Pandora Numero Uno

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1 RAPPRESENTANZA / POPULISMO MARIO TRONTI GIACOMO BOTTOS PAOLO FURIA FRANCESCO DE VANNA LUCIO GOBBI FRANCESCO MARCHIANÒ STEFANO POGGI ROSA FIORAVANTE MATTEO GIORDANO FABIO GUALANDRI

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Pandora, Italian journal of political thought

Transcript of Pandora Numero Uno

N°1

RAPPRESENTANZA /POPULISMOMARIO TRONTIGIACOMO BOTTOSPAOLO FURIAFRANCESCO DE VANNALUCIO GOBBIFRANCESCO MARCHIANÒSTEFANO POGGIROSA FIORAVANTEMATTEO GIORDANOFABIO GUALANDRI

INDICE

COS’È PANDORA?

EDITORIALE

LA VERITÀ È RIVOLUZIONARIAMario Tronti

RAPPRESENTABILITÀ: LE CONDIZIONI ANTROPOLOGICHE DELLA POLITICAGiacomo Bottos

QUELLO CHE CI SERVE È UNA RISPOSTA POLITICALucio Gobbi

POPULISMO, NEOLIBERISMO E CRITICA ALLA MEDIAZIONEFrancesco Marchianò POPOLO E POPULISMO: UNA RIFLESSIONEPaolo Furia

POPULISMO ED EGEMONIA SOCIALISTA IN ERNESTO LACLAUStefano Poggi IL POTERE DEL DIRITTO. NOTE SU DEMOCRAZIA E LIBERALISMOA PARTIRE DA UN LAVORO DI BIAGIO DE GIOVANNIFrancesco De Vanna

POPULISMO COME DITTATURA DELLA MAGGIORANZARosa Fioravante

RECUPERARE IL CONCETTO DI POPOLO A SINISTRAMatteo Giordano

IL POPULISMO: UNA ERMENEUTICA GLOBALE PER NARRAZIONI PARTICOLARIFabio Gualandri

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Direttore Responsabile

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Giovanni Dognini

Giacomo Bottos

Giacomo BottosFederico D’Ambrosio

Stefano De BartoloPaolo Furia

Lucio GobbiFabio Gualandri

Stefano PoggiAngelo Turco

Riccardo Mazzoliby Open Group

Union Printing S.p.a.via Monte Bianco, 72

Roma

Autorizzazione Tribunale di Bologna: n. 8354 del 15/7/2014 - Semestrale

Cos’è Pandora?Per chi ha un’idea alta della politica il nostro tempo si presenta come una distesa di macerie. La fase di crisi e di transizione in cui viviamo non si è risolta per ora in una rinascita ma in una più profonda scissione e disgregazione. Al tempo stesso le residue risposte hanno l’estemporaneità del giorno per giorno, senza quel respiro che sarebbe necessario in questo momento.

Nell’orizzonte del presente non si prefigura per ora la prospettiva di un nuovo inizio. Se questo

avvenisse assumendo la forma apparen-te di una cesura radicale, il rischio di ri-petere errori passati sarebbe altissimo. Continueremmo a stare in quell’eterno presente che si ripete in cui siamo im-mersi ormai da molto tempo.Occorre allora percorrere una via diffe-rente. Invece che esecrare, condannare od esultare, cercare di comprendere la realtà in cui siamo nella sua durezza. Sog-giornare presso il negativo. Recuperare la

profondità della teoria, dell’analisi per dare spessore, forza e durata all’azione. Questo

vuol dire anche interrogarsi su noi stessi, re-cuperare un rapporto con la nostra storia e

ripensarla. Strade più brevi non ne esistono. Vi sono certo molte vie apparenti che però si perdo-

no nella nebbia. Anche queste devono essere esplorate, e comprese.Pandora aprendo il vaso liberò numerosi mali nel

mondo. Alle nostre spalle stanno mutamenti storici e decisio-ni che hanno reso assai più arduo intravedere la possibilità di trasformare il mondo. Solo dopo avere assunto nuovamente la fatica di comprendere ciò che è accaduto senza nascondersi dietro l’alibi della “complessità” potremo forse anche noi riapri-re il vaso e attingerne l’ultimo dono, la Speranza.

Ma la donna di sua mano sollevò il grande coperchio dell’orcio e tutto disperse, procurando agli uomini sciagure luttuose. Sola lì rimase Speranza nella casa infrangibile, dentro, al di sotto del bordo dell’orcio, né se ne volò fuori; ché Pandora prima ricoprì la giara, per volere dell’egio-co Zeus, adunatore dei nembi. E altri mali, infiniti, vanno errando fra gli uomini.

“ EDITORIALEAl concetto di populismo nessuno sembra essere in grado di dare un definizione precisa. Eppure il suo uso conosce oggi una tale inflazione da fare quasi dubitare che possa trovarsi una politica del tutto priva di caratteristiche populiste. Ha senso allora continuare a parlarne? E sopratutto, cosa contrapporre al concetto di populismo, per dare ad esso un significato, una rilevanza? Forse una politica “responsabile”, istituzio-nale, politicamente corretta? Oppure una politica che non si sbilancia, che non fa pro-messe eccessive, che si limita a ciò che può essere ragionevolmente raggiunto? Una politica dell’onesta amministrazione? Una politica consapevole delle compatibilità?Ma non è forse proprio contro questo tipo di politica che si solleva la protesta del po-pulismo, non è questa politica che lo genera? Il problema del populismo non è in fondo un problema della politica?

E’ a partire da queste domande che, in questo numero uno di Pandora, che segue al numero zero che abbiamo dedicato al neoliberismo, abbiamo deciso di discutere di populismo e di rappresentanza. Tematiche complesse, lungamente analizzate su cui, come giustamente dice Mario Tronti nell’articolo con cui siamo onorati di aprire questo numero, quasi tutto è stato detto. Eppure molto di ciò che è stato detto è stato detto sulla politica e non nella politica. L’ha descritta, ma non l’ha trasformata. Il dibat-tito che si svolge (quando si svolge) sui media, nei partiti, nelle istituzioni continua a ri-petersi uguale a se stesso, presentando le stesse figure, le stesse parole. Si continua a formare un tipo di soggettività che perpetua i medesimi errori che hanno portato alla situazione presente.

Se si vuole che torni ad esistere una politica degna di questo nome è necessario spezzare questo circolo, facendo irrompere la critica e la coscienza teorica all’interno delle esangui forme attuali, modificandole e plasmandole in modo che il nuovo non sia più ciò che si ottiene annientando il vecchio (riproponendo poi questo schema all’infi-nito, poiché nulla invecchia più rapidamente di un simile nuovo) ma ciò che risulta dalla trasformazione di ciò che c’è.

La critica del populismo può spesso servire per legittimare una politica insufficiente. Occorre invece che la critica del populismo sia al contempo un’autocritica della po-litica. Non solo perchè spesso molti dei caratteri del populismo sono profondamente penetrati anche nelle formazioni politiche più tradizionali. Ma sopratutto perchè ciò che il populismo, con la sua stessa esistenza segnala è la debolezza, l’impotenza della politica.

Quest’esigenza di rivendicazione della politica è forse il tratto profondo che unisce i diversi articoli di questo numero, diversi per impostazione e punto di vista disciplinare. A partire da questo comune sentire speriamo possa avere inizio una riflessione col-lettiva che, attraverso questa rivista ed altri strumenti possa contribuire ad elaborare alcune forme e modalità per rendere più concreta questa esigenza.

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LA VERITÀÈ

RIVOLUZIONARIAdi MARIO TRONTI

ul populismo, quasi tutto è stato detto. Sulla rappresentanza, quasi nulla c’è più da dire. Spo-sterei il fuoco del discorso critico: verso i pun-ti di cui non si dice, ma si tace. Di un ritorno in grande della critica c’è oggi bisogno. E però sul carattere che essa deve assumere, ci si deve intendere: almeno tra chi esprime la volontà po-litica di un “per la critica” riguardo a tutto ciò che è. Ma - ecco il punto - ciò che è non corrisponde a ciò che appare. Gran parte dei movimenti di opinione, nell’età della comunicazione di massa, prendono come nemico l’apparenza, combat-tono quello che vedono, cioè quello che gli vie-ne fatto vedere. La realtà è così lasciata libera di operare su di loro, contro di loro. E vince, perché non ha più avversari. Guardate. Non è da anni, è da decen-ni, dai favolosi anni Ottanta, che si ripete qui in Occidente la frase: è cambiato tutto, e tutto velocemente cambia. Non è vero. Tutto è so-stanzialmente come prima, tutto è dispera-tamente fermo. Da sottolineare: “sostanzial-mente”. Le forme di esistenza di una società capitalistica si sono radicalmente trasformate, ma il capitalismo come sostanza di vita, cioè come rapporto sociale e come struttura di po-tere, è ancora quello o ne siamo fuoriusciti? Le sue grandi trasformazioni, indubitabili, ci au-torizzano a firmare con esso un patto di sta-bilità che lo certifichi come eterno presente? L’avvento del nuovo che avanza, a datare da fine Novecento, non si rivela adesso per quel-lo che è, cioè un ritorno di Ottocento? Perfino la scienza economica più avvertita ormai se ne

accorge: vedi il confronto in quel d’America tra il francese Thomas Piketty e Stiglitz e Krugman. Queste sono le domande. Io penso che oggi la lotta, prima ancora che tra il giusto e l’ingiusto, è, deve essere, tra il vero e il falso. C’è un nuovo senso da dare al vecchio detto del movimento operaio: dire la verità è rivoluzionario. Siamo in una fase pre-marxiana, senza prima di noi uno Hegel che ci abbia consegnato il sistema e il metodo di un tempo appreso col pensiero. Marx aveva da superare istanze utopi-che, che pasticciavano con la cucina dell’avveni-re. Rispondeva mettendo sotto critica il presen-te storico, per capire se nelle pieghe delle sue contraddizioni si potesse scorgere, una forza, un soggetto, in grado di rovesciare lo stato delle cose. Per far questo, aveva bisogno di premet-tere all’analisi scientifica del capitale la critica dell’ideologia borghese. Ecco il modello. Oggi è tornato necessario ripartire dal Marx giovane per arrivare al Marx Maturo. Occorre ripartire dalla critica dell’apparato ideologico di masche-ramento della realtà, che è diventato, molto più che allora, il modo stesso di funzionamento della realtà. Molto più che allora, perché non essen-do stato teorizzato a livello, diciamo, hegeliano, si presenta come un dato empirico, immediato, antropologicamente quotidiano: di qui, la difficol-tà a scoprirlo e a colpirlo. E molto più che allora, perché globalizzato, non più ideologia tedesca, ma occidentale, a centralità euro-americana. E soprattutto, universalizzato, apparato ideologico proprio, in forme diverse, di tutte e due le classi in lotta, senso comune intellettuale e buon sen-so di massa. Il progressismo democratico è lo spazio-tempo entro cui ruotano i venti, che pro-

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vocano a seconda delle stagioni, il. sereno dello sviluppo o le nuvole della crisi. La ri-voluzione permanente si è realizzata tecno-logicamente, presupposto metafisico, dato ontologico, che condiziona i modi del cono-scere, e del comunicare e, quindi, dell’agire. Manca oggi il punto di vista, assunto e coltivato da una parte. E qui c’è il crollo di cultura politica: che riguarda sia i ceti domi-nanti che quelli subalterni. C’era una volta la teoria del crollo, la Zusammenbruchstheorie, con qualche accenno in Marx, con più di una suggestione nel marxismo: il sistema capita-listico pareva destinato alla catastrofe: nel ’29 la profezia sembrò avverarsi, dal 2008 è sembrata ripetersi. Ma questa in cui viviamo è una forma sociale che si rovescia in se stessa, si autotrasforma, cresce e cambia attraverso crisi, Proteo che sa apparire di-verso da quello che è, e proprio così so-pravvive. Le nuove generazioni, di intellet-tuali e di politici, dovrebbero sapere questo: che sono figlie del tempo in cui la teoria del crollo è andata ad avverarsi non nel capitali-smo, ma nel movimento operaio. Attenzione, però: saperlo, non porta a disarmare le idee e a disorganizzare le azioni, ma al contrario a riarmarle e a riorganizzarle, prendendo atto di questo fatto, crudo, crudele. L’idea che lì, nel mitico ’89-’91, sia accaduto qualcosa che ha rimesso in cammino le magnifiche sorti e progressive dell’umanità è la contro-narrazione ideologica che ha occupato mi-litarmente l’ultimo quarto di secolo. Sma-scherarla è il compito più urgente. Qui sta la premessa per qualsiasi progetto di ritorno in campo di un pensiero critico e di una prassi trasformatrice. Senza questo passaggio di liberazione dal mito non ci sarà riconquista di una ragione alternativa. Non c’è egemonia senza autonomia, non c’è lotta senza orga-nizzazione, non c’è politica senza cultura po-litica. Novecento, si dice. E con questo si crede di liquidare il discorso. E allora assu-miamolo questo problema. Perché questo fa problema. La condizione è stretta. Non c’è futuro di immediato riscatto. Correre dietro alle illusioni non sta nel bagaglio di quella grande forza storica che è stato il movimen-to operaio. Chi viene da lì non dice: ho un

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Manca oggi il punto di vista, assunto e

coltivato da una parte. E qui c’è il crollo

di cultura politica: che riguarda sia i ceti

dominanti che quelli subalterni.

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sogno. Dice: ho un progetto. Devo fare una cosa che si può fare. Appronto i mezzi indispensabili per farla. Tentare l’impossibile? Si, ma per ottenere, weberianamente, il possibile. Mettersi dalla parte del torto? Certo, ma per arrivare ad avere ragione. E questa nessuno te la regalerà. Te la devi conquista-re, con l’abilità e la forza, con il lione e la volpe. A un certo punto abbiamo opportunamente fatto a meno del materialismo dialettico, con la sua pretesa di spiegare l’essenza della intera natura. Credo sia venuto il momento di fare a meno del materialismo storico, con la sua intenzione di spiegare l’es-senza di tutte le società. Ci basta un realismo politico per la critica di questa forma sociale, che ponga le condizioni, e per adesso solo quelle, di un suo possibile superamento. E’ qui dentro che bisogna lavorare, e lottare. Non c’è bisogno del dopo per combattere il qui e ora. Descrivere nella sua verità il presente, è già sufficiente motivo di mobilitazione, causa scatenante di una opposizione a ciò che è. Se si riuscisse a decifrare, per ognuno, a ogni ora della sua esistenza quotidiana, l’arcano della merce, se si riuscisse di qui a denunciare l’alienazione dell’essenza umana dall’attuale essere umano, ecco, le fondamenta sarebbero poste per un rifiuto collettivo di sistema. Ci vorrebbe un Partito/Principe per farlo. Nella organizzazione di questa forma andrebbe cercato tutto il nuovo di cui c’è veramente bisogno. Il dramma storico, specifico, idealtipico del nostro tempo, è il fatto che sono venuti a mancare quel soggetto sociale e quella forza politica, in grado di irrompere nelle contraddizioni presenti per mettere in crisi l’equilibrio che le contiene e soprattutto le trattiene. La crisi di sistema è autoprodotta dal capitalismo, come sempre, per suoi problemi, nella fase, impossibili da risolvere, senza un pas-saggio di ristrutturazione. Questo, infatti, è la crisi. In passato, il difetto del movimento operaio, in Occi-dente, era la sua incapacità di immettere, esso, crisi nel sistema, in quanto parte interna antagonista. Sapeva però usare la crisi per la sua propria crescita di presenza e di forza. Oggi, c’è qualcosa di più grave: senza forza organizzata, nessuno, in nessun luogo, è in grado di usare la crisi per la critica. Questa è la vera causa strutturale dell’attuale disorientamento politico di massa. Tutto il resto segue: i populismi di vario segno, dal basso e dall’alto, le pulsioni antipolitiche, la protesta sociale, o corpora-tiva, o anarchica, comunque diffusa, inespressa collettivamente e dunque esistenzialmente rabbiosa. La risposta, subalterna, nel segno della personalizzazione demagogica della leadership segue a sua volta il vento, non lo contrasta, lo esprime, lo rappresenta. Allora. Quella che si dice adesso società civile è soprattutto questo vento. Anche qui, realisti-camente, è bene non illudersi. Quelle minoranze attive, movimenti, volontariato, cooperazione, mutuo soccorso, esperienze esemplari di persone eccezionali, che conosciamo, niente possono contro questo spirito del tempo, che soffia dove vuole, questa piena delle acque che travolge tutti gli argini, allaga i campi, e su cui galleggiano i relitti di una politica che fu. Nulla possono senza una direzione dall’alto, complessiva, che organizzi un processo in controtendenza. La decadenza di ceto politico non si combatte concedendo rappresentanza diretta a una maggioranza democratica pre-politica. Il problema di governo così non si risolve, si aggrava. L’antipolitica è un’epidemia: il virus si prende e si

