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* Omaggio a Hermann Zapf *Progetto informatico di Tiziano Stefanelli

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Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XXII, N.2, 2014
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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane

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<<Il Vaso di Pandora>>

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXII, N. 2, 2014

Sommario

Editoriale M. Solari

pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA Il gioco dello scarabocchio: origini ed evoluzioni

A. Stefana, P. Manfredi pag. 13

APPUNTI DI VIAGGIO Avvicinare l’anima

R. Brunacci pag. 49

QUATTRO PASSI PER STRADA Pensabilità e dissociazione in una popolazione colpita da trauma massivo:

una ricerca intervento di matrice psicoanalitica A. Granieri, F.V. Borgogno

pag. 83

OLTRE… Incontrando delle poesie

di Fernanda C. Conforto pag. 105

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXII, N. 2, 2014

Table of contents

Editorial M. Solari

pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA The squiggle game: origins and evolution

A. Stefana, P. Manfredi pag. 13

APPUNTI DI VIAGGIO Approaching the soul

R. Brunacci pag. 49

QUATTRO PASSI PER STRADA Extreme traumatization in the community of Casale Monferrato: between

dissociation and thinkability. A psychoanalytical intervention research A. Granieri, F.V. Borgogno

pag. 83

OLTRE… Meeting of the poems

by Fernanda C. Conforto

pag. 105

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Editoriale Mi è subito parso molto arduo rendere onore al lavoro appassionato degli Autori, al quale non saprei aggiungere nulla che non sia di troppo. Gli articoli presentati assieme, immagino non casualmente, mi pare si occupino, sia pur da vertici e con tecniche dissimili, del problema centrale della conoscenza dell’umano e perciò della terapia: la comunicazione, i suoi modi, la sua decifrazione. Stefana e Manfredi ce ne parlano a partire dal segno, dalla sua più diretta potenza comunicativa, maggiormente svincolata dai lacci delle difese e della rimozione. Gli Autori ci propongono l’evoluzione di una tecnica straordinariamente efficace ad avviare una relazione libera e non invasiva col bambino e con l’adolescente e fornire, al tempo stesso, uno spazio di contenimento, un setting, in grado di fornire holding e reciprocità. La comunicazione passa attraverso il disegno letto, al pari del sogno, quale manifestazione del processo primario e mezzo per esplorare l’inconscio. Ci conducono, quindi, attraverso la storia dello squiggle game (gioco dello scarabocchio), ideato da Donald Winnicott e ai suoi nobili tributi da parte dei padri della psicoanalisi. Percorriamo grazie a loro la storia: dall’opera fondante de L’interpretazione dei sogni di Freud, ove il sogno è un tramite per entrare in contatto ed esplorare l’inconscio; alle tecniche di introversione e di immaginazione attiva di Jung, che prevedevano lo scrivere e il disegnare quali metodi per rappresentare le immagini simboliche non verbali; all’utilizzo del gioco da parte di Melanie Klein, che assimila il disegno del bambino al sogno dell’adulto come manifestazione del mondo interno; al surrealismo con la sua tensione all’automatismo psichico, quale mezzo di espressione del pensiero al di fuori del controllo della ragione; al contributo di Marion Milner con i disegni liberi, quali veicoli di comunicazione di affetti e pensieri consci e inconsci. La tecnica dello scarabocchio è stata pensata da Winnicott come invito a giocare, svincolata da regole precise perché «è nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé». Si tratta quindi di uno strumento per avviare una comunicazione profonda “passando dall’associazione libera della parola a quella del disegno”. Ma anche di favorire e

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ampliare uno “spazio transizionale” adatto alle caratteristiche e alle risorse del bambino nel quale il terapeuta si ponga come osservatore e al tempo stesso come un compagno di gioco (un po’ io un po’ tu) in grado di fornirgli “la speranza di essere capito e aiutato”. Facendo salvo l’eccezionale talento di Winnicott che gli permetteva di indurre cambiamenti, la risoluzione di casi in un solo incontro di consultazione, le differenze ambientali e psicopatologiche dell’epoca; Stefana e Manfredi si interrogano sui fattori che hanno mutato l’utilizzo e l’efficacia della tecnica che ha, attualmente, accentuato la sua valenza di “mezzo per la costruzione o l’ampliamento dello stesso spazio transizionale”. Ciò tenendo conto anche della maggiore sensibilità da parte dei terapeuti rispetto ai fenomeni transferali e controtransferali, che si instaurano sin dal primo incontro, e quindi della dimensione soggettiva dell’osservatore. Lo squiggle game mantiene comunque un’infinita potenzialità comunicativa in quanto strumento che utilizza la creatività in un contesto di “vicinanza e reciproco coinvolgimento” in cui lo “stare insieme include la dimensione del piacere”. Ce ne rendono conto: le esperienze della Chieffi con la “consultazione partecipata”, nella quale il gioco dello scarabocchio viene impiegato nelle situazioni di impasse, per riattivare col bambino una comunicazione bloccata, rendendo partecipi anche i genitori; e quella di Pellizzari con gli adolescenti che fa della carta uno “spazio di lavoro… che si anima e prende forma”, incontro dopo incontro, foglio dopo foglio, aiutando i ragazzi ad uscire dalla passività “creando un cantiere, un laboratorio un po’ caotico dove c’è però un contenimento”. Questo ricchissimo lavoro offre un importante contributo teorico e tecnico per affrontare le crescenti difficoltà di comunicazione con i bambini e con gli adolescenti che sempre più soffrono le distanze di un’epoca troppo veloce e distratta. Con Brunacci entriamo nella stanza dell’analista. Qui la comunicazione terapeutica, “nel percorso interno tra il sentire e il dire”, è una questione di anime oltreché tecnica, “una comunicazione da interiorità a interiorità che passa attraverso il silenzio che ognuno porta dentro di sé”. L’Autore non solo fa regalo della sua esperienza ma anche di qualcosa della propria anima e comunica l’impressione di viaggiare, condotti da un Maestro Sapiente, attraverso l’emozione del conoscere e del curare, seduti al suo fianco, quasi dentro di lui. “Conta quanto l’analista riesca a fare un buon uso di sé e di quello

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che ha e che è” rendendo via via percorribili i propri “sentieri ostruiti”, assieme a quelli del suo Paziente. È necessario riuscire, quindi, ad avvicinare essendosi avvicinati a sé stessi. L’articolo indica, in modo originale, impressionistico e intensamente comunicativo, una serie di alternanze che delineano degli ambiti, dei range di oscillazione, dei percorsi sui quali l’analista può muoversi e ampliare la propria disposizione emotiva. In apertura l’Autore ci avverte che la giustapposizione tra intimità e verità costituisce, “la pietra angolare del lavoro analitico e tutto il resto ne deriva” e ci fa comprendere che “Avvicinare l’anima” non può prescindere dall’amore per la verità. Proprio il desiderio e l’amore per la verità e l’autenticità, il dipenderne, la sua implacabilità, i suoi rapporti con la libertà, la creatività, la bugia sospinge nel viaggio verso quella “Itaca che non c’è, non c’è mai stata... perché è ovunque, tutti i giorni, perché è il viaggio medesimo”. La verità, nominata o meno che sia, percorre la riflessione di Brunacci e ne orienta la rotta con un anelito che “suscita sorpresa incanto, scoperta e appagamento come qualcosa che rimanda al primo amore”. Una via per la verità è la semplicità. Una “semplicità risonante” che recepisce ed esprime il respiro profondo della complessità e il senso dello stare assieme, vicini e separati, con un “particolarissimo e temperato volersi bene”. La scrittura di Brunacci è illuminante, intima e ha un caldo rigore poetico che al termine della lettura lascia il desiderio di proseguire ancora. Mi piace, infine, pensare che l’Autore abbia voluto far comprendere, fra l’altro, come il lavoro dell’analista, così come di tanti terapeuti di diversa formazione e più in generale operatori della salute mentale, non possa prescindere dalle loro qualità e limiti, dal continuo interrogarsi e affinarsi. Ma, soprattutto, dall’inesausto, appagante desiderio di conoscere e migliorare come persone che fanno anche della propria “implicita esistenzialità” uno strumento di cura. Altri modi di comunicare e decifrare l’indicibile nei gruppi di psicoanalisi multifamiliare ideati, condotti e descritti da Antonella Granieri e Francesca Viola Borgogno. Le Autrici riconducono a una pagina tragica e criminale della nostra storia industriale: l’inquinamento da amianto causato, per oltre mezzo secolo, dalla produzione di eternit a Casale Monferrato, nella provincia di Alessandria. Anche la lettura di questo lavoro riserva intense emozioni. Se tutto non fosse così terribilmente vero potremmo pensare di leggere un racconto dell’orrore. Respiriamo

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anche noi l’angoscia di vivere sotto un cielo che uccide. La crescente consapevolezza di una minaccia che distrugge la vita, le famiglie, che impone e diffonde paura, lutto, rabbia, colpa e vergogna nell’intera popolazione, fa da tragico sfondo a questa narrazione. Il progetto sostenuto dalla Regione Piemonte e dall’Università di Torino si è proposto di individuare uno strumento di intervento clinico adeguato a fronteggiare l’impatto gravemente traumatico del diffondersi di diagnosi oncologiche. Il dispositivo psicoanalitico multifamiliare è stato scelto come strumento utile ad affrontare la concretizzazione del trauma della morte attraverso un gruppo eterogeneo, composto da pazienti, familiari e operatori, “permettendo da un lato di storicizzare la malattia e dall’altro di poter creare molteplici narrazioni del dolore: da quello più legato ai bisogni del soma e del corpo, a quello più squisitamente psichico”. Le Autrici ci mostrano l’utilizzo del modello ideato dal genio di Jorge Garcìa Badaracco e la sua straordinaria duttilità applicativa ed efficacia. Si è trattato in questo caso di un “gruppo specializzato” impegnato ad affrontare una medesima tragica situazione esistenziale. Una “sorta di microsocietà curativa” unita dal compito di riattivare le risorse “congelate e dissociate” di persone che avevano subìto il trauma della morte dei propri familiari e di affrontare le potenti difese scissionali, negatorie e regressive necessarie a consentire di “sopravvivere psichicamente all’evento”. Ritroviamo in questo emozionante lavoro, il senso di un percorso comune di cura e alcune delle concettualizzazioni fondanti del pensiero di Garcìa Badaracco, quali il costituirsi della “mente ampliata” e l’osservazione del fenomeno dei “transfert multipli”. In questo caso terribile “los otros in nosotros” (gli altri in noi), che abitano i componenti del gruppo e non li lasciano essere sé stessi né attivare le proprie “virtualità sane”, sono i morti medesimi con l’insostenibile vuoto della loro assenza. Molto altro troverete in questo appassionante numero della Rivista. Buona Lettura

Michele Solari

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Tra prassi e teoria

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Alberto Stefana, Paola Manfredi

Il gioco dello scarabocchio: origini ed evoluzioni

Sovente è possibile per un nuovo concetto o una nuova tecnica ripercorrere a ritroso la storia del pensiero individuando precursori (a volte inconsapevoli) e riflessioni che hanno per così dire preparato il terreno per la nascita del “nuovo”, così è anche per lo squiggle game (gioco dello scarabocchio) di Donald W. Winnicott, che è forse tra le “creazioni” winnicottiane in cui più evidenti sono i segni distintivi della paternità e allo stesso tempo sono pure abbastanza evidenti i tributi al passato. Un primo illustre debito storico può essere individuato nel “sogno”. L’interesse per i sogni ha radici antiche, risalenti agli albori della civiltà. Con il passare dei secoli il crescente interesse attorno a questo particolare fenomeno che è il sogno, ha portato a un accumulo di “saperi” che, afferenti da una pluralità di punti di vista, con accenti diversi a seconda delle epoche storiche e dei differenti studiosi che se ne sono occupati, hanno proceduto l’uno accanto agli altri. Si sono così avute concezioni del sogno scientifiche, filosofico-metafisiche, religiose, ingenue o superstiziose, ciascuna articolata a partire da teorie anche profondamente differenti tra loro. Un periodo decisivo per lo sviluppo delle conoscenze sul sogno fu quello tra il 1860 e il 1899, in cui le ricerche condotte su tale argomento portarono a scoprire quasi tutti quei concetti che si ritroveranno nell’opera di Sigmund Freud. Quest’ultimo si era meravigliato della frequenza con cui i pazienti riportavano in seduta i

Psicologo, Specializzando in psicoterapia. Psicologa, Psicoterapeuta, Professore Associato di Psicologia Clinica e Dinamica presso la Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Brescia.

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sogni avuti durante la notte e si era chiesto quale significato avessero queste immagini oniriche, che durante il sonno popolano la mente di ogni persona. Va sottolineato come Freud stesso fosse un buon sognatore e come già anni prima avesse, per un certo periodo, preso regolarmente nota dei propri sogni. Come è noto, questo interesse e questi interrogativi sfociarono nella realizzazione e pubblicazione de L’interpretazione dei sogni (Freud, 1899), opera alla quale è possibile far risalire, convenzionalmente, la nascita della psicoanalisi. Per il Maestro viennese i sogni sono manifestazioni del processo primario, e attraverso essi è possibile esplorare l’inconscio. Più precisamente, a partire dal contenuto onirico manifesto, grazie alle libere associazioni del paziente, è possibile giungere al significato latente. Freud si rese anche conto che esistevano elementi (uguali per tutte le persone) sui quali i pazienti non riuscivano ad associare; giunse a ritenere tali elementi dei simboli, risultato di un processo primario che, tramite lo spostamento, riesce a superare la censura onirica e a scaricare la tensione psichica. A fronte di una moltitudine di simboli, alcuni dei quali universali, individuò una quantità limitata di elementi simbolizzati: sensazioni, parti del corpo e oggetti primari. I sogni furono un elemento fondamentale anche per l’autoanalisi di Carl G. Jung (1961), esperienza che copre l’arco degli anni che vanno dal 1913 al 1919, consistente nel liberare e lasciare emergere in coscienze le fantasie inconsce. Per raggiungere tale scopo Jung ricorreva a delle tecniche di introversione riconducibili al metodo dell’immaginazione attiva: una consisteva nel raccontarsi una storia e nello scrivere tutto quanto veniva in mente relativamente ad essa; l’altra prevedeva lo scrivere e il disegnare ogni sogno del quale si aveva memoria al risveglio. Se ne deduce che per Jung i disegni siano utili metodi per rappresentare graficamente le immagini simboliche non verbali. Tali tecniche furono adottate da Jung anche nel lavoro con i suoi pazienti: «Ma perché mai incoraggio i pazienti giunti a un determinato stadio del loro sviluppo a esprimersi mediante il pennello, la matita o la penna? (...)» (Jung, 1929, p. 56). Lo scopo qui è lo stesso

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che per i sogni, si tratta di produrre uno stimolo: «(…) L’attività creatrice dell’immaginazione strappa l’uomo ai vincoli che lo imprigionano nel nient’altro che, elevandolo allo stato di colui che gioca. (…) L’effetto al quale io miro è di produrre uno stato psichico nel quale il paziente cominci a sperimentare con la sua natura uno stato di fluidità, mutamento e divenire, in cui nulla è eternamente fissato e pietrificato senza speranza» (ibid., p. 54). Verso la fine degli anni 1920 Melanie Klein (1929), tra le prime a trattare psicoanaliticamente i bambini, iniziò a considerare il gioco e il disegno come simbolizzazioni dell’esperienza propria del bambino: la capacità di svolgere tali attività e la loro qualità erano viste in stretta connessione con lo stato di salute mentale. Il disegno divenne per la Klein l’equivalente del sogno dell’adulto, ovvero una manifestazione del mondo interno del soggetto, e come tale veniva sottoposto a un’interpretazione simbolica. Un altro significativo contributo, di ordine culturale più generale, è dato dal Surrealismo, il cui fine, creativo e sociale, è la liberazione dell’uomo da una prospettiva positivistica, razionale e borghese per accogliere una più vasta realtà (fu Guillaume Apollinaire a parlare per la prima volta di surréaliste, nel senso di super-fantastico, a qualifica del suo dramma Les mamelles de Tirésias [1916]), inclusiva della dimensione inconscia. La sur-realtà risiedeva nell’attribuzione al lavoro onirico degli stessi valori di presenza, solidità e perentorietà tipicamente attribuiti alla realtà esterna. Si noterà la forte l’influenza de Die Traumdeutung di Freud, tanto è vero che secondo René Magritte (1938) «(…) Il Surrealismo rivendica per la vita della veglia una libertà simile a quella del sogno» (p. 94). La definizione del movimento surrealista è data nel “Manifesto del surrealismo”, dove leggiamo: «Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni

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preoccupazione estetica o morale, (…) il surrealismo si fonda sull’idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d’associazione finora trascurate, sull’onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita» (Breton, 1924, pp. 267-268). Sul piano estetico i mezzi per la liberazione sono la scrittura automatica, le improvvisazioni scritte a più mani e le comunicazioni medianiche; mentre da un punto di vista pittorico i mezzi sono l’automatismo, il montaggio e il frottage. Qualche anno più tardi, nel 1938, Marion Milner, che conosceva il movimento surrealista (infatti sappiamo che nella fine degli anni 1930 visitò la mostra pittorica di due surrealisti britannici che ampio uso facevano del disegno automatico: Reuben Mednikoff e Grace Pailthorpe, che era anche psicoanalista), rimase sconcertata nello scoprire, quasi per caso, che talvolta è possibile eseguire schizzi o disegni lasciando liberi occhio e mano di fare esattamente ciò che vogliono, senza cioè l’intenzione cosciente di raggiungere un risultato prestabilito, di disegnare “qualcosa”. Milner iniziò a guardare i disegni similmente a come Freud si era avvicinato ai sogni (che, tra l’altro, sono composti da immagini), e si accorse che con il metodo da lei definito “libero” potevano affiorare, raffigurati dai tratti lasciati dalla matita sul foglio, umori e idee che a livello della coscienza sembravano totalmente assenti: i disegni liberi erano dunque intrisi della struttura degli affetti e dei pensieri (consci e inconsci) di colui che li produceva. Ciò era in accordo con quello che Herbert Silberer (1909) descrisse come “fenomeno funzionale”, ovvero quel fenomeno per cui nelle immagini oniriche viene rappresentato lo stato effettivo del sognatore, non il contenuto del pensiero. Dalle numerose esperienze creative fatte in quegli anni, dall’analisi del contenuto dei disegni e dall’autoanalisi dei propri processi mentali che accompagnavano tali esperienze creative nacque il libro Non poter dipingere (Milner, 1950; Stefana, 2013). Il

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metodo libero venne utilizzato da questa analista anche nella psicoanalisi dei bambini, infatti ella incoraggiava a utilizzare questo tipo di disegni come mezzo di espressione e comunicazione di quei sentimenti disturbati per i quali i pazienti non avevano parole (Milner, 1969; Giannakoulas, 1992). C’è un altro contributo che va citato in questa breve ricostruzione storica delle origini del gioco dello scarabocchio, quello di Michael Fordham di Londra. Si tratta di uno psicologo analista, amico di Jung, che negli anni 1940, influenzato dalle ipotesi della Klein sulle fantasie primarie inconsce, formulò una concezione originale dei processi di maturazione dell’Io a partire dalla matrice archetipica del Sé originario. Fordham è l’autore che in ambito junghiano ha dato i maggiori contributi alla tecnica del disegno nell’analisi dei bambini. Nel 1944 uscì il suo libro La vita dell’infanzia, nel quale partendo dalle idee di Jung e dalla propria esperienza clinica sosteneva che sogni e disegni sono mezzi di comunicazione e riflessi del mondo interno del bambino, motivo per cui forniscono al clinico informazioni sulla psicopatologia del bambino e sul suo ambiente primario. Talvolta Fordham richiedeva al paziente bambino d’illustrare gli eventuali sogni che portava in seduta, utilizzando la loro raffigurazione su carta come avvio del lavoro terapeutico. A questo punto è interessante segnalare che verso la fine degli anni 1920 la Milner fece l’esperienza di un’analisi junghiana (sembra con Gail Pailthorne1 [Di Benedetto, 2003]), ebbe la Klein come supervisore, e visse con Winnicott un rapporto assai stretto e multiforme (egli fu, oltre che suo amico, suo supervisore ed analista). Circa Winnicott segnaliamo che anch’egli ebbe la Klein come supervisore, e che fu amico di Fordham (anche quest’ultimo, come

1 Non siamo riusciti a reperire informazioni significative sulla formazione e sul modo di lavorare di questo Psicologo Analista. Va comunque detto che in quel periodo fra gli junghiani era più diffuso di quanto non lo sia oggi il metodo dell’immaginazione attiva e del disegno di fantasie e di sogni, la cui analisi in serie era raccomandata già allora da Jung come utile testimonianza dello svolgimento del processo d’individuazione.

