria era diventata irrespirabile.

Ma poi, dopo una porta e un tratto di mura anticheancora conservato, sfuggito alla febbre edilizia di Pe-

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chino, finalmente era comparsa la stazione e, facen-domi strada tra la folla compatta, avevo raggiunto il bi-nario numero uno, isolato dalla moltitudine dei cinesiche prendevano altri treni, treni dai sedili duri, peraltre destinazioni.

Il treno internazionale era imponente ed estraneo aquella stazione e in mezzo al convoglio verde spiccavail vagone blu della classe speciale, leggermente piùlargo e leggermente più alto, quel tanto che bastava astabilire la sua superiorità. Un vagone pieno di boria edi dorature. La grande locomotiva a vapore faceva sen-tire le sue pulsazioni profonde e metalliche, il respirodi un gigante d’acciaio.

Mostrai il mio biglietto al conduttore, immobile sulmarciapiede affollato, davanti al vagone internazio-nale. Mi disse di aspettare. Dall’unico sportello apertoi portabagagli stavano caricando un numero incredi-bile di valigie di cuoio, tutte uguali. Dalla gente sulmarciapiede veniva un vociare in una lingua europea,in francese. Più lontano, gli studenti vietnamiti sali-vano allegramente sui vagoni di seconda classe e in-sieme a loro saliva un gruppo di europei di cui non riu-scivo a capire la nazionalità, ma sicuramente dell’est.Uno di loro, vestito con maggior cura, si assicurò chefossero saliti tutti e poi si diresse verso il vagone blu.

Aspettavo ai piedi del predellino che fossero cari-cate le grosse valigie di cuoio, tutte uguali, tutte chiuse

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con lucchetti e catenelle. Notai due cinesi vestiti con lasolita tunica blu, ma molto ben tagliata, elegante, chesorvegliavano attentamente le operazioni di carico.

Finalmente finirono di caricare quei bagagli e poteisalire.

I due cinesi occupavano lo scompartimento adia-cente al mio e ora tentavano di sistemare tutte le vali-gie che lasciavano loro poco spazio. Passando davantialla loro porta feci un sorriso e un gesto di saluto, manon mi risposero. Anzi uno dei due chiuse la portaquasi sbattendola, l’altro, notai, aveva una valigetta in-catenata al braccio. Corrieri diplomatici, era chiaro, la“valigia” da Pechino a Mosca. Mi venne il sospetto cheavessero dovuto cedermi all’ultimo momento uno deidue scompartimenti a loro riservati e per questo fos-sero irritati con me.

Dei due ambasciatori vietnamiti invece nessunatraccia.

Anche i francesi erano saliti. Una giovane coppia,che occupava l’altro scompartimento adiacente al mioe un signore anziano e asciutto, molto dignitoso.

Erano le 7,40 quando il treno, in perfetto orario, simosse e si diresse decisamente a nord. Mi chiusi nelloscompartimento per salutare Pechino. Ma l’uscita fualtrettanto deludente dell’entrata. La campagna di no-vembre è fredda e spoglia anche in Cina.

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***

Per combattere la mia delusione mi misi a esaminarelo scompartimento: per molti giorni questa sarebbestata la mia casa. Due larghe cuccette e una poltronaampia, cuccette e poltrona ricoperte di velluto verde;un tavolino, con i fiori di plastica e il centrino rica-mato, il thermos, tazze e teiera: lo scompartimento divagone letto più ampio che avessi mai visto. Bene, ilviaggio me lo sarei goduto. C’era un piccolo armadio,ma non il lavabo. Aprii l’armadio e mi accorsi che sitrattava invece di una porta che immetteva in unbagno vero e proprio: lavabo, doccia, c’era propriotutto. Un complicato sistema di tubi e catenacci facevasì che appena si apriva la porta dalla mia parte venissebloccata quella opposta. Il bagno infatti serviva duescompartimenti adiacenti. A me toccava dividerlo coni due corrieri diplomatici ai quali, secondo le mie de-duzioni, avevo sottratto lo scompartimento.

Rientrai e, mentre chiudevo, sentii il catenaccio li-berare l’altra porta e poi discendere fragorosamentesulla mia. Il controllo delle abluzioni era reciproca-mente assicurato. Sperai solo che i miei vicini nonavessero abitudini notturne.

Qualcuno bussò garbatamente, era uno degli in-servienti del treno con un thermos d’acqua bollente.Alto e massiccio come il suo collega, ma con due occhi

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furbi e un sorriso quasi strafottente, mentre l’altro erasempre cupo, l’espressione severa. Le loro divise bluerano ben tagliate, eleganti, come quelle dei dirigenti.Forse non dovevano sfigurare all’estero. Forse eranoeffettivamente qualcosa di più che semplici inser-vienti del vagone internazionale. Poter andare rego-larmente all’estero non era cosa da poco nella Cina diquegli anni.

I loro compiti, almeno apparentemente, erano ri-fare i letti e cambiare l’acqua dei thermos, cose che ese-guivano con grande leggerezza e senza impegnarsitroppo. Durante tutto il viaggio non riuscii a capiredove dormissero, forse in uno scompartimento vuotodel vagone speciale, forse in un altro vagone, di quelliirraggiungibili per noi passeggeri “speciali” stretta-mente confinati nel nostro guscio dorato.

Di giorno stavano in uno stanzino all’estremità delvagone dove, in una stufa a carbone, bolliva semprel’acqua per i thermos. Di notte, in qualsiasi momento,se si usciva nel corridoio, uno di loro spuntava da unadelle estremità del vagone, guardava e poi spariva dinuovo. Comunque giorno e notte almeno uno di lorodue era sempre presente, vigile.

Il treno ora saliva tra colline boscose. Uscii nel cor-ridoio, dove tutti i passeggeri che avevo visto a Pechinoguardavano dai finestrini fissando qualcosa in lonta-nanza.

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“Non vedi?” diceva il giovane francese con i baffialla compagna.

“Non vedo nulla” rispondeva lei.Ero curioso: “Chiedo scusa,” chiesi al giovanotto, “che cosa si do-

vrebbe vedere?”“Come? Ah, si vede la Grande Muraglia” mi rispose

secco lui, con aria vagamente sprezzante, come se vo-lesse dire:

“Guarda che tipo, prende il treno a Pechino e non sanemmeno che si vede la Grande Muraglia.”

In quel momento la donna strillò: “Eccola, laggiù, la vedo.”Soddisfatti, i due francesi rientrarono nel loro scom-

partimento. Io non riusci vo ancora a vedere nulla econtinuavo a fissare le colline, ma doveva essere evi-dente che guardavo nel vuoto.

“Non credo che si possa vedere nulla da qui, senon con l’immaginazione. Non si preoccupi, avràtutto il tempo di vederla veramente, la Grande Mura-glia, e anche di salirci su, tra non molto.” Era stato ilfrancese alto e asciutto a parlare. Mentre diceva “ve-ramente” aveva ammiccato con leggera ironia versola porta dello scompartimento dove erano i suoi con-nazionali.

“Non mi pare di averla incontrata a Pechino” conti-nuò e si presentò.

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“A Pechino sono stato solo poche ore, sono arrivatoieri da Hanoi.”

“Da Hanoi? Il Vietnam è la parte dell’Asia che cono-sco meno. Ma Hanoi una volta era una bella città. E checosa faceva lei ad Hanoi?”

Glielo dissi e mi presentai a mia volta. “Interessante” disse lui e cominciammo a parlare di

guerra e di politica.Il treno si fermò mentre discutevamo con passione

delle sorti dell’Asia e del mondo. “Ecco la Grande Muraglia, scendiamo, avremo

tempo per chiacchierare fino a Ulan Bator.”“Ulan Bator?”“Sì, io scendo lì. Ma non è un posto divertente, sa?”Il treno si era fermato in mezzo alla campagna, tra le

colline e di fronte a noi si stendeva il gigantesco ba-luardo merlato. La stazioncina isolata sembrava schiac-ciata dal monumento. Si poteva salire su una delle torrida dove si vedeva il grande serpente di pietra arrampi-carsi e scendere per riarrampicarsi sulle colline, all’in-finito, verso est e verso ovest.

Sono seimila chilometri di muro, non sempre cosìalto, non sempre così ben costruito. Ma sapere questonon cambiava in nulla l’impressione di solennità e diforza che veniva da quelle pietre. La Grande Muraglianon è stata costruita nel giro di una dinastia o di unregno. Nel terzo secolo avanti Cristo l’imperatore Shi-

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huangdi aveva ordinato di unire tra loro fortificazioniche già esistevano per proteggere le pianure fertilidella Cina dalle incursioni dei nomadi, dei “barbari”delle steppe. Shihuangdi è il primo imperatore, quelloche ha unificato la Cina. Ma è anche “l’imperatorepazzo” che, dice la leggenda, avrebbe bruciato tutti ilibri precedenti la sua ascesa al potere e massacratotutti gli intellettuali perché non rimanesse traccia nellastoria di quanto era accaduto prima di lui. Era comun-que un grande imperatore, qualcuno lo ha paragonato,esagerando in molti sensi, a Mao Zedong.

Solo nel XV secolo la Muraglia ha assunto l’aspettoche conosciamo oggi. Un lavoro di quasi duemila anniapparentemente inutile: per tutti quei secoli i “barbari”hanno continuato ad invadere la Cina, a conquistarla, adominarla fondando nuove dinastie imperiali.

Però gli imperatori “barbari” nel giro di una o duegenerazioni diventavano cinesi e continuavano a co-struire o a perfezionare la Grande Muraglia. E se laMuraglia veniva mantenuta e rafforzata era perché se-gnava un limite simbolico dell’Impero di Mezzo, lafrontiera tra civiltà e barbarie. La divisione era netta, diqua la Cina, di là la Mongolia e, dopo la Mongolia, ilresto del mondo.

Ma in quella mattina nebbiosa, che non permettevaallo sguardo di spingersi lontano, il paesaggio noncambiava dalle due parti. Nelle mie fantasie infantili

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di osservatore di carte geografiche si era formata laconvinzione che ai confini si dovessero notare netta-mente le differenze tra i due paesi. Che cambiassero icolori. Ovviamente avevo imparato presto che non eracosì ma qui, ammirando questa frontiera così netta ecorposa, mi ritornò alla mente quella fantasia ed eroquasi deluso del fatto che non ci fossero almeno diffe-renze di paesaggio immediatamente visibili tra le dueparti della muraglia.

Non riuscivo a staccare lo sguardo da quella im-mensa costruzione di pietre, cercavo di seguirla piùlontano possibile, prendendo le torri come punto di ri-ferimento, puntini via via più lontani.

Il treno fischiò. Mi riscossi e vidi che gli altri pas-seggeri erano scesi dalla torre e stavano già prendendoposto sul treno. Mi precipitai giù e arrivai trafelato.L’anziano signore francese era l’ultimo, proprio da-vanti a me. Si girò:

“Non si affanni, non l’avrebbero certo lasciata qui,non si può sperare che i cinesi facciano un errore delgenere.”

Gli dissi che i cinesi con me di errori ne avevanofatto almeno un paio in questo viaggio. E gli raccontaiquali.

“Non sono errori, sono scelte. Tanto per far capireche questo era un viaggio poco gradito. Comunque cel’ha fatta, complimenti.”

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I due giovani francesi erano in piedi nel corridoio.Guardavano la Grande Muraglia sfilare a fianco deltreno che si muoveva sempre più rapidamente.

“Ora si vede proprio bene” disse lei rivolta all’an-ziano francese.

“Già,” rispose lui “proprio così.”Poi sorrise e si rivolse a me: “Permette che le presenti...” disse un nome, che ho

dimenticato, e una qualifica: terzo segretario dell’am-basciata di Francia a Pechino e signora. Poi si scusò esi ritirò nel suo scompartimento.

“Ma lei sa chi è, lo conosceva già?” mi chiese il terzosegretario. Da quando mi aveva visto parlare quasi confamiliarità con il suo connazionale, mi guardava conun’aria tra rispettosa e invidiosa.

“Ci siamo presentati mezz’ora fa, più o meno.”“Ah, ma sa chi è?”“No, non me lo ha detto.”Mi sembrò quasi sollevato e gonfiandosi un po’,

come se quello che stava per rivelarmi gli conferisseuna definitiva superiorità su di me, disse con aria diimportanza:

“È un grande professore della Scuola di lingueorientali di Parigi, ora in missione a Ulan Bator.”

