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* Omaggio a Hermann Zapf *Progetto informatico di Tiziano Stefanelli

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IL VASO DI PANDORA

TRA PRASSI E TEORIA

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Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XXII, N.3, 2014
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<<Il Vaso di Pandora>>

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXII, N. 3, 2014

Sommario

Editoriale L. Ferrannini

pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA Il significato individuale nel processo di addiction

F. Badii pag. 13

APPUNTI DI VIAGGIO Giovani al primo contatto con il Centro di Salute Mentale: valutazione dei

bisogni e diversificazione delle risposte V. Puppo, M. Zambonini, M. Cantatore, E. Perelli, A. Scibilia, P. Ciancaglini,

M. Vaggi pag. 33

QUATTRO PASSI PER STRADA Recensione:

“Curare giocando, giocare curando. La famiglia, i bambini, i terapeuti”

di S. Lupoi, A. Corsello, S. Pedi P. Pisseri pag. 47

OLTRE… Il paziente che non sapeva cantare: racconto di una collaborazione “anomala”

nella ricerca di voci di voci da ascoltare. L’esperienza del gruppo canto nella Comunità Terapeutica Redancia 1

C. Bocchi, A. Codino pag. 55

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IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXII, N. 3, 2014

Table of contents

Editorial L. Ferrannini

pag. 7

TRA PRASSI E TEORIA Subjective meaning in addiction process

F. Badii pag. 13

APPUNTI DI VIAGGIO Young people at the firts contact with the Mental Health Services: needs

assessment and diversification of care pathways V. Puppo, M. Zambonini, M. Cantatore, E. Perelli, A. Scibilia, P. Ciancaglini,

M. Vaggi pag. 33

QUATTRO PASSI PER STRADA Review:

“Healing by playing, playing by healing. Family, children, therapists”

by S. Lupoi, A. Corsello, S. Pedi P. Pisseri pag. 47

OLTRE… The patient who could not sing: an unusual cooperation among operators

searching wich voices they need to listen to. The experience of “singing group activity” in the Therapeutic Community Redancia 1

C. Bocchi, A. Codino pag. 55

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Editoriale Il numero è aperto da un interessante, e in parte tecnicamente provocante, articolo di Franco Badii, sul “Significato individuale nel processo di addiction”. L’autore, dopo un’ampia e documentata disamina del processo e dell’interpretazione classica del concetto di “addiction”, si concentra sul motivo (o sui motivi) che fanno nascere i comportamenti di abuso/dipendenza, con una particolare attenzione ai fattori che determinano l’instaurarsi di un rapporto tra un individuo e un oggetto/comportamento e la sua evoluzione in addiction. Dopo un’ampia disamina della storia di questo concetto, e soprattutto della sua utilizzazione clinica, l’Autore si concentra su due punti, che sono al centro del suo contributo:

a) si chiede come mai esistano consumatori che non diventano dipendenti e, soprattutto, perché alcune persone che hanno sviluppato una addiction, la possano interrompere autonomamente, senza bisogno di ricorrere a terapie (Miller, 2007);

b) ma anche, come mai possiamo osservare che un consistente numero di persone entra in contatto con sostanze che danno dipendenza, ma non necessariamente va incontro a tale quadro patologico, e come molti dipendenti non presentino nessun altro disturbo sottostante, fatta eccezione per quelli dovuti alla dipendenza stessa (West & Hardy, 2006).

Il lavoro si snoda – con interessanti e solidi riferimenti scientifici – sul fatto che l’acquisizione di un modello della addiction può avere diverse implicazioni:

a) da un lato consente di non parlare di dipendenze intendendole quali quadri clinici definiti soprattutto da complicanze di vario livello, come ad esempio nella griglia diagnostica del DSM, ma di dipendenza, intesa come processo, a prescindere da quale ne siano l’oggetto e gli esiti (Badii, 2010);

b) dal punto di vista operativo, ne deriva la possibilità di definire in modo preciso l’area di intervento del terapeuta delle dipendenze, dandogli

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l’opportuno rilievo specialistico e consente, inoltre, l’impostazione di percorsi specifici, focalizzati sui fattori direttamente implicati nella dipendenza, che potrebbe contribuire al processo di razionalizzazione dell’intervento (Badii, 2013).

Viene pertanto proposto un nuovo modello, basato sul significato e non sul comportamento, aprendo per il clinico un nuovo spazio di intervento, in una sfera emotivo-relazionale più intima, collegata agli aspetti di base della personalità, non necessariamente patologici. Riprendendo testualmente dall’Autore, per far capire meglio il senso della sua lettura del problema: “È all’interno di tali pensieri e modalità che si definisce il significato attribuito individualmente all’oggetto di dipendenza; significato che sostiene e integra il generale meccanismo della ricompensa, declinandolo sull’individualità, facendo sì che il piacere legato all’atto finisca per fondersi con il pensiero narcisistico, in termini di ricompensa, con significati emotivi propri di ogni individuo assumendo anche uno spessore relazionale”. Decisamente su di un altro scenario si muove il contributo del gruppo del Centro di Salute Mentale di Voltri-Distretto 8 (Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze dell’ASL 3 “Genovese”), di Valeria Puppo e altri. In esso si analizza un’ampia casistica di giovani (di età inferiore ai 25 anni) al primo contatto con il CSM – in definitiva con il mondo della psichiatria – differenziandola in relazione alla valutazione dei bisogni e alla classificazione delle risposte. Il lavoro nasce da una solida e poliennale esperienza del gruppo di lavoro, magistralmente avviata da Panfilo Ciancaglini e portata poi avanti da Marco Vaggi e dai loro competenti e motivati operatori, collegata al diffuso rapporto instaurato con i Medici di Medicina Generale, in un percorso di presa in carico condivisa (“stepped care”). La casistica – ampia e statisticamente significativa – è stata trattata secondo criteri e strumenti consolidati a livello internazionale nell’ambito dell’area della cosiddetta “Early Intervention” e ha trovato già riscontri in confronti con casistiche analoghe a livello nazionale e soprattutto internazionale. Grande attenzione viene posta ai “drop-out” e in generale all’attivazione di studi di follow-up a breve, medio, lungo termine.

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Importante ci pare sottolineare come questo tipo di intervento – diventato di importanza primaria nelle pratiche dei CSM – favorisca una lettura e un vissuto meno stigmatizzante dei servizi psichiatrici e dello stesso intervento psichiatrico – dalla cura alla riabilitazione – rafforzi gli elementi di salute mentale e resilienza dei giovani pazienti ma anche dei loro contesti familiari, metta in atto interventi e processi “recovery oriented”, abbia particolare attenzione al monitoraggio della salute somatica dei giovani pazienti, messa a rischio – come sappiamo – non solo dai comportamenti e dagli stili di vita dei pazienti, ma soprattutto dagli effetti collaterali dei trattamenti psicofarmacologici e più complessivamente delle cure somatiche. Infine, su questo numero della Rivista troviamo anche una lucida recensione di Pasquale Pisseri del libro “Curare giocando, giocare curando. La famiglia, i bambini, i terapeuti”, di S. Lupoi, A. Corsello e S. Pedi, pubblicato da Franco Angeli Ed. nel 2013. Dopo un necessario richiamo al valore conoscitivo e rievocativo degli affetti, come ci ha insegnato la psicoanalisi e tutta la psicologia dinamica, e che l’esperienza umana – quale essa sia – si colloca sempre sul confine tra sogno e realtà, tra parola e affetto, tra ricordo ed esperienza, tra coscienza e memoria, viene posto l’accento sui recenti e fondamentali contributi delle neuroscienze e della neurobiologia moderna, che ci hanno aiutato a capire e integrare nelle nostre conoscenze come la persistenza del ricordo sia direttamente proporzionale alla risposta emotiva. Il libro, partendo da queste premesse, prosegue nella ricerca di collegamenti, con riferimenti alla teoria dell’attaccamento e alla scoperta dei neuroni specchio, da cui introduce il tema del gioco in psicoterapia e della psicoterapia di gioco. Il rimando è certamente a Winnicott: “la psicoterapia ha luogo dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. Quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine il portare il paziente da uno stato in cui è incapace di giocare a uno stato in cui ne è capace”. Pisseri magistralmente così riassume il pensiero e il messaggio di Lupoi e collaboratori: “Lupoi ci parla del gioco come strumento di un intervento di terapia familiare, parte di un approccio che privilegia il contatto emotivo piuttosto che l’interpretazione verbalizzata. Il gioco, che coinvolge attivamente anche il terapeuta, comporta un rischio calcolato, relativo a un venir meno delle gerarchie, a una forte

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espressione dell’emotività, a una condizione di imprevedibilità che costituisce un’ulteriore sfida per il terapeuta. Ma svolge più funzioni: ricategorizzante, catartica, simulativa, normativa”. Il volume è completato da un’interessante casistica che mostra in concreto le modalità operative e gli esiti terapeutici, con valore sia documentario che didattico. Se ne può concludere che il tipo di intervento proposto è degno di interesse non solo nella pratica clinica, ma anche come possibile stimolo a più approfondite riflessioni sui rapporti fra affetti e cognitività, fra mente e corpo, fra verbale e non verbale. Non vi è dubbio tuttavia che vanno meglio chiarite le patologie trattate e trattabili, le fasce di età, le modalità di coinvolgimento dei familiari, la chiamata in campo dei servizi sanitari specifici (NPIA o altro) e la necessità di attivare ricerche e studi di follow-up nel breve e nel medio periodo, perché il gioco diventi davvero terapia con effetti duraturi e non solo occasionali. Per concludere, questo numero de Il Vaso di Pandora può interessare (e soddisfare) lettori molto diversi, per approccio ed esperienza clinica; non a caso il sottotitolo della nostra Rivista, che ne da il senso profondo, è “Dialoghi in psichiatria e scienze umane”, cioè favorire scambi di riflessioni e di esperienze, partendo anche da angoli tecnici e operativi differenti. Buona Lettura

Luigi Ferrannini

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Tra prassi e teoria

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Franco Badii

Il significato individuale nel processo di addiction

Introduzione La diffusione dell’uso di sostanze e dei comportamenti di addiction cui attualmente si assiste può essere ritenuta ragionevolmente legata a fenomeni culturali e di mercato, innestati sull’attuale contesto sociale, piuttosto che a una dilagante psicopatologia. Se si considera l’attuale uso di sostanze inserito in un meccanismo di mercato, si può osservare come risponda alle sue leggi, evidenziando la tendenza a una tecnologia di vendita molto simile a quella adottata dalla grande distribuzione, dove i canali di diffusione dei prodotti sono molto ben differenziati e dedicati a diverse tipologie di utenti (Gatti, 2007). Ne consegue che il numero dei consumatori occasionali di sostanze illecite è molto alto. Questo tipo di consumo, legato al mercato, quindi alla disponibilità del prodotto, si differenzia da quello precedente, in cui l’avvicinamento alle sostanze, possibili oggetto di dipendenza, era legato a una frattura con il contesto sociale, su basi psicopatologiche, sociopatiche o, comunque, devianti. La stessa considerazione può essere valida, con gli opportuni aggiustamenti, anche per le forme di dipendenza non legate alle sostanze. Ad esempio, chi in passato voleva giocare d’azzardo, doveva andare in un casinò o entrare a far parte di una stretta cerchia di

Responsabile Struttura Semplice Clinica delle Tossicodipendenze e delle Dipendenze Comportamentali, Struttura Complessa Ser.T., Area Dipendenze, Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze ASL 2 Savona.

