Cadillac Magazine - Numero Uno

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Cadillac Magazine - Numero Uno, Gennaio 2012

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CADILLAC MAGAZINENumero Uno - Anno Primo

Gennaio 2012Pubblicazione Trimestrale Riservata

Associazione Culturale Cadillac Society Milano

Direttore responsabileAlvise Moncretona

RedazioneNatan Mondin, Michele Crescenzo, Giulio D’Antona

CollaboranoAlessandra Montrasio, Roberta Venditti, Mauro Maraschi, Marco Candida, Andrea Ferrari, Francesco Gallone

Hanno partecipato a questo numeroAndrea Ferrari, Mauro Maraschi, Raffaele Riba, Elena Ghiretti

Grafica e impaginazioneGiulio D’Antona, Mauro Maraschi

Illustrazione di copertinaGiulio D’Antona

Abbonamentowww.rivistacadillac.it

[email protected]

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Ho immaginato una rivista che fosse un’automobile. Non uno di quei mezzi a

quattro ruote studiati per spostarsi nelle città che sono nate quando il motore a scoppio era una fantasia degli alchimisti. Nemmeno una di quelle che trovi posteggiata al primo piano de-gli autosilo del centro, tutta interni in pelle e targa offshore.

Ho voluto una macinachilometri che puoi barattare solo in cambio di un microfono, che ci sali sopra e ti porta dove vuole lei, perché il pilota automatico ha un che di miracoloso.

Tutto è partito dalla scelta di questo moto-re immobile, difficile e nata dalle ceneri di un esperienza toccante, in un salotto della Milano bene dove quindici aspiranti romanzieri con-fessavano paure e frustrazioni. Una donna che colleziona scarpe e una popstar che colleziona libri mi hanno segnalato tre ragazzotti. Io li ho messi alla prova, li ho uniti e gettati su un mar-ciapiede fra kebab, enoteche, appartamenti con vista ferrovia-consolato cinese-periferia nord.

Sono diventati tre illuminati che scopano il mare con il rastrello e raccolgono solo il me-glio dell’impubblicabile.

Un mattino mi sono svegliato, ho trovato una nuova casella di posta elettronica e fra gli aggiornamenti di Facebook segnalazioni di ar-ticoli, aggiornamenti di costume, lettere a pas-sati prossimi, questioni di baffi, invettive con-tro la routine letteraria, critiche di libri che in pochi criticano e leggono, viaggi in compagnia dei luoghi comuni oltre la loro comodità.

A colazione ho inzuppato savoiardi nel pro-secco e mi sono riaddormentato. Ho sognato che tutto questo si potesse sfogliare, grazie a quei tre la realtà onirica si è fatta .pdf. Così possiamo sentire il rumore della vita trasfor-marsi in blip al voltare le pagine della mia ri-vista. E tengo a sottolineare il mia, nonostan-te abbia ancora un’idea confusa dei compiti e delle responsabilità che mi spettano. Mi ac-contento di godere dei meriti che deriveranno dal lavoro di chi ho voluto accanto e che, ovvia-mente, è molto più competente e preparato di me. Mi auguro che questo numero uno molti-plicandosi non segua le leggi dell’aritmetica e rimanga uno per sempre. Voglio che continui a fare l’effetto dello spruzzino d’acqua sui visi

congestionati dalla tintarella. Perché la mente è come la pelle: va idratata, altrimenti vengo-no le rughe, le rughe sono inestetismi tendenti alla malattia e io sono un salutista.

Vi lascio alla lettura di questo primo meravi-glioso numero mentre mi fumo una sigaretta, che tanto domani vado a correre. •

editoriale di Alvise Moncretona

COMESEMPREVOSTRO

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NON FIORDI, MA OPERE DI BENESSON DI UN DIO MINOREMaj Sjöwall e Per Wahlöö p.6

LINCOLN’S CORNER NEWS p.21IL DENTRO DI UN ALTRO FUORIdi Raffaele Riba P.23

I CINQUE ANNI IN CUI NON SONO STATO DA NESSUNA PARTEdi Andrea Ferrari p.25

A PIEDI NUDIdi Elena Ghiretti p.31

SE FOSSIMO NATI MORTIUNA PANCHINA A NEW YORK CITYovvero: A. M. Homes p.33

IN QUESTONUMERO

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a cura di Andrea Ferrari

NON FIORDI,MA OPEREDI BENE

Approfondimenti e rivelazioni sulla nera scandinava a cura di Andrea Ferrari.

Con stile denso come il plasma da una delle mi-gliori menti del panorama giallistico italiano.

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Nel 1965 la coppia di scrittori svedesi Maj Sjöwall e Per Wahlöö, coppia nella vita,

in quanto legalmente sposati, prima anco-ra che nella scrittura, decise che fosse inutile impiegare il proprio tempo a litigare per cose come chi dovesse portare fuori la spazzatura o a chi toccasse cambiare la sabbietta del gatto e iniziò a pubblicare i romanzi polizieschi che avrebbero cambiato o, per meglio dire, creato la scena svedese prima e scandinava poi della letteratura di genere.

Dieci romanzi con protagonista il commis-sario Martin Beck della polizia di Stoccolma. Dieci come i dieci comandamenti, come i gio-catori di movimento nel calcio, come i piccoli indiani di Agatha Christie, come il numero di Maradona; insomma un numero emblematico e vincente.

All’interno di questi romanzi si trovano, una profonda analisi sociale caustica e perfino im-potente, una ricerca importantissima sui rap-porti interpersonali nella Scandinavia di quel tempo e una finissima attività investigativa conscia dei limiti dell’essere umano e delle sue risorse finite e fallibili. Stilisticamente i due si sono inventati uno stile dettagliato, amante dei particolari e oltremodo preciso, dove nes-suna parte della narrazione è lasciata al caso e soprattutto dove ciascun aspetto letterario, se-mantico e sintattico compone il mosaico libro nella sua interezza.

Insomma Maj e Per, in dieci anni pubblicaro-no dieci romanzi tracciando una sorta di sum-ma teologica del genere della Krim Litteratur e poi sparirono. Bé proprio sparirono no, o me-glio, il povero Per lasciò il mondo anticipata-mente, mentre la ormai signora Maj continuò la sua attività e credo che anche oggi sia attiva almeno come critica e traduttrice.