“È l’unica cosa che mi ha detto: che sarebbe sceso aUlan Bator. Ma non mi ha spiegato che cosa ci andrà afare.”

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“Ma è uno dei maggiori conoscitori della Cina e del-l’Estremo Oriente, lo sa?”

No, non lo sapevo, ma ero felice di apprenderlo. Ilterzo segretario alzò le spalle e, rientrando nel suoscompartimento, commentò con aria scontenta:

“Ed è una delle persone meno socievoli che io co-nosca...”

Chissà che cosa voleva dire, a me “il grande profes-sore” era sembrato molto simpatico.

Che non fossimo più in Cina, ma in un altro Paeseora potevo constatarlo, non solo perché la Grande Mu-raglia, sparendo e ricomparendo a seconda del movi-mento delle colline e delle montagne, continuava a ri-cordarmi che avevo superato un limite, ma soprattuttoperché il paesaggio era veramente cambiato, si erafatto quasi desertico.

Eravamo ancora nella Repubblica popolare cinese,ma fuori c’era già la Mongolia. Mongolia interna, èscritto sulle carte geografiche, interna alla Cina. Terradi nomadi e terra di frontiera. Da qui si arrivava in Eu-ropa, come c’erano arrivati nel corso dei secoli Unni,Avari e Gengis Khan. Genti che avevano conquistato ilmondo partendo da queste terre. C’erano ancora mi-gliaia di chilometri da percorrere, ma non c’era più nes-sun serio ostacolo naturale da superare fino all’Europa.

Il treno intanto aveva compiuto una grande curva,non costeggiava più la Grande Muraglia ma si dirigeva

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senza esitazioni verso nord correndo parallelo a unastrada, deserta, come le colline che avevamo lasciato.C’era l’immensità attorno a noi, un’immensità di ce-spugli magri e radi, di verde scuro e di terra grigia. Lasteppa. La monotonia del paesaggio veniva interrottadi rado: qualche pastore con qualche pecora, un cam-mello, una batteria contraerea dell’esercito popolare.

Il terzo segretario si eccitò particolarmente alla vistadella batteria contraerea. Rientrò nel suo scomparti-mento e ne uscì subito con una macchina fotografica.Ma in quel momento esatto, in fondo al corridoio, ap-parve uno dei due inservienti, quello che sorridevasempre, che si mise a guardarlo con aria sorniona.

“Le ho fatto vedere la mia nuova Nikon?” disse il di-plomatico rivolgendosi a me e porgendomi la sua mac-china. “È l’ultimo modello.”

Esitai un po’. Allora lui, quasi bruscamente, mi misecon decisione in mano l’apparecchio e incominciò a il-lustrarne i pregi, parlando ad alta voce, ostentata-mente, puntando il dito sulle varie parti meccaniche.

“Interessante” dissi poco convinto.Lui insisteva, l’inserviente guardava dal fondo del

corridoio sempre con la sua aria sorniona. “A me hanno sequestrato i rullini all’ingresso in

Cina” dissi, per interrompere la commedia.Ma più efficace di me fu il professore che aveva os-

servato la scena in silenzio:80

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“Non credo che il nostro uomo capisca il francese,”osservò “mi sembra inutile che lei parli ad alta voce.”

Il terzo segretario lo guardò un po’ umiliato, un po’stupito, ma soprattutto seccato, mi riprese di mano lamacchina fotografica con un sorriso forzato e rientrònello scompartimento.

L’improvviso apparire della batteria contraereaaveva interrotto una conversazione francamente no-iosa, nella quale il terzo segretario aveva fatto sfoggiodi una serie ininterrotta di luoghi comuni sulla Cina,sull’Asia, sulla politica mondiale.

“Ladruncolo” disse dopo qualche minuto di silen-zio il professore.

Lo guardai, più stupito che interrogativo.“Si sta chiedendo perché ho detto cosi? È che questi

giovanotti arrivano in Cina credendo di saper tutto, epoi si comportano in modo insulso, cercano di rubarequalche conoscenza. Ladruncoli di conoscenze. LaCina bisogna guadagnarsela.”

E, senza che gli chiedessi nient’altro, cominciò araccontare la sua vita.

O almeno una parte. Era venuto in Cina giovanis-simo, appena laureato in lingue orientali. Una laureache apriva alla carriera diplomatica in EstremoOriente. Nella Cina delle concessioni questo signifi-cava andare a rappresentare il proprio paese: “A farsventolare la bandiera in un posto di capanne di fango,

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con un palazzotto di qualche signore della guerra diseconda categoria e a proteggere qualche missionariofanatico e imbecille” disse lui.

Ma significava anche imparare a conoscere il Paesein profondità, capire cose che non si trovano in nes-sun libro. Aveva abbandonato la diplomazia ma non iviaggi e si era dedicato agli studi.

Lo guardavo mentre raccontava. Cercavo di capirecosa ci fosse sotto quei capelli grigi tagliati a spazzola,dietro gli occhi celesti chiarissimi, ma illuminati dalampi di collera trattenuta, di dolcezza quasi amorosaverso il continente che attraversavamo, forse da rim-pianti. Ma soprattutto mi impressionava la sua pellepallida ma non più bianca, come se qualcosa dell’Asialo avesse segnato per sempre.

Continuò a raccontare di una Cina dove si andava acavallo per lunghe distanze. Sospirò.

“Vede, queste terre le ho attraversate tutte, moltianni fa, da Pechino a Ulan Bator a cavallo.”

Era scesa la notte e la steppa sembrava più viva. Inlontananza si vedevano luci tremolanti. Segni sicuri dipresenza umana. Si poteva capire che la solitudine nonera assoluta, ci si spiegava come mai all’improvviso po-tessero apparire da dietro i cespugli – o dal nulla – unuomo, un gregge di pecore, un cavaliere o anche unabatteria contraerea. La notte rivelava quello che il giornonascondeva. Quest’ultima riflessione la feci a voce alta.

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“È proprio così” riprese il professore, “si poteva ca-valcare per giornate intere senza vedere nessuno. Mabastava fermarsi perché qualcuno, chissà da dove, ve-nisse fuori a curiosare. A volte a far domande, piùspesso si limitava a guardarci e quando rimontavamoa cavallo, spariva come era comparso.”

“Come nel Sahara” osservai.Fu un’osservazione improvvida perché smise di rac-

contare e iniziò a farmi domande sul Sahara e sul-l’Africa.

Ma si era fatta ora di cena e fummo chiamati al va-gone ristorante.

Le tavole erano state preparate con precisione me-ticolosa: una per scompartimento e distribuite inmodo che ci fosse sempre un tavolo vuoto tra quelli ap-parecchiati.

Il terzo segretario e signora erano già seduti e ap-pena videro il professore lo chiamarono:

“Venga con noi, c’è posto.”“Venga anche lei, quei due mi annoiano” mi disse

lui a bassa voce, e poi a voce più alta aggiunse: “Può venire anche il mio giovane amico?”“Ma certamente” dissero in coro i due ostentando

un sorriso, ma il volto del terzo segretario si era rab-buiato.

La cameriera era una cinese alta, di una bellezza se-vera, ma scortese e brusca. Non aveva gradito affatto

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che avessimo cambiato i posti fissati e ce lo fece pesareper tutta la serata.

Il cibo era delizioso, la conversazione banale. Comespesso succede in questi casi si parlava appunto di cu-cina. Il terzo segretario ci descrisse a lungo quel cheavrebbe mangiato una volta in Francia, in quali deli-ziosi ristorantini e con quali splendidi vini.

“Perché questa cucina cinese alla fine stufa, e poinon hanno il vino.”

“Ma voi non mangiate in ambasciata?” chiese sor-nione il professore.

I due fecero finta di non capire e lui continuò: “A proposito, vi conviene fare provviste per do-

mani, a meno che non vogliate sperimentare le deliziedella cucina mongola. Quella sì che è immangiabile.”

Tutti seguimmo il consiglio. Comprai panini al pro-sciutto e due bottiglie di vodka cinese di un bizzarrocolore giallo paglierino. Poi ci alzammo, anche perchéla cameriera, da qualche minuto, si era piazzata a unpasso dal nostro tavolo e ci guardava fisso, senza na-scondere l’impazienza.

Anche gli altri tre ospiti europei del vagone interna-zionale, il giovane che avevo visto salire a Pechino e altridue che fino ad allora non avevo notato, si erano messiinsieme e discutevano animatamente in una lingua chemi parve russo. La cameriera si spostò e si mise, impet-tita, davanti al loro tavolo.

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Fuori del vagone ristorante aspettavano i due cor-rieri diplomatici cinesi e, un passo indietro, i due am-basciatori vietnamiti. Dunque erano saliti anche loro.Li salutai con un cenno della testa e loro mi risposerocon un’espressione quasi stupita, ma mi risposero.

***

Rimasi a occhi aperti e a luci spente nel mio scompar-timento fissando il buio oltre il finestrino.

Ora non si vedevano nemmeno i puntini illuminatiin lontananza. L’oscurità era totale. Ma cercavo ancorain qualche modo di guardare, di indovinare qualcosa.Il treno rallentò nello stesso momento in cui un vagochiarore incominciò a bagnare il buio della notte.

La stazione di frontiera a Erlian era un edificiogrande e molto illuminato. Il treno vi si fermò solen-nemente e tutti scendemmo. Si poteva scegliere se re-stare nel proprio scompartimento e assistere al cam-bio dei carrelli, oppure scendere. Era una scelta diffi-cile. Avevo voglia di sgranchirmi le gambe e di respi-rare una boccata d’aria. La cena era stata abbondante,avevamo bevuto e ora gli effetti si facevano sentire. Mavolevo anche assistere al cambio dei carrelli, una ceri-monia simbolica più che un’operazione tecnica.

Si trattava di passare dallo scartamento “standard”adottato in Cina a quello russo, più largo. Ogni volta

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che un treno entra nel territorio dell’Impero russoviene portato in un’officina, dove delle gru sollevano ivagoni dai carrelli che restano sulle rotaie pronti a ri-cevere un treno che ritorna indietro verso il resto delmondo e viene trasportato su nuovi carrelli già ada-giati sulle rotaie a scartamento russo.

La prima ferrovia fu inaugurata in Russia nel 1836,una breve linea che conduceva da Pietroburgo alla re-sidenza estiva dello zar Nicola I a Carsoe Selo: unaquindicina di chilometri per uso privato della corte.Mezzo secolo dopo, nel 1886 Alessandro II dette l’as-senso definitivo al progetto della ferrovia Transibe-riana. In mezzo secolo si erano dovute superare le dif-fidenze che allora il treno ispirava in tutti i paesi, oltrea quelle specifiche della Russia. Una delle conseguenzedelle diffidenze fu la decisione di adottare uno scarta-mento diverso da quello del resto d’Europa. Per que-sto esisteva una seria ragione strategica: sarebbe statomolto difficile per le truppe di qualsiasi invasore pe-netrare rapidamente nel cuore del Paese. Mosca si ri-cordava ancora di Napoleone. E la differenza di scar-tamento rallentò non poco, durante la Seconda guerramondiale, l’avanzata delle truppe naziste.

Così le ferrovie furono costruite con binari diversi.La rivoluzione cambiò molte cose ma non lo scarta-mento ferroviario, e il regime sovietico lo estese as-sieme alla rete dei trasporti appunto fino alla Mongo-

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lia. La Transmongolica venne costruita tra il 1939 e il1955.

Era la seconda volta che cambiavo scartamento inquesto viaggio: prima dalla stretta ferrovia colonialevietnamita a quella cinese e ora dalla cinese alla russa.Anche da questo punto di vista la Cina era isolata, i bi-nari diversi costituivano una sorta di Grande Muragliamoderna che segnava una differenza, una linea di se-parazione con il resto del mondo. In questo caso peròa stabilire la differenza non erano stati i cinesi, ma glieuropei, russi e francesi. Anche se nella percezione delviaggiatore la precisione storica aveva poca rilevanza,la differenza di scartamento mi sembrava segnasse conun rito di passaggio l’entrare e l’uscire dalla Cina.

Decisi di scendere dal treno, pensando che la ceri-monia del cambio dei carrelli avrei forse potuto ve-derla in un’occasione futura, in ogni caso più proba-bile di un altro passaggio del confine tra la Cina e laMongolia.