diffonde, incurabile, per via di agire comunica-tivo, in età adulta. Ormai ne sembrano immuni solo i bambini, che infatti, a guardarsi intorno, ri-sultano gli ultimi esseri umani sani. I politologi, invece di andare in giro a raccontarci tutti i giorni quello che già sappiamo, dovrebbero chiudersi in laboratorio a sperimentare almeno un vacci-no. Non è vero che c’è poca rappresentanza. Ce n’è troppa. Le forze politiche, in campagna elettorale permanente, in queste democrazie del voto su tutto e sul niente, si lasciano dettare passivamente il loro “che fare” dagli umori che circolano nelle vene di un civile senza socia-le, civiltà senza società, o meglio, civilizzazione senza socializzazione, ultimo più che coerente prodotto di un capitalismo trionfante perfino nel-la crisi. Per la decisione, conta oggi più una piaz-za che un ministero. Conta più un urlo dell’opi-nione che una legge del Parlamento. I governi non governano, non solo perché non c’è più Stato nazione, ma perché non c’è più sovranità del popolo, nazione per nazione. Potrebbe es-serci, questa, a livello sovranazionale. Sarebbe bene. Ma bisognerebbe, ad esempio, comincia-re a fare di una Unione Europea un Europa. Qui e ora, sovrano è chi decide nella condizione dello sviluppo e della crisi. Introdurre le masse nello Stato era un grande progetto, in parte realizzato nei “trent’anni gloriosi” del dopoguerra, quando c’erano i partiti. Introdurre la gente nello Stato, e prima ancora nel partito, ecco l’ultimo grido dei novatori: un programma regressivo, una lunga marcia, all’indietro, dentro le istituzioni. Le masse contestavano il potere, la gente contesta i poli-tici. Chi comanda si sente messo al sicuro per i prossimi decenni. Il guasto viene da lontano. Dall’ideologia della partecipazione alla pratica delle primarie, è una discesa. Meglio chiamar-la una deriva. Che cos’è una deriva? E’ quando qualcosa accade, e tu non puoi fermarla, e dun-que devi assumerla, e così però non solo ne di-venti parte, ma contribuisci a farla vincere. La crisi della politica c’è, non perché la politica non ha più ascoltato, ma perché non ha più parlato. E’ diventata l’intendenza che segue invece dell’a-vanguardia che precede. La politica non ha più assolto alle sue funzioni: dirigere i processi, risol-vere i problemi, non gestire ma governare, orga-nizzare il conflitto, più che dare rappresentanza,

fare rappresentazione del sociale negli antago-nismi di una società divisa, mostrare di avere a cuore le forme di vita delle persone, produrre futuro nella critica del presente. Bisogna ripartire dall’alto. Per rifare po-polo, è necessario, indispensabile, ricostruire classi dirigenti. Qui è l’oggi della Tigre Assenza. Non è un compito impossibile. La crisi potreb-be essere il kairòs, l’occasione, il tempo giusto. Non se ne vedono i segni. Ma non è vero che la storia è finita. E’ solo un film interrotto dagli spot pubblicitari della cronaca quotidiana, che sem-brano eterni. Sono finite le filosofie della storia, le narrazioni ideologiche borghesi di un inarre-stabile progresso verso il meglio. Il meglio te lo devi conquistare. Lo devi imporre al corso della storia, che rema contro. Anche questo, forse so-prattutto questo. è politica. E politica antagoni-sta. Essenziale è non lasciarsi tentare dal tutto e subito, dalla semplificazione, dall’improvvisa-zione, e cioè di nuovo dall’illusione velleitaria e minoritaria. Non ci sono scorciatoie. Il cammino è lungo, e lento. Anche chi, come noi, resiste ad assumere il nome di riformista, deve però di-sporsi a ripensare il concetto di rivoluzione. Si tratta di un processo, articolato, contraddittorio, non lineare, non progressivo. Qualcuno ci ave-va avvertito che non si sarebbe trattato di una camminata sulla prospettiva Nevskij. Anche con questo capitalismo i conti sono complicati. Non è il caso di risolverli, per usare l’espressione di Marx, “alla plebea”. C’è piuttosto da alzare la sfi-da, riconsegnando una credibile autorevolezza al rifiuto della logica di sistema. Va inventata una guerra di posizione, manovrata come fosse di movimento. Come per lo Stato, la società bor-ghese si cambia, non si abbatte, non si nega, si supera. E nel superamento c’è sempre il movi-mento del trattenere ciò che serve. Nella con-tingenza nemica, cioè nella realtà di oggi, è con-cessa solo l’utilizzazione del nemico. Di nuovo, questa è politica. Ma ci vogliono la forza e l’in-telligenza e poi una sintesi nuova tra queste due antiche cose, che si chiama, appunto, l’autorità.

Non c’è egemonia

senza autonomia,

non c’è lotta senza

organizzazione,

non c’è politica

senza cultura

politica.

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RAPPRESENTABILITÀ: LE CONDIZIONI ANTROPOLOGICHE DELLA POLITICA

di GIACOMO BOTTOS

l dibattito su populismo e rappresentanza oggi è ampiamente fuorviante.La critica della rappresentanza da parte dei po-pulisti, formulata in maniera confusa, quando as-sume contorni più definiti presenta l’aspetto di un rifiuto di legittimità espresso nei confronti non solo del rapporto fra elettore e deputato, ma più in generale delle forme della politica. Temi clas-sici della riflessione politica sul tema della rap-presentanza -come la questione del mandato libero o imperativo, delle forme istituzionali o dei meccanismi elettorali- pur comparendo riman-gono dei dettagli che non esauriscono la totalità del problema.Si manifesta piuttosto in queste modalità di pro-testa un confuso malessere, che in un qualche modo è più profondo e va oltre le varie istanze di cui i movimenti populisti si fanno portatori. Un sentimento immediato di protesta, di rifiuto, di in-dignazione si esprime in questi movimenti e solo dopo, o superficialmente, viene giustificato ri-conducendolo a cause apparenti o parziali (i po-litici corrotti, l’Unione Europea, gli immigrati ecc.).Di fronte allora a questo genere di proteste, che spesso assumono un carattere marcatamente regressivo e che non si fanno portatrici di rea-li istanze di trasformazione del reale, limitarsi a ribadire la legittimità formale del sistema istitu-zionale esistente rischia di essere una risposta corretta ma insufficiente.D’altra parte l’adesione mitigata, a dosi omeo-patiche, a singole rivendicazioni e stilemi della protesta populista da parte della politica istitu-zionale può essere una risposta magari effica-

ce sul breve periodo ma incapace di risolvere radicalmente il problema. Se infatti il populismo può diffondersi in maniera così pervasiva questo allude ad un’insufficienza profonda della politica istituzionale.Se il populismo rappresenta un sintomo del di-sagio diffuso nei confronti delle forme istituzio-nali esistenti (forme istituzionali che vanno con-siderate in stretta relazione con un determinato sistema economico-sociale) e ne segnala, con la sua stessa esistenza, mancanze e insufficien-ze, tuttavia le ragioni a cui il populismo riconduce questo disagio costituiscono una spiegazione manifestamente insufficiente.Costi della politica, corruzione, inefficienze rap-presentano semmai la manifestazione superfi-ciale e non la causa profonda della crisi della politica. D’altra parte, il riferimento al populismo consente ad una politica istituzionale non all’al-tezza del proprio compito di non affrontare il problema profondo della propria natura, con-trapponendosi e criticando in maniera semplici-stica un’alternativa manifestamente inaccettabi-le. Il populismo serve spessissimo come alibi e come sistema per ricompattare l’elettorato. Per dirla in altri termini: l’autocomprensione tanto del populismo quanto quella della politica isti-tuzionale (che troppo spesso si aggrappa alla superficialità del politicamente corretto) sono fuorvianti e in fondo impolitiche. La politica è, ap-punto, il grande assente di questo dibattito.

Se vogliamo prendere sul serio il problema del-la rappresentanza non possiamo considerarla come una mera procedura formale. La rappre-sentanza è prima di tutto un legame che unisce

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governanti e governati, un legame che si fonda sulla capacità della politica di interpretare, dan-do forma (quindi non di rispecchiare e nemme-no di contrapporsi censurando), i sentimenti e le aspirazioni più profonde di un’epoca, trasfor-mando ciò che è confuso in un progetto politico coerente ed ef- ficace.Per fare questo è ne- c e s -sario contempera-re due abilità op-poste: la capacità di aderire parzial-mente ai sentimen- t i immediati della popo- lazio-ne e al tempo stesso quella di riformularli, di dare a questi sentimenti un’espressione non immediata ma resa compatibile con la costru-zione di una prospettiva politica. La capacità di tenere assieme in un equilibrio difficilissimo que-ste due tendenze è ciò che appunto connota il politico. Oggi è esattamente questa capacità, quest’arte che si è smarrita. Perchè si ritiene che non sia più necessaria. Perchè si pensa che nel mondo post-moderno la mediazione politica sia superata da altre forme di rappresentazione. Ma forse è proprio questa convinzione il principale ostacolo che impedisce di pensare una politica capace di svolgere questo compito sul terreno del presente.

Ma se si vuole fare questo tentativo, se ci si vuole mettere in questa prospettiva, si incontra subito un grande problema. Sembra cioè che manchino le condizioni antropologiche perchè questo lavoro di interpretazione e di messa in forma possa avere luogo.Che fare se i sentimenti che la politica deve inter-pretare assumono un carattere distruttivo? Se la rappresentazione viene rifiutata? Se si genera, per cause storico/economiche e per errori poli-tici, un diffuso sentimento anti-politico che rende in generale impossibile perfino comprendere il linguaggio della politica? Come costruire un pro-getto politico sulla base di un vissuto esistenzia-le collettivo che si oppone alla propria traduzione in termini politici? Da questo punto di vista il po-

pu-lismo è d o p p i a -mente un nemico. In primo luogo perchè rafforza tale senti-mento anti-politico e in secondo luogo perchè monopolizza la “con-nessione sentimentale” con il popolo impeden-do ad altri di impostarla su basi diverse. Ma è un nemico anche un certo modo più classico di fare politica che nega il problema stesso della “connessione sentimentale”, che trascura del tutto il problema consegnando all’avversario un facile argomento polemico e la possibilità di identificare la “politica” con una prassi asfittica, che trascura il problema di una mediazione rea-le. Lo stesso ricorso sempre più pervasivo alle tendenze tecnocratiche, a una politica cioè che rifiuta di porsi il problema della sua legittimazio-ne perchè si considera investita di un sapere superiore e precedente allo scontro politico, contribuisce potentemente all’ulteriore decadi-mento del legame fra società e politica.

Esiste un nesso dialettico fra amministrativismo e populismo. In verità, a partire dalla crisi del partito di massa avvenuta negli anni Settanta e dall’affermarsi dell’egemonia neoliberista non si è ancora riusciti a trovare un modo di organizza-re la politica che coniugasse democrazia, ampia partecipazione, formazione, elaborazione politi-co-culturale, efficacia e potenzialità trasformati-va. I ricorrenti appelli alla necessità di trovare un modo “nuovo” di fare politica segnalano solo il fatto che il problema rimaneva e rimane irrisolto. D’altra parte è centrale non considerare il pro-blema solo come un problema organizzativo e tantomeno come un problema di comunicazio-ne. La stessa feticizzazione del “partito tradizio-nale” è una risposta insufficiente e difensiva al problema. Il partito – qualunque forma esso as-suma- è e rimane comunque uno strumento le

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cui finalità, la cui organizzazione ed articolazione devono essere determinati da un ragionamento politico. Ma se queste finalità -e il nesso fra fina-lità e mezzi- diventano progressivamente sem-pre più difficili da determinare -come esito della maggiore complessità globale- questo non do-vrebbe condurre allo scetticismo ma piuttosto ad un maggiore sforzo di riflessione teorica e di immaginazione politica per pensare nuove for-me organizzative in grado di produrre compren-sione del presente. Su questo terreno un’analisi del modello del think tank sarebbe preziosa. In-fatti il problema centrale non è tanto e solo quel-lo delle forme organizzative della politica, quan-to di come avvenga lo scambio fra riflessione e politica. Fra teoria e prassi, si sarebbe detto un tempo. Ma un problema ancora più grave si pone allora. Il think tank tende ad essere espres-sione di un certo modo di concepire la politica, in cui in un ambito ristretto si elaborano soluzioni e proposte di policy che hanno come interlocu-tore principale le istituzioni e gli addetti ai lavori, in un orizzonte che è quello della post-demo-crazia delineata da Colin Crouch. Se invece l’i-

dea è di sviluppare un concetto maggiormente espansivo di democra-zia, allora diventa crucia-le capire come i luoghi di elaborazione politico-culturale possano essere rimessi in contatto con quelli ove la politica viene concretamente praticata e come immaginare questi luoghi in modo tale che possano favorire tale elaborazione e rifles-sione. Come rendere diffuse le soluzioni che vengono elaborate nei centri di ricerca (nei casi fortunati in cui questi esistono già), e vicever-sa, come trasformare i partiti essi stessi, alme-no parzialmente, in luoghi di elaborazione che possano porsi all’altezza della complessità del presente? La soluzione a questo problema non può essere puramente teorica, ma dev’essere una prassi che mescoli comprensione della si-tuazione e intelligenza organizzativa. Occorre ricreare un’intellettualità collettiva che sia in gra-do, diffusamente e puntualmente, ma a partire da una comprensione globale condivisa alme-no nelle sue linee generali, di realizzare quella

difficile mediazione fra idea politica e attuazione di essa in una realtà sicuramente non propensa ad accoglierla perchè popolata da soggettività formate sulla base di un’egemonia impolitica. Per invertire questa tendenza occorre formare pazientemente e tenacemente nuclei sparsi sul territorio, centri di pensiero ed azione che colti-vino, nella sua difficoltà, una prospettiva alterna-tiva e cerchino, realisticamente, di comprendere come e in che limiti questa possa essere appli-cata nel presente. Non si tratta solo di concepire un’astratta dottrina ma anche di “accompagnar-la”, di capire come essa possa aderire alle mille pieghe del reale.Da tutto questo non discendono immediata-mente prescrizioni politiche, discende piuttosto un modo di porsi. Un modo di stare dentro alle cose. Sia nei partiti, sia nei confronti del mon-do dell’associazionismo, delle aggregazioni, del terzo settore. Occorre elaborare strategie per una ripoliticizzazione di un mondo che spesso è stato giocato contro la politica, come suo sosti-tuto o come regno dell’onestà contrapposto alla corruzione della politica. Bisogna invece deco-struire questa contrapposizione, riportando nel-la società la consapevolezza del legame delle issues particolari con una prospettiva generale e d’altra parte arricchire la politica di un rapporto con la società che spesso è stato perso asse-condando tendenze autoreferenziali. Si è per molto tempo pensato che esistes-se un mondo che andava difeso dagli attacchi che provenivano dall’esterno. La verità è che questo mondo si è svuotato dall’interno, è diven-tato sempre più povero e sempre più privo di vita e di idee. Occorre prendere atto di questo fatto in maniera disincantata, proprio per proce-dere alla ricostruzione. Il partito, la politica oggi, qualunque cosa vogliamo intendere con questo termine, non è certo un dato, ma può essere solo (eventualmente) il risultato di un lavoro, e può essere ora, in primo luogo, innanzitutto un atteggiamento. Disporsi in questo atteggiamen-to, e riconoscere coloro che si pongono in un atteggiamento simile, è il primo passo per dare inizio ad un percorso complesso, accidentato e dall’esito incerto ma che è forse l’unico che si può indicare a chi oggi voglia fare politica nel senso forte del termine. Si fa politica solo entro le condizioni date. Se tali condizioni non vi sono occorre crearle. E la prima condizione che oggi

manca e che sarebbe necessaria perchè una politica possa darsi è una condizione antropolo-gica. Occorre una riforma intellettuale e morale, per esprimerci con un lessico gramsciano.

Per chi si pone in questa ottica, per chi conce-pisce tale obiettivo, la difficoltà del compito non può essere altro che un incentivo ad intrapren-derlo con più grande impegno.