Il problema fu che nella nostra bella peni-sola, i libri dei coniugi svedesi arrivarono a sprazzi e caddero presto nel dimenticatoio per vari motivi legati alla letteratura di genere, alla lontananza fra Scandinavia e Italia, lontananza fisica e culturale, e perché a dire il vero c’erano problemi maggiori in quegli anni che disputa-re su corruzione dei sistemi morali e di gestio-ne della cosa pubblica per mezzo di romanzi polizieschi. Noi siamo quelli della riscoper-ta tardiva di un maestro come Scerbanenco,

quindi figuriamoci che fine possono aver fatto due svedesotti dai capelli biondi e dagli occhi azzurri.

Ricordiamoci che in quegli anni dalla Scan-dinavia in Italia arrivavano solo le ragazze e i ragazzi un po’ frikkettoni e alla meglio delle stangone da far girar la testa. In definitiva, e non credo si possa scrivere in definitiva in un articolo che creda almeno lontanamente di as-somigliare a un saggio o quanto più di avere un po’ di sale in zucca, ma tant’è. In definitiva quindi la mal disposizione della nostra edito-ria e del nostro parco lettori lasciò i due vi-chinghi ai loro gelidi inverni e produsse però un effetto davvero strano nel corso dei succes-sivi 25 anni.

Ora vengo e mi spiego: Il mercato di titoli dalla Scandinavia è gonfio come un testico-lo con l’orchite più violenta del secolo e tutti noi (io per primo, anche se la mia formazio-ne accademica mi è scusa e scudo) popolo dei lettori ci stiamo ingolfando di pagine e pagi-ne di “SSON”, “NQVIST”, “BERG”, “ELL”, “ESEN”, “SBØ”, “LUND” e chi più ne ha più ne metta, senza sapere che i ragazzi e le ragazze qui so-pra poggiano sulle spalle di due giganti alti dieci romanzi e ne traggono a piene mani e pure qualche piede aggiungerei io in modo per niente polemico.

Nulla da togliere alla professionalità, alla

SSON DI UN DIOMINOREMaj Sjöwall e Per Wahlöö

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perizia e alla ottima qualità dei prodotti scan-dinavi degli ultimi dieci anni, perché la neces-sità di narrare e di farlo secondo modelli più o meno alti è incontrovertibile e irrinunciabile, ma toglierei molto alla mancanza di critica con cui il mercato e i lettori rispondono alla nuova invasione vichinga.

Il bello della lettura è la possibilità di servir-si di ciò che il passato ci ha lasciato per cresce-re e per prendere dei parametri su cui model-lare le nostre idee e le nostre reazioni. Invece noialtri abbiamo preso, passato e parametri e ce li siamo bellamente lasciati alle spalle igno-rando aspetti che ora tornano con veemenza a diciotto euro e cinquecento pagine di media e che due frikkettoni biondi avevano già deline-ato e sviscerato con dovizia. Arricchisce la let-tura dei vari “SSON”, “NQVIST”, “BERG”, “ELL”, “ESEN”, “SBØ”, “LUND” e chi più ne ha più ne metta, avere ben presente da dove sono partiti e incuriosisce anche come il processo sociale e socialdemocratico scandinavo sia coerente-mente scivolato verso un annichilimento pro-gressivo come prefigurato dai due coniugi or-mai quarantasei anni fa. •

Romanzi tradotti:

Roseanna (1965) - Garzanti, 1973; Selle-rio, 2005; L’uomo che andò in fumo (1966) – Garzanti, 1974; Sellerio, 2009; L’uomo al bancone (1967) – Garzanti, 1973; Sel-lerio, 2006; Il poliziotto che ride (1968) – Garzanti, 1973; Sellerio, 2007; L’auto-pompa fantasma (1969) – Garzanti, 1974; Sellerio, 2008; Omicidio al Savoy (1970) – Garzanti, 1974; Sellerio, 2008; L’uomo sul tetto (1971) – Sellerio, 2010; La camera chiusa (1972) – Sellerio, 2010; Un assas-sino di troppo (1974) – Garzanti, 1976; Sellerio, 2005; Terroristi (1975) – Sellerio 2011.

“...sulla banchina c’è un uomo morto in piedi. Chiacchiere, dico io. Sì, tenente. C’è un morto in piedi sulla banchina. Non esistono morti che stiano in piedi sulle banchine, dico io, andiamo, Johansson. Sì, tenente, insiste lui, è un uomo morto, l’ho tenuto sempre d’occhio e non s’è mosso per diverse ore. E il secondo si alza, spia fuori dall’oblò e dice: Ah, è un operaio del comune.”

- L’uomo al balcone -

NON FIORDI, MA OPERE DI BENE

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LINCOLN’SCORNERNEWSeditoriale di Michele Crescenzo

Isolarsi, togliersi di dosso il superfluo come si stacca la buccia di un’arancia, come in-

terrompere una musica ripetitiva e sedersi a gustare il silenzio. Rimanere lì, un po’ o alme-no quanto basta.

Elena, Andrea e Raffaele hanno trasformato questo gesto nel filo conduttore dei primi ine-diti di Cadillac, nelle prossime pagine l’isola-mento avrà lo sguardo attento di un barbone con una penna in mano che prende appunti su pezzi di carta trovati in strada, sarà la porta chiusa che incontri mentre scendi le scale e, prima di arrivare al portone, ti domandi se hai mai visto il volto del proprietario di quell’ap-partamento, sarà una pianista che si taglia un dito e lo lancia in una bottiglia nel Tamigi.

Isolarsi è anche il gesto iniziale, primitivo, di ogni lettore; momento necessario e indispen-sabile per scrollarsi da dosso il mondo e con-centrarsi sul ritmo delle parole. Può succedere ovunque: in metropolitana, in pausa pranzo, in treno; anche ora mentre stai sfogliando que-sta rivista dai bordi neri e apri la portiera di quest’auto di parole di nome Cadillac. •

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LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI

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...quando l’ultimo tono si è dissolto facendosi nebbia, sono rimasto di sasso, e potrei giura-

re di aver sentito i monconi delle braccia di Eddie battere sul coperchio della bara per farci

smettere.