Il treno era letteralmente circondato da guardie difrontiera e doganieri cinesi che salivano sui vagoni e,a chi scendeva, indicavano con gesti cortesi e sorrisil’edificio illuminato della stazione. Avevano un’ariaquasi di commiserazione per noi che lasciavamo la ci-viltà della Cina per avventurarci in terre barbare.

Quando due anni prima ero arrivato all’aeroportodi Pechino da Mosca, sulla via di Hanoi, avevo trovato

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lo stesso atteggiamento (o meglio la sua versione dibenvenuto) nei doganieri, inservienti e poliziotti. Invi-tavano i passeggeri appena arrivati a riposarsi, a pren-dere un tè, si informavano della salute di ognuno edelle condizioni del volo, con un’aria di comprensioneper le nostre supposte sofferenze in balia di quei sel-vaggi dell’Aeroflot. Le domande erano: “È stata dura?”,“Faceva molto freddo in Siberia, vero?” mentre nellasala d’attesa dell’aeroporto di Pechino si gelava lette-ralmente, né più né meno che allo scalo di Irkutsk.

Nel grande atrio della stazione c’era un’aria di festa.Agli sportelli della dogana gli studenti vietnamiti face-vano la fila, ma io venni indirizzato a uno sportello as-solutamente sgombro. Il doganiere timbrò il mio pas-saporto, io gli mostrai la ricevuta dei rullini fotogra-fici, lui la prese e, facendo ampi gesti di rassicurazione,mi fece capire che tutto mi sarebbe stato restituito. Mapiù tardi.

Me ne andai scrollando le spalle. In fondo nonavevo mai contato di rivedere quei rullini, li avevo sa-lutati all’altra frontiera.

Fui indirizzato verso una sala da dove veniva unbrusio. Sembrava che qualcuno cantasse.

Era una sala ancora più grande e tutti i passeggerisedevano intorno, lungo le pareti, come in una festada ballo di paese. C’erano tutti, il gruppo di giovanottiesteuropei che avevo visto salire a Pechino, i due pas-

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seggeri del vagone speciale che avevo notato al risto-rante, gli studenti vietnamiti... Mancavano solo i fran-cesi e i due corrieri diplomatici cinesi.

C’erano invece i due ambasciatori vietnamiti. Mi di-ressi verso di loro.

Nella sala qualcuno effettivamente cantava. Tuttiguardavano nella direzione della porta e, come entrai,vidi che a destra dell’ingresso c’era una piattaforma dilegno sulla quale bambine, vestite in costumi colorati,agitavano fazzoletti rossi e cantavano con vocette unpo’ stridule.

“Cosa cantano?” chiesi in francese a uno dei dueambasciatori vietnamiti che aveva risposto al miocenno di saluto in un modo piuttosto cordiale.

“Oh, soltanto una canzone di saluto per gli ospitistranieri. Offerta dalla scuola elementare di Erlian perrendere più gradevole la nostra permanenza.”

“Nulla di politico?” L’ambasciatore sorrise e non ri-spose.

La musica strideva da un vecchio grammofono na-scosto da qualche parte, le bambine erano graziose, masi muovevano goffamente, con enormi fiocchi rossi,verdi, gialli e viola appuntati in cima alla testa.

Il primo numero finì e qualcuno cambiò il disco. Lebambine si disposero in una fila ordinata, un po’ ansi-manti, in fondo alla piattaforma. Mi sembrava di co-noscere la musica.

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“Non è una canzone vietnamita?” chiesi all’amba-sciatore.

“Sì, ma è tradotta in cinese, e francamente è cantatamolto male.” E senza dire altro si avviò verso il gruppodegli studenti. Quando la canzone finì applaudironotutti, seri e con grande impegno, mentre i giovanottieuropei, sicuramente ubriachi, lanciavano urla bel-luine, fischiavano e sghignazzavano.

Le bambine sorrisero forzatamente, ma in quel mo-mento dal fondo della sala partì un movimento inar-restabile, non c’era stato nessun segnale ma senza dub-bio il treno era pronto.

Le cose erano molto cambiate nel 1993 quando daErlian passò Tiziano Terzani: “L’operazione (il cambiodei carrelli NDR) durò cinque ore e i cinesi ne appro-fittarono per vendere ai mongoli montagne di mer-canzie: al centro di Erlian avevano organizzato ungrande mercato dove erano esposti tutti i principalibeni di consumo cinesi”21. Le cinque ore dovevano,evidentemente, servire solo a moltiplicare le venditevisto che nel 1986 Mary Morris parla di un po’ più ditre ore e nel 2010 Mauro Buffa, passando la frontieranell’altro senso, verso la Cina, parla di un cambio dicarrelli che avviene in poco più di un’ora, esattamentecome nel 197422.

Aspettai che tutti uscissero. Lungo il muro, doveerano seduti poco tempo prima gli studenti vietnamiti,

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restava una fila di strani pacchetti. Sembravano pian-tine. E lo erano. Stavano lì, nella polvere, in mezzo aqualche cartaccia e a bucce di arance mangiate infretta. Come seppi dopo, i doganieri cinesi avevano av-visato i vietnamiti che né in Mongolia, né in Urss, perragioni di profilassi contro le malattie tropicali, pote-vano essere importati vegetali. Così le ultime aranceerano state mangiate e le piantine abbandonate. I gio-vani vietnamiti pensavano di coltivare qualche erba dicasa per alleggerire la nostalgia e dare sapore a cibi dimense universitarie socialiste. Ma come potevano pen-sare di far crescere le piantine del loro paese nel climadi Mosca o di Praga?

Il treno fischiò e mi avviai rapidamente alla car-rozza. Sul sedile della poltrona stava il pacchetto incarta paglia dei rullini, meticolosamente poggiato nelcentro esatto della poltrona di velluto verde.

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ERLIAN-ULAN BATOR

Il treno cominciò a muoversi. Ora lo trainava un loco-motore diesel, la locomotiva a vapore era rimasta inCina. Presi il pacchetto e lo rimisi nella valigia, dovesperavo ora che avrebbe concluso tranquillamente ilsuo viaggio. Poi mi sedetti sulla poltrona in attesa cheil treno si fermasse a Dzamïn-Üüd, la prima stazionemongola dove sarebbero saliti altri doganieri e altri po-liziotti per le formalità di frontiera.

Le luci di Erlian erano sparite rapidamente e ora ilfinestrino polveroso mi separava da un’oscurità asso-luta. Spensi la luce dello scompartimento per cercaredi avvistare in lontananza la stazione mongola. Lagiornata in treno era stata lunga. Mi assopii.

Improvvisamente la porta si aprì senza che nessunobussasse e apparve un massiccio poliziotto mongolo,con una faccia imbronciata sotto un colbacco spelac-chiato. Avevo il visto e il passaporto sul tavolo e li presiavvicinandomi alla porta.

Dal corridoio venivano delle voci. I cinesi dello scom-partimento vicino discutevano con i doganieri. Dalfondo del vagone l’inserviente ridanciano, conun’espressione compunta, si dedicava a sistemare la

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guida rossa che correva lungo tutto il corridoio passan-doci sopra con i piedi. Arrivato all’altezza dei due doga-nieri che discutevano con i suoi connazionali, fece inmodo di spingerli brutalmente con una spallata. Lostesso fece con il poliziotto che stava davanti al mioscompartimento e con il suo collega che stava un passopiù in là. All’altra estremità della carrozza l’inservientetriste guardava la scena.

Detti i miei documenti al poliziotto. Il visto per laMongolia era un cartoncino color paglia che mi era co-stato quasi un’ora di lavoro. Il questionario per unsemplice visto di transito, che andava compilato in tri-plice copia, era il più lungo che mi sia mai capitato diriempire. Per farvi transitare in treno nel loro paese iMongoli richiedevano una specie di biografia com-pleta, un curriculum vitae et operis, con domande delgenere: “Avete mai scritto sulla Mongolia?” e, se sì, sesi trattava di articoli o di libri, e se gli articoli erano statiscritti per un quotidiano o un settimanale, e se questeopere erano state tradotte in lingua mongola. Oppure:“Avete parenti che risiedono nella Repubblica popo-lare mongola?” e, se sì, di che grado, e ancora: “Aveteconoscenze?” e così via.

Mentre il poliziotto scrutava il mio visto, l’inservienteaveva raggiunto la fine del corridoio, il suo collega gliaveva dato il cambio e continuava a raddrizzare la guidacon i piedi. Arrivato all’altezza dei poliziotti ripeté le

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spallate con maggiore energia del primo. Il poliziottocolpito fece una smorfia, ma non disse nulla. Poi mise ilpassaporto e il visto in una specie di grande portafogliodi pelle. L’altro, che era un graduato, gli fece un cennoe lui si spostò davanti alla porta dello scompartimentodel terzo segretario e signora. I doganieri avevano finitodi discutere con i due corrieri diplomatici cinesi, e pas-sarono a me. Entrarono con decisione nel mio scom-partimento, con una certa fretta, evitando così le spal-late dell’inserviente che ripassava. Mi chiesero di vederetutte le mie valigie con un’aria molto severa. Io inco-minciai a calarle e ad aprirle una alla volta. Mi chiedevoche scopo avessero tutti questi controlli su persone chein meno di ventiquattro ore avrebbero lasciato il terri-torio della Mongolia e che comunque erano stretta-mente confinate nella loro casa viaggiante.

Per ultima avevo lasciato la valigia con i rullini fo-tografici. La stavo faticosamente calando dalle reticellequando i due si guardarono e si sentirono soddisfattidell’ispezione. Mi fecero cenno di rimetterla a posto ese ne andarono.

Mentre rimettevo le valigie a posto, sentivo la vocecarica di indignazione del terzo segretario spiegare chele sue valige non potevano essere ispezionate: “Diplo-matico. Capito? Diplomatico” diceva.

I doganieri mongoli alla fine si rassegnarono e pro-cedettero oltre, incontro all’inserviente che avanzava

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inesorabile verso di loro, con la spalla protesa inavanti.

Finalmente potevo dormire. Mi allungai sulla cuc-cetta, ora la Cina era veramente alle mie spalle. Ero riu-scito a traversarla in treno, ma che cosa avevo impa-rato di nuovo? Che cosa avevo scoperto? Forse potevocollegare un paesaggio a letture che avevo fatto, manon sapevo molto di più sulla Cina.

La soddisfazione di averne sfiorata la terra, sulleruote d’acciaio del treno, o calpestato qualche marcia-piede di stazione, mi sembrava adesso del tutto tra-scurabile, quasi insulsa. Forse avevo visto più Cina dueanni prima durante i giorni di attesa di un aereo perHanoi.

Ero stato confinato in albergo, il gigantesco Hoteldelle Nazionalità: mi era stato ordinato di non muo-vermi. Azzardavo comunque piccole fughe dall’al-bergo, brevi passeggiate per il grande viale della PaceCeleste.

Un viale larghissimo, gli edifici che lo chiudevanocome quinte erano solenni e massicci. I dragoni e le fe-nici messi a decorare le facciate e gli ideogrammi delleiscrizioni non bastavano a nascondere che i loro pro-gettisti avevano studiato a Mosca.

Un giorno, stufo del solito itinerario, avevo svoltatoper una stradina secondaria scoprendo all’improvvisoun mondo completamente diverso. Pochi metri dietro

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le facciate monumentali c’era un intreccio di viuzzestrette, tra case a un solo piano costruite con mattonidi uno strano colore grigio piombo. Dai portoni apertisi intravedevano cortili ampi. Erano simili alle casedei contadini viste dal treno mentre ci avvicinavamoa Pechino.

I bambini giocavano, gridavano e correvano nellastrada e dentro i cortili. Un gruppo di loro si accorsedella mia presenza, e tutti si arrestarono di botto, congli occhi sgranati. Io mi fermai e sorrisi, ma loro, ibambini, restavano a guardarmi a bocca aperta. Nonsi vedevano adulti. Solo, sulla porta di una casa un vec-chio, un vecchio che riproduceva quello che nella miaimmaginazione era il letterato confuciano, che risposeal mio sorriso e scrollò la testa.