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giocatori, oppure frequentare bische clandestine; ora trova slot machine nei bar e nelle tabaccherie. Il contesto sociale Le dipendenze si trovano a essere definite dai valori della società: sono patologie collegate alla cultura (Valleur & Matysiak, 2004); che si tratti di un’attività, di un prodotto o di una persona, la dipendenza è un comportamento patologico di consumo (Ehrenberg, 1999). Diversi autori hanno affrontato l’aspetto del contesto sociale (Amendt, 2004; Alonso-Fernandez, 1999; Badii, 2008; Bauman, 2002a,b; Ciaramelli, 2000; Sarno, 2005); in questa sede vorrei limitarmi alle affermazioni di Maffesoli (2005), riguardanti la fine dei grandi apparati narrativi condivisi, che avevano caratterizzato precedentemente la cultura, da cui deriva un impoverimento della trama temporale e il collasso della prospettiva simbolica (Caretti & La Barbera, 2009). Si verifica una confusione tra molteplici punti di riferimento della prospettiva simbolica con il conseguente smarrimento di riferimenti forti e univoci, che lascia l’individuo alle prese con una libertà pressoché illimitata, ma nel contempo con una responsabilità insopportabile. Ciò priva l’uomo postmoderno di qualsiasi stabile e sicuro criterio normativo di decisione e orientamento, in un travaglio continuo per la definizione dei limiti tra lecito ed illecito (Ehrenberg, 1998). Due domande Miller (2007) si chiede come mai esistano consumatori che non diventano dipendenti e, soprattutto, perché alcune persone che hanno

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sviluppato una addiction, la possano interrompere autonomamente, senza bisogno di ricorrere a terapie. West e Hardy (2006) osservano che un consistente numero di persone entra in contatto con sostanze che danno dipendenza, ma non necessariamente va incontro a tale quadro patologico, e sottolineano come molti dipendenti non presentino nessun altro disturbo sottostante, fatta eccezione per quelli dovuti alla dipendenza stessa. In questa direzione, Orford (2001) rileva che solo una piccola parte della popolazione sviluppa quella che, nel suo modello psicosociale della addiction, definisce un’appetizione eccessiva, individuando una serie di fattori capaci di limitarne lo sviluppo, quali le regole sociali, le pressioni ambientali e altri vincoli, come la compatibilità in termini economici che alcuni comportamenti hanno con altre attività dell’individuo. In un vecchio studio sui reduci del Vietnam, O’Brien e collaboratori (1980) affermavano che durante tale guerra molti soldati diventarono tossicomani, ma la maggior parte di loro interruppe l’uso di eroina al ritorno in patria. Quelli che continuarono, usarono eroina per un periodo relativamente breve. Il servizio militare in Vietnam era vissuto dai più come un periodo completamente disgiunto dal resto della loro vita. Queste osservazioni delineano uno scenario in cui assume risalto non tanto una psicopatologia, ma il fatto che tra individuo e un qualcosa di esterno che si immette nella sua esperienza di vita (sia una sostanza che un comportamento) si stabilisca un rapporto che diviene sempre più stretto. In un contesto come quello descritto precedentemente, in cui il primo incontro con gli oggetti di una possibile dipendenza può risentire, in buona parte, di aspetti generali legati alla fruibilità, più che a fattori individuali, diventa importante l’acquisizione di un modello relativo alla addiction. Spesso, invece, ci si preoccupa soprattutto di inquadrare questo tipo di paziente in preesistenti cornici teoriche o modelli

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metapsicologici, nel tentativo di definire, o forse ritrovare, aspetti di personalità o meccanismi riconducibili a schemi di riferimento già noti (Janiri & Frustaci, 2006). L’acquisizione di un modello della addiction può avere diverse implicazioni. Consente di non parlare di dipendenze intendendole quali quadri clinici definiti soprattutto da complicanze di vario livello, come ad esempio nella griglia diagnostica del DSM, ma di dipendenza, intesa come processo, a prescindere da quale ne siano l’oggetto e gli esiti (Badii, 2010). Dal punto di vista operativo, ne deriva la possibilità di definire in modo preciso l’area di intervento del terapeuta delle dipendenze, dandogli l’opportuno rilievo specialistico e consente, inoltre, l’impostazione di percorsi specifici, focalizzati sui fattori direttamente implicati nella dipendenza, che potrebbe contribuire al processo di razionalizzazione dell’intervento (Badii, 2013a). Tutto ciò stimola la necessità di approfondire i meccanismi in base ai quali si instaura la dipendenza. Lo sviluppo delle neuroscienze ha determinato un notevole salto di qualità nello studio di tali fenomeni, pur con il rischio di una visione riduzionistica del problema (Valleur & Matysiak, 2003), in una sorta di entusiasmo neopositivista. La salienza eccessiva alla base della spinta motivazionale ad un comportamento di dipendenza ha il substrato fisiologico nell’insorgenza di un’ipersensibilità dei circuiti cerebrali che mediano la funzione incentivo motivazionale (LeMoal & Koob, 2007; Koob & LeMoal, 2008; Koob, 2009), con il potenziale contributo dell’ippocampo, per quello che riguarda il pensiero e la memoria, dell’amigdala, per la regolazione emotiva (Brieter & Gasic, 2004) e dell’insula per i suoi collegamenti con talamo, sistema limbico e corteccia che integrano aspetti introcettivi e affettivi nel processo decisionale (Everitt & Robbins, 2005). A questo si unisce la partecipazione di una componente psicologica nell’attribuzione di sensazioni di desiderio o bisogno (Robinson &

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Berridge, 2003), e l’osservazione che il rilascio di dopamina nel nucleo accumbens potrebbe riflettere la significatività degli stimoli, la cui salienza non è legata solo agli effetti ricompensanti, ma in quanto attirano l’attenzione (Carter et al., 2010). Ritengo che a questo si vada a integrare il significato individuale che il soggetto conferisce all’oggetto della possibile dipendenza e all’atto legato al suo consumo. Interessante in questa prospettiva è il Modello Economico delle Dipendenze di Vuchinich e Heater (2003). Gli autori criticano l’idea che il soggetto dipendente non avrebbe più il controllo delle proprie azioni, almeno in relazione all’oggetto della dipendenza. Pertanto l’affermazione comune dei dipendenti di non voler più assumere certi comportamenti, ma di metterli tuttavia in atto, non sarebbe tanto in relazione a una compulsione, quanto a quella che gli autori definiscono “incompatibilità dinamica”. Vale a dire che in un certo momento il dipendente intende astenersi, ma al momento in cui si prefigura la possibilità di mettere in atto il comportamento, cambia idea. Questa teoria cerca di spiegare il comportamento del soggetto dipendente in base a meccanismi di scelta: egli ha buone ragioni per astenersi ma, evidentemente, migliori ragioni per continuare. Scopo di questo lavoro è formulare un’ipotesi su una di queste seconde ragioni. Da una revisione degli studi sul decision making (Slovic et al., 2007) emerge che l’aspetto emotivo sottostante a questo processo è collegato agli aspetti piacevoli legati alla decisione, i quali, ritengo, si colleghino con il risvolto emotivo del significato che il soggetto assegna all’oggetto della possibile dipendenza e al suo utilizzo, in relazione alla propria dinamica di base. Questo potrebbe spiegare il superamento della valutazione dei rischi legati all’atto, non riferito più unicamente alla compulsione, o alla perdita del controllo, ma ad una strenua difesa di un proprio equilibrio.

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Aspetti irrazionali del comportamento possono essere compresi se letti con questa prospettiva. Il comportamento di dipendenza in questa ottica, infatti, viene ad assumere un significato profondamente narcisistico, legato intimamente alla dinamica emotiva di base del soggetto e alla sua difesa. Il modello basato sul significato L’approccio che intendo proporre in questo lavoro è basato sull’esperienza clinica che ho maturato negli anni, lavorando con soggetti che presentano addiction sia da sostanze che da comportamenti e svolgendo attività di supervisione per operatori di comunità terapeutiche e per professionisti impegnati in questo settore. Il discorso si sposta nel profondo dell’individuo, in una sfera intima, molto riservata, collegata agli aspetti di base della personalità, non necessariamente patologica, che si interfacciano e si integrano con il significato che il soggetto attribuisce ai fattori esterni di cui parla Orford (2001). Mi riferisco a processi di pensiero fisiologicamente narcisistici, utilizzati per difendere il proprio senso di sé dall’esterno, una piccola acropoli inaccessibile agli estranei, dove il tempo si è fermato e dove vige, anche in età adulta, una grandiosità infantile. Qualcosa che richiama i rifugi della mente di cui parla Steiner (1996), non necessariamente declinato su aspetti patologici, ma attivato in relazione alle inevitabili ferite narcisistiche incontrate nello sviluppo. Esse vengono riattualizzate dai normali eventi della vita, con un’intensità proporzionale alla loro vicinanza al nucleo della struttura di personalità e all’emotività collegata, e che riguarda, in altri termini, l’investimento libidico del sé, cui fa riferimento Kohut (1982), specificando come non sia né patologico né nocivo.