Breece D’J Pancake - Onore ai morti

Nella stanza c’era un uomo seduto su una sedia a dondolo e c’era del vero in quel-

lo che aveva detto. E poi vicino alla sedia c’e-ra un camino, alto come la parete, un camino molto vecchio, in stile americano, con un bra-ciere immenso e la parte esteriore della canna fumaria in pietra grezza e cemento.

Da quelle parti c’era anche una signora, sul-la settantina, capelli grigi, freschi di messa in piega con una Nikon in mano, pronta a scat-tare. Ai suoi tempi fu una concertista famosa, suonava il pianoforte e lavorò come solista per l’Orchestra Sinfonica di Londra dal 1952 al 1964. Dopo aver ricevuto molti premi ed es-sere stata inclusa nella Canadian Music Hall of Fame, smise di suonare la sera che interpretò per la settima volta il Secondo Concerto per Pianoforte e Orchestra di Rachmaninov, un’e-secuzione che rimase nella storia.

In seguito, non potendone più della gente che cercava di dissuaderla, si tagliò il mignolo con una sega manuale a denti larghi.

Poi mise il dito in una bottiglia di vetro e lo lanciò nel Tamigi.

Quattro anni dopo la bottiglia venne trova-ta dall’uomo che ora siede su quella sedia a dondolo. È Lindo Faretti, nato cianotico nell’o-spedale centrale di Ardea, 50.000 anime alle porte di Pomezia, da padre archeologo di fama mondiale (cinquantasette pubblicazioni e sei importantissimi libri all’attivo) e madre morta ammazzata nella guerra civile cilena. Nel mo-mento maieutico, Lindo aveva tre giri di cor-done ombelicale intorno al collo. Il suo viso era blu ed emergeva il contrasto con le pareti bianche dell’Ospedale Centrale.

Fino ad oggi Lindo ha sofferto di claustrofo-bia, crisi d’ansia e panico, ma è stato general-mente bene. Dopo aver compiuto gli studi su-periori, ha lavorato sedici anni per un’impresa di pulizie nel Museo Egizio locale e gli piaceva

molto una statua in granito nero raffigurante il dio Anubi. Poi, in seguito ad alcuni problemi avuti col direttore del museo, fu licenziato e si trasferì nelle campagne che circondano Lon-dra. Cominciò a pescare.

Lindo e la donna senza un dito con la Nikon in mano, si erano sposati nel 1977 e avevano un cane. Un cocker di nome Chicca che ringhiava alle persone solamente quando su trovava nei posti chiusi. A completare il quadro familiare c’era anche un quarto elemento, un’iguana che si chiamava Terrore. L’aveva portata dalle Ter-re del Fuoco l’amante della signora senza un dito, per far parlare di altro. Era un mercante d’arte, cieco d’un occhio, specialista della cor-rente che in quegli anni si andava diffondendo nel nord del paese con il nome di Vuotismo. Il Vuotismo cercava di geografizzare l’assenza. Di fare con i neutrini quello che Cézanne aveva fatto con le colline e i paesaggi della Proven-za. Geometrizzare, donare solidità analogica e riconoscibile, rendere cognitivamente accetta-bile l’infinitamente piccolo come materia.

Ebbene, l’amate della signora senza un dito, aveva l’esclusiva su questo artista, uno dei fondatori e sicuramente il più talentuoso dei vuotisti, Riccardo Scherman, ebreo sefardita che aveva appena inaugurato e seguito in Sud America, una galleria con le opere del suo pri-mo periodo.

Al momento della foto il cane sembrava ave-re fame. L’iguana no.

C’era un uomo sulla sedia a dondolo. Aveva smesso di dondolare per sempre a causa di una modesta dose di veleno che la donna senza un dito gli aveva fatto ingurgitare per convincerlo a morire. Ora lo stava immortalando con l’anu-

IL DENTRO DIUN ALTROFUORIdi Raffaele Riba

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lare e la sua fedele Nikon: un uomo sulla sedia a dondolo ai piedi di questo immenso camino, proprio in corrispondenza dell’immenso bra-ciere. Voleva regalare questa foto come tributo d’amore al mercante d’arte cieco d’un occhio. L’aveva sempre incoraggiata ad andare avan-ti con la fotografia. Aveva un talento naturale nell’enfatizzare i vuoti.

Lindo aveva sempre voluto essere felice, la moglie senza un dito lo era in quel momento.

Nello stesso istante anche l’iguana ebbe un attimo di felicità verticale quando, incrociando la luce del sole, le sembrò di percepire i lembi dell’universo. Ma da lì a qualche giorno se la sarebbe mangiata il cane, l’unico sopravvissu-to di questa storia assolutamente triste.

La donna senza un dito, infatti, contrasse una vorace malattia venerea che a sua volta il mercante aveva contratto in un bordello gay di Buenos Aires, dove aveva sfogato il proprio priapismo dopo il definitivo rifiuto del giovane artista vuotista. Il mercante non arrivò però a morire di questo. Dopo essere stato scaricato dal suo artista, si uccise aprendosi il ventre e cercando di infilarci alcune sue tele, le preferi-te. Soffriva di malinconia.

Raffaele Riba è nato a Cuneo nel 1983. Noi lo abbiamo conosciuto che stava vincendo il concorso per racconti 8X8. Vive a Torino, questo è certo.

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI

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C’era Lindo Faretti sulla sedia a dondolo e aveva detto che ci sono persone, come una supernova, attratte in maniera catastrofica dal proprio baricentro, altre, invece, che sono spinte da una forza centrifuga che si esorciz-za anche solo con una parte del corpo infilata in una bottiglia. Aveva detto che ci sono forme d’arte che nascono per essere lanciate e forme d’arte che sono state progettate per interioriz-zare, per farci vedere le cose non come sono ma come ci rimangono negli occhi.

La foto del morto seduto davanti al camino, è ormai divenuta una delle più celebri al mon-do, quella che tutti conoscono come Il fermo dondolare del fuoco, scoperta dal coroner con la passione del Vuotismo che aveva indagato su queste quattro morti misteriose, e donata alla Tate Modern dove ancora oggi si lascia ammirare al terzo piano dell’immenso e stu-pendo edificio nella sezione I Postmoderni.

Nessuno può finora giurare di aver visto in quella foto qualcosa di assolutamente uguale a quello che vide la pianista quel giorno.