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abbiamo detto, influenzato dell’idee della Klein, tanto che alcuni colleghi lo accusarono di essere più kleiniano che junghiano). È un po’ come se i contributi più salienti che condussero allo squiggle game fossero quasi ricapitolati nella storia di Marion Milner. Sono proprio i suoi disegni liberi a rappresentare l’anello di congiunzione tra Die Traumdeutung di Freud e lo squiggle game di Winnicott. Il riconoscimento di tale debito nei confronti di Milner non fu mai dato da Winnicott che però, proprio recensendo Non poter dipingere, riporta un insegnamento tratto dalla lettura del testo: «ogni studente deve creare ciò che gli viene insegnato e giungere così a ogni stadio dell’apprendimento nel suo modo personale. Anche se dimentica temporaneamente di riconoscere i propri debiti, la cosa gli si può perdonare facilmente, perché invece di pagar debiti egli riscopre le cose, con franchezza e originalità e anche con piacere, e sia lo studente che l’argomento crescono attraverso l’esperienza» (Winnicott, 1951, p. 416). La tecnica Il fatto che la “consultazione psicoterapica” (Winnicott, 1965), colloquio diagnostico da distinguersi dalla psicoterapia e dalla psicoanalisi, ma che necessariamente deve essere anche terapeutico, fosse costituita in molti casi da un singolo incontro, spinse Winnicott a mettere a punto una tecnica che consentisse di arrivare a dialogare con il paziente su temi profondamente inconsci, in modo da ricavare il massimo dal primo colloquio (o dai primi colloqui). Tale tecnica, definita “gioco dello scarabocchio”, è un metodo per entrare in relazione con i bambini che vengono condotti per una consultazione, e nello stesso tempo è uno strumento di valutazione della stessa capacità del bambino di utilizzare la situazione che gli viene offerta (in tal senso ogni consultazione rappresenta una prova di terapia).

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Quella che è la vera e propria tecnica è di assai facile trasmissione e apprendimento, Winnicott (1968, p. 326) così la descrive: «Al momento giusto (…) dico al bambino: “Facciamo un gioco. Io lo so a cosa vorrei giocare e adesso te lo faccio vedere”. Tra me e il bambino c’è un tavolo con della carta e due matite; prima di tutto prendo un po’ di carta e divido i fogli a metà, per dare l’impressione che quello che facciamo non è poi così terribilmente importante, quindi comincio a spiegare: “Il gioco che vorrei fare non ha nessuna regola. Prendo la matita e faccio così…”. Qui è probabile che chiuda gli occhi e faccia uno scarabocchio alla cieca. Vado avanti nella spiegazione e dico: “Tu mi fai vedere se ti sembra che assomigli a qualcosa o se lo puoi far diventare qualcosa, poi ne fai uno tu e io vedrò se posso fare qualcosa con il tuo”». Winnicott sottolinea come quello fatto al bambino è un invito a giocare; se il piccolo vuole disegnare o parlare, piuttosto che usare dei giocattoli o fare altro, è bene essere flessibili e accontentarlo perché il bambino ha la piena libertà di rifiutare la nostra proposta di gioco. Ciò che è importante è creare un’atmosfera percepita dal paziente come accogliente e non valutante, nella quale si senta libero di comunicare (nelle varie forme possibili) e di essere; risulta quindi indispensabile creare uno spazio di contenimento (holding), dove la funzione di contenitore del terapeuta è strettamente legata alla sua capacità di rêverie. Quella sopra descritta è la tecnica: si passa dall’associazione libera della parola all’associazione libera del disegno. Una volta appresa ognuno deve essere libero di ricrearsela, di adattarla alle propria persona in modo da poterla utilizzare con naturalezza e spontaneità. Winnicott esitò molto sulla possibilità di descrivere ai colleghi questa tecnica perché temeva che potesse essere adottata come se fosse una tecnica prestabilita, dotata di regole e regolamenti precisi, anziché come

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un gioco spontaneo qual è2. Il rischio è quello che si perda il reale valore del gioco, che sta nel modo di procedere, in quanto «il consulente contribuisce con la propria spontaneità quasi quanto il bambino. Naturalmente, gli apporti del consulente vanno lasciati cadere, perché è il bambino e non il consulente a comunicare un disagio» (Winnicott, 1968, p. 325). Nel gioco dello scarabocchio, come pure nella psicoterapia, il clinico non deve essere particolarmente acuto o brillante nelle interpretazioni, non deve porsi nemmeno il problema di essere o meno bravo a disegnare. Quello che deve fare è «… offrire una relazione umana naturale e libera all’interno di un setting professionale3 in cui il paziente, gradualmente, sorprenderà se stesso con la produzione di idee e di sentimenti che precedentemente non erano integrati nella personalità globale. Forse, il lavoro principale fatto qui è proprio l’integrazione, resa possibile dal sostegno offerto da una relazione umana ma professionale, una forma di holding» (Winnicott, 1968, pp. 323-324). Qui l’holding è costituito sia dal gioco che dal setting, ossia da una determinata modalità di relazione, chiara al terapeuta anche nei suoi presupposti teorici, e da una definita cornice spazio-temporale, in cui possono avvenire delle interpretazioni, da proporre solo quando il terapeuta sarà pronto a darle e il paziente pronto a riceverle. La condizione di holding è indispensabile, perché per Winnicott è solo quando il paziente, bambino o adulto che sia, si sente contenuto (metaforicamente ed emozionalmente) che possono nascere e svilupparsi in lui il gesto spontaneo, la capacità di integrare l’esperienza e la possibilità di tollerare il momento dell’io sono.

2 Ciò è importante perché: «È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé» (Winnicott, 1971b, p. 94). 3 L’affidabilità spazio-temporale propria del setting potrà rendere possibile lo sviluppo di un senso di continuità sia del Sé del paziente che del rapporto con il terapeuta, dello spazio potenziale essenziale alla capacità di giocare, non sufficientemente sviluppato nella relazione primaria.

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C’è un’altra condizione fondamentale che il clinico deve soddisfare perché la tecnica del gioco dello scarabocchio possa essere utilizzata correttamente: l’aver fatta profondamente propria una chiara teoria dello sviluppo emozionale (normale e patologico) che riveste di significato i dati acquisiti dall’osservazione. A tale riguardo Winnicott scrive: «Il mio unico inseparabile compagno nell’esplorare il territorio sconosciuto di un nuovo caso è la mia teoria. Questa è diventata parte di me e perciò non vi devo pensare intenzionalmente. Questa è la teoria dello sviluppo emotivo di un individuo, sviluppo che comprende la storia totale di ogni singolo bambino in rapporto al suo particolare ambiente. Bisogna dire però che questa teoria, base del mio lavoro, a volte subisce dei cambiamenti che maturano con il passare del tempo e con la mia esperienza. Il mio atteggiamento potrebbe essere paragonato a quello di un violoncellista, il quale all’inizio della sua carriera lavora con tenacia ad una tecnica, poi riesce effettivamente a suonare la musica dando per scontata la tecnica acquisita. So di svolgere questo lavoro più facilmente e con più successo di trenta anni fa, spero perciò di poter comunicare con coloro che stanno ancora lavorando tenacemente ad una tecnica dando loro la speranza che un giorno potranno suonare la musica» (Winnicott, 1971a, pp. 15-16). Il foglio e le linee: concretezza e spazio potenziale Winnicott (1968), aveva sottolineato che “La forma e la grandezza del foglio sono un fattore importante” (p. 326). È chiaro che il foglio non è un mero spazio bianco, bensì uno spazio metaforico, simbolizzante lo spazio potenziale, la cui esistenza è garantita da un confine. Potremmo dire che il foglio bianco sta allo squiggle come il setting sta alla psicoterapia. È il setting che caratterizza la

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seduta analitica e permette al bambino, per mezzo dell’illusione creativa, di usare i giocattoli e l’analista come materiale plasmabile. Allo stesso modo la cornice rappresentata dai margini del foglio ha lo scopo di garantire che quanto avviene al suo interno non è una realtà oggettiva ma è un’illusione. Inoltre come ogni infrazione del setting (ad esempio arrivare in anticipo o in ritardo) è una comunicazione, spesso agita, così anche nello squiggle game l’uscire dallo spazio del foglio è da leggersi come acting out. Nella realizzazione del disegno non ha grande importanza se il paziente segue fedelmente le linee del nostro scarabocchio, le cancella o fa come se non esistessero. Più importante è come traccia le linee; ad esempio dovremo fare attenzione se calca la punta della matita sul foglio (in tal caso potrebbe essere utile considerare, ad esempio, se lo fa perché è arrabbiato o, invece, lo fa perché vuole lasciare un’impronta profonda sul foglio essendo che sente di non esistere) o la fa scorrere leggera e delicata (ha forse paura di lasciare il segno, di far sapere che esiste? ecc.), se è sicuro nel tratto oppure è insicuro, se è a suo agio o meno, ecc. Quale spazio per l’interpretazione? Quando si incontra un paziente c’è sempre uno stato di “non-sapere”, riguardante ad esempio il linguaggio del paziente, che deve essere necessariamente compreso e accettato. Gli squiggle costituiscono un processo il cui fine non è formulare un’interpretazione o dare una spiegazione; al contrario sono proprio la “capacità negativa” (Bion, 1970) del terapeuta e la possibilità di fare spazio dentro di sé alle comunicazioni del paziente per tutto il tempo necessario a garantire l’effettiva considerazione del contributo del paziente, nella descrizione e nella comprensione di quanto sta vivendo.

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Più il gioco va avanti più diventa profondo, più va avanti più la comunicazione diventa significativa e acquista familiarità. Ad esempio, Winnicott utilizzava il gioco dello scarabocchio anche come strumento per arrivare, raggiunto un certo grado di fiducia, a “pescare” i sogni del paziente: “È bene notare che durante questi colloqui è mia precisa intenzione arrivare al materiale reale del sogno; cioè sogni avuti e ricordati. Il sogno [che attinge dalla realtà, interna ed esterna,] contrasta con la fantasia [fantasying, da intendersi come fuga dalla realtà], che è improduttiva, confusa ed alquanto manipolata” (1971a, p. 46). In tale atteggiamento si può intravvedere un’importante caratteristica che deve avere un buon genitore. Infatti, se i genitori non sanno meravigliarsi e considerano il sogno del proprio figlio come qualcosa di sconosciuto, alieno e pericoloso, il bambino non può fare amicizia col proprio inconscio, coi propri sogni; questo bambino ci parlerà di incubi (Giannakoulas, 2010). I sogni non raccontati sono sogni dissociati, fanno più paura ai bambini; così i bambini devono regredire (ad esempio vanno nel letto dei genitori) essendo il loro Io minacciato, sopraffatto. Non dobbiamo discriminare tra sogni belli e sogni brutti (incubi), altrimenti il bambino è portato a pensare: “Se spaventa la mamma (o il terapeuta), spaventa anche me”. È quindi chiaro che il bambino non deve trovarci chiusi all’ascolto dei suoi incubi e delle sue paure, bensì pronti ad ascoltarli e vederli insieme a lui. Ne consegue che il nostro lavoro è in primo luogo quello di tollerare (Carpy, 1989) l’angoscia proiettata dal paziente; solo così potremo raggiungere quella comprensione dello stato psichico-emotivo del paziente che ci è necessaria a formulare un’interpretazione che susciti in lui il sentimento di essere capito e contenuto (Steiner, 1993). Al contrario non contenere le proiezioni, chiudendoci o controproiettando, avrebbe per il paziente il significato di sentirsi incompreso e attaccato, portandolo a percepire (forse non a torto) anche l’interpretazione come una nostra difesa dal suo dolore psichico (ivi).

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Se è vero che un’interpretazione corretta e opportuna, data nel momento giusto, fa sentire al paziente di essere sostenuto fisicamente (Winnicott, 1988, p. 67), è altrettanto vero che essa può essere sbagliata (nel contenuto, nella forma, nel timing), e che a essa il paziente può reagire negativamente o può non reagire affatto, può rifiutarla o può accettarla passivamente adattandovisi. Così, è indispensabile che il clinico possa sia ritirare la propria interpretazione che cambiare idea su di essa: è la capacità di disilludersi del terapeuta (Milner, 1952; Stefana, 2011). I momenti più significativi non sono quelli nei quali arriva la nostra “brillante interpretazione”, bensì quelli in cui “il bambino sorprende se stesso” (Winnicott, 1971b, p. 89). Inoltre, non tutto è interpretabile. Winnicott riteneva che “Spesso il risultato di uno scarabocchio è di per sé soddisfacente. Allora è come un ‘oggetto casuale’, come una pietra o un pezzo di un vecchio tronco che uno scultore può trovare e utilizzare come espressione artistica senza che ciò richieda altro lavoro. Questo attrae i bambino pigri e getta luce sul significato della pigrizia. Qualunque lavoro aggiuntivo sciupa ciò che comincia come oggetto idealizzato” (1968, p. 327). Possiamo osservare come questa cautela rispetto alle interpretazioni abbia, nella psicoanalisi infantile, una lunga tradizione. Infatti, già Melanie Klein nel 1927 metteva in guardia rispetto alle interpretazioni selvagge, chiarendo quali condizioni debbano essere soddisfatte prima di proporre un’interpretazione: «Orbene, io non mi sono mai azzardata a fare interpretazioni simboliche così “selvagge” del gioco infantile. (…) Solo se il bambino manifesta ripetutamente in vari modi – per lo più in realtà servendosi di mezzi vari, per esempio giocattoli, acqua, o ritagliando, disegnando ecc. – lo stesso materiale psichico; se rilevo, inoltre, che queste attività sono di norma accompagnate da senso di colpa che si palesa come angoscia o in rappresentazioni nelle quali è insita della sovracompensazione, e cioè in formazioni reattive; se pervengo a rendermi conto che nel complesso di tutto ciò esistono nessi precisi,

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ebbene, solo allora io interpreto i singoli fenomeni e li connetto all’inconscio e alla situazione analitica» (p. 171). Giacché nessuno si è preoccupato di ribadire ciò che è assodato e senza rischi di infrazione, è plausibile che queste sottolineature e accortezze, certamente condivisibili, esprimano anche la tentazione, forse proprio più con i bambini che con gli adulti, e più di fronte a disegni che nel corso di una psicoterapia, di lasciarsi andare a interpretazioni inopportune. I disegni offrono lo spunto per accogliere sia le nostre proiezioni sia le nostre fantasie; non di rado essi possono incastonarsi (quasi) perfettamente con le nostre teorie regalandoci la (narcisistica) sensazione di avere capito o di essere bravi, specie se chi abbiamo di fronte è accondiscendente o meno convincente nell’argomentare il proprio dissenso. Anche il fatto che si sottolinei la validità dell’atteggiamento per cui le interpretazioni possono essere ritirate, indirettamente offre conferma all’evenienza (non troppo rara?) di interpretazioni fuori luogo. Ma sono proprio tutte inopportune? Pur non avendo alcuna intenzione di proporre e avvallare atteggiamenti più interventisti o interpretativi, e al contrario condividendo pienamente la validità di un atteggiamento in-formato dalla capacità negativa, pare che in alcuni casi ci sia un’efficacia non tanto nel contenuto dell’ipotesi interpretativa, quanto nella sua esistenza, nella modalità proposta. Comunicare ad esempio che si è colpiti da una certa sequenza di disegni o da alcuni particolari e che questo porta il terapeuta a collegare alcuni pensieri, a ipotizzare il senso di ciò nella storia del paziente, al di là del fatto che il paziente sia in grado di condividere l’interpretazione, comunica o sottolinea al paziente (bambino o adolescente) il senso dello squiggle game. In altri termini è come richiamare l’attenzione sul fatto che il fine dell’incontro non è una relazione chiusa in sé, non è solo un modo piacevole e giocoso di conoscersi, ma è un modo per cercare di comprendere il funzionamento mentale di un soggetto in qualche misura sofferente, dal momento che quanto è dentro di noi trova espressione nella

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quotidianità della nostra vita, che sia un disegno, un modo di stare a scuola o il nostro rapporto con gli altri, con il cibo, con il sonno. Quindi certamente fondamentale è la chiarezza rispetto al perché decidiamo di proporre un’interpretazione ai nostri pazienti, ma resta la possibilità che non tutte le interpretazioni “sbagliate” siano inutili o deleterie per il paziente. Ora e allora: raffronti e considerazioni Il gioco dello scarabocchio è una tecnica, un mezzo, un gioco, una creazione davvero transizionale; analogamente a un’opera d’arte continua a dischiudere nuovi orizzonti, modellandosi sulle sensibilità, sulle esigenze e sulle ricerche di chi ne fa uso. Lo squiggle game viene oggi abbastanza diffusamente utilizzato, ma anche quando esso viene proposto senza alcuna variazione rispetto alla forma originaria, forse non siamo nelle identiche condizioni che descriveva Winnicott, sia per il contesto in cui viene applicato sia per la cornice teorica di riferimento del clinico. Nel testo Colloqui terapeutici con i bambini. Interpretazione di 300 scarabocchi (1971a) Winnicott scrive che «Se non sbaglio, il tipo di lavoro che sto descrivendo in questo libro ha importanza nel soddisfare i bisogni e le esigenze sociali nelle cliniche, cosa che non fa la psicoanalisi» (p. 11); in effetti i casi narrati trovano quasi tutti soluzione nel corso di pochi colloqui, a volte anche di un solo incontro. Nella matita di Winnicott, lo squiggle game sembra rispondere adeguatamente a quelle situazioni “sacre”, in cui il paziente ha “la speranza di essere capito e forse anche aiutato” (Winnicott, 1971a, p. 14). Per Winnicott tale sacralità non è rara, ma comunque la sua mancanza potrebbe essere ascritta più al terapeuta che al paziente, dal momento «… che quando viene fornita l’opportunità (a un bambino o a un adulto) di un metodo adatto e

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professionale, il paziente, (…) fornirà ed esporrà (…) i suoi problemi…» (ibid., p. 16). Sebbene Winnicott avesse ovviamente chiari sia i possibili fallimenti nella costruzione del mondo interno e degli oggetti esterni, sia come proprio l’evoluzione degli oggetti transizionali si accordi alle caratteristiche dello sviluppo, tanto nella sua normalità quanto nella sua psicopatologia (Green, 2001), in effetti nei ventuno casi da lui descritti nei Colloqui terapeutici solo il caso di George (caso XXI, pp. 431-448), che chiude la raccolta, è – a detta dell’autore – non trattabile adeguatamente con la tecnica dello scarabocchio, e ciò in ragione di un’assoluta gravità4. A fronte di una marcata dissociazione che non consentiva al ragazzo l’accesso al proprio mondo onirico, alla presenza di oggetti parziali e al fatto che il ragazzo avesse ricordato un sogno proprio in connessione al colloquio con Winnicott, egli aveva valutato che «… se avessi avuto altri due o tre colloqui con George mi sarei trovato coinvolto nei suoi sogni, perciò avrei dovuto seguirlo da vicino e molto attentamente ed io non potevo farlo» (Winnicott, 1971a, pp. 445-446). In altre situazioni il lavoro è possibile se la rigidità delle difese del paziente non è troppo accentuata e se l’ambiente «precedentemente senza speranza e senza possibilità di aiuto» può diventare “efficace e promettente” (ibid., p. 431). Ciò che colpisce in tutta questa ricca documentazione sono la possibilità e la (relativa) facilità, quando non immediatezza, con le quali si instaura tra clinico e paziente una relazione significativa. Distinguere quale fosse il contributo ascrivibile alle doti personali di Winnicott, e quale alle caratteristiche strutturali o psicopatologiche dei suoi interlocutori o dell’ambiente5, non è rilevante per gli scopi del presente

4 Analizzando i casi riportati da Winnicott, si vede che nei primi venti casi esposti (ovvero tutti tranne quello di George), tutti i pazienti hanno raggiunto l’Edipo. I pazienti molto disturbati (autistici, depressi, inquieti ecc.) non sono capaci di giocare; in tali casi il raggiungimento della capacità di giocare, che ha in sé la possibilità di reciprocità, è uno degli obiettivi primi. 5 Winnicott riponeva una grande fiducia nella possibilità di mobilitare le capacità terapeutiche e riparative dell’ambiente, anche attraverso il lavoro di un solo colloquio. Aveva, infatti, notato che anche nei casi in cui i bambini presentavano problemi clinici acuti, i cambiamenti cui andavano incontro nel corso della consultazione potevano essere sfruttati dalla famiglia e dalla scuola che, in

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articolo; rimane però un dato di fatto che la documentazione attuale relativa all’utilizzo dello squiggle game nella clinica ci parla di situazioni più problematiche e con tempi di risoluzione più lunghi. Linderholm (2005), ad esempio, ci parla dell’analisi di un bambino in cui la stessa possibilità di giocare insieme all’analista e non da solo con l’analista nel ruolo di spettatore, era una capacità da acquisire gradualmente. Sorgono quindi spontanei alcuni quesiti. Forse lo squiggle game viene oggi meno impiegato in situazioni di consultazione ed è invece utilizzato in più articolati percorsi psicoanalitici (o in situazioni a carattere più fortemente educativo, ludico o creativo senza interessi terapeutici)? Forse l’ambiente in cui crescono i nostri figli è un po’ meno “potenzialmente normale” di quanto non fosse quello dei pazienti di Winnicott? Forse prevalgono psicopatologie più gravi di un tempo? È plausibile che, unitamente ad altri fattori, oggi i problemi legati alla possibilità di fruire di uno spazio transizionale e le difficoltà connesse alla sfiducia e alla diffidenza (Orefice, 2002) siano più acute o più rappresentate nella letteratura clinica e ciò si riflette anche nelle valenze del gioco dello scarabocchio. Più che rappresentare una via elettiva e agevole per la conflittualità inconscia, lo squiggle game accentua ora la sua valenza di mezzo per la costruzione o l’ampliamento dello stesso spazio transizionale6.

qualche modo, si facevano carico di proseguire nel lavoro avviato all’interno della consultazione. Questo perché “Un piccolo aiuto dato a un singolo bambino può spesso portare a migliori relazioni intorno a lui; la famiglia e la scuola [abbastanza buone] non aspettano che di fare il resto del trattamento” (Winnicott 1968, p. 324). Winnicott sottolinea anche che i cambiamenti più radicali che possono avvenire in seguito a uno o due consulti terapeutici sono sì la prova del lavoro svolto dalla diade terapeuta-bambino, ma parimenti sono la prova dell’atteggiamento dei genitori. 6 Crediamo sia qui utile riportare la famosa definizione che Winnicott (1971b) dà della psicoterapia, ponendo attenzione all’importanza che questo autore attribuisce al gioco e riflettendo su come il gioco dello scarabocchio in particolare possa facilitare la creazione di uno spazio potenziale: «La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme. Il corollario di ciò è che quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine quello di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace» (p. 71).

