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* Omaggio a Hermann Zapf *Progetto informatico di Tiziano Stefanelli

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Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XXII, N.4, 2014
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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXII, N. 4, 2014

Sommario

Editoriale P. Pisseri pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA

Alcune riflessioni sul pensiero di Racamier A.M. Ferro, V. Ferro

pag. 19

APPUNTI DI VIAGGIO La costruzione del terapeuta relazionale sistemico tra arte, artigianato,

didattica ed epistemologia P.G. Semboloni

pag. 43

QUATTRO PASSI PER STRADA In viaggio da Occidente a Oriente: considerazioni su musica e

“mitologia bianca” S.A.E. Leoni

pag. 69

OLTRE… Riflessioni sul ricovero di Pazienti ospiti di Comunità Terapeutiche in reparti

psichiatrici S. Pirrotta pag. 97

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXII, N. 4, 2014

Table of contents

Editorial P. Pisseri pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA

Some consideration on the thought of Racamier A.M. Ferro, V. Ferro

pag. 19

APPUNTI DI VIAGGIO The construction of relational systemic therapist among art, artisans, training

and epistemology P.G. Semboloni

pag. 43

QUATTRO PASSI PER STRADA Traveling from West to East: reflections on music and

“white mythology” S.A.E. Leoni

pag. 69

OLTRE… Reflections on the admission of Patients in Therapeutic Communities inside

psychiatric wards S. Pirrotta pag. 97

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Editoriale Questo numero ospita tre contributi di notevole spessore. Antonio e Valentino Ferro ispirandosi all’insegnamento di Racamier iniziano discutendo il rapporto fra la tecnica, necessariamente da apprendere, e la relazione personale, l’“essere con”. Nell’attività di Racamier, definito “artista” o meglio “artigiano raffinato”, teoria e pratica si alimentano della curiosità, del talento, della sensibilità personale del terapeuta. È quanto egli ha messo in pratica nei tre campi di attività su cui gli Autori si soffermano: la terapia istituzionale; il lavoro sulla maternalità, psicotica e no; il problema dell’acting. La terapia istituzionale implica anche la nozione di assistenza. Questa per Racamier “consiste nel mettere in una condizione di esercizio concreto attuale le funzioni dell’Io che sono specificamente turbate nella psicosi; il compito dell’équipe è di aiutare i malati a funzionare e vivere meglio”. Ne deriva il concetto di “azione parlante”, che si muove a tre livelli distinti ma integrati: quello concreto, con la sua finalità pratica e il suo conseguente feedback positivo; quello simbolico, in cui oggetti e azioni reali evocano realtà interne; e quello metacomunicativo, di comunicazione sulla relazione di aiuto. Perché i pazienti si aprano al dialogo, occorre prendersi cura anche della loro quotidianità, con attenzione ai significati simbolici di ciò che si propone ma anche al loro senso reale. Ciò, credo, in rapporto al prevalere nella mente psicotica del pensiero concreto, della difficoltà di un’autentica comunicazione verbale, del frequente urgere di bisogni concreti e pratici che hanno inevitabilmente la precedenza su elaborazioni cognitivo-emotive più complesse. Questo lavoro prevede necessariamente un sostegno anche ai curanti e all’istituzione: “comprensione dinamica e sostegno emotivo sono rivolti tanto ai curati quanto ai curanti”. Mi pare questo un concetto parallelo a quello del controllo del controtransfert, necessario nella terapia individuale. Esso, grazie al messaggio di maestri fra i quali proprio Racamier spicca, è divenuto ormai un caposaldo del nostro operare. Nota personale: ricordo come, con una certa goffaggine, cercavamo oltre 40 anni fa di introdurlo in un ambiente difficile come quello manicomiale, non senza suscitare reazioni quali: “ma insomma, non siamo dei malati!”.

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La terapia istituzionale deve affrontare – ricordano gli Autori Ferro – il rapporto fra l’“essere con” e la tecnica, entrambi aspetti imprescindibili. Penso che ciò riguardi ogni intervento psicologico, compresi quelli più apparentemente e freddamente “tecnologici” come certe terapie cognitivo-comportamentali, e anzi ogni forma di comunicazione verbale. Il linguaggio è certamente una tecnologia persino rigorosa, con le sue norme, la sua grammatica, la sua sintassi, la cogente forma dei suoi vocaboli; ogni “sgrammaticatura” è squalificante. Eppure è ovviamente vettore di emozioni e interazioni, arricchite da deviazioni dalla comunicazione lineare e ortodossa, quali metafore, anacoluti, collegamenti concettuali apparentemente incongrui, scarti, volute trasgressioni dai collegamenti canonici che allontanano il discorso dall’anonimato e ne potenziano il potere comunicativo e creativo. Valenza questa che raggiunge il suo culmine nella creazione poetica: “i tuoi occhi erano due muri – e il mio corpo rumore d’erba” (Garcia Lorca). Tornando al campo che ci è proprio, un maggior peso dell’“essere con” nella psicoterapia parrebbe indicato dal cosiddetto “verdetto di Dodo” – “tutti hanno vinto la gara, tutti hanno diritto al premio” – sull’efficacia sostanzialmente comparabile delle più svariate tecniche psicoterapiche; esso, sempre beninteso che trovasse conferma, tenderebbe a dare il maggior peso al rapporto personale paziente-terapeuta, rispetto all’appropriatezza ed efficacia di una determinata tecnica. Una seconda importante topica indicata da Antonio e Valentino Ferro è quella della maternalità, legata al concetto di crisi (morte e rinascita). Egli si richiama anche al lavoro di Selma Fraiberg sul rapporto madre-bambino; e al concetto di Winnicott di “spazio potenziale”, area del rapporto fra due persone, fra realtà e immaginario, fra la donna in transizione verso la maternità e il bambino fantasmatico. Il parto incrina solo parzialmente questa unità, e comporta un rischio di angoscia del cambiamento; possono conseguirne risposte psicopatologiche di solito di prognosi buona quanto al decorso, ma a notevole rischio di acting: la depressione postpartum, da allattamento e da svezzamento, o anche un disturbo psicotico breve oppure schizofreniforme. È possibile che il bambino sia vissuto già nel ventre come corpo estraneo. In queste situazioni è stato proposto il ricovero congiunto madre-bambino: Kumar al Bethlem ha creato la Mother and Baby Unit. Le riflessioni sull’acting riguardano da vicino la prassi delle strutture residenziali psichiatriche: non è affatto raro che la richiesta di un intervento residenziale nasca

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da ripetute mal tollerabili azioni del paziente, e che questa costituiscano un importate fattore di difficoltà e di rischio nella vita comunitaria. Racamier ci ricorda come l’agire, dominante nelle patologie gravi, sia una liberazione da pensieri e sentimenti non sostenibili e contenibili: ciò richiama alla mente il concetto bioniano di elemento beta, contenuto mentale non pensato e trattabile solo con l’espulsione. Nella proposta teorica di Racamier lo spazio interiore, area degli oggetti interni e dei fantasmi, dallo spazio transazionale, con fantasie rappresentanti il desiderio, la rêverie, la simbolizzazione; e da quello del transpsichismo, con mente privata dello spazio corporeo dell’essere. La gestione e prevenzione degli acting richiede all’operatore anche di confrontarsi con soggetti fonte di distruttività, che Racamier denomina thanatofori: carchi di invidia, tendono a distruggere il gruppo. Occorre saper cogliere ciò controtransferalmente, facendo quindi i conti con le nostre parti malate. In particolare, è presente il rischio del “contro agire”, sollecitato dal frequente acting del paziente (abbiamo avuto un esempio tragico di questo contro-agire nella storia dei manicomi). Essenziale, allora, ricostruire lo spazio transizionale nella “istituzione curata”. Ma un agire continuato, espressione d’incapacità di pensare, può esser presente anche in persone persino ipernormali, pronte alla dipendenza dal potere che ti alleggerisce del pensiero. È questa una condizione denotata da Racamier col suggestivo termine “décervelage”, simile all’antipensiero di Bion. Alla dipendenza dal potere istituzionale può collegarsi l’immersione in una massa che acriticamente e collettivamente aderisce a un certo “non pensiero”. Tutti ricordiamo il Freud di “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”; ma perché dimenticarci del vecchio Alessandro Manzoni? “Chi forma poi la massa e quasi il materiale del tumulto è un miscuglio accidentale di uomini che, più o meno, tengono dell’uno e dell’altro... pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e adorare… viva e moia son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’esser squartato, non ha bisogno di più parole per convincerli che meriti d’esser portato in trionfo...”. Quindi la democrazia è costantemente a rischio, come annota Racamier: già i Greci avvertivano il suo frequente sfociare nella tirannide. Ne abbiamo avuto molti esempi, che è superfluo ricordare uno per uno, da quando la fine dei regimi assoluti

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ha caricato la gente del peso della libertà, di quella possibilità di scelta che – ci hanno mostrato fra gli altri Kierkegaard e Sartre – è fonte di angoscia. Il contributo dei Ferro si conclude ricordando il concetto, dovuto a Green, di “narcisismo di morte”; e quello di Benasayag e Schmit, di “epoca delle passioni tristi”, dominata da sentimento permanente d’insicurezza, precarietà, talvolta vergogna e rabbia. Anche Semboloni tocca il rapporto fra preparazione tecnica e personalità, che dovrebbe giungere alla realizzazione di uno stile terapeutico personale. Ricorda che anche nella musica l’improvvisazione presuppone comunque una tecnica di base; sottolinea con Minuchin che occorrono alcuni anni per raggiungere la competenza, molti di più per la spontaneità; riafferma la pertinenza della psicoterapia al campo dell’arte, più che a quello della scienza. Come nell’arte infatti la dimensione della prassi non è affatto isolata da quella della conoscenza, ma va di pari passo con essa. Cita Bradford Keeney, che a sua volta mette in guardia contro il possibile moltiplicarsi di Maestri ripetitivi e terapeuti “clonati”; invita a giocare con gli insegnanti e con gli insegnamenti; a cambiare. Gianfranco Cecchin tratta dei problemi che un terapeuta incontra nella scelta della scuola, nell’adeguarsi ai diversi contesti operativi, nell’assimilare o rifiutare i diversi orientamenti teorici e i diversi suggerimenti. Ciò introduce al concetto proposto da Bateson, di deuteroapprendimento: modo di apprendere ad apprendere. Centrale il tema della curiosità. L’Autore ci parla del teatro come metafora della terapia. Il terapeuta è una maschera o un attore? Egli a volte utilizza la sua immagine-maschera (ad es. la qualifica di scuola?) per acquisire potenza; ma al momento buono deve abbandonarla, poiché la formazione e la supervisione non devono tendere a creare cloni del maestro. Segue una breve storia delle vicissitudini della maschera nel teatro, iniziando da quelle del teatro greco che − può essere interessante ricordarlo – avevano la funzione d’identificare chiaramente caratteristiche e ruolo del personaggio, e di amplificare la sua voce rendendola più tonante e autorevole; con qualche analogia con l’attuale funzione di un ruolo riconosciuto e dell’appartenenza a una scuola. Maschere anche quelle della Commedia dell’Arte, abbandonate poi definitivamente all’epoca di Goldoni. Analogamente, il terapeuta deve abbandonare la maschera per trovare il

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proprio stile; anche perché, come ha insegnato all’Autore l’esperienza della scuola di Milano, gli interventi appresi nella scuola non funzionavano allo stesso modo in contesti diversi. È per questo che Boscolo e Cecchin si sono spinti a supervisionare direttamente gli allievi nei loro contesti lavorativi. L’Autore torna poi sul tema del teatro: la recitazione si basa sull’interazione degli attori fra di loro e con il pubblico. Fin dalla nascita del teatro greco si sono posti il problema della maschera, dell’interpretazione, dell’essere umano sulla scena come maschera con voce o come maschera con qualcuno che vive dietro di lei. Nell’ottocento con Stanislavskij si raccomanda all’attore di perseguire la naturalezza, sia pure tramite un duro esercizio, e recuperando le proprie esperienze. Deve non rappresentare ma interpretare (Semboloni ricorda la contemporaneità della psicoanalisi). Questo indirizzo ebbe ulteriori sviluppi negli Stai Uniti, con l’Actors Studio. Per Antonin Artaud il teatro è ricerca: l’attore deve seguire una semplice traccia e creare, non solo con la parola ma anche con il corpo. Ispirazione, questa, seguita dal Living Theatre. Con Brecht al contrario si torna a una concezione vicina a quella settecentesca di Diderot, di massimo rispetto del testo, tanto più in quanto portatore di un preciso messaggio ideologico. Il contributo di Semboloni è completato dal resoconto di una personale esperienza professionale coerente con queste premesse. Egli ha organizzato, presso la sede di Genova della Scuola Milanese di Psicoterapia Relazionale Sistemica, un seminario sugli stili terapeutici prevedendo il coinvolgimento di un attore, e in una sede teatrale. Ha ripetuto poi nel 1995 l’esperienza a Barcellona, su invito di Juan Luis Linares. Ha somministrato agli allievi un questionario, che riporta, sullo stile terapeutico personale, che impiega come parametri le varie autodefinizioni come terapeuta, i riferimenti prescelti, il tipo di umorismo meglio comunicabile, il piacere o meno nel dare compiti, il prevalere nel lavoro di razionalità o irrazionalità, lo stile di gioco, la scelta fantasticata di altra professione, l’attore più idoneo a rappresentare uno psicoterapeuta. Ne è risultato un identikit di un terapeuta con stile di comunicazione oscillante fra quello di un regista e quello di una madre, individuante il terapeuta ideale in Minuchin, Erikson e Freud, individuante nell’ironia il canale di comunicazione più adatto, e nelle professioni di musicista e di attore quelle più identificabili come alternative a quella di terapeuta. In parte

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cambiati gli orientamenti degli allievi attuali: preferiscono come terapeuta Gianfranco Cecchin, Luigi Boscolo, Carl Whitaker, e come attore Woody Allen. Quest’esperienza, conclude Semboloni, è un esercizio utile per comprendere quale identità stia cercando il terapeuta in formazione, e come il suo auto-rappresentarsi influenzi il suo stile terapeutico. Leoni offre la sua profonda competenza di musicologo per esaminare un importante risvolto del rapporto dell’Occidente con il resto del mondo, e in particolare con il vicino Oriente e con le culture islamiche. Con Francesco Mazzucotelli, storico del Vicino Oriente, addita quale punto centrale il giustificato desiderio che “loro” nutrono: esser considerati come “soggetti” di conoscenza e non come “oggetti” di ricerca e analisi. È questa una topica di particolare interesse per lo psichiatra che è precisamente impegnato a superare la dicotomia soggetto (psichiatra)-oggetto (paziente): a passare (per citare Ballerini) dalla posizione di chi “si trova di fronte a qualcosa” a quella di chi “sta con qualcuno”; dallo jaspersiano erklaren (spiegare) al verstehen (comprendere), come Leoni ci ricorda. Non è affatto un problema nuovo: molti decenni fa Basaglia denunciava la “cosificazione” del paziente. Ma tuttora ci impegna, ulteriormente complicato dai pur benvenuti progressi delle neuroscienze, che in qualche modo danno rinnovata forza all’approccio oggettivante. È questa, certo, un’analogia da prendere con le molle: nel rapporto con culture “altre” l’equilibrio e il reciproco rispetto possono esser realizzati non soltanto nel rapporto intersoggettivo, ma anche ammettendo la possibilità che sia proprio l’Altro a esaminarci e studiarci “obbiettivamente”, ma secondo i propri schemi mentali. Credo che un utile esercizio di umiltà ci sia offerto dal DSM-IV-TR che fra le “Culture-bound syndromes” include l’“ataque de nervios”, come proprio di “many Latin American and Latin Mediterranean Groups”. Molti di noi non hanno mai avuto “attacchi di nervi”; ma tuttavia, come latino-mediterranei legati ad una subcultura nell’ambito dell’Impero, ci sentiamo bruscamente catapultati dalla posizione di osservatori e classificatori a quella di osservati e classificati. Inoltre, mentre è difficilmente concepibile che l’asimmetria fra terapeuta e paziente possa mai annullarsi o rovesciarsi, quella fra Occidente e Terzo Mondo è con ogni evidenza un portato storico che forse già oggi sta venendo meno.

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È questo uno degli aspetti che modificano profondamente il contesto attuale rispetto a quello proprio dell’era coloniale cui fa riferimento Leoni. L’altro è l’importante cambiamento intervenuto in quello che per comodità continueremo a chiamare Terzo Mondo, che di fatto sotto molti aspetti ha finito con l’assomigliare all’Occidente quanto a costumi, usanze, dotazioni tecnologiche, persino nell’abbigliamento. L’Occidente quindi, se pure sembra vada perdendo la superiorità politica e militare, mantiene l’egemonia culturale e forse anzi la rafforza. L’Oriente e il Sud del mondo assimilano, infatti, la nostra visione scientifico-tecnologica, non senza riflessi anche sulla riflessione filosofica. Ciò ci rimanda al concetto di “alterazione” che Leoni ci propone ispirandosi a Staszak, consistente nell’indurre l’altro a pensare, agire, scegliere come noi. Ma dobbiamo chiederci se non si tratti di un’alterazione necessaria per consentire ai paesi del terzo mondo di uscire da un’inferiorità economica, politica, militare. Sembra tuttavia contrastare questo processo di “alterazione” il ritorno anche violento del mondo arabo a impostazioni confessionali e anzi teocratiche che ci appaiono francamente anacronistiche: sembrano costituire la riaffermazione di un’autonomia ideologica e culturale dall’Occidente, fortemente perseguita ma pur sempre inevitabilmente parziale e forse velleitaria. Ulteriore importante cambiamento è il movimento migratorio che, con il rimescolamento di culture che provoca, tende a dissolvere la dimensione favolosa presente nella nostra visione di quel mondo sempre meno “altro”, nutrita, ricorda Leoni “di una lunga tradizione immaginativa occidentale”. Lunga, certo. Possiamo, arbitrariamente, partire dal lungo resoconto, misto di realtà e fantasia, offerto all’Occidente da quella complessa figura di mercante-avventuriero-ambasciatore-funzionario che è stato Marco Polo. Saltando un po’ di secoli, possiamo arrivare alle “Lettres persanes” di Montesquieu, in cui si finge che certi persiani soggiornanti a Parigi siano portavoce del pensiero critico sociopolitico dell’Autore; ma al di là di questa intenzione, per noi è interessante che essi trovino straordinaria e meravigliosa la realtà francese, evidente espressione speculare del vissuto degli europei di fronte all’Oriente. Ricordo pure il racconto “Interdizione” di Balzac, il cui protagonista è affascinato da un mondo cinese più o meno immaginario, dando così un efficace pretesto per dichiararlo folle. Divertente poi l’approccio ironico del “Tartarin di Tarascona” di Daudet, col protagonista fantasticante un’immagine stereotipata e