In tutto questo il cane aveva mangiato ed era sazio, l’iguana invece, era diventata una sensa-zione del cane. •

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Sono un giornalista. Sportivo d’accordo, ma sempre giornalista. E lo ero anche

qualche anno fa, prima di sparire. Ero bravino e giovane, non firmavo ancora i pezzi e non mi davano le partite importanti, ma se non fossi sparito , nel giro di poco, la mia carriera sa-rebbe decollata. Invece sono partito solo io, la mia carriera è rimasta lì mentre io prendevo un volo lento, ma inesorabile verso l’inferno. Anzi, un limbo direi. Una specie di sottomon-do dove esisti perché mangi, dormi e caghi, ma dove meno ti vedono e meglio stai. Prima di sparire facevo il giornalista a Milano. Non solo il giornalista, ma anche il marito di Gaia e il cointestatario di un conto corrente, di un af-fitto e di un’auto verde bottiglia. Ero anche pa-dre di Maria. Ironia della sorte, e a posteriori, forse di Maria, è meglio essere figli che padri, o in definitiva mi piace pensare che sia meglio essere Maria piuttosto che figlia mia. Dicevo; la casa era piccola, la macchina era piccola e anche la bambina, ma non me ne preoccupavo. Lo faceva Gaia invece, per la quale tutto diven-ne velocemente troppo piccolo, anzi stretto. E fu così che nel giro di molto poco mi trovai separato legalmente, con dei turni per vedere la bambina, con la macchina verde bottiglia e senza la casa della quale però continuavo a pa-gare un pezzo di affitto. Presto dovetti conve-nire che Gaia aveva ragione, la macchina verde bottiglia era davvero piccola e dormirci dentro non era proprio agevole. Così passai qualche mese a casa di amici, ma se uno non riesce neppure a permettersi l’affitto di una stanza in condivisione per studenti è difficile che ab-bia amici così ricchi da vivere in case enormi e, soprattutto, sappiamo che l’ospite dopo tre giorni puzza; come il pesce. Figuriamoci dopo tre mesi e nel mezzo di un luglio torrido. In questi frangenti la famiglia viene in aiuto, o almeno nella maggior parte dei casi, ma io la famiglia non l’avevo più, o per lo meno una era morta da tempo e l’altra mi aveva allontanato a suon di carte bollate. Rivalutai la macchina verde bottiglia e abbracciai Milano e la sua estate colma di zanzare, discariche incolte e fabbriche dismesse. Poi abbracciai anche la bottiglia, non mi importava che facesse pen-dant con la macchina, mi bastava che mi stor-disse a dovere. Non durò a lungo. La parentesi

etilica della mia sparizione intendo; il periodo in strada invece fu di un lustro, mentre io mi sporcavo sempre di più l’anima. Perché con un minimo di astuzia l’igiene personale la si può mantenere. A Milano conta l’aspetto e non l’a-spettare che venga buona. Quindi dopo aver perso il lavoro nei primi mesi di abbandono, per ubriachezza molesta e poca concentrazio-ne, fui costretto a vendere la macchina di sot-tobanco a dei rom abruzzesi di Corvetto. Un paio di migliaia di euro lerci peggio di me con i quali pagai un po’ di alimenti e qualche sup-pellettile che mi avrebbe permesso di sparire in santa pace non perdendo la mia dignità. Mi inabissai in centro, dando le spalle al Duomo e con il cuore rivolto a S.Siro cercando un estre-mo sincretismo fra sacro e profano, fra il Dio della domenica mattina e quello della dome-nica pomeriggio, posticipi e calendari permet-tendo. Ero pur sempre un giornalista sportivo no? Milano, la città, fino a quel punto mi era sempre stata indifferente, ci vivevo, ci lavoravo e l’abbandonavo un paio di settimane all’anno per le vacanze che ci costavano un occhio della testa, ma che facevano tanto famiglia Barilla.

Da quando decisi di sparire a Milano, invece, la città divenne tutto per me. Tutto ciò che odiavo e che amavo contemporaneamente, come il pianto e il riso. Lo dicono gli attori no, che il pianto è così vicino al riso da trasfigura-re il viso come e meglio di una ghignata. E io mi accodai alle risa fino ad arrivare al pianto. A

I CINQUEANNI IN CUINON SONO STATO DANESSUNA PARTEdi Andrea Ferrari

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Milano ero nessuno, non come Ulisse che era un signor nessuno, io ero proprio nessuno. Avevo buttato tutto quello che poteva ricor-darmi la mia vita passata, documenti e cellula-ri inclusi. L’unica cosa che non avevo lasciato per strada era la mia penna, la mia voglia di scrivere e di raccontare. La mia bambina era solo un ricordo. Per mesi pensai di tornare da Gaia, di farmi vedere e di riabbracciare Maria, ma non era cosa, sapevo che il meglio per loro non ero più io e dopotutto io non ero più nes-suno no? Ciò che mi lasciò più di stucco, fu che per scomparire, per disperdere le mie tracce, non dovetti fare assolutamente niente. Bastò eclissarsi, con lucida follia nelle pieghe della città, la mia città. Quel groviglio di pietre grigie sporche di gas di scarico e di binari del tram che portano verso la periferia. La periferia, quella profonda, era salvifica quasi catartica. Il centro era anonimo, i barboni fanno parte del paesaggio e io feci altrettanto: divenni paesag-gio. Non un belvedere certo, ma conservavo quel non so ché di folle che imprimevo sui fogli che trovavo in giro e che divenne il romanzo di cui stiamo parlando ora. E la gente passava, come le stagioni e come la mia voglia di bere. L’alcool lo lasciai stare velocemente, non face-va per me, mi sistemai spesso in vecchie casci-ne ai bordi della città così lontane dalla mo-dernità eppure così vicine alle fermate degli autobus da sembrare alberghi diroccati molto bohemien. La città, Milano, era sempre la mia meta e quasi tutti i gironi venivo in centro per scaldarmi nei megastore o per scroccare qual-che cosa qua e là. Non mi vestivo certo da foto-modello, ma ero sicuramente diverso da quel-lo che si può immaginare come barbone tipo. L’acqua corrente non era un problema nelle campagne dove mi rifugiavo e qualche furta-rello ben fatto ai supermercati mi consentiva di recuperare sapone e generi di conforto. Cer-to la notte il freddo dell’inverno picchiava, ma spesso riuscivo a intrufolarmi in qualche fab-brica non del tutto morta con il riscaldamento funzionante. Non sapete quante cose s’impa-rano della città andando a vivere in campagna. Il mio centro di gravità però restava Milano e facevo il pendolare fra la cintura post agricola e la città. Dovevo fare quello per cui mi sarei riscattato, dovevo vivere delle storie e all’oc-