Continuai ad avanzare nel vicolo, i bambini si sco-starono lentamente per lasciarmi passare, feci un gestodi saluto al vecchio e, mentre mi allontanavo, sentivotutti quei piccoli occhi fissi sulla mia schiena. Com-parve, sbucando all’improvviso da un portone, unuomo in divisa, molto accigliato. Poi sorridendo inco-minciò a fare dei gesti. Mi indicava una strada lateraleche mi avrebbe riportato sul grande viale.

Mi fermai cercando di dire, sempre a gesti, che vo-levo andare avanti, lui, scuotendo la testa con deci-sione, mi costrinse a tornare sul viale.

La luce della grande strada era accecante. Due fiu-96

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mane di biciclette si incrociavano. Il semaforo cambiòcolore bloccando le biciclette. Decisi di attraversare.Guardavo le facce dei ciclisti, cupe, senza nemmenoun lampo di curiosità. Nel vicolo invece tutti erano cu-riosi. Avanzavo molto lentamente e non mi accorsi cheil semaforo aveva di nuovo cambiato colore mentre eroancora lontano dall’altro marciapiede.

Mi girai e vidi un fronte compatto di ruote e di facceavanzare deciso verso di me. Preso dal panico m’im-mobilizzai in mezzo alla strada. Fui sommerso dallafolla di ciclisti che miracolosamente mi passava at-torno senza sfiorarmi. La mia espressione doveva es-sere di terrore, e un gruppo di ragazze non trattenne lerisa passandomi accanto. Qualcuno mi disse delle coseaccompagnate da sguardi ironici. Poi il semaforofermò di nuovo la fiumana e corsi fino al marciapiede.

La mia unica preoccupazione era di dover traver-sare di nuovo il viale qualche centinaio di metri più inlà per raggiungere l’albergo. E quando decisi di farlo lofeci di corsa, senza guardare i cinesi che aspettavanodi scattare al verde e sentendo nella mia testa risate discherno.

Non erano risate, era solo il rumore regolare e mo-notono delle ruote sui binari. La Cina era veramentealle mie spalle, ci sarei mai ritornato? Sarei mai riu-scito a vedere quello che non avevo visto, a capire dipiù delle cose che avevo intuito?

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Aprii le tendine. Di fronte a me c’era il deserto, una di-stesa ocra di ondulazioni, di collinette basse che si ri-petevano all’infinito. Il Gobi, visto da terra non sem-brava il deserto freddo che avevo osservato dall’aereomentre due anni prima volavo da Mosca a Pechino. Al-lora avevo scambiato quelle ondulazioni per dune disabbia e mi aveva stupito e quasi emozionato consta-tare che le loro sommità tondeggianti erano sottoli-neate da mezzelune bianche e brillanti di neve rivoltea nord, messe in evidenza dalla luce radente dell’alba.

Era il mese di dicembre. Solo poche settimaneprima, tra ottobre e novembre, avevo fatto un lungogiro del deserto algerino e avevo provato un’emozioneforte a ritrovare un paesaggio che mi aveva riempitogli occhi a così poca distanza di tempo, ma con lastrana presenza della neve. Un elemento incongruoper il deserto, che associavo al calore insopportabile eall’aridità assoluta.

Una volta scioltasi la neve, le dune si sarebbero co-perte di una mezzaluna verde. Mi avevano raccontatolo spettacolo del deserto dopo un acquazzone. Un av-venimento raro e straordinario per la sua bellezza. Inpoche ore, quando, una volta ogni dieci, quindici, ven-t’anni, il deserto viene bagnato dalla pioggia, si rico-pre di una peluria d’erba che cresce rapidamente e al-

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trettanto rapidamente viene bruciata dal sole e spari-sce di nuovo. Ma in quelle poche ore, quelle piantinecompletano il loro ciclo vitale e riproducono i semi checadono tra i granelli di sabbia, confusi tra i quali aspet-tano altri lunghi anni prima che un altro acquazzoneli faccia nuovamente germinare.

Qui, nel deserto del Gobi lo spettacolo doveva ripe-tersi ogni anno: quando si fosse sciolta quella pocaneve. Ma ora pensavo che poteva essere soltanto umi-dità condensata di giorno in giorno e conservata perla primavera.

L’acqua del thermos era ancora bollente, preparai iltè e mangiai i biscotti cinesi. Poi uscii dallo scomparti-mento per vedere lo spettacolo del deserto dall’altraparte del corridoio.

Non era il deserto nel senso assoluto che general-mente si immagina: erano visibili molti segni di vita.Greggi, cavalli, cammelli in lontananza, qualche ca-mion dall’aspetto militare sulla strada che si intrec-ciava con la ferrovia apparivano di tanto in tanto a ri-cordare che non si stava attraversando un deserto to-tale. Del resto il deserto totale non esiste.

La regione che più si avvicina all’idea della man-canza assoluta di vita, che è così bene espressa dallaparola “desolazione”, è, per quanto ho potuto giudi-care io con i miei occhi, l’altopiano del Tademait, in Al-geria. È un tavolato nero che si innalza brutalmente

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sulla strada transahariana tra le oasi di El Golea e di InSalah.

Se ci si inoltra non si vede altro che una distesa dipietra nera, all’apparenza assolutamente piatta edestesa da ogni parte, all’infinito, sotto una volta asso-lutamente azzurra, di un azzurro cupo che non esistein nessun altro posto del mondo. Le pietre nere ema-nano un calore insopportabile. Quando lo attraversaimi venne in mente che quello doveva essere il postopiù vicino all’inferno, se l’inferno è rovente con asso-luta mancanza di vita. Ma era un’illusione, una puraapparenza.

La vita c’era e come: quando ci fermammo in mezzoalla perfetta solitudine e uscimmo dall’automobile checi proteggeva da quell’inferno senza vita e fummo ac-colti da un ronzio quasi assordante. In mezzo al nulla,nel deserto, che appariva del tutto senza vita finché era-vamo protetti dal vetro e dall’acciaio dell’automobile,vivevano le mosche, mosche che si sollevavano da terraa stormi, che ci ricoprirono di nero. Erano così nume-rose da far nascere il sospetto che il nero dell’altopianonon fosse dovuto al basalto, ma a loro, alle mosche.

Risalimmo in fretta sull’automobile e corremmo perchilometri a finestrini aperti, per sbarazzarcene.

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Il professore uscì dal suo scompartimento e, veden-domi con gli occhi fissi sul deserto, si mise a sua voltaa contemplare il paesaggio dal finestrino.

“Buongiorno” lo salutai. “Buongiorno, non volevo disturbare. Era così as-

sorto nel paesaggio.”“Ricordavo. Ma anche lei deve avere molti ricordi.”“Ricordi? Sì, molti. Ma non di questa parte dell’Asia,

che mi è sempre stata amica, e i ricordi vengono piut-tosto dalle difficoltà. Credo allora che ricorderò alungo questi anni a Ulan Bator.”

Incominciò a raccontare. Nella capitale mongolaera, in quegli anni, l’unico occidentale residente, gra-zie a una concessione molto speciale del governo mon-golo per l’importanza dei suoi studi. C’era un incari-cato d’affari francese che andava e veniva da Pechino.Non viveva in una vera e propria sede diplomatica, manell’unico albergo della città, dove del resto abitavaanche il professore. Questo soggiorno sarebbe statoper lui l’ultimo in Asia, poi, col ritorno in Occidente,sarebbe venuta quella che , mi disse, considerava lafine della sua vita. La sua vita infatti era l’Asia.

Mi chiedevo “Chissà perché questo dignitoso e an-ziano studioso confida le sue preoccupazioni profondea una persona incontrata per caso” e provavo un certoimbarazzo ad ascoltarlo. Forse se ne accorse, comunquecambiò discorso e riprese a descrivere la sua vita attuale.

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Nelle lunghe serate di Ulan Bator la sua unica di-strazione, “Non si può stare a studiare tutto il giorno”,erano le chiacchiere con il suo incaricato d’affari. “Unuomo notevole, sa?”

Una delle ragioni per cui quel diplomatico era no-tevole derivava dal fatto che era stato a lungo prigio-niero dei nordcoreani.

“1950, ricorda? La guerra di Corea. Il mio compa-gno di Mongolia aveva avuto un incarico particolar-mente delicato: restare a Seul a custodire l’ambasciatadi Francia, mentre la città veniva evacuata di fronte al-l’avanzata delle truppe nordcoreane. La convinzionedi tutti, sua, come di chi gli aveva dato quell’incarico,era che l’immunità diplomatica lo avrebbe protetto daogni pericolo. Ma le cose andarono diversamente. LaCorea del Nord era in guerra con le Nazioni Unite, laFrancia era uno dei membri permanenti delle NazioniUnite, e poi il mio amico ha un caratteraccio, moltopoco diplomatico e da giovane era abbastanza ir-ruento.

Insomma era successo qualcosa, “un inconveniente”dice lui, credo uno scontro con le autorità militari occu-panti, qualcosa per cui lo status diplomatico, giàmesso in dubbio, non lo aveva protetto. Così il mioamico finì in un campo di concentramento accusatodi spionaggio. Accusa improbabile, ma alla quale leautorità coreane fingevano di credere. Naturalmente

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è molto difficile farsi raccontare i dettagli. Parla solodella lotta contro il freddo, delle dispute per riuscire adormire più vicino possibile alla stufa che riscaldava,se vogliamo dire così, lo stanzone dei prigionieri. Maappunto la parte che preferisce raccontare, quella chericorda meglio, sono gli interrogatori, lunghi, este-nuanti, inutili, visto che non c’era nulla da confessaree anche chi interrogava era in fondo convinto del-l’inutilità di quelle che finivano per essere “nient’al-tro che cerimonie crudeli...”

“La crudeltà orientale” interruppe la voce del terzosegretario che da qualche minuto era uscito dallo scom-partimento e ascoltava.

Il professore alzò le spalle con un’ombra di stizza esmise di parlare. Immagino che avrebbe incominciatoa raccontare delle sue esperienze per confermare lasua tesi sui ricordi. Ma da quel momento i discorsi ces-sarono.

Era metà mattinata, davanti al treno sfilava un pae-saggio diverso. L’elemento nuovo che aveva interrottol’infinita e quasi impercettibile ondulazione del de-serto era una serie di collinette regolari e uniformi,avevano lo stesso colore della terra, ma erano operaumana. Alcune erano chiuse; altre, aperte, mostravanouna bocca spalancata come quella di una grotta, all’in-terno della quale si stagliava netta la sagoma di unaereo da combattimento.

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Il professore disse: “È la base sovietica di Choir.” Ilterzo segretario si precipitò nel suo scompartimento equasi gridò:

“Si vede anche dall’altra parte. Scusate se chiudo laporta.”

“Non credo che a quello importi molto se lei foto-grafa una base russa” disse il professore accennandoall’inserviente che come al solito se ne stava all’estre-mità del corridoio.

Il cinese, come se avesse capito tutto, ci rivolse unsorriso furbo.

Il terzo segretario oramai era sparito e si poteva im-maginare che premesse freneticamente il pulsantedella sua macchina fotografica, uno scatto dietro l’al-tro. Avevo molti dubbi sul risultato di quelle foto:

“I vetri sono talmente sporchi” dissi a voce alta. “Noncredo che quelle fotografie saranno troppo nitide.”

“Nemmeno io lo credo, ma contento lui...” rispose ilprofessore, sempre più stizzito. Sospettai che si sen-tisse almeno un poco responsabile del comportamentoridicolo del suo connazionale.

La base continuava a sfilare sotto i nostri occhi, orasi vedevano bene le piste sulle quali una fila ordinata diMig stava rullando. Poi decollarono, uno dopo l’altro,salendo quasi in verticale verso il cielo.

Per oltre mezz’ora continuarono a passare sotto inostri occhi gli hangar corazzati, le strade che li colle-

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gavano e altre piste di decollo e atterraggio. Era im-mensa e minacciosa quella base, i russi la abbandona-rono agli inizi degli anni ’90.

Poi il treno fece una larghissima curva e a poco apoco gli hangar sparirono. Il mio interlocutore era di-ventato silenzioso e meditabondo, mi salutò con ungrugnito e si ritirò nel suo scompartimento.

Rientrai nel mio. In un paio d’ore saremmo giunti aUlan Bator. Decisi di mangiare uno dei miei due pa-nini e di leggere qualcosa, invece continuai a fissare ladistesa giallastra del deserto e il cielo grigio.