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Dalla crisi del partito di

massa [...] non si è ancora

riusciti a trovare un modo

di organizzare la politica

che coniugasse democra-

zia, ampia partecipazione,

formazione, elaborazione

politico-culturale, efficacia

e potenzialità trasformativa

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QUELLO CHE CI SERVE È UNA RISPOSTA POLITICA

di LUCIO GOBBI

e ultime elezioni europee hanno consegnato alle forze politiche tra-dizionali un numero di seggi notevol-mente inferiore rispetto alle prece-denti, con una significativa avanzata delle forze populiste. Se il pensiero della sinistra è ancora in grado di in-segnarci qualcosa, non possiamo sorprenderci che da una profonda crisi economica emergano forze e pulsioni volte a un radicale cam-biamento. Non è inoltre un caso che forze populiste di vario tipo si stiano radicando in quei paesi caratterizza-ti da elevata disoccupazione. Quasi fosse una legge matematica si può notare che a tassi di disoccupazione in doppia cifra corrisponde l’afferma-zione di partiti radicali e antisistema. Dietro ai successi elettorali della Le Pen, di Tsipras, di Alba Dorata, di Gril-lo, della sinistra radicale portoghese, dei movimenti autonomisti spagnoli si cela infatti il malcontento di chi vor-rebbe partecipare attivamente alla vita sociale e vede respinta la propria aspirazione. Ciononostante, nessu-na delle liste anti sistema possiede un programma adeguato alla sfida che l’Europa è chiamata ad affronta-re. Potremmo dire che la crociata più o meno esplicita di questi movimenti contro la moneta unica sia la risposta sbagliata al problema ineludibile della riforma della governance economica europea. A forza di invocare tecnici e scienziati si è prodotta nell’opinione pubblica l’idea che l’economia sia una scienza forte come la fisica, oltre alla convinzione che la politica intersechi la disciplina economica solamente al momento della redistribuzione e del reperimento di risorse. Il portato di tale credenza è l’emersione di prese di posizione perentorie come “fuori dall’euro” o, all’opposto, “se non fossi-mo nell’euro oggi saremmo un paese del terzo mondo”. La convinzione che esista un unico modo di funzionamen-to di un’area valutaria riduce inevitabil-mente lo spettro delle scelte possi-bili all’accettazione o al rifiuto di tale moneta. Altrettanto di vulgata è l’opi-

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nione, alquanto diffusa tra gli intellettuali, che la complessità dei problemi economici non possa essere colta dai non tecnici dai quali, si sa, non ci si può aspettare consapevolezza nelle deci-sioni. Indubbiamente ci sono questioni che solo gli esperti possono comprendere, tuttavia non si può negare che i problemi dell’Euro siano princi-palmente politici. L’essenza politica degli assunti della scienza economica ci deve pertanto spin-gere ad analizzare le fondamenta dell’architettu-ra economica europea e a valutare le possibilità di una sua riforma. A tal fine si può notare come l’impianto della moneta unica sia stato model-lato attorno ad alcuni pilastri identificabili in una possibile configurazione del trilemma di Mundell, nell’assenza di solidarietà fiscale, in una banca centrale atipica. Il trilemma di Mundell è quella legge economica che afferma che uno Stato può scegliere solo due della terna cambi fissi-politica monetaria autonoma-libertà di movimenti di capitali. I padri dell’Euro hanno deciso di rispettare il trilemma concependo un’area monetaria a cambi fissi (è così che si può vedere la moneta unica) nella quale i capitali potessero muoversi liberamen-te. Il binomio cambi fissi-libertà di movimento dei capitali svuotò i governi di ogni possibilità di decisione sulla politica monetaria. A grandi linee tale impostazione ricalca le istituzioni economi-che che avevano retto il mondo il occidentale tra il 1870 e 1914 in quel sistema che prendeva il nome di gold standard. Come Marcello de Cecco ha ben descritto in Moneta e Impero, tale mec-canismo istituzionale implicava l’assorbimento degli shock economici attraverso deflazioni sa-lariali rese possibili dall’estrema flessibilità del

mercato del lavoro. Le pressioni intrinseche alla dinamica capitalistica, non potendo scaricarsi ne sui tassi cambi ne sul capitale finanziario, non trovavano perciò altra strada che colpire il la-voro. Barry Eichengreen ha spesso sottolineato come il meccanismo di aggiustamento del gold standard presupponesse che i lavoratori non prendessero parte alle votazioni. Non è difficile immaginare come il suffragio universale avreb-be aperto le porte delle istituzioni a movimenti e partiti il cui fine sarebbe stato la riforma radi-cale di quella configurazione istituzionale. Non è inoltre un caso che l’introduzione del suffragio universale coincise con l’istituzione di un siste-ma finanziario internazionale caratterizzato da cambi fissi e forti controlli sui movimenti di ca-pitale. Seguendo il trilemma si può capire come le economie occidentali poterono riassorbire gli shock per mezzo della politica monetaria e della politica fiscale nei decenni che passarono alla storia come gloriosi. L’impianto economico del dopoguerra cominciò però a sgretolarsi alla metà degli anni sessanta e andò definitivamente in frantumi dopo la caduta del muro di Berlino. Spinti dallo Spirito del tempo e dalla credenza che un crisi sistemica non si sarebbe mai po-tuta verificare, gli ideologi di Maastricht conce-pirono l’unione monetaria secondo i principi del gold standard. La rigidità del mercato del lavoro, imputabile principalmente ai generosi sistemi di welfare europei, ha impedito la dinamica di rie-quilibrio endogeno che l’impianto di Maastricht avrebbe auspicato. Le forze conservatrici ve-dono perciò nell’ulteriore flessibilizzazione del

La convinzione

che esista un

unico modo di

funzionamento di

un’area valutaria

riduce inevitabil-

mente lo spettro

delle scelte possi-

bili all’accettazione

o al rifiuto di tale

moneta.

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mercato del lavoro la rimozione dell’ostacolo che separa la nostra economia dalla ripresa, all’opposto le forze riformiste e di sinistra do-vrebbero pensare ad un’azione politica volta a ridefinire i pesi del terzetto cambi fissi-libertà di movimento dei capitali-flessibilità del lavoro. Tale obiettivo potrebbe essere raggiunto per mezzo di una tassa sulle transazioni finanziarie e attraverso limitazioni implicite ai movimenti di capitali. Limitando la velocità di movimento del capitale finanziario si attenuerebbe infatti la ne-cessità della flessibilità del mercato del lavoro al meccanismo di riequilibrio e si ridistribuirebbero più equamente gli oneri della crisi tra capitale e lavoro. Il secondo pilastro su cui è stata costituita l’unio-ne monetaria è l’assenza di una politica fiscale comunitaria. La politica fiscale è quel meccani-smo che permette di trasferire risorse dalle aree più ricche a quelle più povere al fine di garanti-re servizi e standard di vita uniformi tra le varie componenti di un’area valutaria. Storicamente la politica fiscale è stata utilizzata anche per l’im-plementazione di politiche anticicliche, ovvero utilizzando spesa e investimenti pubblici inve-stimenti come motori della ripresa in momenti di crisi. A Maastricht si decise che l’eurozona non avrebbe dovuto avere una fiscalità centra-lizzata sulla base della convinzione che il libe-ro mercato, grazie alla libertà di movimento dei capitali, avrebbe trasferito risorse ai paesi che ne avrebbero avuto bisogno. In tale contesto, l’unico compito dei governi avrebbe dovuto es-sere quello di vincolarsi a parametri di finanza pubblica al fine di garantire l’affidabilità del pro-prio sistema paese. Allo scoppio della crisi tale impostazione ha avuto conseguenze devastanti per le economie dei paesi più in difficoltà. Da un lato, l’assenza di trasferimenti fiscali dal centro e l’impossibilità dei governi ad attivare i tradizionali canali di spesa pubblica hanno impedito qualsi-asi tipo di politica anticiclica, dall’altro, la fuga dei capitali dalle economie meridionali ha richiesto interventi straordinari della BCE al fine di evita-re il collasso dell’intero sistema finanziario. Se la responsabilità politica degli ideologi di Maa-stricht è quella di non avere pensato che l’eu-rozona avrebbe potuto essere colpita da una depressione di grandi proporzioni, quella dei dirigenti attuali, anch’essi conservatori, è di non

avere previsto gli effetti che le politiche di auste-rity avrebbe potuto avere su un’area economica caratterizzata da una forte grado di domanda in-terna. La storia economica avrebbe dovuto se-gnalare come nessuna economia in stagnazione e in regime di cambi fissi sia mai stata in grado di ridurre il proprio indebitamento a colpi di avanzi primari. Oggi possiamo dire che l’Europa non è diventato il primo. Dati gli effetti devastanti che tale politica ha prodotto sulle economie dei pae-si dell’Europa meridionale, la richiesta di allenta-mento dei vincoli di bilancio è diventata uno dei perni di tutti i movimenti di sinistra e delle forze populiste. Negli ultimi anni le forze progressiste hanno però fallito nel costruire una piattaforma unitaria per contrastare l’austerity, tale incapaci-tà politica ha permesso alle forze antisistema di presentarsi come l’unica opposizione possibile al paradigma dominante. Come in altri momenti le divisioni e gli interessi nazionali hanno preval-so sulla possibilità di costruire una piattaforma di sinistra in grado di opporsi all’impianto dei conservatori. Ciononostante le forze progressi-ste sono l’unico blocco parlamentare in grado di contare su una piattaforma politica transna-zionale e sui numeri necessari per passare dalla protesta a un’effettiva modifica dei vincoli fiscali oggi in vigore. Il terzo pilastro di Maastricht prevedeva una banca centrale indipendente con l’unico ob-biettivo di mantenere la stabilità dei prezzi. Tale istituto doveva essere indipendente dai governi a tal punto da non potere nemmeno acquistare i titoli di stato dei paesi appartenenti all’unione monetaria. L’unicità istituzionale della BCE non ha creato problemi fino all’insorgere della crisi, da quel momento in avanti, al fine di evitare l’im-plosione del sistema finanziario europeo, l’istitu-to di Francoforte si è trovata di fatto a derogare al proprio statuto. Trilemma alla mano possiamo capire come gli interventi straordinari di Draghi (OMT, LTRO etc.) abbiano svolto il ruolo di tam-pone alla limitata deflazione salariale evitando la deflagrazione dell’eurozona. L’accentuarsi della depressione causata dalle politiche di austerity ha comportato ingenti fughe di capitali privati dai paesi meridionali compensate esclusivamen-te dall’iniezione di capitali pubblici nei sistemi bancari. In assenza dell’intervento della BCE si sarebbe perciò verificata una crisi bancaria di vaste proporzioni nei Paesi meridionali e, di ri-mando, anche nei Paesi dell’Europa settentrio-

nale. I difensori dell’euro hanno perfettamente ragione ad elogiare l’operato del presidente Draghi, non si può però non notare come le po-litiche intraprese dalla BCE siano in contrasto con le indicazioni di sapore monetarista previste dal statuto dell’istituto di Francoforte. A livello statutario sarebbero pertanto necessari degli interventi di riforma al fine di allineare lo Statuto alle operazioni intraprese ogni giorno dalla BCE .In sintesi possiamo dire che non si tratta di pren-dere o lasciare l’Euro sottoponendolo a qualche stupido referendum. La sfida che ci troviamo di fronte ci chiede di riformare i pilastri della mone-ta unica al fine di raggiungere la piena occupa-zione in tutti i paesi dell’eurozona. Al momento il blocco progressista e quello della sinistra sono gli unici in grado di fronteggiare tale compito. La mancata intesa tra tali forze politiche, cri-stallizzando le disuguaglianze e i livelli di disoc-cupazione prodotti dall’impianto dell’austerity, spianerebbe definitivamente la strada all’ascesa di forze disgreganti di destra. La riforma della governance europea deve pertanto diventa-re l’orizzonte sul quale chiunque abbia a cuore le conquiste della civiltà della civiltà del lavoro debba progettare la propria battaglia politica.

A livello statutario

sarebbero pertanto

necessari degli

interventi di riforma al fine

di allineare lo Statuto alle

operazioni intraprese ogni

giorno dalla BCE.

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1918

POPULISMO, NEOLIBERISMO E CRITICA ALLA MEDIAZIONE

di FRANCESCO MARCHIANÒ

Populismo. Il termine, ormai da svariati anni im-pazza tra gli studiosi e nel dibattito pubblico. Ep-pure, nonostante il suo successo, questo termi-ne fatica a trovare una definizione condivisibile e chiara che lo trasformi in concetto. Questa dia-gnosi vale ancora oggi, nonostante ci siano sta-ti negli ultimi tempi pregevoli tentativi definitori fatti da studiosi molto apprezzati. Il populismo, perciò, pare soffrire ancora di quel “com-plesso di cenerentola” che era stato ef-ficacemente certificato nei primi anni sessanta da Isaiah Berlin nel cor-so di un convegno tenutosi alla London School of Economics proprio sul populismo. Esi-ste, cioè, una scarpa, il po-pulismo appunto, ma manca il piede cui calza a pennello.Il problema essenziale sta in due fattori. Il primo è l’eterogeneità degli ambiti nei quali è stata applicata l’eti-chetta “populismo”. Lo si è usato, infatti, per indicare regimi, leader, stili politici, partiti e movimenti, a loro volta molto tra loro differen-ziati. Si parla di populismo per descrivere regimi autoritari, ma anche alcuni totalitarismi e, ovvia-mente, diversi fenomeni che attraversano le de-mocrazie attuali. Lo si utilizza per indicare politici outsider, telegenici, usi alla retorica antipartitica e antipolitica, ma anche per coloro i quali hanno ricoperto ruoli istituzionali molto rilevanti. Sono stati definiti come populisti partiti e movimenti di destra, di sinistra, etnoregionalisti. Insomma quella di populista è un’etichetta che spesso è stata utilizzata in maniera grossolana e che per

questo motivo esigerebbe uno sforzo maggiore per disegnarne meglio i confini.Il secondo fattore è la caratura polemica che accompagna il termine e che lo rende, perciò, poco efficace nella comprensione dei fenome-ni. Quando si parla di populismo, perciò, non lo si fa per descrivere un fenomeno ma per valutarlo,

per giudicarlo criticamente. Anche per questo motivo sarebbe utile uno sforzo per rende-

re il più possibile neutro questo termine. I tentativi di definizione del populismo,

come si accennava, sono stati mol-teplici. Lasciando da parte i suoi

riferimenti storici con i quali è nato il termine (i narodni-ki nella Russia zarista, coi

quali polemizzava Lenin; il People party negli Stati Uniti

dello stesso periodo), la maggior parte delle definizioni hanno seguito

modalità diverse. Alcune si sono limi-tate alla classica tipologia, cioè a classi-

ficare le varie modalità del populismo, altre hanno tentato di giungere all’essenza del popu-lismo affinché, con ciò, che potessero definirlo come un’ideologia. Da Ludovico Incisa di Came-rana, che ne scrisse la definizione del Dizionario di Politica, agli ottimi lavori di Yves Meny e Yves Surel, molti contributi sono andati in questa di-rezione; persino Margaret Canovan, autrice nel 1980 del fondamentale Populism, in tempi più recenti ha abbracciato questa modalità di defi-nizione. Alcuni studiosi, invece, hanno utilizzato una concettualizzazione in grado di potersi ap-plicare con più facilità ai diversi fenomeni che si dicono populisti. Ad esempio Pierre-André

Taguieff sostiene che il populismo sia uno stile politico oppure Marco Tarchi, il maggior studio-so italiano del populismo, lo definisce come una mentalità, una forma mentis. E come nel caso di Taguieff, in grado di innestarsi in più contesti e in diversi attori appartenenti a famiglie politiche diverse e opposte. Ciò che accomuna tutte le definizione è l’appello diretto al popolo e l’idea che quest’ultimo abbia dei valori e delle virtù in-nate. Per comprendere la natura di questo ap-pello al popolo occorrono però delle precisazio-ni. In generale gli studiosi si sono soffermati sulla visione manichea da esso scaturita nella quale al popolo sono associate le virtù positive mentre ai suoi nemici, che sono i più disparati, dai politici, ai grandi capitalisti, ai banchieri, ai tecnocrati, alle istituzioni democratiche, sono associate le virtù negative. Si realizza così una retorica antielitaria, o ancor meglio antiestablishment. A nostro avviso, nell’appello al popolo, l’elemento distintivo che va sottolineato è la cri-tica alla mediazione. I partiti politici, i sindacati, le grandi organizzazioni, ma anche le assemblee rappresentative sono il vero nemico del popu-lismo. L’appello al popolo è insito nella politica, soprattutto nella democrazia che significa ap-punto potere del popolo. Ma il popolo, per eser-citare il suo potere necessita della mediazione, degli intermediari. Nel momento in cui essi da strumento del potere del popolo diventano l’og-getto della critica del popolo, cioè nemici del popolo, si ha il populismo. In questo senso il po-pulismo mette in atto una distorsione del pro-cesso democratico. Qual è la conseguenza di ciò? La critica alla me-diazione parte con l’idea di dare maggior potere al popolo, ma in realtà si risolve nell’esaltazione del leader, del capo decisionista, sia di partito che di governo, al quale viene di fatto conse-gnato maggior potere e che alla complessità della politica, che è compromesso, antepone la velocità del fare, che ammutolisce con minacce e ostentazioni di forza critici e oppositori, sia in-terni che esterni. Così inteso il populismo rappresenta non solo una distorsione ma un pericolo per la de-mocrazia. Per comprendere realmente occorre rispondere a questa domanda: chi comanda nel populismo? Come si accennava, la retorica po-

pulista e antipartitica dice che a comandare sia il popolo, o i cittadini, e non i professionisti della politica e gli apparati. Di fatto, però, il potere, tol-to agli intermediari solo apparentemente ritorna al popolo, ma in realtà viene concentrato nelle mani di pochi come i leader, gli esecutivi e i loro capi. Si realizza, cioè, il mito della governabili-tà teorizzato dagli ideologi del liberismo politico della Trilaterale. Ma sono in realtà davvero loro a possedere il potere? Qui si apre un altro fronte. Il populismo, non quello di Grillo o di Le Pen, ma quello che sta o è stato al governo, è connesso con il neoli-berismo, è una prosecuzione del neoliberismo con altri mezzi. Per dimostrare questa tesi basta capire realmente chi è che seleziona i leader e i governanti, chi li finanzia, chi fornisce loro idee e personale politico. I leader che vincono nel-le postdemocrazie solo apparentemente sono quelli scelti dai cittadini. Nella realtà essi sono selezionati dai poteri forti, dalle lobby economi-che e mediatiche che ne costruiscono il succes-so. Per questo motivo, una volta vincenti, questi leader dovranno rendere conto a questi poteri non certo ai cittadini o al popolo. Comprendere il populismo da questa ottica si-gnifica provare anche a risalire alla sue cause che non sono quelle della vulgata dominante. In genere si dice che il populismo nasce perché i partiti sono in crisi, perché i cittadini si sento-no più liberi e non amano identificarsi nei partiti, perché la politica è meno dinamica della socie-tà. Sono ragioni in parte vere, ma non strutturali. Per comprendere bene il successo del populi-smo, proprio perché connesso al neoliberismo, è necessario considerare fattori di tipo econo-mico, materialistico, strutturale a cominciare dalla globalizzazione dell’economia e dalla sua smaterializzazione per finire alla crescente pre-carizzazione del mercato del lavoro, al tramonto del Welfare state. Questi fenomeni producono disgregazione sociale, esclusione, diseguaglian-za, incertezza e insicurezza e di fatto distruggo-no il popolo. Ed è proprio quando non c’è più po-polo, come spiega acutamente Mario Tronti, che c’è il populismo. Il neoliberismo, in primo luogo, ha creato le condizioni per far nascere il popu-lismo distruggendo tutte le conquiste ottenute nei trent’anni gloriosi del grande compromesso socialdemocratico e dell’economia keynesiana.