correnza inventarmele. Dovevo seguire i mila-nesi, i miei concittadini, per capire dove an-dassero nel loro continuo falso movimento. Avevo una missione, dopotutto fare il cronista era il mio mestiere no? E a Milano il mestiere definisce più del nome che ti porti addosso dalla nascita. Fu così che abbandonai il giorna-lismo sportivo per diventare cronista della re-altà. Vagavo e scrivevo, stoccando in quaderni di fortuna esperienze poderose e oniriche che mi avvicinavano sempre di più alla follia. Quel-la spaventosa lucida esigenza di stare ai mar-gini e osservare. I miei abiti divennero sempre più spartani e la mia barba sempre più folta. La curavo con puntiglio perché simboleggiava la distanza fra me e il mondo che mi aveva scac-ciato e del quale ora ero spettatore narrante. Tutto sembrava una perenne partita, un derby fra bene e male, fra indifferenza e generosità, tra odio e amore. Ecco, dopo essere diventato un nullatenente anonimo, non mi mancava niente se non l’amore. Quello di una donna e quello di una figlia che non sapeva più dove fosse il suo papà. Mi sentivo colpevole, ma con-fidavo che Maria fosse così piccola da riuscire a farsi andare bene il padre posticcio che Gaia aveva certamente trovato per lei. Gaia era una donna pratica. Faceva la contabile del resto. Ogni tanto lavoricchiavo. Soprattutto d’inver-no. Mi trovavo occupazioni saltuarie, special-mente notturne, come custode o sorvegliante per ovviare ai problemi di riparo e caldo. Era-no tutti lavori in nero che mi procuravo bazzi-cando di giorno i posti che mi sembravano più papabili. Vecchi magazzini, autorimesse venti-quattro ore su ventiquattro e così via. Ma nulla mi stava addosso per più di un paio di settima-ne. Così ritornavo alle mie cascine, mi disintos-sicavo dal demone nero del lavoro e scrivevo. Per un periodo mi venne anche in mente di in-viare degli articoli ai quotidiani della città, ma rinunciai presto perché volevo che la mia ope-ra fosse completa. Non so dirvi se fu per gioco o per davvero, ma in un certo qual modo avevo previsto tutto e anche ora che lo racconto ho la pelle d’oca. In certi luoghi non andai mai. Non bazzicai parrocchie e centri di solidarietà e so-prattutto mi tenni lontano dai dormitori. A volte, mi ritrovavo al dormitorio di viale Ortles nella periferia sud di Milano e guardavo chi

LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI

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entrava e usciva. I relitti reietti, vuoti a perdere carichi di un’umanità smarrita che nessuno avrebbe mai rivalutato o soppesato. Li guarda-vo, e guardavo anche la struttura di quel colore arancio rosso mattone con le tapparelle mezzo abbassate come sipari eternamente socchiusi verso il pubblico. Tutto era così terribile che mi costringevo a starci davanti per ore intere ad osservare il lugubre scorrere di quelle vite come fossero dei moniti perenni a me stesso. Non dovevo abbandonare il mio scopo. Io non ero un barbone, ero un osservatore privilegia-to. Un Gesù Cristo del nuovo millennio che dal-la sua croce aveva uno sguardo più ampio sul mondo. Ero fuori di testa, ma non me accorge-vo. Ma quella pazzia, che ancora adesso con-servo in una tasca della giacca fu la mia ancora di salvezza nel mare della fame e della dispera-zione. Non mi sentivo come i disperati, e quin-di non frequentavo attivamente i loro luoghi in modo da non farne parte. Andavo alle mense ma non ci mangiavo e spesso facevo la fame. Osservavo le file davanti all’opera San France-sco di corso Concordia e concordavo con me stesso che nessuno era più santo di me. Con-ducevo un’inchiesta intima e pubblica allo stesso tempo sulla città di Milano e sui suoi luoghi. Comuni e non. Conobbi schiere di ric-chi e borghesi. Non credete come sia facile av-vicinarli e abbindolarli, con i loro sensi di col-pa griffati sono disponibilissimi ad ascoltare uno che ha una certa cultura e che sembra solo in un momento di difficoltà. Così chiacchieravo al parco con signore che passeggiavano bas-sotti di pedigree e dissertavo di arte e lettera-tura con appassionati dall’orologio d’oro di fronte a mostre e gallerie. Andavo spesso a presentazioni di libri ed eventi culturali, solo per sentirmi nel mio ambiente e feci anche qualche amicizia sincera, che abbandonai per paura di venire smascherato. Mi sono sempre stupito e lo faccio tutt’ora di quante occasioni un ricercatore di cultura a trecentosessanta gradi possa trovare a Milano. Chi si lamenta del poco fermento culturale della città è stolto in prima analisi e pigro in ultima. Certo biso-gna muoversi e ci vuole il tempo per farlo, ma considerato tutto ciò che non avevo, il tempo era l’unica cosa di cui disponevo in abbondan-za. Dopo un paio d’anni o tre ero invecchiato. Il