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irreale dell’Oriente. Infine, chiaramente più vicino alla nostra sensibilità “Lo straniero” di Camus, in cui l’alterità del mondo arabo ci si palesa nel suo aspetto inquietante e perturbante. Leoni ci mette in guardia contro le “trappole essenzialiste”, contro la pretesa di cogliere – magari a corto circuito e fondandosi su stereotipi – i connotati fondamentali e necessari di realtà complesse come quella Orientale. Anche ciò evoca in me psichiatra un’associazione con la fuorviante possibile pretesa di includere ed esprimere in una diagnosi la fondamentale realtà di un paziente. Quest’aspetto ha qualcosa a che fare, secondo l’Autore, con la logica binaria prevalente nel nostro pensiero a partire da Aristotele, e applicata nel rapporto con un Oriente come luogo dell’Alterità: bianco-nero; bianco-giallo; non circonciso-circonciso; civilizzato-selvaggio; essa avrebbe costituito un fondamento ideologico dell’avventura coloniale. È certo che, ad esempio, quando è divenuto illecito ridurre in schiavitù un bianco, ciò è rimasto consentito ancora per molti secoli a danno dei neri, ritenuti definitivamente “altri” e meno che uomini. Tuttavia, mi pare che questa logica binaria non sia esclusiva della nostra cultura: che dire della scissione fra credente e infedele oggi più forte nell’islam – o in una sua frangia molto significativa − che nella nostra cultura? Entrando nello specifico campo musicale, l’Autore ci parla dell’utilizzazione decontestualizzata di elementi “orientali” o esotici, come nella “Aida”, nella “Reine de Saba” di Gounod, nella “Sansone e Dalila” di Saint-Saëns, nella “Lakmé” di Delibes, nella Thais di Massenet. In queste opere “l’alterità mediata e mercificata che congela l’immagine del mondo coloniale e ne fa uno spettacolo... rappresenta una fantasia di potere, rassicurante, che ci conforta nella nostra identità e superiorità”. Mi viene in mente, in tutt’altro campo, l’operazione particolarmente riuscita con Sitting Bull, trasformato personalmente e fisicamente da temuto capo indiano in pittoresco personaggio da circo. E penso anche che all’elenco proposto valga la pena di aggiungere la Turandot, dove alla dimensione favolosa e fastosa si sovrappone quella (letteralmente) enigmatica e minacciosa, domata infine dal potere della ragione; vicenda questa che riecheggia quella in cui Edipo affronta la Sfinge, figura mitologica di lontana ascendenza extraeuropea. Proviene poi dall’Asia il Dioniso di Euripide, portatore di una destabilizzante follia vanamente contrastata dal potere statale. Sembra dunque che fin dall’inizio l’Oriente si ponga per il nostro

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mondo come luogo della fantasia abitato da figure ricche di fascino ma inquietanti e mal decifrabili, che per contrapposizione aiuta a definire un’identità occidentale razionale, delineatasi fin dall’inizio nell’approccio protoscientifico della scuola ionica. Ma la definizione di un’identità ha conosciuto e conosce il ricorso alla violenza del potere. L’Autore ci introduce quindi alla conoscenza di una nuova musicologia che a partire dagli anni ottanta, con autori come Kramer, Tomlison, Rosengard Subotnik e Mc Clary considera la musica come evento sociopolitico. Auspica infine una possibile diversa impostazione del rapporto Occidente-Oriente, basato non su una serie di opposizioni binarie ma sulla comprensione delle intricate e reciproche interazioni e relazioni. Nel nostro paese, ciò può passare anche attraverso un arricchimento del patrimonio di studi – attualmente carente – sulla storia della musica e della musicologia arabo-islamica; sempre ricordando che “ogni punto di vista non rappresenta la realtà bensì una possibile visione di essa”. Buona Lettura

Pasquale Pisseri

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Tra prassi e teoria

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Antonio Maria Ferro∗, Valentino Ferro∗∗ Alcune riflessioni sul pensiero di Racamier1 Premessa La pubblicazione dell’articolo è possibile grazie all’autorizzazione del Direttore della rivista Gruppi, Flavio Nosè, e della Franco Angeli, Casa editrice della rivista Gruppi. La rivista ha dedicato il numero XIV, n.1 del 2013, a Paul-Claude Racamier. Il titolo è stato “Attualità del pensiero di P.C. Racamier” e comprende contributi di P.C. Racamier, F. Nosè, G. Di Marco, S. Taccani, M. Sassolas, A.M. Ferro e V. Ferro, M.L. Drigo e L. Boccanegra . Introduzione I “mattoni” del nostro operare, sono inevitabilmente “stili di vita”, non possono funzionare come “tecniche” se non sono profondamente vissuti come abituali ed inevitabili pratiche relazionali con l’altro da noi, straniero che incontri, amico, paziente. Vi è una base che caratterizza uno “stile dell’essere”, “dell’essere con”: poi è evidente come nelle nostre cure siano fondamentali le nostre tecniche, la competenza, la formazione, la capacità acquisita di cogliere la “natura psicologica” di ogni pensiero, azione, movimento relazionale che si sviluppano nel

∗ Psichiatra, Psicoterapeuta, Psicoanalista di Gruppo, Direttore Scientifico del Centro Racamier CDA Centro Regionale per i Disturbi della Adolescenza e del Comportamento Alimentare, Direttore per i DCA del Centro Scientifico Sanitario Gruppo Redancia. ∗∗ Psicologo e Dottorando di Ricerca presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi Milano-Bicocca. 1

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gioco istituzionale, così come nelle dinamiche di una relazione duale e/o di gruppo (Racamier, 1970)1. Infatti nel lavorare per la salute mentale, la vita e le nostre attività non sono mai così disgiunte. Così nacque l’idea del libro La bottega della Psichiatria (Ferro & Jervis, 1999). Racamier era un artista, o meglio un artigiano raffinato che ha in-segnato lo spazio mentale necessario per questa “bottega” dove teoria e pratica possono crescere in modo sinergico, grazie all’esperienza, la sensibilità, la curiosità mai sazia, il talento individuale dell’artigiano e della sua Scuola (il gruppo di lavoro/équipes). Un padiglione dell’Ospedale di Santa Corona di Pietra Ligure, ospedale con circa 600 letti, porta il suo nome: il padiglione Racamier è una struttura piuttosto bella, comprende un servizio di psichiatria, un CDAA, studi per attività ambulatoriali e spazi per i due Day Hospital. In questo spazio quotidianamente si pratica la terapia istituzionale che Racamier ha insegnato con tanta attenzione e passione. Gli insegnamenti Tra i molteplici aspetti di analisi psicopatologica e clinica che il Professore ha attraversato ed approfondito, in questo testo ne sono ripresi e approfonditi tre, che sono:

- la terapia istituzionale; - il lavoro sulla “maternalità” e sulla “maternalità psicotica”;

1 Paul-Claude Racamier (1924-1996) psichiatra e psicoanalista fra i più importanti della seconda metà del ‘900. Fondamentale il suo lavoro psicoterapico istituzionale con i pazienti psicotici, ha lavorato a Les Rives de Prangins, al XIIIo Arrondissement di Parigi, e ha fondato la comunità terapeutica “La Velotte” a Besançon dove si è concretizzata la sua idea di psichiatria senza manicomio incentrata sulla comprensione della sofferenza dei pazienti e dei loro familiari. Tra i suoi molti scritti ricordiamo Lo Psicoanalista senza divano, Di psicoanalisi in psichiatria, Gli Schizofrenici, Il Genio delle Origini, Angoscia e Depressione.

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- la comprensione dei meccanismi psicopatologici della perversione narcisistica.

La terapia istituzionale Per Racamier la terapia istituzionale si connota per la sua natura sia collettiva sia psicologica. Nella terapia istituzionale quindi “l’attenzione terapeutica, la comprensione psicodinamica, il sostegno emotivo sono rivolti tanto ai curati quanto ai curanti” (P.C. Racamier, 1996) perché nel campo istituzionale è un insieme di persone dalle diverse competenze che amministrano la relazione col paziente, come peraltro spesso i pazienti interagiscono come gruppo nella relazione con i curanti. È molto utile e importante tenere sempre presente la prospettiva secondo la quale il paziente grave, come sono i pazienti psicotici e quelli affetti da forme più critiche di disturbi del comportamento alimentare, tende a impegnare ed impregnare del suo essere il contesto terapeutico e la comunità nel suo insieme. Inevitabilmente quindi l’oggetto della cura è quel particolare contesto, dato dall’insieme di pazienti ed operatori, che rappresenta l’Istituzione curata (Ferro, 2004, 2007) Il concetto di istituzione curata, come fondamento della terapia istituzionale, è uno degli insegnamenti più significativi di Racamier. Egli si riferisce qui alla capacità di leggere la natura psicologica di tutto ciò che afferisce all’assistenza in psichiatria, o meglio alla capacità di “prendersi cura” (P.C. Racamier, 1999), alla curiosità ed al rispetto per il linguaggio dei pazienti: a questo proposito rimane, dopo tanti anni, fondamentale il lavoro di Racamier e Nacht sul delirio (1958). Per sviluppare questo modello di cura è evidente come sia necessario da un lato un continuo e ben temperato lavoro di formazione, di discussione clinica insieme, dall’altro creare lo spazio gruppale, fisico e mentale, per

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permettere una costante metabolizzazione delle esperienze interattive che si sviluppano nel nostro lavoro clinico nelle istituzioni. Infatti “istituzione curata” significa anche tutelare gli operatori dal rischio del restare pietrificati, nella cura di pazienti gravi, dalla Medusa della follia. Racamier ricordava come il lavoro istituzionale promuova un cambiamento nei pazienti che sono aiutati gradualmente a “calare” il ponte levatoio del dia-logo con noi ed il mondo rinunciando così all’utilizzo di meccanismi di difesa massicci e granitici come la scissione e il diniego che avevano comunque loro evitato l’esperienza, quasi incompatibile con la vita, dell’angoscia psicotica. Per fare questa scelta occorre offrire ai nostri pazienti motivazioni più che valide: solo attraverso un prendersi cura, non caritatevole ma pre-vidente, anche di molte cose pratiche della loro vita, li si potrà convincere a lasciare il castello che li separava dall’angoscia psicotica per aprirsi con un minimo di fiducia ad un mondo finalmente abitabile. Scrive Racamier: “prendersi cura dei pazienti psichiatrici significa interessarsi di molte cose pratiche nei settori più diversi. Ci si occupa anche della salute fisica. Ci si occupa di cose che possono sembrare loro indifferenti, ad esempio il colore delle pareti, la disposizione degli spazi in cui vivono o sono ricoverati”. E tali operazioni così concrete presuppongono tuttavia una particolare attenzione ai movimenti consci e inconsci che promuovono. Tutto va osservato con attenzione perché la nostra cura utilizza sempre oggetti concreti che hanno una loro esistenza, qualunque sia l’importanza che gli attribuiscono i pazienti. Mentre in psicoterapia analitica gli “oggetti” sono comunque trattati come “fantasmi”, nella cura istituzionale non si può mai annullare il carattere di realtà e così nessun “oggetto” è privato del proprio significato reale, anche perché è proprio il paziente psicotico che di per sé tende a non cogliere il carattere reale degli oggetti come cose altre da sé. Infatti, il mondo intorno a lui è sempre anche il suo mondo interno lì proiettato, dove talvolta “trasferisce” parti ancora sane che sente di preservare così dalla

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propria distruttività, dove più spesso si libera di parti troppo dolorose o distruttive. Richiamiamo i punti essenziali dell’insegnamento di Racamier sulla terapia istituzionale:

- il concetto di istituzione curata; - la capacità di leggere la natura psicologica di tutto ciò che afferisce all’assistenza psichiatrica;

- la tutela fisica e mentale degli operatori: formazione, dialogo in équipe, confronto con altre esperienze, condivisione dei progetti terapeutici e delle decisioni;

- esistenza di un leader ben formato e riconosciuto come tale dall’équipe;

- cogliere le valenze auto terapeutiche dei sintomi psichiatrici, soprattutto il delirio, per ridurre l’angoscia psicotica;

- utilizzare l’aiuto delle terapie farmacologiche, anche come tutela psicofisica degli operatori;

- lavorare sul gruppo complesso formato da operatori-pazienti e saper cogliere i transfert e i controtransfert che si animano nel lavoro istituzionale, non solo nei pazienti ma anche negli operatori;

- l’attenzione alla famiglia, alle famiglie passate, alle famiglie introiettate nella mente, alle storie transgenerazionali, ai miti familiari delle origini (Racamier, 1985);

- garantire il tempo-spazio fisico e mentale per tutto questo, sopra ricordato, nel lavoro istituzionale.

Ciò permette di capire un po’ di più il paziente, che non è mai solamente la mera somma di sintomi. La crisi della maternalità Negli ultimi anni l’interesse verso le problematiche psichiche che una donna può sviluppare in gravidanza e nel puerperio è molto cresciuto;

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studiosi noti della psiche hanno effettuato molte ricerche per indagare i fattori predittivi e di rischio nell’insorgenza dei quadri psicopatologici della maternità e la loro influenza sullo sviluppo socio-emotivo del bambino. In Europa uno dei primi autori che si è interessato alle problematiche psichiche della maternità è stato Paul-Claude Racamier e nonostante siano passati più di cinquant’anni dalla pubblicazione dei suoi lavori, le sue proposte teoriche e terapeutiche hanno influenzato e influenzano molti clinici e ricercatori, che lavorano in questo campo. Un tema importante nel lavoro di Racamier è il concetto di crisi, che sul piano psichico è vissuta e si sviluppa come una distruzione interna, un sentimento di fine e di morte seguiti, nella maggior parte dei casi quando evolve positivamente, da un sentimento di rinascita. Dunque il processo di crisi rende la personalità più fluida e dà una possibilità maturativa (Racamier, 1985; 2010). La maternità, come l’adolescenza, è un momento di crisi per la donna, momento che rappresenta una fase del suo sviluppo psicoaffettivo. Facendo riferimento alla Mahler (1975) la gravidanza diventa, dopo l’adolescenza, il terzo processo di separazione-individuazione, dal momento che la donna dovrebbe raggiungere una maggiore individuazione e differenziazione di sé nei confronti della propria madre, del partner e delle altre figure rappresentative della sua esistenza. Il vissuto della maternità ha in sé le modalità con le quali la donna ha interiorizzato e strutturato le sue prime esperienze relazionali, sia cognitive sia affettive. La maternità, in quanto crisi fondamentale della vita della donna, è una vera e propria tappa dello sviluppo, dove l’istinto materno è storicizzato in relazione all’evoluzione psichica, la storia personale e la relazione con i propri genitori, in particolare la propria madre. Racamier sottolinea come la relazione della madre con il suo bambino si svolgerà nella sua realtà concreta “sulla tela di fondo” delle relazioni interne interiorizzate (Racamier, 1961). L’attenzione che l’autore pone al rapporto concreto e immaginario della madre con sua madre e come dopo la nascita, la donna sia madre

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e figlia nello stesso momento, ha alcuni punti in comune con il lavoro di Selma Fraiberg. Questa autrice nel 1975, dopo numerose osservazioni dirette del rapporto madre-bambino nei suoi primi anni di vita, ha coniato il concetto di “Ghosts in the nursery”, riferendosi al fatto che a volte i genitori, nell’accudimento e nell’interazione con i figli, facciano “entrare” il loro passato nella relazione presente. Secondo l’autrice i “fantasmi” del passato, ovvero gli oggetti relazionali interiorizzati, possono ripresentarsi interferendo, anche massicciamente, sulle prime relazioni dei genitori con il bambino (Fraiberg et al., 1975). Nella gravidanza, la donna si orienta progressivamente “in senso narcisistico”, in modo tale da amare il suo corpo in trasformazione e il bambino che accoglie in sé nello stesso modo. Il tempo della gravidanza è stato definito da Winnicott (1953) “area transazionale o spazio potenziale”, questa è l’area del rapporto tra due persone, si colloca fra realtà e immaginario, fra la donna in transizione verso la maternità e il bambino fantasmatico, quest’ultimo nasce dalle dinamiche inconsce e consce della madre. Inoltre, noi oggi sappiamo che per la futura madre il delinearsi dell’immagine del figlio nella sua mente e i sentimenti che sperimenta verso queste fantasie, costituiscono le basi dell’attaccamento prenatale (Riva Crugnola, 2012). Il parto segna la conclusione di questa fusione: per la mamma e il neonato, la separazione data dalla nascita è sia gioia per l’incontro con l’altro, sia esperienza traumatica; ma la separazione è solo parziale perché la madre, nei primi mesi dopo il parto, vive in un regime di identificazione profonda, quasi totale, con il suo bambino; Racamier definisce questa relazione “anaclitica”. Winnicott (1956) similmente parla di “preoccupazione materna primaria” per descrivere quello stato mentale della donna che inizia durante la gravidanza ma s’intensifica nei primi mesi di postpartum, durante il quale si assiste a una benevola chiusura su se stessa che l’aiuta ad aumentare la sensibilità nei confronti del proprio bambino, in modo tale da capire i suoi bisogni e anticiparli. L’Io del bambino si strutturerà, secondo entrambi gli autori,

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a partire da questa relazione primaria. Durante il percorso di crescita il bambino comincia a distinguere l’esterno dall’interno e la mamma comincia a vederlo e sentirlo come una persona “a sé”. L’autore definisce questa fase dello sviluppo maternalità, in francese “maternalité” e in inglese “motherhood”. Il termine maternalità è coniato dall’autore per sottolineare l’importanza del processo psichico e affettivo che si sviluppa parallelamente a quello biologico corrispondente alla maternità. La maternalità è un passaggio cruciale della vita della donna che comporta una crisi d’identità, si potrebbe definire come: il percorso di nascita del senso materno nella donna. L’attenzione non è posta solo sul livello biologico del divenire madre, ma questa parola-contenitore racchiude in sé diversi elementi come: l’importanza dello sviluppo socio-emotivo di questo periodo durante il quale la donna è estremamente vulnerabile, i vissuti intrapsichici, le relazioni con le persone significative, le paure e i timori dell’interazione con il bambino che dipende totalmente dalla donna e il definitivo passaggio da “figlia di madre a madre di figlio” (Racamier, 1961; Racamier & Taccani, 2010). In tutte le fasi di passaggio e soprattutto durante la maternalità, le strutture psichiche sono più mutevoli, labili e devono armonizzarsi anche con importanti modifiche somatiche e ormonali, che la gravidanza e il parto portano con sé. In questa fase c’è la potenzialità per un cambiamento creativo e felice, ma possono anche esserci la paura del cambiamento, smarrimenti esistenziali fino a sviluppare veri e propri quadri psicopatologici. Secondo Racamier la maternalità è una fase in cui il funzionamento psichico si avvicina normalmente, ma reversibilmente, a una modalità psicotica, perché l’identità diviene più fragile, meno definita (Racamier, 1961). Dunque questo stato mentale permette alla donna d’instaurare una relazione con il bambino di tipo fusionale e questa è fondamentale nei primi mesi del neonato per la sopravvivenza fisica ed emotiva di quest’ultimo (Bowlby, 1969). Quando la crisi della maternalità non viene superata, secondo Racamier, si può assistere a fallimenti di stile nevrotico e o di livello

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psicotico. Le psicopatologie della maternalità che l’autore individua nella sua pratica clinica sono: depressione da svezzamento, depressione malinconica dell’allattamento e gli stati deliranti (Racamier, 1961). La depressione da svezzamento è una particolare forma di depressione del puerperio, durante la quale la mamma tende a mantenere una simbiosi stretta e prolungata con il piccolo, affascinata dal mito della “madre perfetta” e del “bambino perennemente appagato”. Spesso la donna è alla prima gravidanza e l’allattamento è vissuto come una fase idilliaca, ma i problemi compaiono nello svezzamento che viene vissuto come una “privazione personale”; a causa di un narcisismo fragile della madre questa fase diventa un vero e proprio trauma. Secondo Racamier in questi casi la donna dovrebbe essere aiutata nei compiti che riguardano il lattante e sollevata dalle altre problematiche che la potrebbero riguardare; è molto importante in questa fase valorizzare le realizzazioni materne, in modo tale da decolpevolizzare la neo madre dalle sue difficoltà emotive. Inoltre è necessario comprendere nel lavoro terapeutico il padre e i familiari più vicini alla madre: Racamier sottolinea l’importanza degli interventi psicoeducazionali, che dovrebbero essere dati preventivamente. La depressione melanconica dell’allattamento secondo l’autore si sviluppa nei primi tre mesi dopo il parto ed è contraddistinta da: precedenti stati depressivi, una gravidanza problematica, rifiuto inconscio del bambino ma spesso anche conscio, sentimenti di colpa e una relazione interiorizzata con la propria madre caratterizzata da un’aggressività inconscia e colpevolizzata. In casi estremi in queste psicopatologie, la donna può avere idee deliranti rispetto al bambino come: è stato ucciso, lo rapiranno, il latte non lo nutre, siamo ambedue minacciati dal male o fatti male. Per Racamier questa forte identificazione negativa di tipo malinconico con il bambino può porre il rischio del suicidio a due. La descrizione della depressione melanconica dell’allattamento ha forti somiglianze con la depressione post-partum, psicopatologia della maternità individuata soprattutto a partire dagli anni ottanta-novanta