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In questo spazio si va ad insinuare il rapporto con gli oggetti della dipendenza e con il loro utilizzo, collegandosi ai pensieri e alle modalità narcisistiche, finendo per diventare una nuova possibilità comportamentale ed emotiva a disposizione dell’individuo. È all’interno di tali pensieri e modalità che si definisce il significato attribuito individualmente all’oggetto di dipendenza; significato che sostiene e integra il generale meccanismo della ricompensa, declinandolo sull’individualità, facendo sì che il piacere legato all’atto finisca per fondersi con il pensiero narcisistico, in termini di ricompensa, con significati emotivi propri di ogni individuo assumendo anche uno spessore relazionale. Rigliano (1998), parlando delle regole emotive personali di attribuzione di senso al proprio sé, alla propria esistenza e al proprio mondo relazionale, le definisce metascritti, e sostiene che la dipendenza, o meglio il rapporto con l’oggetto della dipendenza, determini una ristrutturazione dei metascritti fondativi dell’identità personale. La mia idea è invece che essa si sposi con questi, rafforzandoli in una visione stereotipata di sé stessi, degli altri e del mondo, legata al sistema di riferimento emotivo e cognitivo individuale. Così la ricompensa può assumere i contorni di rivalsa, vendetta, allontanamento, creazione di uno spazio di soddisfazione quasi autistico, collegato ad una condizione personale, esistenziale e relazionale alla quale non si percepiscono opzioni alternative o, ancora, di adesione o presa di distanza da modelli di identificazione, e via dicendo, in base alla posizione esistenziale e alla collegata dinamica interiore di ogni individuo. In situazioni particolari, in cui il senso del sé è collegato ad aspetti intensamente autocritici, il significato può assumere valenze di conferma di tale meccanismo autosvalutante. L’utilizzo di tali modalità e il relativo investimento di energie in esse, finisce per cristallizzare le situazioni, contribuendo a bloccare un’elaborazione emotiva e la relativa acquisizione di nuove opzioni comportamentali ed emotive. Ciò supera gli effetti della sostanza o del comportamento di

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dipendenza, risultando strettamente correlato al significato che il soggetto attribuisce all’atto, inserendolo di fatto, nella funzione potenzialmente adattiva del narcisismo (Kohut, 1982), dopo un incontro e una scoperta casuale, favoriti dalla loro elevata probabilità. Dall’intensità e dalla profondità delle risposte narcisistiche, spesso collegate emotivamente al senso di autoconservazione, si può intuire l’intensità con cui questi aspetti si inseriscono nelle modalità comportamentali ed emotive di un individuo. Quest’attribuzione di significato potrebbe dare anche una spiegazione al policonsumo: potrebbe non essere ricercato l’effetto diretto della sostanza, quanto l’aspetto emotivo legato al significato attribuito all’atto. Analogo discorso per il passaggio da una sostanza a un’altra o da una sostanza a un comportamento, come spesso si osserva, ad esempio, nei soggetti in trattamento. Shaffer e collaboratori (2004), a questo proposito, sostengono che la addiction non è necessariamente legata ad una sostanza o ad un comportamento. Chiaramente, maggiore è il numero di opzioni comportamentali ed emotive che un soggetto ha a disposizione, minore è la probabilità che ricorra alla modalità compensatoria della dipendenza. In altre parole, la presenza di quadri psicopatologici, limitando notevolmente le capacità emotive e comportamentali, può facilitare l’instaurarsi di una dipendenza perché essa fornisce una risposta a situazioni che altrimenti sarebbero caratterizzate da impasse, in quanto il soggetto non è in grado di farvi fronte. Ma ogni individuo ha delle aree emotive e comportamentali rispetto alle quali, in base alle proprie esperienze di vita, a partire dallo sviluppo della personalità, le opzioni di risposta risultano limitate o difficoltose. A questo aspetto si può avere accesso più facilmente nelle situazioni di abuso, o nelle fasi iniziali della dipendenza. Con il procedere della dipendenza, infatti, progressivamente si pongono in primo piano le problematiche legate alla condizione di bisogno fisico di una sostanza, o all’abitudine, che porta all’impellenza

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un comportamento, nonché alle conseguenze sociali e relazionali che ciò comporta. Queste, stratificandosi sulla motivazione originale, finiscono per avere il sopravvento, determinando lo stile tipico della “addictive personality” (Nakken, 1988), che caratterizza indistintamente tutti i dipendenti. L’affermazione di tendenze neoliberiste, attribuendo agli individui la responsabilità delle proprie scelte, da un lato porta all’attenuazione della condanna moralistica riguardo l’uso di sostanze (soprattutto di quelle congruenti con l’attuale stile di vita) dall’altro porta all’emergere di problematiche legate al ricorso all’azione libera (Lavanco & Croce, 2008). Si può intuire il rilievo che assume la modalità narcisistica di cui sto parlando: una serie sempre più ampia di frustrazioni anche lievi, non trovando argine in costrutti più elevati, è riportata all’alveo dell’individualismo, all’interno della sfera intima e profonda, non tanto perché direttamente ad essa collegata, ma per assenza di altre rappresentazioni più evolute che potrebbero gestirle. Il craving viene così a essere integrato nella sua caratteristica psicologica soggettiva da questo ulteriore aspetto, che contribuisce a una sua individualizzazione. Nel pattern classico di avvicinamento alle sostanze o ai comportamenti di dipendenza l’importanza di questo meccanismo si integrava con un aspetto più generale, legato alla devianza. Questa definiva a priori l’uso di sostanze o i comportamenti di dipendenza, appiattendo gli aspetti individuali verso processi identificatori più grossolani. Due risposte A questo punto credo che ci siano gli elementi per ipotizzare le risposte ai due quesiti di Miller (2007) citati in precedenza. La prima risposta trae origine dal concetto di vulnerabilità dell’individuo alla addiction, definita come una combinazione di fattori

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individuali, sociali e ambientali. Tra gli aspetti individuali si evidenziano alterazioni neuropsicobiologiche, come alterazione dei sistemi di gratificazione, con contemporanea bassa efficacia del controllo prefrontale. I fattori sociali riguardano situazioni familiari e relazionali problematiche, mentre quelli ambientali sono riferiti alla diffusione dell’offerta e alla tolleranza e promozione nei suoi confronti (Serpelloni, 2013). La seconda risposta, riguardante il destino del rapporto tra un individuo e l’oggetto di una possibile dipendenza, può ricercarsi nel significato profondo che egli gli dà e nella funzione che esso viene ad assumere nella sua dinamica personale. Il significato che il malato sottoposto a una terapia antalgica dà alla morfina non determina dipendenza, così come quello che dà un sommelier alla degustazione del vino. Al contrario il significato che una mia anziana paziente dava a un antipiretico, l’aveva messa in una condizione che presentava i requisiti richiesti dal DSM-IV per la diagnosi di disturbo di dipendenza. Nell’ottica che sto proponendo, si può pertanto supporre che l’uso di eroina da parte dei reduci del Vietnam studiati da O’Brien (1980), avesse un significato che poi è stato superato al ritorno in patria. Ancora in relazione al secondo quesito, si può ritenere che coloro i quali escono autonomamente da una situazione di dipendenza potrebbero aver avuto modo di vivere esperienze che hanno consentito loro, anche inconsapevolmente, di svincolare l’atto dal significato che prima gli attribuivano, e che dava il senso alla loro dipendenza. È probabile che anche alcuni successi terapeutici siano legati a una ridefinizione di significato raggiunta indirettamente agendo su altri elementi. E ciò può aprire la via alla ricaduta, legata certamente agli aspetti biologici del craving, in termini di sensibilizzazione dei sistemi di ricompensa, ma anche collegata a un ritorno ai significati precedenti, abbandonati, ma non sostenuti da un’opportuna elaborazione.

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Il classico lavoro di Marlatt e Gordon (1985), che mette le ricadute in relazione, nell’ordine, a stati emotivi negativi, a pressione sociale e a conflitti interpersonali, in qualche modo richiama il significato attribuito all’oggetto di dipendenza. Nei momenti in cui le opzioni comportamentali possono risultare carenti, come di fronte alle situazioni che i due autori hanno individuato a rischio di ricaduta, riprende forza la possibilità della addiction come modalità di risposta (con ricomparsa dei significati collegati). Conclusioni Ritengo che il modello presentato possa avere una serie di ricadute, a partire da una lettura della addiction in termini di valenza positiva per il paziente, salvo limitate e particolari situazioni. Il collegamento della addiction al mantenimento di un’idea di sé, qualsiasi essa sia, può permettere di capire l’intensità con cui vengono attuati dai pazienti comportamenti per altri versi non spiegabili se non, spesso con forzature, ricorrendo a categorie psicopatologiche o a alterazioni del funzionamento encefalico. Ciò potrebbe consentire una maggior precisione diagnostica, anche differenziale, rispetto alla talora semplicistica affermazione “è una doppia diagnosi” (Badii, 2013). Ritengo, inoltre, che possa integrare una modalità di approccio per cui si dà risalto al quadro sintomatologico, nella sua evidente drammaticità, ma meno al processo di dipendenza in sé. Questo è un aspetto da tenere presente nell’ipotesi del progetto di trattamento per ogni paziente. Dal punto di vista terapeutico, questo modello, consentendo di recuperare il significato attribuito all’atto, può contribuire all’elaborazione del processo di addiction.

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Inoltre, consente al terapeuta un’alleanza, attraverso la messa in luce di una modalità intima, collegata ad aspetti cui il paziente comunemente accede in maniera non totalmente consapevole e con la sensazione finale di essere, in quei momenti, solo contro il mondo, in un misto di paura e grandiosità. Affrontare ciò con il terapeuta inizia a intaccare questa posizione di solitudine antagonista rispetto all’esterno, e permette di attuare un intervento psicoterapeutico mirato mentre, spesso, si finiscono per utilizzare costrutti stereotipati e riferiti ad altri quadri. Al di fuori di un contesto psicoterapico, ciò consente comunque di avere dei contenuti da utilizzare nel lavoro motivazionale, all’interno di un setting di counselling o educativo.

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RIASSUNTO La diffusione dell’uso di sostanze, ma anche dei comportamenti legati alla addiction, facilitata dal contesto sociale, culturale e dal mercato, rende possibile l’incontro tra molti individui e gli oggetti di dipendenza, superando il pattern di avvicinamento classico, legato a un preesistente disagio. Questo fa nascere una riflessione sul motivo che determina l’instaurarsi di un rapporto tra individuo e un oggetto o un comportamento, e la sua evoluzione in addiction. L’ipotesi presentata in questo lavoro è che i soggetti attribuiscano un significato intimo all’atto legato alla dipendenza, e che esso entri a far parte della dotazione emotiva e comportamentale degli individui, interagendo con modalità fisiologicamente narcisistiche. PAROLE CHIAVE Significato, protezione del sé, dipendenza.

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SUMMARY The spread of the use of substances, but also of behaviours, connected to addiction, made easier thanks to the social and cultural background and to the market, allows the encounter between a large number of individuals and addiction objects, overcoming the standard approach pattern, connected to a pre-existent embarrassment. This gives rise to a consideration about the reason inducing to the establishment of a relationship between somebody and an object or a behaviour, and its development to addiction. These writings show the assumption that the subjects give a deep-set meaning to the act connected to addiction and that it becomes part of the people’s emotional and behavioural equipment, interacting with physiologically narcissistic modalities. KEY WORDS Meaning, self safeguard, addiction.