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Quella dimensione di relativa “immediatezza” che si evince dalla lettura dei colloqui di Winnicott può però essere ritrovata nei colloqui con i bambini affetti da malattie fisiche, in particolare dal cancro (ad esempio Di Gallo, 2000; Günter, 2003). Tra l’altro, possiamo osservare come gli obiettivi di questo lavoro siano assolutamente coerenti con quelli di Winnicott. Infatti, Di Gallo e Winkler (2001) scrivono: “In breve, lo scopo della prima consultazione con un bambino con il cancro è di creare un dialogo fiducioso e significativo. Centrale in questo dialogo è la valutazione delle risorse e dei meccanismi adattativi che sono a disposizione del bambino nel suo ambiente sociale” (p. 198, trad. nostra). La lettura quindi dei disegni del bambino prevede sia un livello manifesto, con un’analisi formale, in cui si riconoscono le relazioni affettive del soggetto, le caratteristiche delle persone che compongono l’ambiente familiare, le paure e i desideri; sia un livello inconscio, la cui analisi si avvarrà del riconoscimento degli stessi meccanismi che si ritrovano nel sogno. Apriamo qui una parentesi per ricordare che nelle situazioni che coinvolgono bambini con gravi patologie fisiche il lavoro sui contenuti dei disegni e dei prodotti delle attività creative in generale (inclusi i sogni) deve essere preceduto da un lavoro di contenimento. È il caso di Alberto, 8 anni, che all’interno di un concorso per bambini seguiti in reparti di oncoematologia (Saccomani, 1998) ha disegnato un “topo marziano” che dice: “penso − sono − innamorto/della − terra”. “È un disegno che colpisce se, rimanendo in un rispettoso ascolto silenzioso, si lascia ‘lievitare’ dentro l’osservatore l’insieme di pensieri ed emozioni che questa opera può indurre a chi si permetta di esserne permeato, come accogliendo dentro di sé un’impronta del proprio interlocutore (Bertolini, 1999). Colpisce in modo intenso e doloroso l’accostamento tra un tema conscio, l’essere innamorato della terra, e il lapsus che fa scrivere a questo bambino di sentirsi innamorto, l’unione di un cuore che è anche una flebo. Possiamo immaginare che Alberto sia stato

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molto coinvolto con questo topo, magari avendo desiderato di spiegarne i sentimenti, i vissuti di diversità e di morte, ovvero il suo sentirsi un ‘marziano’, uno di un altro mondo (o forse dell’altro mondo?), i suoi pensieri e i suoi affetti, i legami che aveva su questa terra, il senso di poter morire e perdere tali legami (Gamba, 1998)”. Possiamo incidentalmente osservare come l’esperienza del morire e la rappresentazione della propria morte trovino un elettivo spazio di espressione (di esistenza) proprio in un’area transizionale; come se quest’area me non-me, tra realtà e fantasia, fosse la terra possibile in cui diventa pensabile e comunicabile ciò che è denegato. Abbiamo sottolineato la “leggerezza” di questa tecnica che sembra facilmente creare le condizioni per la costruzione di un’intesa facilitante l’accesso ai problemi del paziente e alla conflittualità inconscia, però lo stesso Winnicott è molto chiaro nel ravvisarne i limiti. Infatti, egli sottolinea come sia importante durante i colloqui “arrivare al materiale reale del sogno” (1971a, p. 46), sottolineando come il gioco contrasti con la fantasia che è “improduttiva, confusa ed alquanto manipolata” (ivi). In altre parole, ciò che è fondamentale è il ruolo del terapeuta o del consulente, che utilizza lo strumento dello scarabocchio per comprendere la conflittualità centrale del paziente, ma che non si può affidare semplicemente al gioco. Tale strumento ha inoltre una “data di scadenza”, giacché Winnicott scoraggia chiaramente l’utilizzo dello squiggle game per più di tre sedute, dal momento che comparirebbero a quel punto “problemi del transfert e della resistenza” (ibid., p. 20), i quali dovrebbero orientare decisamente il trattamento secondo le linee psicoanalitiche. Sebbene il gioco dello scarabocchio venga ora forse più utilizzato avendo già concordato con il paziente un percorso psicoterapeutico (ad esempio una ripresa in tempi diversi dell’analisi) o trovandosi già all’interno di un percorso psicoterapeutico, rimane però il fatto che anche nell’utilizzo di tale tecnica ai fini di una consultazione breve è attualmente difficile pensare una lettura della relazione a prescindere dai fenomeni transferali e controtransferali (Stefana & Gamba, 2013a).

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Certamente vi è stata un’evoluzione nel modo di intendere questi fenomeni, che forse ora ci appaiono molto più pervasivi e sfumati nelle loro caratteristiche direzionali (il gioco incrociato di identificazioni proiettive descritto dai Baranger [1961-62]) di quanto non fosse quarant’anni fa. Ma in termini più ampi, nello stesso modo di processare la realtà non possiamo più prescindere dalla variabile dell’osservatore: in tutte o quasi le scienze è assodato che l’osservatore modifichi il dato, secondo i principi dell’epistemologia della complessità (Morin, 1977, 1985, 1986; Manfredi, 2012). Quindi possiamo concordare con Winnicott se interpretiamo il suo monito nel senso che i fenomeni transferali, pur presenti fin dal primo incontro7, assumono dopo qualche incontro una tale rilevanza che non è possibile non farsene carico e continuare il lavoro prescindendo da questi. Del resto le sottolineature di Winnicott sul fatto che questa tecnica non può essere appresa come un copione, e che quanto emerge con il paziente è anche espressione della personalità e delle caratteristiche del clinico, a nostro modo di vedere non lasciano dubbi sul ruolo centrale svolto dalle variabili relazionali, siano esse connesse ad aspetti consapevoli o inconsci. Alla luce di ciò, il confinamento, sopra ricordato, dello squiggle game nel solo contesto psicoanalitico potrebbe acquistare un nuovo significato: è divenuto più evidente il ruolo del “giocatore” adulto, con la conseguente necessità di una formazione specifica sulle dinamiche relazionali. Un’altra variante che possiamo rilevare nel confronto tra l’utilizzo odierno del gioco dello scarabocchio e quello fatto da Winnicott è nell’età dei soggetti. Sebbene Winnicott non ne escluda l’impiego persino in soggetti adulti, il target elettivo sembrerebbe quello dei pazienti in età scolare, nei quali normalmente vi è una certa consuetudine al disegno. Attualmente sono state invece messe a punto delle varianti dedicate in particolare all’età adolescenziale (Fiatte, 1982;

7 Winnicott (1971a) si era detto sorpreso della «… frequenza con cui i bambini mi sognavano la notte prima della visita» (p. 13) avendolo posto nel ruolo di oggetto soggettivo, avendolo cioè posto all’interno dell’area della propria onnipotenza.

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Bürgin, 1992; Branik, 2005; Günter, 2008; Simond, 2009; Stefana, 2014). L’approccio con gli adolescenti richiede cautele e accorgimenti specifici; poter disporre di un medium, di un “oggetto transizionale” nella consultazione può essere utile. Nello squiggle game, a differenza di quanto può avvenire per esempio con l’impiego di test diagnostici, che pure possono essere mediatori nel rapporto (Chabert, 1983), l’interazione con il terapeuta può, almeno parzialmente, declinarsi su un piano più paritetico, di vicinanza e di reciproco coinvolgimento. È un adulto che “gioca” e “si gioca” in un piano di “incertezza”, di “imprevisto” condiviso dal paziente e (progressivamente) costruito con lui; è un adulto che si lascia conoscere, testare dal paziente, e che offre un modello di relazione, un modo di stare insieme che include la dimensione del piacere. È il piacere del giocare, ma sostanzialmente è il piacere del funzionamento, della propria mente capace di creare. Non possiamo non ricordare come la più limpida espressione della salute sia la creatività: lo squiggle game potrebbe così divenire metafora e anticipo proprio della salute. Varianti e adattamenti Su questa caratteristica di base, che già pare molto consona al lavoro con gli adolescenti, alcuni autori hanno apposto delle varianti. Tra le varianti cui lo squiggle game è andato incontro in questi ultimi anni ricordiamo in particolare quelle di Paola Chieffi e di Giuseppe Pellizzari; la prima interessa il lavoro con i bambini, la seconda quello con gli adolescenti. La Chieffi (2011) ha adattato la tecnica di Winnicott al contesto della “Consultazione partecipata”8 (Vallino, 1984, 2009), ricorrendovi in

8 Il tempo della Consultazione partecipata prevede un certo numero di incontri (in genere sette) che in caso di necessità può essere aumentato. Il primo incontro avviene con i soli genitori, a questo ne seguono tre (o più, se necessario) con la compresenza di genitori e figlio

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particolare quando si trova in una situazione di impasse dovuta al nascere nel bambino di un disagio (talvolta addirittura angoscia) che rende difficoltosa la comunicazione con il terapeuta e i genitori. Alcuni bambini, per i motivi più vari (difficoltà a entrare in relazione, forte timore legato all’inizio della consultazione, incapacità dei genitori a stare e a giocare con loro), non riescono a iniziare un disegno o un gioco nel corso del primo incontro di consultazione ed entrano in una situazione di disagio. Altre volte, anche in corso di consultazione, accade che i bambini, che pure durante i primi incontri erano riusciti a disegnare, a raccontare storie o a giocare, si disorientino a tal punto da vivere stati di turbamento, se non di angoscia. L’autrice ha notato che tali situazioni si possono verificare in relazione a conflitti interni al bambino o a conflitti e incomprensioni fra il bambino e i genitori, determinando l’insorgere di un arresto della comunicazione tra bambino e genitori. In alcuni di questi casi l’uso del gioco dello scarabocchio rende possibile il ripristinarsi di un ambiente facilitante, in grado di ristabilire un contatto emotivo con il bambino. In un primo momento la Chieffi propone al bambino di giocare insieme e gli spiega le regole, traccia delle righe sul foglio in modo da dividerlo in sei parti, ognuna destinata a uno scarabocchio, e inizia il gioco tracciando un segno a occhi chiusi. Quando controtransferalmente avverte il

(eventualmente anche con i fratelli di questo), uno in corso d’opera, uno conclusivo con i genitori e uno di restituzione al piccolo. Ai genitori viene richiesto di partecipare al gioco del bambino; il clinico può così rendersi conto di come funziona (o non funziona) la relazione, e potrà discuterne con loro nel momento ritenuto più adatto. Funzione del terapeuta non è restituire un significato decodificato, bensì facilitare la relazione, la comunicazione e la comprensione tra i partecipanti; il bambino può così divenire non solo oggetto dei discorsi dei genitori, ma anche soggetto di questo comunicare. “Le sedute di Consultazione partecipata sono, pertanto, dal mio punto di vista, una psicoanalisi precoce nel senso che i genitori sono incoraggiati a prendersi cura del loro bambino piccolo tenendo conto della sua mente affettiva e della sua personalità. Un tipo di attenzione verso il figlio che implica l’elaborazione, da parte dei genitori, del loro fraintendimento e dell’identificazione proiettiva patologica nei confronti del bambino. I genitori, col divenire ‘osservatori partecipi’ della relazione tra sé e il figlio, diverranno capaci di cogliere del loro bambino quella sensibilità e capacità mentale che permetterà loro di essere, con l’analista, i protagonisti di un approfondimento psicoanalitico” (Vallino, 2009, p. 44).

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ripristinarsi di un contatto emotivo il terapeuta propone al bambino di continuare il gioco con il genitore. Quello che qui è importante non è cogliere il significato che l’oggetto emerso ha per il bambino, ma il superamento dell’impasse. In un secondo momento è però possibile proporre al bambino di utilizzare le sei parti del foglio come fossero vignette di una storia. Il coinvolgimento diretto del terapeuta prima e del genitore poi permette al bambino di sentirsi maggiormente contenuto e facilitato nell’entrare nuovamente in relazione, potendo così continuare la consultazione. Pellizzari (2011), nel lavoro con gli adolescenti utilizza quella che del gioco dello scarabocchio può essere considerata una variante che serve a tirare fuori i ragazzi dalla passività, a dare un ritmo allo scambio terapeuta-paziente, a permettere il gioco. Si prepara sulla scrivania un foglio grande di carta con matite e penne messe sopra, nel primo incontro si dice al ragazzo, magari iniziando già a scarabocchiare qualcosa sul foglio: “Guarda che qui possiamo parlare, possiamo anche disegnare… Se vuoi puoi scarabocchiare anche tu…”. Mettersi a scarabocchiare su questo foglio mentre si parla con il paziente permette di non dover continuare a guardalo in faccia rischiando di risultare invadenti/intrusivi; è come se il terapeuta fosse un po’ intento a fare qualcos’altro. Questo modo di lavorare favorisce la comunicazione, che alle volte viene inibita dal vis-à-vis; similmente al lettino permette di non dover reggere lo sguardo per l’intera durata della seduta. L’introduzione di un’attività terza scalza la focalità simmetrica (che è inibitoria), lo scarabocchio può quindi essere un semplice diversivo che favorisce la comunicazione, ma può anche diventare un elemento espressivo e simbolico. Mano a mano che emergono degli elementi dal racconto del paziente, il terapeuta può scriverli o raffigurarli. Ad esempio il paziente può dire “Ci sono dei momenti in cui mi sento vuoto…”, al ché il clinico può dire “Ah, scriviamo questa parola!”, e scrive “vuoto” sul foglio. Man mano che il paziente racconta, il terapeuta scrive delle parole chiave. Un altro esempio potrebbe essere il seguente: “C’è la prof. di mate che è una

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vera stronza!”, esclama il ragazzo, allora il terapeuta può disegnare la faccia di questa donna cattiva. Lo stesso paziente, se vuole, scrive/disegna quello che gli viene in mente. Lentamente il foglio si anima, prende forma. Lo stesso foglio ci sarà anche negli incontri successivi, iniziando così a dare una continuità al percorso terapeutico; esso diviene uno spazio di lavoro sul quale paziente e terapeuta operano insieme. Nell’arco degli incontri è anche possibile fare delle scoperte, ad esempio potremmo trovarci a dire: “Mah guarda, ti ricordi che ieri avevamo segnato questa cosa? Forse sono collegate…” e tiriamo una linea che collega le due cose. Questo trasmette al paziente anche l’idea di fare un lavoro creativo insieme. Quando poi il foglio è pieno se ne prende un altro e lo si mette sopra. Il paziente potrà così vedere anche visivamente la propria storia. È come se si creasse un cantiere, un laboratorio un po’ caotico dove però c’è un contenimento. Non solo scarabocchio… ovvero i “giochi della reciprocità” Generalmente si pensa che il gioco dello scarabocchio serva ad arrivare al nucleo inconscio problematico del paziente (Winnicott, 1968, 1971a), piccolo o grande che sia; ciò corrisponde al vero, ma non è tutta la realtà. Lo squiggle game è uno strumento polivalente, prima di tutto è un metodo per entrare in relazione con la persona che in quel momento è nella stanza con noi, e per permettere lo sviluppo della fiducia in questa relazione (terapeutica). Dopotutto, almeno all’inizio, per il paziente (specialmente adolescente) noi siamo solo un altro adulto; perché allora dovrebbe avere voglia di venire e raccontarci i suoi problemi? Posto che sia consapevole di quali essi siano. Quindi, ancor prima di lavorare sul materiale inconscio, è fondamentale che la coppia paziente-terapeuta possa avere accesso al materiale conscio/preconscio; quest’ultimo potrà essere portato dal paziente, e visto col terapeuta, solo all’interno di una relazione di fiducia, che

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necessita di uno spazio tra i due soggetti. Tale spazio è quello del setting e del foglio di carta; del contenitore-analista e dell’holding; del non capire, nostro e del paziente, e del non volersi/potersi far capire del paziente (specie adolescente); ma anche quello dei silenzi rispettati, necessari per potersi raccogliere nella propria solitudine. Il gioco dello scarabocchio è un metodo utile a favorire l’instaurarsi della relazione tra clinico e paziente, permettendo in questo modo al paziente di fare esperienza di holding e di esplorare liberamente le possibilità offerte alla comunicazione (quindi permette anche di superare eventuali situazioni di impasse che rendono difficoltosa la comunicazione clinico-paziente o, nel caso di consultazione psicodiagnostica fatta con l’intera famiglia, genitori-figlio). Inoltre, fare una buona esperienza (nella quale la reciprocità, “un po’ io e un po’ tu”, svolge un ruolo determinante) fornisce al paziente una “meta”, meta che potrà raggiungere in maniera creativa, ovvero non tramite percorsi non rigidi o pre-strutturati ma per vie più adatte alla sua unicità (e all’unicità della relazione tra lui e quello specifico terapeuta), solo se noi saremo in grado di fornirgli una disponibilità non intrusiva. Inoltre, il trovarsi in una situazione che favorisce lo scambio reciproco, in cui il paziente è soggetto attivo permette allo stesso l’accesso a quella creatività che permette la messa in scena (la raffigurazione) dei conflitti inconsci9. I disegni che il paziente realizza a partire dai nostri scarabocchi nascono dunque da una doppia fonte: dalla particolare relazione che si è instaurata con il clinico e dai conflitti inconsci che derivano da tutta la sua storia personale. La libertà del terapeuta nello svolgimento della sua parte nella creazione dei disegni riveste una grande importanza, perché un tale uso della tecnica permette lo svolgersi di un procedimento nel quale il bambino non si sente in alcun modo inferiore al terapeuta.

9 Sono le fonti inconsce che alimentano l’aspetto drammatico e dinamico nel gioco dello scarabocchio (Günter, 2003); ma può anche essere il gioco stesso ad attivare e a far emergere, spesso come brevissimi lampi, le immagini interne inconsce (Schacht, 2001).