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sulla quale negli ultimi anni si è posta molta attenzione. Considerando la descrizione della depressione post-partum effettuata da Raphael-Leff e successivamente da altri autori (Raphael-Leff, 1991; Murray & Cooper, 1999; Nonacs, 2005), si possono notare molti elementi in comune fra queste due psicopatologie. Questi individuano i sintomi della depressione post-partum in: sentimenti d’inadeguatezza, incompetenza, vergogna, disperazione, collera, ipersensibilità, ansia, odio verso se stesse o il bambino, disturbi dell’appetito, del sonno, calo del desiderio sessuale, pensieri suicidari, pensieri di carattere ossessivo verso il bambino, paure immotivate non legate alla realtà di poter fare del male al figlio, fino in casi estremi, pensieri infanticidi. Negli stati deliranti, già alla fine della gravidanza, sono presenti dei disturbi psichici che si accentueranno dopo la nascita del figlio. Questi stati si sviluppano velocemente nei primi giorni di puerperio, il quadro clinico può oscillare dal delirio paranoico allo stato onirico, ma ciò che lo contraddistingue è una coscienza di sé alterata. In queste pazienti l’esperienza della maternità non è supportata dall’entourage familiare e spesso ci sono relazioni interpersonali tumultuose soprattutto con la propria madre. Il bambino in queste donne è vissuto, già dalla gravidanza, come un corpo estraneo; le cure di cui il bambino necessita sono un impegno troppo gravoso e difficile per la madre che non riesce a vivere la relazione (fusionale) della diade. La famiglia di queste donne appare spesso fragile: i padri hanno difficoltà a sostenere la compagna e le madri delle puerpere sono assenti o poco vicine. Per quanto riguarda la cura delle psicopatologia del puerperio, soprattutto delle ultime due descritte, Racamier è stato il pioniere del concetto di ricovero congiunto madre e bambino. I ricoveri congiunti sono stati sperimentati nelle Unità di Crisi inaugurate negli anni sessanta a Parigi da Racamier; in questi luoghi le pazienti con psicopatologie del puerperio possono essere curate adeguatamente, ma al tempo stesso viene evitata la rottura della relazione madre-bambino, che è anzi supportata da un ambiente protettivo e molto attento. L’autore sottolinea come non si debba separare la diade madre-

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bambino e come al tempo stesso non si debba lasciare sola la donna. La puerpera va aiutata, sostenuta da una persona, o meglio da un’équipe accogliente, sicura e valorizzante. Nei ricoveri congiunti, secondo Racamier, sono utili azioni parlanti, piuttosto che interpretazioni di tipo analitico, che riducano le angosce e favoriscano il percorso verso l’assunzione della maternità. L’autore sosteneva come la separazione netta della diade madre-bambino fosse un fattore praticamente certo di esito negativo per la prognosi. Dunque il trattamento delle donne che soffrono di psicopatologie del puerperio, dev’essere centrato sull’osservazione e sulla cura della relazione madre-bambino (Racamier, 1961, 1970, 2010). La creazione delle Unità di Crisi e il lavoro clinico di Racamier sulla relazione madre e bambino, ha fortemente influenzato gli studiosi che dopo di lui si sono interessati alle psicopatologie perinatali: questo lavoro ha messo le basi teoriche e metodologiche per la successiva creazione dei “Mother and Baby Unit”. Queste strutture prevedono il ricovero congiunto della madre con una psicopatologia e il suo bambino e il trattamento, che si svolge articolato in molte attività, è centrato sulla relazione madre-bambino. La prima “Mother and Baby Unit” è stata creata negli anni ottanta dal Professor Kumar, uno dei massimi studiosi della psicologia dello sviluppo in Gran Bretagna e nel mondo, a Londra presso il Bethlem Royal Hospital (Kumar, 1995). Dunque, il contributo di Paul-Claude Racamier sulle psicopatologie della perinatalità è stato molto importante grazie alla creazione del concetto di maternalità e delle Unità di Crisi; l’autore negli anni cinquanta ha posto alcune basi teoriche e metodologiche che sono state fondamentali per il lavoro negli anni successivi di molti studiosi della maternità a rischio come: Tronick, Sameroff, Field, Milgrom, Murray, Bydloswky, Guedeney, Ammaniti e Kumar.

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Dall’agire che tace all’azione che parla ovvero dall’antipensiero al pensiero riflessivo e affettivo Per Racamier (1992, 1995, 1996) l’agire “domina” nelle patologie gravi. Egli distingue: un agire/passaggio all’atto modesto, comunque contenuto, ed un agire che funziona come uno tsunami, ovvero esplosivo, debordante, apparentemente “assoluto”. L’agire “continuato” può divenire il modo prevalente di essere nella relazione con sé e il mondo. Per Racamier questo “agire” più grave è il fondo costante che caratterizza l’essere di questi particolari pazienti, che “agiscono” la loro sofferenza, liberandosi così da pensieri e sentimenti che non sanno sostenere e contenere. È una vera modalità d’essere, dove il mondo è negato nella sua alterità. Questa dinamica può interessare individui, gruppi, famiglie ed anche intere società, in particolari momenti prolungati della loro storia. Per comprendere queste modalità relazionali Racamier introduce il concetto di una nuova “topica” della mente. Egli scrive di “spazi”, “spazi vissuti” come:

1) lo spazio interiore, che rimanda all’intrapsichico, ai “fantasmi” (rappresentazioni relazionali: oggetti interni, famiglie interne, miti e storie transgenerazionali);

2) lo spazio transizionale che apre al registro dell’interpsichico dove i fantasmi sono rappresentazione del desiderio (amore, odio), la capacità di rêverie… di simbolizzazione: essi aprono ai rapporti con il mondo, con le altre menti. È lo spazio dell’interpsichico;

3) Lo spazio del transpsichismo a fronte di una mente, di un apparato psichico che sembrano alienati, privati dello spazio corporeo dell’essere;

4) Racamier insiste spesso su come lo spazio transizionale, intermediaire, sia necessario anche se virtuale, fantasmatico, per permettere la dimensione relazionale-sociale dell’interpsichismo dalla quale scaturisce la possibilità di sviluppare abbastanza

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stabilmente la capacità di “produrre esami di realtà”(Racamier, 1996).

Lo spazio terzo dell’interpsichico è quindi registro di realtà perché la realtà non è “una e indivisibile” ma “multipla e polivalente”, inevitabilmente ambigua dimensione mentale positiva per il Professore. Quando invece prevale lo spazio del trans-psichismo, il super agire costante diviene un’organizzazione difensiva, narcisistica maligna, totalizzante. Si tratta di un processo che Racamier chiama l’arte del cortocircuito (1995). A questo proposito egli mette a fuoco due regole dell’“agire perverso e della sua messinscena”:

1) il blocco del funzionamento intrapsichico (autoriflessione, il pensar su di sé);

2) usare l’“altro” come vettore, come strumento. Il fine di questo agire, “criminale”, è negare i desideri, i fantasmi interni, una possibile rappresentazione di sé e così negare l’autonomia della realtà esterna, come irriducibilmente altra rispetto a noi.

L’arte del cortocircuito opera attraverso “vettori”, che sono persone che vengono depersonalizzate, spogliate d’individualità propria. L’“activateur”, colui che agisce la perversione relazionale, è solo in parte consapevole di questo suo agire e soprattutto non è consapevole che il risultato sarà anche la negazione di se stesso come “essere che può esistere in relazione con”. Racamier introduce a questo proposito il concetto di thanatoforo “portatore di morte” (Racamier, 1992). È, a nostro avviso, un concetto molto importante ed originale ma non molto conosciuto in Italia. La nozione di thanatoforo Il termine è coniato da Emmanuel Diet (1996), ma Racamier lo approfondirà soprattutto negli scritti dell’ultimo decennio della sua

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vita. Thanatoforo è detto il soggetto che è non solo “portatore ma sorgente della distruttività sofferta o constatata”. Egli esprime, svela la forza del suo “odio agito” soprattutto nella dimensione gruppale, nei gruppi reali e organizzazionali, dove si fa vettore di una “funzione fisica di distruzione” squalificando i soggetti nella loro parola, nel loro desiderio, nella loro identità e nella loro pratica. Essi colgono le fratture, i conflitti e, con la propria rabbia e l’invidia, lavorano per la mortificazione della vita psichica dei membri del gruppo (da micro a macro) per la frantumazione, la morte dell’istituzione. I movimenti del thanatoforo saranno allora di distruttività, d’invidia contro ogni tentativo dello staff di dare un senso, una possibilità di comprensione degli accadimenti individuali, gruppali e dell’istituzione verso l’accettazione dei limiti, delle differenze individuali, verso i disvelamenti delle ripetitività transferali per costruire un minimo senso comune del faticoso lavoro terapeutico che si cerca, insieme, di portare avanti attraverso “lo scambio e la collaborazione”. Il thanatoforo − scrive − come novello Alien, si nutre dei “cambiamenti di posizioni e di funzioni nel gruppo”, di fronte alle debolezze dettate dalla neutralità comprensiva di terapeuti che siano poco inclini ad interventi attivi per difendere il funzionamento mentale del gruppo, ma ancor più la sopravvivenza della istituzione di cura. Sono necessari terapeuti che, prima di tutto, sappiano cogliere controtransferalmente l’atmosfera distruttiva e poi sappiano “chiamare per nome e localizzare la distruttività e – infine – permettere la reinstaurazione dei confini simbolizzanti” (Diet, 1996). Rimandiamo qui ad un lavoro presentato al Congresso Mondiale IAGP a Roma nel 2010, dove venivano portati degli esempi di clinica istituzionale in merito a questa potenza negativa (Ferro, 2011). Green (1983) parla di “narcisismo di morte” dove predominano meccanismi di diniego e scissione, la negazione della struttura Edipica e dell’elaborazione del lutto che produrranno fobie, paranoia, perversioni

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e psicopatie e, a livello sociale, trasgressioni e manipolazioni ed attacchi dello stato di diritto e di valori come libertà, fraternità, uguaglianza, laicità, rispetto dell’altro da noi. Racamier ricorda come per definirlo, individuarlo, dobbiamo però accettare di fare i conti con le nostre parti malate, incongrue, perverse, con il fascino che la megalomania delirante provoca in noi. Un quadro organizzativo istituzionale affidabile, coerente, o almeno l’esistenza di quella che Claudio Neri chiamava “la comunità dei fratelli” (1995), possono “placare” la distruttività di questi “personaggi” che non tollerano, quando sono in gruppo, conflittualità, differenziazioni, (sesso, cultura, età) lutti e separazioni. L’agire continuato e le patologie del “quarto tipo” Per Racamier l’agire continuato, come modalità prevalente dell’essere, comporta un funzionamento mentale che sta prevalentemente nel registro del “non-umano”: questa modalità malsana produce quella sensazione di estraneità che si prova di fronte a queste persone che non sembrano avere lo spazio del pensiero. Gli stimoli, le eccitazioni legate al desiderio sono espulsi, evacuati. Sono espulsi come proiettili che “perforano il mondo attraverso deserti mentali ed emotivi dove non nasce lo spazio della libido” (Racamier, 1996). Ecco allora la grande “miseria”, la “povertà psichica e mentale” di questi pazienti e più in generale delle non poche persone “normali”, forse ipernormali, che si muovono così nel mondo. La persona/persone/gruppi/una parte cospicua di un popolo possono divenire in particolari momenti di fragilità, di estrema mortificazione materiale e morale nel vivere, strumenti dell’agire perverso (perversione narcisistica) dell’Attivatore.

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In questo modo può strutturarsi la dipendenza dal potere che, manipolando le relazioni, sembra divenire necessario, quasi desiderato: io ti delego il mio pensiero e tu mi liberi dalla fatica del confrontarmi coll’ambiguità conflittuale del vivere quotidiano e dal dolore del riconoscere la complessità dell’esistere, l’esistere emotivo, il lutto, il dolore, il bisogno di relazione. Racamier evidenzia quindi i rischi di “deriva” della democrazia quando prevalgono tra le persone meccanismi relazionali perversi, che facilitano, come ricordavano Freud in Psicologia delle masse ed analisi dell’Io (1921) ed Elias Canetti in Massa e potere (1981), la mortificazione del pensiero individuale ed il ritorno alla massa non pensante che delega al “prescelto” le decisioni della propria vita. Resnik direbbe che l’individuo delega la propria peculiarità al deus ex machina che dà ogni risposta e ci preserva dall’agire pensato (Resnik, 2014 in pubblicazione). Racamier propone alla fine della sua vita, intuendo l’evoluzione della patologia che si sviluppa dagli anni novanta e si rafforza e dilata nel primo decennio del 2000: la patologia del quarto tipo, la patologia dell’agire che nega il pensiero e il suo spazio mentale. A proposito delle patologie “del quarto tipo” si richiama qui il testo L’epoca delle passioni tristi di Miguel Benasayag e Gerald Schmit (2003) dove gli autori evidenziano come queste nuove forme espressive della sofferenza psichica si caratterizzino per un sentimento permanente di insicurezza, di precarietà, talvolta di vergogna e/o di rabbia e frustrazione indicibile, che soprattutto nei giovani, sembra non trovare limiti e contenitori solidi affettivi ed affidabili. Simona Argentieri osserva peraltro come vi sia sempre più “una sorta di ambivalenza del pensiero che consente a livello individuale e collettivo di eludere la fatica delle proprie responsabilità e delle proprie scelte, in una deriva silenziosa ma inarrestata; dove è considerata ormai normalità una mentalità dominante dove sembra esservi sempre meno spazio per il conflitto, per la responsabilità e forse anche per la colpa, e comunque per l’etica e dove trova spazio sorprendente la malafede e il

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rifiuto di un tempo e di uno spazio mentale individuale e collettivo per il pensare” (2008). Racamier, infine, consiglia di porre particolare cura, nell’incontro con questi pazienti, nel tutelare lo spazio mentale in noi per pensieri, sentimenti, fantasie, perché dobbiamo costantemente cercare di sentire e di comprendere cosa si muove in noi nell’attivazione transferale e controtransferale. Un lavoro in noi e tra di noi, prima di animarlo sulla scena terapeutica. Racamier scrive: “niente ci spinge al contro agire come un agire diventato modalità d’essere continuativa (penetrante e perversa), per cui invita all’uso dello “specchio intimo” attivato nelle riflessione di équipe dove il piacere, il gusto per le immagini, il riconoscimento delle emozioni, il desiderio di comprendere, la ricerca temperata di verità sono antidoti al contro-agire: solo attraverso il ri-conoscere la natura del nostro contro-agire, potremo penetrare il nucleo profondo dell’agire continuato, dell’acting, dell’agire che taglia, rompe, separa, distrugge. È allora necessario, per tentare di curare questi pazienti, ri-costituire o costituire per la prima volta lo spazio “intermediaire”, transizionale, spazio di scena dove si possa vedere in azione, comprenderlo e rimodularlo gradualmente, il teatro dell’“agire agito”, nei pazienti, in noi ed in quel particolare gruppo che è dato dall’insieme di operatori e pazienti: l’istituzione curata. Abbiamo voluto, attraverso il pensiero del Professore, evidenziare come il nostro lavoro, come peraltro in tutti gli ambiti della medicina, si muova sempre ai limiti dell’impossibile, dell’utopia, del territorio che non c’è… non c’è ancora… ma poi sorprendentemente può nascere. Luc Ciompi, peraltro, ricordava come una speranza tenace, curiosa, creativa, ma ben temperata in chi cura resti un fattore prognostico fondamentale (1984). Concludiamo così il nostro ricordo del Professore Paul-Claude Racamier con la speranza di avere trasmesso anche ai lettori la speranza, la curiosità, l’ardimento scientifico con i quali il Maestro stesso ha sempre pensato, lavorato e insegnato.

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RIASSUNTO P.C. Racamier era un artigiano raffinato che ci ha in-segnato lo spazio mentale per una “Bottega della Psichiatria” dove teoria e pratica potessero crescere in modo sinergico, grazie all’esperienza, la sensibilità, la curiosità mai sazia di talento individuale dell’artigiano e della sua scuola, per noi il gruppo di lavoro/équipe. L’elaborato affronta tre temi tra i tanti che l’autore ha approfondito durante la sua vita e professione, che sono: la Terapia Istituzionale ed il concetto di Istituzione curata, il lavoro sulla “maternalità” e sulla “maternalità psicotica” e la comprensione dei meccanismi psicopatologici della perversione narcisistica. PAROLE CHIAVE Terapia istituzionale, perversione narcisistica, terapia di comunità, psicoanalisi, maternità a rischio, depressione perinatale, thanatoforo.

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SUMMARY P.C. Racamier was an artisan of psyche who introduced us to the concept of mental space in order to have an Atelier of Psychiatry, where theory and practice could grow in sinergy, thanks to the experience, sensibility, curiosity of the psychiatrist artisan and of his school, also known as the équipe/work group. Among the subjects of his psychopathology and clinical analysis, we will focus on three of the major aspects P.C. Racamier dealt with: Institutional Psychotherapy and the concept of the Cured Institution, his work on the maternalité and psychotic motherhood and the study and analisys of Narcissistic Perversion. KEY WORDS Institutional psychotherapy, narcissistic perversion, psychoanalysis, motherhood at risk, perinatal depression, thanatoforo.

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Appunti di viaggio

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Pier Giorgio Semboloni∗ La costruzione del terapeuta relazionale sistemico tra arte, artigianato, didattica ed epistemologia2 Premessa Introduco questo lavoro con alcune considerazioni a proposito del senso che vorrei assumesse per i terapeuti in formazione e docenti delle scuole di psicoterapia eventualmente interessati all’argomento. Se la psicoterapia sia più un “arte o professione scientifica” è stato dibattuto in molte occasioni, ma, sgombrato il campo dall’idea che senza una formazione scientifica si possa svolgere quest’attività così delicata e per certi aspetti rischiosa, tanto per il paziente che per il terapeuta, quello che mi interessa è mettere al centro l’aspetto esperienziale attraverso il quale l’allievo possa tendere ad acquisire un’identità oltreché una competenza di psicoterapeuta idonea allo svolgimento del difficile compito: “la terapia della psiche” secondo il modello prescelto. A questo proposito, dando per scontato che esistono ottime letture teoriche ed ottimi colleghi che svolgono con passione e competenza l’attività didattica, la mia proposta è interessata a suscitare attenzione sugli aspetti della formazione che vanno oltre quelli che chiamerei “i fondamentali”, che rappresentano la condizione necessaria ma non sufficiente per proseguire il cammino verso la propria identità e il proprio stile terapeutico.

∗ Psichiatra, Psicoterapeuta, Codirettore della Scuola di Psicoterapia Relazionale Sistemica del “Centro Genovese di Terapia della Famiglia”. 2 Relazione presentata alla Conferenza X giornate della “Red Europea y Latinoamericana de Terapia Sistémica”, Guadalajara (Mexico), 20 giugno 2014.

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Ho ritenuto quindi di utilizzare a questo scopo come riferimento: a) alcuni “veterani” della terapia familiare e dell’epistemologia sistemica come furono definiti in un noto simposio organizzato a Roma alla scuola di Andofi: G. Bateson, G.F. Cecchin, S. Minuchin, B. Kenney; b) una metodologia rigorosa nell’acquisire consapevolezza di sé quale quella della di derivazione di teatro.

