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Il servizio di polizia per una società multiculturale un manuale per la Polizia di Stato Ministero dell’Interno Dipartimento della Pubblica Sicurezza Direzione Centrale per gli Istituti di Istruzione

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Con il contributo del"programma di lotta contro la discriminzione"

della Comunità Europea.

Questo lavoro è stato ideato ad uso di quei funzionari, responsabili diUffici e Reparti della Polizia di Stato italiana, chiamati a formare i propri operato-ri ad agire come Servizio e non come Forza di Polizia, in un contesto sociale con-notato dalla diversità la quale impone l’acquisizione di un saper essere, primaancora che di un saper fare, improntato alla mediazione dei conflitti, alla nego-ziazione, alla capacità – come sottolinea il Codice Etico Europeo per i Servizi diPolizia - di comunicare, di comprendere le problematiche sociali, culturali e comu-nitarie, combattendo il razzismo e la xenofobia.

È il compimento di un lavoro avviato cinque anni fa, la storia di una col-laborazione tra Polizia di Stato e COSPE (Cooperazione per lo Sviluppo dei PaesiEmergenti), nata per contribuire a fare della Polizia italiana una polizia capace diadeguarsi alla società che cambia, in grado di offrire un servizio adatto ad unasocietà multietnica e multiculturale. Grazie al progetto europeo NAPAP (NGOsand the Police Against Prejudice), finanziato dalla Commissione Europea e dallePolizie di molti Paesi europei, nel 1997 (dichiarato “anno europeo contro il razzi-smo”), prese avvio la formazione a carattere sperimentale di operatori di Poliziadi Stato e di alcune Polizie Municipali. Da allora la collaborazione tra COSPE ePolizia di Stato si è consolidata dando vita, tra l’altro, alla formazione di forma-tori di polizia, alla traduzione della Carta di Rotterdam e, da ultimo, a questomanuale.

Anche questo manuale è prodotto nell’ambito di un progetto europeochiamato TRANSFER e ha perciò potuto godere del sostegno e del parere dei tantiamici e colleghi di altri Paesi dell’Unione, alcuni dei quali ormai ci accompagnanoin questo lavoro da anni - come la Scuola di Polizia di Catalogna e il Centre UNE-SCO de Catalunya; altri - come l’Accademia di Polizia di Stoccolma e MångfaldUtveckling, An Garda Siochana (Polizia d’Irlanda) e i numerosi rappresentanti diassociazioni irlandesi - conosciuti proprio grazie al progetto TRANSFER.

Il libro è il risultato degli sforzi di una squadra costituita da operatori dipolizia, persone a rischio di discriminazione per ragioni “razziali”, etniche e reli-giose e persone impegnate nella lotta alla discriminazione. E’ dunque il prodottoevidente della possibilità di dialogo e comprensione tra realtà diverse e di quellacomunicazione attraverso le diversità che è l’elemento centrale di tutto il testo.Pur nella coralità del lavoro, tutti gli esempi e le riflessioni sulla Polizia vista dallepersone di origine etnica minoritaria sono opera di Tso Chung-Kuen e DemirMustafa. I riferimenti legislativi, la terminologia specifica e la supervisione sonodel Vice Questore Aggiunto Claudia Di Persio che, assieme a Patrick Johnson, haprodotto il capitolo sulla discriminazione. Il capitolo sulla criminalizzazione deimigranti è da attribuire a Cristian Poletti. Marina Pirazzi ha scritto i capitoli 1, 3,4,i suggerimenti per la formazione e parte delle appendici. Giulio Soravia ha cura-to la scheda sull’Islam, Alberto Sermoneta, rabbino capo della comunità ebraica diBologna, la scheda sull’ebraismo, Giorgio Renato Franci la scheda sul buddhismoe padre Francesco Stano la scheda sul cristianesimo. Costantino Tessarin ha redat-to l’appendice sui diritti umani. La revisione del testo è di Marina Pirazzi. Il manua-le è stato letto dal comitato di consulenza costituito da Udo Enwereuzor, CosimoBraccesi, Rossella Selmini, Samanta Arsani, Ilaria Galletti, Benjamin Benali, GiulioSoravia, Mato Jora e da numerosi funzionari di polizia che, tutti, hanno saputooffrire spunti e suggerimenti importanti per il suo miglioramento.

Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi EmergentiONLUS

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Il servizio di poliziaper una società multiculturale

un manualeper la Poliziadi Stato

Ministero dell’InternoDipartimento della Pubblica SicurezzaDirezione Centrale per gli Istituti di Istruzione

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Il servizio di poliziaper una società multiculturale

Ministero dell’InternoDipartimento della Pubblica Sicurezza

Direzione Centrale per gli Istituti di Istruzione

a cura di Marina Pirazzi, Patrick Johnson (COSPE)e Claudia Di Persio (POLIZIA DI STATO)

un manuale per laPolizia di Stato

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copyright 2004: COSPE e Ministero dell’Interno

Pur nella coralità del lavoro, tutti gli esempi e le riflessioni sullaPolizia vista dalle persone di origine etnica minoritaria sono opera di TsoChung-Kuen e Demir Mustafa. I riferimenti legislativi, la terminologia spe-cifica e la supervisione sono del Vice Questore Aggiunto Claudia Di Persioche, assieme a Patrick Johnson, ha prodotto il capitolo sulla discriminazio-ne. Il capitolo sulla criminalizzazione dei migranti è da attribuire a CristianPoletti. Marina Pirazzi ha scritto i capitoli 1, 3,4, i suggerimenti per la for-mazione e parte delle appendici. Giulio Soravia ha curato la schedasull’Islam, Alberto Sermoneta, rabbino capo della comunità ebraica diBologna, la scheda sull’ebraismo, Giorgio Renato Franci la scheda sulbuddhismo e padre Francesco Stano la scheda sul cristianesimo. CostantinoTessarin ha redatto l’appendice sui diritti umani. La revisione del testo è diMarina Pirazzi. Il manuale è stato letto dal comitato di consulenza costi-tuito da Udo Enwereuzor, Cosimo Braccesi, Rossella Selmini, SamantaArsani, Ilaria Galletti, Benjamin Benali, Giulio Soravia, Mato Jora e danumerosi funzionari di polizia che, tutti, hanno saputo offrire spunti e sug-gerimenti importanti per il suo miglioramento.

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prefazione

Negli ultimi venti anni l’Italia è stata meta di crescenti flussi migrato-ri che ne hanno trasformato profondamente il tessuto sociale. Oggi, ilnostro è, senza ombra di dubbio, un Paese multietnico e pluriculturale,divenuto tale per effetto di un processo storico irreversibile che ha incon-trato non poche resistenze e perplessità.

La presenza di cittadini stranieri, depositari di culture e tradizionidiverse, porta, infatti, all’emergere di bisogni nuovi che un Servizio diPolizia non può omettere di considerare, ma che deve costantemente rile-vare e soddisfare secondo quello stile di prossimità alla comunità che necaratterizza la mission.

La Polizia è chiamata così, più incisivamente che nel passato, a riaf-fermare con forza la propria cultura organizzativa, calibrata sulla prote-zione dei diritti di tutti gli individui e sulla promozione del dialogo cheevita il conflitto, dell’integrazione che combatte la discriminazione, delpluralismo che valorizza le differenze e del confronto che promuove ilrispetto delle identità reciproche.

Alla Polizia spetta il compito di creare un clima organizzativo coe-rente con i valori di cui è interprete, soprattutto perché essa rappresenta,per il mondo degli stranieri immigrati, la manifestazione più immediata ediretta dello Stato, il volto che il Paese decide di mostrare, lo stile di atteg-giamento con cui viene, di fatto, a porsi rispetto alle comunità etnicheminoritarie presenti sul proprio territorio e a tutti i gruppi comunqueminori a rischio di discriminazione. Ecco perché il manuale prevede un capi-tolo dedicato a raccogliere impressioni e percezioni che dei Servizi diPolizia hanno alcuni rappresentanti di gruppi etnici minoritari a rischio didiscriminazione - segnatamente la comunità cinese e quella rom - per dare

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voce anche allo straniero in ordine a come vive o a come vorrebbe vivere ilrapporto con gli uomini e le donne della Polizia di Stato. Al tempo stesso illavoro cerca di far luce su quel sistema di stereotipi e condizionamenti pre-senti, il più delle volte inconsapevolmente, nell’operatore di Polizia chia-mato ad interagire con l’immigrato e che, talvolta, si traducono in com-portamenti sommari e scarsamente professionali, che pesano fortementesulla costruzione del rapporto e sull’opinione che della Polizia hanno igruppi etnici minoritari come “forza” piuttosto che come “servizio”.

Il target cui il manuale è indirizzato è, d’altro canto, quello dei re-sponsabili di Uffici, Reparti, Commissariati, Scuole, di tutti coloro, cioè, cuiè affidato il compito di formare, aggiornare, guidare l’agire quotidiano deipropri uomini, orientandolo al rispetto della diversità e alla promozionedell’integrazione, per una Polizia sempre più efficiente, efficace, comuni-cativa, orecchio e voce della comunità di cui costituisce il riflesso più diret-to.