P

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Dopo aver mutato il ciclo di produzione, scon-fitto i sindacati ha puntato sul politico. Un solo avversario era rimasto sulla sua strada cioè i partiti di sinistra. Anziché puntare a sfidarli in campo aperto ha scelto una strategia migliore: li ha comprati. Un elemento su tutti dimostra ciò: il fatto che i partiti di sinistra abbiano rinunciato al conflitto. I partiti aggregavano interessi diversi e specifici nella società e li introducevano nell’a-rena politica. Capitale e lavoro stavano e stanno in perenne conflitto ma oggi nessuno pare ac-corgersene. La sinistra ha rinunciato al conflitto e ha cominciato a parlare di un generale interes-se dei cittadini, della gente, nella migliore delle ipotesi del bene comune. Ciò è avvenuto per-ché la sinistra ha abbandonato il suo riferimen-to storico principale nella società ossia il lavoro. Solo che senza il lavoro la sinistra non è più tale, non è più alternativa, sta tutta dentro il sistema. Non trasforma la società dal punto di vista del lavoro, ma fa proprio quello del capitale. Il po-pulismo è perciò essenzialmente un fenomeno autodistruttivo della sinistra col quale essa ha perso autonomia, identità e ragione storica. Il po-pulismo non è Le Pen, ma Tony Blair. Per questo oggi, per un politico di sinistra, stare nel giro dei miliardari, degli imprenditori, del capitale, della Confindustria è motivo di vanto. Ubbidire ai loro ordini, in cambio di un vasto e positivo spazio mediatico, questo è lo scambio cui ha ceduto la sinistra. E non solo in Italia, purtroppo.

Ciò è avvenuto

perché la sinistra ha

abbandonato il suo

riferimento storico

principale nella so-

cietà ossia il lavoro.

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POPOLO E POPULISMO:UNA RIFLESSIONE

di PAOLO FURIA

francese e di individuo agente della tradizione anglosassone, è quello di unità fusionale e desti-nale di un collettivo. Fichte, nei Discorsi alla nazio-ne tedesca, ne parla in questi termini: “un popolo è quell’insieme di uomini che vivono fra di loro in società, si producono da loro senza interruzio-ne spiritualmente e materialmente, quell’insieme dico, nel quale il divino si svolge seguendo una determinata legge speciale. La comunanza è appunto ciò che unisce questa massa nel mon-do eterno e quindi pure nel temporaneo, e ne fa un tutto naturale e impregnato di se stesso” (Fichte, 1807-1808). Non sfuggono i tratti idea-listi della definizione fichtiana; tuttavia, questo discorso segna uno spartiacque importante tra un lungo passato in cui la coscienza di popo-lo era puramente fondata sulla condivisione di miti e linguaggi comuni ed un futuro, moderno, in cui il popolo si individua come unità legata da un comune destino, e dunque uno stesso futuro. Il richiamo al comune destino è l’essenza roman-tica dei moti popolari dell’Ottocento; è questo il retroterra culturale del rafforzamento delle nazioni, figure del protagonismo dei popoli nella loro autorappresentazione ed autodetermina-zione politica, territoriale ed economica.

Questa accezione di popolo è dotata di riscon-trata efficacia storica: i sentimenti di appar-tenenza che essa è in grado di mobilitare nel singolo sono stati studiati per via psicoanalitica (per esempio in Freud, Il disagio della civiltà, 1930), sono stati adoperati dai governi durante la mobilitazione della Prima Guerra Mondiale, sono stati temuti dagli internazionalisti, sono stati infine impiegati con rinnovata capacità dai totalitarismi europei degli anni ’20, ’30 e ’40. Ora, la raziona-lità e la legittimità di una determinata categoria storica si misura sempre anche in funzione della sua efficacia, della sua capacità di produrre ef-fetti, dunque della sua potenza. Non c’è dubbio che la categoria di popolo sia contraddistinta da una sua efficacia, da una sua potenza, per la capacità di mobilitare risorse simboliche signi-ficative, che hanno determinato conseguenze e segnato processi che arrivano sino a noi e ci attraversano. Tuttavia, proprio l’esperienza del-le dittature novecentesche dimostra l’ingenuità della definizione idealistica di popolo che Fichte ha consacrato e che ha animato tutta la vicen-da ottocentesca. Non è necessario scomodare il divino o il destino. Il punto è che una deter-

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hl rapporto tra il populismo ed il popolo: è su questo che occorre riflettere quando ci si inter-roga intorno al populismo in termini di bene o male, di giusto o ingiusto, di realtà o di ingan-no. E’ sin troppo diffusa e condivisa infatti l’ac-cezione negativa del termine “populismo”, indi-viduato, negli ambienti della sinistra riflessiva e nella retorica delle istituzioni democratiche rap-presentative, come una forma di attrazione del consenso fondata sulla brutale semplificazione della realtà: il politico che fa del populismo cer-ca di arrivare alla “gente” con messaggi facili da comprendere, che toccano interessi diffusi, ac-compagnandoli spesso da un moto di indigna-zione e scandalo per una qualche ingiustizia che altri competitori politici avrebbero perpetrato ai loro danni. Che gli interessi toccati dai messaggi populisti siano effettivamente quelli “del popo-lo”, è indifferente: l’importante è che il popolo ci creda.

Generalmente, a supporto delle analisi anti-populiste, vi sta un’interpretazione della realtà in termini di complessità. Chi si staglia contro il populismo individua in esso nient’altro che una banalizzazione della complessità e, dunque, lo addita come una “presa in giro” bella e buona. In effetti, dal punto di vista del Governo, è così. Di solito, è più facile fare del populismo quando non si governa: si raccolgono i malumori del po-

polo, li si interpreta anche a discapito di un’ana-lisi puntuale delle loro ragioni e li si gonfiano, al fine di rappresentare l’insostenibilità della con-dizione data (nonché l’inadeguatezza dei gover-nanti in carica) e la necessità di cambiare. Se un governante è arrivato al potere col populismo, necessita di una potenza mediatica, economica e politica imponente per mantenere inalterato il proprio consenso durante gli anni del governo, in cui il confronto con la complessità si fa inevi-tabile e non ogni attesa viene soddisfatta.

Il populismo sarebbe quindi indifferente alla complessità. Ma questa è un’obiezione istitu-zionale, “governativa”. Non ci dice niente sulla consistenza politica di questa nozione. Se vi è d’altronde una consistenza politica, una legittimi-tà, essa non può che trovarsi nel concetto di po-polo. Se è possibile considerare il popolo come l’elemento fondamentale ed originario che chie-de di essere rappresentato in forma politica (il popolo, e non invece lo stato sociale, il ceto o la classe), allora la nozione di populismo dovrà es-sere riconsiderata. E qui il discorso si complica.

Popolo è infatti un termine importante della tradi-zione politica e filosofica occidentale e non solo. Esso è dotato di due significati fondamentali. Un primo, che emerge in età romantica in contrasto con l’idea di soggetto universale dell’illuminismo

I

Non c’è dubbio che la

categoria di

popolo sia contrad-

distinta da una sua

efficacia, da una sua

potenza, per la

capacità di mobilitare

risorse simboliche

significative.

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Quando in una

determinata

epoca si potenzia

un appello

“al popolo” contro

le élites, questo

dovrebbe perlo-

meno rappresen-

tare un monito per

le élites.

minata condizione socio-storica, soprattutto se contiene oggettivi elementi di mortificazione e sofferenza sociale e culturale che accomuna-no la grande parte di una popolazione (si pensi alle condizioni critiche in cui versava la Germa-nia pre-Hitleriana), può essere efficacemente in-terpretata da una forma di governo che intenda corrisponderle attraverso messaggi di riscatto e di orgoglio di popolo. Poco importa che gli operai avessero le proprie rivendicazioni, che i capitalisti ne avessero delle altre, che i profes-sionisti e i ceti borghesi ne avessero altre anco-ra; in queste situazioni, gli elementi trasversali di sofferenza economica, sociale e simbolica sono stati la materia su cui il soggetto – popolo è sta-to costruito e confezionato. Il potere populista, corredato da un imponente apparato di propa-ganda fondamentale nell’epoca delle masse, ha raccolto la materia di un popolo e gli ha dato una forma, un’appartenenza, una rappresentazione politica ed un destino. Il popolo può dunque es-sere un artefatto: non di Dio, ma del potere; ma è un artefatto che funziona.

Ancora un passo sul significato della figura del popolo. Vi è una sua seconda accezione che in effetti risulta centrale per la comprensione del-la sua potenza come categoria storica. Si tratta della connotazione sociale del popolo, ossia del popolo contrapposto alle élites. Se nel Sette-cento la cultura dei Lumi ha propagandato per la prima volta in maniera così massiccia e diffusa ideali di libertà ed uguaglianza, lo ha tuttavia fat-to da una prospettiva consapevolmente elitaria,

che si occupava meno della interpretazione dei bisogni immediati del popolo che non della sua educazione. Educazione ed emancipazione si in-contrano in maniera più feconda nel modello po-litico perpetrato dal marxismo, ma, com’è noto, per precise ragioni di sistema, il soggetto dell’e-mancipazione, il soggetto da rappresentare ed in grado di autorappresentarsi, non era il popolo, bensì la classe proletaria. La verità è che una millenaria concezione feudale del mondo, abi-tuata a ragionar per ceti divisi da impenetrabili barriere, si è superata solo per un verso attra-verso una lettura della realtà sociale per classi, distinte per la posizione occupata nei rapporti economici della società capitalistica, posizione materiale e non più metafisica, e dunque dialetti-camente reversibile (è questa reversibilità della posizione economica a rendere possibile la rivo-luzione). Per l’altro verso, però, anche la nozione di popolo, proprio in forza del suo olismo, del panismo cui è ispirata, ha saputo penetrare oltre la differenza di ceto, aprendo le porte all’indivi-duazione di nuovi fondamenti del politico. E’ di grande interesse osservare come la figura del popolo stia alla base tanto della nozione di po-pulismo (che continuo ad assumere nel suo si-gnificato dispregiativo in voga oggigiorno) sia di quella di democrazia, definita proprio per come emerge a seguito delle lotte contro le dittature, per l’uguaglianza e la libertà.

Ciò non toglie che vi sia nella semantica stessa della nozione di popolo un’intrinseca ambiguità. Popolo si nasce, si è da sempre e si è desti-nati a essere, o popolo si costruisce – e sono i potenti in grado di mobilitare risorse economi-

che simboliche a costruirlo? Popolo è soggetto di emancipazione che valorizza la prossimità, la cura del territorio e la relazione reciproca o è fi-gura particolare contrapposta all’ambizione uni-versale degli umani ad essere ovunque liberi ed eguali? Il popolo può essere, in virtù di interessi anche economici che si rivelano prevalenti in una maggioranza di popolazione di una nazione e indifferentemente dalla posizione sociale dei suoi membri, il soggetto che rivendica a sé nuo-vo governo, contrapponendosi alle élites che lo hanno schiacciato ed oppresso, oppure si trat-ta di una soverchia illusione, perché dietro alla stilizzata figura di un “popolo” vi sono interessi contraddittori che altre figure storiche (come le classi) sono in grado di individuare e contrap-porre efficacemente?

L’invito di queste poche pagine è solo quello di prendere sul serio la figura del popolo. Popolo come unità di rappresentazione simbolica co-mune ed interessi prevalenti; popolo come sog-getto sociale contrapposto alle élites; popolo come protagonista di un processo di emancipa-zione ed autodeterminazione, sono tutte dimen-sioni potenti e allo stesso tempo perniciose del-la “realissima” figura del popolo. Potremmo dire che, più di molte altre categorie socio-storiche, il popolo vive sullo stretto crinale che separa, ma connette, rivoluzione e reazione. Un crina-le che, d’altronde, molti hanno guadato, talvolta senza rendersene conto.

Quando in una determinata epoca si potenzia un appello “al popolo” contro le élites, questo dovrebbe perlomeno rappresentare un monito per le élites, che muovono critiche importanti ai populismi e alle demagogie a partire dall’argo-mento sulla complessità: questo vale a maggior ragione oggi, in presenza di regimi democratici fondati sulla rappresentanza. Come gli osserva-tori più acuti hanno colto, il successo di Mari-ne Le Pen nelle recenti elezioni amministrative francesi è dovuto alla sua capacità di individuare nell’opposizione popolo/élites l’opposizione fon-damentale del nostro tempo. A noi poco deve importare che questa contrapposizione sia stru-mentale. Saremmo d’altra parte degli sciocchi se pensassimo che l’unica risposta stia nella dimostrazione che la complessità dei processi è irriducibile a questa contrapposizione tra go-vernanti e governati. Sappiamo che esiste oggi

un tema di rappresentatività democratica delle istituzioni europee; un tema di disagio sociale crescente; un tema di disuguaglianza economi-ca sempre più intensa tra redditi da lavoro “del popolo”, di tutte le generazioni e di qualsiasi pro-fessione, e rendite del capitalismo internazio-nale. Sappiamo anche, ahinoi, che continuare a denunciare tutto questo per guadagnarci sopra qualche consenso in vista delle prossime euro-pee, senza avere tuttavia le risposte giuste, non è altro che deteriore populismo.

Ma ogni sforzo dovrà essere fatto per evitare di combattere il populismo contro “il popolo”. Su questo terreno, anzi, si misurerà la differenza tra l’elitismo, banale almeno quanto il populismo (e spesso, contro-intuitivamente, con esso a brac-cetto) ed una rinnovata sinistra in grado di “ave-re un popolo” e, oltre, di “essere un popolo”, che lotta sul versante dell’emancipazione e resiste contro le sirene, che altri suonano, della reazione.