Il traffico sulla strada che costeggiava la ferrovia au-mentava. Ora si vedevano molti più autocarri, qualcheautomobile di fabbricazione sovietica, uomini a cavalloche galoppavano nella steppa. Appariva qualche vil-laggio di tende a forma di cupola, le yurte, ghurr inmongolo, dove gran parte della gente continuava adabitare, nonostante i programmi di sedentarizzazionedel governo. La pastorizia nomade, benché organiz-zata in cooperative secondo criteri più o meno collet-tivistici, continuava a essere la principale attività eco-nomica del paese.

Le yurte si infittirono, divennero una vera e propriatendopoli che si estendeva ai due lati della ferrovia. Tor-nai nel corridoio. Tutti i passeggeri erano usciti e il miocompagno di viaggio preferito stava radunando i suoibagagli, numerosi e ingombranti, vicino allo sportello.

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“Ulan Bator,” mi disse passando “Ulan Bator al suomeglio. Ci sono tutti.”

E questo fu il suo saluto. Credo volesse dirmi che in novembre, alle soglie

dell’inverno, la città raggiungeva la massima esten-sione con il ritorno dai pascoli estivi di tutti i suoi abi-tanti.

La capitale della Mongolia è una capitale nomade, ilsuo nome tradotto significa “Eroe Rosso”, un nomeevidentemente moderno. Il nome antico (la città è statafondata nel XVII secolo) è Bogdo-Kuren, nome che è ri-masto alla parte antica della città dove c’è una cittadellafondata dai manciù, ma dal treno si vedevano solo iquartieri moderni, edificati dopo il 1921, quando fuproclamata la Repubblica popolare mongola.

Le costruzioni occupavano uno spazio ridotto ri-spetto alla superficie della tendopoli. Il centro mo-derno, mi sembrò di capire, per buona parte dell’annoera centro solo di sé stesso, un agglomerato minuscolo.Infatti, appena si cominciarono a vedere edifici in ce-mento, il treno rallentò e subito dopo si fermò, di fronteall’edificio basso e giallastro della stazione.

A Ulan Bator il treno compiva la sosta più lunga ditutto il viaggio. Ben quaranta minuti. Era bene appro-fittarne per una passeggiata e per dare, se possibile,uno sguardo in giro.

Infatti tutti i passeggeri del treno internazionale106

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stavano scendendo, provocando un’animazione chedoveva essere del tutto insolita per quella stazione,probabilmente semideserta per molti giorni alla setti-mana e per molte ore al giorno. Solo qualche ferrovieree altri personaggi in uniforme sostavano sul marcia-piede. Vidi il professore e il suo seguito di bagagli, forsele provviste che si era procurato a Pechino per affron-tare un lungo inverno quasi solitario nell’unico al-bergo di Ulan Bator, sparire dietro una pesante portadi legno massiccio, vetrata nella parte superiore.

Di queste porte ce ne erano molte lungo la facciatadella stazione, ma rimanevano ermeticamente chiuse.Nessuno ci entrava e nessuno ne usciva. Passeggiandolungo il marciapiede superai l’edificio della stazionee, al di là di uno steccato sconnesso, si vedeva qual-cosa della città. Strade polverose, il piazzale della sta-zione con qualche rara automobile e altrettanto raripassanti.

Tornando sui miei passi spinsi una delle porte. Conmia sorpresa si aprì e mi apparve uno stanzone, unasala d’aspetto con panche di legno sulle quali stavanosedute un paio di famiglie mongole e, sulla destra,un’altra porta identica a quella che avevo aperto. Da-vanti alla porta, di guardia, stava un poliziotto che ap-pena mi vide restò sconcertato per un momento, poisi diresse verso di me, facendo gesti imperiosi maquasi spaventati, indicandomi di uscire.

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Non esitai un attimo. Come avevo aperto la portami aveva investito un fetore insopportabile, un puzzodi grasso di montone rancido così acuto e violento daprovocarmi un immediato senso di nausea. Anchesenza il poliziotto il mio tentativo di uscire sul piazzaledella stazione sarebbe con ogni probabilità finito lì.

Appena uscito sentii il rumore secco e rabbioso diun catenaccio che si chiudeva.

Ripresi a passeggiare sul marciapiede, provai aspingere le porte. Nessuna cedette, erano tutte chiuse,anzi sbarrate. Questo mi spiegò l’aria nervosa e quasiimpaurita del poliziotto: aveva di sicuro dimenticatodi chiudere quella di sua competenza. Aveva com-messo una mancanza considerata, immaginai, moltograve.

Ritornai verso il mio scompartimento tagliando ilmarciapiede. C’era l’ambasciatore vietnamita col qualeavevo scambiato qualche parola la sera prima. Lo sa-lutai e, con mia grande sorpresa, fu lui a rivolgermi laparola. Accennò a due soldati alti e biondi, armati dikalashnikoff, che stavano di sentinella, piantati inmezzo al marciapiede della stazione.

“Come si sono ridotti!” disse.“Come si sono ridotti?” chiesi. Non capivo.“Non sono mongoli, quei soldati, no?”“No, è chiaro che sono sovietici, anzi russi.”“Appunto. Pensi a questa gente, i mongoli. Seicento

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anni fa dominavano quasi tutto il mondo. Hanno oc-cupato anche il nostro paese e ora permettono che sol-dati stranieri facciano la guardia alle loro stazioni fer-roviarie. È bizzarro, no? Ma è una bella lezione. Anchegli imperi più potenti crollano, prima o poi.”

Io ero senza parole, stupito da questa improvvisa lo-quacità. L’ambasciatore parlava e pronunciava giudizipolitici assai poco diplomatici su due paesi alleati alsuo, anche se alludeva senza dubbio alla guerra delVietnam con gli Stati Uniti. Stupidamente riuscii adire:

“Mi sembra giusto.”Lui sorrise soddisfatto, e poi mi salutò. “Credo che

il treno stia per partire. Arrivederci.” E si allontanòverso il suo vagone.

Salii anch’io. I ferrovieri sul marciapiede chiude-vano gli sportelli e sollecitavano i ritardatari. Soloquando tutti i passeggeri furono al sicuro sul treno unadelle porte della stazione si aprì e ne uscì un gruppo dipersone con i bagagli. La stessa scena che avevo vistoalla stazione di confine tra Vietnam e Cina.

La maggior parte dei nuovi passeggeri erano russi ecorrevano, dietro veniva un gruppo di mongoli tuttivestiti all’europea che accompagnavano una giovanedonna molto truccata che tutti festeggiavano. Fu l’ul-tima a salire sul treno che finalmente si mosse.

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ULAN BATOR-NOVOSIBIRSK

Erano le due del pomeriggio del quinto giorno di viag-gio. Il paesaggio era tornato alla sua monotonia e, viavia che ci allontanavamo dalla città, dopo un’altra sfi-lata di yurte, tornava anche a essere spopolato. Man-giai il mio ultimo panino cinese e mi addormentai.

Al risveglio era già notte e avevo fame. Un vagoneristorante era stato agganciato al confine mongolo.Pensai che forse il professore aveva esagerato nel de-nigrare la cucina del paese. Non poteva essere così di-sgustosa: i francesi sono dei nazionalisti culinari comegli italiani e tendono sempre a esagerare sulla pessimaqualità del cibo di altri paesi.

Il terzo segretario stava sulla soglia del suo scom-partimento, appena mi vide girò le spalle senza salu-tare e chiuse rumorosamente la porta. Non lo avrei piùincontrato fino a Mosca. Non era una gran perdita dalpunto di vista della conversazione e mi avviai verso ilvagone ristorante deciso a gustare la cucina ferroviariamongola.

Ma non la gustai. Dalla porta del ristorante uscì unazaffata dello stesso terribile puzzo della sala d’aspettodella stazione di Ulan Bator. Forse ancora più nause-

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ante: montone rancido, più odore di treno non pulito.I camerieri, tutti seduti all’altra estremità del vagonedeserto, scattarono in piedi appena mi videro. Le loroespressioni variavano dallo stupore alla speranza: uncliente finalmente. Ma li delusi. Chiusi lo sportello egirai i tacchi. Una mezza giornata di digiuno non miavrebbe fatto male.

Da allora però le cose devono essere mutate. MaryConnor racconta di aver mangiato “Kefir, pane con lie-vito madre, boršč mongolo, cavolo stufato con unasorta di brodo e, con mia grande sorpresa era tuttosquisito”23. Una guida alla Transiberiana del 1991 cosìdescrive il vagone ristorante mongolo: stile anni ’30con “decanter in vetro molato, cameriere in costumenazionale e un elaborato menu simile, per tipo e scar-sità di cibi, a quello del vagone ristorante russo”24. Mala descrizione più dettagliata è quella fornita da MauroBuffa: “Il vagone ristorante […] è un ambiente assolu-tamente originale, con gli interni rivestiti in legno in-tarsiato, i sedili imbottiti e decorati e alle pareti sonoappese delle finte teste di cervo dorate e perfino unalunga spada dalla lama ricurva, uno scudo tondo e unarco con faretra di pelle. […] dei piatti elencati nellungo menu c’è ben poco […] non restano altro che ela-borati piatti a base di montone”25. Forse ho esageratocon le citazioni, ma l’ho fatto anche per sottolineareche tutti i viaggiatori della Transiberiana, anche quelli

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che viaggiano in veste di ospiti speciali come Domini-que Fernandez26, sono ossessionati dal cibo, dalla suaqualità, dalla difficoltà di procurarselo.

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Le formalità al posto di frontiera mongolo-sovietico diSuche Bator furono molto rapide. I poliziotti salironosul treno e ci restituirono i passaporti che si erano te-nuti gelosamente nelle ultime ventiquattro ore. La ra-pidità della procedura non impedì ai due inservienti direplicare le provocazioni della notte precedente. Ma oraeseguivano il loro numero con meno impegno, comese si fossero stancati del gioco, quasi si fosse trattato diun dovere. Mi vennero in mente le parole dell’amba-sciatore vietnamita di poche ore prima: “...sei secoli faquesta gente...”, e mi venne in mente che tutto aveva ilsapore di un rito. Forse i doganieri mongoli si sareb-bero stupiti se non si fosse celebrato con regolarità.

Ma i cinesi come si sarebbero comportati con la po-lizia di frontiera dell’Urss?

Si comportarono benissimo, anzi durante tuttal’ispezione doganale alla stazione di Nauški i due spa-rirono. Fu l’inizio del loro assenteismo: i letti venivanofatti irregolarmente, i thermos non venivano più cam-biati e bisognava andare nel loro stanzino-stufa peravere dell’acqua bollente. Come se entrare nel territo-

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rio del grande nemico li autorizzasse a non rispettarele regole, quasi si fossero isolati in un limbo inaccessi-bile. Una forma di difesa?

Mi svegliai in piena notte dopo che avevo sentito iltreno fermarsi in una stazione molto rumorosa, UlanUde, dove la Transmongolica si unisce alla Transibe-riana e, secondo l’orario, era l’una e un quarto, ora lo-cale. Il treno aveva cambiato velocità, adesso correva.Eravamo entrati in una linea elettrificata. Doveva es-serci la luna, un chiarore soffuso illuminava sagomedi montagne boscose, non eravamo più nel deserto, laMongolia era finita. Ora c’era la Siberia.

Ero affamato. Doveva essere stato agganciato il va-gone ristorante russo e quindi era possibile fare una co-lazione abbondante, ma che ora era? Fuori c’era unaluce livida da mattino d’inverno, il mio orologio se-gnava dieci minuti alle sei. Forse il ristorante era an-cora chiuso, ma valeva la pena tentare. Mi vestii infretta e mi precipitai al ristorante. Era illuminato e c’eraqualche avventore seduto ai tavoli, entrai deciso. Unacameriera mi venne incontro con la faccia burbera edisse qualcosa in russo che non capii. Mi indicava laporta e faceva dei segni inequivocabili che significa-vano “chiuso, finito”, poi in tedesco disse “Kaputt”.

Anche il vagone ristorante russo aveva un odore par-ticolare, quello che io associavo fino a quel momentoagli aerei dell’Aeroflot: un misto di succo di mele e pollo

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arrosto. Sempre meglio del montone mongolo, co-munque.