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Gli scarabocchi non sono l’unico gioco che favorisce l’esperienza di reciprocità. I fogli di carta e le matite a disposizione della coppia terapeutica, in quanto materia cedevole che si sottomette a quanto gli viene fatto senza imporre le proprie esigenze (Milner, 1952), ovvero una materia alla quale è possibile far prendere la forma della propria fantasia, sono un mezzo espressivo che la creatività dei soggetti in gioco dota di potenzialità infinite, un mezzo espressivo che non essendo vincolato alla sintassi e alla grammatica proprie dalla lingua è più spontaneo del linguaggio parlato. Così con i pazienti adolescenti non sarà infrequente, sicuramente non inutile, trovarsi coinvolti, su proposta nostra o del ragazzo stesso, ad esempio nel gioco de “l’impiccato”. Le regole del gioco sono semplici: a turno uno deve scegliere una parola e disegnare una linea tratteggiata, con un tratto per ogni lettera della parola scelta, e l’altro deve cercare di indovinare la parola dichiarando una lettera alla volta; se la lettera non compare nella parola il soggetto che ha scelto la parola traccia una linea dell’immagine stilizzata di una persona impiccata (a inizio gioco si disegna il patibolo, poi per ogni errore si aggiunge un elemento: corda, testa della persona, busto, braccio… fino a completare la figura). Anche se il gioco termina quando viene indovinata la parola segreta o quando a seguito di un tot di errori si completa il disegno dell’impiccato, questa seconda possibilità si realizza assai raramente, non tanto perché non vengano commessi errori, ma perché il vero scopo del gioco è riuscire a comunicare qualcosa all’altro. Così se faticheremo a indovinare la parola-chiave scelta dal paziente, vedremo che egli arricchirà l’immagine dell’impiccato di mille dettagli pur di permetterci di arrivare a scoprire quanto voleva dirci. Le parole scelte e il dialogo che si instaura nell’alternanza delle sue e delle nostre parole-chiave sono solitamente ricchi di significato, e offrono al paziente la possibilità di comunicarci qualcosa che in quel momento è troppo difficile raccontare a parole. Il gioco permette al paziente sia di comunicarci una determinata cosa, sia di sondare la nostra disponibilità ad affrontare quel determinato argomento, sia infine di chiederci di

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essere noi a iniziare a parlarne verbalmente. Il gioco de “l’impiccato” è uno, succede che i pazienti ne propongano degli altri come ad esempio la semplice associazione incrociata di parole (una parola io e una parola tu), o il disegnare a turno qualcosa che l’altro deve indovinare facendo domande e ricevendo suggerimenti. Concludendo vogliamo sottolineare il ruolo fondamentale nel processo psicoanalitico della reciprocità, che rende tanto il clinico quanto il paziente partecipanti attivi dell’incontro. Ciò che emerge in seduta è quindi sia una rappresentazione di qualcosa che una rappresentazione a qualcuno, un qualcuno che con la sua presenza influisce in una certa misura sulle dinamiche interne del soggetto, quindi anche sul materiale che emerge nel corso dell’incontro. Quanto tracciato sul foglio (scarabocchio, disegno, parole-chiave, ecc.) si situa a metà strada tra chi disegna e chi osserva, in quella che Winnicott ha definito area transizionale; ne deriva che esso e il suo potenziale significato (l’esperienza comunicata tramite il medium grafico) non possono essere dati per scontati. Da qui la necessità di mantenere un doppio sguardo: uno alla soggettività del paziente (al suo esperire e a quanto presenta), l’altro alla nostra personale risposta teorica e affettiva, consapevoli che anche la nostra codificazione, rielaborazione, ricostruzione… dell’esperienza contengono sempre l’Altro (Stefana & Gamba, 2013b, 2014). Allo stesso tempo quanto raffigurato nello spazio potenziale del foglio di carta che sta tra noi e il paziente permette a quest’ultimo di avvicinarsi alla realtà emotiva interna proiettata nello scarabocchio, gioco dello scarabocchio che è meno minaccioso del colloquio in quanto dietro al simbolismo del disegno si possono celare e lasciare aperte molte cose (Günter, 2003); così, già per il fatto che le angosce che animano il mondo interno del paziente trovano nel disegno/scarabocchio/parola-chiave una forma (esterna), grazie alla quale per di più possono essere condivise con un’altra persona, risultano meno terrifiche per il Sé del paziente. Winnicott ha creato una tecnica che, senza dubbio, era su sua misura; ma può essere che a noi, o al nostro paziente, questa tecnica non calzi

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a pennello. Questo non è però un problema, perché una volta fatta propria l’idea di fondo, ognuno di noi potrà poi crearsi la propria tecnica o adottare quella proposta dal paziente: miglior collaboratore (Bion, 1985). Insomma, i “giochi della reciprocità” ampliano l’uso dell’originale tecnica winnicottiana, sono potenzialmente infiniti se entrambi i soggetti coinvolti sono disponibili (con autentico piacere) al gioco condiviso, nel quale trova spazio anche l’“essere soli in presenza dell’altro” (Winnicott, 1957), e al profondo coinvolgimento in esso. È l’uso della creatività soggettiva che facilita o addirittura rende possibile la comunicazione.

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RIASSUNTO Dopo averne delineato brevemente la storia evolutiva dello “squiggle game” (dall’interpretazione dei sogni di S. Freud ai “disegni liberi” di M. Milner, passando per C.G. Jung, M. Klein e M. Fordham), ne viene esposta la “tecnica” così come è stata messa a punto da Winnicott. Si propongono raffronti fra l’utilizzo dello strumento da parte di Winnicott e l’impiego attuale, incluse alcune variazioni alla tecnica di base, accomunate dal determinante ruolo svolto dalla reciprocità: “un po’ io e un po’ tu”. Si ribadisce il valore del “gioco dello scarabocchio” come metodo per entrare in relazione e favorire lo scambio reciproco col paziente (bambino, adolescente o adulto che sia), permettendogli di fare esperienza di holding e di esplorare liberamente le possibilità offerte alla comunicazione. PAROLE CHIAVE Gioco dello scarabocchio, carta e matita, disegno, reciprocità, comunicazione.

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SUMMARY After having briefly outlined the evolutional history of the “squiggle game” (from S. Freud’s interpretation of dreams, through C.G. Jung, M. Klein and M. Fordham to M. Milner’s “free drawings”), the “technique” is exposed as it has been developed by Winnicott. We offer comparisons between the use of the tool by Winnicott and their current positions, some variations are exposed in the basic technique, brought together by the crucial role played by reciprocity: “me a little and you a little”. The “squiggle game” is, above all, a method for relating and encouraging mutual exchange between the analyst and the patient (no matter if child, adolescent or adult), enabling him to experience holding and freely explore different communication possibilities. KEY WORDS Squiggle game, paper and pencil, drawing, reciprocity, communication.

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Appunti di viaggio

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Riccardo Brunacci

Avvicinare l’anima Nello stare col paziente l’analista usa principalmente se stesso. Ma cosa, e quanto, di se stesso, usa? La grande scommessa della sua formazione, in realtà interminabile, è che questa potenzialità si ampli e si arricchisca, che sentieri ostruiti, camminamenti interrotti diventino percorribili, spazi si allarghino e ospitino nuove possibilità di risonanza, di sonorità emotiva, di condivisione, di elaborazione, di comunicazione. E il percorso interno tra il sentire e il dire cooperi a porre le basi di un’esperienza viva e vera: intensamente e pianamente. È la sfida di ogni giorno di lavoro, di ogni seduta. In queste note vorrei cercare di mostrare che conseguenze può avere, per il lavoro dell’analista, un maggior agio nei suoi itinerari interiori e considerare le possibili aree in cui questo può avvenire. Avvicinare l’anima, dunque. Nel duplice senso che questa espressione evoca: avvicinarsi a se stessi e avvicinare il paziente. Riuscire ad avvicinare il paziente essendosi avvicinati a sé stessi. L’analista allora da un lato si esprime di più, attivando componenti della propria personalità-sensibilità destinati altrimenti a rimanere ai margini, ipotrofici e afoni. Dall’altro può ridurre quegli aspetti ‘‘vietato l’ingresso’’ di sé che impacciano o distorcono la comunicazione nella coppia analitica. Nelle pagine che seguono indico una serie di alternanze, presenti nel lavoro analitico, all’apparenza dicotomiche (ad es. intimità/verità, dialogo/struttura, soggettività/oggettività, ecc.), che cimentano

Psicoanalista e Psichiatra, Membro Ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana.

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l’impegno dell’analista ad usare se stesso in un modo non ristretto. La scommessa è che queste alternative, invece di contrapporsi o addirittura escludersi tra loro, finiscano col delineare dei range, degli ambiti, delle bande di oscillazione, dei percorsi intervallari tra due capilinea, sui quali l’analista possa muoversi, esprimendo la sua (possibilmente ampliata) disposizione emotiva. Le alternanze che prendo in considerazione – alcune tra le molte possibili – possono a loro volta sovrapporsi, intrecciarsi, embricarsi. Comunque, il discorso aspira a essere più evocativo che sistematico: tocchi un po’ “impressionistici” e tentativi di riflessione scaturiti dal lavoro clinico, dallo scambio coi colleghi e dal mio modo di averne fatto e farne esperienza. Intimità/verità Si parte da qui. Ed è l’inizio e la fine di ogni cosa. La pietra angolare del lavoro analitico: tutto il resto ne deriva. Intimità e verità, intese come difficoltà, bisogno, aspirazione, paura del paziente, e contemporaneamente come propensione interiore potenziale dell’analista, anche lì non priva di impacci, limiti, distorsioni. Due tropismi che si incontrano, interferiti dalle reciproche difficoltà. L’area dell’incontro analitico, e il suo muoversi secondo intimità-verità, fa incontrare la struttura del paziente e – in modo più filtrato e sfumato – quella dell’analista e il loro affermarsi nel dialogo reciproco. Porta l’analista allo sperimentare coinvolto e al suo interrogarsi, allo stare insieme vivendo e “sentendo’’ la qualità emotiva della relazione, discriminando e stabilendo legami. All’essere separato e a immedesimarsi, a vivere e costruire un terreno comune e a preservare il senso dell’alterità. È una competenza delicata e raffinata, in continuo divenire. Attitudini personali ed esperienze formative convergono nel promuoverla.

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La disponibilità a “dipendere” credo ne sia uno dei fondamenti. Dipendere dalla vita, dalla verità e dal desiderio di verità, dal paziente, da sé stessi e da quello che si sperimenta, dalla teoria psicoanalitica e dallo spirito critico che la mette in discussione. La “buona dipendenza” – che è vicina a un’idea di permeabilità e all’esperienza dell’affidarsi, ed è agli antipodi della sottomissione, del bisogno drogato, del compiacimento masochista – rende possibile dipendere anche da un oggetto cattivo mantenendo un’autonomia di pensiero e di reazione, senza troppa angoscia o manovre protettive. Il paziente – in una certa misura e in qualche momento forse ogni paziente – con i suoi aspetti distruttivi, il suo essere così diverso da come l’analista se lo aspetterebbe, o gli farebbe comodo che fosse, può essere vissuto come un oggetto cattivo. “Dipendere” in modo libero da questo paziente aiuta a identificarsi reversibilmente con i suoi oggetti e a non essere dominato – in maniera indistricabile – dalle sue proiezioni. Quando l’analista ci riesce, si rende conto di quanto l’avvicinarsi sia reso possibile dalla propria (relativa) “forza” e quanto questa sia cosa diversa dal “potere” a cui egli stesso può aver fatto ricorso in altri momenti: un approccio, quest’ultimo, connotato da un certo senso di superiorità, magari espresso in forme “impeccabilmente’’ psicoanalitiche, in versione “dura’’ (la verità come implacabilità) o “soffice’’ (l’accoglimento come seduzione). L’analista è in una situazione più favorevole se i suoi problemi e difficoltà – che comunque esistono – non si impastano con la sua struttura caratteriale in un amalgama confuso, perché questo porta all’agire più che all’affrontare. Intimità, verità: converge qui tanta parte dell’impegno dell’analista e del suo modo di essere e di evolvere. Ma anche tanta parte della psicoanalisi, dei suoi contenuti e della sua storia. Proprio la storia stessa della psicoanalisi potrebbe essere anche vista come collegata alle vicissitudini personali – individuali o gruppali – di ampliamento o restringimento di questa esperienza, un’esperienza di vicinanza. Un modo di renderla teoria, realtà comunicabile e discorso oggettivato,

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dopo essere stata vicenda privata. In una successione di immersioni ed emersioni, come nel nuoto a delfino. Dialogo/struttura Stare dentro/stare fuori Individuo/coppia Separatezza/comunanza Insieme in due/insieme in tre Soggettività/ oggettività Sin dall’inizio della mia formazione gli analisti che ho trovato più convincenti, che ho ammirato di più e che sono diventati per me fonte di ispirazione sono stati quelli che mi sono sembrati cogliere nel dialogo interattivo gli aspetti della struttura del paziente, l’oggettivo dentro il soggettivo, il soggettivo dentro il relazionale. Analisti che esprimevano senso d’intimità di coppia coinvolgendo un elemento mentale terzo come intrinseco alla vicinanza analitica duale. Che perseguivano il contatto e insieme consideravano la “separazione’’ un elemento della psicoanalisi (Di Chiara, 1978), realizzando il solo apparente paradosso che la vicinanza più vera porta in sé, costitutivamente, un nucleo di separatezza-separazione. Anche oggi mi sembra che questo sia un approccio che aiuti a essere in un rapporto di accoglimento e trasformazione, che porti a tener conto del grado di recettività del paziente con attenzione ma senza compiacenza, che metta insieme – potenzialmente – empatia e analisi del carattere e che consenta di modulare la propria presenza, venendo a costituire uno dei presupposti su cui si fonda il rapporto di intimità-verità. Si basa – credo – su una competenza emotiva di fondo, arricchita e contemporaneamente disciplinata da varie componenti, in parte – ma solo in parte – riconducibili alla qualità del funzionamento edipico della mente. L’attitudine a rendere congruente e sinergico un

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legame con altri legami, in primo luogo. Più legami dunque, compresenti e armonizzati tra loro, e non la tendenziale prevalenza di uno solo (col paziente, col suo mondo interno, col mondo interno dell’analista e con le sue funzioni, con la realtà esterna, con la psicoanalisi, ecc.). Collegata a questo, la pluralità, piuttosto che una costrittiva univocità, dell’elemento ispirativo dell’analista, intendo dire la disponibilità a non assolutizzare un’angolatura, a non contrapporre una verità parziale a un’altra verità parziale: un analista può privilegiare ad esempio il dialogo, un altro la struttura, ma è diverso se mantiene una sensibilità aperta o si pone come attivamente ostruttivo rispetto alla possibilità alternativa; la rigidità si qualifica qui come carenza di profondità prospettica. Mi sembra che un’ulteriore componente sia l’unione della passione con l’attitudine a lavorare in modo piano (non piatto!): deflazionare l’enfasi, qualunque tipo di enfasi (clinicistica, teoricistica, personalistica), penso che contribuisca a rischiarare il terreno analitico e aiuti a viverlo – e quindi a percorrerlo – con un’affettività contemporaneamente più lucida e operosa. Genitorialità /fraternità Maschile /femminile Attivo /passivo Asimmetria /simmetria Guida /accomunamento relazionale Adulto /bambino Insegnare /imparare C’è una condizione di apertura che potenzialmente si schiude quando l’analista prova un senso di forza tranquilla e un pieno coinvolgimento nel flusso della vita, sentendosi in rapporto con se stesso – senza schermare i suoi aspetti più fragili – e in rapporto col paziente, una persona che, come lui ma diversamente da lui, ha aspetti fragili e meno

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fragili, e viene lì per realizzare un incontro e per andare da qualche parte. Questa percorribilità interiore può porre le premesse per una vicinanza duttile, con una molteplicità di identificazioni alternanti che aiutano a realizzare un incontro più profondo e vero, più radicalmente vicino alle risorse della propria umanità. Un’umanità complessa, e insieme attenta al rapporto tra accoglimento e proposta, tra ricevere e dare, tra identificazione e disidentificazione. Può prendere vita un’esperienza di mobilità, che implichi la disponibilità al rinunciare insieme a quella del proporre, al sentirsi fino in fondo sulla stessa barca col paziente e nel contempo non abbandonare la guida, fino in fondo eguagliati nella pari umanità e differenziati nel compito analitico. La grande scommessa è realizzare il massimo di vicinanza con il minimo di confusione. Parlare/interpretare Parole/fatti Semplicità/complessità Conscio/inconscio L’analisi è una cura di parole: una talking cure, secondo la dizione classica. Parole che coinvolgono emozioni, affetti, significati, relazioni. Come si esprime l’analista? Se ci poniamo questa domanda ci interroghiamo sia sul suo modo di parlare, sia – soprattutto – su come manifesta, mette in gioco se stesso. Sento di condividere, in linea di massima, i motivi che portano la Riesemberg (1986) a usare un linguaggio interpretativo diretto, ordinario, piuttosto che simbolico in termini corporei: quest’ultimo usa parole ripetitive, su cui si ritiene ci sia una comprensione condivisa, ma prive del carattere di specificità di quel momento della seduta, è un linguaggio artificiale aperto all’idealizzazione, configura l’analisi come un “parlare intorno’’ piuttosto che un “fare esperienza”. Ma l’analista non interpreta

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soltanto. Come parla quando non interpreta, in quel suo somministrare se stesso che è comunque il suo dire? Anche quando parla di fatti, il fatto principale è la natura delle sue parole. All’attitudine a sovvertire, destrutturare il discorso si abbina il prenderne sul serio anche il contenuto manifesto. E, di pari passo, la possibilità di interpretare in modo vivo va insieme a un parlare non interpretativo che non smarrisca una sua propria pregnanza. Credo che la semplicità sia il filo rosso che intesse il multiforme avvicinarsi dell’analista, che rappresenti il comune denominatore tra approcci anche molto diversi. Non una semplicità generica. Piuttosto una semplicità risonante, che accolga in sé il senso della complessità, che ne recepisca e ne esprima il respiro profondo. Che abbia presente il “senso” dello stare insieme, soprattutto. O, perlomeno, che non lo eluda attivamente e troppo spesso. Quando questo assetto viene mantenuto, tutto il resto accade spontaneamente. In fondo anche gli antichi la pensavano così, pur in un altro contesto. Rem tene, verba sequentur, tieni il punto, le parole verranno da sole, dicevano. Delicatezza/coraggio Quando la delicatezza e il coraggio vanno insieme, e appaiono essere le due facce della stessa medaglia, di che cosa è fatta questa medaglia? Credo che sia fatta principalmente di un materiale: il rispetto di sé. È uno stato d’animo semplice e difficile nello stesso tempo (difficile da vivere e difficile da concettualizzare), che tende a promuovere una forza spontanea orientatrice. Una bussola che aiuta a governare la rotta per i complessi problemi della vicinanza, della comprensione, della rassicurazione (vera o falsa), dell’apertura al cambiamento, del non subire (masochisticamente) la patologia del paziente senza prenderla a pretesto per ribellarvisi ostilmente. Una bussola non direttamente

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consapevole, ma implicita e direttamente operativa, percepibile negli esiti di un tatto che non è inibizione e di una schiettezza e di una disponibilità ad affrontare i nodi che sanno evitare la spavalderia. L’oggetto superegoico non incombe e non è assunto in un’identificazione maniacale. Andare bene/non andare bene Accettazione (sentirsi accettato)/cambiamento Sostare/muoversi Spostarsi/ritornare Il paziente – in variabile misura forse qualunque paziente – è in una posizione complicata, costretto a barcamenarsi rispetto a esigenze in parte contraddittorie. Tra il bisogno, talvolta persino spasmodico, di sentirsi accettato, voluto, benvoluto dall’analista e da se stesso e quello che lo fa soffrire e che vorrebbe cambiare, più spesso forse eliminare, ma non sa come, a che prezzo, a che livello di sofferenza – sopportabile o insopportabile – dentro di sé e col suo analista. Se è possibile e se ne vale la pena. Prende corpo in quest’area l’ethos profondo della presenza interattiva dell’analista: l’essere intenzionata e insieme non esigente. Conta in questo quanto l’analista accetti se stesso, con i chiaroscuri di una riparazione che ha potuto essere soltanto parziale, con il senso dell’esperienza compiuta nella propria analisi e nella vita, soprattutto con l’esperienza della perdita e insieme dell’apertura: l’analisi comincia quando le sedute finiscono, è stato detto, scherzosamente, ma non troppo. Conta l’idea che l’analista ha dell’analisi come esperienza di trasformazione, come le cose possono cambiare e come “sentire” il cambiare: un cambiare effettivo e un cambiare solo apparente. Piccoli cambiamenti percettibili: tutto sembra come prima ma non è così: l’analista se ne accorge ma non – consciamente – il paziente. O ancora: tutto sembra come prima ma

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non è così, e se ne accorgono sia l’analista sia il paziente. Conta quanto l’analista riesca a fare un buon uso di quello che ha e che è. Se riesce a sostare senza rimanere bloccato, e a muoversi senza scappare, forse riuscirà ad aiutare anche il suo paziente. Così il cambiamento può cessare di essere un’aspirazione astratta, o una prospettiva (inconsciamente) spaventosa, per diventare un recupero della propria realtà in un nuovo contesto, con una nuova attrezzatura. Vengono in mente le parole di T.E. Eliot (citate da Brenman, 2002, p.121): “Non cesseremo di esplorare e alla fine dell’esplorazione saremo al punto di partenza sapremo il luogo per la prima volta”. A mio parere è significativo notare che questa esperienza può essere vissuta, e il senso di queste parole colto, solo se si è in una dimensione di tempo lineare e non circolare, un tempo aperto al futuro, non chiuso nella ripetizione. Tecnologia/esistenzialità Scopi dell’analisi/scopi della vita La difficoltà del vivere/cavarsela L’analista è chiamato a fare il lutto di sé come persona. Il lutto dei contenuti specifici, lasciando depositare, senza perderla, la qualità dell’esperienza. Ne consegue un’assenza e una presenza. L’assenza è il non condizionamento delle vicende particolari della vita dell’analista, la presenza il depositato esistenziale che ne è rimasto. Come l’analista è, condiziona il modo in cui partecipa alla relazione; influenza e parzialmente orienta il dialogo analitico. Sue emozioni, affetti, pensieri, non necessariamente espressi, filtrano nel contesto duale, attivano reciproche comunicazioni inconsce. Le sue scelte esprimono comunque – in una certa misura – una sensibilità

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soggettiva. E quanto – ci si può domandare – il suo tralasciare, il non raccogliere questo o quello, più che una scelta vera e propria, magari implicita, non rappresenti piuttosto una sua personale, più o meno momentanea, idiosincrasia, un emergere sul versante dell’analista di quel far finta di niente, di quel girare la testa dall’altra parte (turning a blind eye) che Steiner (1985) ha descritto nel paziente e nell’opera letteraria? Certamente com’è fatto il paziente è fondamentale: lo costituisce nella sua individualità e precede la relazione analitica. Ma è anche molto importante com’è fatto l’analista. Il dispositivo tecnico, il setting in particolare, il training personale, la disposizione autoanalitica, introducono un clivaggio fisiologico tra l’essere dell’analista e il suo esprimersi, ma la natura essenziale della sua fibra personale intesse comunque l’ordito della relazione. Il paziente tende ad adattarsi e a controllare. L’esito dell’interazione di nuovo dipende da come l’analista è fatto, da quanto è prigioniero di se stesso. L’analisi è vita, movimento, è collegata alla vita: vita interiore, vita vissuta, oggi e ieri, qui e fuori. È vita, ma non è “la’’ vita, o un surrogato della vita. Credo che l’analizzando sia aiutato a fare un’esperienza che porti a differenziare tra la natura dell’analisi e la natura della vita e, indirettamente, a vivere sempre di più sia l’analisi, sia la vita anche da come l’analista riesce a coniugare l’espressione di sé, il suo essere persona, la sua implicita esistenzialità con la dimensione tecnica e l’aspetto professionale. Su un altro piano, un aiuto può forse filtrare da quanto l’analista riesce a sperimentare dentro di sé – insieme – la difficoltà del vivere e la possibilità di cavarsela. Con una certa simpatia per il se stesso in difficoltà, nonostante tutto.