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POPULISMO ED EGEMONIASOCIALISTA IN

ERNESTO LACLAUdi STEFANO POGGI

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La posizione

teorica di Laclau

non si limita quindi

ad essere post-

marxista [...] ma si

colloca in una

prospettiva che

potremmo defini-

re post-socialista.

l populismo può essere uno strumento per im-porre una nuova egemonia socialista? Questa è la domanda che sorge spontanea leggendo le pagine di On populist reason (2005) del filosofo (recentemente scomparso) Ernesto Laclau.Due parole, prima di tutto, sull’autore. Laclau na-sce nel 1935 a Buenos Aires, Argentina. Militante e dirigente socialista (di tendenza trotskista), a fine degli anni ‘60 è costretto a riparare in Inghil-terra per sfuggire alle prime persecuzioni della giunta militare. Nel decennio successivo si dedi-ca allo studio della filosofia di Antonio Gramsci, la cui influenza è ben visibile nella sua opera più celebre, Hegemony and socialist strategy, scritta in collaborazione con la compagna e studiosa belga Chantal Mouffe. In questo saggio il filosofo argentino cerca di risollevare il pensiero sociali-sta dalle secche in cui si trovava impantanato di fronte alla “rivoluzione neoliberale” di Thatcher e Reagan. La soluzione di Laclau e Mouffe preve-deva un superamento della prospettiva riduzioni-sta del conflitto di classe come dato naturale e astorico, verso una proposta di democrazia radi-cale in cui le diverse lotte (di genere, ambienta-li, sociali, culturali in senso ampio) si unissero in modo paritario per la costruzione di una società plurale e libertaria.La posizione teorica di Laclau non si limita quin-di ad essere post-marxista (come rivendicato in più sedi dallo studioso argentino), ma - indicando come fine dell’azione politica il conseguimento della democrazia radicale – si colloca in una pro-spettiva che potremmo definire post-socialista: il superamento del capitalismo viene infatti de-

classato a battaglia fra le tante, a tassello della futura democrazia radicale.Questa proposta teorica, che ebbe largo segui-to nel mondo anglosassone (anche perché si legò al più complessivo e largo ripensamento culturalista), in Italia non suscitò grande attenzio-ne: sulle colonne dei maggiori quotidiani italiani le sue teorie non trovarono spazio almeno fino alla conclusione del primo decennio del XXI se-colo. In modo paradossale, queste teorie appa-iono però piuttosto in sintonia con le due prin-cipali proposte sviluppatesi durante gli anni ‘90 all’interno del campo post-comunista. Se da una parte Achille Occhetto guidò il Pci nella sua tran-sizione verso il Pds nel nome della costruzione di una forza che perseguisse la democrazia radi-cale (e tale rimase la linea del Pds almeno fino a che, con la segreteria D’Alema, la parola d’ordi-ne non divenne quella - decisamente meno am-biziosa - della costruzione di un paese normale), dall’altra i movimenti post-operaisti ribadirono la necessità, di fronte al mondo globalizzato, di “unire le lotte” per assemblare un nuovo antago-nismo che non avesse più un carattere di classe.Solo alla fine degli anni 2000 le sue maggiori opere sono state pubblicate nel nostro paese, e solo in seguito all’edizione italiana di On populism (tradotta comunque con 3 anni di ritardo rispet-to all’edizione originale). In tale volume, per altro, grande attenzione è dedicata ad esemplifica-zioni storiche italiane, in particolare al caso del Partito Comunista di Togliatti, alla Lega Nord e a Forza Italia.In On populism il filosofo argentino fornisce al let-tore (anche a quello meno avvezzo al linguaggio filosofico, va detto) una sorta di teoria generale

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del populismo nella contemporaneità. Cerchia-mo quindi di ricostruire i caratteri salienti di que-sta teoria, tenendo conto che lo stesso autore precisa che si tratta di schematizzazioni che, nella realtà, si rivelano in forme più complesse (nell’ultimo capitolo del saggio proverà lui stes-so ad applicare le sue teorie ad alcuni fenomeni storici). Il populismo non si associa ad un par-ticolare contenuto ideologico: secondo Laclau è piuttosto una pratica sociale, un modo di co-struire lo spazio politico. Attenzione: non l’unico modo, e non un modo infallibile. Lo scopo del populismo è quello della creazione di un popolo, ritenuto l’unico legittimo ad essere tale, all’inter-no della società. Nel marxismo, per esempio, il popolo è la classe operaia; nel linguaggio della Rivoluzione francese è la Nazione; in ogni nazio-nalismo etnico è la razza.Ne consegue che tutte queste categorie (clas-se, nazione, razza, etc.) non siano considerate da Laclau come naturali (esistenti cioè da sem-pre), quanto piuttosto come costruzioni stori-che. D’altro canto già in Hegemony and socialist strategy Laclau dichiarava l’autonomia della sfe-ra politica da ogni condizionamento sociale ed economico. Perché sia possibile la costruzione di un populismo è però necessario che si rea-lizzino delle precondizioni. In primo luogo nella società devono essere presenti delle domande sociali (cioè delle rivendicazioni parziali) a cui le istituzioni non riescono a dare risposte: i porta-tori di queste domande coltiveranno un’insod-disfazione che li collocherà fuori dal consenso per le autorità che reggono la società. Facendo l’esempio di una città di medie dimensioni: un

quartiere in subbuglio per una cementificazione è portatore di una domanda sociale, così come qualche migliaio di disoccupati o una collettività femminile sdegnata dall’aumento dei casi di vio-lenza sulle donne. Tutte queste domande sociali possono esistere autonomamente le une dalle altre, e non è detto che col tempo non vengano soddisfatte dalle istituzioni. Rimanendo all’inter-no del nostro esempio, abbiamo un populismo quando queste diverse domande vengono lega-te in un’unica prospettiva: vuoi in una prospettiva etnica («gli immigrati ci rubano il lavoro e sono un rischio per le nostre donne») vuoi in una pro-spettiva anti-élitaria («i politici non riescono a ri-solvere i problemi e tutelano solo ai poteri forti»), e così via.Si forma così fra le varie domande una catena equivalenziale: le varie domande parziali assorbite saranno in un certo qual modo subordinate all’e-sistenza di questa catena, diventandone i singoli anelli. Perderanno così la loro autonomia, acqui-stando però un peso più complessivo. Una cate-na equivalenziale che tenda ad assorbire tutte le domande inevase presenti in una società rischia di trasformarsi in un contenitore completamente neutro. Alcune domande potrebbero essere in contraddizione fra loro, per esempio, e se fosse-ro assorbite nella stessa catena ne indebolireb-bero l’intensità complessiva: in questo caso può capitare che essa si riduca a essere incarnata dalla sola figura del leader del popolo (Laclau cita, per esempio, il peronismo di fine anni ‘60, in cui si riconoscevano allo stesso tempo i gio-vani guerriglieri marxisti che combattevano sulle Ande e i conservatori sociali delle grandi città).

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Le riflessioni di

Ernesto Laclau

sul populismo

possono essere

utili per

interrogarsi sulle

ragioni del disar-

mante sradica-

mento dalle classi

popolari della

sinistra italiana ed

europea.

Questo schema generale, applicato nella realtà sociale, si complica per la presenza contempo-ranea di diversi progetti populisti ed egemonici in concorrenza fra loro e per la capacità o meno delle istituzioni di saper disarticolare le catene equivalenziali accogliendo alcune delle domande insoddisfatte. Laclau, inoltre, non precisa quale sia il ruolo dei diversi populismi nella creazione delle diverse domande che, in un certo senso, acquistano quel ruolo naturale e astorico che hanno le classi nel pensiero marxista.Ritornando quindi alla domanda di apertura: il populismo può essere uno strumento per im-porre una nuova egemonia socialista? Una ri-sposta negativa da parte di Laclau si potrebbe recuperare nel già citato Strategia e egemonia socialista, in cui il pensatore argentino invita la sinistra a superare l’interpretazione dicotomica della società (amico/nemico) nata nel giacobini-smo e transitata poi nel marxismo.Nondimeno Laclau, nelle sue ultime riflessioni, si limita a descrivere il fenomeno, senza dare indi-cazioni specifiche al movimento socialista. Una risposta preconfezionata a tale questione non è dunque presente nell’opera e, d’altro canto, non è possibile svilupparla in questa sede senza un adeguato (e collettivo) approfondimento.In questo senso le riflessioni di Ernesto Laclau sul populismo possono essere un ottimo pun-to di partenza comune, oltre che uno strumento utile per chiunque si interroghi sulle ragioni del disarmante sradicamento dalle classi popolari della sinistra italiana ed europea.

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IL POTERE DEL DIRITTO. NOTE SU DEMOCRAZIA E LIBERALISMO A

PARTIRE DA UN LAVORO DI BIAGIO DE GIOVANNI

di FRANCESCO DE VANNA

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Il fenomeno (solo parzialmente) inedito con cui si è costretti a confrontarsi è il riaffacciarsi di movimenti populisti che, nel contestare radical-mente il concetto di rappresentanza, tendono dichiaratamente a rimettere in discussione l’ar-chitettura costituzionale europea nonché il suo stesso progetto come “destino”. Il carattere “massificato” delle democrazie contemporanee fa sì che i principi stessi del costituzionalismo moderno – a partire dal concetto di rappresen-tanza fino al principio-cardine della separazione dei poteri – siano messi pericolosamente in di-scussione, senza alcuna valida alternativa istitu-zionale. A questo riguardo alcuni preziosi spunti di rifles-sione sono offerti da un recente lavoro di Biagio De Giovanni, intitolato “Alle origini della democra-zia di massa” (Editoriale Scientifica, 2013). La tesi fondamentale del libro è che la grammatica della democrazia, collocata in un rapporto difficile tra massa e politica, è insidiata ab origine da rischi dispotici e totalitari. Alla radice c’è una “endiadi problematica”, quella tra democrazia e libertà individuali, ma la tesi conclusiva è incentrata sul diritto come unico medium possibile per sottrar-re spazio alle forze anomiche della modernità e per conferire forma razionale alle democrazie di massa. Il libro è costruito su una summa divisio: da un lato il contributo dei filosofi, da Rousseau a Foucault, dall’altro quello dei giuristi, con parti-colare riferimento al contributo della scienza del diritto pubblico tedesca, da Gerber a Jellinek. La prima sezione è, indubbiamente, quella più ricca di tensioni e di sollecitazioni per il dibattito attuale.

Partiamo da lì.Tra libertà e democrazia non vi è alcuna neces-saria connessione concettuale: “[I]l dispotismo non è il rovescio patologico della democrazia, ne è piuttosto (…) un compagno che sta annida-to nel suo stesso principio”. Un topos non nuovo alla riflessione filosofica. Platone, al paragrafo 15 della Repubblica, aveva argomentato sui rischi connaturati alla democrazia quale organizzazio-ne del potere “che nasce dalla licenza”, priva di arché e, per questo, facilmente suscettibile di degenerare nella tirannia. Tutta la prima par-te della riflessione di De Giovanni è incentrata sul contributo teorico di quelli che egli stesso definisce “i tre padri fondatori della democrazia moderna”: Rousseau, Tocqueville e Marx. Essi intuirono chiaramente la necessità di “sostanzia-lizzare” la democrazia aprendola alla sua “vera vita” : la democrazia, infatti, predica l’uguaglianza e, per questa via, rompe i confini verso il “basso” della sua legittimazione, facendo entrare l’uma-nità, ossia la prassi umana come tale con i suoi desideri o, per dirla con le parole di Giuseppe Capograssi, con la “forza consapevole del con-creto”. Per questo motivo la democrazia rigetta qualsiasi forma di trascendenza: essa ha voluto essere il sistema politico dell’immanenza pura. Tuttavia, lo scrive Jocelyn Benoist “[…] questo supplemento di immanenza ha una conseguen-za: la democrazia è anche il regime della mol-titudine pura, il regime dal quale la moltitudine, come tale, è (…) costituita come principio poli-tico”. Le determinazioni storiche della massa variano a seconda del tempo e degli autori, definendo idealtipi di democrazia differenti. La massa è il

vero “fatto nuovo” della politica moderna ma, al contempo, anche la sua maggiore insidia, in quanto costituisce l’humus ideale per l’afferma-zione del potere totale. Se si rilegge Elias Ca-netti si comprende il processo di secolarizza-zione della massa: liberata dal contenuto delle religioni tradizionali, essa si è mostrata nella sua nuda passione “animalesca” e si è servita delle occasioni che la storia le ha offerto. Per Canet-ti tutta la vicenda storica del mondo moderno nasce dal timore dell’individuo di restare solo davanti alla inquietudine dell’ignoto. Nella massa, invece, l’individuo supera i confini della propria persona e, partecipando ad un comune senti-mento di uguaglianza, abolisce le distanze che lo confinavano in sé: “per questa uguaglianza si diventa massa”. L’uomo “odia le sue prigioni fu-ture, le ha sempre viste come prigioni. Alla mas-sa nuda tutto appare come la Bastiglia”, laddove il simbolo della fortezza parigina altro non è che “lo sforzo di introiettare il potere nella propria vitalità” (De Giovanni, 118) e di collocare un Sé collettivo all’interno della coscienza storica. Su questo piano diventa utile l’affascinante lettura di Freud sulla “psicologia del collettivo” per la quale l’individuo, all’interno di una folla, allenta il personale senso di responsabilità e la repres-sione delle sue pulsioni inconsce: “[a]llora i nuovi caratteri che egli manifesta sono solo le espres-

sioni di questo inconscio in cui sono ammassati i germi di tutto ciò che di cattivo vi è nell’animo umano” . Ma dalla rivoluzione francese in poi, la riflessione della filosofia politica è incentrata sul-la necessità di trasferire il principio vitale della storia in una forma adeguata e, quindi, sul rap-porto tra la massa anomica che si fa “totalità” e la rappresentanza. In Rousseau – il primo dei padri presi in esame da De Giovanni - questa mediazione non è in re-altà possibile, se non quella agìta direttamente dal popolo. Il punto di partenza è l’uguaglianza, intesa come condizione originaria dell’uomo, tra-dita dalla società e dall’ingresso (innanzitutto) della proprietà sul proscenio della storia. “Molti si sono affrettati a concludere che l’uomo è cru-dele per natura ed ha bisogno di un’autorità che lo addolcisca; al contrario niente è paragonabile alla sua mitezza nello stato primitivo”. Il Contrat-to democratico non è una forma politica come le altre, ma l’unica in grado di riunificare l’essen-za umana, ricomponendo la scissione di essere e apparire determinata dalla disuguaglianza. La sovranità non può essere rappresentata né alie-nata: essa consiste nella volontà generale e la volontà, di per sé, non si rappresenta “o è essa stessa o è un’altra; non c’è via di mezzo” ed ogni filtro apparirebbe inevitabilmente parziale e uni-laterale. La democrazia è tale solo se ricostru-

La prima parte della riflessione di De Giovanni è incentrata sul contributo teorico di quelli che egli

stesso definisce “i tre padri fondatori della democrazia moderna”: Rousseau, Tocqueville e Marx.

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isce l’isomorfismo tra vita e potere, facendone un tutt’uno. La massa agisce come massa ed esclude la rappresentanza: per questo motivo la democrazia di Rousseau non può che essere diretta. Anche in Marx il tema della rappresentanza è estraneo alla radicalità della sua riflessione. La democrazia è tale se non è chiusa nell’astrat-tezza della maschera politica e se consente l’in-gresso della totalità della vita, non più divisa in “sfere”. Diversamente è forma politica astratta, esteriore, separata dalla materialità dello Stato terrestre e, d’altra parte, lo Stato può essere li-bero senza che l’uomo sia libero. Il mondo mo-derno ha diviso in due l’esistenza producendo l’uomo politico e l’uomo privato, “ma solo quando il reale uomo individuo raccoglie in sé l’astratto cittadino, e l’uomo individuale nella sua vita em-pirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali, è diventato membro del genere uma-no”. Dunque compito della democrazia vera è recuperare l’unità vitale ed esistenziale dell’uo-mo moderno, ma per questi fini non è sufficiente neanche lo stesso suffragio universale, rispetto al quale Marx resta sostanzialmente indifferente. Il punto è l’estinzione dello Stato, estrarre l’uomo dalla preistoria, dal nascondimento, ricollocan-dolo nella sua sostanzialità contro la sua riduzio-ne astratta ad autocoscienza. Quella disegnata da Marx è, quindi, “ultrademocrazia” perché mira alla integrale risoluzione del potere nella vita, superando alla “radice” la dissimmetria fra esi-stenza e potere. Nella linea continua tracciata da De Giovanni trova un posto, centrale, Alexis de Tocquevil-le. Se per Rousseau la vita del singolo individuo deve necessariamente essere assorbita all’in-terno della volontà generale, in Tocqueville essa deve invece tenersene lontana e preservare la sua inalienabile autonomia. L’uguaglianza è il de-stino irreversibile (e provvidenziale) della demo-crazia: “[L]e ricchezze tenderanno sempre più a livellarsi e la classe alta a fondersi con quel-la media, e quest’ultima a imporre a tutti la sua uguaglianza. Rifiutare di accettare tutte queste conseguenze mi sembra una debolezza” . Tut-tavia l’uguaglianza può sfociare in esiti illiberali e dispotici se non è correttamente orientata alla promozione della libertà.