Deluso e sconcertato uscii dal ristorante e chiu-dendo la porta notai un cartello che prima mi era sfug-gito. Indicava gli orari: 7-9; 12,30-14,30; 19,30-21,30. Miconsolai pensando che neanche un’ora dopo mi sareipotuto rifocillare. Rientrai nel mio scompartimento de-ciso a concedermi una lunga doccia. Mi spogliai rima-nendo in mutande e aprii la porta del bagnetto. Mi tro-vai di fronte uno dei corrieri diplomatici cinesi, nel miostesso abbigliamento. Entrambi richiudemmo velocis-simi la porta. Aspettai un poco per capire se il cineseentrava, ma non sentii il catenaccio e riprovai. Anchequesta volta mi trovai di fronte il mio vicino. Entrambi,più imbarazzati di prima, richiudemmo.

Il complicato sistema di catenacci che chiudeva unaporta mentre l’altra si apriva, non funzionava se en-trambe venivano aperte nello stesso momento.

La terza volta il cinese fu più rapido di me, sentii ilcatenaccio scattare dalla mia parte e mi rassegnai adattendere.

Intanto il giorno si era fatto chiaro. Il paesaggio eracompletamente cambiato, viaggiavamo tra boschiverdi di conifere e all’improvviso, a una curva, sotto dinoi apparve il Bajkal.

Il treno correva a mezza costa scendendo rapida-mente verso le acque che molti hanno descritto di un

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blu intenso, ma che sotto il cielo di quella mattina dinovembre siberiano erano plumbee e cupe. Dopo oree ore di ondulazioni giallo ocra, il lago, le montagneche lo circondavano e che sembravano delle vere mon-tagne, erano uno spettacolo confortante. Un paesag-gio quasi alpino, ma al posto di un laghetto di monta-gna c’era il Bajkal, immenso come il mare.

Il Bajkal non è il più grande lago del mondo (31.500kmq), ma è il più profondo (1.741 metri) e contiene unquinto dell’acqua non salata di tutto il pianeta. Ha unhabitat particolare per cui l’Unesco lo ha incluso tra ipatrimoni dell’umanità. Un’acqua purissima e traspa-rente, almeno così era una volta. Ora anche il Bajkal èminacciato a morte dall’inquinamento industriale, pe-riodicamente si leggono notizie di proteste control’apertura di impianti industriali, contro il passaggiodi oleodotti, ma avere un quadro preciso della situa-zione non è facile. Negli anni ’90 lo scrittore russo Va-lentin Rasputin aveva lanciato una campagna per lasalvezza del lago, ma fu l’unica iniziativa di largo re-spiro di cui si ha notizia.

Nel 1974 l’inquinamento doveva essere già avan-zato, ma allora nessuno ne parlava e, guardando daifinestrini del treno, potevo immaginare che se si fossefermato avrei potuto bere direttamente l’acqua dellago, chinandomi sulla sponda. Si era fatta l’ora diapertura del ristorante, le sette, e mi avviai deciso pas-

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sando sotto lo sguardo appena ironico dell’inservientecinese. Il ristorante era chiuso e non si vedevano nem-meno le luci attraverso il vetro dello sportello. Forsepretendevo troppo chiedendo una puntualità svizzera.I minuti passavano e nessuno veniva ad aprire. Provaia picchiare sul vetro, ma senza nessun risultato.

Erano passati almeno dieci minuti e nessun altro sipresentava. Tornai indietro e, all’inserviente cineseche mi guardava sornione, provai a chiedere indi-cando la porta di comunicazione tra i vagoni:

“Ristorante?”Lui scosse la testa in segno di diniego e si mise a ri-

dere.“Ristorante?” insistetti io.“Njet restorant” rispose lui imitando l’accento russo

e ridendo ancora più forte, soddisfatto della sua spiri-tosaggine che aveva fatto sorridere anche il suo collegaburbero.

Rassegnato mi avviai al mio scompartimento ementre stavo per entrare vidi passare la cameriera chemi aveva cacciato un’ora prima. La seguii e cercai dientrare con lei nel ristorante. Lei mi fece cenno chenon potevo entrare, io, indignato, le mostrai il mioorologio poi il cartello con gli orari.

Lei guardò il mio orologio, poi il cartello, poi dinuovo il mio orologio e scoppiò a ridere anche lei. Lacosa mi irritò, stavo per urlare qualcosa contro la ca-

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meriera, ma lei mi afferrò saldamente il braccio, pic-chiettò a sua volta sul mio orologio e disse, anche lei,“Njet”. Poi indicò il cartello e, col tono con cui si parlaai bambini ritardati, disse una frase di cui capii solouna parola “Maskvà”. Poi capii: gli orari si riferivanoall’ora di Mosca.

L’ira che montava alimentata dalla voglia di cibo siera trasformata in umiliazione: mi sentivo cretino etornai sui miei passi senza dire una parola.

Mosca era quattro ore più avanti, quindi avrei do-vuto aspettare l’ora del pranzo, mezzogiorno e mezza,cioè le otto e trenta del mio orologio, ancora un’ora emezza di attesa.

Fu l’ora più lunga di tutto il viaggio. Ma anche quellapassò e alle dodici e trenta, ora di Mosca, il ristoranteaprì le porte e le dispense senza risparmio. Il cavialevenne servito in coppe galleggianti nell’acqua e ghiac-cio, il boršč era delizioso, il bue Strogonoff tenero e sa-porito. Il tutto annaffiato da vodka servita in grandequantità. Ancora si beveva sui treni russi, oggi non più:dal 1985 le misure contro l’alcolismo vietano la venditadi vodka sui treni. I giovanotti di un paese dell’est cheavevo notato a Pechino avevano occupato metà del va-gone e facevano bisboccia allegramente, fin troppo al-legramente.

Mentre si mangiava il treno si fermò a Irkutsk, persicosì una delle poche occasioni per una passeggiata, ma

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non me ne importava molto. Ero sazio e soddisfatto,anche un po’ ubriaco. Per me si trattava della prima co-lazione, e come prima colazione era sicuramentetroppo abbondante. Mi addormentai cullato dal trenoche ora viaggiava a velocità quasi europea.

Rapidissime sfilavano all’infinito davanti ai mieiocchi semichiusi le betulle, giovani betulle sottili e fles-sibili, vecchie grosse e robuste, con la corteccia argen-tata e le foglie che brillavano tremolanti. Ma anche la-rici, abeti, elci. Di tanto in tanto, in mezzo alla foresta,alla taiga siberiana, che sembrava senza vita, apparivauna capanna costruita di soli tronchi d’albero.

Alcune erano abbandonate, annerite dal tempo,altre ben tenute con cornici traforate e colorate di rosa,verde pallido, celeste attorno a porte e finestre. Qual-cuna aveva addirittura vasi di fiori nell’intercapedinedella doppia finestra.

Un paesaggio monotono, forse, ma comunque eso-tico, soprattutto per me che venivo dai tropici, e chemi tenne per ore attaccato al finestrino. Non sono ilsolo ad aver subito questo fascino, ecco cosa ne scriveLuciana Castellina:

“E poi c’è il paesaggio da guardare dal finestrino.Sempre uguale terribilmente monotono, mi avevanodetto i precursori dell’avventura siberiana: betulle be-tulle betulle e sempre ancora betulle. È vero. Ma intantoqueste betulle in autunno sono meravigliose, una

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gamma screziata dal giallo al rosso, mai vista prima, al-ternata al verde cupo degli abeti. Si può rimanere ore eore a guardare gli alberi, e alla fine ci si accorge che labellezza sta proprio nella monotonia”27. Anche Domi-nique Fernandez è talmente affascinato dalla taiga chescrive: “L’Odissea, o a un grado di minore intensitàGuerra e Pace, potrebbero essere gli equivalenti letteraridel viaggio attraverso la taiga, […] Qui non c’è un det-taglio che attiri più di un altro; non si può dettagliare lataiga, ci si lascia prendere, ammaliare, annichilire dallasuccessione ripetuta all’infinito dell’identico.[…] E ilmare? Mi direte, il mare non dona la stessa sensazionedi bellezza senza frontiere? La grande differenza con lataiga è che il mare è sterile, monotono che si ripetesenza rinnovarsi”28.

Scrivo queste righe su una terrazza che affaccia sulmare di Sardegna e alzando gli occhi mi sembra cheFernandez esageri, il mare che vedo si rinnova conti-nuamente e le sue sfumature di colore sono infinite,piene di vita.

***

La giornata passò così, riposante, col finestrino apertosulla taiga. Dopo la cena mi addormentai più o menocon l’ora di Mosca.

Arrivammo a Novosibirsk nel pomeriggio dell’in-119

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domani verso le tre e un quarto. Una fermata abba-stanza lunga da permettermi di comprare una scatoladi caffè in polvere.

Questo era diventato il problema principale dellamia ultima giornata di viaggio. Il pacchetto di tè chestava sul treno a Pechino era finito poco dopo la fron-tiera mongola, gli inservienti cinesi ai quali avevo chie-sto di sostituirlo, prima non avevano capito, poi miavevano fatto intendere che le ferrovie cinesi mi for-nivano abbastanza tè per il percorso in Cina, ma nonoltre. Al vagone ristorante sovietico non vendevanonulla, o forse io non ero stato in grado di spiegarmi.

Contavo dunque sulla prima grande stazione dovein uno spaccio – a Irkutsk avevo visto dal finestrino cheesistevano – avrei potuto acquistare altro tè, oppureuna scatola di caffè in polvere. Questo era un prodottoche esisteva in Urss, ne ero sicuro, ne avevo bevuto adHanoi nelle case dei corrispondenti sovietici. E, se lamemoria non mi ingannava, non era nemmeno cat-tivo, anzi...

Quella di Novosibirsk era per certo una grande sta-zione. Novosibirsk è la più grande città siberiana e lasua stazione la più grande della Siberia, anzi Novosi-birsk è una stazione. Nacque come cantiere della Tran-siberiana nel 1893 per una ragione elementare: in quelpunto l’Ob, il più grande fiume siberiano, scorre trat-tenuto da uno zoccolo di granito che impedisce alle gi-

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gantesche piene primaverili, quando il fiume si allargafino a dieci, anche dodici chilometri, di inondare lastrada ferrata.

Ed essere sull’incrocio tra il fiume, che è un’altragrande via di comunicazione della Siberia, e la ferro-via, ha fatto di Novosibirsk il centro più importantedella Siberia.

Il corpo centrale della stazione aveva una sua di-gnità architettonica severa che non lasciava spazio adalcuna frivolezza consumistica, ma ai lati c’erano co-struzioni più basse, una serie di spacci e negozi.

Il treno si fermò sul terzo binario, con la locomotivaall’altezza di quella di un treno di coscritti, fermo sulsecondo binario, che andava in direzione opposta. Al-meno così pensai: dai finestrini si affacciavano dei gio-vanotti, quasi tutti in canottiera, tutti rapati a zero,quasi tutti con in mano una bottiglia di birra e divodka. Schiamazzavano, urlavano, berciavano senzaritegno. Quando dal nostro treno scese, sui suoi altis-simi tacchi a spillo, la bellezza mongola, partì una salvaquasi assordante di fischi e ululati.

Ero deciso a trovare il caffè in polvere e attraversaii binari, non c’erano sottopassaggi nella stazione diNovosibirsk, come in tutte le stazioni della Transibe-riana del resto. Mi affacciai agli spacci che avevo vistodal finestrino arrivando, uno vendeva solo sigarette efiammiferi, un altro giornali. Nel terzo vidi, attraverso

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la folla che si accalcava attorno ai banchi, qualcosa chemi era familiare: una sfilata di scatole di ananas viet-namita, e gli avventori uscivano tutti con almeno unadi quelle scatole.

Tenevo stretti in mano una decina di rubli cheavevo conservato dal mio passaggio da Mosca, dueanni prima, e cercai di farmi largo tra la folla per ve-dere se ci fosse anche del caffè. Ma c’erano solo ana-nas. A una delle commesse chiesi “Caffè?”, per fortunaquesta è una parola che si dice nello stesso modo inquasi tutte le lingue del mondo.

La commessa mi guardò con un’aria tra stupita e in-dignata, come se dicesse:

“Ma cosa vieni a chiedere caffè, se oggi ci sono gliananas.”