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Il passato dell’analista/il passato del paziente Il futuro dell’analista/il futuro del paziente Il loro presente Tempo della vita/tempi della vita: bambino, adolescente, adulto, anziano Nel lungo periodo in cui stanno insieme, paziente e analista vanno avanti nel vivere il tempo della loro vita. Il paziente parla di sé e l’analista no, ma nell’animo loro, e nel loro interagire, entrambi sono cimentati con le fasi della loro esistenza. Fasi reali, effettive, e soprattutto fasi mentali che l’intimità analitica sollecita e fa emergere: il bambino, l’adolescente, l’adulto che sono stati e che tuttora sono. Due archi di vita che si avvicinano e si intersecano. Traiettorie che sono comunque impregnate di realizzazioni, delusioni, gioie, speranze, capitolazioni, progetti, prospettive, rassegnazioni, ribellioni che sottilmente sedimentano sul proprio modo di vedere le cose e di rapportarsi. E che intervengono anche sul modo di vivere “il senso del tempo della propria vita”. Questo non è senza conseguenze su come l’analista è, e su come sente il “tempo” del paziente e gli aspetti relazionali e progettuali che ne sono permeati. Non è trascurabile quale sia il periodo della vita dell’analista, gli stati mentali che specificamente lo connotano e come si accompagnino e si intreccino con altre caratteristiche: aspetti di un passato che è ancora in parte il suo presente o embrionali anticipazioni del futuro che verrà, e del suo modo di fantasticarlo. Non è certo irrilevante che l’analista abbia trent’anni, o cinquanta, oppure settanta. Ma ha soprattutto importanza quanto riesca a tenere insieme dentro di sé stati mentali che caratterizzano certe età, senza esserne esclusivi. Quanto sia un po’ bambino, un po’ adolescente, un po’ adulto e un po’ anziano come sfondo e nutrimento emotivo a quello che è, nella fase in cui è. Forse gli aspetti adolescenti, con i loro smarrimenti, stupori, sfide non sono sempre così spontaneamente riconosciuti nelle loro pieghe più delicate. Nota Pellizzari (2010), “C’è una condizione nascente della

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conoscenza che non verrà mai saturata, ma che si rinnoverà strada facendo rendendosi più complessa e articolata, più disillusa e consapevole, ma qualitativamente identica, dove l’immaturità diviene parte integrante della maturità, testimoniando il paradosso iniziale dell’adolescenza: la meraviglia del disincanto”. Anche la giovinezza è un’esperienza, ma anche uno stato mentale non strettamente legato all’anagrafe. “… Là persino le ombre rilucono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha il suo fascino. E non perché sia una terra tutta da scoprire. Si sa bene che l’umanità intera l’ha percorsa in folla. È la seduzione dell’esperienza universale, da cui ci si attende una sensazione singolare o personale: un po’ di sé stessi. Si procede riconoscendo i traguardi raggiunti dai nostri predecessori, eccitati e divertiti, accettando la buona e la cattiva fortuna insieme (….), la variopinta sorte comune che tiene in serbo tante possibilità per chi le merita o, forse, per chi è fortunato. Sì. Si procede” (J. Conrad, “La linea d’ombra”, 1917). La maturità e la postmaturità. Dice la Quinodoz (2008), che quello che più la colpisce in quelle persone anziane che fanno venir voglia di invecchiare è che si interessano all’altro e “sono sensibili al suo mistero”. “Il mistero non indica ciò che è incomprensibile, ma una realtà talmente profonda che non finiremo mai di comprendere. La presenza di qualcosa di insondabile conferisce un carattere speciale alla persona nella sua totalità e modifica anche quello che possiamo capire di lei… I pazienti, anche se in modo confuso, si aspettano che l’analista sia sensibile al loro mistero, alla loro ricchezza interiore nascosta, alla specificità del loro essere, affinché essi stessi possano sentirne dentro di sé la presenza”. Esistono varie forme di comunicazione fra persone. A volte, continua la Quinodoz (p. 115) “è come se una presenza interiore volesse incontrare la stessa presenza interiore nell’altro e questa comunicazione da interiorità a interiorità passa attraverso lo spazio del silenzio che ognuno porta dentro di sé. Le persone anziane e i bambini piccoli sono spesso molto sensibili a questa forma di contatto; è questa forse

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la ragione per cui si crea a volte fra loro una profonda complicità” (corsivi miei). Quanto, come analisti, riusciamo a vivere e ad armonizzare, senza esserne monopolizzati, proprio – ed è solo un esempio – la meraviglia del disincanto, l’entusiasmo, la sensibilità al mistero? … a piedi/in bicicletta/in macchina/in treno/in aereo… L’analista interagisce col suo paziente e contemporaneamente percepisce ed elabora quello che accade. Lo scenario di cui è partecipe e osservatore, in movimento sotto i suoi occhi, può essere guardato con diverse accelerazioni, prospettive, ampiezze. Uno dei modi è come quando si va a piedi, attenti al procedere lento delle cose, passo dopo passo, rilassati o affannati, in contatto con la grana del terreno su cui si poggia colta e vissuta in dettaglio; a volte tutto è apparentemente fermo, bloccato in un panorama che sembra non cambiare, nonostante l’impegno del camminare. In bicicletta lo sguardo si allarga e le colline intorno sono meno incombenti e in certo modo più amichevoli, si perde il diretto rapporto con la terra, ma non la vicinanza col mondo circostante, nella sua variegata e viva multiformità, nella sua corporeità anche olfattiva. La macchina consente la sicurezza e la visione veloce, larga e finalizzata del guidatore competente, munito di patente di guida, ma sempre a rischio della chiusura nel piccolo mondo della finta sicurezza: a rischio di urto contro quello che veramente importa. Una rapida carrellata, come dal finestrino del treno, può avere una sua utilità, qualche volta. Con l’aereo lo stacco è netto. Riservarsi un momento, anche nell’analisi, i cui monti, valli, strade del camminare insieme vengono colte in questa particolare visione suscita un vissuto a volte intenso, derivante – credo – dalla possibilità di sperimentare una sintesi nuova tra allontanamento e avvicinamento, tra sguardo prospettico ed emozione partecipe.

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Rilevanza/irrilevanza Carenza/ridondanza Supplemento d’anima/sottrazione d’anima Partecipazione/esclusione Investimento/alterità Emozione/commozione Contatto con l’esistente/apertura progettuale Nel portare avanti la relazione col paziente, l’analista è messo nella condizione di affrontare una serie di nodi – o meglio di snodi – che definiscono la sua presenza e la sua soggettività e sono collegabili con la calibratura dell’intensità. Coinvolgono temperatura, distanza, gestione dell’intreccio tra investimento affettivo sul paziente e sull’analisi, senso dell’alterità e tolleranza della frustrazione. Egli può sentire l’importanza che ha per il paziente, senza aspettarsela, o darla per scontata, oppure illudersi che non finirà. Cogliere anche – in altre situazioni – la sua irrilevanza e la sua esclusione, sentendone il dolore e avvertendo il rischio di risposte ritorsive o seduttive. O, all’opposto, vivere la soddisfazione lieve di essere irrilevante rispetto a una persona che sta acquisendo una più consapevole pienezza di sé. L’analista è messo alla prova in tutta la gamma di vissuti che implicano separazione, separatezza, avvicinarsi e promuovere avvicinamento e insieme essere separati e separanti, con quel particolarissimo e temperato voler bene che fornisce calore motivazionale alla comprensione analitica. Altri punti ancora hanno a che fare col discorso sull’intensità. La misura nell’erogazione di sé: quanto gli affetti che permeano la relazione, e filtrano nell’interpretazione, la rendano viva e vitale, un oggetto vero espressione di una persona vera, e quanto la costituiscano come un oggetto eccitante (per ridondanza), o vuoto e inutile (per carenza). Ridere, piangere: se, come, e quanto spesso l’analista ride o ha gli occhi pieni di lacrime. In generale, il commuoversi, mantenendo la possibilità di discriminare la commozione come libertà e contatto dalla commozione che elude

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l’emozione e la mima forzandola in un’espressività drogata. E ancora: come armonizzare il rapporto con l’esistente, base imprescindibile del contatto emotivo, con l’apertura al futuro, con l’attenzione a una progettualità potenziale. L’irripetibilità di una seduta/la storia di una relazione Base/superficie Il momento presente/il tempo della vita Chi, quale aspetto del paziente, ascolta quello che viene detto? L’ampiezza della realtà psichica va al di là di quanto disponibile per il fatto scelto. E in più: la persona in analisi si riduce alla sua realtà psichica? Sorgono problemi di storia: come il microcosmo della seduta, con il suo complesso intrico di fatti emotivi, si situa nel più ampio contesto della vita della persona. Problemi di geografia, o piuttosto geologia: come l’occasionale, l’epifenomenico, il momentaneo presente – il cui senso può essere avvicinato e approfondito – si intrecciano con sensibilità e bisogni, sentimenti e realtà emotive di fondo che spesso possono permeare e infiltrare gli aspetti più superficiali ed episodici, ma possono anche scorrervi a fianco come un fiume che si muova nella nebbia e rischi di rimanere precluso all’analista. Come mettere insieme il paziente come persona “nuova’’ in ogni seduta con i movimenti e i tornanti della lunga relazione analitica. Se l’analista in una qualche misura ci riesce, senza la prevaricazione di una dimensione sull’altra, finisce col proporre anche un metodo che il paziente potrà forse utilizzare nell’arricchire una visione binoculare tra momento presente e tempo della vita.

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Spes contra spem/lutto Mantenere il limite/gettare il cuore oltre l’ostacolo Buon senso/al di là del buonsenso Avere struttura/lasciarsi andare C’è una speranza che l’analista prova, o faticosamente recupera, anche se apparentemente sembra non esserci speranza (spes contra spem, dicevano gli antichi), anche se il paziente è disperato e proietta disperazione. C’è, d’altro canto il lutto rispetto a obbiettivi che non possono essere raggiunti, il riconoscimento del limite che la coppia non può superare, senza che questo diventi la pretesa onnisciente di una sentenza assoluta di prognosi sfavorevole. È in ballo la generosità dell’analista, in particolare la peculiare natura della sua generosità. Un aspetto importante dell’atteggiamento materno dell’analista, forse non sempre riconosciuto, credo stia proprio nella generosità, nella sua genuina generosità. Che si può rintracciare anche nel vincere ritrosie, nel gettare il cuore oltre l’ostacolo, nello svincolarsi da impacci costrittivi mantenendo il senso del limite. È in questa linea anche l’andare oltre il ‘‘buon senso’’ senza che risulti smarrito il sostegno interno di una certa saggezza di fondo (il buonsenso è la tomba della psicoanalisi, ma un analista privo di buon senso dove può portare?). Nei momenti di funzionamento felice, l’analista sente che si abbandona, si lascia andare, che è vicino ed errabondo insieme e che nello stesso tempo è protetto – gradevolmente pur nell’inquietudine – da una sua buona struttura interna. Col tempo, ha imparato a distinguerla da quell’altra struttura, sempre disponibile, che è piuttosto una sovrastruttura, un’organizzazione difensiva funzionante, variamente espressa o camuffata da qualche ideologia psicoanalitica che si impegna a legittimarla e blindarla.

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Essere libero/riconoscere Lavorando con i pazienti o nella riflessione teorica abbiamo bisogno di affrontare – scrive Brenman (1980) – “le nostre pulsioni edipiche e preedipiche, i desideri e le sofferenze; tutto ciò allo scopo di prevenire l’assassinio degli oggetti passati, i contributi che hanno dato, e nello stesso tempo di non essere limitati da restrizioni difensive, il che costituirebbe l’assassinio di nuove conoscenze possibili. Noi speriamo di recuperare interazioni creative e di ricreare nuovi sviluppi”. Si può sostenere – provvisoriamente, tentativamente – che senso di libertà e di fedeltà (termini densi di un significato non privo di ambiguità) si possono sentire in armonia nella misura in cui si ha un legame di dipendenza dalla propria funzione alfa, dalla propria attitudine a sentire-pensare-trarre le conseguenze? Tenderei a rispondere di sì, se non si affacciasse il rischio di semplificazioni “a slogan’’, o di vellicare luoghi comuni psicoanalitici: di “ululare con i lupi’’ (Gaburri & Ambrosiano, 2003). Mi ha aiutato a riflettere quello che ha scritto G. Di Ceglie (2005) su “symbolon’’ e “formazione del simbolo’’. Il symbolon, termine che in greco significava segno di riconoscimento, era un oggetto spezzato in due da due persone, ognuna delle quali ne teneva una metà. Incontrandosi dopo una lunga assenza, riunivano i due pezzi come segno di riconoscimento della loro relazione. Il symbolon – osserva Di Ceglie – rappresenta il nostro bisogno di crescere e di separarci senza perdere il senso di appartenenza alle proprie origini: senza il symbolon non riusciremmo ad affrontare la separazione e senza la separazione non riusciremmo a creare simboli. Ferro (2010) sottolinea quanto gli esseri umani abbiano un gran bisogno di rimanere aggrappati a qualcosa: ideologie, religioni, teorie già note (comprese le teorie psicoanalitiche) ecc., come nel riflesso primitivo del grasping, diventando un po’ simili a tram o filobus che mediante la mano-troller ricevano energia dalla rete di credenze precostituite. E aggiunge che il linguaggio rispecchia la natura

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stratificata di questa situazione: si parte dal “tenere, essere tenuti per mano’’ positivo e fisiologico fino al “man-tenuto’’, connotato in senso univocamente sfavorevole. Pluralità/unitarietà L’analista è aiutato a sentirsi sufficientemente affidabile – e quel che più conta: a esserlo davvero – se si sente abbastanza a suo agio col fatto (ovvio, ma non privo di conseguenze) che clivaggi e scissioni fanno parte della sua mente, e soprattutto col rendersi conto che diversi livelli di funzionamento, non necessariamente correlabili al controtransfert, si alternano in lui nel rapporto col paziente. Mantenere – più spesso ripristinare – uno spazio interiore adatto a far fronte alla situazione, è un terreno di grande impegno, una sfida sempre aperta. Nella misura in cui questo avviene, quando la pluralità dei modi di funzionamento cessa di essere fonte di un cieco agire, o di una recriminazione dolorosa, quando situazioni interne più fluide e osmotiche si rendono possibili, l’analisi acquista ossigeno e contemporaneamente si aprono nuove virtualità evolutive per l’analista stesso: anche il processo avviato dalla propria analisi personale può acquistare nuovo vigore trasformativo. Leggerezza/dare peso Italo Calvino inizia la prima delle sue Lezioni americane (1985) dicendo “… sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide” (p.7). Anche l’analista sente in sé le ragioni della leggerezza, quella che gli consente agilità emotiva, vicinanza duttile, una certa – relativa – libertà

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da forme di oppressione di varia origine. E non considera meno valide le ragioni del peso: il prendere sul serio, dare peso, appunto. Anche le controparti meno favorevoli della leggerezza e della pesantezza sono esperienze emotive, atteggiamenti, in cui l’analista si può ritrovare. Essere “pesante’’: moralista o ripetitivo, plumbeo, un macigno tra i macigni del paziente. Oppure “leggero’’: superficiale, banalizzante, fatuo, uno che prende “alla leggera’’. Osserva Calvino: “… esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca…” (pag.17). Leggerezza e dar peso possono cooperare vantaggiosamente: “… il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software…” (pag.12). In effetti, nota Calvino: “… l’idea del mondo come costituito d’atomi senza peso ci colpisce perché abbiamo esperienza del peso delle cose; così come non potremmo ammirare la leggerezza del linguaggio se non sapessimo ammirare anche il linguaggio dotato di peso…’’ (pag.19). E subito dopo aggiunge: “… due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo di impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni…”. Quanto queste due “vocazioni” siano anche attitudini compresenti nel lavoro clinico, variabilmente armonizzate o contrapposte, è un’esperienza che credo ogni analista possa dire di aver fatto. Senza dimenticare che il linguaggio degli affetti cambia da paziente a paziente.