A questo proposito mi si conceda anche, senza suscitare troppo scandalo, avendone con questa premessa chiarito il senso, l’uso, quale metafora, della parola “improvvisazione” nella sua accezione di derivazione musicale, ritenendo l’attività teorico pratica del musicista professionista un’attività altrettanto rigorosa per svolgere la quale è necessaria una sensibilità particolare oltre che una solida formazione. Si dice che Stanislavskij sia stato un “matematico nel teatro” come Salieri nella musica, invece lui scrisse nel suo diario: “ripudio tutti gli allievi che trasformano il mio insegnamento in matematica”. La sua teoria sull’attore la spiegò in un’opera intitolata La costruzione del personaggio, nella quale segnalava che l’attore deve dimenticare ogni istrionismo o cliché, senza accettare le imposizioni dell’autore o del regista. Deve invece cercare attraverso un duro esercizio la naturalezza dell’interpretazione. Per raggiungere un’interpretazione naturale l’attore deve recuperare i suoi ricordi, la sua vita, le sue esperienze. L’attore deve investigare sui propri sentimenti per porsi al servizio del suo personaggio. Non si tratta solo d’introspezione psicologica, ma d’immaginazione, creatività, di qualcosa che non è scritto nel testo teatrale. La recitazione dev’essere interpretativa, non rappresentativa, poiché questo implicherebbe che l’attore si limita a copiare qualcosa di già noto. Questa teoria ebbe sviluppi importanti, soprattutto negli Stati Uniti, poiché si adattava bene al modo di recitare degli attori del cinema.

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Negli anni quaranta Elia Kazan fondò l’Actors Studio a New York applicando il metodo Stanislavskij ad attori come Paul Newman, Al Pacino, Marlon Brando. Lee Strasberg sviluppò in maniera creativa questo metodo. Si potrebbe aggiungere a questo che anche la recitazione si basa su un’interazione: quella di un attore con un altro e di questi con il pubblico. Venendo alla psicoterapia, Bradford Keeney (terapeuta familiare ed epistemologo) ha scritto: “Il campo della terapia è pieno di troppe storie di eminenti terapeuti che continuano ripetendo lo stesso contributo (intervento, stile, spiegazione, o libro) sino all’infinito, divenendo ogni giorno meno immaginativi e meno vivi. …per rassicurarsi che il loro modo è quello giusto o il migliore girano circondandosi di un esercito di terapeuti prevedibili… terapeuti clonati a immagine del maestro morto” (Keeney, 1992). D’altra parte, nel suo Family therapy techniques Salvador Minuchin (1981) scrive: “Il campo della Terapia Familiare è pieno di clinici che spostano le sedie… alla Minuchin, che danno compiti alla Haley, che badano innanzitutto al processo alla Whitaker, che offrono paradossi in Italiano, che legano gente con corde alla Satir, che aggiungono grani di etica alla B. Nagy, che incoraggiano pianti catartici alla Paul, che rivedono un tape della seduta con la famiglia alla maniera di Alger e talvolta mescolano tutti questi metodi durante una seduta. Probabilmente questa insalata di tecniche se condita con intelligenza, può produrre un immediato e salutare volo verso la salute in qualche famiglia. Ma questa non è un’impresa facilmente riproducibile e fallirebbe nelle mani di un terapeuta normale… Come nel training del samurai lo studente ha bisogno di un numero di anni per acquisire competenza e molti di più per acquisire spontaneità”. Minuchin riprende così l’esempio dell’antico training per addestrare i guerrieri samurai, descritto da Miyamoto Masashi nel XV secolo. Anche il training del samurai era un training per acquisire spontaneità: solo se l’arma era una continuazione del braccio il samurai poteva

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sopravvivere. Per divenire un maestro egli doveva fare un training come guerriero per tre o cinque anni, poi per un certo numero di anni doveva passare il suo tempo a formarsi in campi che non avevano nulla in comune con l’arte della guerra, come la pittura, la poesia, la calligrafia. Solo dopo essersi impadronito di queste abilità intellettuali poteva tornare indietro. Egli sarebbe diventato un samurai perché aveva dimenticato le tecniche e il braccio sarebbe divenuto una continuazione dell’arma. Questo‚ il significato dato al concetto di terapeuta spontaneo. Secondo Keeney la pratica della psicoterapia è molto più vicina alla pratica di un artista che crea piuttosto che a quella di un medico che diagnostica e cura o di chi utilizza modelli meccanici per l’intervento terapeutico. È così che cerca di elaborare un metodo che consenta di liberare e indirizzare nell’improvvisazione la creatività del terapeuta. Questa idea d’improvvisazione solo apparentemente potrebbe sembrare opposta al training rigoroso del samurai di Minuchin, perché in realtà, come tutti gli artisti sanno, l’improvvisazione è il culmine della preparazione. Per improvvisare, tutte le tecniche della propria disciplina artistica devono essere rigorosamente padroneggiate (v. i musicisti). Solo un maestro può improvvisare, utilizzando le invenzioni creative della propria immaginazione, essendo consapevole delle proprie risorse e limiti, evitando che l’ammirazione per i maestri diventi un ostacolo per la creazione di un proprio stile. È così che ancora Keeney fornisce questi consigli ai futuri terapeuti:

1. Coltivate una sana irriverenza per tutti gli insegnanti e gli insegnamenti (questo incluso).

2. Fate quello che volete con qualsiasi modello terapeutico, scuola o orientamento… utilizzatelo, ignoratelo, prendetelo a calci, invertitelo, rovesciatelo, stravolgetelo, fraintendetelo, fatevene gioco.

3. Fate attenzione quando la terapia non sembra più un gioco, senza dimenticare che il gioco è una cosa seria.

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4. Sperimentate la psicoterapia come se fosse un teatro: quando diventa noiosa, cambiate qualsiasi cosa… il copione, gli attori, il regista, il pubblico.

5. La teoria è critica per l’evoluzione del lavoro clinico: ogni nuova comprensione fa di voi una persona diversa… la persona che eravate più la nuova comprensione. Questa nuova persona non deve necessariamente continuare a fare quello che andava bene per la persona che eravate in precedenza. Ciò significa che dovete imparare a fare qualcosa di diverso. Fare qualcosa di diverso conduce a una nuova esperienza che a sua volta può essere soggetta alla comprensione (Keeney, 1992).

Nel primo capitolo del libro Irriverenza. Una strategia di sopravvivenza per i terapeuti (Cecchin, 1993), parlando di quello a cui va incontro un principiante scrive: “La prima decisione ardua che deve prendere un terapeuta è quella di scegliere una scuola. Ben presto, qualcuno potrebbe dirgli che la scelta della scuola è legata ai suoi problemi personali. Quando poi inizia a lavorare in un’istituzione, ad esempio in una struttura di ricovero psichiatrico, facilmente gli obiettano che tutto ciò che ha imparato nel training di terapia familiare non si adatta al contesto in cui opera. Nella ricerca di una guida a cui ispirarsi, partecipa a seminari tenuti da guru che cercano di convincerlo di aver trovato l’unico modo corretto di far terapia. Quando s’impegna in una seduta con una coppia o una famiglia, rischia di apparire succube della cultura patriarcale dominante o di mettere in imbarazzo i suoi interlocutori professando inclinazioni femministe più o meno al passo coi tempi ma inopportune in quel contesto specifico. Il doppio legame più comune in cui finisce intrappolato scatta quando un supervisore o un insegnante gli dicono che tutto quello che fa è sbagliato perché‚ troppo meccanico, artificioso e che dovrebbe essere più spontaneamente creativo (cioè comportarsi proprio come loro). Quando, con una famiglia parla liberamente, senza presupposti e obiettivi troppo definiti, il supervisore lo rimprovera di essere troppo salottiero o conversativo, come si dice in gergo e di non assumersi la

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responsabilità del cambiamento (peccato capitale per un terapeuta serio). Quando al contrario, il suo atteggiamento in seduta‚ più direttivo e punta alla soluzione dei problemi, lo accuseranno di inclinazioni dittatoriali o colonizzatrici, il che significa mancanza di rispetto verso la famiglia, la sua storia e la sua cultura”. Proseguendo nel suo discorso sull’irriverenza Cecchin giunge quindi a citare Bateson (1972) e una storia che riguarda l’epoca in cui nelle isole Hawaii stava studiando la comunicazione nei delfini. Per finanziare tale ricerca Bateson aveva organizzato uno spettacolo con i delfini a cui il pubblico poteva assistere, osservando l’addestramento degli animali ai quali s’insegnava qualcosa di diverso ogni volta che si esibivano. “Se l’animale eseguiva un modulo nuovo veniva premiato, ma non se lo ripeteva. Il delfino si trovava così in una difficile situazione: tutto ciò che in uno spettacolo andava bene ed era stato premiato, in quello successivo era sbagliato perché non era più nuovo. Un giorno, dopo numerosi e frustranti tentativi di ottenere la ricompensa ripetendo il comportamento iniziale, un delfino si mostrò eccitatissimo: dava grandi colpi di coda nella vasca di attesa e quando lo fecero uscire eseguì subito una serie di moduli nuovi mai osservati prima nella sua specie. Nei termini di Bateson quel delfino aveva compiuto un salto di livello logico, passando da un apprendimento puro e semplice del tipo ‘se fai x, ottieni y’, all’apprendimento di un contesto in cui, per ottenere y, x dev’essere ogni volta diverso. Anche noi ci siamo trovati in una situazione simile a quella del delfino. Dopo anni di frustrazioni, la scoperta dell’irriverenza ci ha permesso di fare il salto, liberandoci dal circolo vizioso di problemi, che, in un’ottica diversa, non ci apparvero più come ostacoli insormontabili ma come risorse utili” (Cecchin, 1993). Tutto ciò ha a che fare con quello che Gregory Bateson ha definito “Deuteroapprendimento”, la modalità cioè attraverso cui si apprende ad apprendere.

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Un altro aspetto del fare terapia è legato all’evento estetico di un terapeuta che utilizza la sua arte narrativa per esprimersi con chi sta di qua e di là dallo specchio, confrontandosi oltre che con le sue teorie di riferimento con le sue emozioni. Il controllo e l’utilizzazione delle emozioni non riguarda solo il terapeuta, un altro esempio è quello dell’attore e delle sue tecniche interpretative e di autocontrollo: non è sufficiente sapere come fare, è necessario farlo nella maniera adeguata: è l’interpretazione che determina il risultato. Si può quindi considerare l’esperienza teatrale come formatrice sia a livello pratico che teorico (tempi, ritmi, toni, colori). Minuchin (1981) ha parlato spesso della terapia come una danza e noi ci chiediamo se sia possibile danzare senza disporre di un orecchio musicale, solo conoscendo i passi di una danza… immaginatevi un ballerino di tango che faccia i passi di questo ballo o di una milonga con un fondo rock o di polka. I passi di per sé saranno corretti, perfetti, ma non hanno niente a che vedere con la melodia. Da un altro punto di vista, per quello che ci riguarda come Scuola di Milano, un altro tema è centrale, quello della curiosità, cioè se sia sufficiente avere un copione e seguirlo quando si fa una terapia. Noi crediamo che il copione della famiglia o dello stesso terapeuta dev’essere cambiato durante il lavoro terapeutico, ma questo implica che i copioni non siano ripetibili. Utilizzando la metafora del teatro, mi è nata un’altra domanda: il Terapeuta è una maschera o un attore? Sono andato a vedere quello che si è scritto a proposito dell’utilizzazione delle maschere. Si dice ad esempio che nel folklore e nei rituali primitivi il fatto di ricoprire il volto fosse una forma simbolica e magica attraverso la quale il possessore della maschera nascondeva il suo vero io; questo gli permetteva di evitare che, per mezzo di una pratica magica gli fosse rubata la sua immagine, per riprodurla. Un altro aspetto della maschera è che questa infondeva in quello che la indossava la potenza o la forza di colui che la maschera rappresentava.

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La maschera era anche uno strumento che gli uomini utilizzavano nei loro rituali per infondere terrore agli spiriti maligni nelle pratiche di esorcismo. Questi aspetti sono anche nella terapia. A volte il terapeuta assomiglia a qualcuno che utilizza la sua immagine, o l’immagine di cui dispone, per fare esorcismi, per avere una potenza che, in certe occasioni arriva ad essere un’idea di onnipotenza con i problemi che ne possono derivare. Ma nel teatro vediamo che la maschera, in una determinata epoca, arrivò ad essere qualcosa di meno fisso, con una minore rigidità. Quella maschera simbolica e fissa viene sostituita nella Commedia Italiana da maschere di personaggi che rappresentano un po’ il temperamento dell’attore. C’è un’identificazione dell’attore che interpreta questo personaggio (con la maschera o senza la maschera) con un tipo fisso e ripetitivo sempre uguale. Tuttavia giunse un momento in cui la Commedia dell’arte italiana abbandonò questa maschera. Con Carlo Goldoni e con il teatro comico praticamente si definì il passaggio dall’attore che si presenta e rappresenta come un personaggio con determinate caratteristiche, all’attore più complesso. L’attore dunque deve lasciare la maschera per essere attore. Il Terapeuta deve abbandonare la maschera per trovare il suo stile terapeutico. Le maschere dei grandi padri della terapia familiare non sono sufficienti in situazioni di grande intensità. In questi casi il terapeuta deve:

- analizzare il contesto più ampio nel quale l’evento è situato; - utilizzare le proprie risorse per uscire da tale situazione.

A volte nella mia esperienza didattica ho visto che gli allievi hanno fretta di raggiungere la tecnica del maestro e di nascondersi dietro alla maschera. La Scuola di Milano, quando era ancora un gruppo unico, formato da Selvini, Boscolo, Cecchin e Prata faceva la formazione in quella città e lì, nel loro studio gli allievi imparavano a fare interventi paradossali. Poi tornavano a casa loro e cercavano di applicare i paradossi a cui

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avevano assistito alla lettera. Spesso non funzionavano allo stesso modo. Il problema era che:

- il loro contesto era diverso; - lo stile, cioè, la capacità di usare le loro risorse in quel contesto era differente;

- fu anche a seguito di questa osservazione che Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin svilupparono particolarmente in seguito nella didattica un’attenzione ai feedback degli allievi e ai contesti dove gli allievi operavano, sino a recarsi a supervisionarli direttamente nei loro contesti di lavoro. In particolare questo lavoro di supervisione fu svolto presso il Servizio di Salute Mentale della IX USL, a Sestri Ponente con un’équipe di cui faceva parte anche il sottoscritto e presso il Consultorio della USL XV in via Centurione Bracelli con Lia Mastropaolo.

Chi si è formato con questa metodologia si è reso conto dell’importanza del gruppo di formazione per quello che questi gruppi possono offrire ai maestri attenti al feedback. Nella didattica si deve tenere in conto l’aspetto metodologico: l’attitudine attiva degli alunni di fronte a quello che il maestro insegna. Non si tratta di creare cloni, di fare una clonazione dei maestri. Le imitazioni difficilmente arrivano ad essere superiori all’originale, anche nell’Arte. Nel teatro, ad esempio, la recitazione si basa, a mio giudizio, sull’interazione: l’interazione di un attore con un altro e con il pubblico. Naturalmente parlare di stili interpretativi è qualcosa di molto complesso, giacché lo stile è qualcosa di molto personale. Possiamo però parlare di teorie che nel teatro hanno contribuito a formare un determinato stile. Il teatro è la prima forma di recitazione ed ha un’origine quasi mistica. Il teatro occidentale nasce con i misteri Eleusini, celebrazioni con un

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coro che recitava, danzava e in certi momenti uno dei suoi membri usciva dal gruppo per dialogare. Era l’“hypokrités”. Poco a poco questi rituali sacri furono codificati e comparve un copione. Gli autori più grandi furono Frinico di cui non è rimasto nulla, Eschilo, Sofocle, Euripide. Furono gli inventori del teatro occidentale ed è curioso constare che vissero tutti in un arco di 95 anni nel V secolo a.C., mentre nello stesso periodo, un altro grande, Aristofane, inventò la commedia, sempre ad Atene. Da lì si è generato tutto il movimento artistico: il teatro, la musica, la danza, le arti plastiche. Si sono anche sviluppate le contraddizioni inerenti il genere teatrale: il problema della maschera, dell’interpretazione, l’essere umano sulla scena come maschera con voce o come maschera con qualcuno che vive dietro di lei. Alla fine dell’età media comparvero attori itineranti, che pure portavano maschere di buffoni e vennero a rifondare il teatro, un teatro orientato verso il popolo e che abbandonava la rigidità imposta dalle sacre rappresentazioni. I giullari e i buffoni occuparono uno spazio fuori dell’ambito del sacro e così nacque la Commedia dell’Arte italiana e la commedia francese. Durante questo processo comparve anche il mimo, l’espressione corporale. La commedia dell’Arte fece nascere i suoi personaggi dagli stereotipi delle città: Arlecchino a Venezia, Pulcinella a Napoli, ecc., personaggi che ebbero un’evoluzione. Erano sempre gli stessi, ma ogni attore li interpretava con il suo stile. Si tolsero la maschera e ogni attore cominciò a recitare senza. Diderot, in pieno illuminismo segnala che l’attore dev’essere schiavo del testo scritto, del copione. Questo significa che l’attore deve stare al servizio dell’autore. L’attore non può improvvisare nella sua interpretazione. L’importante è il testo. La dottrina di Diderot ebbe grande successo in Francia. In Italia e in Spagna, tuttavia non rinunciarono alla loro autonomia interpretativa e al loro istrionismo.

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Il teatro non cercava d’interpretare, in uno stile naturale, una mera imitazione della vita. Alla fine del secolo XIX nasce un altro movimento che insisterà sul naturalismo, alla ricerca della naturalezza. Questo si sviluppa soprattutto con Konstantin Stanislavskij. Stanislavskij fu, all’inizio, un attore che, poco a poco, abbandonò la sua professione burocratica per dedicarsi con maggior intensità al teatro. Esplicitò la sua teoria dell’attore in un’opera intitolata: La costruzione del personaggio. In questa segnalava che l’attore deve dimenticare ogni istrionismo o cliché, senza accettare le imposizioni dell’autore o del direttore. Deve cercare attraverso un duro esercizio la naturalezza interpretativa. Questa teoria ebbe grande successo all’inizio del secolo, coincidendo con l’avvento della psicoanalisi. L’attore doveva recuperare i suoi ricordi, la sua vita, le sue esperienze, per ottenere un’interpretazione naturale. Investigare nei suoi sentimenti per porsi al servizio del suo personaggio. L’attore, interprete, dev’essere qualcuno che faccia il possibile per dotare di vita propria il personaggio. Deve chiedersi quindi cosa ha fatto il personaggio prima di entrare in scena, in che ambiente è cresciuto ed è stato educato, dove ha vissuto e con chi è stato in relazione. Non si tratta solo d’introspezione psicologica, ma anche d’immaginazione, creatività, di qualcosa che non è scritta nel testo teatrale. La recitazione dev’essere interpretativa, non rappresentativa (poiché questo implica che è già conosciuta e in questo caso l’attore si limita a copiare). Stanislavski, quello che l’attore deve fare è interpretare. Questa teoria ebbe sviluppi importanti, soprattutto negli Stati Uniti, poiché si adattava bene alla maniera di recitare degli attori cinematografici. Nella decade degli anni Elia Kazan fondò l’Actors Studio a New York, per applicare il metodo di Stanislavskij ad altri attori di teatro e di cinema, tra i quali Paul Newman, Al Pacino e Marlon Brando.