divorzio era un ricordo lontano. Maria una bambina sicuramente cresciuta che forse non avrei riconosciuto e Gaia un rancore sommes-so in fondo all’anima. L’unico rimpianto era che non potevo frequentare il vecchio quartie-re verso via Padova. Qualcuno si sarebbe potu-to ricordare di me e il mio piano di fuga non sarebbe andato a buon fine. Ogni tanto mi ci avvicinavo di soppiatto, soprattutto nelle sere calde d’estate, quando dormire era un mirag-gio. Andavo verso piazzale Loreto e guardavo giù lungo la striscia di cemento e case che si perdeva fino a Crescenzago e Vimodrone e versavo qualche sporadica lacrima. Non per la mia condizione beninteso, ma per la nostalgia. Quella virtù viziosa che deve comunque essere alimentata per farsi ricordo tangibile e ram-marico. Il tempo passava e io scrivevo. La mia ossessione era diventata la fine del mio rac-conto. Cercavo storie su storie che incatenavo con vincoli di fantasia alle strade di Milano che era sempre di Più scenario e sfondo sufficiente e necessario per il mio vagare di letterato ai margini. Un giorno, spinto dalla fame e dalla febbre dovuta alla pioggia insistente di quel novembre masarato raggiunsi la via in cui era la mia casa. Una via che per molti sarebbe sembrata anonima, ma che per me risuonava come una melodia conosciuta che ti occupa la mente al mattino appena sveglio e ti porti die-tro per tutta la giornata. La mia giornata dura-va da quattro anni abbondanti. Vidi le finestre del mio vecchio appartamento e una bicicletta legata al portone. Era quella di Gaia, ne ero certo. Poco distante una piccola bici rosa mi diceva che mia figlia aveva imparato ad andar-ci e che non usava più le rotelline di sicurezza. Non badai alla mountain bike da uomo che de-notava un chiaro intruso in quel quadretto del-le mie memorie. Una bambina si affacciò alla finestra, mentre mi ritraevo nell’ombra e ri-pensavo alla fine del mio racconto e al mio ri-torno nella società della città. Me ne andai anonimo una vota di più, con un lieto fine alle mie spalle e un finale aperto sulla punta della mia penna. Non ho mai amato i finali aperti, ma stavolta sentivo di dovermelo concedere e soprattutto sentivo di doverlo a Milano, la città che mi aveva permesso di essere nessuno per quasi cinque anni, quel luogo così pieno e va-

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cuo al tempo stesso da risultare assordante per chi non ci vive e muto per coloro i quali ne percorrono le vie. Lei, la musa di questo rac-conto dei cinque anni in cui non sono stato da nessuna parte, ma in cui sono stato Milano. La città dove si può sparire alla luce del sole, quando c’è e riapparire in una sera grigia di un autunno carico di pioggia. Il luogo della mo-dernità antica e delle contraddizioni in termi-ni. Il ricettacolo di emozioni che tutti chiamia-mo sbagli, e il ventre accogliente che ti abbraccia dopo che l’anonimato ti ha purifica-to e sei pronto di nuovo a diventare un Ulisse qualunque. Non Nessuno, ma un signor Nessu-no. Fu così che presi il coraggio a due mani e inviai questa sinossi di cui avete appena preso visione ad un editore piuttosto famoso dando come recapito quello di una vecchia cascina dalle parti di Rozzano. Mi richiamarono. Ed ec-comi qui. Gaia non è Gaia e Maria forse non è mai esistita, né io vi dirò se in quei cinque anni sono stato a Milano o da nessun’altra parte. Quello che conta è che voi cerchiate di ricono-scervi fra le pagine di questo libro e soprattut-to fra le vie di questa città così anonima da sembrare unica. •

Andrea Ferrari è uno scrittore noir, di quelli tosti, nato a Milano nel 1977 dove vive e lavora. Ha pubblicato quattro romanzi con Eclissi: Milano A. Brandelli (2007), Bravo Brandelli (2008), Milano Muta (2009) e Divorzio alla Milanese (2011) ed è stato in-cluso in diverse antologie di genere e non. Ha fondato, assieme a Francesco Gallone, il movimento letterario Gli Inadeguabili.

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Non l’ha deciso un giorno, non è andato alla deriva, è solo un’evoluzione natu-

rale delle cose. Scatole dentro scatole dentro scatole. Con e senza fili.

Il suono nasale del citofono attraversa il cor-ridoio e lo distoglie dal lavoro. La consegna è fra tre giorni, la notte è stata poco proficua, troppi nuovi DVX fragranti ad aspettarlo nel-la media station. Sunshine ha spezzato il buio immergendo le pareti in una colata di giallo, ne sente ancora le vibrazioni claustrofobiche.

Esce dal paravento degli schermi al plasma e si stacca dal tavolo sepolto da pile di hard disk e riviste, spegnendo la sigaretta a metà.

Inciampa in uno scatolone aperto, che tra-scina fino alla porta.

Esselunga. Bene. Arriva la pappa. Firma la bolla di consegna e saluta il ragazzo, deve essere uno nuovo, tratti pakistani. C’è una cassetta qui, gli dice il pakistano indicando a terra. Bioexpress. Bene. Fibre e vitamine da coltivazione biologica garantite anche questa settimana. Il corridoio si riempie di sacchi blu mentre squilla una suoneria a xilofono elettro-nico. Slalom per tornare al tavolo e afferrare in tempo l’i-Phone. Pronti per la riunione in Skype tra cinque minuti. Torna all’ingresso con le cuffie bianche che gli pendono dalle orecchie e trascina dentro la biocesta sporca di terra fino alla cucina, solcando il parquet laminato come un aratro. Un topinambur si affaccia perplesso dal bordo — situazione in-solita — mentre un blop nervoso proveniente dal PC pretende attenzione immediata.

Percorso inverso in accelerazione per ri-prendere il posto di comando, sgranocchian-do una carota sporca. Sputa un filo d’erba e preme il tasto START per essere risucchiato di nuovo nella rete, il luogo dove accadono le cose. Facce e voci inondano la stanza sospesa tra nuvole di smog, la luce pastosa e uniforme, immobile. Il cielo vicino. La rete pulsa e sfrigo-la, attraversandolo.

Non sa da quanto tempo non esce da qui. Più di un anno, dal colore della pelle. Meno di cin-que anni, dalla sua ultima fidanzata reale. Più di tre anni, dal suo ultimo viaggio reale a Ban-gkok. Il fatto è che non se lo chiede. O non se lo chiede più. Il sospetto, spinto giù in fondo nel retropensiero, è che nessuno se ne sia accorto.

Amici d’infanzia telefonici, genitori d’infan-zia telefonici, amici tirchi in Skype, amici col dono della retorica via email, amici sintetici in Twitter, amici esibizionisti e voyeur in Facebo-ok. Tutti molto presenti. Non si sente mai solo. Anzi: a volte deve staccare tutto per salvarsi da questo magma che preme per entrare.