Nelle democrazie moderne la “folla” gode di un potere subdolo e invasivo grazie al quale impo-ne “una gigantesca pressione dello spirito di tutti sull’intelligenza di ciascuno”. Su questo piano, le società europee sono di gran lunga più espo-ste alle involuzioni dispotiche di quanto non lo sia quella americana, strutturalmente più aper-ta, più plurale, meno incline all’affermazione di “omogeneità”. L’associazionismo, così come osservato in America, è concepito da Tocque-ville come l’antidoto migliore contro le involuzio-ni democratiche. È stato giustamente detto che: “L’esistenza di corpi intermedi assicura che vi sia una formazione paritaria delle decisioni co-muni (…). La difesa delle autonomie locali indica la consapevolezza di collegare la struttura plu-ralistica dello Stato (…) alla struttura pluralistica della società” (Glebro). Il tema della coincidenza tra vita e potere è una risorsa preziosa e ci conduce al contributo origi-nale ed ineludibile di Max Weber, per molti versi un “crocevia” tra riflessione politica e giuridica del primo Novecento. L’elemento emozionale del “collettivo” diventa base legittimante della politica. La tensione tra burocratizzazione delle forme della politica da un lato e dimensione ca-rismatica dall’altra, genera il destino “tragico” ed antinomico della democrazia di massa:

“Per la politica statale il pericolo della democra-zia di massa sta in primo luogo nella possibilità di una forte prevalenza di elementi emotivi nella politica. La ‘massa’ in quanto tale (prescindendo da quali stati la compongano nel singolo caso) pensa soltanto fino a domani. Essa infatti, come insegna ogni esperienza, è sempre esposta agli influssi puramente emozionali e irrazionali del momento”

Per questa via riemerge la necessità di un ele-mento emozionale che ricostruisca un raccordo tra masse e guida carismatica. La politica è quin-di chiamata a scegliere tra due diverse fenome-nologie istituzionali: da un lato la “democrazia senza capi” - affidata ai funzionari del notabi-lato tedesco, privi di vocazione per la politica - e dall’altro il modello della Führerdemokratie fondato sulla leadership, ossia sul “politico di professione”; da un lato il “potere burocratico”, dall’altro il “potere carismatico”. In quest’ultimo modello si manifesta più direttamente l’elemen-

to carismatico che lega il “capo” alle masse e Weber tenderà a delinearlo e difenderlo nel progetto di repubblica presidenziale plebiscita-ria, avanzata alla fine del 1918. Ma già prima egli aveva cercato di smorzare la rigida separazione bismarckiana tra parlamento e governo, teoriz-zando una parlamentarizzazione del Reich che consentisse ai moderni partiti di massa di se-lezionare al proprio interno la classe politica e il capo carismatico1. Il pericolo cui sono esposte le odierne democrazie consiste in una riemersione dell’elemento “irrazionale” che può manifestarsi nelle forme del cesarismo e del potere plebi-scitario: è l’ “aporeticità del Moderno”, il destino tragico delle democrazie di massa che – sulle soglie del ‘900 – già si profilava all’orizzonte.Anche in Italia, all’inizio del ‘900, la democrazia e la forma restano al fondo di un intenso dibat-tito sul concetto di rappresentanza, di libertà e di liberalismo. In questa fase Antonio Gramsci e Giovanni Gentile sono due protagonisti fonda-mentali, ancorché collocati su universi linguistici lontani e su versanti differenti del dibattito fi-losofico. D’altra parte, com’è noto Gramsci nei suo Quaderni sceglie come interlocutore diretto Benedetto Croce, tuttavia De Giovanni ne riper-corre analisi e concetti in relazione al pensiero di Gentile per via delle risposte affini ai dilem-mi politici del tempo. La tensione comune che li anima sta nella necessità di superare un libera-lismo “utilitario” (lo stesso cui pensa Benedetto Croce) per favorire la realizzazione di un’espe-rienza organica. Sono le risposte a segnare, nei due pensatori, distanze profonde ed incolmabi-li. La rivoluzione di Gramsci è quella del 1917, la sua rappresentanza “organica” è il partito che si fa Stato, la “parte” che si fa “tutto”. Il consenso non si esaurisce nella verificazione espressa al momento del voto: al contrario, esso è attivo e permanente, è un processo molecolare e ca-pillare che misura la capacità di espansione del pensiero delle minoranze attive e delle élites:

“(…) cioè la loro razionalità o storicità o funziona-lità concreta. Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia ‘esattamente’ uguale. Le idee e le opinioni non ‘nascono’ spon-taneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elabo-rate e presentate nella forma politica d’attualità”

Da questo processo permanente e continuo na-sce una volontà collettiva ed omogenea. “Tutto è politico”: lo Stato s’innerva nella società e vi-ceversa. Così come in Weber, anche in Gramsci emerge la dimensione “carismatica” quale esito della politicizzazione delle masse, ma alla figu-ra del “capo” borghese si sostituisce il Princi-pe moderno, cioè il partito politico, che assume la direzione per l’affermazione dell’egemonia in chiave pedagogica nei confronti delle classi su-balterne. Nel pensiero di Gramsci la società en-tra nello Stato e ne espande i confini fino a dis-solverlo: la massa è “autocoscienza vivente” e la rappresentanza non può che essere organica.Anche Gentile si riferisce allo Stato liberale come uno Stato astratto ed atomistico, incapa-ce di garantire la libertà: “[A]stratto l’individuo che non contenga in sé lo Stato, e lo debba cer-care o incontrare fuori di sé. Astratta la legge che s’impone alla volontà come un già voluto”. La condizione dell’uomo nella concezione libe-rale è egoistica ed è sempre sottoposta ad una volontà esterna: questa condizione limita e ren-de impossibile un’autentica espressione della libertà, intesa non in senso empirico – come la libertà del singolo - ma come la libertà superiore ed universale dello spirito: “chi dice libertà, dice autocoscienza”. La rivoluzione di Gentile, quindi, non può che essere intesa come “restaurazio-ne”, non nel senso di ritorno allo status quo ante, ma come recupero della sostanzialità autentica dell’uomo e della sua condizione vitale. L’indi-viduo si fa Stato, interiorizzandolo, e fa propria l’universalità della ragione; la legalità è assorbita nella legittimità e la politica coincide non già con il diritto (l’ astratto voluto), ma con la volontà etica in atto.L’endiadi descritta nella ricostruzione del pen-siero dei filosofi si riverbera anche sul dibattito tra i giuristi i quali, lungi dall’assistere passiva-mente alla “grande trasformazione” (Polanyi) dello Stato di massa, s’interrogano sulla funzione di stabilizzazione del diritto al fine di ‘ordinare’ le potenze della vita.Non è possibile riferire la densità del pensiero di ciascuno degli autori presi in esame nel libro ed in questa sede sarà necessario soffermarsi solo alcune figure paradigmatiche. Il punto di parten-za di questa seconda sezione del lavoro di De Giovanni è rappresentato dal formalismo del

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“metodo giuridico” che si sviluppa in Germania a cavallo tra l’unificazione prussiana e l’esperienza di Weimar. Il punto è istituzionalizzare i processi giuridici attraverso i quali il diritto filtra la variega-ta consistenza della vita, astrarre dal dato empi-rico, da ogni contaminazione etico-sociale, per incoronare la forma “pura” della legge generale emessa dall’organo competente. Scrive Carlo Galli che “(…) fu proprio il diritto pubblico a so-stituire la filosofia nel compito di fornire il quadro concettuale e categoriale all’interno del quale era pensata e ordinata la concretezza storica della politica e delle sue dinamiche”. La rifles-sione è concentrata innanzitutto sul rapporto tra volontà sovrana dello Stato e diritti dell’individuo nella cornice formalistica della rifondazione del Diritto Pubblico. I protagonisti di questo nuovo corso sono – in una prima fase - Carl Gerber; Paul Laband, George Jellinek. Nel solco di una concezione storicistica e organicistica, risalente almeno alla “Scuola storica” di Savigny e di He-gel, lo Stato è concepito come organismo auto-nomo, come realtà giuridica collettiva ed origina-ria. Lo Stato è dunque “persona” che si legittima autonomamente e che ritrova in se stesso i mo-tivi del proprio agire: la sovranità è una qualità intrinseca che non necessita di alcuna ulteriore giustificazione. Jellinek propone una dimensione “relazionale” del diritto inteso come rapporto. Lo Stato attri-buisce all’individuo una personalità giuridica e la capacità di richiedere la tutela giuridica da parte dello Stato. La “persona” che accorda la tutela giuridica e quella che è obbligata a prestarla è, quindi, allo stesso tempo, lo Stato ed esso può adempiere la sua obbligazione solo autolimitan-dosi. La sfera di libertà dell’individuo deriva, dun-que, da una scelta di self restraint del sovrano (Stato-persona), cioè dai limiti che lo Stato im-pone a se stesso mediante la legge. L’autolimi-tazione “sta a indicare come intrinseco al pote-re (appartenente, insomma, alla sua morfologia moderna) la riduzione anzitutto concettuale della sua arbitrarietà, per cui si potrebbe osservare che un potere che non si autolimita non ha più il carattere di potere giuridicamente legittimo” (De Giovanni, 298). De Giovanni ricorda che – paradossalmente - Jellinek fu il più “filosofo” tra i giuristi della Scuola del Diritto Pubblico: egli fu allievo di Schopenauer e, non a caso, nella sua teoria il diritto soggettivo altro non è che il potere della volontà rivolto ad un bene o ad un interes-

se specifico tutelato dall’ordinamento. La volon-tà non è più il riflesso dell’autorità dello Stato ma, mediante l’individuo, essa esprime la forza della vita che bussa alle porte della giuridicità.La tesi conclusiva è che il diritto è l’unico me-dium possibile per sottrarre spazio alle forze anomiche della modernità e per conferire forma razionale alle democrazie di massa. Il diritto, in definitiva, è presentato come limite al potere po-litico, in una funzione di “resistenza” che, com’è noto, caratterizza il costituzionalismo moderno, riflesso nella nozione di katéchein (κατέχειν), il “tenere a freno” ricorrente nella democrazia greca antica. Tuttavia, seguendo la linea continua tracciata da De Giovanni, è forse possibile un’ulteriore lettura e una diversa concezione in base alla quale il diritto, con le sue proprietà, non è solo limitativo rispetto al potere, ma istitutivo del potere stes-so. Sotto questo profilo il diritto struttura una sfera del “pubblico” (publicness) caratterizzata (kantianamente) dall’esercizio della ragione, da intendere non solo “come un semplice deposito di idee già pensate, ma come la pratica viven-te che i concittadini fanno dell’obbligo recipro-co attraverso la ragione pratica” (Mancina). Nel pubblico sono ricomprese la dimensione giuri-dica e quella politica veicolate attraverso il dirit-to che, da questo punto di vista, appare come una “dualità bilanciata” generativa del potere in termini politici. In definitiva, avviandomi a conclu-dere, il diritto concepito come condizione per la coesistenza degli individui possiede una “inner morality” (Fuller) ed è inevitabilmente connesso alle strutture basilari e razionali della giustizia, ad un obiettivo morale che non pregiudica la plura-lità delle opzioni etiche e politiche.

La tesi conclusiva è che il diritto è

l’unico medium possibile per sottrar-

re spazio alle forze anomiche della

modernità e per conferire forma

razionale alle democrazie di massa.

POPULISMO COME DITTATURADELLA MAGGIORANZA

di ROSA FIORAVANTE

l populismo non é solo un fenomeno collatera-le alle moderne democrazie, ma é connaturato all’ impianto democratico stesso. A seconda del grado in cui esso si sviluppa, in cui da carattere deteriore del sistema diviene costume, costitui-sce la via maestra attraverso la quale le demo-crazie si trasformano in dispotismi, spesso nella totale salvaguardia delle apparenze di sovranità popolare del regime.

I teorici del liberalismo classico, all’ indomani della rivoluzione francese, accettato il principio della sovranità popolare, stabiliti con il regime democratico il suffragio universale (prima ma-schile poi universale) e il principio della decisio-ne secondo voto di maggioranza, si trovarono nella necessità di ripensare le istituzioni demo-cratiche onde evitare che i singoli e le mino-ranze fossero schiacciati dalla “dittatura della maggioranza”; pericolo particolarmente sentito a causa dell’ estensione dei medesimi diritti civili a tutto il corpo politico, il quale però presenta infinite differenze dal punto di vista sociale.

Il potere, che quando é assoluto é sempre di-spotico, per sua natura tende a concentrarsi; in democrazia esso nasce al massimo della sua diffusione, ma tende poi a coagularsi sempre più. Più il governato si disinteressa della cosa pub-blica ed é pigro nel controllare i governanti, più tale accentramento risulta semplice, ecco per-chè nelle moderne democrazie rappresentative vi è esigenza di porre limiti istituzionali a tale pro-cesso. Ci ricorda infatti Constant che “la liber-

tà degli antichi”, la quale consisteva nel solerte prendersi cura della cosa pubblica tra-mite l’istituto del-la democrazia diretta (solerzia resa possibile dal ristretto nu-mero di coloro che godevano dei diritti politici e dalla presenza di schiavi per atten-dere alle mansioni di sussistenza quo-tidiana), é stata sosti-tuita dalla “libertà dei moderni” la cui maggio-re preoccupazione é trarre godimento dalle proprie attivi-tà private e occuparsi della dimen-sione pubblica quel tanto che basta per scegliere i propri rappresentanti, pagati per occuparsene il resto del tempo. Per altro, nei moderni stati nazionali, la democrazia diretta, oltre che impossibile, sarebbe dannosa a causa dei grandi numeri all’ interno dei quali la voce del singolo costi-tuirebbe un apporto marginalmente trascurabile a pertanto inascoltato.In tali condizioni nessuna democra-zia può preservare la libertà dei suoi cittadini senza una sorta di potere neutro e arbitro che stia prima e

I

fuori dall’ agone dello scontro po-litico quotidiano; questo concetto é uno di quelli fondanti dello “stato di diritto”, che ritroviamo affermato e salvaguardato tramite l’ istituzione della carta costituzionale.Non avendo il cittadino nè tempo nè modo di controllare efficiaciemente il potere, esso viene limitato dalla presenza di altri poteri che si sorve-gliano vicendevolmente tramite un sistema di check and balances; il de-centramento istituzionale che porta i centri decisionali più vicini al terri-

torio e li rende così più facilmente controllabili ne è una declinazione.

Facendo un passo oltre il pensiero classico, trovo

fondamentale annove-rare qui fra i metodi

istituzionali di tutela delle minoranze, l’ implementazio-ne di un sistema elettorale di tipo proporz ion a le che garantisca fedele rappre-sentatività alle preferenze del

paese.

Gli accorgimenti so-praelencati servono

ad evitare che qualcu-no, rivendicando di avere

con sè “la volontà popola-re” possa arrogarsi il diritto di

concentrare più potere del do-vuto nella propria persona e piegare

il gioco democratico ad una condotta perso-nalistica del governo; populismo é innanzitutto rivendicare che una parte - coloro che danno consenso al populista - sia un tutto. Tale riven-dicazione é resa più semplice dal fatto che la parola popolo ha una doppia connotazione: può indicare sia il popolo nella sua interezza (depo-sitario della legittima sovranità) sia una parte di esso, convenzionalmente la più povera e umile e, frequentemente, anche la più numerosa.Con la fine dell’ illusione rousseauiana di restau-razione della democrazia diretta, nella quale ciascuno aliena la propria sovranità allo stato

perchè attraverso l’ esercizio diretto della so-vranità stessa la riceve indietro, la nozione di popolo come “tutto” ha perso la sua immediata coincidenza con il diritto per chi da esso viene investito del diritto di governare di disporre di un potere assoluto. Nell’ ambito della democrazia rappresentativa la nozione di popolo utilizzata, dovrebbe sempre risuonare a chi la ascolta non solo nella sua connotazione parziale, ma anche sempre da riterritorializzare, poichè non si riferi-sce più a quella parte (la più umile e numerosa) quale gruppo socialmente omogeneo: coloro che votano tramite blog i candidati alle elezio-ni europee sono “il popolo della rete”, i meno abbienti e gli sfruttati sono di volta in volta “il po-polo delle partite iva”, “dei cassa integrati” ecc. si può essere contemporaneamente parte del “popolo delle donne” e di quello dei “precari”. Esistono ancora le classi sociali, ma il popolo in-teso come classe subalterna é diventato al suo interno assai più composito di come era quarant’ anni fa. Associazioni, partiti, sindacati rappresen-tano di volta in volta le istanze di questi moltepli-ci popoli, che attraverso la socializzazione delle rivendicazioni riescono a far pervenire la propria voce presso le sedi istituzionali. Lo aveva intuito già Alexis de Tocqueville, quan-do nell’ ‘800 durante il suo viaggio in America si confrontava con le caratteristiche sociologiche che il regime democratico sviluppatosi là aveva indotto; egli dice che il nuovo dispotismo avrà il volto di un potere paternalistico, che governa su una miriade di cittadini occupati solo a prendersi cura di sè o al massimo della propria famiglia e di una ristretta cerchia di amici, incoraggiati da tale potere a divertirsi piuttosto che ad occupar-si della cosa pubblica. Tale processo é perfet-tamemte compatibile con la tenuta del regime democratico perchè viene salutato con favore da coloro sui quale si estende e l’ unico antidoto all’ ascesa di questo nuovo dispotismo é il proli-ferare di associazioni. Quello che Tocqueville indica come obiettivo del potere dispotico - isolare sempre più l’ individuo nella propria dimensione privata atomizzandolo fino a quando egli si senta completamente de-responsabilizzato nei confronti della sfera pub-blica - é anche la carta vincente del populista: convincere il cittadino che esista un abisso fra sé e chi lo governa. Il raggiungimento dell’ obiet-