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Insaturo/nitido Nel complesso evolvere della sua storia la psicoanalisi va incontro a cambiamenti, nuove ramificazioni, ricalibrature della sensibilità di approccio, acquisizioni, riassestamenti dell’assetto di fondo. A volte si tratta di un effettivo progredire, altre volte può cogliersi una certa, indiretta propensione all’omologazione allo spirito del tempo. Spesso i due aspetti sono compresenti, anche se non sempre nella stessa misura. Certe posizioni diventano “di moda’’ e la loro accettazione o rifiuto sembrano a volte presentarsi come segno di appartenenza. È importante discriminare e confrontare diversi modi di lavorare e di concettualizzare. È non meno importante che questo non ottunda la capacità di cogliere, di “sentire’’ – come un indistinto ma percepibile brusio – la complessa interazione di teorie consce e inconsce al di là delle formalizzazioni ufficiali. Di come la variabile qualità emotiva dello stile personale impronti la relazione analitica rendendola comunque irriducibile a semplicistiche appartenenze precostituite. L’ampio parlare attuale di insaturo e saturo porta, a pieno titolo, nel cuore di queste problematiche, e su questi accidentati versanti mette duramente alla prova. Il nocciolo della questione (saturo/insaturo) coinvolge scelte teorico-tecniche e stili personali. L’analista ha più risorse se è disponibile – come approccio attitudinale personale – a esprimersi sia in modo insaturo sia in termini più nitidi e precisi. Entrambe le possibilità possono produrre aperture o generare chiusure. Le concezioni della trasformazione proprie di chi sostiene l’insaturo e di chi privilegia il saturo (la versione non difensiva di entrambe le possibilità) hanno elementi di diversità, ma non sono antagonistiche. Il saturo ha forse una funzione maggiormente “nutritiva”, nell’insaturo sembra prevalere quella “di ossigenazione”. I potenziali effetti collaterali sfavorevoli sono diversi, spesso collegati a irrigidimenti o compiacimenti ideologici. Il saturo rischia di inibire il dispiegamento di modalità espressive punto di partenza di un pensiero nascente, un certo tipo di insaturo può portare in sé una valenza manipolativa, forse

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talvolta animata da una componente seduttiva, che può acuire il senso profondo di solitudine. Radicalità del contatto/creatività liberante L’attitudine al “sentire’’, la libertà di movimento emotivo e di risonanza fantastica, il riuscire a mettere in parole cooperano a realizzare un’esperienza di contatto emotivo. Non è sicuro però che tutto questo, per quanto senza dubbio prezioso, sia necessariamente e sempre sottratto all’esito di una larvata convenzionalità analitica, di una plausibilità raffinata ma vagamente opaca, con un insinuarsi inatteso del “come se’’. Un “come se” sorprendente, questa volta sul versante dell’analista, proprio in un approccio che si propone antagonistico al “come se’’. Aggirare i problemi alla ricerca di soluzioni apparentemente plausibili e più comode sia per l’analista che per il paziente è una possibilità spesso attraente per entrambi. I modi (sofisticati) per eludere sono molti ma alcuni sono più a portata di mano. Un apparente approfondire che si presenta come rigoroso ma che taglia fuori, mutila il senso, e il ricorso a forme di finta creatività, talvolta maniacaleggianti, di cui l’analista può compiacersi ma che poco hanno a che fare col paziente che è lì. Amore per la verità (e forse, più ancora, amore tout court) e un buono e onesto spirito di trasgressione verso adagiamenti conformistici di ogni colore psicoanalitico aiutano, accompagnano. Contando sulla propria autenticità, ma sapendo che essa può essere soltanto parziale e che la cosa peggiore sarebbe la pretesa che fosse il paziente a “risolvere’’ gli aspetti inautentici dell’analista. Profondità e ampiezza, dunque, come geometrie variabili in cui si cimenta l’autenticità dell’analista – o meglio il binomio tra autenticità e creatività – la sua disponibilità all’elaborazione interiore, la rinuncia al funzionamento evacuativo. E i diversi modelli, pur nella loro pluralità

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di approcci operativi e di sensibilità cliniche, propongono, almeno in molti casi, la possibilità di individuare come “invariante’’, come “terreno comune’’, la qualità emotiva di base di profondità-ampiezza. Varia l’espressività, non l’intrinseca, potenziale qualità. Luci/tenebre Ha scritto Claudio Magris (ne L’infinito viaggiare, 2005), “La scrittura diurna cerca di capire il mondo, di rendersi ragione dei suoi fenomeni, di collocare i singoli destini, anche dolorosi, sullo sfondo della totalità del reale e del suo significato. È una scrittura che vuole dare senso alle cose; collocare ogni singola esperienza, anche dolorosa, in una totalità che la comprende e che solo per il fatto di comprenderla può inquadrarla in un contesto più ampio”. L’altra scrittura, quella notturna, si misura con le verità più sconvolgenti che non si osano confessare apertamente, di cui forse nemmeno ci si rende conto o che addirittura – come dice Sabato – l’autore rifiuta e trova “indegne e detestabili”. È una scrittura che spesso stupisce lo stesso autore, perché gli può rivelare quello che egli non sa sempre di essere e di sentire: sentimenti o epifanie che sfuggono al controllo della coscienza e talora vanno al di là di ciò che la coscienza consentirebbe, contraddicono le intenzioni e i principi stessi dell’autore, immergendosi in un mondo tenebroso; un mondo ben diverso da quello che lo scrittore ama e in cui vorrebbe muoversi e vivere, ma nel quale capita ogni tanto di dover discendere e di incontrare la Medusa dalla testa attorcigliata dai serpenti, che in quel momento non si può mandare dal parrucchiere affinché la renda più presentabile. Non molto diversamente lo psicoanalista, che nei suoi percorsi diurni e notturni col paziente può finire nella sterpaglia delle proprie tenebre, negli aspetti oscuri e distruttivi della propria natura. Qualunque idea si abbia sul controverso tema dell’istinto di morte, bisogna ammettere

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che i fenomeni psichici che queste teorie considerano possono riguardare anche la mente dell’analista. D’altronde, perché non dovrebbe essere così? Nell’estrema trincea della sua eccitazione mortifera, della distorsione confusiva, della crudeltà, del vuoto e dell’annientamento, l’analista è chiamato al compito più difficile: uscire dal vicolo cieco. Sudare nella sua elaborazione interiore, nella sua privata agonia. Sempre, ma soprattutto nei momenti difficili, l’analista si rende conto di quanto pesi l’essere, o il non essere, in buoni rapporti con la propria frastagliata umanità, le sue luci e le sue ombre, e l’uso che riesce a farne. Quanto è importante, ad esempio, che non rifugga o si irrigidisca, ma avvicini ed esplori con libertà quei vissuti e fantasie che – un po’ protettivamente, un po’ asetticamente – vanno sotto il nome di controtransfert erotico. Favorisce l’analisi, va in senso opposto al rischio di violazione del setting, rinforza l’autostima dell’analista. Gabbard e Lester (1995) sono molto espliciti in proposito: l’utilizzo produttivo delle fantasie del controtransfert erotico aiuta a lavorare, un difetto nella capacità di fantasticare è frequente negli analisti che violano i confini sessuali, nel training il controtranfert erotico dovrebbe essere spiegato come una parte naturale del processo psicoanalitico. Un’attesa soddisfatta/una sorpresa inquietante Agio/dis-agio Non dire/dire Il bisogno di verità/la verità della non verità Verità come primo amore Quando il paziente ha il senso di sentirsi riconosciuto e capito prova in genere un senso di sollievo, l’idea che è valsa la pena di venire lì, che non è costretto a sopportare tutto da solo dopo essere stato solo per tanto tempo. A volte il sentirsi capito nasce dal senso di appagamento

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di un’attesa (“era tanto tempo che speravo che qualcuno se ne accorgesse” oppure: “neanche io me ne stavo accorgendo e avevo quasi perso la speranza di poterlo davvero sentire io stesso”). Altre volte è in primo piano un vissuto di sorpresa, spiazzante ma non minacciosa, accompagnata da un fremito nuovo nel suo essere inattesa e vagamente promettente. L’agio e il disagio che si alternano nel paziente (sia quando sta nel suo rifugio caratteriale, con i suoi aspetti di abitudine, di protezione, di “freno a mano” tirato, sia quando tenta di uscirne o quando riesce a starne un po’ fuori, col vissuto di nuova ossigenazione e di inaspettata e incerta libertà) si accompagnano a un travaglio elaborativo che riguarda l’analista nel suo duttile (se lo è) impegno di contatto. I due protagonisti della scena analitica risultano accomunati, ognuno per la sua parte, col problema dell’affrontabilità della realtà-verità psichica e dei modi per avvicinarla. L’analista può modulare il suo sentire e il suo dire sul senso dell’affrontabilità delle angosce sia del paziente sia della coppia analitica. E quanto più riesce a farlo con relativa serenità nonostante il travaglio, non smarrendo il senso della complessità “tragica’’ delle cose, tanto più si preserva da un paternalismo omissivo, talvolta un furbesco evitare o all’opposto un aggressivo confrontarsi, che quando si presentano in modo non occasionale alimentano la disperazione di entrambi. Credo che in questo l’analista sia aiutato dalla sua possibilità di contemperare il bisogno di verità con la possibilità di cogliere quanto di verità umana ci sia nel bisogno di non verità. Quanto il rapporto tra verità e bugia sia complesso e non riconducibile a differenziazioni stereotipate. Quanto tutto questo valga per l’analista, per il suo passato e per il suo presente, fuori e dentro la stanza dell’analisi. Quando riesce a essere presente un’idea della verità nello stesso tempo robusta e mite, il desiderio di verità è messo nella condizione di poter diventare un bisogno, persino un anelito. E la contrapposizione tra verità e amore – talvolta e con qualche ragione evidenziata come elemento differenziante tra diversi approcci psicoanalitici – perde di colpo ogni consistenza. Ho un po’ paura di esagerare, ma oso spingermi a ipotizzare che questo tipo di

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verità, in alcuni suoi aspetti – sorpresa e incanto, scoperta e appagamento, persino una certa suggestione idealizzante – abbia qualcosa che rimanda al primo amore: il primo amore della mamma, il primo amore dei propri anni verdi. Suffer/endure Sentire/resistere Quante volte mi è capitato di leggere o di trovare citata quell’affermazione di Bion secondo cui il paziente che non “soffre’’ (suffer) il dolore, non riesce a ‘‘soffrire’’ nemmeno il piacere! Tutte le volte è stato per me uno stimolo a riflettere. Mi è stato di aiuto il chiarimento di Britton (1994), secondo cui l’uso del verbo “to suffer” per Bion condensa due significati: oltre a quello più abituale, anche quello – proprio dell’uso antico – di ‘‘consentire’’ (allow), come nell’espressione “Lasciate che i pargoli vengano a me’’ (“suffer little children to come unto me’’), un permettersi di lasciar entrare, di sperimentare. Aggiunge Grotstein (2007) che il contenimento aiuta il paziente a ‘‘patire (suffer)’’ e non a “sopportare con determinazione (endure)’’, ma ciecamente, la sofferenza delle esperienze affettive. È una pietra miliare nell’accoglimento, nella comprensione e nella trasformazione degli stati mentali. Vale per il paziente e per l’analista. Ma quante volte capita all’analista di trovarsi nella bufera, di essere sballottato e brancolare, di essere in difficoltà e non trovare una via. Può allora temporaneamente stringere i denti, mantenere una presenza salda anche se vagamente opaca: “endure’’ appunto. Un “resistere’’, forse parzialmente difensivo, ma il meglio che si possa fare in quel momento. È un tessuto connettivo di sostegno, certo fibroso e di funzionamento meno raffinato rispetto a tessuti più nobili, ma utile, persino prezioso: una capacità di sopportare (non masochistico) che può essere una risorsa a cui attingere.

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Selettività/inclusività Qualunque cosa dica o faccia, l’analista fa una scelta. La scelta per eccellenza è quella che bionianamente si chiama, appunto, “fatto scelto’’ o “selezionato’’. Non è ovviamente l’unica. Ma come si sceglie? Cosa si prende e cosa si lascia cadere, e con quale approccio emotivo? Scegliere significa necessariamente escludere, il de-cidere anche etimologicamente rimanda al tagliare. Ma in che modo avviene, e con quali conseguenze? Qual è la calibratura, la taratura della sensibilità dell’analista che vi porta? Dove vanno a finire – nella mente dell’analista e in quella del paziente – i fatti emotivi che non sono stati raccolti: nell’analista restano al di là di una paratia semipermeabile o c’è un’opposizione attiva a farli entrare, o rientrare? E nel paziente, cosa succede? Consideriamo la risposta del paziente all’interpretazione. Ci si può concentrare su quello che il paziente dice, sente o fa immediatamente dopo, nell’attualità della seduta ritenendo che comunque il presente porti in sé, a un qualche livello e in una certa misura, un po’ del passato, anche inconsapevole, al di là di quello consciamente ricordato, e fare uso del controtransfert come di uno strumento prezioso (prima possibilità). Ma può anche accadere che associazioni del paziente, atmosfera della seduta, controtransfert non aiutino a sufficienza a cogliere il senso della situazione se l’interpretazione ha fatto risuonare nuclei emotivi profondi, collegati alla storia del paziente, ma oscuri all’analista e al paziente stesso rispetto ai quali quello che è più immediatamente disponibile nella seduta è soprattutto una reazione. C’è qui il rischio che un uso estensivo e non accorto del controtransfert risulti fuorviante (seconda possibilità). Molto spesso in realtà capiamo poco, o in modo molto parziale. Cambia però se questo nasce da una nostra precostituita unilateralità che tiene fuori qualcosa, larvatamente ma attivamente.

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Nell’area selettività/inclusività rientra anche l’inevitabile, costitutivo “riduzionismo” dell’approccio psicoanalitico (“riduzione” al mondo interno, alla storia, alla relazione, al campo ecc.) e quanto tra le sue pieghe si possa annidare, camuffandosi e trovandovi un tacito avallo, la ristrettezza – magari anche solo temporanea – dell’analista. Una ristrettezza di affetti e, insieme, un impoverimento dei significati. In generale, l’analista si trova cimentato col compito di compiere scelte senza realizzare attive ostruzioni. Nei casi più fortunati può riuscire a esprimere sensibilità e forza insieme all’inevitabile sfumatura di tristezza insita nell’accettazione del limite. E se la risolutezza e le cesure sono a volte indispensabili, chiedono comunque di essere sorvegliate e interpellate per evitarne lo scivolamento in un’occlusività che sposterebbe il discorso nella logica del dominio. … in fondo al viaggio Itaca non c’è… Nel complesso crocicchio in cui si intrecciano e variamente mescolano struttura caratteriale e sensibilità personale, bisogno di sicurezza e tolleranza dell’incertezza, aggrappamento all’esistente e virtualità evolutive, si incontrano e si muovono i due protagonisti della coppia analitica. Nel loro avvicinarsi e nel loro stare soli, accomunati nella relazione e separati dalla diversità dei ruoli, ognuno affronta passaggi interiori che, pur differenti, hanno un comune denominatore. Spinte all’integrazione, alla dis-integrazione e alla reintegrazione sono proprie del paziente e dell’analista. Emozioni e ansie possono essere affrontate, portare verso la posizione depressiva, ma da lì poi risospingere verso una situazione più tranquilla ma staccata, un rifugio, oppure riaprire la strada a una posizione schizoparanoide, non regressivamente ma evolutivamente: una posizione aperta potenzialmente a nuove possibilità integrative. Costruendo su Klein, Bion e Steiner, Ronald Britton (2000) ha affrontato in modo dettagliato

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questi aspetti. Sono convinto che valgano pure per l’analista: nel suo lavoro, non solo nella sua vita. Così i due attori della scena analitica, nel loro incontro e nei loro scambi, sono entrambi impegnati in complessi e paralleli percorsi interiori. Un certo tipo di sicurezza non aiuta: “la posizione depressiva di ieri diventa l’organizzazione patologica di domani”. “Abbandonare la sicurezza della coerenza della posizione depressiva per una nuova tornata di incertezze persecutorie e frammentate” può favorire lo sviluppo: succede allora che “spazio triangolare e pensiero riflessivo siano perduti, fino a quando non saranno riguadagnati in una nuova posizione depressiva” la cui forma però al momento “non è solo sconosciuta, ma inimmaginabile”. Per poter stare vicino al paziente, l’analista sta vicino a se stesso. Seduta dopo seduta, giorno dopo giorno, è messo a confronto con la propria natura, con quello che può affrontare e quello che desidererebbe evitare. Anche con quello di sé che – inevitabilmente – impronta lo stile del proprio operare. Con la capacità di usare l’esperienza per aprire/aprirsi a un più ampio sentire, e la tendenza a usare la propria competenza, e anche la stessa propria esperienza, non per capire ma per non pensare. Oltre a se stesso uno non può andare, ma certe cose di sé possono cambiare. Può capitare così che inavvertitamente, quasi senza accorgersene, l’analista si renda conto – non senza un certo stupore – di essere sì sempre lo stesso, ma anche un po’ diverso. È forse anche il frutto dell’impegno alla prossimità con se stesso nel suo lavorare, alla disponibilità a sottrarsi a comode scappatoie, al dar valore alla vicinanza e insieme al sentirla come non facile e scontata, ma uno stato che richiede un costante movimento e lavoro interiori. I buoni incontri che l’analista ha avuto e continua ad avere sono stati e sono occasioni preziose, ma poi è solo, nell’interminabile percorso. “…in fondo al viaggio Itaca non c’è, non c’è mai stata. I Proci non sono là a insidiarti la vita, sono con te, confusi sulla tolda, magari al timone. A tua volta potresti essere, senza saperlo, uno di loro. E neppure Penelope c’è, sei tu a prendere tempo, con la tua saggezza, in

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attesa di quello che hai fatto o disfatto da solo. Itaca è ovunque, tutti i giorni, perché è il viaggio medesimo, il conosciuto e il desiderato che stanno un po’ prima e un po’ dopo di ciò che attraversi. Itaca è di volta in volta la ragione del viaggio e il suo animo, la fuga e l’approdo, il motivo per il quale vale sempre la pena di ripartire, sottovento o contro” (Zavoli, 2011).

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RIASSUNTO Il lavoro prende in considerazione l’uso che l’analista fa di se stesso nella relazione con il paziente. Vengono considerate una serie di alternanze emotive possibili che impegnano l’analista a un impiego elastico e non ristretto dei propri stati mentali. PAROLE CHIAVE Stato mentale dell’analista, l’analista come persona, contatto emotivo, relazione analitica, tecnica analitica. SUMMARY The paper deals with the analyst’s use of him/herself in the relationship with the patient. Some emotional alternations in the analyst’s mental states are considered. They imply a flexible and open minded approach. KEY WORDS Analyst’s mental states, analyst as a person, emotional contact, analytic relationship, analytic technique.

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Quattro passi per strada

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Antonella Granieri, Francesca Viola Borgogno

Pensabilità e dissociazione in una popolazione colpita da trauma massivo: una ricerca intervento di matrice psicoanalitica

Casale Monferrato è un comune della provincia di Alessandria, nel Piemonte Orientale, tristemente noto a livello nazionale e internazionale per le vicende legate all’amianto e all’alto livello di mortalità dei suoi abitanti. Nelle sue vicinanze sono presenti, infatti, numerose cave di marne argillose che lo hanno reso per anni luogo elettivo per la produzione di cemento e di eternit (dai primi del Novecento), una fibra di cemento amianto che ha dato il nome alla multinazionale svizzera titolare dello stabilimento casalese, l’Eternit, che per oltre mezzo secolo ha rappresentato la principale risorsa economica della città. Negli anni Settanta, però, l’amianto iniziò a essere associato ai numerosissimi casi di morte per patologie polmonari: l’esposizione all’asbesto è infatti il principale responsabile della formazione di

Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e dell’International Psychoanalytical Association (IPA), Specialista in Psicologia Clinica, Professore Associato Confermato di Psicologia Clinica e Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, Coordinatore del gruppo di ricerca-intervento “Valutazione psicologica e presa in carico globale della persona affetta da mesotelioma” Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Torino. Candidata della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e dell’International Psychoanalytical Association (IPA), Specialista in psicoterapia individuale e di gruppo (I.I.P.G.). Si è formata sui gruppi multifamiliari in Argentina con il prof. García Badaracco e collabora con il dottor Narracci alle attività da lui promosse con il Gruppo di Coordinamento dei Gruppi Multifamiliari della Regione Lazio e con il neo-nato Laboratorio Italiano di Psicoanalisi Gruppale.

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placche pleuriche, asbestosi e soprattutto mesotelioma pleurico1. Nonostante tali patologie siano presenti ormai da più di trent’anni nell’intera comunità casalese con fattori di rischio esponenziali, la storia traumatica di Casale Monferrato è stata per decenni negata e mai affrontata: un non voler vedere né sapere, spesso in nome di logiche e interessi economici, indice degli aspetti narcisistici e distruttivi presenti nelle comunità e nelle istituzioni “in sofferenza” (Kaes, Bleger, Enriquez, Fornari, Fustier, & Roussillon, 1988). La drammaticità della situazione di Casale Monferrato ha portato i Servizi Sanitari a cercare di implementare modelli di presa in carico multidisciplinari che comprendessero anche una puntuale valutazione delle dinamiche intrapsichiche e relazionali di pazienti e caregivers. A tale scopo, tra il 2006 e il 2008 l’allora ASL20-21-22 di Casale Monferrato ha finanziato un progetto di ricerca, coordinato da Antonella Granieri, intitolato “Indagine conoscitiva degli effetti psicologici riscontrabili a livello clinico sulla comunità casalese colpita dal mesotelioma”. I risultati della ricerca hanno reso evidente l’impatto traumatico della diagnosi oncologica: pazienti e familiari mostravano un impoverimento della vita affettiva, somatizzazioni, ritiro sociale, difficoltà a prendere decisioni in forma sia individuale sia gruppale, una maggiore sensazione di scoraggiamento e demoralizzazione, profondi vissuti di impotenza e vulnerabilità di fronte a minacce reali o immaginarie, oltre alla sensazione di aver fallito nella propria storia di vita e di avere risorse insufficienti per affrontare le circostanze della quotidianità. Tutti sintomi, questi, presenti nei quadri post-traumatici (Granieri, 2008, 2013; Granieri et al., 2013). Le ripetute richieste di aiuto sottendevano il profondo bisogno di essere aiutati a elaborare quanto stava capitando loro per crearne una possibile

1 Il mesotelioma maligno è un tumore raro e fatale che ha un tasso medio di sopravvivenza di circa 9 mesi e causa l’1% delle morti mondiali per cancro (Ministero della Salute, 2012). Il suo impatto è devastante non solo sul piano fisico (dolore, disturbi respiratori, spossatezza, disturbi del sonno, perdita dell’appetito), ma anche su quello psichico (depressione, angoscia, paura, impotenza, rabbia) e relazionale (ritiro sociale, perdita del senso di appartenenza e della coesione sociale) (Granieri, 2008, 2013; Granieri et al., 2013).