Clienti di lunga data telefonici, clienti di fret-ta in Skype, clienti professionali in LinkedIn, clienti nuovi in Namyz, clienti esclusivi in Bu-siness Chamber. Tutti sempre reperibili. Non rimane mai molto tempo senza lavoro.

Il fatto è che non c’è davvero bisogno di uscire. Ogni cosa è fantasticamente accessibile e collegata. Affitto? Bonifico permanente con e-banking. Bollette? Pagamento online. Mul-te? Quali multe? La 147 sta ammuffendo nelle viscere della terra, senza bollo. Spesa? Ordine online e consegna sulla soglia. Film? Li scarica, in simultanea all’uscita nelle sale, loro in fila fuori dal cinema, lui in fila su BitTorrent. Per i classici e le visioni speciali si concede un Blu-ray. Musica? Lo stesso. Sesso? Lo sceglie nella rete e gli viene servito a domicilio all’ora con-cordata, come, dove e quanto lo desidera. Può decidere a priori lo stile, il profumo, il gioco, il tempo. Pagamento anticipato, no cash.

Ha imparato a sedare le crisi da shopaholic rovistando e perdendosi nelle luminose ve-trine virtuali che brulicano di prodotti nuo-vi, usati, in saldo, riciclati, risputati. Qualsiasi cosa. Un frullatore Cuisinart direttamente da-gli Stati Uniti a 80$ con la presa sbagliata. Dieci nuovi romanzi a caso suggeriti da Amazon. Le mutande a righe di Muji in stock da venti nel-la taglia giapponese. Una Tizio quasi nuova su eBay. Le sigarette e molto altro su smartdrugs.com. Per lo shopping riflessivo invece si muove scattante tra migliaia di forum e blog di esperti

APIEDINUDIdi Elena Ghiretti

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alla caccia di dritte.E poi uscire per andare dove? Scendere dalla

torre e trovarsi in un mall ? Spingersi oltre e af-facciarsi nel piazzale, ad assaporare il rumore dalla tangenziale? È più bella dall’alto, è il suo orizzonte in costante movimento. Lo trattiene tra i vivi, gli ricorda a quale specie appartiene.

Il citofono starnutisce ancora. Una sola volta, timida . La videoconferenza langue, il cliente sembra più preoccupato a sistemarsi il ciuffo buttando di continuo l’occhio alla propria im-magine nell’angolo. Facciamo un ultimo upda-te domani mattina, d’accordo? D’accordo. Blop. Risucchiato. Ciuffo sparito. In un meeting reale quando uno non smette di assillarti e non se vuole andare, mica puoi fare Blop.

Un secondo starnuto, lieve. Non come quelle scampanellate ringhiose del corriere DHL. O i bip trattenuti e repressi della tipa al piano di sotto, che una volta al mese si sente in diritto di ricordargli che lei alle nove va a letto, di ab-bassare il volume di quelle casse, e poi, torva , ma lei non esce mai con gli amici?

Questo suono cortese non lo riconosce. Si alza, calpesta un sacco blu — probabilmente erano le uova e il Müller alla vaniglia — e si affaccia allo spioncino. Non c’è nessuno. Pia-nerottolo deserto. Ha l’occhio ancora incollato quando gli entra dentro un’enorme iride ci-gliata. Si ritrae di scatto. Panico. E questo chi è? Torna a guardare, piano, circospetto. Un naso e poi un’onda color castagna di capelli invadono la lente. Imprevisto. Allerta. Rimane immobi-le come un animale braccato, cercando di non provocare il minimo rumore. Un terzo starnu-to lo fa sobbalzare. Non molla. Vediamo chi ha tutta questa costanza.

Socchiude la porta lasciando la catenella, ap-poggia lo zigomo allo stipite.

«Chi è?»Noncurante e sovrappensiero.«Ah, ma allora ci abita qualcuno qui.»È una tipa. Se ne sta lì a fissarlo con un uni-

co sopraciglio alla Frida Kahlo e la testa un po’ piegata di lato, come i cani.

«Sì, mi sembra evidente.«Per niente. Abito qui di fianco da sei mesi e

non ti ho mai visto. Solo queste cassette di ver-dura qui per terra, ogni tanto. Mi chiedevo: ma-gari ci abita un grosso coniglio… hai presente…

il film…»Ha le tette belle grosse.«Non sono io il Coniglio Viola.»«Coniglio viola?»«L’artista multimediale.»«No, io parlavo di A piedi nudi nel parco,

sai, con Robert Redford e Jane Fonda, che abi-tano nell’appartamento al quarto piano senza ascensore, che quando lui rientra passa sem-pre davanti a una porta con davanti una pira-mide di scatolette di cibo per gatti e che nes-suno sa chi ci abita e lui a un certo punto dice Ci abiterà un grosso gatto con l’apriscatole…»

Parla un sacco. Ma potrebbe avere anche un bel culo.

«Non lo conosco.»«Non l’hai mai visto? Se vuoi una volta te lo

presto. Sei anche a piedi nudi…»Ha sbirciato dentro. Impertinente e un po’

ficcanaso. Ma è piuttosto carina, bisogna am-metterlo. I capelli castagna le arrivano quasi alla vita, è una Mazzoniana bonsai. Forse an-che un po’ Kirsten Dunst in Turning Japanese. Chissà come starebbe vestita da anima.

Forse si aspetta una risposta, o una battuta. È un po’ fuori allenamento con le ragazze vere. Toglie la catena alla porta — mossa significati-va e altamente simbolica — e si mostra in tutta la sua fisicità da appartamento.

«Come sei pallido, non è che vieni da Twi-light?»

«Ma come, mi passi da Robert Redford a queste cazzate da ragazzini globalizzati?»

Non sa se è una battuta, gli suona storta, non importa, tanto adesso la porta si richiude e Kirsten torna a giocare alla vergine suicida.

«Non sottovalutare il fascino di Twilight, l’hai visto in lingua originale?»

«E come se no?»«?»«Io solo v.o.»«Ah. Bravo. Saranno tutte quelle vitamine.»«Bio.»«Pure.»«Of course.»Sta riprendendo il ritmo, surfa con leggerez-

za in questo inatteso dialogo da pianerottolo.«Avrai mica anche il secondo…?»«Posso averlo, certo.»

«Quando?»