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tivo é agevolato dalla corrosione del principio di delega (poiché senza corpi intermedi é più difficile condizionare le decisioni del governo, che non vengono più riconosciute come ema-nazione di un processo al quale si é attivamen-te preso parte), e dalla ipersemplificazione del discorso pubblico, atta a indurre nell’ individuo sentimenti di insofferenza per tutto l apparato burocratico: non solo quando esso si presenta come macchina inceppata dall’ inefficienza, ma anche quando si istanzia nel normale processo decisionale fra attori plurali, considerato “spre-co di tempo”; tale rigetto di corpi intermedi e procedure formali rende l’ elettorato più incli-ne a legittimare l’ intervento diretto dell’ unica figura pubblica che gli é familiare (grazie ad un’ assidua presenza nei media ecc), quella che si avvale dello status di unico capo al comando, il quale sempre si presenta come colui che attra-verso il proprio di dinamismo può sconfiggere la palude burocratica, garantendo decisionismo e immediatezza nell’ applicazione della “volon-tà del popolo” che egli interpreta e incorpora. Nella finzione mediatica populistica il dialogo fra il leader e “la gente” avviene attraverso un pro-cesso bilaterale bottom up che bypassa i corpi intermedi, e top down nel quale il depositario di tale volontà popolare la sollecita e le risponde parlando a quella che viene considerata fin dall’ antichità “la pancia dell’ elettorato” (con una me-tafora che si potrebbe, senza fargli torto, far ri-salire a Platone, se é vero, come egli sosteneva, che l’ anima umana é tripartita e che corrispon-dendo ogni sua parte ad un tipo di costituzione politica, il regime democratico sia quello che corrisponde alla parte appetitiva, quella che de-cide più secondo istinto che ragione e che ha sede nelle “parti basse”). Gli argomenti fin qui citati provengono da una tradizione convenzionalmente considerata “di destra” poichè essa pone l’ accento sulla libertà negativa, “libertà da” (dal controllo statale, dal conformismo sociale ecc).Ma come scriveva Bobbio “in nessun paese al mondo il metodo democratico può perdurare senza diventare un costume” e l’ unico modo per renderlo costume é educare il cittadino, sia rispetto a un buon livello di cultura generale e sia nello specifico fornendogli strumenti base di

alfabetizzazione politica ed educazione civica, in particolare riguardo alla pratica democratica, poichè questa lo vede protagonista. É in questo passaggio che diviene determinante la “liber-tà di”, tradizionalmente considerata di sinistra, come positiva possibilità di accesso a condizioni di benessere. In particolare declinata nelle for-me, già trattate, di libertà di associazione, liber-tà di avere un orario di lavoro tale da lasciare tempo libero anche per l’ approfondimento del discorso pubblico, e, soprattutto, libertà (nelle forme di concreta possibilità materiale, econo-mica ecc) di procurarsi un’ educazione.Il successo del populismo é direttamente pro-porzionale alla mancanza di màthesis, quella educazione che permette al soggetto di non rendersi passivo recettore di tutta la chiacchiera dell’ opinione pubblica, né di esserne attiva cas-sa di risonanza. In un mondo in cui infinite quantità di informa-zioni sono prontamente fruibili, il primo mezzo di indottrinamento popolare non é la censura ma l’ elargizione a piene mani di una gran numero di dati. In questo senso é emblematico quanto affermato da Umberto Eco: il web fa bene a chi ha già una buona educazione di base, poichè, tra i risultati di Google egli sa, grazie al proprio pregresso senso critico sviluppato, distinguere cosa é attendibile e cosa no, e sottoporre l’ infi-nita lista di link apparsi come risultato della ricer-ca ad una prima scrematura.Chi invece non possiede un’ educazione di base può senza difficoltà ingurgitare tutto ciò che in-ternet gli dà in pasto, salvo non possedere gli enzimi necessari alla metabolizzazione secondo razionalità ( e spesso anche solo banale princi-pio di realtà), e rigettare tutto in un grande atto di bulimia nozionistica. È impossibile restaurare la democrazia diretta attraverso un’ improbabile democrazia del web senza incorrere nell’ effet-to “io so tutto senza mai aver studiato niente”. Il motivo per il quale la sinistra non riesce più a comunicare con quello che dovrebbe essere il suo corpo elettorale di riferimento, il quale sem-pre piu vota populisti di varia estrazione pseu-doideologica, non é che non sa usare facebook o twitter, ma é da cercarsi nel fatto che quando i comunisti andavano fra gli operai nelle fabbri-che insegnavano loro a leggere, a fare di conto: portavano strumenti che nella vita pratica di tutti i giorni ponevano il lavoratore un gradino piu in

In un mondo in cui infinite

quantità di informazioni

sono prontamente fruibili,

il primo mezzo di

indottrinamento

popolare non é la

censura ma

l’ elargizione a piene

mani di una gran numero

di dati.

alto nella scala sociale e un passo piu lontano dalla subordinazione culturale al padrone. Oggi non solo la sinistra non é più pronta ad insegnare, ma nessuno é piu cosi umile da voler imparare, femomeno che molto deve al fatto che la cul-tura non é piu considerata un veicolo per acce-dere all’ ascensore sociale. L’ analfabetismo di ritorno (si stima che più del 40% degli italiani non sappiano correttamente comprendere un testo scritto nella loro lingua madre) non é un proble-ma delle maestre che hanno allievi asini ma di tutto il tessuto sociale che disinteressandosi del fenomeno pone la propria tenuta democratica a rischio. La continua polemica contro i professoroni, alla quale si sono spesso unite anche personalità isti-tuzionali - forse pensando grazie a certe uscite di ricostuire una connessione sentimentale con le masse attraverso il principio del fare comu-nella all’ ultimo banco - altro non é che il princi-pale epifenomeno dell’ insofferenza alle regole (tradotto politicamente: tutti i processi e le istitu-zioni del gioco democratico che ne determina-no anche le lungaggini) e allo studio, considerato il passatempo degli inutili e degli astratti. Il “fare per il fare” é la nuova pietanza mediocre con il quale il populista riempie gli stomaci di un’ opi-nione pubblica che, inebetita dalla pigrizia, non ha più voglia di studiare e quindi scegliere fra differenti menù che rispondano in vario modo alla domanda “fare che cosa?”. Constant trattando della libertà dei moderni sot-tolineava la loro prontezza a pagare i propri rap-presentanti pur di non doversi occupare in prima persona degli affari pubblici perchè non ne ave-vano tempo né voglia. Oggi nella maggior parte dei casi non si é più disposti nè a partecipare (se non nelle forme del copia-incolla di link sui social network) né a pagare. I costi della politica si possono certo tagliare tutti (anche quando, come nel caso del finanziamen-to pubblico, sono presupposto necessario ma non sufficiente per evitare che la democrazia si trasformi in oligarchia), ma il costo in termini di tempo, sacrificio, costanza, dello studio e dell’ educazione non saranno mai eliminabili dal bilan-cio del cittadino che non voglia regalare voto e cervello al primo imbonitore di passaggio.

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RECUPERARE IL CONCETTO DIPOPOLO A SINISTRA

di MATTEO GIORDANO

ell’ Atene democratica del V sec. A. C., le va-rie scuole filosofiche di matrice sofistica opera-rono una vera e propria rivoluzione del pensiero, indirizzando la propria indagine verso questioni di carattere antropologico, legate cioè ai temi della vita morale, politica e sociale del cittadino all’interno della pòlis greca. La speculazione filo-sofica si spostò dalla ricerca dell’arkè, cioè della forza primigenia che aveva generato il mondo, ad un’indagine sull’Uomo inteso come individuo posto all’interno di una comunità. L’antropocen-trismo sofistico coincise anche con la nascita dello scetticismo filosofico e del criticismo, ov-vero di una forma del pensare che rifiuta il senso comune consolidato e le idee dominanti e si propone di mettere continuamente in discussio-ne ogni cosa. Come “un filo che lega, un punto che tiene, un ripetere che salta, un rompere che ricollega”. Il cittadino, che in passato era stato schiavo di un potere trascendentale, cominciò a godere di autonomia e libertà: si appropriò di un senso umanistico della propria esistenza, di una nor-mativa a misura d’uomo. Ora gli individui impa-ravano a spezzare la rigida trascendenza della parola: essa non era più strumento di rivelazione del divino agli esseri umani, ma diveniva espres-sione mutevole e contingente del pensiero sog-gettivo, forza persuasiva del singolo di fronte alle masse e potente strumento politico. Fu il trionfo del lògos, della parola che conferisce maggiore vigore e profondità al pensiero. Della Ragione sul Mito. Questa rivoluzione concettuale, questa opera di rischiaramento dell’oscurantismo pro-

dotto dal Mito e dalla tradizione, è riassunto da Gorgia da Lentini, uno dei padri della Sofistica, quando afferma nell’Encomio di Elena che “La parola è un gran signore, che con piccolissimo corpo e del tutto invisibile, divinissime cose sa compiere”. Attraverso la parola, ormai non più rivelata, ma a misura d’uomo, le scuole sofisti-che misero in discussione l’ordine sociale e po-litico su cui si reggeva il sistema della pòlis, la gestione del potere e l’impianto culturale volto a giustificarne la legittimità e l’autorità. La parole è dunque una forma di lotta. Un’arma. Serve per dire pensiero, per mettere in discus-sione ciò che è e ciò che è stato, per costruire ciò che potrebbe essere. “Zur Kritik”, Per la cri-tica. Una Critica radicale a tutto campo all’ido-latria del presente, in nessun momento esauri-ta, mai superata. La parola è una spada con cui fendere il senso comune intellettuale di massa, l’integrazione omologata dell’opinione, che mira a presentare lo stato di cose presente come necessario, inevitabile, inattaccabile ed insosti-tuibile. Per una Sinistra moderna che miri a ri-acquistare una propria autonomia di pensiero, si rende quindi necessaria un’azione di rischiara-mento dalla dittatura ottenebrante del presente teorico e una liberazione dai dogmi del pensiero unico della classe dominate che parta innanzi-tutto dal linguaggio. Dalle parole. Riappropriarsi di un linguaggio alternativo significa riconquista-re un pensiero autonomo, critico, soggettivante e diverso. Significa uscire dallo stato di minori-tà concettuale in cui ci ha gettato il relativismo esasperato e disgregante del postmoderno. Il nostro “Sapere aude!” si dovrebbe sostanziare prima di tutto nel tornare ad usare le parole, nel

coltivare un linguaggio sottile, analitico, penetrante, che arrivi all’essenza delle cose. Così ci possiamo rimpadronire di un punto di vista da cui guardare il mon-do, di una parte in cui riconoscerci. Di un’autonomia teoretica da cui partire per tornare a pensare il mondo nuovo e una futura umanità. Se il linguaggio è il modo in cui si articola il pensiero, per provocare una rottura di pensiero, bisogna innanzitutto diversifi-care il nostro linguaggio. Popolo, classe, conflitto, partito, autonomia, egemonia. Dimostrare di avere una sensibilità alter-nativa. Un modo di guardare alle cose del mondo che non sia lo stesso della classe egemone. Per fare questo, gli epigoni del movimento operaio “devono impadronirsi dell’alta cultura, dei classi-ci del pensiero e della tradizione, come arma contro i padroni del mondo”. Riaf-fermare la propria aspirazione ad avere una soggettività autonoma e forte, un punto di vista critico, significa scatenare un conflitto, provocare uno scontro, una rottura. La prima parola da riscoprire è anti-ca, carica di storia, oggi fraintesa e stra-volta: po-

polo. Quello di popolo è un concetto che ha sempre prodotto una contrap-posizione dai termini dello scontro chia-ri: tra chi stava dalla parte del popolo e chi stava contro di esso. Tra chi voleva che la plebe si facesse popolo e chi pensava che il popolo non fosse altro che plebe. Tra chi, come il persiano Megabazio -racconta lo storico Ero-doto - delineava la figura di un popolo tracotante, sfrenato, ignorante, e chi, come i seguaci di Muntzer nella Ger-mania del Cinquecento o i levellers ed i diggers nell’Inghilterra rivoluzionaria del Seicento, rivendicava la dignità del popolo in quanto popolo di Dio. Tra chi, come Hippolyte Taine, in “Le origini della Francia contemporanea”, descriveva la plebaglia come composta da malfattori, vagabondi, nemici della legge e sel-vaggi e chi, come Jules Michelet in “Le peuple”, celebra il popolo come gene-roso, straripante di umanità, solidale, pronto al sacrificio. Gustave Le Bon in

“La Psicologia delle folle” descrive la folla come irruenta, priva

di discernimento, ignorante e sug-

gestionabile: è la nascita

della so-cietà di

mas-sa,

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dominata dalle grandi aggregazioni e dai grandi numeri. Da quel momento, fino al secondo dopo guerra, la categoria di popolo ha mantenuto un’ impor-tanza centrale nel dibattito politico. Marco D’E-ramo sostiene che la sua progressiva scom-parsa sia dovuta alla logica da guerra fredda e al sorgere di un nuovo paradigma del benpen-santismo politico in cui il termine populismo, assieme a totalitarismo, diventa fondamento di un paradigma che si baserà sulla teoria de-gli opposti estremismi. Mentre l’Occidente si appropriò dell’idea di libertà, il blocco sovieti-co fece sua quella di popolo. Così “popolo” e “popolare” divennero lemmi sempre più rari nel dibattito politico ad Ovest, fino a scomparire completamente. L’uso sistematico del termine populismo cresce in modo proporzionale al disuso del termine popolo: più la parola popolo è periferica nel discorso politico, più populi-smo acquisisce centralità. Prevale in questo modo una visione distorta dell’idea di popolo. Un modo di pensare antipopolare. Populismo è un termine dalla marcata connotazione dispre-giativa: nessuno si auto dichiara populista, ma viene così definito dai propri avversari politici. Il termine quindi definisce molto di più chi lo pro-ferisce rispetto a chi ne viene bollato. Se popu-lista viene identificato con popolare, ne deriva che chi prende le parti del popolo, una forza che intenda rivendicare la dignità di politiche filo popolari- e quindi una forza di sinistra- venga tacciata di demagogia e rilegata ai margini dello scontro politico. Infatti, “l’opinione positiva del popolo è condizione necessaria per ingaggiare una battaglia per il popolo, ma quest’opinione positiva deve essere a sua volta conquista-ta con una lotta. Il giudizio sul popolo diventa quindi sia uno strumento della lotta politica, sia la sua posta in gioco”. Vince chi impone la sua narrazione. Non esiste una definizione metodologica unitaria di popolo. Il concetto moderno è più vicino all’i-dea biblica antico testamentaria di popolo, piut-tosto che alla concezione greca di dèmos, o a quella romana di populus. Popolo è un concetto teologico secolarizzato: Marsilio parlava di “uni-versitas civium seu populus” e Bartolo di “popu-lus unius civitatis”. Sono la Rivoluzione Francese prima e l’idealismo romantico poi, con il concet-

to di Volksgeist, a far esplodere l’idea di popolo sulla scena politica moderna. Concetto che sarà portato alla sua massima teorizzazione da Marx con la figura del soggetto politico operaio. Della classe dei lavoratori. E’ il concetto di classe che fa del popolo una categoria della politica. Con l’idea di classe il popolo diventa soggetto politi-co attivo. Senza classe non esiste politicamente popolo, ma solo socialmente o nazionalmente. E’ il punto di vista di classe che mette per la pri-ma volta il popolo in grado di iniziare una lotta di emancipazione contro le classi dominanti. Il servo può ora affrancarsi dal padrone e trasfor-mare il mondo. Il populismo non è una causa, ma un effetto. E’ la forma in cui si ripropone il pro-blema del rapporto tra governati e governanti. E’ il riflusso della scomparsa del popolo dalla scena politica dell’età postmoderna. La critica al populismo non può e non deve essere fine a sé stessa, ma congiunta al recupero dell’idea di po-polo. E se il concetto di popolo si fonda su quello di classe, al recupero dell’idea e della pratica di classe. Non più classe operaia, non più proleta-riato, ma qualcosa di nuovo: le componenti so-ciali più deboli, meno tutelate, le forze del lavoro. Popolo significa infatti classi inferiori. La Sinistra di oggi ha perso completamente ogni interesse per le gli ultimi. Non è più una Sinistra di popolo. Non esprime più una proposta dal popolo, del popolo, per il popolo. Intercetta flussi elettorali trasversali e pesca da un bacino principalmente riconducibile ai dipendenti statali, ai colletti bian-chi e alla media e piccola borghesia cittadina. La crisi della Sinistra deriva principalmente da qui: dall’aver cessato di dare rappresentanza e voce ai ceti popolari . Questo vuoto è stato riempito dal populismo e dal suo adattamento aggressivo alla scomposizione di ogni legame sociale. E’ però in atto una proletarizzazione postmoderna dei ceti medi, una polarizzazione verso l’alto della ricchezza, un aumento della disparità e dell’ingiustizia sociale, che non po-trà che riproporre in termini ancora più dram-matici che in passato la “questione” sociale e la necessità di una grande forza organizzata di Sinistra che dia rappresentanza al popolo e al mondo del lavoro. Dare un segno a questa re-altà di popolo è l’unico modo per sconfiggere il populismo. Ma questo da solo non basta: non è sufficiente elaborare una proposta di governo da sinistra, ma bisogna accompagnarla sempre