Poi con un gesto imperioso mi indicò l’uscita. Nonmi ero accorto che c’era una fila, disordinata, ma pursempre una fila, che si formava fin dal marciapiededella stazione.

Per fortuna uscii e vidi attorno al mio treno i movi-menti inequivocabili che precedono la partenza: gli ul-timi passeggeri che salivano, i primi sportelli che ve-nivano sbattuti. Mentre correvo mi sbracciavo e il gio-vanotto coi baffi del mio vagone mi vide. Ridiscese etrattenne la mano del ferroviere che stava per chiuderelo sportello indicando con l’altra mano nella mia dire-zione. Il ferroviere si divincolò, urlò qualcosa e non

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guardò verso di me che intanto ero arrivato al marcia-piede tra il primo e il secondo binario. Anche il trenodei coscritti stava per muoversi.

Il ferroviere si allontanò, mi vide, capì, e alzò lespalle: il treno già si muoveva, il mio compagno diviaggio teneva lo sportello aperto, con uno scatto di-sperato mi afferrai al mancorrente esterno e allungail’altra mano, sentii uno strattone robusto e mi trovaicon entrambi i piedi sul predellino. Dal treno dei co-scritti partì un “Urrah” fragoroso.

“Grazie” dissi al mio salvatore che si presentò. Erarumeno, secondo ufficiale di marina. Col suo equi-paggio, il gruppo che faceva chiasso al vagone risto-rante, aveva consegnato ai cinesi una nave costruitanei cantieri del Mar Nero e ora faceva ritorno in pa-tria.

“Sull’aereo c’era posto soltanto per il capitano, cosìa me è toccato il treno. In prima classe, per fortuna.L’equipaggio invece deve viaggiare in seconda. Sa, è ilsocialismo.”

Questo lo avevo capito da me, ma non glielo dissi,per ringraziarlo gli proposi di brindare dopo cena. “Houna bottiglia di vodka cinese, potremmo festeggiarequesto salvataggio.”

Mi ringraziò calorosamente, e proprio in quel mo-mento fummo investiti da un’ondata di profumo dolcee fortissimo sotto il quale si percepiva un sottile, ma

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preciso odore di grasso di montone. Altezzosa, scortatada due suoi connazionali, passava la ragazza mongola.

“Sa chi è?” mi chiese il rumeno. Lo ignoravo. “È laBrigitte Bardot della Mongolia,” mi disse lui, senzastaccarle gli occhi di dosso “e sta andando a Mosca pergirare un film. Tutto il treno parla solo di lei.”

Continuavamo a saltare sugli scambi della stazionedi Novosibirsk ingombri di treni merci, su uno di que-sti, tutto chiuso, si leggeva scritto col gesso in grossicaratteri cirillici: HANOI, HAIPHONG.

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NOVOSIBIRSK-MOSCA

I quartieri tutti moderni, attraversati da larghissimiviali dai marciapiedi polverosi, e gli impianti indu-striali della capitale siberiana sfilarono rapidamente edi nuovo ai lati del treno non ci fu altro che la taiga conle sue betulle che danzavano cadenzate dal rumore re-golare delle ruote.

Betulle, betulle-betulle, betulle-betulle, betulle...Eravamo in tre nel corridoio a fissare quasi ipno-

tizzati il balletto regolare degli alberi. Gli altri dueerano gli unici europei con i quali da Pechino nonavevo scambiato neanche una parola.

Il più anziano, con un grande ciuffo ispido di capellibianchi che crescevano dritti in tutte le direzioni e dueenormi sopraccigli cespugliosi, si rivolse a me:

“L’ha scampata bella, non deve essere piacevole tro-varsi a Novosibirsk in attesa di un treno. Avrebbe avutodei guai con la polizia.”

“Non ho pensato a questo mentre correvo” gli ri-sposi. “Poteva essere un’avventura interessante.”

“Be’, non la consiglierei a nessuno. A me è successomentre tornavo dall’Asia centrale a Mosca. Avevo la-sciato i biglietti e i soldi sul treno che era partito e nes-

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suno voleva credere alla mia storia. Il ferroviere che miaveva visto correre inutilmente dietro il treno non sitrovava. Fu una bella fatica convincere i poliziotti achiedere alle stazioni successive di controllare il miobagaglio. Solo due giorni dopo, quando il treno arrivòa Mosca, fu possibile risolvere il problema. Si scusa-rono e mi spedirono in aereo. Ma quei due giorni, nonli auguro a nessuno.”

Il mio interlocutore era uno scrittore jugoslavo, diDubrovnik, e amava viaggiare in treno. Era stato inCina per una serie di conferenze sulla letteratura con-temporanea jugoslava. Il suo accompagnatore era uninterprete di cinese ma la sua presenza era stata quasiinutile. “I cinesi hanno insistito per tradurre loro stessii miei discorsi. Avere un compatriota come interpreteè stata però una sorta di assicurazione sulla fedeltàdegli interpreti cinesi.”

Ma erano stati fedeli? “Più o meno, ma nel complesso si può dire che lo

sono stati” rispose l’interprete che fino a quel mo-mento sembrava non ascoltare nemmeno.

Lo scrittore non voleva parlare della Cina, ma del-l’Italia, cosa che a me invece non interessava affatto,anche perché dopo due anni di assenza non sapevocosa dire. Così proposi anche a loro di venire a bere unbicchiere di vodka cinese dopo cena.

Più tardi mentre leggevo nel mio scompartimento126

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qualcuno bussò. Era l’ufficiale di marina rumeno,aveva un’aria imbarazzata e ribalda allo stesso tempo.

“Sono venuto a scusarmi, stasera non potrò essereda lei.”

Mi guardò con aria complice. “Sa, ho un appuntamento con Miss Mongolia. Lei

capisce... una mongola... per un marinaio... non suc-cede mica tutti i giorni.” Gli espressi tutta la mia com-prensione e i miei auguri per il successo della sua im-presa.

Gli jugoslavi invece vennero e, a metà bottiglia, silanciarono in racconti di guerra partigiana. Lo scrit-tore raccontava in prima persona, il suo interprete,troppo giovane per aver combattuto contro nazisti efascisti, riportava storie che aveva sentito. Io li stavo adascoltare in silenzio, ma loro non sembravano moltointeressati alla mia attenzione, spesso scivolavanosenza accorgersene nella loro lingua.

Dovevano essere circa la dieci di sera quando difronte a noi, verso Occidente, apparve un bagliore ros-sastro che illuminava in lontananza il cielo sopra le be-tulle. Via via che il treno avanzava il bagliore diventavapiù forte e più vivido. Poi ci fummo in mezzo, non soloil cielo ma tutto attorno a noi era rosso fuoco.

Alla foresta di betulle ora seguiva una foresta di ci-miniere che eruttavano fiamme bluastre, bianche, masoprattutto rosse.

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Che la Siberia sia un alternarsi di foreste senza finee di centri industriali giganteschi si sa. Ma in nessunodi questi centri ero passato di notte e le fiamme deicomplessi industriali si rivelarono lo spettacolo più af-fascinante della parte sovietica del viaggio. Il trenocontinuò a correre per un quarto d’ora almeno primadi fermarsi alla stazione di Omsk.

Omsk è una città più piccola, ma più antica di No-vosibirsk ed è la capitale del petrolio siberiano. Il trenosi fermava per un quarto d’ora e proposi di scendereper una boccata d’aria.

“Una boccata di petrolio, vorrà dire” scherzò loscrittore jugoslavo, ma scendemmo.

C’era grande animazione nella stazione che sem-brava anch’essa immersa nella luce rossastra delle fab-briche, faceva molto freddo e un vento teso e seccoportava lontano i fumi industriali.

Ma i due jugoslavi non si trovarono a loro agio e ri-salirono subito. Io rimasi vicino allo sportello e quandovidi agitarsi i ferrovieri, risalii in tutta fretta. I due ju-goslavi si erano ritirati nel loro scompartimento. I mieiobblighi di ospitalità erano finiti, anch’io me ne andaia dormire.

Mi svegliai poco prima di Sverdlovsk, che oggi haripreso il nome che aveva prima della Rivoluzione d’ot-tobre: Ekaterinburg, l’ultima fermata siberiana, la cittàdove fu ucciso lo zar Nicola II e la sua famiglia. Dopo

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Sverdlovsk si attraversavano gli Urali e dopo altri 1.818chilometri saremmo arrivati a Mosca. Feci l’ultima pas-seggiata sul marciapiede della stazione, erano le diecie mezza di domenica, avevo lasciato Hanoi esatta-mente otto giorni prima e questa sarebbe stata la se-conda domenica su quel treno.

Il mio, proprio come sul treno vietnamita, non fu unpranzo domenicale. Il ricchissimo menu dei primigiorni era diventato poverissimo, appena una zuppa dicavoli molto acquosa e pollo. L’indomani c’era solozuppa, niente pollo. Credo di aver capito allora quantola pianificazione fosse estranea al paese della pianifica-zione. Comunque, a giudicare dai racconti di chi haviaggiato dopo di me sui treni russi, l’eccezione era statail primo ricchissimo pasto e le zuppe acquose la regola.

Forse gli unici a saperlo in anticipo erano i due in-servienti. Da quando avevamo lasciato la Cina, prepa-ravano i loro cibi da soli. Una cucina molto saporita dif-fondeva odori stuzzicanti per tutto il vagone letto. Unavera provocazione per chi usciva dal ristorante semprepiù insoddisfatto via via che i giorni passavano.

La traversata degli Urali passò inosservata, in quelpunto la catena si apre in una vallata amplissima, piùche una vallata è la continuazione delle grandi pianure.Per segnare il passaggio c’è un cippo che dice che si stacambiando continente, si abbandona l’Asia e si entra inEuropa. Non c’è differenza nel paesaggio, non un va-

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lico, nulla. La pianura russa e quella siberiana si fon-dono l’una nell’altra. Non vidi il cippo, e solo nel tardopomeriggio ebbi un segno che qualcosa era ormai cam-biato. All’improvviso la foresta di betulle finì e davantiai finestrini del treno si aprirono i campi, campi aratiche si estendevano all’infinito. Prima solo betulle, orasolo campi di terra rivoltata, segnati dalle lunghe strisceparallele dei solchi. Era ormai il crepuscolo di quelladomenica quando apparvero i trattori, erano almenouna decina e avanzavano verso l’orizzonte, verso l’infi-nito, disposti lungo una linea obliqua, in una marciaapparentemente senza fine.

Di fronte a loro la terra non era arata, e quando iltreno superò la loro linea la terra era brulla e compatta,senza i solchi paralleli lasciati dalle lame degli aratri.

Forse a un certo punto i trattori avrebbero invertitola marcia e avrebbero ripreso ad arare in direzione op-posta. Ma dove si sarebbero fermati? Fin dove e fino aquando avrebbero continuato la loro marcia lenta, re-golare, inesorabile?

Non si vedeva nessun segno di vita, nessun centroabitato, forse erano trattori fantasma, condannati acontinuare fino a quando tutta la terra visibile nonfosse stata segnata dai loro vomeri?

La velocità del treno e il buio allontanarono quellospettacolo non so se angoscioso o titanico. Qualcunobussò alla porta. Era l’ufficiale rumeno.

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“Stanotte,” disse “l’appuntamento è per stanotte” emi strizzò l’occhio. Lo guardai stupefatto, senza capiresul momento a cosa alludesse. Pensavo ad altro. Luisorrise quasi imbarazzato, mi salutò e se ne andò.

Oramai, me ne resi conto in quel momento, eratempo che il viaggio finisse, anzi era già finito. Tuttoquello che mi circondava su quel treno era diventatosenza significato.

Non vidi Kazan, non vidi Nižnij Novgorod, che al-lora si chiamava Gorkij. Arrivammo a Jaroslavl’ l’indo-mani mattina alle otto. Eravamo oramai in Europa. Iboschi si alternavano ai campi e alle fattorie, sullestrade circolavano camion e automobili, c’erano cittàgrandi, ma soprattutto città piccole e villaggi. Non c’eraperò il brulicare della Cina, e non c’era la ricchezza dialtri paesi europei.

Man mano che ci avvicinavamo a Mosca anche iltraffico ferroviario aumentava, incrociavamo altritreni o li superavamo fermi in piccole stazioni.