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«Stasera.»«Andata.»Kirsten sorride e non sa se le fossette sono vere o solo dentro il suo video mentale, la vede piroettare sotto l’ombrellino giapponese in una nuvola azzurra e fargli ciao con la manina bianca.«Mi chiamo Cristina, tu?»«Fabio.»

Let the right one in. •

Elena Ghiretti è architetto e si occupa di innovazione. È stata prospective marketing manager in multinazionali chimiche svizzere, ha fatto ricerca blue sky su scenari tec-nologici futuri e ha gestito licenze profumate. Oggi si occupa di strategia di marca e trend forecast. Cura due blog intermittenti: Donne Alpha (donnealpha.blogspot.com) e Lost in Style (lostinstyle.splinder.com).

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a cura di Michele Crescenzo

SEFOSSIMONATIMORTI

Le storie dei grandi scrittori anglofoni e non, che sono passate in sordina attraver-

so lo stivale. Da A.M. Homes, a Jonathan Ames, con una puntata nell’intimismo russo dei tardi anni settanta.

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C’è una panchina a New York City, in Mor-ningside Park. Sulla sua sinistra c’è un

piccolo box rettangolare, di legno, con due mensole all’interno, sopra le mensole ci sono libri da prendere, leggere e posare. Tra questi ce n’è uno con delle ciambelle in copertina: This book will save your life.

La Homes lavora a pochi metri, alla Colum-bia University tiene un corso di scrittura crea-tiva. Quando non insegna, scrive.

La sua giornata inizia presto, si sveglia tra le cinque e le sei del mattino, fa colazione con un caffè e inizia a scrivere. A quell’ora la sua mente è libera, può dedicarsi a un articolo per Vanity Fair, The New Yorker, Art Forum, Bomb e Blind Spot, o ai personaggi delle sue storie, limando circostanze e dialoghi con il suo stile asciutto e diretto. La scrittura della Homes è trasversale, i suoi libri possono essere scritti in prima o in terza persona, hanno protagonisti di entrambi i sessi e di tutte le età: nel racconto In cerca di Johnny (La sicurezza degli oggetti) il protago-nista è un bambino che viene sequestrato, in Jack è un adolescente che scopre che il padre è omosessuale, in Musica per un incendio i pro-tagonisti sono due coniugi newyorchesi, men-tre in Questo libro ti salverà la vita è un uomo anziano che riprende in mano la sua vita.

A.M. Homes scrive ogni giorno fino all’ora di pranzo, nel pomeriggio lavora a qualcosa di meno impegnativo, rilegge il lavoro della mat-tina o si documenta per nuove storie.

Qualche anno fa comprò e lesse tutte le bio-grafie, ufficiali e non, dei coniugi Reagan per scrivere L’ex first lady e l’eroe del football (Cose che bisognerebbe sapere), un racconto sugli ultimi giorni dell’ex presidente ameri-cano affetto dal morbo di Alzheimer. Gli ulti-mi attimi di un uomo che, lentamente, passò da una condizione di enorme potere a una di estrema impotenza.

Non so come faccia a sapere quello che sa, ma quello che racconta è vero, è tutto vero.

La Homes è sempre stata anticonformista, da studentessa non le piaceva andare a scuo-la, non lo considerava stimolante, si annoiava; in quel periodo scriveva lettere a musicisti, personaggi della televisione o scrittori, rac-

contando semplicemente la sua giornata. Uno sguardo differente, che riflette da sempre una peculiarità dei suoi scritti.

Ma probabilmente la particolarità che si as-socia più facilmente a questa autrice è, come sottolinea Michael Cunningham la capacità di

UNAPANCHINAA NEW YORKCITYOvvero: A. M. Homes

Romanzi: Jack (1989) - Minimum Fax, 2004; Feltrinelli 2010; In un Paese di Ma-dri (1993) – Feltrinelli, 2009; La Fine di Alice (1996) – Minimum Fax, 2005; Musica per un Incendio (1999) – Feltrinelli, 2011; Questo Libro ti Salverà la Vita (2006) – Feltrinelli, 2006.

Racconti: La Sicurezza degli Oggetti (1990) – Minimum Fax, 2001; Feltrinel-li, 2010; Cose che Bisognerebbe Sapere (2002) – Minimum Fax, 2003.

Saggi: Los Angeles (2002) – Feltrinelli, 2006; La Figlia dell’Altra (2006) – Feltri-nelli, 2006.

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non rinunciare mai a rischiare, la volontà di scegliere argomenti controversi e scomodi, addentrandosi negli angoli più oscuri e ano-mali dell’animo umano per spingere il lettore verso nuovi punti di vista.

Credo che l’esempio più esaustivo sia La fine di Alice, una storia che scava nel profondo dell’animo e della perversione umana.

Quando non scrive a Manhattan, si sposta a Yaddo, una colonia di artisti, una casa circon-data dal verde a nord dello stato di New York. C’è qualcosa in questo posto che mi aiuta ad allargare la mente, sento di poter scrivere un opera più grande. Questa continua spinta al miglioramente affiora in tutti i romanzi e i rac-conti, e colpisce il lettore direttamente nell’in-timo del suo inconscio.

Sulla panchina a Morningside Park, ora c’è una ragazza con un berretto rosso e un cap-potto bianco. Mentre sorseggia un caffè, sfo-glia This book will save your life, chissà se glie-la salverà davvero, la vita. •

“Immagina questa donna in piedi nel sog-giorno, nel mezzo di una frase, e lui che vola fuori della finestra. Immagina lei che non riesce a finire la frase.”

- Cose Che Bisognerebbe Sapere -

“Chi è questa lei che sembra avere una così tormentata propensione, una così strana inclinazione per la carne più fresca, da mettersi a raccontare una storia che in-durrà qualcuno di voi a sorridere e ridere ma che farà bruciare altri dalla voglia di porre fine a questo incubo, a questo or-rore? Chi è? Ciò che più vi sgomenterà è apprendere che costei siete voi o io, uno di noi. Sorpresa. Sorpresa. E forse vi chiederete chi sono io per intromettermi, per pormi come suo e vostro tramite. Mio è l’eloquio, ritmo e prosodia di un vecchio e singolare individuo che è rimasto segre-gato per moltissimo tempo, colpevole di aver perseguito una sua particolare incli-nazione.”

- La fine di Alice -

SE FOSSIMO NATI MORTI

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