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Appunti di viaggio

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Valeria Puppo, Monica Zambonini

, Miriam Cantatore

, Eugenia

Perelli, Antonietta Scibilia

, Panfilo Ciancaglini

, Marco Vaggi

Giovani al primo contatto con il Centro di Salute Mentale: valutazione dei bisogni e diversificazione delle risposte Introduzione Sulla base degli insegnamenti dell’Early Intervention in Psychosys (Cocchi et al., 2011) il CSM di Genova Voltri valuta la domanda degli utenti che vi si rivolgono per la prima volta in modo differenziato in base all’età, secondo tre fasce (meno di 25 anni, tra 25 e 65, oltre 65). Tre diversi psichiatri svolgono le visite di valutazione e attivano, al bisogno, altri professionisti per completare l’assessment. Lo psichiatra che accoglie richieste e segnalazioni riguardanti i minori di 25 anni appartiene al gruppo multiprofessionale dedicato agli interventi precoci, attivo nel servizio dal 2005 e che aveva, al 31/12/2013, 105 cartelle attive di pazienti in trattamento multicomponenziale. Scopo del lavoro è quello di descrivere la fase di valutazione e di analizzare i percorsi successivi raggruppandoli in base alla tipologia degli interventi svolti (Yung & McGorry, 2007).

Psichiatra, S.C. Salute Mentale Distretto 8, DSMeD, ASL 3 Genova. Psicologa, S.C. Salute Mentale Distretto 8, DSMeD, ASL 3 Genova. Tecnico della riabilitazione psichiatrica, S.C. Salute Mentale Distretto 8, DSMeD, ASL 3 Genova. Psichiatra, Gruppo Redancia Varazze; Associazione Italiana per l’Intervento Precoce nelle Psicosi (AIPP), Milano.

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La valutazione si compone di diverse tappe: analisi della domanda (diretta o indiretta), ricognizione sulla disponibilità del ragazzo a incontrare lo psichiatra o un altro operatore (con massima flessibilità per tempi e luoghi), superamento di eventuali ostacoli attraverso la collaborazione con i genitori e/o con il MMG, visita psichiatrica, assessment differenziato in base alla prima ipotesi diagnostica, proposta di percorso. Materiali e metodi Sono stati studiati 116 soggetti entrati per la prima volta in contatto con il servizio tra il 01/01/2012 e il 31/12/2013. Quattro sono stati visitati in pronto soccorso e avviati ai servizi della zona di residenza. Dei restanti 112 (54 maschi e 58 femmine), 16 erano minorenni al momento del contatto. Per quanto riguarda le modalità di invio, 25 (22%) hanno chiesto la visita di propria iniziativa, 25 (22%) su iniziativa dei genitori, 24 (21%) sono stati indirizzati dal MMG, 7 (6%) da specialisti privati, 6 (5%) dal distretto sociale, 5 (4%) dal SPDC, 4 (3%) dalla NPI, 4 (3%) dal pronto soccorso. I restanti 12 (13%) da 118, servizio disabili, tribunale, commissione patenti, servizio per i DCA, amici. Risultati L’analisi dei percorsi successivi alla fase di valutazione ci ha consentito di individuare 5 gruppi (McGorry et al., 2006).

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1) Presi in carico da équipe multi professionale: 30 casi (27%). Appartengono a questo gruppo gli esordi psicotici (14 casi) per i quali sono previsti molteplici e articolati interventi. In fase di assessment: visita psichiatrica, colloquio psicoeducazionale per paziente e genitori; somministrazione di strumenti di valutazione (HONOS, BPRS, CHECklist ERIraos, e, se occorre, valutazione del QI con WAIS-R e batteria di test cognitivi). In fase di trattamento: colloqui psichiatrici con eventuale somministrazione di psicofarmaci, psicoterapia a indirizzo cognitivo-comportamentale, supporto ai familiari, sostegno proattivo sul percorso scolastico o lavorativo. Nell’ottica della massima flessibilità e dell’obbiettivo di mantenere il contatto con il servizio, il paziente è preso in carico anche se rifiuta parte delle proposte di cura o se preferisce rivolgersi, per una parte degli interventi, a curanti esterni. Oltre agli esordi psicotici hanno ricevuto un trattamento integrato 15 pazienti con: sviluppo traumatico e sintomi psicotici transitori (psicoterapeuta e psichiatra) o con sintomi psicotici attenuati e familiarità per patologie psichiatriche gravi (psichiatra, psicoterapeuta e psicologo per trattamento familiare). Infine, un paziente inviato dal distretto sociale, già in comunità educativa al compimento della maggiore età, con un elevato grado di complessità sociale, giudiziaria e psicologica. 2) Assunti in trattamento: 20 casi (18%). Questo gruppo ha ricevuto un trattamento ambulatoriale per patologie non psicotiche (disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, ecc.) da parte di un solo professionista: psichiatra nel caso di farmacoterapia associata a colloqui psicoeducazionali o psicologo nel caso di psicoterapia.

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3) Vigilati in modo attivo: 11 casi (10%). Si tratta di un gruppo di persone che hanno necessitato di un breve periodo di trattamento da parte di psichiatra e/o psicologo per una patologia non psicotica, la cui sintomatologia si è risolta in tempi brevi (meno di due mesi). Ad esempio, depressione in gravidanza o disturbo post traumatico da stress. Tuttavia, in considerazione di fragilità accertate nel corso della cura vengono invitate a mantenere periodici contatti con il servizio. Se il contatto viene perso, si cerca di ricontattarli in modo attivo o, qualora sembri più opportuno, si cercano informazioni attendibili sul loro stato di salute (ad es. tramite familiari o il MMG). 4) Monitorati: 32 casi (28%). I casi di questo gruppo hanno caratteristiche piuttosto disomogenee, ma ricevono lo stesso tipo di risposta: un servizio di consulenza. Tra di essi, 20 presentavano una sintomatologia psichiatrica sottosoglia o estremamente lieve (depressione sottosoglia, disturbi d’ansia). Nel nostro servizio persone con problemi analoghi, se maggiori di 25 anni, vengono valutate e inviate al MMG per un trattamento o un monitoraggio (Ciancaglini et al., 2009). A quelli minori di 25 anni viene fornito un counselling che riguarda lo stile di vita, la cura di sé, la gestione dei sintomi sottosoglia, gli obbiettivi da raggiungere nel percorso di vita. Nella maggior parte dei casi si fanno 2 o 3 sedute, con la disponibilità a eventuali incontri successivi con gli utenti stessi o con coetanei e/o genitori. In 5 casi si è trattato di persone senza alcuna diagnosi psichiatrica che hanno richiesto valutazioni e chiarificazioni in merito al loro percorso di vita. In un caso si è trattato di una richiesta di consigli sul comportamento da tenere verso un genitore psicotico e di informazioni sul proprio profilo di rischio.

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Sei richieste hanno riguardato conflitti con i genitori. Questo tipo di intervento è finalizzato a fornire un’immagine “amichevole” e accessibile del servizio che lo renda concreto riferimento in caso di necessità, per il ragazzo, la sua famiglia e la rete sociale di appartenenza. 5) Inviati ad altre agenzie socio-sanitarie: 19 casi (17%). Si tratta di persone inviate al servizio per presa in carico e/o consulenza da altre agenzie socio-sanitarie e inviate, dopo la valutazione, ad altri servizi ritenuti competenti per l’intervento necessario (2 al distretto sociale, 1 al centro per il trattamento dei DCA, 4 al consultorio, 3 al servizio disabili, 3 al MMG, 6 alla medicina legale). L’invio è sempre guidato e protetto, previo accordo di accettazione con il servizio interessato. Discussione Il CSM di Genova Voltri ha attivato 12 anni fa una collaborazione strutturata e continuativa con la Medicina Generale. La percentuale (21%) di invii fatti direttamente dai MMG risulta simile a quella dei maggiori di 25 anni (22%). Va sottolineato che alcuni degli invii da parte dei genitori sono stati anch’essi sollecitati dagli stessi medici di famiglia. Questa percentuale è notevolmente aumentata nel corso del 2013 (sul solo 2012 era del 13%). Anche se questo risultato è significativo, resta la constatazione che sui giovani debbono essere implementati programmi speciali, poiché, queste fasce d’età non vengono in contatto col medico di famiglia. Il progetto “LA VELA” (Bini & Messina, 2009), proposto su una parte del territorio genovese,

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che prevede una visita di accoglienza al momento del passaggio dal pediatra al MMG, sembrerebbe rispondere a questa esigenza. Nel biennio considerato nessuno di questi nuovi utenti ha chiesto di essere visto a casa o, comunque, fuori dal servizio, contrariamente a quanto accaduto negli anni precedenti. L’ipotesi è che ciò sia il risultato del lavoro svolto nel corso degli ultimi anni con le agenzie invianti, che potrebbero aver depotenziato l’idea di un luogo stigmatizzante. I ragazzi sono stati assegnati a uno dei percorsi individuati, in base al gradiente di intervento ritenuto ottimale, e non in base alla gravità del disturbo. Gli esordi psicotici sono stati avviati tutti al primo percorso, ma negli altri casi, le diagnosi sono distribuite in tutti i gruppi e la valutazione ha considerato anche altre variabili quali: familiarità, stile di vita, comorbilità, deprivazione relazionale e sociale, istituzionalizzazione, traumi infantili, momento evolutivo, eventi stressanti. Un criterio, quindi, centrato sul livello di funzionamento globale, sul profilo di rischio e sulla valutazione della resilienza. Nel primo gruppo troviamo, ad esempio, una donna affetta da disturbo borderline di personalità, straniera, madre da pochi mesi, per la quale è stato necessario un intervento multiprofessionale su: paziente (farmacoterapia, psicoterapia individuale), coniuge, coppia, suoceri, operatori del consultorio. Soggetti con disturbo d’ansia sono presenti in percorsi diversi: nel secondo una paziente con familiarità per psicosi, molteplici lutti complicati di figure di accudimento e attualmente un’inversione di ruolo rispetto all’unica figura di riferimento sopravvissuta; nel terzo una paziente in gravidanza che ha necessitato di un intervento intensivo ma di breve durata; nel quarto persone che avevano supporto affettivo, rete sociale valida, buona resilienza, discreto funzionamento globale: per loro è stato sufficiente un intervento puntiforme. Questa impostazione è frutto di riflessioni svolte sia dal gruppo dedicato agli interventi precoci, sia dal servizio nel suo complesso, e riguardano tanto la clinica degli interventi precoci che l’organizzazione del CSM (De Girolamo, 2012). Ne segnaliamo alcune:

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- intervenendo precocemente, oltre a lavorare sui danni inferti dalla patologia, si possono rafforzare gli elementi di salute/resilienza che in questa fase sono ancora presenti (Van Os, 2012); ad esempio, operando con gli insegnanti dei pazienti e attivando direttamente un sostegno allo studio per rafforzare il “ruolo” di studente e impedire l’abbandono scolastico; oppure proponendo un’attività sportiva o attivandosi perché non ne venga abbandonata una già in corso, ecc.