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rappresentazione psichica, per comprenderne le cause (incidente, fatalità, caso) e per poter altresì iniziare a comunicare gli affetti correlati a suddetta realtà traumatica individuale/sociale e concomitanti a essa (rabbia, cinismo, dolore, impotenza, panico, disperazione). Sulla scorta di questi risultati allarmanti, la Regione Piemonte ha chiesto alla Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università degli Studi di Torino di individuare una tipologia di intervento clinico in grado di rispondere alla qualità dei bisogni evidenziati. Confrontandoci su quale potesse essere l’intervento più adatto a questo scopo, abbiamo condiviso l’idea che un gruppo terapeutico psicoanalitico (Bion, 1961) potesse fornire il setting più adatto per elaborare il dolore di queste persone (Corrao, 1998), permettendo da un lato di storicizzare la malattia e dall’altro di poter creare molteplici narrazioni del dolore, nel rispetto delle sue sfaccettature: da quello più legato ai bisogni del soma e del corpo a quello squisitamente psichico (Granieri, 2011a). All’interno del panorama di gruppi orientati psicoanaliticamente, abbiamo pensato che il dispositivo gruppale multifamiliare (Garcìa Badaracco, 1990, 2000), per sua natura eterogeneo poiché caratterizzato dalla presenza contemporanea di pazienti, familiari e operatori, potesse rivelarsi il più adatto per lavorare sulle situazioni di crisi che coinvolgono, come a Casale Monferrato, un ampio numero di persone. In particolare, pensavamo che nel gruppo multifamiliare si potesse elaborare la sofferenza e la rabbia che la malattia oncologica aveva prodotto sul paziente e sulla sua famiglia, e la paura legata al “contagio aereo della malattia” che si era diffusa nella popolazione casalese, sempre più coinvolta in questa vicenda drammatica. A Casale ci si occupava dei malati, dei morti, ma a nostro parere non vi era un’attenzione adeguata a coloro che sopravvivevano al trauma nella sua concretizzazione: la morte.

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Tuttavia, le persone che sopravvivevano dovevano fare i conti con il trauma che bussava ripetutamente alla porta, un trauma che si faceva sentire tanto a livello individuale (depressione, angoscia e impotenza, ritiro affettivo e sociale, compromissione dell’agency2, mancata elaborazione del lutto) quanto a livello gruppale (frammentazione dei legami sociali, trasformazione dell’identità gruppale, sgretolamento del senso di appartenenza) (Varvin & Volkan, 2003). Questi aspetti avevano a loro volta un importante impatto sulla dimensione collettiva interiorizzata dal singolo (Kaes, Bleger, Enriquez, Fornari, Fustier, & Roussillon, 1988), principale responsabile del senso comune e della possibilità di riconoscere la comunità di appartenenza come un vero e proprio patrimonio condiviso. In questo senso, il clima emozionale che i terapeuti promuovono con i loro interventi durante gli incontri di un gruppo terapeutico multifamiliare permette un progressivo sviluppo delle capacità personali dei partecipanti e fa sì che la creatività di ciascuno possa arrivare a stimolarsi reciprocamente all’interno di quella che diviene una sorta di microsocietà curativa (Borgogno F.V., 2009, 2011, 2012; Garcìa Badaracco, 2000). Questo produce una modalità di funzionamento gruppale visualizzabile come una “mente ampliata” (Garcìa Badaracco, 1990), in cui ciascuno arricchisce l’insieme apportando il proprio punto di vista: ogni contributo individuale stimola, infatti, le potenzialità del gruppo nel generare associazioni attraverso un continuo gioco di identificazioni, favorito dal fatto che i partecipanti non coinvolti direttamente in una situazione riguardante altre persone o famiglie del gruppo possono pensare con più chiarezza. Nel processo mentale promosso dal vedersi rispecchiati negli altri si acquista inoltre maggior coraggio per potersi esprimere spontaneamente davanti ad altre persone che appaiono come presenze in grado di contenere e di favorire lo sviluppo di risorse egoiche

2 Per la nozione di agency si rimanda il lettore a Franco Borgogno (2011).

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genuine3. Nei gruppi multifamiliari il transfert, invece di concentrarsi su una sola persona, l’analista, come nel contesto della psicoanalisi individuale, si disperde, si diluisce sui terapeuti e sugli altri membri del gruppo. Si genera in questo modo il fenomeno dei transfert multipli: ognuno durante l’incontro può diventare oggetto di transfert per qualcun altro, elemento che − se adeguatamente tenuto in considerazione, utilizzato ed elaborato − può diventare un aspetto terapeutico estremamente importante. Nel gruppo multifamiliare tutto ciò che è carico emozionalmente ha qualcosa di transferale. Non è possibile rendere visibile ognuno di questi transfert multipli. La questione, come spiega Garcìa Badaracco, è un’altra: “Si tratta di rendere evidente, in maniera costruttiva il fenomeno del transfert in un caso particolare, davanti a tutti gli altri partecipanti, nell’intento di creare una capacità collettiva di scoprire la dimensione transferale di ogni relazione interpersonale, in modo che ciascuna persona che partecipa alla riunione (in rapporto alle sue possibilità) possa pensarlo e vederlo prima negli altri, e poi, a poco a poco e ogni volta di più, in se stessa.” (Garcìa Badaracco, 2000, p. 180). Accogliendo la nostra proposta operativa come un intervento innovativo, in ambito psicotraumatologico e preventivo, nel 2010 è stato finanziato il “Progetto d’intervento psicologico nella comunità casalese colpita da mesotelioma”, coordinato da Antonella Granieri. Il primo gruppo multifamiliare a Casale Monferrato è iniziato nell’aprile 2010. Il gruppo era co-condotto da chi scrive e al suo interno si contavano diversi psicologi e psicoterapeuti interessati all’esperienza, che come noi venivano da Torino ogni settimana per assistere agli incontri. Al gruppo potevano partecipare pazienti, familiari, operatori dei servizi sanitari e assistenziali nonché tutti i

3 Queste risorse egoiche possono essere definite come la capacità di ognuno di noi di tollerare le emozioni, cioè come un insieme di capacità (simbolizzare, elaborare, pensare, metaforizzare) che la persona non può utilizzare se non riesce più a convivere con le sue emozioni (Garcìa Badaracco, 1989).

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cittadini interessati. La decisione di proporre una sede di incontro diversa da quella dell’Associazione dei Familiari delle Vittime dell’Amianto è stata mossa dall’intenzione di proporre ai casalesi un luogo fisico, non soltanto psichico, in cui poter fare un ulteriore passo rispetto al semplice riunirsi in qualità di membri di un’Associazione nata con il fine di ottenere il riconoscimento del danno da un punto di vista legale ed economico. In tal senso, la sede è stata offerta dal Sindaco di Casale Monferrato come segno dell’interesse per la possibilità di creare uno spazio di pensiero condiviso per la popolazione tutta. Ai nostri incontri, però, non c’era né il paese né l’Associazione dei Familiari delle Vittime dell’Amianto nella numerosità attesa: si poteva contare una media di 15/20 partecipanti per ogni incontro. Lo “zoccolo duro” del gruppo era costituito principalmente da persone che avevano sofferto la perdita di diversi componenti della loro famiglia. Queste persone ci avevano dato fin da subito l’idea di esser rimaste molto sole dopo i loro lutti. Se da una parte il processo Eternit e la partecipazione all’Associazione davano un senso alla loro esistenza, dall’altra avevamo l’impressione che venendo da noi cercassero qualcosa di diverso dall’avere ragione, dal risarcimento, dalla lotta contro la terribile ingiustizia che era occorsa loro e ai loro cari. Un’ingiustizia che spesso aveva sovvertito la cronologia temporale delle generazioni (molte mamme e nonne avevano visto morire i loro figli e nipoti). Venivano con l’idea che oltre ai lutti qualcosa che non sapevano definire inizialmente, qualcosa di ancora più intimo e personale, fosse stato portato via. Con il tempo capimmo che erano le emozioni a esser state congelate dal trauma massivo ed estremo che aveva colpito Casale Monferrato: in particolare, la loro capacità di emozionarsi e di collegare le proprie esperienze a sentimenti quali la gioia e il dolore. Nella letteratura psicoanalitica è ben noto che a seguito dell’esposizione a una situazione traumatica è possibile che la persona non riesca più ad accedere a queste risorse interne, che vengono congelate e dissociate

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dall’impatto che il trauma, in questo caso la malattia oncologica, ha avuto sul singolo e sulla sua famiglia. Se una diagnosi tumorale è di per sé un evento altamente traumatico, quando la genesi della patologia è dovuta all’esposizione a un agente ambientale nocivo e all’azione inumana dei proprietari di una fabbrica, la qualità dell’esperienza vissuta si connota ancor più negativamente (Varvin, 2013a). Essa porta in campo emozioni intense che, a causa del carattere di imprevedibilità, incomprensibilità e drammaticità dell’insorgere della malattia, mettono a dura prova le capacità del singolo. Per difendersi dall’irruenza distruttiva del trauma, il soggetto cerca allora strategie che gli consentano di sopravvivere psichicamente all’evento, strategie che se da un lato mirano a evitare il dolore che deriverebbe da una nuova esposizione al trauma, dall’altro rappresentano “tentativi abortiti di mentalizzare e integrare le esperienze traumatiche all’interno di un ambiente interno e/o esterno percepito come minaccioso” (Rosenbaum & Varvin, 2007). Come vittime, le persone che incontravamo nel gruppo avevano dovuto scotomizzare le proprie emozioni per sopravvivere a un dolore e a delle perdite “senza senso”, rimaste tali fin quando due sindacalisti − Bruno Pesce e Nicola Pondrano − avevano proposto ai casalesi di unirsi e cercare di ottenere una condanna contro chi l’Eternit l’aveva creata e portata avanti, pur sapendo che l’amianto era oltremodo nocivo sia per i lavoratori sia per l’ambiente e per quanti lo respiravano. Se in un primo momento del lavoro si sono presentati alcuni pazienti con il mesotelioma, quasi a dirci che erano sopravvissuti − almeno per il momento − alla malattia e che forse c’era una speranza di cura, il gruppo ha visto la quasi esclusiva partecipazione dei familiari delle vittime dell’amianto. L’emozione principale che emergeva spontaneamente e prepotentemente tra queste persone era soprattutto una grande rabbia (Rozenfeld, 2012). Potremmo dire che è stata una vera e propria lotta quella che abbiamo intrapreso con il gruppo quando inseguivamo la possibilità di “rendere visibile l’invisibile”, ossia quando esploravamo il dramma di dover

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tollerare il rapporto con la non guaribilità e con la possibilità di essere inquinati. La partecipazione al gruppo multifamiliare ha reso possibile nel tempo dire a qualcuno quanto si soffrisse e si fosse angosciati (Cancrini, 2002), senza vergognarsi delle proprie emozioni. In questo senso, si può pensare al gruppo come a una sorta di “culla” dove farle rinascere dopo l’evento traumatico (Varvin, 2013b). Esso ha permesso, inoltre, di elaborare le intense fantasie inconsce di rompere, aggredire, rivendicare, quasi una coazione a ripetere (Ambrosiano & Gaburri, 2013) che rendeva i cittadini attivi, riducendo l’impatto della profonda passività insita nell’essere abitanti in un luogo geografico contaminato. Il livello di angoscia era così eccessivo e trasversale nel clima dei diversi incontri da distruggere la presenza di oggetti interni (buoni o

cattivi che fossero) e quindi la capacità di rappresentarsi (Bion, 1959;

1970). Ogni seduta era altresì punteggiata da una profonda vergogna data dal fatto che in momenti diversi della vita tutti i Casalesi avevano accettato qualcosa di pericoloso. Infatti, se lavorare l’amianto aveva portato benessere economico, via via e sempre di più si era compresa anche la sua pericolosità. A lungo, però, gli operai del noto cementificio e le loro famiglie (ma anche coloro i quali dal business dell’Eternit traevano indirettamente vantaggio) avevano finito per convivere con questa dimensione “di rischio” grazie all’impiego di potenti meccanismi di difesa, quali la negazione (Di Chiara, 1999), sposando così la versione proposta dal quadro dirigenziale dell’Eternit, avvallata anche dai professionisti preposti al controllo dei fumi e delle polveri. Emergeva, inoltre, un’altra sfumatura, tanto della colpa quanto della vergogna (Miller, 1993): si continuava a vivere a Casale, pur non procedendo nella bonifica, nonostante gli inviti delle maestranze e dei cittadini più attivi sul piano politico. Arroccandosi su una posizione regressiva e difensiva, la popolazione rivendicava che fosse lo Stato a

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pagare le opere di bonifica, anche a costo di continuare a vivere sotto tetti di eternit che “tanto sono lì da sempre”. Sentimenti, quelli fin qui descritti, che si presentificavano nel gruppo come sabbie mobili che impaludavano il cammino verso una nuova progettualità rispetto al territorio e che spingevano nella direzione di una comunità che si descriveva attraverso i morti. In questo senso, fin dalle prime sedute a livello controtransferale ci è apparso chiaro che ci veniva chiesto di confrontarci con un vissuto ben preciso: come fare a sopravvivere al vuoto di esistenza e di significato (Borgogno, 1999, 2011) che congelava gli aspetti vitali della popolazione. Un vuoto che si presentificava a diversi livelli: per noi terapeuti erano le numerose sedie vuote, per i casalesi era il vuoto prodotto dalle numerose morti; infine, per chi portava avanti l’opera di denuncia si trattava del vuoto conseguente al dire ciò che non si poteva dire. Vissuti che sono stati affrontati solo dopo aver potuto metabolizzare l’alto livello di angoscia portato da chi il torto l’aveva subito da vicino e urlava il suo dramma (anche nel gruppo), nel tentativo di vedere confermata una verità che il resto della popolazione non poteva né perseguire né ascoltare a causa di continui meccanismi inconsci di negazione e scissione, necessari per vivere a Casale senza sperimentare angoscia (Bromberg, 1998)4. Lentamente durante le sedute è emerso come la rabbia dei familiari divenisse più concreta nel momento in cui risultava pregnante la perdita di speranza nel fatto che la sorte risparmiasse il proprio caro. A morte avvenuta, i familiari “sopravvissuti” si erano spesso sentiti “messi da parte” dalla cittadinanza, quasi si dovessero vergognare di

4 È noto che le vittime quando denunciano un reato, ancor prima che un risarcimento, ricercano dalle persone a cui si rivolgono (in particolare dagli enti che sul territorio rappresentano la giustizia come le Forze dell’Ordine) la conferma di ciò che è avvenuto loro. In questo senso, anche come terapeuti siamo stati chiamati ad assolvere una funzione di testimonianza, che ha implicato il riconoscimento e la convalida degli aspetti scissi e congelati dall’impatto con il trauma (Boulanger, 2008; Ullman, 2006).

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aver perso un proprio caro in un modo che angosciava tutti perché dimostrava e ricordava la pericolosità del luogo in cui si continuava a vivere. Per la grande maggioranza delle vittime, la via di uscita da questa solitudine forzata spesso è passata attraverso l’Associazione dei Familiari Vittime dell’Amianto assumendo una nuova identità di gruppo, permeata di rivendicazione, accusa, organizzazione5. A seguito del lavoro psicologico, le persone che componevano il gruppo e anche noi operatori siamo riusciti ad andare oltre la rabbia e le sue diverse espressioni e abbiamo trovato la forza di accogliere ciò che non è mai facile accogliere, ma che sappiamo essere assolutamente necessario accogliere, ossia il dolore indicibile prodotto dai numerosi lutti a cui erano tutti esposti in quanto popolazione (Narracci, Borgogno F.V. & Granieri, 2010). Nel gruppo in questo senso diveniva via via più chiaro e comprensibile il tentativo inconscio dei familiari di tener vivi i morti a loro cari non elaborandone mai davvero la morte (forse perché non sarà mai del tutto elaborabile una quantità di sofferenza così massiva e “senza senso”) e quindi procrastinando la possibilità di una vera differenziazione “in vita” da queste persone morte. È stato il clima emozionale in cui si son svolti gli incontri a permettere che le persone che hanno composto il gruppo iniziassero a poter sviluppare le proprie capacità individuali e che la qualità del pensiero di ciascuno ricevesse stimoli reciproci. Grazie a molti mesi di lavoro si è sviluppata progressivamente una “conoscenza emotiva” nuova, condivisa, in grado di far sì che i partecipanti potessero iniziare a riscoprire le proprie e altrui emozioni e a poterne parlare liberamente, nel tentativo condiviso di trovare una strada per elaborare l’evento traumatico e la sua intensità nella direzione di una maggiore

5 Il processo di Torino potrebbe allora essere letto come il concretizzarsi di questi aspetti di resilienza nella lotta contro i proprietari dell’Eternit (Granieri, 2008, 2013), ma anche come conseguenza della rivendicazione (Böhm & Kaplan, 2012) e del dirigere verso la fonte del trauma la rabbia e gli impulsi distruttivi che albergano nelle vittime (Varvin & Volkan, 2003).

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integrazione della personalità e un maggiore equilibrio emozionale (Granieri, 2011b; Ogden, 2005). Nel gruppo allargato abbiamo in altre parole cercato costantemente di stimolare le persone a “pensare insieme” ciò che solitamente non si riusciva a pensare da soli (il disagio, il dolore, la rabbia, la paura dell’ignoto sulle proprie condizioni fisiche e materiali di fronte al progressivo peggiorare delle proprie e altrui condizioni di salute, la paura del “contagio aereo”), arrivando così progressivamente a poter mentalizzare e significare la sofferenza legata all’evento traumatico. Inutile dire che si tratta di problematiche difficilmente avvicinabili e fortemente angoscianti. Questa la ragione per cui è centrale riconoscere fino in fondo il tentativo di costituirsi una seconda pelle, una pelle più resistente. È necessario far ricorso alla stessa disponibilità e pazienza che dobbiamo avere con i genitori dei pazienti gravi, che a volte nei gruppi multifamiliari condividono profondi sensi di colpa per l’idea di aver causato un danno senza sapere come. Noi conduttori ci siamo trovati spesso esposti alla difficoltà di maneggiare affetti così profondi: il funzionamento di gruppo può diventare uno strumento prezioso, da integrare con altre risorse. Il gruppo, infatti, pone le persone in una situazione in cui si riescono a sentire i propri problemi, ma anche a vederli dall’esterno. Esso si costituisce come luogo di confine rispetto al funzionamento della mente, tra il funzionamento secondo il processo primario e il processo secondario. In questo territorio di confine si rende possibile una sorta di abbassamento della temperatura (Narracci, Borgogno F.V. & Granieri, 2010), un po’ come se si dovesse maneggiare qualcosa di incandescente e l’essere tanti insieme costituisse la trama dei guanti ignifughi che lo rendono toccabile, meno istantaneamente traumatico. Rispetto a un gruppo multifamiliare propriamente detto, a Casale nel corso del tempo si è creato un piccolo-medio gruppo psicoanalitico. Inizialmente siamo rimaste sorprese che partecipassero poche persone.

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Solo con il tempo siamo riuscite a comprendere il significato delle numerose sedie vuote che affollavano la stanza. Per ogni persona che si presentava ne venivano evocate diverse altre. La persona era concreta, i soggetti evocati erano i fantasmi dei morti. In questo senso, sebbene non ci fossero i parenti in carne e ossa c’erano i loro fantasmi, rimasti vivi nella mente dei congiunti. I partecipanti, infatti, faticavano a separarsi dai loro cari e con il coinvolgimento attivo nel processo Eternit tentavano di mantenerli vivi senza poter davvero elaborare la loro inaccettabile perdita. Le numerose sedie vuote in una grande sala testimoniavano ogni martedì il dramma di Casale: non vi erano numerosi malati, bensì numerosi fantasmi che a tratti prendevano la parola nei ricordi dei familiari presenti al gruppo. Lentamente i ricordi sono andati a costituire una trama di storie familiari dapprima descritte nel loro evolvere naturale (si vive insieme, si cerca lavoro, si concepiscono bambini...), ma poi improvvisamente toccate dalla diagnosi fatale. Un elemento importante si affacciava in momenti diversi all’interno del gruppo: nella popolazione ogni nuovo momento di consapevolezza comportava il confronto con una “marea”, una sorta di tsunami che si abbatteva sulla comunità. Ad esempio, quando i Casalesi hanno scoperto di essere cittadini contaminati e contaminabili, purtroppo i nuovi dati epidemiologici li vedevano già primi per numero di morti. A questo proposito è utile ripensare alla dialettica immunitas-communitas, nell’accezione descritta da Ambrosiano e Gaburri (2013). Individuandosi nel gruppo, i Casalesi sentivano di poter tornare a fare base sull’essere singoli e vivi, con nella mente il gruppo dei familiari defunti. In questo modo, si avvicinavano in quanto soggetti a una posizione stabile di immunitas e potevano aprirsi alla communitas, ma così facendo intercettavano la specifica sorte della loro comunità, una comunità predestinata. Raggiunta questa condizione psichica, si è potuto realizzare nel gruppo il transito di quegli aspetti esistenziali che si configuravano come modalità di sopravvivere, escogitate per tollerare un dolore altrimenti impensabile.