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Lee Strasberg applicò questo metodo in maniera più creativa. Ma nel teatro non ebbe tanto successo come nel cinema, perché è difficile trovare una motivazione interna per ogni azione che si rappresenta in scena. Ma facciamo un salto indietro: Stanislavskij preparò il cammino ad altre teorie. Antonin Artaud scrisse Il teatro e il suo doppio. Questo autore da giovane fu un noto surrealista, anche se poco a poco abbandonò questo movimento in seguito alla sua progressiva radicalizzazione. Artaud pensava che il teatro era ricerca. L’attore doveva essere un creatore in scena, ma doveva andare più in là dei copioni, improvvisando e creando sul palcoscenico. Doveva essere il vero centro dell’azione teatrale. Artaud scrisse tracce di copioni perché gli attori creassero in scena. Si trattava di lavorare non solo con la parola, ma anche con il corpo. Era una nuova forma di recuperare il passato artistico, per creare una nuova maniera de fare teatro. Questo ebbe influenza sul “Living Theatre” negli Stati Uniti e nel “Fura” in Spagna. Anche Bertolt Brecht elaborò teorie sul teatro, sebbene lo facesse partendo da un presupposto ideologico che indicava che tutto quello che si era fatto prima, aveva rappresentato un teatro drammatico (o gastronomico, cioè teatro di consumo). Gli attori avrebbero dovuto recuperare Diderot, ma non solo Diderot. L’attore con la sua coscienza è al servizio del messaggio. Il teatro è ideologico: trasmette un messaggio politico. Il teatro dev’essere epico-didattico, cioè, narrativo. Lo spettatore dev’essere un testimone che viene posto davanti a un tema. L’uomo dev’essere l’oggetto della ricerca nel teatro. L’essere umano si sviluppa processualmente e l’esistenza sociale determinerà la sua classe di pensiero. L’attore dovrà basarsi nella sua interpretazione tanto nella modulazione della voce che nella sua presenza fisica. Non deve darle colore e la sua presenza in scena dev’essere naturale, perché deve inquietare chi lo vede.

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Si produce una rivalutazione del messaggio e del tono della voce, che deve “annegare l’udito” dello spettatore come “un treno che passa a gran velocità”. Brecht e Artaud diedero una forte spinta all’avanguardia teatrale contemporanea. Oggi l’attore ha maggior libertà, forse dovuto a questa saturazione di teorie e all’idea che lo stile, pur passando attraverso le teorie, è qualcosa di personale. A partire da queste premesse fui stimolato ad organizzare per i miei allievi della sede di Genova della scuola di Psicoterapia Relazionale sistemica del Centro Milanese di Terapia della famiglia un seminario sugli stili terapeutici a cui partecipasse come docente anche un attore, Roberto Bobbio. In questo Seminario accanto alle presentazioni teoriche sulle teorie interpretative, accanto alle presentazioni e discussioni di video di terapeuti famosi e delle loro differenze di stile di conduzione della terapia, si proponevano anche esercizi di derivazione teatrale, simulate, improvvisazioni e confronti tra diverse interpretazioni dello stesso intervento terapeutico. Il seminario si svolgeva in un piccolo teatro di Genova che non esiste più attualmente (Il teatro della Corte dei Miracoli) per creare un contesto adeguato al tema e un video proiettore consentiva di utilizzare al meglio anche le immagini registrate in diretta durante il seminario. Visto il buon esito di quest’esperienza, quando mi fu offerta nel 1995 la possibilità di ripetere l’esperienza con la Escola de Terapia Familiar de l’Hospital de la Santa Creu i Sant Pau dell’Università di Barcelona, su invito del Prof. Juan Luis Linares, accettai l’invito, anche se con qualche preoccupazione, perché questa volta mi si proponeva di ripetere l’esperienza in un teatro che conteneva un centinaio tra allievi e terapeuti. Il titolo del seminario era: “Stili terapeutici o come utilizzare le proprie risorse in maniera coerente nella terapia sistemica relazionale”.

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In realtà l’esperienza fu molto interessante e mi permise di confrontare un questionario, derivato da Keeney, che avevo già somministrato ai miei allievi nel precedente seminario di Genova. Il questionario riguardava la “valutazione delle risorse del terapeuta”, ma esprimeva anche le fantasie più comuni che i terapeuti in formazione facevano sul tipo di terapeuta che avrebbero voluto essere e sui loro modelli. Presenteremo qui i risultati del confronto dei questionari e un commento. Valutazione delle risorse del terapeuta 1- In ordine di apparizione, quali delle seguenti parole caratterizza al meglio il tuo stile di rapportarti ai clienti ? madre padre allenatore istruttore regista medico infermiere coreografo altre (specificare quali ) 2- Quale parola caratterizza meglio di ogni altra il tuo lavoro come terapeuta? 3- Fai la fantasia di dirigere un film intitolato Il più grande terapeuta del mondo. Usa una frase breve per descrivere come sceglieresti di caratterizzare il lavoro di questo terapeuta.

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4- Scrivi il titolo di un libro di psicoterapia che andresti immediatamente a comperare in libreria. 5- Se potessi trascorrere alcune ore con un terapeuta, defunto o vivente, su chi cadrebbe la tua scelta? 6- Immagina di scrivere al terapeuta che più rispetti per chiedergli di riassumere in una frase il suo consiglio. Secondo te, che cosa immagini che verrebbe detto? 7- Qual è la parola che esprime meglio il modo in cui comunichi? 8- Se dovessi essere scritturato per una commedia teatrale, quale personaggio saresti in grado di interpretare meglio? 9- Immagina di avere un club di ammiratori che ti considerano un terapeuta brillante. Che cosa ammirerebbero di più nel tuo lavoro? 10- Quale tipo di umorismo riesci a comunicare meglio? 11- Se dovessi condurre un seminario di un giorno sull’arte della psicoterapia efficace quale sarebbe il programma generale degli argomenti che presenteresti? 12- Fai un elenco di tutte le scuole o orientamenti terapeutici di cui sai qualcosa. Accanto a ogni nome di terapia, scrivi la parola che la caratterizza meglio. Compila questo elenco per ordine d’importanza, in qualunque modo tu lo definisca. 13- Provi piacere nel dare ordini, compiti o esercizi? 14- Nel tuo lavoro sei più “razionale” o “irrazionale”?

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15- Quanto è importante un “senso di gioco” nel tuo lavoro? 16- Quali sono le cose più esagerate che hai mai fatto nel tuo lavoro terapeutico? 17- Qual è il migliore consiglio che potresti dare a un terapeuta alle prime armi? 18- Descrivi in una frase l’aspetto più positivo del tuo stile nel parlare. 19- Qual è il rilievo più positivo che puoi fare sul tuo stile di ascolto? 20- Quale attore cinematografico, vivente o defunto, potrebbe rappresentare meglio uno psicoterapeuta? 21- Se dovessi scrivere tre suggerimenti per esprimerti al meglio in terapia, quali sarebbero? 22- Se tu non fossi un terapeuta e dovessi scegliere un’altra professione, quale sarebbe? 23- Il tuo lavoro migliore è caotico o ben organizzato? 24- Quali sono i tre ricordi più importanti del tuo lavoro clinico? Di queste domande si sono valutate le risposte cercando di raggruppare quelle che avevano ricevuto valutazioni rappresentative e omogenee, sia per la scuola di Barcelona che per quella di Genova. Si sono così definiti nove gruppi di domande dalle cui risposte si può cercare di estrapolare una prevalenza d’identificazione di questo terapeuta. Quando nella valutazione complessiva c’erano delle

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incertezze, si è scelto la definizione prevalente nel totale per numero di scelte. L’identikit che ne risulta (con tutti i limiti degli identikit) è quello di un terapeuta che nel suo stile di comunicazione oscilla tra il regista e la madre e che individua il terapeuta ideale con cui trascorrere qualche ora, in tre figure molto diverse tra loro, come M. Erikson, S. Minuchin e S. Freud. D’altra parte individua nell’ironia il tono di comunicazione più adatto, gli piace dare rituali e compiti e si sente razionale nel suo lavoro, lavorando meglio nell’ordine che nel caos e attribuendo una grande importanza al gusto per il gioco nel lavoro. È interessante notare, infine, come c’è soprattutto una buona concordanza nel definire come professione alternativa a quella di terapeuta quelle del musicista e dell’attore, mentre senza grandi incertezze viene individuato in S. Connery l’attore che meglio rappresenterebbe il terapeuta. Confrontando questi dati con quelli che risultano dallo stesso questionario con i nostri allievi di oggi, lo stile di relazione preferito, nella maggior parte dei casi ha più a che vedere con quello di un coreografo e, per alcuni, di un coach. Anche gli allievi attuali sono d’accordo sulla prevalenza nella loro attività terapeutica d’ironia, razionalità, un senso per il gioco e un lavoro organizzato nell’ordine piuttosto che caotico. Ci sono invece differenze nella scelta del terapeuta con cui trascorrere alcune ore. Vengono scelti in prima Gianfranco Cecchin e Luigi Boscolo, dopo di loro Carl Withaker. Spariscono i terapeuti classici. Sembra che a questi allievi piaccia “meno dare compiti” ai pazienti, mentre come seconda opzione lavorativa, alternativa a quella di terapeuta, preferiscono orientarsi più che verso professioni artistiche (come succedeva nei gruppi precedenti), verso professioni “formativo-maieutiche”: educatore, professore, ostetrica, lasciando come unica professione creativa preferita quella di chef. Infine risulta interessante la scelta dell’attore vivente o defunto che possa rappresentare lo “psicoterapeuta”. Nell’attuale gruppo di allievi, nonostante vengano

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scelti anche attori Richard Gere e Dustin Hoffman, prevale una scelta che faccia riferimento ad attori comici, italiani o internazionali. Tra questi prevale Woody Allen. Questo fatto, considerando che Dustin Hoffman e Richard Gere hanno interpretato ruoli brillanti e divertenti in alcuni film, sembra indicare come gli allievi considerino il senso dell’humor del terapeuta come una risorsa importante per il paziente, sgombrando il campo da un terapeuta quale grigio intellettuale, magari un po’ depresso. Continua tuttavia ad esistere un 13,5% che anche oggi indica Sean Connery, preferito già dagli altri gruppi, come incarnazione ideale del terapeuta, nonostante gli anni che sono passati. Ci tocca quindi tenere come conclusione che l’idea di seduttore rappresenti un’identità molto “appetibile” per i futuri terapeuti in formazione di ieri e di oggi? O, diversamente, dobbiamo pensare che per gli alunni le tecniche relazionali d’interazione e d’ipotizzazione del terapeuta siano simili a quelle investigative di un agente segreto? Questo lavoro non pretende di essere considerato come un riferimento scientifico. I risultati raccolti, probabilmente variano secondo i cambiamenti dei riferimenti sociali, culturali e di genere degli allievi (d’altra parte è un fatto reale ormai che la maggior parte dei terapeuti in formazione siano di sesso femminile). Nonostante ciò, ci suggerisce che, nel momento nel quale si è presentato questo questionario, in tempi e contesti differenti, sia stato possibile ipotizzare una tipologia di terapeuta convergente tra allievi diversi per scuole e per periodi temporali. Lo presentiamo qui come esercizio per cercar di comprendere quale identità stia cercando il terapeuta in formazione e per far questo utilizziamo il tipo di rappresentazione che lui stesso propone di se stesso. Pensiamo che questo, insieme a molti altri fattori, possa influenzare il suo futuro stile terapeutico.

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Gruppo di Barcellona Gruppo di Genova TOTALE 1- Quale parola caratterizza meglio di ogni altra il tuo lavoro come terapeuta?

Direttore-madre Direttore-madre-coreografo Direttore-madre

2- Se potessi trascorrere alcune ore con un terapeuta, defunto o vivente, su chi cadrebbe la tua scelta?

Minuchin-Withaker Erikson-Freud Erikson-Freud Freud-Erikson

3- Quale tipo di umorismo riesci a comunicare meglio?

Ironia Ironia Ironia

4- Provi piacere nel dare ordini, compiti o esercizi?

Si No Si (prescrizioni e compiti)

5- Nel tuo lavoro sei più “razionale” o “irrazionale”?

Razionale Razionale Razionale

6- Quanto è importante un “senso di gioco” nel tuo lavoro?

Molto Molto Molto

7- Il tuo lavoro migliore è caotico o ben organizzato?

Ordine Entrambi Ordine

8- Se tu non fossi un terapeuta e dovessi scegliere un’altra professione, quale sarebbe?

Musicista-professore Attore-ballerina Musicista-attore

9- Quale attore cinematografico, vivente o defunto, potrebbe rappresentare meglio uno psicoterapeuta?

S. Connery S. Connery S. Connery

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Gruppo di Barcellona Gruppo di Genova Alunni Genova 2013 1- Quale parola caratterizza meglio di ogni altra il tuo lavoro come terapeuta?

Direttore-madre Direttore-madre-coreografo Coreografo

2- Se potessi trascorrere alcune ore con un terapeuta, defunto o vivente, su chi cadrebbe la tua scelta?

Minuchin-Withaker Erikson-Freud Cecchin-Boscolo-Withaker Freud-Erikson

3- Quale tipo di umorismo riesci a comunicare meglio?

Ironia Ironia Ironia

4- Provi piacere nel dare ordini, compiti o esercizi?

Si No No (prescrizioni e compiti)

5- Nel tuo lavoro sei più “razionale” o “irrazionale”?

Razionale Razionale Razionale

6- Quanto è importante un “senso di gioco” nel tuo lavoro?

Molto Molto Molto

7- Il tuo lavoro migliore è caotico o ben organizzato?

Ordine Entrambi Ordine

8- Se tu non fossi un terapeuta e dovessi scegliere un’altra professione, quale sarebbe?

Musicista-professore Attore-ballerina Educatore-professore-ostetrica-chef

9- Quale attore cinematografico, vivente o defunto, potrebbe rappresentare meglio uno psicoterapeuta?

S. Connery S. Connery W. Allen

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RIASSUNTO Si pone qui l’attenzione di allievi e terapeuti didattici sulla modalità di apprendere e sviluppare uno stile terapeutico personale, sottolineando come sia necessario, ma non sufficiente il lavoro teorico e l’osservazione di altri terapeuti. Infatti in questo caso costruiremmo un terapeuta “clone”, senza tenere in conto le sue risorse personali ed esperienziali. Per sviluppare questo tema si fa riferimento da un lato ad autori come Bateson, Cecchin, Minuchin, Keeney e dall’altro alle tecniche del teatro. Si propone infine un questionario utilizzato con allievi di differenti scuole di psicoterapia relazionale, confrontando i risultati. PAROLE CHIAVE Deuteroapprendimento, didattica, epistemologia, identità terapeutica, improvvisazione, interpretazione, irriverenza, maschera, teatro, terapeuta clone.

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SUMMARY How can therapist learn and develop a therapeutic personal style beyond theory and imitation of others therapists? That is the focus of this work. Training will produce “clone therapists” if graduates and supervisors don’t look at personal resources and experiences. This “thesis” has developed in relation with Bateson’s, Cecchin’s, Minuchin’s and Keeney’s ideas and also related with theatrical techniques. Then we compare and analyze student’s answers interviews between two different psychotherapeutic schools. KEY WORDS Logical categories of learning, training, epistemology, therapeutic identity, improvisational therapy, interpretation, irreverence, mask, theatre, clone therapist.

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BIBLIOGRAFIA Alonge R., et al., (2000): Storia del teatro moderno, Vol. 4, Einaudi, Torino. Bateson G. (1972): Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1988. Cecchin G.F. (1987): “Hypothesizing, circularity, and neutrality

revisited: an invitation to curiosity”, Family Process, 26, 405-413. Cecchin G.F., et al., (1993): Irriverenza. Una strategia di sopravvivenza per i

terapeuti, Franco Angeli, Milano. Cecchin G.F. (1997): Verità e pregiudizi, Raffaello Cortina, Milano. Cecchin G.F., Apolloni T. (2003): Idee perfette. Hybris delle prigioni della

mente, F. Angeli, Milano. Keeney B. (1992): La terapia e l’improvvisazione. Guida pratica alle strategie

cliniche creative, Astrolabio, Roma. Minuchin S., Fishman H.C. (1981): Family Therapy Techniques,

Harvard University Press, Cambridge Massachusetts. Selvini M., et al., (1980): “Ipotizzazione, circolarità, neutralità: tre

direttive per la conduzione della seduta”, In: Terapia familiare.

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Quattro passi per strada

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Stefano Agostino Emilio Leoni∗ In viaggio da Occidente a Oriente: considerazioni su musica e “mitologia bianca” Premessa

Faccio parte di una Società di Studi Medio-Orientali il cui nome è Sesamo; in una delle mailing list collegate ad essa, si è potuto leggere il seguente intervento di Francesco Mazzucotelli: Cari amici/care amiche, Intervengo anch’io a gamba tesa nel dibattito in corso su giornalisti e ricercatori italiani a Damasco, Istanbul, Il Cairo e altrove. Avevo letto anch’io su “Jadaliyya” l’articolo segnalato da Alessia de Luca (“Academic Tourists Sight-Seeing the Arab Spring”), eppure ho la sensazione che il punto principale non sia stato colto. Mentre “noi” (occidentali) discutiamo con fervore chi tra noialtri è meglio qualificato a descrivere “loro” (il mondo arabo, il mondo musulmano, l’Altro), “loro” (gli Altri) desidererebbero essere considerati come “soggetti” di conoscenza, e non solo come “oggetti” di ricerca e analisi. Quindi ben vengano tutti i rilievi sugli errori di contenuto e di metodo, le ricostruzioni grossolane, le analisi fantasiose e le imprecisioni di cui pullulano i resoconti giornalistici e, talvolta, anche gli studi accademici. Ma, a monte, ritengo che il discrimine più significativo non debba essere tra giornalisti o accademici (ognuno, sia chiaro, fa il suo mestiere), tra generalisti o specialisti, tra affiliazioni ideologiche e punti di vista (i quali, essendo punti di vista, sono tendenzialmente opinabili).

∗ Docente di Musicologia Sistemica, presso il Conservatorio di Musica “G. Verdi” (Torino); Professore incaricato di Storia della Musica, presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.

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Il discrimine più significativo, secondo me, è quello che passa tra chi, più o meno consapevolmente, ritiene che “noi” siamo in fondo i meglio titolati a capire, analizzare, “ricercare” e descrivere le realtà extraeuropee, e chi ritiene che “gli altri” siano altrettanto titolati di noi a esprimere le loro narrative e a descrivere se stessi; ipotesi, quest’ultima, che richiederebbe un profondo, umile ripensamento del “nostro” ruolo, tanto come giornalisti quanto come accademici. Con queste considerazioni, penso di aver scontentato tutti, quindi vi ringrazio per l’attenzione e vi auguro una buona settimana.

Francesco Mazzucotelli

Qui, prima ancora che di un viaggio, vi vorrei parlare dei suoi preparativi, dei pre-concetti che lo determinano e lo viziano; della difficoltà, o forse dell’impossibilità di essere oggettivi; dell’essere soggetti di e a relazioni, e perciò di Noi, per sé, ma anche in quanto Noi di fronte all’Altro. Il viaggio verso Oriente si nutre infatti di una lunga tradizione immaginativa occidentale. Come acutamente scriveva l’amica e collega Gioia Zaganelli a proposito di un topos del genere, la famosa Lettera del Prete Gianni:

verso l’Oriente, l’Occidente parte infatti per riconoscere e ritrovare, prima che per trovare e conoscere, e lungo il cammino esso dà libero corso a tutte le sollecitazioni compresse in quel magazzino di desideri ritagliato per secoli tra le pagine dei libri. Sono quei desideri, quelle immagini, quelle favole se volete, a guidare i passi di chi si muove verso l’ignoto e verso l’ignoto ci si muove infatti sapendo già tutto. […] Anche noi popoliamo infatti le nostre terre incognite di immagini, di volta in volta accattivanti e terrifiche; anche noi abbiamo bisogno di proiettare le nostre favole nel vuoto conoscitivo, per ridurre il mistero, per attenuare la paura… La storia di Gianni ci dice molte cose sul modo in cui l’Occidente europeo ha segnato faticosamente i limiti dell’immaginario. Ma, tra le tante altre cose, la storia di Gianni ci parla anche di noi (Zaganelli, 1992).