- Rispetto agli anni precedenti stanno aumentando i giovani che contattano il servizio in una fase molto precoce di malattia, quando ancora i sintomi sono piuttosto vaghi e indifferenziati. I soggetti al primo contatto con il servizio, di età inferiore ai 25 anni, rappresentavano nel 2005 il 2% del totale mentre nel biennio 2012-2013 sono saliti al 10%. Ciò ci consente di studiare, imparare e riflettere sulle patologie nelle loro fasi iniziali, come mai era capitato. Iniziamo ad avere un’idea delle malattie psichiatriche diversa da prima, che ci pone molti interrogativi, alcuni dei quali non trovano risposte preconfezionate in letteratura. Ci troviamo sulla linea di confine di un territorio non ancora ben esplorato, posizione molto stimolante ma assai incerta. Avvertiamo l’esigenza di strumenti diagnostici e di cura più sofisticati, che non costituiscono l’attrezzatura routinaria di un servizio generalista (ad es. strumenti di valutazione, brain imaging) (Lasalvia & Tansella, 2012). Sentiamo come mai prima l’esigenza di collaborare con i ricercatori (Lawrie et al., 2012).

- Il contatto con alcuni utenti non affetti da patologia o con patologia sottosoglia, con gli insegnanti, con genitori che hanno altri figli oltre al nostro paziente, con il distretto sociale, ci consente di fare un lavoro di prevenzione, anche se su numeri molto esigui (non abbiamo ancora ritenuto di intraprendere azioni di prevenzione in modo più capillare e su scala maggiore) (Kieling et al., 2011).

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Conclusioni Lo studio della casistica sembrerebbe confermare il raggiungimento, almeno parziale, degli obiettivi che il servizio si era posto quando ha deciso di implementare una modalità di valutazione specifica per tutti i nuovi accessi di età inferiore ai 25 anni e di affidarla agli operatori del gruppo dedicato agli interventi precoci. Il razionale era, infatti, quello di agire in senso preventivo e curativo, utilizzando al meglio le risorse esistenti. Il rapporto tra trattati (44%), monitorati e vigilati (38%) e inviati ad altre agenzie (18%) appare equilibrato e rispondente allo scopo di offrire un servizio a molti e un trattamento specifico solo a chi ne ha bisogno, secondo l’ottica di salute pubblica che ha come suo target la popolazione e non solo i singoli utenti (Thornicroft & Tansella, 2009).

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RIASSUNTO Gli autori studiano i percorsi successivi alla visita di valutazione di 112 utenti, di età inferiore a 25 anni, al primo contatto con il CSM di Genova Voltri nel biennio 2012-2013. Vengono individuate 5 tipologie: presi in carico da équipe multiprofessionale, assunti in trattamento, vigilati in modo attivo, monitorati e inviati ad altre agenzie socio-sanitarie. L’assegnazione al percorso avviene dopo una procedura di valutazione specifica per questa fascia d’età, in base al gradiente di intervento ritenuto ottimale compatibilmente con le risorse a disposizione. Oltre al quadro clinico sono presi in considerazione: la familiarità, il profilo di rischio, il funzionamento globale, il livello di resilienza e la rete sociale di sostegno. Vengono poi focalizzati i due gruppi dei soggetti vigilati e monitorati che insieme costituiscono il 38% dei casi studiati. L’intervento svolto su questi soggetti si colloca su diversi livelli: cura, prevenzione e promozione, presso la comunità locale, dell’immagine di un servizio amichevole e di facile accesso. PAROLE CHIAVE Giovani, primo contatto, valutazione dei bisogni.

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SUMMARY The authors examine therapeutic pathways following an assessment visit of 112 outpatients, less than 25 years old, during biennium 2012-2013 at their first contact with a CSM (Mental Health Center) in Genova-Voltri. Five clinical profiles are identified: subjects treated by multiprofessional team, treated by individual therapists, actively monitored, evaluated and sent to other social and health agencies. The assignment to a definite therapeutic pathway is done after a specific evaluation for this age group and after a judgment about optimal intensity of intervention, according to the available resources. In addition to the clinical presentation, family history, risk profile, resilience and social supports are taken into account. Subjects actively monitored and evaluated are analyzed; these two groups together are 38% of total sample. Intervention for these subjects develops over different levels: prevention, treatment, promotion of a friendly and approachable mental health service in local community. KEY WORDS Young people, first contact, needs assessment.

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Quattro passi per strada

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Pasquale Pisseri

Curare giocando, giocare curando. La famiglia, i bambini, i terapeuti In questo volume la trattazione dello specifico tema “gioco” è introdotta da un ampio e ambizioso excursus, inserito nell’attuale tendenza a realizzare collegamenti fra il sapere psicologico e quello neurobiologico: in particolare, Lupoi trova un importante fondamento nell’opera di autori che, come Damasio o Edelman, hanno formulato teorie delle emozioni come fonte della consapevolezza cosciente. Il valore anche conoscitivo e rievocativo degli affetti è qualcosa che i poeti hanno sempre saputo, a partire da Dante: “Qual è colui che sognando vede che dopo il sogno la passione impressa rimane, e l’altro alla mente non riede...”. Ma: “La forma universal di questo nodo- credo ch’io vidi, perché più di largo – dicendo questo, mi sento ch’ io godo”: il coronamento della ricerca di senso, che è ricerca di se stesso – la sua visione “parvemi pinta della nostra effigie” – si realizza nel primato degli affetti. La conciliazione degli opposti e delle alternative può giungere a segnare per il poeta lo scacco del pensiero verbale, che è fatto di scansioni, alternative, delimitazioni, e qui cede il passo all’amore: “Nel suo profondo vidi che s’interna – legato con amore in un volume – ciò che nell’universo si squaderna: sostanze e accidenti e lor costume – quasi conflati insieme per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume”. Troviamo qui l’esperienza del confine tra sogno e realtà, tra parola e affetto, tra ricordo ed esperienza, tra coscienza e memoria. E capiamo che il conflitto fra la necessità pragmatica di definire e scandire per

Neuropsichiatra, già Primario SPDC di Savona, Consulente Scientifico del Gruppo “Redancia”.

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orientarci e l’aspirazione a una ricomposizione unitaria sorretta dagli affetti risale a ben prima che venisse reso più acuto ed evidente dalla rivoluzione scientifica. Questa, nella sua grande avventura che ha trasformato il nostro modo di vivere e la nostra visione del mondo, quando ha affrontato il tema degli affetti in rapporto alla conoscenza ha trovato notevoli difficoltà. Certo la psicoanalisi freudiana si è inoltrata su questa strada, ma non senza difficoltà: è stata ed è accusata di scarsa verificabilità, di scarsa falsificabilità, in una parola di scarsa scientificità, pur nella sua impostazione razionalistica quasi tardo-illuministica, che puntava a far chiarezza puntando a rivelare ed esprimere in parole verità nascoste, certo emotivamente cariche. Le passioni sono un campo inevitabilmente psicologico che poco si presta a un patteggiamento quantitativo e richiede un approccio qualitativo che trova poco spazio nella letteratura scientifica. Ancora più semplicemente si potrebbe dire che le passioni, le emozioni e gli impulsi gridano con assoluta chiarezza che il re è nudo, e che le passioni non sono scomponibili; e addirittura che dal loro punto di vista l’uomo è solo intero; si potrebbe capire perché la scienza “dura” ha cercato di tenerle fuori dalla porta il più possibile. Ora però sembra che qualcosa stia cambiando. Quando i neurobiologi dicono che la persistenza del ricordo è direttamente proporzionale alla risposta emotiva, e lo dicono sulla base di indagini biologiche ben fondate, affermano qualcosa di importante, anche se è noto da tempo che l’ippocampo è un crocevia importante per entrambi gli aspetti. È il concetto di valore che entra nel campo delle neuroscienze. Sul piano anatomico ipotizziamo che la memoria non è da nessuna parte, non esiste un hard disk che contiene i ricordi, e che quindi non esiste un deposito dove stanno gli “oggetti ricordi”. Damasio così si esprime: “Ma in definitiva cosa guida questa memoria? la risposta non può essere che i valori di base, cioè l’insieme delle preferenze di base, estrinseche alla regolazione biologica”. Qui il punto chiave è che il centro del funzionamento della memoria è fuori dal

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SNC, almeno in parte, nelle rappresentazioni somatiche. Per lui il valore buono/cattivo è l’elemento che primariamente guida la scelta dell’organismo in modo più o meno sofisticato, tra tutte le scelte possibili, che nel mondo sono infinite. Nel filone di Damasio ed Edelman si inserisce Liotti, citato testualmente da Lupoi e Coll.: la conoscenza della persona, intesa come soggetto “immerso in un mondo intersoggettivo, affiora alla coscienza soprattutto e primariamente come conoscenza delle emozioni”. Sempre Liotti propone una prospettiva cognitivo-evoluzionistica, secondo cui fra diversi sistemi motivazionali interpersonali a base innata vengono selezionati i più idonei allo sviluppo della cognitività. Ciò si collega al concetto di darwinismo neurale di Edelman. Lupoi prosegue nella sua ricerca di collegamenti, con riferimenti alla teoria dell’attaccamento e alla scoperta dei neuroni specchio. Quindi introduce al problema del gioco in psicoterapia e della psicoterapia di gioco. Viene in mente immediatamente Winnicott: “La psicoterapia ha luogo dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. Quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine il portare il paziente da uno stato in cui è incapace di giocare a uno stato in cui ne è capace”. Per Winnicott, nel gioco il bambino raccoglie oggetti dalla realtà esterna e li usa al servizio della propria realtà psichica, il sogno; solo nel gioco si può essere creativi. E con M. Klein il gioco diviene un ordinario strumento di lavoro: rappresenta un equivalente delle libere associazioni, di cui mantiene il valore simbolico, e la sua osservazione con le relative interpretazioni permettono l’impiego della psicoanalisi nel bambino. È suggestiva anche la somiglianza estrinseca di un gioco organizzato da bambini con una seduta psicoterapica: quando i bambini assegnano preliminarmente le parti usano abitualmente non il presente ma il passato o il futuro: “Io sarò il cowboy” o: “Io ero il cowboy”. Con questo sofisticato uso di tempi diversi dal presente si stabilisce un