La metropoli si annunciò con i quartieri di grandiedifici grigi, uniformi e compatti, da lontano simili aquelli di qualsiasi metropoli industriale. Ciò che facevadiversa la periferia di Mosca erano le fabbriche tra gliedifici e le vaste superfici di terreno dove si affastella-vano piccoli box di legno o di metallo, baracche co-struite con mezzi di fortuna, circondate da qualchemetro quadro di terra a volte coltivata a orto, a volte

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usata come deposito di oggetti chiaramente inutili e al-trettanto chiaramente considerati utilizzabili in unqualche improbabile futuro per qualche improbabileprogetto.

Dell’esistenza di queste baracche poi mi furono datespiegazioni diverse: un residuo della “immortale animacontadina russa” secondo alcuni; i garage delle auto-mobili private della nascente motorizzazione indivi-duale sovietica, secondo altri; le dacie dei poveri per ipiù.

Alla Jaroslavskaja, la stazione dell’estremo orientedi Mosca, il treno entrò con un poco di ritardo, versol’una. La Jaroslavskaja si trova sulla piazza Komso-molskaja, che però tutti hanno sempre chiamato lapiazza delle tre stazioni: le altre due sono la Lenin-gradskaja da dove partono i treni per l’altra capitale eper il nord, e la Kazanskaja, da dove partono i treniche raggiungono le repubbliche dell’Asia centrale. AMosca le stazioni sono aperte, in un paese dove tuttoè chiuso le automobili arrivano a fianco dei marcia-piedi, non sembra esserci nessun controllo, i passeg-geri scendono dal treno e si riversano sulla piazza.Estremo Oriente, Asia centrale, Grande Nord preval-gono per un momento, colorano la piazza di un tonoparticolare, poi si mischiano alla folla che sale dallastazione della metropolitana, si perdono e si confon-dono.

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Il marciapiede era ingombro di gente in attesa. Icorridoi del treno erano animatissimi.

I due corrieri diplomatici cinesi, aiutati dagli inser-vienti, scaricarono le loro valigie che vennero poi is-sate su un piccolo pullman.

L’ufficiale rumeno urlava ordini, se la prendeva conuno dei suoi marinai, sembrava nervosissimo. Forse lasera prima la sua avventura mongola non era finitacome lui si aspettava.

L’oggetto dei suoi desideri, poco più in là, aveva giàtra le braccia un gigantesco mazzo di fiori e veniva fe-steggiata da un gruppo misto di russi e mongoli.

I due scrittori jugoslavi vennero a salutarmi e sce-sero, assistiti da un autista della loro ambasciata.

I due francesi riuscirono a fingere di non vedermi ea non salutarmi benché una delle loro valigie mi avesseschiacciato un piede.

Gli studenti vietnamiti sciamavano allegramenteverso l’uscita, confusi con la folla dei russi, buriati, ya-kuti, che scendevano dai vagoni aggiunti lungo il per-corso.

Ormai il marciapiede era quasi sgombro. Vidi i dueambasciatori vietnamiti, si girarono verso di me e, consorrisi larghissimi, mi salutarono, augurandomibuona fortuna. La loro cordialità aveva seguito unalegge precisa: aumentava proporzionalmente alla di-stanza dal loro paese.

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E ora il viaggio era veramente finito. Raccolsi le miecose e scesi dal treno.

Così, nel febbraio 1993 mettevo fine al racconto delviaggio, non traevo conclusioni sull’esperienza, ep-pure le poche cose che avevo visto, i racconti che avevosentito mi furono di grande utilità, negli anni succes-sivi, per meglio capire l’Asia e il mondo, i rapporti nonsemplici che esistevano tra Cina, Urss e Vietnam. Sa-rebbero bastati i passaggi di frontiera con i loro riti benstudiati e preordinati a dare indicazioni su quanto sa-rebbe successo negli anni a venire.

Rivedendo il viaggio con gli occhi di oggi, e con gliocchi di viaggiatori che hanno fatto il percorso dopodi me, scopro che probabilmente nulla è rimasto delmondo che ruotava attorno alla lunga linea ferrata cheho percorso. Mary Morris scrive29: “Il mondo che hovisto allora non è lo stesso mondo di oggi, ma i sugge-rimenti, le ‘dritte’ su cosa stava per trasformarsi, eranonell’aria.” Lei viaggiava nel 1986, ma dodici anni primai segni di quello che stava per trasformarsi non c’eranoancora, o almeno non erano evidenti, al massimo sipoteva percepire qualche scricchiolio del vecchiomondo socialista sul punto di sparire. Ma l’attenzioneera concentrata altrove e la Cina era sempre la Cina diMao il cui potere appariva indiscusso, altrettanto so-lida era in apparenza l’Urss brežneviana e il Vietnamera eroico, una realtà trasformata in mito che serviva a

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occultare, anche ai miei occhi, le crepe di un sistemache nel giro di tre lustri sarebbe crollato o si sarebbetrasformato in qualcosa di molto diverso.

Rifare il viaggio? Non so. Nel 2014 se si cerca “Tran-siberiana” su internet i primi risultati riguardanoviaggi organizzati, su treni di lusso e non di lusso, macomunque senza nessuna possibilità di avventura pro-priamente ferroviaria, tutto è organizzato, si sosta inmolti luoghi in alberghi con più o meno stelle.

Si può certamente viaggiare, da soli sui treni “nor-mali”, qualcuno lo fa. Per quanto mi riguarda noncredo che mi imbarcherei in una simile impresa, cer-tamente non potrei ritrovare il sapore di quei giorni.Mi rimane un dubbio: chissà se alla richiesta di unvisto “per via di terra” i funzionari delle ambasciate mirisponderebbero ancora: “Ma perché non prende l’ae-reo, come tutti gli occidentali?”

Roma-Carloforte, agosto-settembre 2014

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LIBRI CHE MI HANNO AIUTATO PER QUESTO RACCONTO

Vanni Beltrami, Breviario per nomadi, Roma, Voland,2011Mauro Buffa, Sulla Transmongolica, Portogruaro, Edi-ciclo editore, 2012Luciana Castellina, Siberiana, Roma, Nottetempo 2012Remo Ceserani, Treni di carta, Genova, Marietti, 1993European Rail Timetable, Summer 2014 edition, Oundle(UK), European Rail Timetable Limited, 2014Dominique Fernandez, Transsibérien, Paris, Grasset,2012Mary Morris, Wall to Wall. From Beijing to Berlin by Rail,Doubleday, New York, 1991Mark Ovenden, Railway Maps of the World, New York,Viking Penguin, 2011Overseas Timetable, Thorpe Wood, Peterborough (UK),Thomas Cook Publishing, 1993Angelo Maria Ripellino, In Transiberiana, Viterbo,Stampa alternativa, 1994Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia, To-rino, Einaudi 1988 Robert Strauss, Trans-Siberian Rail Guide, Chalfont St.Peter, Buks (UK), Brandt Pubblication, 1991

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Tiziano Terzani, Un indovino mi disse, Milano, TEA,2014Tiziano Terzani, Un’idea di destino. Diari di una vitastraordinaria, Milano, Longanesi, 2014Paul Theroux, Il tao del Viaggio, Milano, Dalai editore,2012Paul Theroux, The Great Railway Bazaar, London, Pen-guin Books, 1977Bryn Thomas, Trans-siberian Handbook, Hindhead(UK), Trailblazer Publications, 1991

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NOTE

1 Renata Pisu, Pechino-Mosca dal finestrino del treno;Sul treno dei desideri tra i gulag siberiani; Un kolossal dicarta il sogno siberiano, “la Repubblica”, 9, 10, 12 marzo1991.

2 Italo Calvino, Collezione di sabbia, Milano, Monda-dori, 1990.

3 Mark Ovenden, Railway Maps of the World, NewYork, Viking Penguin, 2011.

4 La mappa è stata pubblicata per la prima volta nel2008 dalla rivista “New Scientist”.

5 Tiziano Terzani, Un indovino mi disse, Milano, TEA,2014, p. 309. Da allora poco è cambiato e le ferroviecambogiane offrono solo servizi irregolari sulla lineapercorsa da Terzani nel 1993 e su quella che collegaPhnom Phen alla città portuale di Sihanukville.

6 L’Australe era stata noleggiata per trasportare inVietnam gli aiuti raccolti in Italia dall’Associazione Ita-lia-Vietnam, da vari enti locali, da semplici cittadini.L’idea di spedire tutto il materiale, dai medicinali aitrattori per risaia, fu di Luciano Sossai, presidente del-l’Associazione Italia-Vietnam della Compagnia por-tuale di Genova. Un uomo generoso, coraggioso, in-

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telligente e tenace che, malgrado le molte opposizioni,riuscì nel suo intento: si imbarcò con gli aiuti e arrivòvia mare in Vietnam. Luciano Sossai ci ha lasciati a 81anni, il 26 luglio 2014, non prima di aver organizzatouna ricca serie di iniziative per il quarantesimo anni-versario del viaggio dell’Australe.

7 Paul Theroux, The Great Railway Bazar, London,Penguin Books, 1977, p. 271 e sgg.

8 Tiziano Terzani, Un indovino… cit., p. 309.9 Mary Morris, Wall to Wall. From Beijing to Berlin by

Rail, New York, Doubleday, 1991.10 Thay è il termine con cui i vietnamiti designano gli

europei in generale. Significa semplicemente Occi-dente, occidentale ma con l’andare del tempo ha as-sunto un significato dispregiativo. Lien Xo significa so-vietico e veniva usato per designare tutti i cittadini deipaesi dell’Est.11 Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferro-

via, Torino, Einaudi, 1988, p. 42.12 Remo Ceserani, Treni di carta, Genova, Marietti,

1993 pp. 197-198.13 Da una lettera del 22 agosto 1837, citata in Wol-

fgang Schivelbusch, Storia dei viaggi…cit., p. 58.14 Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi…cit., p.

59.15 Jules Michelet, La mer, Paris, L’Age d’homme,

1980, p. 198.140

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16 John Ruskin, The complete Works, a cura di E.T. Cooke A. Wedderburn, London, 1903. Volume XXXVI, p. 62(citato in Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi…cit.,p.57).17 Dolf Sternberger, Panorama del XIX secolo, Bolo-

gna, Il Mulino, 1975, p. 73, citato in Wolfgang Schivel-busch, Storia dei viaggi…cit., p. 65.18 Tiziano Terzani, Un’idea di destino. Diari di una

vita straordinaria, Milano, Longanesi, 2014, p. 133.19 Mary Morris, Wall to Wall. From Beijing to Berlin by

Rail, New York, Doubleday, 1991, p. 7.20 Mary Morris, Wall to Wall… cit.21 Tiziano Terzani, Un indovino… cit., p. 332.22 Mauro Buffa, Sulla Transmongolica, Portogruaro,

Ediciclo editore, 2012.23 Mary Connor, Wall to Wall… cit., p. 84.24 Robert Strauss, Trans-Siberian Rail Guide, Chalfont

St. Peter, Buks (UK), Brandt Pubblication, 1991, p. 34.25 Mauro Buffa, SullaTrasmongolica, cit.26 Scrittore e saggista francese che nel 2010 ha per-

corso la Transiberiana con un gruppo di scrittori invi-tati nel quadro di scambi culturali. 27 Luciana Castellina, Siberiana, Roma, Nottetempo,

2012, pp.80-81.28 Dominique Fernandez Transsibérien, Paris, Gras-

set, 2012, p. 156.29 Mary Morris, Wall to wall … cit., nota introduttiva.

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INDICE

Vent’anni dopo… più altri venti prima PAG. 9

Treno amore mio PAG. 19Hanoi-Dong Dang PAG. 27Dong Dang-Nanning PAG. 32Nanning-Pechino PAG. 46Pechino PAG. 55Pechino-Erlian PAG. 69Erlian-Ulan Bator PAG. 92Ulan Bator-Novosibirsk PAG. 110Novosibirsk-Mosca PAG. 125

Libri che mi hanno aiutato per questo racconto PAG. 137

Note PAG. 139

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In redazioneMariagiulia Dello Russo

GraficaProgetto: Alberto LecaldanoFont: Voland, Luciano Perondi, 2010

StampaGrafiche del Liri via Napoli, 85 03036 Isola del Liri (FR)

Finito di stampare: ottobre 2014

Edizioni Voland00185 Roma, via Napoleone III 12tel. 06 4461946www.voland.ite-mail: [email protected]