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L’abitudine e l’affidarsi alla collaudata credibilità occidentale, per quel che riguarda la musica degli Altri o le Altre musiche (fossero anche quelle che non capiamo dei giovani d’oggi) possono però farci ritrovare in queste condizioni:

Ho serie ragioni per credere che il pianeta da dove veniva il piccolo principe è l’asteroide B 612. Questo asteroide è stato visto una sola volta al telescopio da un astronomo turco. Aveva fatto allora una grande dimostrazione della sua scoperta a un Congresso Internazionale d’Astronomia. Ma in costume com’era, nessuno lo aveva preso sul serio. I grandi sono fatti così. Fortunatamente per la reputazione dell’asteroide B 612 un dittatore turco impose al suo popolo, sotto pena di morte, di vestire all’europea. L’astronomo rifece la sua dimostrazione nel 1920, con un abito molto elegante. E questa volta tutto il mondo fu con lui (de Saint-Exupéry, [1943] 1985).

Da alcuni anni, la New Musicology con il suo contributo “gadameriano-ricoeuriano” alla messa in discussione, nell’ermeneutica (anche quella artistica), del dato autoritativo costituito dal metodo, relega quest’ultimo in una posizione vincolata alla “spiegazione” assai più che alla “comprensione” come momento dunque “non metodico” che precede, accompagna e circonda la spiegazione. Nel nostro viaggio sonoro da Occidente a Oriente, da un qui ad un lì, proprio seguendo alcune suggestioni che stanno alla base del metodo “anarchico” della New Musicology, derivato dagli Studi Culturali, varrebbe la pena di mettere in campo il concetto deriddiano di differante, nella duplice valenza tanto di “essere differente, essere diverso”, quanto di “differire, rimandare”. Viene tolta al messaggio sonoro e ai corollari testuali che accompagnano la propria collocazione spazio-temporale, aprendosi a diverse interpretazioni nel corso del tempo. Occorre peraltro ricordare che l’utilizzazione dei termini diversità e differenza ha assunto, all’interno dei Post-Colonial Studies, valenze ben più complesse ed articolate.

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Il limite “occidentale” (tornerò − spero − su questo termine, come su “orientale” per affrontarne le trappole essenzialiste) sta nel fatto di voler spiegare l’Oriente; questa è una sorta di (derridiana) mitologia bianca che rassomiglia e riflette la cultura dell’Occidente (lo stesso termine viene ripreso con prospettive nuove più radicalmente legate ai Post-Colonial Studies da Young, 1990), quella in cui l’uomo bianco scambia il proprio pensiero con la forma universale della razionalità: non v’è metafora (narratologica o filosofica) che possa trasgredire dal “cerchio magico della metafisica occidentale” basata sul pensiero oppositivo (materia/forma, natura/spirito, corpo/anima, vero/falso, bene/male, essere/divenire, soggetto/oggetto). Sul terreno della musica, gli studi culturali e la nuova musicologia e, nel nostro specifico quello che definisco “il post-orientalismo musicale” intendono sostanzialmente decostruire questa tradizione non tanto con la prospettiva − impossibile − di archiviarla una volta per tutte, ma almeno di arricchirla, aprendosi ad “altro”. Tento dunque di proporre una lettura incrociata, fatta di punti di vista e di piani che s’intersecano, della musica dell’Oriente (mi limito alle società arabo-islamiche) nel suo connettersi ad ambiti del sapere diversi − e dunque intendendo non tanto la musica agita, eseguita, quanto l’idea di musica − e dell’immagine che dell’universo sonoro “orientale” si è avuta in Occidente. Si tratta dunque di uno studio che affronta parallelamente due segmenti conoscitivi appartenenti entrambi alla nuova musicologia: gli studi culturali e gli studi post-coloniali, con al centro il tema, spinoso, dell’Orientalismo. Si sono messi sul tappeto, a questo punto, alcuni concetti e alcuni termini che divengono portanti nel discorso sull’Orientalismo in musica e sull’immaginario musicale e che necessitano di una minima spiegazione: Alterità, Identità, Oriente, Occidente, Essenzialismo. Come afferma Staszak, l’Alterità è il risultato di un processo discorsivo attraverso il quale un gruppo coeso (in-group), dominante (“Noi”) costruisce uno o diversi gruppi estranei (out-groups), (“Loro”, “Gli

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Altri”) stigmatizzando una differenza, reale o immaginaria, che viene presentata come una negazione dell’identità propria e divenendo così motivo di una potenziale discriminazione. In effetti la differenza appartiene all’ambito fattuale, e l’alterità a quello del discorso (come lo intende Lacan e come vedremo lo intendono gli studiosi dell’orientalismo e del post-orientalismo o post-colonialismo), allo stesso modo in cui il sesso, biologicamente inteso, appartiene alla sfere della differenza, mentre il genere (gender) a quella dell’alterità. L’alterizzazione non è però operazione a senso unico, si può rendere l’altro più altro (alterizzare) oppure “alterare”, cioè condurlo a pensare come noi, ad agire come noi, a scegliere come noi. L’alterizzazione consiste comunque nell’applicazione di un principio forte che permette agli individui di essere classificati in due gruppi gerarchici: loro e noi. Di per sé l’out-group è identificabile in termini di coerenza in quanto si oppone all’in-group e manca di una sua identità a causa di una serie di stereotipi che come tali semplificano e “essenzializzano” l’Altro (Djaït, 1976, cit. in Gill-Bardají, 2008). Va da sé che l’alterità e l’identità finiscono con essere due facce di una stessa medaglia: l’Altro esiste solo relativamente al Noi e viceversa. Elemento fondamentale nella costruzione del concetto di alterità è la storicizzata asimmetria nelle relazioni di forza tra il gruppo dominate, che impone il valore proprio della propria identità particolare e il disvalore relativo alle particolarità degli Altri in termini il più delle volte discriminatori (Staszak, 2009). Di conseguenza l’affermazione di Edward Said a proposito dell’Orientalismo “È quindi naturale che ogni europeo, nel suo modo di vedere l’Oriente (in what he could say about the Orient), fosse di conseguenza razzista, imperialista e profondamente etnocentrico” (Said, 1979) rappresenta un inevitabile corollario. Lo studio di Said costituisce ancor oggi un punto di riferimento imprescindibile, e personalmente è proprio da esso che ha preso il via ogni mio tentativo di lettura dell’orientalismo musicale. Per Said l’orientalismo è “l’elaborazione non solo di una fondamentale

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distinzione geografica, ma anche di una serie di «interessi» che, attraverso cattedre universitarie e istituti di ricerca, analisi filologiche e psicologiche, descrizioni sociologiche e geografico-climatiche, l’orientalismo da un lato crea, dall’altro contribuisce a mantenere” (Said, 1979). L’alterità e l’identità sono basate su una logica binaria. Il pensiero occidentale, la cui logica è prettamente identitaria e binaria fin dai tempi di Aristotele, ha prodotto una serie di contrapposizioni dicotomiche composte da termini connotati positivamente da un lato e termini connotati negativamente dall’altro (tra i molti esempi: maschio/femmina, eterosessuale/omosessuale, bianco/nero, adulto/bambino, uomo/animale, credente/non credente, sano/malato). Questi dati fondanti del pensiero occidentale, ben presenti anche nei primi incontri con l’Oriente, anzi con la creazione stessa del moderno concetto di Oriente operata da Erodoto, vengono nutriti nell’evo moderno da un elemento anch’esso tipicamente occidentale: il colonialismo e il conseguente imperialismo (Staszak, 2009). Si tratta, ovviamente, di semplificazioni, di generalizzazioni essenzialiste, giustificabili solo nei termini di “errori necessari” e di utilizzazione “strategica” dell’essenzialismo (Spivak, 1990): una soluzione temporanea e mirata in termini di pratica politico-culturale, e non certo una risposta finale al problema identitario. Certo è che il problema del rapporto tra Oriente e Occidente ha finito per radicalizzarsi ideologicamente, in primis da parte della cultura occidentale, a partire dal cosiddetto “incontro coloniale” e dalla questione dell’esotismo, dando vita, nella critica postmodernista legata alla “teoria del discorso”, ai Post-Colonial Studies che tanto si sono nutriti della feconda inserzione della tematica dell’immaginario entrata a far parte della storiografia secondo-novecentesca. “Il colonialismo ha dato nuova forma alle strutture della conoscenza umana. Nessuna branca del sapere è rimasta incontaminata dall’esperienza coloniale” (Loomba, 1998).

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Gender Studies, Colonial Studies, Imperial Studies, Postcolonial Studies in quanto facenti parte del più vasto contenitore dei Cultural Studies finiscono con il porre l’accento su alcune questioni intellettuali che fanno capo al tema dell’alterità intesa come messa in gioco delle differenze culturali focalizzate intorno alla relazione subalternità/egemonia, con relativo recupero del concetto gramsciano di egemonia culturale. Va precisato, con Isabella Abbonizio, autrice di una pregevole tesi di dottorato su “Musica e colonialismo nell’Italia fascista”, che utilizzerò:

il termine “coloniale” per indicare quegli studi concentrati sull’analisi di prodotti nati dall’esperienza coloniale, narrazioni letterarie, rappresentazioni iconografiche, costruzioni architettoniche, prodotti artistici e musicali e quant’altro, e “postcoloniale” per quegli studi che, sulla base di un approccio post-strutturalista, aperto alla considerazione di una molteplicità di storie possibili per restituire la totalità della storia, applicano a tali indagini una prospettiva alternativa a quella ufficiale. In tale accezione, dunque, il prefisso “post” va inteso non come successivo al colonialismo, cosa che ne implicherebbe la cessazione, non sempre effettiva, ma come “contestazione del dominio e dell’eredità coloniali”. Seguendo la definizione di Jorges de Alva, dunque, intendiamo per “postcoloniale” l’adozione di una posizione “che si oppone alle pratiche e al discorso imperialista/colonizzatore” (Abbonizio, 2009).

In epoca coloniale, secondo Said, l’Occidente crea la propria immagine organizzata dell’Oriente sulla base della quale “espiare colpe, proiettare desideri, paure, e attraverso la quale, contemporaneamente, definire la propria identità sulla base del principio dell’opposizione binaria; in tal modo l’Occidente ha potuto garantire la propria egemonia politica e culturale sull’Oriente” (Abbonizio, 2009). Si può obiettare però che le influenze tra mondo orientale e mondo occidentale non si sono direzionate tutte in un senso, che vi sono state reciprocità anche intense, soprattutto in quel luogo topico che è stato ed è il Mediterraneo.

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Susan McClary, figura di punta del nuovo corso della musicologia statunitense, ha fatto riferimento a Braudel a questo proposito:

Il mio punto di partenza è, dunque, la provocatoria (e, come al solito, magistralmente formulata) affermazione di Braudel riguardante le influenze reciproche: per un bagaglio riconosciuto, mille ci sfuggono; mancano indirizzi ed etichette, talora il contenuto, talaltra l’imballaggio… Immagineremo che il misticismo spagnuolo del secolo XVI sia derivato dal sufismo musulmano, attraverso legami ipotetici o attraverso il confuso pensiero di Raimondo Lullo? Diremo che la rima in Occidente derivò da poeti musulmani di Spagna o che le chansons de geste (cosa del resto probabile) abbiano derivato molti elementi dall’Islam? Diffidiamo di coloro che riconoscono troppo bene i bagagli (per esempio, i bagagli arabi dei trovatori, in Francia), o di coloro che per reazione negano tutti gl’influssi d’una civiltà su un’altra, mentre in Mediterraneo si scambia ogni cosa: gli uomini, i pensieri, le arti di vivere, le credenze, i modi di amare. Negli aeroporti, oggi, ci viene chiesto di confermare che nessuno sconosciuto abbia interferito col nostro bagaglio; dopo gli attentati dell’11 settembre in questa domanda risuona, inevitabilmente, l’ansia che un oggetto di origine ‘araba’ possa essersi infilato in valigia. Ma, come ha spiegato Marìa Rosa Menocal, il sospetto di un’intromissione araba nel nostro bagaglio culturale non è iniziata con l’11 settembre né con la Seconda Guerra Mondiale di Braudel: è infatti già presente nel tentativo trecentesco di Petrarca di tracciare una linea di discendenza diretta che dalle culture dell’antichità greca e romana giunga fino alla poesia in volgare dei suoi tempi. Se Braudel ha avuto qualche difficoltà a riconoscere i “bagagli arabi dei trovatori in Francia”, Menocal fornisce la prova inequivocabile che la lirica d’amore dello stesso Petrarca discende delle corti moresche (McClary, 2009).

Dunque anche l’atteggiamento orientalista occidentale non può essere considerato come dato una volta per tutte, privo di declinazioni e di “differanze”. Già Said utilizza una metafora musicale, quella del “contrappunto”, per far luogo a critiche che producono letture “contro-imperialiste” che possano tanto convivere con quelle ufficiali, quanto opporsi ad esse; se riesaminiamo l’archivio della cultura,

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cominciamo a rileggerlo in modo non univoco, ma ‘contrappuntistico’, con la percezione simultanea sia della storia metropolitana che viene narrata sia di quelle altre storie contro cui (e con cui) il discorso dominante agisce”: una “interazione reciproca organizzata” (Said, 1993). Del resto, malgrado le polemiche che hanno fatto seguito alla pubblicazione di Orientalismo, la posizione di Said risulta essere assai più di ricca di sfumature e meno generalizzante o essenzialista di quanto sia stato talora rilevato. Si vedano Irwin (2008), MacKenzie (2007) e, sul versante musicale, in un’ottica di superamento piuttosto che di critica vera e propria, Clayton-Zon (2007), mentre di segno senz’altro positivo è la lettura di Locke (1993, 2000, 2005, 2006, 2009), il quale sostiene già all’inizio degli anni novanta che “qualsiasi esplorazione delle rappresentazioni orientaliste nel campo delle arti può proficuamente iniziare dagli scritti del critico culturale Edward Said” (Locke, 1993). Nella postfazione alla seconda edizione di Orientalismo Said afferma:

È difficile decidere cosa fare di queste permutazioni caricaturali di un libro che, dal punto di vista del suo autore e degli argomenti che vi sono discussi, è esplicitamente antiessenzialista. Si tratta infatti di un testo profondamente scettico nei confronti di tutte le etichette categoriche come quelle di Oriente e Occidente, e fastidiosamente attento a non ‘difendere’, e perfino a non discutere l’Oriente e l’Islam. ...proprio all’inizio del libro, dico che parole come ‘Oriente’ e ‘Occidente’ non corrispondono a nessuna realtà stabile esistente come un fatto naturale e che queste designazioni geografiche sono una strana combinazione di aspetti empirici e immaginari. [...] Il cardine del problema, tuttavia, come ci ha insegnato Vico, è che la storia umana è fatta di esseri umani. Dato che la lotta per il controllo del territorio è parte di questa storia, lo è anche la lotta sui significati storici e sociali. Il compito dello studioso non consiste nel separare questi due conflitti, ma nel collegarli, nonostante il contrasto fra la totale materialità del primo e quelle che sembrano le astrazioni del secondo. [...] Il mio interesse per l’orientalismo in quanto fenomeno culturale... nasce dalla sua variabilità e dalla sua imprevedibilità, caratteristiche che conferiscono a scrittori come Massignon e Burton la loro sorprendente forza, e perfino attrattiva.

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Ciò che ho cercato di conservare nella mia analisi dell’orientalismo era il modo in cui al suo interno si combinavano coerenza e incoerenza; il suo gioco, per così dire, che può essere reso bene solo garantendo a se stessi in quanto scrittori e critici il diritto a una forza emotiva, il diritto a rimanere commossi, irritati, sorpresi e perfino deliziati (Said, 1995).

Malgrado ciò è inevitabile una riconsiderazione dell’Orientalismo nel rapporto Oriente/Occidente (Mellino, 2009), soprattutto sul versante artistico (e dunque musicale) non disconoscendo anche i temi dell’incontro, dello scambio, delle interrelazioni (Clayton & Zon, 2007) e delle ricadute in termini identitari (Taylor, 2007) o, piuttosto, la riutilizzazione decontestualizzata di elementi “orientali” e/o “esotici” in chiave post-capitalistica e implicitamente modernista, come meri materiali, appiattiti su una superficie culturale indifferenziata, ad uso di spinte organizzative nuove del linguaggio musicale (Borio, 2002; Carpitella, 1992). La verità è che, soprattutto nell’ambito musicale, queste relazioni, questi “contrappunti”, tra Altri e Noi, non possono certo essere analizzati a senso unico: l’orientalismo teatrale e musicale è letto “più in generale come un regime del potere e del sapere” (Head, 2003), o come “possibile rilevanza della linea di pensiero di Said sul repertorio operistico… al fine di decidere a che livello è sensato parlare di un’opera come di un’opera orientalista” (Locke, 1993). Come ben compendia la Abbonizio, giunto ad una sistematizzazione della teoria sull’esotismo in musica, Locke definisce la procedura analitica tradizionale nei confronti dell’esotismo nell’opera Exotic Style Only Paradigm contrapponendola ad un approccio di maggiore apertura nei confronti del ‘plurilinguismo’ operistico, che definisce ‘All the Music in Full Context Paradigm’, un paradigma allargato che comprende il primo, ma che incorpora anche passaggi musicali non esplicitamente divergenti dal linguaggio corrente, il cui potenziale straniero deriva piuttosto dal contesto esotizzante creato per mezzo della partecipazione di altri linguaggi espressivi (Locke, 2007 come citato da

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Abbonizio, 2009). Per chiarire: Locke si è occupato a lungo di Aida in una prospettiva orientalista (sempre a partire dal modello saidiano che propone il tema del “contrappunto” quale elemento basilare di analisi) con saggi fondamentali per una lettura aggiornata dell’orientalismo musicale (Locke, 2005, 2006). Bennet Zon ne compendia bene le idee portanti:

Come l’acuta analisi di Ralph Locke dell’interpretazione saidiana di Aida dimostra, il rapporto tra impero, musica e cultura, opera all’interno di piani multipli (multiple agendas) che devono necessariamente andare oltre letture più limitate delle “composizioni iconiche” nello studio dell’imperialismo, dell’esotismo o dell’orientalismo nella musica occidentale. Per comprendere i piani multipli si deve guardare all’orizzonte culturale del tempo, alle gerarchie politiche e sociali, all’estetica, e alla mentalità filosofica prevalente, e per comprendere queste si deve guardare al modo in cui l’impero ha impattato sulle interpretazione dell’identità culturale e nazionale (Zon, 2007).