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setting non spaziale ma simbolico: si crea, senza dar luogo a equivoci, uno spazio specifico per un’attività ben distinta dalla realtà quotidiana. Lupoi ci parla del gioco come strumento di un intervento di terapia familiare, parte di un approccio che privilegia il contatto emotivo piuttosto che l’interpretazione verbalizzata. Il gioco, che coinvolge attivamente anche il terapeuta, comporta un rischio calcolato, relativo a un venir meno delle gerarchie, a una forte espressione dell’emotività, a una condizione di imprevedibilità che costituisce un’ulteriore sfida per il terapeuta. Ma svolge più funzioni: ricategorizzante, catartica, simulativa, normativa. Esplicita l’ispirazione a Withaker: “Ogni cosa degna di esser conosciuta non può essere insegnata, va sperimentata”. Per Withaker, come ha rilevato Vella nella sua introduzione a Il gioco e l’assurdo, terapeuta e paziente sono inseriti in un sistema integrato di stimoli e reazioni. In esso, all’irrazionalità del paziente fa riscontro l’irrazionalità del terapeuta, unico strumento idoneo a sviluppare la libertà interiore di entrambi. Solo così l’esperienza è veramente vissuta; la comunicazione importante non è verbale, e quando lo è ricorre prevalentemente alla metafora. Di conseguenza, privilegiata l’area del gioco: i giocattoli possono funzionare da catalizzatori del dialogo. Withaker si richiama alla concezione winnicottiana della psicoterapia come gioco e a Bateson, che nella terapia di gioco ravvisa la possibilità di riflettere l’esperienza interpersonale sperimentando forti emozioni in un contesto che le rende tollerabili perché tanto “questo è un gioco”. Essa viene suggerita come modello per la terapia familiare, suggerendo: di lasciare in penombra le strutture teoriche; di introdurre elementi magici e rituali; di ricorrere alla metafora e a una fusione fra simbolico e reale. Addirittura Withaker non ritiene sempre appropriato l’uso della prescrizione tipico della terapia familiare classica, perché potrebbe tradursi in un intervento troppo meccanicamente normativo. Se torniamo al concetto di Damasio, cioè del valore rievocativo e conoscitivo delle sensazioni somatiche, dobbiamo poi riconoscere che il gioco, oltre ad attivare attitudini metaforiche e simboliche, comporta

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spesso un’attività somatica che è fonte di vivaci input arricchenti l’esperienza. Il volume è completato da un’interessante casistica che mostra in concreto le modalità operative e gli esiti terapeutici, con valore sia documentario che didattico. Se ne può concludere che il tipo di intervento proposto è degno di interesse non solo nella pratica clinica, ma anche come possibile stimolo a più approfondite riflessioni sui rapporti fra affetti e cognitività, fra mente e corpo, fra verbale e non verbale.

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Claudio Bocchi, Anna Codino

Il paziente che non sapeva cantare: racconto di una collaborazione “anomala” nella ricerca di voci da ascoltare. L’esperienza del gruppo canto nella Comunità Terapeutica Redancia1

La voce di Anna Durante la mia esperienza di operatrice di comunità ho imparato che per considerare se una persona sia adatta a lavorare in struttura con i nostri pazienti occorre verificare che possieda caratteristiche “umane” che non si imparano sui libri studiati all’università. Esiste qualcosa che è difficilmente esprimibile in parole e che fa sì che un operatore, al di là delle sue competenze professionali, possa essere in grado di capire, ascoltare, rassicurare, o semplicemente stare vicino a un paziente psichiatrico meglio di altri. L’équipe di Redancia 1 ha conosciuto Claudio quasi casualmente, cercando un musicista che animasse una festa. Eravamo, a dir la verità, un po’ stufi dei soliti cantanti che venivano a esibirsi e poco spazio lasciavano ai pazienti, forse impauriti dal non riuscire a controllarli e dal far diventare la loro performance perfetta un’accozzaglia di voci stonate. Con Claudio lo spazio per i pazienti c’era sempre e così gli incontri occasionali sono diventati un’attività strutturata a cadenza quindicinale: il gruppo canto.

Musicista, Insegnante di canto, Musicoterapeuta in formazione. Psicologa, Psicoterapeuta, Direttrice Comunità Terapeutica Redancia 1 (Sassello).

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Da alcuni anni collaboriamo e raccogliamo le sue osservazioni. Al gruppo canto si sono avvicinati pazienti che snobbavano o fuggivano dalle altre attività e in quel contesto, hanno iniziato, attraverso le canzoni, a raccontare la propria storia. Così la scelta di una canzone piuttosto che un’altra diventa uno strumento in più e fornisce materiale su quel paziente; il suo modo di utilizzare il respiro durante l’esibizione, le modalità per rapportarsi con il pubblico, il volume della voce sono tutti elementi che ormai abbiamo imparato a considerare. Negli anni quando parlavo con Claudio e mi metteva al corrente delle confidenze e dei racconti che i pazienti condividevano con lui non potevo fare a meno di pensare ai concetti più volte sentiti nelle supervisioni del Prof. Zapparoli e in particolare alla figura dell’operatore non qualificato, ossia l’operatore che pur competente, tolleri il fatto di essere inesperto e possa, quindi, essere ridefinito dal paziente in modo tale che la relazione acquisisca la caratteristica di “non pericolosa” (Zapparoli, 1987)1. Claudio diventa per i nostri pazienti una figura che non fa paura, con la quale rischiare, essere coraggiosi, esprimere la propria voce. Ho sempre pensato che noi operatori formati e muniti di ogni tipo di strumento professionale e Claudio, con la sua storia totalmente diversa dalla nostra, parlassimo, a tratti, la stessa lingua. Non a caso nel suo articolo Claudio esprime concetti che risuonano a me familiari. Ci racconta, quindi, che l’obbiettivo del suo lavoro è la “difficile e appassionante ricerca della voce”. Ma non è anche l’obbiettivo del nostro lavoro quello di ascoltare e sostenere la voce dei pazienti in modo tale che siano in grado, in maniera adeguata e coerente, di parlare un po’ più da soli con il mondo? E ancora: “quando un incontro riesce senti dentro come se il canto di una persona fosse il tuo”. Ma non è questo quello che noi “psi” chiamiamo empatia? Claudio aiuta i suoi allievi a trasformare la frustrazione legata alla

1 Zapparoli G.C. (1987): La psicosi e il segreto. Bollati Boringhieri, Torino.

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ricerca di un buon canto. Non lavoriamo spesso anche noi sulla gestione della frustrazione? “Mostrare che dentro ogni paziente esiste un tesoro da far emergere restituisce dignità”. Non abbiamo forse bisogno di ricordare ai nostri pazienti che sono degni di esistere? Nel proseguire la lettura trovo altre note che risuonano insieme alle mie e decido di commentare questo articolo per evidenziare come il nostro difficile lavoro possa essere arricchito da risorse diverse se osiamo uscire un po’ dai soliti schemi. Questo è un articolo a più voci: la mia, quella di Claudio e quella di chi, attraverso il canto, ha tante cose da raccontare. La voce di Claudio È solo salvando gli ultimi che potremo salvarci tutti Introduzione Lavoro come animatore musicale presso la Comunità Terapeutica Redancia 1 situata a Palo nel comune di Sassello (SV), oltre a esercitare la professione di musicista e insegnante di canto. Vengo anche chiamato ad animare feste con musica e karaoke, in occasione del Natale e delle vacanze estive, in altre strutture residenziali del Gruppo in Liguria e in Piemonte. Da tre anni, con cadenza quindicinale, mi reco in comunità per condurre un gruppo canoro con un numero di partecipanti variabile tra i cinque e i dieci. Ogni incontro, della durata di due ore circa, si svolge nella palestra della comunità, tra il caffè della mattina servito dal bar gestito dai pazienti alle 10,00 e il pranzo delle 12,30. In particolare lo scopo degli incontri presso Redancia 1 è lo studio del

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canto tramite esercizi e vocalizzi, oltre alla costruzione di un repertorio di canzoni personalizzato che viene presentato al pubblico in due “saggi” all’interno di feste natalizie e di inizio estate. Svolgendo questa attività ho conosciuto e frequentato per periodi più o meno lunghi molte persone interessanti, ospitate nella comunità, affette da diverse forme di disagio psichico. Molti sono giovani sotto ai trent’anni, altri hanno un’età indefinibile e hanno già passato molta parte della loro vita in questa e altre strutture. Tutti sono accomunati dall’essere ritenuti temporaneamente bisognosi di cure e inadatti a vivere nella “società civile”. Il pretesto del canto Il “pretesto” che mi ha portato tra queste persone è la mia professione di insegnante di canto, che consiste nel guidare gli aspiranti cantanti nella singolare, appassionante, ma allo stesso tempo faticosa e difficile ricerca della Voce. Quando questo incontro riesce nascono note che ti fanno improvvisamente incontrare la verità e la realtà profonda dell’altra persona, che senti dentro come se il suo canto fosse il tuo, come se entrambi foste nella pancia di un’unica mamma che è la vita. E tutto questo commuove. Il Canto di un’altra persona, quando è sincero, ti dice che non sei solo, che l’Altro può esserti così vicino da sentirlo fratello e sorella, non importa che sia maschio o femmina, bello o brutto, sano o matto. Ma come dicevo riuscire a esprimersi liberamente cantando è un obbiettivo bellissimo ma impegnativo che necessita di un lungo apprendistato. Una parte importante del mio lavoro, consiste nell’aiutare gli allievi a trasformare la frustrazione che inevitabilmente caratterizza questa ricerca, perché prima di loro (e non potrebbe essere altrimenti) ho

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superato quella stessa fatica e frustrazione, incoraggiando gli allievi e aiutandoli a percorrere la strada che porta alla liberazione divertendosi. Occorre costruire oltre all’abilità canora vera e propria, che molti principianti del resto possiedono in parte spontaneamente, una forma mentale positiva e curiosa, capace di superare i conflitti interni e le difficoltà di espressione, acquisendo così una maggiore conoscenza di sé stessi e del proprio strumento musicale. L’arte canora è caratterizzata dalla coincidenza tra esecutore e strumento. È il corpo umano, infatti, a cantare. La misteriosa, almeno per me, coesistenza di corpo e persona rende lo studio complesso e allo stesso tempo ricco di opportunità, di crescita e guarigione. Mostrare a un paziente che dentro di lui si nasconde un tesoro restituisce dignità e cambia il modo di considerarsi, da persona da “contenere”, perché non adeguata alla sana convivenza con se stessa e con gli altri, a persona da “scoprire” portatrice di unicità e di bellezza. Se la conoscenza è fonte di amore possiamo dire che il cantante, grazie a questa confidenza con il proprio corpo, a partire dal respiro fino ad arrivare alla postura e ai meccanismi fonatori, ha la possibilità di sviluppare una particolare cura per se stesso. Lo confesso, per me il canto è una questione d’amore. Trovo poco interessante, per quanto bravo sia, ascoltare un cantante che ha motivazioni diverse dalla gioia di vivere e dalla voglia di donare se stesso al pubblico. Il canto non può mentire, come la grafia è un’espressione profonda della persona e ne esprime inevitabilmente carattere e stato emotivo. Il canto ci esprime a partire dal respiro, attività ritmica fondamentale per la nostra vita, fonte inesauribile di pace, ispirazione ed energia positiva. Non mi dilungherò in questa sede sulle innumerevoli opportunità date dall’abitudine all’utilizzo della respirazione diaframmatica, necessaria a una buona emissione canora. Abbassare il livello dell’ansia, ossigenare meglio il sangue, aumentare la