dalla riproposizione del tema del potere e della lotta per l’egemonia. Questo significa recupera-re il conflitto e provocare una rottura. Ma come si fa popolo, oggi, nell’epoca del post-moderno, senza la centralità di classe? Come si fa società nel tempo della società liquida, della disgregazione dei legami umani, politici e sociali, dell’isolamento degli individui, della dittatura del mercato e del consumismo materialista? Il con-cetto politico di popolo si può sostanziare con il concetto sociale di lavoro. Non più una classe operaia, un proletariato urbano, ma un popolo di lavoratori. Dove il lavoro riacquisti la sua centrali-tà e restituisca dignità alla persona umana. “Fon-dare una classe generale, quella del popolo la-voratore: questo significa riafferrare il filo lì dove si è spezzato, riannodarlo e proseguire”. Questa classe generale di popolo lavoratore, per torna-re a pensare in modo autonomo e critico, per riacquistare una soggettività alternativa, di lotta ed aprire un conflitto contro i padroni del mondo, che riproponga il tema del potere, ha bisogno di un nuovo mito mobilitante di massa. Di un mito che faccia popolo, che dia speranza. Che fac-cia senso. Che restituisca un senso all’esistenza umana. Per il socialismo storico, questo mito è stato quello della rivoluzione, di una futura uma-nità, ma la classe operaia è stata un soggetto ri-voluzionario sconfitto. Una nuova Sinistra moder-na deve elaborare una nuova narrazione mitica dell’oltre, dell’avvenire. Deve sfaldare la dittatura del presente e tornare a pensare a lungo termi-ne. Non solo concepire una radicale critica del

presente, ma anche un racconto epico del futuro. Presentare la propria proposta politica come una prospettiva escatologica, come uno slancio ideale che contrasti la mercificazione delle relazioni umane, che restituisca dignità alla persona, che ridia va-lore alla solidarietà tra gli uomini e che permetta di riacquistare una dimensione più umana dell’esistere. Deve riuscire a restituire un senso compiuto alla dimensione esistenzia-le che il postmoderno ci offre, in cui l’individuo fa fatica a pensare sé stesso in relazione ad un tutto compiuto, solido e definito, avvertendo in-vece in modo drammatico la propria precarietà e indefinitezza identitaria: deve concepire una sorta di nuovo Umanesimo laico, che ridia un senso umanistico all’esistenza delle persone.

La crisi della

Sinistra deriva

principalmente

da qui: dall’aver

cessato di dare

rappresentanza

e voce ai ceti

popolari.

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IL POPULISMO:UNA ERMENEUTICA GLOBALE

PER NARRAZIONI PARTICOLARI

di FABIO GUALANDRI

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La Cina popolare

dagli anni ’50 agli

anni ’70 esprime

una delle forme

più compiute di

populismo

carismatico.

vocabolario al tramonto del XIX secolo, legato a movimenti sorti al di fuori del Vecchio continente in quel limbo culturale in cui gli influssi europei si fondono con peculiarità locali facendo emergere gli opposti ma speculari eccezionalismi russo e nordamericano. Il “people” e il “narod” a cui fanno appello i movimenti delle origini vivono nelle sterminate pianure continentali innervate dal tradizionalismo religioso, da una cosmologia millenarista, dalle consuetudini agricole e dallo spirito della frontiera. Il richiamo alla redenzione palingenetica del popolo come unità organica e agente salvifico contrapposto alle soverchie delle élites, che assume i tratti evangelici della cacciata dei mercanti dal tempio, è un aspetto tipizzante della maschera messianica indossata dai conducadores animatori delle folle di ogni latitudine.

Pur manifestandosi come un epifenomeno post-moderno, che viene talora plasti-camente reso dal feticcio dell’invisibile Leviatano informatico tra i Piraten e il Movi-mento 5 Stelle, materializzandosi esteticamente travolgente come le avanguardie degli anni ’20, non è certo l’homme citoyen della Bastiglia o il proletariato urbano della rivoluzione industriale il referente originario del discorso populista. In quell’humus ideologico e culturale, ancora vitale nell’America profonda e nella nuovelle vague eurasiatista dei salotti politici moscoviti, si innestano sia il Tea Party nella sua crociata contro i burocrati della capitale e il bellicismo interventista dei

falchi repubblicani sia le gesta spettacolari del presidente russo, protettore del suolo e dello spirito patrio, rinsaldando una antica alleanza di sapore zarista fra trono e altare. Per quanto intrinsecamente conservatore e talora arcaico, plasmando nuove sub identità o ritrovati sciovinismi xenofobi, lo spettro del populismo s’aggira per l’Europa secolarizzata del nuovo millennio, minacciata dalla globalizzazione che solo i paesi egemoni riescono fronteggiare: dalle avvisaglie tran-salpine e subalpine in nome della France éternelle di Le Pen o delle camicie verdi leghiste fino alla calata dei Farage, Wilders, Alba Dorata e Orban, tutta la periferia, e i nuovi centri della semi-periferia rispetto al monolita teutonico ,sono attraversati da un sisma antisistemico. Come dimostra l’eterogeneità dei movimenti emersi a cavallo di tre secoli, il populismo come cate-goria politica crea problemi di classificazione e inquadramento. La tassonomia dei recenti populismi europei dunque è necessario filtrarla attraverso una prospettiva storica di lungo periodo e una pa-noramica globale di ampio respiro. “Provincializzare l’Europa” non è una operazione di paternalismo intellettuale ma un dato di fatto imposta dalla demografia e dall’economia.

opulismo è la categoria socio-politica che informa inequivocabilmente il dibattito contemporaneo, scagliato come un anatema contro l’avversario elettorale, ripreso e volgarizzato dall’informazione di massa e infine sviscerato dagli intellettuali. È il popolo che si vorrebbe fare demiurgo senza interme-diari ma nell’epoca dei media questo spesso avviene solo attraverso un catalizzatore carismatico. Popolo, people, narod, peuple, pueblo, wolk, renmin potrebbero apparire i referenti lessicali di un unico e univoco concetto: quella comunità umana che si auto identifica come tale, fondandosi su una presunta omogeneità di elementi materiali ed ideali, nella modernità sanciti dalle costituzioni, o racchiusa all’interno di un territorio definito. Questa equazione semantica si colloca nel tempo e nello spazio ma queste variabili introdotte nell’operazione matematica possono alterare la correlazione logica lineare fra l’oggetto del popolo e la sua stessa definizione, poiché i fattori che delimitano i con-fini fra differenti raggruppamenti umani sono instabili e variegati, mutando con la metamorfosi delle condizioni contingenti. La genesi del lemma politico è quasi paradossale se pensiamo che il termine populismo è entrato nel

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Il problema

fondamentale del

populismo, né di

destra né di sini-

stra né religioso,

è che non verte

su alcuna teoria,

non vi è alcuna

Weltanschaaung

su cui soggiace.

Se del populismo peronista, di Nasser o nell’al-veo delle democrazie liberali europee molto si è già scritto, meno si sono analizzati da questa prospettiva fenomeni più lontani culturalmente o cronologicamente molto recenti. Nel socialismo, che come forma politica nelle sue strutture amministra una superpotenza in fieri, sono stati scorti i tratti del populismo quan-do un leader forte emerge sul collettivo della classe dirigente e in particolare sul Politburo ri-stretto al vertice supremo dello Stato - partito. Nell’era sovietica, il periodo staliniano con le sue simbologie e le sue mobilitazioni potrebbe atta-gliarsi ma la veloce normalizzazione di Kruscev e la spossatezza del sistema che lo ha succes-sivamente portato al collasso, forse lo contras-segnano più come una parentesi eccezionale che come un tratto caratteristico dell’epoca. Il caso storico più pertinente potrebbe essere considerata la Cina post-rivoluzionaria, dalla cui dirigenza collegiale formata nella Lunga Mar-cia e nella guerra di liberazione antigiapponese

emerse lo stratega Mao Tze-Dong. La Cina po-polare dagli anni ’50 agli anni ’70 esprime una delle forme più compiute di populismo carisma-tico attraverso il rapporto diretto con le masse e la mitizzazione del contadino, soggetto rivolu-zionario nella rielaborazione maoista del marxi-smo e motore della millenaria evoluzione storica cinese, fino a giungere agli eccessi della Rivolu-zione culturale. La storiografia potrà qualificare quei tumultuosi sommovimenti sociali solo come una grandio-sa operazione contro avversari di fazione e un folle esperimento economico comunitarista ma quei terremoti che hanno segnato la coscien-za storica della Cina continentale, restano dalla prospettiva di una analisi dei fenomeni populisti una ineguagliabile testimonianza della fede nel-la visione e nelle qualità quasi taumaturgiche del condottiero a cui volontariamente o forzo-samente è stato dedicato lo sforzo estremo di un popolo, tendendo all’orizzonte di una rigene-razione morale e di un sogno di prosperità. Il maoismo è disseminato di richiami alla forza dirompente della volontà collettiva capace di

trasformare radicalmente la società e addirittura forzare le tappe dell’accumulazione capitalista primaria durante il Grande Balzo in Avanti.L’ingloriosa fine della cosiddetta Banda dei Quat-tro alla morte del Grande Timoniere sancì però una cesura irrevocabile con l’integrazione del ti-tano giallo nel sistema economico globale sotto la guida di Deng Xiaoping e questa mutazione comportò trasformazioni profonde generando nuovi attori sociali e centri di potere. La compar-sa di un affluente ceto urbano e la necessità di rappresentare gli emergenti ceti imprenditoriali motori della crescita economica, rese gradual-mente più complesso governare un ambiente socio-politico più stratificato attraverso il con-tatto non mediato con il popolo e le generazioni successive si risolsero di conseguenza ad adot-tare uno stile di comando collegiale ed estre-mamente pragmatico. La profusione di elementi simbolici non si eclis-sò con la scomparsa del padre della Repub-blica Popolare ma è una condizione strutturale

della narrativa politica cinese. L’abbrivio delle aperture è stato sancito dal viaggio al Sud, tra-dizionalmente più ricco e dinamico, del Piccolo Timoniere, un gesto che ha richiamato un anti-co rituale imperiale di riaffermazione del potere politico e dell’autorità centrale verso le riottose provincie meridionali, prodromo necessario ad ogni cambiamento nel tragitto storico del gigan-te asiatico. Dalla campagna maoista delle “Cen-to scuole”, alla costruzione delle ciclopica diga delle Tre Gole, dalle “le tre rappresentanze” alla “società armoniosa” gli slogan che hanno se-gnato il susseguirsi delle leadership sono parte di un racconto specificamente nazionale e cul-turalmente autoreferenziale che solo una esper-ta platea di esperti di sinologi ed analisti riesce a cogliere nelle sue raffinate sfumature, una de-scrizione di sé stessi trasmessa all’esterno solo nei suoi aspetti più evocativi e intellegibili. I diversi populismi sono intrisi dello spirito del tempo. Una panoramica latinoamericana dell’ul-timo decennio riflette il populismo di sinistra

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come il prodotto del rigetto delle ricette eco-nomiche neoliberali imposte dalle istituzioni del Washington consensus. Dagli esperimenti bolivariani in Venezuela e in Bolivia, alle varian-ti più orientate verso il mercato dell’Argentina dei Kirchner, del Brasile di Lula e del Cile del-la Bachelet, fino all’Ecuador e all’Uruguay, tutto il continente ha espresso differenti ma peculiari modelli socio-politici di populismo progressista, coniugandoli con progetti integrazionisti. Il ritorno della religione sulla scena, riporta anco-ra una volta alle radici del populismo. L’avanzata irrefrenabile dell’ISIS e il precipitare dell’intero Medio Oriente in un conflitto settario sono solo un aspetto di un arco di consenso più ampio da cui si alimenta Hamas, Hezbollah, la teocrazia iraniana e la Fratellanza Musulmana nel Maghreb e nel Mashriq islamico, capaci di supplire attra-verso l’applicazione delle prescrizioni di carità e solidarietà sociale del dettato coranico all’ine-sistenza del welfare statale. L’AKP di Erdogan in Turchia è progressivamente riuscito a conqui-stare il sostegno silenzioso del cuore anatolico di un paese di salde tradizioni kemaliste e laiche, coniugando libero mercato e tradizionalismo morale in salsa revanscista neo-ottomana. L’India del nuovo primo ministro Narendra Modi costituirà un laboratorio estremamente interes-sante per i populismi in cui si uniscono diverse tendenze della globalizzazione, attuato in una arena democratica e multiculurale. Il Partito del Popolo al governo si ispira ad una versione edul-corata dell’Hindutva, la teoria secondo la quale il subcontinente caleidoscopio di lingue e culture apparterrebbe legittimamente solo alla comu-nità induista. Modi non rinnega l’appartenenza all’associazione di estrema destra a cui appar-teneva l’assassino di Gandhi ma la sua retorica sfavillante e la cura neoliberista di successo con cui ha guidato con piglio autoritario lo Stato del Gujarat, faranno passare sogno indiano per que-sta bizzarra fusione fra Milton Friedman e i Veda. Al termine di questa disamina, si potrebbe affer-mare che una piattaforma programmatica uni-taria dei movimenti populisti è intrinsecamente impossibile. Il problema fondamentale del popu-lismo, né di destra né di sinistra né religioso, è che non verte su alcuna teoria, non vi è alcuna Weltanschaaung su cui soggiace. Il liberalismo ha dato vita e plasmato la scienza politica stes-

sa, le ideologie novecentesche hanno spesso costruito sulla prassi le proprie dottrine ma il socialismo e il liberalismo erano sempre decli-nazioni nazionali di una narrazione universale, il populismo è invece una somma di particolarismi senza alcuna possibilità di reciproca interrela-zione e dunque di codificazione ermeneutica. O forse la contemporaneità si riduce ad un mero equivoco di significati.

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Mario Trontiè uno dei fondatori dell’operaismo teorico italiano. Filosofo e politico, di lui ricordiamo Operai e ca-pitale, Sull’autonomia del politico, La politica al tramonto e Dell’estremo possibile. E’ presidente del

Centro per la Riforma dello Stato e Senatore della Repubblica.

Giacomo Bottosha 27 anni. Dottorando in Filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha studiato a Berlino e Tubinga. Membro della FEPS Young Academic Network. Collabora con varie riviste cartacee ed

online.

Lucio Gobbiha 27 anni. Laureato in discipline economiche all’università Bocconi. Attualmente dottorando in Eco-nomia e Management all’università di Trento. Responsabile economico provinciale del PD di Rimini.

Francesco Marchianòè dottore di ricerca in Sociologia Politica. Svolge attività di ricerca nel Dipartimento di Coris della

Sapienza. E’ inoltre ricercatore del Centro per la Riforma dello Stato e scrive per il settimanale della Cgil Rassegna Sindacale.

Paolo Furiaha 27 anni.Dottorando in filosofia all’Università di Torino. Fa parte della redazione di Tropos, la rivista di ermeneutica e critica filosofica del dipartimento di Torino. E’ segretario regionale dei Giovani De-

mocratici del Piemonte da gennaio del 2012. E’ segretario provinciale del PD Biellese.

BIOGRAFIE

Stefano Poggiha 23 anni. Studente di Scienze Storiche al’Università di Padova. Redattore di TRed e presidente dell’Associazione Nuova Sinistra di Vicenza. Ha ricoperto diverse cariche nei Giovani Democratici

(Segretario comunale a Vicenza, membro della Direzione nazionale) e nel Partito Democratico.

Francesco De Vannaha 27 anni. Vive e lavora a Parma. Laureato in Giurisprudenza, attualmente è dottorando in Filosofia

del Diritto. Responsabile Istruzione e Cultura del PD di Parma.

Rosa Fioravanteha 25 anni. E’ laureanda magistrale in Scienze Filosofiche all’ Universitá degli Studi di Milano. Membro

dell’ esecutivo nazione della Rete Universitaria Nazionale con delega all’ internazionalizzazione dei saperi.

Matteo Giordanoha 18 anni. Segretario dei Giovani Democratici di una sezione romana. Ha studiato presso il Liceo

Classico Tasso di Roma.

Fabio Gualandri23 anni. Dottore con lode in Scienze sociali per la globalizzazione all’Università di Milano. Laurean-do in Scienze cognitive e processi decisionali. Ha studiato l’area ex sovietica all’I.S.P.I. poi a Mosca, S.Pietroburgo, Odessa e Politiche pubbliche della R.P.C. presso l’Università di Pechino. Ha coordina-to progetti di cooperazione europea. Parla 7 lingue straniere. Presidente commissione Affari istitu-

zionali del C.d.Z 8 del Comune di Milano, è segretario del circolo G.D. Zone 7-8.