Per brevità evito di far riferimento all’articolatissima lettura di Aida proposta da Ralph Locke, ma non posso non citare il fondamentale saggio sulla Carmen di Bizet, in cui McClary fa più volte riferimento al tema dell’orientalismo, ed in modo assai puntuale:

Tuttavia, se parte delle ragioni che motivarono l’orientalismo fu la critica all’Occidente e il suo atteggiamento verso gli Altri (Hugo scrive che “l’antica barbarie asiatica forse non fu del tutto priva di uomini superiori come la nostra civiltà desidera far credere”), proprio quel giudizio costituì una minaccia alla credenza nella supremazia occidentale, che sottoscrisse l’impresa coloniale. L’idealizzazione dell’Oriente portò con sé prevedibilmente una reazione diffusa che reintrodusse il dominio occidentale; in particolare in narrazioni in cui l’uomo occidentale rinuncia a tutte le prerogative e privilegi e “diventa selvaggio”; ma poi cerca di invertire il processo, ristabilendo il dominio con il pugno di ferro poiché se lo era fatto sfuggire di mano. Secondo Marianne Torgovnick “la fascinazione dell’occidente per il primitivo ha a che fare con la sua crisi di identità, con il suo

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bisogno di demarcare con chiarezza soggetto e oggetto, anche mentre sta vagheggiando altri modi di esperire l’universo”. La tensione tra desiderio d’esotismo e paura della sua potenza seduttrice, percorre molti dei prodotti culturali dell’orientalismo, inclusa Carmen che fu scritta quando la Francia in quanto potenza mondiale fu sottoposta a particolari umiliazioni. Nelly Furman scrive: dopo l’‘ignominiosa’ sconfitta dell’esercito francese nella guerra franco-prussiana del 1870, durante la quale l’imperatore Napoleone III e le sue forze armate vennero fatti prigionieri a Sedan, l’opera lirica di Bizet ci mostra un volonteroso ma ingenuo soldato abbindolato da una seducente straniera. Napoleone III aveva sposato una spagnola… Alludendo al fatto che la donna provoca la rovina del soldato, come le interpretazioni tradizionali dell’opera suggeriscono, Bizet ed i librettisti sembrano fornire una spiegazione psicologica di un evento politico e militare”. Anche la musica ebbe parte nella storia della corrente orientalista. Dal diciassettesimo secolo in poi, le opere liriche avevano fatto un uso regolare di ambientazione esotiche, sebbene la musica stessa fosse solo occasionalmente creata per avere un suono “Orientale”. L’orientalismo musicale dell’Ottocento iniziò immediatamente dopo la Spedizione in Egitto e si tramutò con grande slancio in un arabismo musicale intorno al 1830 proprio dopo la conquista francese di Algeri. I temi che contraddistinsero l’orientalismo musicale ed artistico si possono cogliere parimenti nella musica. Félicien David, per esempio, visitò il Medio Oriente e le sue composizioni riflettono sia le sue impressioni che gli orientamenti della cultura francese. L’ode sinfonica Le Désert (1844) ritrae carovane, muezzin che chiamano i fedeli alla preghiera e le onnipresenti danzatrici. Durante la seconda metà del secolo, il gusto per l’oriente pervase tutta la produzione operistica francese. Nella discussione sull’“esotismo” nel suo La musica dell’Ottocento Carl Dahlhaus spiega tale tendenza riprendendo acriticamente la convinzione secondo cui le culture etniche fornirono solamente i materiali grezzi adatti a stimolare una creatività europea oramai esaurita. Egli scrive: “l’esotismo offrì ai librettisti dell’opera dell’ottocento una riserva non sfruttata di materiale che letteralmente gridava di essere sfruttata (corsivo mio). Tra le opere che ebbero origine dall’impiego di questo ipotetico sfruttamento sollecitato, troviamo La Reine de Saba (1862) di Gounod, Samson et Dalila (1877) di Saint Saëns, Lakmé (1883) di

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Delibes e Thaïs (1894) di Massenet. Persino la musica strumentale assecondò la moda, come Istar (1912) d’Indy, un insieme di variazioni che inizia con la versione più estrosa e toglie velo dopo velo fino a quando il tema stesso, identificato con la dea Istar, si rivela in tutta la sua magnifica nudità (McClary, 1992). Ecco che troviamo un altro tema, l’esotismo, che viene inteso, prima dei Cultural Studies e della critica post-coloniale, come un mero dato stilistico, confinato all’idea romantica di evasione dalla realtà, a fenomeno di costume (Abbonizio, 2009). Così esiti tipicamente seicenteschi (penso già a Lully-Molière) e soprattutto settecenteschi come le turqueries non sono stati analizzati quale risposta al mutamento dei rapporti di forza tra i blocchi politico-culturali costituiti dall’Europa e dall’Impero Ottomano dopo la Battaglia di Lepanto e ancor più, un secolo dopo, con il fallimento dell’assedio a Vienna, ma anche come sintomo della “voracità sonora” occidentale anche nel suo declinarsi come tecnica costruttiva per nuovi strumenti e nuovi effetti sonori (si vedano, tra l’altro, i registri turcheschi per cembali e fortepiani), pur se alcuni studiosi, prima tra tutte Danièle Pistone, già a ridosso della pubblicazione di Orientalism hanno saputo leggere il legame tra esotismo e colonialismo presente nella musica francese (Pistone, 1981). Dunque l’esotismo rappresenta una forma di orientalismo e di alterizzazione in quanto oppone l’anormalità dell’altrove con la normalità del qui. Non si tratta comunque di un attributo di un luogo, di un oggetto, di una persona esotici; è bensì il risultato di un processo discorsivo (sempre nel senso foucaultiano che intende Said, naturalmente) che consiste nel porre una sull’altra una distanza simbolica e una materiale, confondendo estraneo con straniero, e ciò ha senso da un unico punto di vista, esterno (Staszak, 2009). Il fatto è − e rappresenta un problema ermeneutico anche in chiave di analisi musicale − che l’esotismo e il conseguente “pittoresco” e, sovente, “esotico-come-erotico” (Staszak, 2008), tende ad attribuire un valore, quantunque determinato e delimitato “colonialmente”, all’Altro, un fascino, un carattere talora ambiguamente positivo, che la società

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moderna e il turismo di massa (nonché quel tanto di “pessimo gusto”) ha trasformato in senso mercantile anche in una “risorsa” per talune fasce sociali delle località esotiche. “L’alterità dell’esotico non è la bruta e brutale alterità del primo incontro” (Staszak, 2009), è l’alterità mediata e mercificata che congela l’immagine del mondo coloniale e ne fa uno spettacolo, sia esso un dipinto, una danza esotica, un vero e proprio giardino zoologico umano: una fantasia di potere, rassicurante, che ci conforta nella nostra identità e superiorità. Negli scambi interculturali a circolare non sono verità, bensì rappresentazioni. Il fatto che sia esistito uno stretto legame tra immagine esotica e colonialismo ha costituito, fino a non molto tempo fa, un notevole intralcio ad un’analisi articolata del fenomeno “esotismo” in ambito musicale, fino a quando l’affermarsi di modelli ermeneutici nuovi ha messo in discussione il concetto stesso di autoreferenzialità della musica, insieme con una serie di parametri esplicativi ed estetici francamente romantici. La reazione alla vecchia musicologia canonica prende il via alla fine degli anni ottanta con l’opera di musicologi quali Lawrence Kramer, Gary Tomlison, Rose Rosengard Subotnik e soprattutto nell’approccio multidisciplinare di Susan McClary, ove confluiscono semiotica, Gender History, narratologia, teoria della ricezione. In questi studi, la musica è considerata in un contesto socio-politico al fine di comprendere le tensioni sociali che la animano e per capire poi come essa stessa divenga arena di lotta tra versioni diverse e concorrenti della realtà sociale (Vélez, 2004). A questo proposito è particolarmente significativa un’affermazione, sovente citata, di Rose Rosengard Subotnik:

Per me... la nozione di un rapporto intimo tra la musica e la società non funziona come un obiettivo lontano, ma come punto di partenza di grande immediatezza, e non come ipotesi ma come un presupposto. Funziona come un’idea di un rapporto che a sua volta, consente l’esame di tale rapporto da molti punti di vista e la sua esplorazione in molte direzioni. Si tratta di un’idea che genera studi, il cui obiettivo

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(o almeno un obiettivo importante dei quali) è quello di articolare qualcosa di essenziale sul perché ogni musica particolare è particolare in quel modo ovvero, per giungere alla comprensione del carattere della sua identità (Subotnik, 1987).

La musica è un fenomeno polimorfo in quanto risultato di pratiche e di idee acquisite dagli esseri umani in quanto membri di società e culture differenti che non solo producono oggetti musicali organizzati, ma ne organizzano la circolazione e ricezione in modo tale che i fenomeni musicali divengano “esempi di discorsi (discourses) socialmente circoscritti” (Leppert & McClary, 1987). La stretta relazione tra musica e società è stata peraltro sottolineata, negli ultimi anni da diversi studiosi che ne hanno evidenziato l’importanza sia alla luce di studi antropologici, che sociologici, o della Subculture Theory; questo aspetto è stato affrontato, tra gli altri, da Line Grenier, che ha potuto affermare:

da un punto di vista epistemologico, le teorie socio-culturali della musica hanno attinto (in maniera più o modo meno formale) ai discorsi su diversità e differenza del diciottesimo e diciannovesimo secolo: alcune hanno riproposto (anche se in modo leggermente modificato) argomentazioni sviluppate durante l’Età dei Lumi, mentre altre ne sono (più o meno completamente) rifuggite. [...] Ma non si può ragionare dell’Europa del XVIII secolo senza riconoscere anche la crescente supremazia della ragione e l’influenza di una visione scientifica del mondo sui modelli di organizzazione sociale e sulle metodologie conoscitive. In effetti, l’interesse per il mondo e le musiche esotiche è osservabile nella letteratura musicale occidentale del XVIII secolo, emerso in un momento in cui le teorie musicali ‘scientifiche’, come quella di Rameau, stavano guadagnando prestigio e influenza. I risultati teorici che questo interesse per il ‘mondo’ ha ispirato hanno messo alla prova queste visioni scientifiche: minando il presupposto che la musica fosse rigorosamente una questione di ordine autonomamente inteso, di strutture sonore, di corrispondenze matematiche e di proprietà acustiche, hanno affermato che era anche, se non soprattutto, una questione di norme e di valori, di società e di culture (Grenier, 1989).

Esiste poi una questione non trascurabile che riguarda il tipo di

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osservazione dell’Altro da parte degli studiosi, degli scrittori, dei viaggiatori occidentali: molto spesso si parla senza cognizione di causa da parte di viaggiatori che visitano effettivamente luoghi “estranei”, ma non hanno un bagaglio, tantomeno un’attrezzatura intellettuale tali da permettere una visione ragionata del fenomeno musicale; sovente abbiamo il caso opposto: commentatori che non hanno in effetti mai udito una sola nota delle musiche delle quali parlano, né hanno mai visitato paesi stranieri, ma fanno affidamento sui racconti dei viaggiatori, dei mercanti, degli esploratori, dei militari, dei missionari, non potendo così collocare in contesti adatti dal punto di vista sociale e culturale queste pratiche musicali anzi, badando bene a tenere rigidamente separati gli elementi culturali e sociali da quelli strettamente musicali, dei quali si riferisce tendenzialmente solo l’effetto (sgradevole o evocativamente romantico, a seconda dell’epoca e della tipologia di relazione che abbiamo di fronte) che tali musiche hanno sull’acculturato occidentale. Un caso in qualche modo simile è quello del musicologo tedesco Raphael Georg Kiesewetter, esempio pionieristico di analizzatore attento delle teorie musicali arabe, il quale lavorò sempre su materiali reperiti da altri e studiati da lui in Germania (Bolhman, 1986, 1987; Kiesewetter, 1842-1968). I casi anomali (quelli oggi normali per gli etnomusicologi) sono altri, non importa se precedenti (Villoteau) o successivi (Salvador-Daniel) (Leoni, 2011). Anche nel contesto degli studi musicali, con la fine dell’ottocento, la percezione della diversità si trasforma in percezione della differenza. I particolarismi divengono eterogeneità: differenze immutabili, irreversibili, incontestabili, ontologiche, sovente cavalcate ideologicamente; gli altri sono differenti, una volta e per sempre, e l’alterità viene intesa come una conseguenza ovvia di una fatalità naturale (Grenier, 1989). Con il passare dei decenni e l’emergere dell’Evoluzionismo e del Positivismo la scienza sembra dare ragione di questa categorizzazione, letta e voluta come “squilibrata” in favore del “Noi” coloniale, su base naturale. A partire dalla composizione, in musica l’Orientalismo tardo-ottocentesco contribuisce notevolmente a

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rappresentare una società occidentale coloniale (se Said ha trattato essenzialmente l’imperialismo coloniale e il conseguente orientalismo franco-britannico, in questi anni stanno sempre più emergendo − con fatica − le cospicue tracce del colonialismo germanico piuttosto che italiano o di altre nazioni: si vedano, a solo titolo d’esempio, gli studi di Otterbeck sull’immagine dell’Islam in Svezia) e a confermarne la sua superiorità “imperialistica”. Conclude la Grenier:

Le scienze sociali non sono venute a patti con la problematica della differenza accidentalmente ma, in larga misura, perché la struttura sociale della realtà della quale intendono dar conto e che vogliono spiegare è di per sé un processo complesso di differenziazione. La musica è profondamente coinvolta in questo processo, il suo studio può così contribuire a una più accurata comprensione delle realtà contrastanti che noi strutturiamo e delle diverse modalità della loro strutturazione. Ma questo richiede nuovi modi per affrontare la differenza che si liberino dalla ‘logica delle categorie’ e dal sistema binario su cui essa si fonda (Grenier, 1989). Come s’è già detto in precedenza, non tutti ritengono che questa logica binaria sia stata così ineludibile. Va senz’altro rimarcata la questione delle osmosi realizzatesi tra Oriente e Occidente, tra gli Altri e Noi, in ambito musicale per restare in tema. È innegabile che taluni elementi “orientali” intesi in senso reale, ovvero tracce effettive dell’Oriente in quanto tale, non solo della sua imago occidentale si siano sedimentati, soprattutto nel corso del secolo passato, così caratterizzato dalla molteplicità, anche nella cultura e nella società occidentali (Clayton & Zon, 2007); ma come? Di più: l’orientalismo, analizzato da musicologi che utilizzano strutture sistematiche e tassonomiche rigide, viene reso fruibile, ma in qualche modo viene “addomesticato” (Head, 2003; Clayton & Zon, 2007): occorre cambiare il punto di vista, decentrarlo, decostruirlo, decolonizzarlo; non è un caso che il post-colonialismo abbia visto nel collettivo indiano dei Subaltern Studies un motore imprescindibile. Ma la

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stessa Gayatri Chakravirty Spivak, punto di riferimento del gruppo, dopo essersi chiesta: “Can the Subaltern Speak?” Si è data una risposta negativa, “The subaltern cannot speak” (Spivak, 1988). C’è spazio solo per ipocrisie. Malgrado questo è necessario riconoscere il legame, non solo in negativo, che connette da secoli e secoli Oriente e Occidente. Come dirà Michel Foucault nella prima prefazione, del 1961, alla sua Storia della Follia:

Nell’universalità della ratio occidentale, c’è questa distinzione che è l’Oriente: l’Oriente pensato come l’origine, sognato come il punto vertiginoso da dove nascono le nostalgie e le promesse di ritorno, l’Oriente offerto alla ragione colonizzatrice dell’Occidente, ma indefinitamente inaccessibile, poiché resta sempre il limite: la notte dell’inizio, in cui l’Occidente si è formato, ma nella quale ha tracciato una linea di separazione, l’Oriente è per l’Occidente tutto quello che esso non è, mentre resta il luogo dove si deve cercare la sua verità originaria (Foucault, 1961, iv).

E allora, malgrado i flussi incrociati, il rapporto diventa quello tra una realtà e lo specchio:

Qui vi sono come due lati dello specchio, in cui però ciò che è da un lato non somiglia a ciò che è dall’altro (‘tutto il resto era così diverso che di più non sarebbe stato possibile...’). Passare dall’altro lato dello specchio è passare dal rapporto di designazione al rapporto di espressione senza fermarsi agli intermediari, manifestazione, significazione. È arrivare in una regione in cui il linguaggio non ha più rapporto con i designati, ma soltanto con espressi, e cioè con il senso (Deleuze, 1969).

L’Oriente come uno specchio da cui si apprendono poche cose sull’Asia e molte sull’Occidente. Come nel mito di Narciso; ragionando in modo “sonoro”, la sfortunata Eco subisce la stessa sorte: innamorata della sua bellezza, lei che è specchio sonoro dell’Altro, “vox tantum atque ossa supersunt: vox manet; ossa ferunt lapidi

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straxisse figuram”. La crisi del rapporto soggetto-oggetto porta a una pietrificazione che altro non è che l’estrema de-contestualizzazione e de-funzionalizzazione dell’oggetto. Per venire incontro alle critiche “essenzialiste” occorre, in musica e in musicologia, una sostanziale decostruzione degli assunti etnocentrici insiti nella “conoscenza” occidentale. Decentralizzare e sostituire una conoscenza organizzata su una base di opposizioni binarie; in luogo di alterità terminologiche (padrone/schiavo; uomo/donna; civilizzato/incivile; cultura/barbarie; moderno/primitivo; colonizzatore/colonizzato, si cerca di sviluppare un paradigma differente nel quale le identità vengono definite non in termini “oppositori” (singolari, identitari in senso limitativo), ma vengano viste attraverso le intricate e reciproche interazioni e relazioni con gli altri.

La realtà, tuttavia, è che il mondo odierno è un mondo di ineguaglianze, e gran parte della differenza si riscontra nella divisione generalizzata tra i popoli dell’Occidente e quelli del non-Occidente. Che significa ciò per coloro che lavorano all’interno o in opposizione del potere, includendo istituzioni quali le università, dovunque siano o qualunque siano? Significa reimparare, ritornare al mondo comune per ri-educarsi. Un luogo dal quale iniziare potrebbe essere quello delle indicazioni che si danno ai bambini su come attraversare la strada: Fermati. Guarda. Ascolta. Soprattutto quest’ultimo termine. Poiché il postcolonialismo ascolta. (Young, 2009).

Nel nostro paese mancano pressoché del tutto pubblicazioni di un certo rilievo sulla storia della musica e del pensiero musicale arabo-islamico e sulla ricezione dell’Oriente musicale da parte dell’Europa a fronte di uno stato degli studi arabo-islamici che vanta illustri personalità sia del passato che del presente e studi di rilevanza internazionale. Va da sé che l’importanza di questo ambito di studi diviene ogni giorno più evidente, che il pubblico dei lettori è sempre più interessato alla cultura arabo-islamica e che rappresenta un dovere

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culturale, sociale, e non solo, fornire gli strumenti per una più ampia e articolata comprensione dell’universo orientale, soprattutto quando l’Oriente popola le nostre città, le nostre scuole, i nostri posti di lavoro. Possibilmente evidenziando che ogni “punto di vista” − o “d’udito” − come direbbero Adriana Cavarero e Serena Guarracino (Cavarero, 1993; Guarracino, 2007) è appunto tale, e non rappresenta la realtà, bensì una possibile visione di essa. Nulla più. Riprendo ancora l’avvertenza fondamentale di Edward Said: “È quindi naturale che ogni europeo, nel suo modo di vedere l’Oriente (in what he could say about the Orient), fosse di conseguenza razzista, imperialista e profondamente etnocentrico” (Said, 1979). Ci si può sforzare di esserlo il meno possibile; anche perché, “finché i leoni non avranno i loro propri storici, gli storici della caccia continueranno a glorificare il cacciatore” (Proverbio africano).

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RIASSUNTO Il limite “occidentale” sta nel fatto di voler spiegare l’Oriente; questa è una sorta di (derridiana) mitologia bianca che rassomiglia e riflette la cultura dell’Occidente, quella in cui l’uomo bianco scambia il proprio pensiero con la forma universale della razionalità: non v’è metafora (narratologica o filosofica) che possa trasgredire dal “cerchio magico della metafisica occidentale” basata sul pensiero oppositivo (materia/forma, natura/spirito, corpo/anima, vero/falso, bene/male, essere/divenire, soggetto/oggetto)… Esiste una questione non trascurabile che riguarda il tipo di osservazione dell’Altro da parte degli studiosi, degli scrittori, dei viaggiatori occidentali: molto spesso si parla senza cognizione di causa da parte di viaggiatori che visitano effettivamente luoghi “estranei”, ma non hanno un bagaglio, tantomeno un’attrezzatura intellettuale tali da permettere una visione ragionata del fenomeno musicale; sovente abbiamo il caso opposto: commentatori che non hanno in effetti mai udito una sola nota delle musiche delle quali parlano, né hanno mai visitato paesi stranieri, ma fanno affidamento sui racconti dei viaggiatori, dei mercanti, degli esploratori, dei militari, dei missionari, non potendo così collocare in contesti adatti dal punto di vista sociale e culturale queste pratiche musicali anzi, badando bene a tenere rigidamente separati gli elementi culturali e sociali da quelli strettamente musicali, dei quali si riferisce tendenzialmente solo l’effetto (sgradevole o evocativamente romantico, a seconda dell’epoca e della tipologia di relazione che abbiamo di fronte) che tali musiche hanno sull’acculturato occidentale. PAROLE CHIAVE Viaggio, musica, Oriente, Occidente, alterità, identità, Post-Colonial Studies, New Musicology, orientalismo, essenzialismo.