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sonorità della parola e del canto, sono alcuni dei vantaggi regalati dagli esercizi e dai vocalizzi utilizzati nel training canoro. Sono quindi testimone di una grande opportunità, perché tutti possiamo cantare, farci “sentire” dagli altri, dal “mondo”. Chi trova un amico Il tesoro raccolto in questi anni è proprio questo: l’incontro con gli ospiti nelle comunità realizzato tramite le canzoni, espressione del loro stato emotivo presente, dei loro gusti, dei loro ricordi e della loro storia. Un incontro che mi ha regalato anche preziose confidenze, brandelli di storie, spesso drammatiche, narrati con particolare pudore, poco per volta. L’argomento del “prima della comunità” viene infatti trattato con leggerezza, come se tra passato e presente ci fosse una barriera che allontana i fatti narrati. A volte prima c’è stato il carcere, la morte di una persona cara, una difficile convivenza familiare. In effetti in comunità si vive molto il presente, tra un passato “sbagliato” e un futuro che pochi immaginano. I sogni sono semplici e sempre gli stessi: una casa propria, un lavoro, un compagno, una compagna. Cose, di questi tempi, difficili per tutti da trovare. Incontro e racconto, questo è la canzone. È come sedersi e ascoltare una storia, in cerchio intorno al fuoco simbolico dell’emozione, un’esperienza primordiale e profondamente evocativa. Così il narratore/cantante si trasfigura e tutto, nella libertà assoluta del recitare cantando che è la canzone, diventa possibile. A. per esempio, quando canta Milord sembra volteggiare in un valzer parigino d’altri tempi e ti dimentichi, ascoltandola, che le manca una

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gamba. N., in comunità dopo un crimine violento, canta Grazie dei fior con una voce che è tutta struggimento e dolcezza. A. canta Io vagabondo e ti dice con quel filo di voce conquistato a fatica e tenacemente voluto che i suoi sogni sono ancora vivi, anche se la sua vita si è arenata da tempo e non sembra mostrargli vie d’uscita. Come (e forse anche perché...) sono arrivato qui Era il Natale del 2007 quando un mio amico, che faceva la misteriosa, per me, professione del musicoterapeuta, mi chiese se volevo andare a fare una serata di karaoke, in occasione della festa natalizia della comunità per pazienti psichiatrici in cui lui lavorava da tempo. Mi disse anche che poteva essere in prospettiva un buon investimento lavorativo, perché se si fossero trovati bene con me mi avrebbero certamente richiamato periodicamente. Accettai di buon grado la proposta, ero agli inizi della professione di musicista e non rifiutavo tutto ciò che mi permettesse di lavorare con la musica. Fui contattato da una ragazza gentile che mi spiegò la lunga strada per arrivare alla località, abbastanza isolata, sulle alture di Albisola dove si trovava la comunità. La paga che mi fu proposta era buona, e io caricai la mia attrezzatura e partii. Non avevo particolari aspettative o timori. Il fatto di andare a lavorare in mezzo ai matti non mi preoccupava. Sicuramente la mia esperienza di volontariato in una casa famiglia per disabili mi aveva già abituato a rapportarmi con persone di particolare sensibilità. Ho capito poi con il tempo la ragione di questa mia tranquillità, facendo la dolorosa scoperta di essere cresciuto in una famiglia

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profondamente segnata dalla solitudine e dal disagio psichico. Ma questa è un’altra storia... Ed ecco che appena scritta, questa frase mi sembra profondamente sbagliata! Perché invece è proprio “questa” storia, la mia e della mia famiglia la ragione vera di questo fortunato incontro con “altri” matti, fatta questa volta da un Claudio “adulto”, “guarito” e gioioso e non più bambino inconsapevole e vittima sofferente. L’incontro con la Comunità Quel pomeriggio di dicembre del 2007 fui accolto dalla grande voglia, quasi urgenza, di esprimersi di questi ragazzi e ragazze, uomini e donne di tutte le età che, senza tanti preamboli, mi chiedevano, o addirittura mi pregavano di poter cantare le loro canzoni preferite, di Ramazzotti, di Vasco, di Marley... Sembrava che aspettassero da molto tempo questa occasione, come bottiglie naufragate nella comunità smaniavano di aprirsi e finalmente comunicare il loro messaggio. Come se la parola avesse perso la capacità di esprimerli efficacemente. Anche il luogo dove vivevano, giocoforza un po’ spartano, a me sembrò illuminato e arricchito da tutta quell’umanità vivace, variopinta e sgangherata. Io che ero preparato e avevo il mio repertorio riuscii a cantare solo una o due canzoni. Mi resi conto che non ero stato chiamato, come di solito mi capitava, per esibirmi, e sulle prime mi sentii spiazzato. A quel tempo non disponevo ancora di un computer portatile e il mio repertorio di basi era assai limitato. Cercai, comunque, di accontentare tutti e tutti cantarono e vennero applauditi dagli operatori e dai parenti venuti in visita. Dal canto mio non riuscivo a capire se stavo lavorando bene: non mi

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ero mai trovato in una situazione simile e non sapevo se era quello che mi veniva richiesto. Con mio grande piacere venni richiamato anche l’anno seguente e nel giro di pochi anni altre comunità del gruppo Redancia mi contattarono per animare feste natalizie ed estive. E in ogni luogo in cui andavo trovavo la stessa voglia di cantare, la stessa spontaneità... Era divertente arrivare in quei luoghi e fare amicizia con tante persone diverse. Avevo capito che il mio lavoro consisteva nel dare voce a queste persone, fornendo loro l’opportunità di esprimersi e testimoniando con il mio ascolto l’interesse del “mondo di fuori” per le loro storie. Il ruolo di “uomo delle canzoni” mi appassionò, così che ogni nuova telefonata dalle diverse comunità mi faceva presagire nuovi incontri e sicuro divertimento. Un giorno di tre anni fa durante una festa canora, decidemmo insieme alla Direttrice di organizzare in comunità un ciclo di lezioni di canto, per arricchire e consolidare la positiva esperienza. Il Gruppo Canto di Redancia 1 Durante i primi incontri ho cercato di trasmettere le fondamentali nozioni di una buona emissione canora, compito non facile dovendo operare con persone dalla limitata capacità di concentrazione e bisognose, a seconda dei casi, di essere sovrastimolate o di essere contenute. È stato un periodo interessante e utile per dare una corretta impostazione al lavoro e orientare le mie energie. Nel corso del tempo l’esigenza di una socializzazione piacevole e feconda ha preso il sopravvento sulla ricerca tecnica, rimasta come riferimento secondario, e la creazione di un gruppo di lavoro

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accogliente e stimolante è diventata l’esito felice di questo esperimento. Una delle esperienze più belle, vissute durante le mie “lezioni”, è stata trovarsi nell’atmosfera di simpatia, di incoraggiamento e di gratitudine che si crea “intorno” a chi canta. Gli applausi sono sempre moltissimi e spontanei, premiano oltre la bravura soprattutto l’impegno, che è sincero e visibile in tutti. Incontro dopo incontro ho lavorato per costruire un setting appropriato per le lezioni, educando il gruppo a un ascolto di qualità. La mia attività di musicista, svolta nelle condizioni e nei luoghi più disparati, mi ha insegnato, infatti, che una buona esibizione è figlia fondamentalmente di un ascolto condiviso tra esecutore e pubblico. Mentre l’abilità tecnica dell’esecutore è il supporto necessario a un’articolazione comprensibile e varia del messaggio musicale. La meravigliosa possibilità di empatia offerta dalla musica richiede, perciò, una disponibilità reciproca per realizzare l’incontro ludico/taumaturgico. Queste riflessioni ed esperienze mi hanno motivato a dare priorità alla creazione di un clima rilassato e non competitivo, in cui gli obbiettivi dichiarati sono la valorizzazione dell’espressione e la ricerca dell’originalità, mentre il miglioramento della prestazione rimane sullo sfondo come obiettivo più a lungo termine. Entrando nello specifico, ho notato che la “bravura” viene giustamente apprezzata, ma più come una particolare qualità di chi canta, un fatto squisitamente personale come il colore dei capelli e degli occhi, e che per questa ragione non genera invidia, ma stimola tutti a fare meglio, secondo le proprie possibilità. Dall’altro lato occorre dire che nessuno ha mai frequentato il gruppo considerandolo un semplice passatempo, ma tutti si sono sempre sentiti stimolati a impegnarsi, trovandosi davanti a un pubblico attento e curioso. Durante le lezioni anche creatività e spontaneità sono sempre state fortemente incoraggiate. Quante volte tornando a casa mi sono reso conto di essermi divertito moltissimo, perché durante una canzone

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particolarmente ritmata avevo ballato insieme ai miei amici, trascinandoli in danze buffe e liberatorie, condite da boccacce e da scherzi! Come si svolgono le lezioni Lo svolgimento delle lezioni normalmente prevede un momento di accoglienza, che si svolge nella palestra della comunità, dove allestisco la mia attrezzatura. Nel caso della comunità di Palo, che dispone di un bar autogestito, anche il momento conviviale del caffè è occasione di saluti e aggiornamenti sullo stato di salute degli ospiti e altre notizie inerenti la vita della comunità. Segue in palestra un momento di riscaldamento del respiro e della voce con osservazioni e riflessioni sul canto. Nel resto del tempo a disposizione, gli allievi presentano a turno le loro canzoni, cercando con il mio aiuto di stabilire la corretta tonalità in cui eseguire il brano cantandolo al meglio delle loro possibilità. Viste le particolari condizioni di questi allievi, uso spesso stratagemmi di “alleggerimento” come le danze e gli scherzi, evidenziando nel momento della valutazione tecnica, le qualità positive dell’esibizione e cercando insieme strategie di miglioramento. Ogni mia osservazione è sempre motivata nel rispetto del valore assoluto del momento espressivo, facendo appello alla sensibilità e all’intelligenza di ogni allievo per la ricerca di soluzioni personalizzate. Ho potuto rilevare anche un fatto interessante. Nel corso degli anni il “gruppo canto” è diventato un riferimento anche per gli ospiti che non lo frequentano o lo frequentano saltuariamente. L’attività canora è percepita come uno spazio di libera espressione, che rimane a disposizione anche di chi non è in condizione o non desidera

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usufruirne in prima persona. Conclusioni Nel corso del tempo sono cresciute l’abilità canora e la coesione del gruppo. Ho vissuto insieme a questi ragazzi le difficoltà di un lungo percorso che ci ha regalato molte soddisfazioni, la trepidazione prima dei saggi, gli applausi convinti del pubblico dei parenti e degli operatori, tanti momenti di commozione e di divertimento. Ma il regalo più grande è la consapevolezza di essere cresciuti insieme. La voce dei pazienti “Il canto mi fa sentire come se potessi manifestare quello che in tutta la mia vita ho vissuto. Un po’ come se volesse rappresentare il decorso della mia anima nel tempo” (R.). “Quando canto mi piace perché mi sembra di rivivere delle cose passate, vissute, o altre che vorrei che si avverassero” (E.). “Il canto... un paradiso bianco dove dormire, dove l’acuto e la passione fanno chiudere gli occhi. Io canto per qualcuno che mi ascolta...” (A). “Mentre canto è come se si creasse una realtà indotta nella quale sono talmente immerso, fatta di emozioni, visioni e ricordi che affiorano travolgenti. Ricordo le prime musicassette che ascoltavo, quelle di mio padre. Ricordo che lui suonava la chitarra e io mi divertivo ad accompagnarlo con i testi. Ciò mi faceva molto felice perché sentivo che il nostro legame era ancora più saldo” (F.). “Io quando canto sto bene, però a volte mi nascondo dietro le canzoni, nel senso buono” (T.).