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Via via che ci si rendeva conto di quanto il lavoro nel gruppo consentisse trasformazioni stabili, cresceva la fiducia nella migliorabilità dei servizi sanitari e assistenziali, da ripensare nel rispetto dei bisogni condivisi da quella specifica popolazione e quindi più adeguati sul piano politico e amministrativo. Emergeva, inoltre, come tutto questo non si potesse realizzare senza includere il carico emotivo cui erano esposti anche gli operatori, che partecipando anch’essi al gruppo ne condividevano gli effetti benefici legati alla possibilità di pensare insieme. Riflettendo sull’esperienza del gruppo di Casale e sul suo costituirsi nel tempo quale gruppo specializzato6, abbiamo individuato diverse variabili legate al contesto sociale e clinico in cui ci trovavamo:

- la morte rapida dei pazienti; - la difficoltà dei cittadini di vivere a Casale pienamente consapevoli della possibilità tutt’oggi presente di ammalarsi per il contagio aereo;

- la difficoltà di creare un linguaggio comune con l’Associazione dei Familiari Vittime dell’Amianto e con l’intero gruppo delle figure professionali dell’Ospedale di Casale, che avevamo inizialmente individuato come figure elettive per l’invio di pazienti e familiari bisognosi di ascolto. Difficoltà forse dovute anche alle fisiologiche incomprensioni che possono nascere tra due istituzioni assai diverse, quali l’Università e il Servizio Sanitario;

- in ultimo, ma non certo da sottovalutare, la “pesantezza” in sé delle tematiche trattate nel gruppo.

Durante il lavoro clinico abbiamo riflettuto a lungo per capire cosa

6 I gruppi specializzati (Bion, 1961) sono gruppi particolarmente indicati per problematiche che si situano tra versante psichico e somatico, in cui il pensiero tende a esprimersi attraverso azioni automatiche. I componenti del gruppo si ritrovano per affrontare una medesima problematica: in questo senso “specializzato” è termine usato per porre l’accento sull’evento aggregante.

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comportasse, sia a livello di conduzione sia di dinamiche gruppali, avere a che fare con partecipanti che potevano rientrare in una tipologia di gruppo “omogeneo”, aspetto, questo, apparentemente in contrasto con la prospettiva che vede nell’eterogeneità del gruppo multifamiliare uno dei principali aspetti curativi. In realtà, vista la massività dei traumi e la conseguente perdita di gran parte dei legami sociali e dell’identità individuale in nome di una più rassicurante, motivante e “ritrovata” identità associazionistica, l’omogeneità si è costituita quale acceleratore e facilitatore del recupero di un’identità personale e di gruppo più libera e autentica. Riteniamo, infatti, che per elaborare su ampia scala la condizione traumatica legata alla storia di Casale e dell’amianto sia stato strettamente necessario occuparsi previamente delle persone più colpite dalla tragedia. Esse hanno avuto bisogno di sperimentare una condizione di piccolo gruppo omogeneo arricchito di aspetti multifamiliari, qual è stato il nostro, per potersi sentire di nuovo a tutti gli effetti cittadini casalesi “come tutti gli altri”. Pensiamo, per esempio, a quanto possa essere “stigmatizzante” e “inversamente stigmatizzante” sia la chiusura associazionistica sia la complementare difficoltà di accettazione di questa realtà da parte del più grande gruppo cittadino. I partecipanti al gruppo hanno potuto assumere una propria identità separata di persone autentiche e uniche oltre che di “vittime dell’amianto” (Gaburri & Ambrosiano, 2003; Neri, 2003), sino a poter essere più facilmente ascoltati dal resto della cittadinanza mentre esprimevano la loro rabbia e il loro sconforto nel vedere con quanta difficoltà le altre persone tollerassero di approcciarsi alla dura realtà che era toccato loro di vivere. L’esperienza del gruppo multifamiliare si è interrotta dopo solo un anno di incontri, poiché il nostro progetto non è stato poi rifinanziato con il cambio della Giunta Regionale. Nel 2013, tuttavia, il Centro Sanitario Amianto − appena costituito per volontà del Ministero della Salute − ha finanziato un nuovo progetto di ricerca-intervento. Il gruppo si è dunque riunito nuovamente a partire dall’Ottobre 2013 e

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si incontra ogni venerdì in una sala messa a disposizione dal Comune di Casale. Ma questa è un’altra storia... E siamo in cammino.

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RIASSUNTO L’articolo intende descrivere la ricerca-intervento svolta dalla Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università degli Studi di Torino nella comunità di Casale Monferrato, un comune del Piemonte Orientale tristemente noto per le vicende legate all’amianto e all’alto livello di mortalità dei suoi abitanti. In base ai risultati di una prima ricerca svoltasi tra il 2006 e il 2008, nel 2010 è stato pensato e realizzato un intervento clinico che potesse rispondere alla qualità dei bisogni evidenziati nella popolazione. Bisogni che avevano portato i Servizi Sanitari, prima Regionali e poi Ministeriali, a richiedere di implementare un modello di presa in carico multidisciplinare che comprendesse anche una puntuale valutazione psicologica di pazienti e familiari. Quale strumento più adatto per poter lavorare su una situazione di crisi che coinvolgeva un gran numero di persone è stato scelto il dispositivo psicoterapico gruppale, multifamiliare, ispirato al modello dello psichiatra e psicoanalista argentino Jorge Garcìa Badaracco. Nell’articolo viene raccontata l’esperienza del primo gruppo multifamiliare di Casale e il tentativo di elaborare la sofferenza, la rabbia e la paura legata al “contagio aereo della malattia”. A Casale ci si occupava dei malati, dei morti, ma non vi era un’attenzione adeguata a coloro che sopravvivevano al trauma e alla loro paura di morire. PAROLE CHIAVE Amianto, mesotelioma, contagio aereo, trauma, ricerca-intervento, gruppi multifamiliari.

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SUMMARY This article aims at describing the intervention research realized by the Post-Graduate School in Clinical Psychology of the University of Turin for the community of Casale Monferrato. Casale is a town in Oriental Piedmont sadly known because of asbestos and the very high amount of deaths among its inhabitants. Basing on the results of a research realized between 2006 and 2008, in 2010 we designed a clinical intervention that could address the specific needs that population had showed. Needs that made the Regional Health Services at first - and then the National ones – demanding for the developing of an integrate care protocol that would include also a psychological assessment of patients and caregivers. The best instrument to work on a traumatic situation that involved an entire community seemed to be the multifamily group, created by the Argentinian psychiatrist and psychoanalyst Jorge Garcìa Badaracco. In this article, we describe the clinical experience of the first multifamily group in Casale Monferrato, focusing on the attempt made in the group to elaborate the anger, the anguish and the fear connected to the aerial contamination. Up to our intervention, in Casale everybody focused on illness and dead, but nobody took care of those who survived trauma and of their massive fear of death. KEY WORDS Asbestos, mesothelioma, aerial contamination, trauma, intervention research, multifamily groups.

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Carmelo Conforto

Incontrando delle poesie

I medici psichiatri conoscono la ragione dello star male ma la ragione dello star bene la conosciamo noi.

(Fernanda) Quelle che trascrivo sono poesie, termine che suggerisce un particolare prodotto dell’anima, un’emersione di immagini, non necessariamente ben definite nel loro chiedere d’essere portatrici di significato. Ci suggeriscono di essere noi a parlare con loro e sperare che si costruisca un certo tipo di dialogo, in cui dev’essere presente la dimensione estetica e il terribile della sofferenza, così com’è il vivere degli umani. Così accade per queste poesie che parlano ora con me. Ad esse cerco di rispondere sognando i significati che a me suggeriscono. Sono state scritte da una donna mentre soffriva dei dolori dell’anima ed era in trattamento per questa ragione. Oggi Fernanda acconsente alla loro rivelazione e così la donna che la curava. Io ne ho scelte alcune, con cui cerco una sorta di dialogo.

Psicoanalista, Membro Ordinario SIP e IPA, già Professore Ordinario di Psichiatria.

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La vetrina mi parla dei bambini li vogliono atletici grandi uomini scolaretti perfetti ma tu bambino dove sei di fronte a questi discorsi dei grandi. Appeso in poster davanti alla vetrina. È difficile mostrarci vivi, bambini ancora vivi, quando siamo intesi come immagini senza dimensione, senza spazi interni, senza che si legga quello che sentiamo, amiamo, odiamo, capiamo e non capiamo. Allora ci appendiamo/ci appendono come figurine, che stanno lì perché sono incollate. La burrasca Non sei contento di queste onde giganti ma devi lavorare e pulire le spiagge. È così faticoso riprendere a vivere, nelle ondate di sofferenza che sconquassa, celate dall’apparenza banale delle cose del vivere quotidiano.

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La solitudine Papà vado a fare un giro in yacht Papà vado a casa a pensare. Sono tua Sono di chi vede. Ci sono quelli che vedono, ma è improbabile trovarli, allora occorre scorgere con gli occhi della mente chi potrebbe cogliere cosa abbiamo dentro. Accade che si incontri qualcuno che vede la mia sofferenza, e vederla è sentirla dentro. Vediamo con gli occhi della nostra sofferenza. Telefonata misteriosa Leggo, leggo, leggo il tuo mutismo pieno di sincerità. Avverto che hai il cuore pieno di sogni e di dolore. Immagino che in questo modo siamo accettati, accettiamo (curanti-curati). Spesso le stazioni di arrivo e di partenza non si distinguono.

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Le barche posteggiate parlano fra loro mentre i bagnanti spiaggiano il mare chiama il cielo guarda. Noi, i sofferenti, parliamo tra noi, allineati da loro, gli spiaggiati. Ci stanno accanto ma ci disanimano, cose allineate, prive di senso, sprovvisti di pensiero, sbrindellati nelle incomprensibili emozioni. Abbiamo vite nascoste, che si incontrano e loro non si accorgono. Il cielo, le cose dell’eterno, ci osservano con indifferenza. Il libro, il quaderno, il cuscino. Ti ho fatto amare quello che non c’è nel tuo mondo e tu mi hai fatto amare quello che non c’è nel mio. Questo deve avvenire, avviene, raramente: è accaduto con la persona che si prendeva cura di te.

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La forte mareggiata Disperato! Sei un bambino che piange per non essere sempre solo e abbandonato. In certi momenti non ti importa neanche di un raggio di sole. Amiamoci! È questo che avviene, che capiamo sia avvenuto, con cui penso si dovrebbe iniziare a curare. La solitudine Come un gigante che ci parla, il faggio è spoglio. Non un segno di vita. Ma lì con le sue articolate braccia, respira il profumo del focolare, e l’incontro è fatto. Questo chiedono di ritrovare le anime che appaiono aride, rinsecchite da ciò che doveva esserci e non vi è stato. Questo qualcuno offre. Poi si sta meglio tutti.

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Caro Lettore,

lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed agevolare il dialogo tra i professionisti delle scienze umane, con particolare riguardo all’area della Psichiatria. A tale proposito, la Segreteria Scientifica e di Redazione invita i Lettori ad inviare elaborati, loro o dei loro collaboratori, dai quali poter trarre nuovi spunti di dialogo e riflessione e che possano contribuire ad un arricchimento dei temi trattati. La pubblicazione di un articolo sulla rivista è, in ogni caso, rigorosamente subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale.

Note per gli Autori 1. Nel proporre il proprio scritto alla Segreteria Scientifica e di Redazione, l’Autore dovrà specificare che si tratta di un lavoro inedito e che intende pubblicarlo esclusivamente sulla rivista “Il Vaso di Pandora”.

2. Preferibilmente, l’elaborato proposto dovrà essere inviato tramite mail come file di WORD allegato agli indirizzi di posta elettronica: [email protected] e [email protected] Qualora ciò non fosse possibile, l’Autore potrà inviare il file WORD, salvato su CD, al seguente recapito: Segreteria de “Il Vaso di Pandora”, Via Montegrappa 43 – 17019 Varazze (SV), all’attenzione della Dott.ssa Federica Olivieri

3. Ogni testo dovrà essere accompagnato da:

Nome e Cognome per esteso degli Autori;

una breve nota biografica relativa ad ognuno (la Segreteria si fa carico di omettere questi dati dalle copie che invia ai referee per la valutazione);

almeno un indirizzo postale a cui i lettori possano inviare eventuali loro comunicazioni agli autori, un indirizzo di posta elettronica e un numero di telefono per eventuali comunicazioni della Segreteria;

titolo in italiano ed inglese;

alcune parole chiave in Italiano ed Inglese;

un breve riassunto in Italiano ed Inglese;

4. Qualora l’elaborato si sia ispirato ad una relazione presentata ad un Convegno (è questo il caso degli “estratti”), dovrà comunque essere accompagnato da un breve riassunto, sia in Italiano che in Inglese e dalle parole chiave.

5. Le note dovranno essere ridotte al minimo e numerate progressivamente.

6. Le citazioni, accuratamente controllate, dovranno apparire tra virgolette doppie (anche le virgolette usate per fini diversi dalla citazione dovranno essere doppie). I corsivi originali dovranno essere sottolineati (o meglio riportati in corsivo); i corsivi aggiunti dovranno essere indicati tra parentesi con: (corsivo aggiunto), oppure (sottolineatura mia). Ogni aggiunta dell’Autore dell’articolo dovrà essere posta in parentesi quadra; per esempio. “egli [S. Freud] intendeva”. Le omissioni nel testo verranno segnalate nel seguente modo: (…). Parole o frasi in lingua diversa dall’italiano saranno senza virgolette, ma sottolineate (o scritte in corsivo) e seguite, nel caso, dalla traduzione tra parentesi o in nota.

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7. I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente con il cognome dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle pagine: (Freud 1921, p. 315), ma (Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve: (Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se gli Autori sono due, appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due: (Racamier et al. 1981, p.184).

8. I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di articoli apparsi in riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento bibliografico nel testo dovrà corrispondere una voce nella bibliografia finale.

9. La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve contenere unicamente gli Autori citati nello scritto. La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello: - Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford. Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo sottolineato, editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche la citazione del titolo della traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in originale. La data della traduzione va in fondo. Es.: - Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983. Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con ripetizione del nome dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica delle opere: - Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E., 19. - Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19. Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il primo seguito da: et al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore apparirà in primo luogo come Autore singolo. La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo questo modello: - Wittember I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al., Esplorazioni sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977. Oppure, quando l’Autore è lo stesso: - Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First Contributions to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952 La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo modello: - Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162-168.

10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su singolo foglio e numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in fogli singoli, dovranno essere numerate in cifre romane. Sia le tavole, sia l’iconografia dovranno essere richiamate nel testo ed essere accompagnate da una legenda esplicativa.

La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori piccole correzioni, qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i testi stessi allo stile della rivista. Ogni qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà immediata comunicazione.

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Appartamenti Protetti Agriellera

Loc. Fontanette 3 – 12070 Montezemolo (CN) Tel. 0174.781412/0174.781407 Fax. 0174.781416

e-mail: [email protected]

Direttore Sanitario: Dott. Paolo Rossi

Responsabile APA: Dott.ssa Milena Meistro Responsabile Amministrativo: Sig.ra Paola Roberi

Il progetto “Appartamenti Protetti Agriellera” (APA) nasce da una lunga esperienza nella gestione clinica e riabilitativa di pazienti psichiatrici in ambito comunitario. Tale soluzione abitativa risponde a specifiche esigenze di residenzialità assistita, rivolta a pazienti giunti in una fase avanzata del loro percorso terapeutico. Come struttura intermedia, il “Gruppo Appartamento” si pone come possibile punto di passaggio tra la Comunità Terapeutica e un possibile reinserimento del paziente sul territorio. Il regolamento e l’intervento riabilitativo sono parte integrante del percorso che vede al suo termine strutture sempre più riconducibili alla normalità e naturalità dell’abitare. Non si tratta quindi di una proposta unicamente abitativa e residenziale per pazienti, ma piuttosto di un intervento pensato e programmato come:

- Individualizzato in quanto il progetto APA è elaborato sul singolo paziente tenendo conto della sua storia personale e clinica, della diagnosi, delle terapie pregresse e attuali, delle

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autonomie presenti, delle aree di funzionamento, delle manifestazioni cliniche di rilievo e della loro gestione. Non viene dunque allestito un solo progetto cui adattarsi, ma tanti progetti diversificati secondo le esigenze e peculiarità del singolo. Tali progetti sono studiati dall’équipe degli appartamenti in collaborazione con i curanti esterni e con il paziente stesso;

- Condiviso in quanto non si tratta di un progetto autoreferenziale, ma condiviso con i curanti del paziente, con i familiari e con le ulteriori agenzie terapeutiche e socio-assistenziali presenti; ciò affinché la base di appoggio del progetto sia il più possibile allargata e con la finalità di un possibile reinserimento totale sul territorio.

Gli appartamenti protetti APA sono gestiti dalla Cooperativa Sociale Onlus Agriellera. Le villette si trovano in Montezemolo, a pochi passi dal centro del paese; distano rispettivamente circa 10 km da Ceva e da Millesimo. Il complesso è composto da due villette; al piano inferiore si trova il soggiorno dove gli ospiti hanno la possibilità di condividere spazi e momenti in comune; la cucina dove gli ospiti preparano i pasti del pranzo e della cena con il sostegno degli operatori; la lavanderia è uno spazio riservato al lavaggio e alla stiratura degli indumenti personali. Al piano superiore, di ciascuna villetta, ci sono 8 camere da letto, ognuna dotata di servizi igienici. Gli spazi esterni sono molto ampi, con attrezzature da giardino e barbecue. Ogni appartamento può ospitare al massimo 8 pazienti. Le figure professionali presenti in appartamento sono:

- l’Operatore (Psicologo, Educatore, Oss) che si reca nell’abitazione con i compiti di monitorare e supportare l’andamento della vita quotidiana (cura del sé e degli ambienti sia personali sia comuni, organizzazione della spesa, supporto nella gestione economica); organizzare con il Paziente il tempo non

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strutturato; favorire una maggiore autonomia negli spostamenti sul territorio; strutturare incontri in autonomia e/o con l’accompagnamento dell’Operatore presso i servizi invianti e/o permessi presso l’abitazione dei familiari; mediare e aiutare il paziente a gestire le relazioni interpersonali;

- l’Infermiere che si occupa della gestione e somministrazione della terapia farmacologica; dell’assistenza infermieristica, se necessaria, eventuali medicazioni, prenotazioni esami e visite mediche, accompagnamento a visite specialistiche, gestione rapporti con il medico di base;

- Medico Psichiatra che effettua colloqui psichiatrici di valutazione clinica a cadenza settimanale, controllo ed eventuali modifiche delle prescrizioni farmacologiche;

- Psicologo che effettua colloqui psicoterapici e/o di sostegno a cadenza settimanale.

È prevista la presenza degli operatori nelle ore diurne (dalle h. 8.00 alle h. 20.00); durante le ore notturne sono previsti controlli periodici da parte degli Operatori in turno della Comunità adiacente e all’occorrenza è prevista una reperibilità interventistica immediata. Sono previste riunioni settimanali tra gli Operatori per condividere e monitorare l’andamento clinico del paziente e verificare la validità degli interventi terapeutici attuati per ciascun ospite. È prevista periodicamente un’assemblea tra il gruppo di ospiti e gli operatori durante la quale vi è la possibilità di confrontarsi sulla convivenza in appartamento, di organizzare la quotidianità e le attività terapeutiche-riabilitative ed affrontare e gestire le dinamiche relazionali interne al gruppo. Lo Staff prevede degli incontri concordati con il Servizio Inviante con un calendario da definirsi reciprocamente per verificare la validità dei progetti terapeutici attuati ed eventualmente apportare modifiche e aggiustamenti utili all’ottenimento degli obiettivi prefissati.

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I pazienti hanno la possibilità di partecipare alle attività terapeutiche riabilitative organizzate dalla Comunità di Montezemolo, adiacente alla struttura, che possono essere distinte in attività espressive; attività ricreativo-risocializzanti; attività prestazionali. Per i pazienti più autonomi possono essere attivate delle borse lavoro sul territorio o dei corsi di formazione e orientamento al lavoro.

Appartamenti Protetti Agriellera

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