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SUMMARY The Western limit lies in the fact of wanting to explain the East; this is a kind of (Derridean) White Mythology that resembles and reflects the culture of the West, in which the white man trades his thoughts with the universal form of rationality: there is no metaphor (or narratological philosophical) that would transgress the “magic circle of Western metaphysics” based on oppositional thinking (matter/form, nature/spirit, body/soul, true/false, good/evil, being/becoming, subject/object)… There is a significant issue that concerns the type of observation of the Other by scholars, writers, Western travelers: very often travelers who visit places actually “outsiders” speak without knowledge of the facts, but they do not have an intellectual luggage, or an intellectual equipment to allow a rational vision of the musical phenomenon; often we have the opposite case: commentators that in fact have never heard a single note of the music they speak on, nor have they ever visited foreign countries, but rely on the tales of travelers, merchants, explorers, soldiers, missionaries, not allowing them to be placed in appropriate context from the perspective of social and cultural practices of these musical indeed, taking care to keep rigidly separate the cultural and social elements than strictly musical, which refers only potentially effect (unpleasant or evocatively romantic, depending on the age and the type of relationship we have in front of) those musics have on western cultured man. KEY WORDS Travel, music, East, West, alterity, identity, Post-Colonial Studies, New Musicology, orientalism, essentialism.

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Stefano Pirrotta∗ Riflessioni sul ricovero di Pazienti ospiti di Comunità Terapeutiche in reparti psichiatrici “Siamo tanto attaccati a questa vecchia vita perché accanto ai momenti di tristezza, abbiamo anche momenti di gioia in cui anima e cuore esultano – come l’allodola che non può fare a meno di cantare al mattino, anche se l’anima talvolta trema in noi, piena di timori”.

Vincent Van Gogh (Lettera al fratello Theo, 30 maggio 1877)

In una Comunità Terapeutica l’allontanamento di un Paziente per via di un ricovero spesso viene vissuto come un abbandono da parte di questi Pazienti e da parte dell’équipe curante. Vi è la possibilità, infatti, che la separazione venga vissuta come lacerante soprattutto per quei ragazzi che si trovano inseriti per la prima volta in un contesto comunitario e al loro primo ricovero ospedaliero. I Pazienti durante il loro primo ricovero vivono momenti di terrore e confusione. Sono spaventati da loro stessi e dai loro agìti, malgrado capiscano le ragioni di un ricovero, visto il loro forte malessere interno. In molti casi si può intravedere dietro l’emersione di forte angoscia e agitazione psicomotoria una forma di dipendenza dalla comunità che anima una forte reazione di questi Pazienti contro fantasie di simbiosi/inglobamento, diventando una difesa dall’eccessiva vicinanza emotiva. ∗ Psicologo e psicoterapeuta presso la CTR “Villa Caterina” (Gruppo Redancia), Genova.

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L’équipe della comunità si trova a volte in situazioni difficili, perché quando un Paziente agisce comportamenti lesivi per se stesso e per gli altri si corre il rischio che un ricovero ospedaliero disposto a fini contenitivi e cautelativi venga invece vissuto come un’espulsione. Pertanto i ricoveri sono un momento molto delicato nella relazione Paziente/Terapeuta perché possono evocare sia nel Paziente (sia nell’operatore) fantasie espulsive e angosce d’impossibilità al contenimento. Il controllo della situazione da parte degli operatori si ottiene attraverso tutte le modalità di contenimento necessarie per sedare la crisi. Il rischio in tali circostanze è il contagio emotivo. La perdita di relazionalità nella situazione di crisi può favorire l’emergere di una bolgia collettiva. Il ricovero in questi casi si pone come unica soluzione e via di salvezza per la sopravvivenza della comunità e del contenitore terapeutico. La crisi può essere riassorbita anche attraverso il supporto e la partecipazione della comunità in toto, nel caso ciò non avvenga c’è il “contagio emotivo”. L’urgenza e l’acting spengono la possibilità di pensiero e annullano la capacità dei curanti di riflettere sui veri significati o sul significato che la crisi, come rottura, esprime. Solo dopo il ricovero, si riesce alle volte a trovare il bandolo della matassa e le necessarie visite da parte dell’équipe nel luogo della degenza aiutano a stabilire una pacificazione relazionale con il Paziente. Un altro aspetto problematico concerne il reparto psichiatrico nel quale si ricovera il Paziente, infatti, molto spesso viene ostacolato sia dalla difficoltà di reperire posti liberi sia di trovare l’utilità del ricovero considerando i brevi tempi di degenza cui sono obbligati i reparti, modificando in tal senso l’azione terapeutica. Spesso il Paziente specialmente al primo ricovero vive il reparto come la dimora della follia e apprende “codici”, rituali e comportamenti limite. Come noto tutta la letteratura ci ricorda che la fase più pericolosa e grave di un ricovero in SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) riguarda quei soggetti che non vi sono mai stati e, soprattutto nelle prime giornate di ricovero, quando l’ambiente di cura non è rassicurante e

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accogliente ma spesso diviene fonte di angoscia in modo non tollerabile dal Paziente. Al contrario, i ricoveri programmati, quelli pensati insieme al Paziente, possono consentire di ristrutturare il mondo interno e continuare il lavoro attraverso uno spazio d’ascolto: tali azioni hanno un valore terapeutico, favorendo spesso un riannodamento del rapporto tra Paziente ed équipe curante della comunità, infatti, il Paziente ha bisogno di condividere le decisioni importanti che riguardano lui stesso ha la necessità di sentire che non esiste solo la comunità ma, una rete di cura utilizzabile al bisogno: ciò favorisce una dipendenza meno totalizzante ma più elastica e polifonica. Ovviamente necessarie le capacità della comunità e del reparto di trovare una sinergia, che faccia fronte alle problematiche psicopatologiche del soggetto. L’ambiente che cura o meglio gli ambienti che curano, che si fanno carico della sofferenza e del dolore mentale del Paziente devono risultare allo stesso modo come una buona coppia genitoriale in cui nella comunità prevale un codice materno e nell’SPDC prevale un codice paterno. Dietro la crisi di un Paziente c’è sempre una forte angoscia e paura interiore. Spesso la paura e l’angoscia intollerabile crescono al di fuori del contenimento relazionale e necessitano di una rianimazione psichica attraverso l’intervento ospedaliero. L’obiettivo terapeutico del ricovero di un Paziente in ospedale non può prescindere dalle possibilità terapeutiche che il tempo e il luogo possono avere, non certo cambiamenti significativi e strutturali ma la semplice circoscrizione di un ambiente che deve passare da incontrollato a controllato dando la possibilità al Paziente di essere al centro di un progetto terapeutico. Le possibilità terapeutiche delle istituzioni sono prevalentemente farmacologiche e psicologiche, spesso prevale il contenimento normativo rispetto a quello espressivo a danno di un’atmosfera “calda” e partecipe utile al processo di cura.

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Il ricovero ospedaliero dovrebbe fornire una pausa tra Paziente e l’équipe della comunità per favorire l’emersione di problematiche non altrimenti controllate in un contesto comunitario. Alcuni hanno proposto e realizzato una modalità diversa di affrontare i momenti di rottura terapeutica all’interno della comunità attraverso l’istituzione di l’Unità di Crisi. Un ambiente separato dalla comunità che fornisca al Paziente un limite ai propri desideri e un limite al nostro personale intervento. Permettendo, cosa importante, al Paziente di esperire e tollerare gli aspetti distruttivi del proprio Sé. Inoltre il ricovero all’interno dell’Unità di Crisi aiuterebbe il Paziente a ritrovare una buona distanza relazionale senza compromettere il proprio senso d’identità e di continuità interna. L’Unità di Crisi in fondo aiuterebbe il Paziente ad affrontare la frustrazione, l’incertezza, il conflitto e il dolore. Ciò perché scandito dalla separazione dall’ambiente che accoglie (la comunità) e quindi da un’apertura verso l’esterno. Lo spostamento in una situazione diversa dalla comunità aiuterebbe il Paziente a una ripresa della propria autonomia meno minacciosa sul piano relazionale rinforzando l’idea che la comunità non sia onnipotente e onnipresente nella vita del Paziente, come un genitore minaccioso o persecutorio ma, fonte di codici materni che accolgono e regolano la costruzione di legami affettivi. L’oscillazione tra i due ambienti terapeutici dovrebbe favorire nel Paziente un’integrazione dei codici paterno e materno, recuperando sia la “funzione relazionale” sia la “funzione esploratrice”. La continuità relazionale diventa il perno su cui si regge l’atteggiamento terapeutico, infatti, quando ricoveriamo i nostri Pazienti nei consueti reparti, sentiamo, quando vengono dimessi, una distanza. Il paziente perde un po’ della nostra fiducia, sente che il ricovero diventa un mezzo punitivo/espulsivo quando non è stato programmato. In rari casi i Pazienti ti vengono a dire che ciò è risultato utile, forse quando il ricovero non è espulsivo ma programmato e quindi condiviso con il Paziente. Ricordiamo che l’investimento sui nuovi curanti è fondamentale in un ricovero psichiatrico, in pratica ciò non avviene

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sempre e questo potrebbe minare la costruzione di un progetto di rete condiviso. L’Unità di Crisi dovrebbe fornire risposte nuove al Paziente, in termini di spazi delimitati, forme di espressività quali: attività motoria, musicoterapia, spazio per attività ludiche. Infine dovrebbero esserci attività riabilitative volte a garantire un intervento terapeutico integrante. Il ricovero deve rappresentare la possibilità di separarsi dal nucleo familiare e modificare i legami simbiotici; apportarne appunto delle modifiche con modalità relazionali differenti. Tutto ciò s’innesta in quello che si chiama “concetto di rete”, dove a occuparsi del Paziente vi sono più figure specializzate che forniscono risposte supportive e contenitive, soprattutto nei casi d’urgenza/emergenza. Diffondere e mettere in pratica il concetto di rete oggi è la sfida del Terzo Settore e degli operatori sanitari impegnati ogni giorno con tali emergenze. Conclusioni Queste riflessioni sottolineano una consapevolezza molto diffusa tra gli operatori dei Servizi e cioè che senza una rete terapeutica armonica e collaudata tra operatori della Salute Mentale che si conoscano e stimano e collaborano in vari modi nella rete non si ottiene continuità terapeutica nel Paziente. I professionisti che sono in contatto sui singoli casi, ospiti ora nelle comunità ora nell’SPDC ma ora anche nelle CAUP (Comunità Alloggio per Utenti Psichiatrici) devono trovare protocolli e metodi uniformi per creare armonia nella cura del Paziente psichiatrico. Il pericolo di sfilacciamenti e le crisi di coerenza della Comunità Terapeutica possono trasformare delle grandi opportunità, nel caso delle reti armoniche, ma anche gravi discontinuità nei casi di una

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relazionalità disarmonica che vanifica l’utilità della rete stessa: la rete diventa più prigione e legame che relazione e ricchezza terapeutica.

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Caro Lettore, lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed agevolare il dialogo tra i professionisti delle scienze umane, con particolare riguardo all’area della Psichiatria. A tale proposito, la Segreteria Scientifica e di Redazione invita i Lettori ad inviare elaborati, loro o dei loro collaboratori, dai quali poter trarre nuovi spunti di dialogo e riflessione e che possano contribuire ad un arricchimento dei temi trattati. La pubblicazione di un articolo sulla rivista è, in ogni caso, rigorosamente subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale.

Note per gli Autori 1. Nel proporre il proprio scritto alla Segreteria Scientifica e di Redazione, l’Autore dovrà specificare che si tratta di un lavoro inedito e che intende pubblicarlo esclusivamente sulla rivista “Il Vaso di Pandora”.

2. Preferibilmente, l’elaborato proposto dovrà essere inviato tramite mail come file di WORD allegato agli indirizzi di posta elettronica: [email protected] e [email protected] Qualora ciò non fosse possibile, l’Autore potrà inviare il file WORD, salvato su CD, al seguente recapito: Segreteria de “Il Vaso di Pandora”, Via Montegrappa 43 – 17019 Varazze (SV), all’attenzione della Dott.ssa Federica Olivieri

3. Ogni testo dovrà essere accompagnato da: • Nome e Cognome per esteso degli Autori; • una breve nota biografica relativa ad ognuno (la Segreteria si fa carico di omettere questi dati dalle copie che invia ai referee per la valutazione); • almeno un indirizzo postale a cui i lettori possano inviare eventuali loro comunicazioni agli autori, un indirizzo di posta elettronica e un numero di telefono per eventuali comunicazioni della Segreteria; • titolo in italiano ed inglese; • alcune parole chiave in Italiano ed Inglese; • un breve riassunto in Italiano ed Inglese;

4. Qualora l’elaborato si sia ispirato ad una relazione presentata ad un Convegno (è questo il caso degli “estratti”), dovrà comunque essere accompagnato da un breve riassunto, sia in Italiano che in Inglese e dalle parole chiave.

5. Le note dovranno essere ridotte al minimo e numerate progressivamente.

6. Le citazioni, accuratamente controllate, dovranno apparire tra virgolette doppie (anche le virgolette usate per fini diversi dalla citazione dovranno essere doppie). I corsivi originali dovranno essere sottolineati (o meglio riportati in corsivo); i corsivi aggiunti dovranno essere indicati tra parentesi con: (corsivo aggiunto), oppure (sottolineatura mia). Ogni aggiunta dell’Autore dell’articolo dovrà essere posta in parentesi quadra; per esempio. “egli [S. Freud] intendeva”. Le omissioni nel testo verranno segnalate nel seguente modo: (…). Parole o frasi in

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lingua diversa dall’italiano saranno senza virgolette, ma sottolineate (o scritte in corsivo) e seguite, nel caso, dalla traduzione tra parentesi o in nota.

7. I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente con il cognome dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle pagine: (Freud 1921, p. 315), ma (Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve: (Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se gli Autori sono due, appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due: (Racamier et al. 1981, p.184).

8. I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di articoli apparsi in riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento bibliografico nel testo dovrà corrispondere una voce nella bibliografia finale.

9. La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve contenere unicamente gli Autori citati nello scritto. La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello: - Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford. Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo sottolineato, editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche la citazione del titolo della traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in originale. La data della traduzione va in fondo. Es.: - Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983. Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con ripetizione del nome dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica delle opere: - Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E., 19. - Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19. Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il primo seguito da: et al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore apparirà in primo luogo come Autore singolo. La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo questo modello: - Wittemberg I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al., Esplorazioni sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977. Oppure, quando l’Autore è lo stesso: - Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First Contributions to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952 La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo modello: - Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162-168.

10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su singolo foglio e numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in fogli singoli, dovranno essere numerate in cifre romane. Sia le tavole, sia l’iconografia dovranno essere richiamate nel testo ed essere accompagnate da una legenda esplicativa.

La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori piccole correzioni, qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i testi stessi allo stile della rivista. Ogni qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà immediata comunicazione.

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RSA Psichiatrica Skipper

Via Vallestura 10 – 16010 Masone (GE) Tel. 010.9269332 Fax. 010.9269736

e-mail: [email protected]

Direttore Sanitario: Prof. Giovanni Giusto Direttore di Comunità: Dott.ssa Monica Carnovale Responsabile Clinica: Dott.ssa Elena Firpo Coordinatrice Sanitaria: Inf. Prof. Chelu Mirela La RSA Skipper è una struttura che sorge nei pressi di Masone (Ge) nell’entroterra ligure, nata nel 1998 per accogliere ospiti provenienti dagli ex Ospedali Psichiatrici. Attualmente ospita 40 persone, ormai provenienti principalmente da Comunità e in rari casi dalla propria abitazione, affette da disturbi psichiatrici cronici. Vi sono anche persone provenienti dall’OPG che hanno un ordine restrittivo rinnovabile dal Magistrato di Sorveglianza. L’edificio si compone di un pianterreno dove c’è la segreteria, l’infermeria, un ampio salone con veranda, la sala da pranzo e un’attigua cucina. Dei tre piani i primi due sono adibiti interamente ad alloggio degli utenti, nell’ultimo vi è una sola camera da letto e la sala attività, a destra, si trovano le stanze assegnate al servizio guardaroba e gli spogliatoi degli operatori.

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Il caseggiato è circondato da un giardino recintato e un ampio prato retrostante. Le persone che vi risiedono presentano perlopiù patologie legate alla sfera psicotica in fase cronica: schizofrenie, associate in alcuni casi a gravi disturbi della personalità (pregresso alcolismo, disturbi antisociali, disturbi dell’umore, ecc.). Lo staff è composto da un Direttore Sanitario, un Direttore di Comunità, un Responsabile Sanitario, Infermieri professionali, Operatori Socio Sanitari, Educatori professionali, Psicologi con mansioni educative, Tecnici della riabilitazione psichiatrica, una Psicomotricista e personale ausiliario addetto alle pulizie e alla manutenzione. Le attività sono finalizzate al mantenimento delle capacità residue di ogni ospite per mezzo di un progetto individualizzato che partendo dalla cura della propria persona passa attraverso il rispetto dell’ambiente circostante − gli spazi privati e comuni − la tolleranza e il rispetto reciproco degli altri co-degenti per arrivare al coinvolgimento dei familiari e alla creazione di un rapporto con il tessuto sociale ospitante. Questo è anche possibile tramite le attività strutturate giornaliere previste all’interno di un programma educativo, finalizzate alla cura della propria persona ed al mantenimento dei contatti con l’ambiente sociale attraverso uscite individuali e di gruppo. Diverse attività presentano un carattere prevalentemente ludico-ricreativo quali quelle che aggregando un certo numero di persone le convoglia alla socializzazione e al gioco in senso lato. Ancora, la formazione di altri gruppi hanno scopi principalmente pedagogici anche attraverso esperienze di conoscenza e di confronto. Per ultimo, attività espressive il cui scopo principale è la manifestazione di emozioni sia attraverso la creazione di manufatti che tramite la rappresentazione di storie inventate o vissute.

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Accanto alla RSA “storica” si trova poi un edificio da poco ristrutturato i cui moduli abitativi sono sufficienti per sedici ospiti distribuiti su due piani chiamato “Il Bozzello”. La CAUP “Il Bozzello” è una struttura residenziale socio-riabilitativa a bassa intensità assistenziale, circondata da un giardino allestito con mobili da esterno. Al piano terra ci sono ampi spazi comuni (cucina e soggiorno), camere da letto doppie e singole con relativi servizi, al primo piano ci sono altre stanze e servizi, spazi comuni ed un grande terrazzo anch’esso allestito con mobili da giardino. La struttura è destinata a persone di esclusiva competenza psichiatrica che necessitano di residenzialità per tempi definiti nel corso dei programmi terapeutico-riabilitativi individualizzati. La CAUP è rivolta, quindi, a pazienti stabilizzati che non richiedono assistenza psichiatrica continuativa, con autonomia personale già consolidata attraverso la permanenza in Comunità o in RSA psichiatrica. La struttura ospita pazienti affetti da disturbi psichiatrici che hanno raggiunto, dopo percorsi più strutturati, un’autonomia tale da permettergli di vivere la quotidianità in maniera personalizzata; a parte l’orario di assunzione della terapia farmacologica e dei pasti che vanno consumati in comune, il resto della giornata sarà scandito dai tempi personali di ciascuno. Gli operatori hanno la funzione di supporto e confronto, la loro presenza è di verifica della quotidianità e dello stato psicopatologico, anche se l’operatore può essere contattato dagli ospiti in qualsiasi momento ne sorga la necessità.

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RSA Skipper

CAUP Il Bozzello

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