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“Mi diverte moltissimo il canto perché mi trasmette felicità e sfogo” (E.). “Quando canto mi sento protagonista, libera, al di fuori dal mondo senza i suoi problemi. In ricordo di mia mamma ho cantato My way di Frank Sinatra e ho rivissuto quei momenti, quando eravamo sole e io mettevo su un 33 giri originale che mio padre aveva comprato in America. Poi ballavamo noi due da sole come vere protagoniste di un musical” (S.).

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Caro Lettore,

lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed agevolare il dialogo tra i professionisti delle scienze umane, con particolare riguardo all’area della Psichiatria. A tale proposito, la Segreteria Scientifica e di Redazione invita i Lettori ad inviare elaborati, loro o dei loro collaboratori, dai quali poter trarre nuovi spunti di dialogo e riflessione e che possano contribuire ad un arricchimento dei temi trattati. La pubblicazione di un articolo sulla rivista è, in ogni caso, rigorosamente subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale.

Note per gli Autori 1. Nel proporre il proprio scritto alla Segreteria Scientifica e di Redazione, l’Autore dovrà specificare che si tratta di un lavoro inedito e che intende pubblicarlo esclusivamente sulla rivista “Il Vaso di Pandora”.

2. Preferibilmente, l’elaborato proposto dovrà essere inviato tramite mail come file di WORD allegato agli indirizzi di posta elettronica: [email protected] e [email protected] Qualora ciò non fosse possibile, l’Autore potrà inviare il file WORD, salvato su CD, al seguente recapito: Segreteria de “Il Vaso di Pandora”, Via Montegrappa 43 – 17019 Varazze (SV), all’attenzione della Dott.ssa Federica Olivieri

3. Ogni testo dovrà essere accompagnato da:

Nome e Cognome per esteso degli Autori;

una breve nota biografica relativa ad ognuno (la Segreteria si fa carico di omettere questi dati dalle copie che invia ai referee per la valutazione);

almeno un indirizzo postale a cui i lettori possano inviare eventuali loro comunicazioni agli autori, un indirizzo di posta elettronica e un numero di telefono per eventuali comunicazioni della Segreteria;

titolo in italiano ed inglese;

alcune parole chiave in Italiano ed Inglese;

un breve riassunto in Italiano ed Inglese;

4. Qualora l’elaborato si sia ispirato ad una relazione presentata ad un Convegno (è questo il caso degli “estratti”), dovrà comunque essere accompagnato da un breve riassunto, sia in Italiano che in Inglese e dalle parole chiave.

5. Le note dovranno essere ridotte al minimo e numerate progressivamente.

6. Le citazioni, accuratamente controllate, dovranno apparire tra virgolette doppie (anche le virgolette usate per fini diversi dalla citazione dovranno essere doppie). I corsivi originali dovranno essere sottolineati (o meglio riportati in corsivo); i corsivi aggiunti dovranno essere indicati tra parentesi con: (corsivo aggiunto), oppure (sottolineatura mia). Ogni aggiunta dell’Autore dell’articolo dovrà essere posta in parentesi quadra; per esempio. “egli [S. Freud] intendeva”. Le omissioni nel testo verranno segnalate nel seguente modo: (…). Parole o frasi in lingua diversa dall’italiano saranno senza virgolette, ma sottolineate (o scritte in corsivo) e seguite, nel caso, dalla traduzione tra parentesi o in nota.

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7. I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente con il cognome dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle pagine: (Freud 1921, p. 315), ma (Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve: (Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se gli Autori sono due, appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due: (Racamier et al. 1981, p.184).

8. I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di articoli apparsi in riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento bibliografico nel testo dovrà corrispondere una voce nella bibliografia finale.

9. La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve contenere unicamente gli Autori citati nello scritto. La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello: - Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford. Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo sottolineato, editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche la citazione del titolo della traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome dell’Autore, figuri la data di uscita de l lavoro in originale. La data della traduzione va in fondo. Es.: - Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983. Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con ripetizione del nome dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica delle opere: - Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E., 19. - Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19. Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il primo seguito da: et al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore apparirà in primo luogo come Autore singolo. La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo questo modello: - Wittember I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al., Esplorazioni sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977. Oppure, quando l’Autore è lo stesso: - Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First Contributions to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952 La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo modello: - Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162-168.

10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su singolo foglio e numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in fogli singoli, dovranno essere numerate in cifre romane. Sia le tavole, sia l’iconografia dovranno essere richiamate nel testo ed essere accompagnate da una legenda esplicativa.

La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori piccole correzioni, qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i testi stessi allo stile della rivista. Ogni qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà immediata comunicazione.

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Comunità Terapeutica Riabilitativa per Minori La Tuga 3

Via Trieste 52 – 26010 Camisano (CR) Tel. 0373.778063 Fax. 0373.778064

e-mail: [email protected]

Direttore Sanitario: Dott. Alessandro Gavarini Direttore di Comunità: Dott.ssa Wyelchka Biffi Direttore Scientifico: Prof. Giovanni Giusto Per le psicoterapie e le farmacoterapie individuali: Dott. Luca Modolo Dott. Marco Pegoraro Per le psicoterapie di gruppo: Dott. Andrea Marchesini Dott.ssa Claudia Vinante La Comunità “La Tuga 3” è una struttura terapeutica per adolescenti che accoglie 20 ragazzi, suddivisi in due moduli da 10, in una cascina ristrutturata nel centro del paese di Camisano, alle porte di Crema. La struttura è autorizzata e accreditata con il Sistema Sanitario Regionale della Regione Lombardia. È una prerogativa fondamentale lavorare in stretta collaborazione con i servizi invianti (U.O.N.P.I.A., Servizi Sociali e Tutela Minori) in modo da permettere una continuità della cura e la realizzazione di un progetto individualizzato che coinvolga, oltre al minore stesso, anche le famiglie e la rete parentale e amicale presente sul territorio. Il coinvolgimento di tali figure è reso possibile attraverso un costante

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dialogo e confronto con i referenti territoriali: aggiornamento scritto settimanale garantito ai servizi invianti in merito alla quotidianità, possibilità di incontri di rete da effettuarsi bimestralmente presso la comunità o presso i servizi stessi e inoltro di relazioni trimestrali che permettano di evidenziare l’andamento clinico/educativo del progetto. La Tuga 3 è in grado di accogliere in modalità residenziale adolescenti di entrambi i sessi di età compresa tra i 14 e i 18 anni (i progetti terapeutici possono eventualmente essere estesi fino alla loro conclusione e comunque non oltre i 21 anni) affetti da gravi disturbi del comportamento, correlato da patologie psichiatriche. La comunità è essenzialmente un luogo di cura, contenitore coerente e solido con contenuti adeguati alla vita degli adolescenti. Facendo riferimento a un approccio psicodinamico integrato che vede al centro la relazione, la comunità trova il suo principale fattore terapeutico nel lavoro di gruppo. Le équipe (équipe Tuga 3A ed équipe Tuga 3B) sono costituite da professionisti multidisciplinari (Neuropsichiatri, Oss, Educatori Professionali, Terapisti della Riabilitazione Psichiatrica, Infermieri e Psicologi) che permettono una presa in carico a 360° del minore garantendo spazi individuali e gruppali di lavoro psicoterapeutico, riabilitativo ed educativo. Nonostante la professionalità di ciascuno e il continuo aggiornamento necessario per poter svolgere adeguatamente il proprio lavoro, dato il coinvolgimento emotivo che la relazione con il paziente comporta, mensilmente l’intera équipe ha la possibilità di confrontarsi con esperti del settore in momenti di supervisione, fondamentali per il confronto e la rilettura delle dinamiche. L’obiettivo generale è rappresentato dal fornire un miglioramento sia su un piano strettamente clinico, che su quello educativo e sociale. I ragazzi vengono pertanto coinvolti nella vita quotidiana della comunità (dall’organizzazione della giornata al regolamento, alla cura degli spazi individuali e di quelli comuni), attraverso un lavoro di assunzione di responsabilità verso sé stessi e verso il gruppo via via sempre più complesso. La possibilità di fare esperienza e di confrontarsi con contesti diversi tra loro permette al minore di sviluppare strumenti di

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interazione con l’altro funzionali alla propria vita futura. Il percorso terapeutico pertanto prevede anche la partecipazione ad attività esterne alla comunità (scuola, attività sportive, stage, tirocini, ecc.) finalizzate ad incrementare l’integrazione nel tessuto sociale e le abilità di ciascun ospite. Un iniziale periodo di osservazione al momento dell’ingresso, non solo delle aree patologiche ma anche delle abilità proprie di ciascun ragazzo, permette alla mini équipe referente per il progetto, sempre in costante confronto con l’équipe allargata, di lavorare con il minore attraverso l’individuazione di obiettivi mensili, settimanalmente verificati e condivisi con il paziente stesso. Gli interventi, siano essi individuali, di gruppo, educativi, terapeutici o ludici sono pensati e organizzati in funzione degli obiettivi prefissati, in modo da rendere coerente l’intervento di cura. Qualora il progetto lo preveda, sono garantiti colloqui con i familiari e incontri protetti alla presenza dei responsabili della comunità o dei componenti della mini équipe. La conclusione del progetto può condurre a un rientro presso la propria abitazione, a esperienze di semiautonomia oppure soluzioni di totale autonomia.

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Comunità Terapeutica Riabilitativa per Minori La Tuga 3

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