Giugno 2004

Pref. Luciano RosiniDirettore Centrale per gli Istituti di Istruzione

Dipartimento della Pubblica Sicurezza

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introduzione 5

capitolo 1 – Agire contro la discriminazione, un impegno per la polizia 15

1 – Perché la discriminazione riguarda la polizia 15

1.1 – Applicare le leggi 19

2 – Perché la discriminazione riguarda chi hala responsabilità di unità operative 22

capitolo 2 – Criminalità e criminalizzazione dei migranti 27

1 – Troppe facili certezze 27

2 – Il dibattito criminologico in Italia 28

2.1 – La vittimizzazione degli immigrati 37

3 – Alcune perplessità sull’uso delle statistiche ufficiali 39

4 – Per una polizia al servizio – anche – del cittadino immigrato 43

5 – L’azione della polizia 46

capitolo 3 – Le relazioni tra polizia, comunità e personedi origine etnica minoritaria 57

1 – Conoscenza e generalizzazioni 57

2 – Le culture 59

2.1 – Che cosa si intende per cultura 60

indice

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–- indice8

3 – L’invenzione dell’etnia 693.1 - Pregiudizio e stereotipo 70

4 – Il ruolo dei mass-media nella diffusionedello stereotipo anti-immigrato 77

5 – L’azione della polizia 825.1 – I gruppi di contatto 86

capitolo 4 – La comunicazione interculturale 91

1 – Comunicare 91

2 – La comunicazione tra persone che non appartengonoalla stessa cultura 93

3 – L’azione della polizia 1023.1 - Tutti hanno diritto a capire e a farsi capire 104

capitolo 5 – Discriminazione e razzismo 107

1 – Il primo passo: indagare in modo efficace 107

2 – Come agisce la discriminazione 108

3 – L’azione della polizia 1213.1 – Definizioni 1223.2 – Fattori particolari 1243.3 – Implicazioni per chi è responsabile di personale sottordinato 1263.4 – Il sostegno alla vittima 1273.5 – Che fare 1333.6 – Standard minimi per la registrazione di episodi razziali 135

capitolo 6 - L’opinione di persone di origine etnica minoritaria 139

1 – Un capitolo speciale 139

2 – L’Italia in movimento 140

3 – Come vorremmo che fosse l’operatore di polizia 1413.1 – Diritti e doveri 1423.2 – Prospettive per la partecipazione delle comunità minoritarie

al corpo di polizia italiano 142

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indice -– 9

4 – Approfondimento sulle comunità rom in Italia 144

5 – Approfondimento sulle comunità cinesi in Italia 148

appendici 151

A – Società pluraliste e multiculturali: come ci siamo arrivati 151

B – I diritti umani 159

C – La comunicazione interculturale 178

D – Lista delle organizzazioni italiane impegnatenella lotta alla discriminazione razziale, etnica e religiosa 198

E – Bibliografia consigliata per l’approfondimento 202

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Nel trattare della diversità presente nella società attuale che la poli-zia deve servire, questo testo prende in considerazione la dimensione reli-giosa, accanto a quella supposta “razziale” ed etnica, poiché oggi essesono più che mai legate. Ne sono segnali chiari la crescente islamofobia(specie dopo i fatti dell’11 settembre 2001); la generalizzazione e la confu-sione tra le attribuzioni di “arabo” e di “musulmano”; il crescente movi-mento di difesa dell’identità religiosa di un Paese – in Italia e altrove - qua-lificata come l’identità “culturale” di tutti gli abitanti di quel Paese; ilcumulo di discriminazioni per motivi religiosi, per appartenenza razziale edetnica – oltre che di genere – che dà vita a forme multiple di discrimina-zione particolarmente difficili da identificare e combattere; la storica discri-minazione nei confronti degli ebrei, in cui appartenenza razziale e confes-sione religiosa sono spesso confuse nella mente di molti. Questi terminisono inoltre inestricabilmente legati anche nella riflessione teorica (incampo antropologico, sociologico e di psicologia sociale e culturale), rifles-sione per la quale cultura e appartenenza etnica e religiosa - accanto adaltri fattori economici, sociali e politici – sono considerati elementi costitu-tivi dell’identità collettiva, non sempre definibili con confini precisi.L’esserci limitati a questi tre campi di discriminazione non esclude tuttavial’applicazione ad altri campi di molti dei principi e delle azioni qui sugge-riti; riferimenti alle discriminazioni per l’orientamento sessuale, di generee legati alla disabilità sono infatti frequenti nel testo e coerenti con l’“approccio orizzontale” alla discriminazione adottato dalla CommissioneEuropea per lottare contro tutte le forme di discriminazione. Nella scrittu-ra del manuale ci siamo ispirati alla strategia di mainstreaming, in base allaquale s’intende integrare la lotta al razzismo e alla discriminazione nell’in-sieme dei settori di attività di polizia, inserendo quindi il tema trattato nel

introduzione

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–- introduzione12

normale lavoro, dalla definizione di policy all’adozione di procedure e pra-tiche.

Il libro è stato concepito come un manuale indirizzato a tutti i fun-zionari di polizia che abbiano responsabilità organizzative, di guida e divalutazione del lavoro di altri operatori di polizia e a coloro che, in qual-che modo e a diverso titolo, sovrintendono alla formazione e all’aggiorna-mento del personale. Ancorché l’intento sia stato quello di redigere untesto di utilità pratica, lo stesso non ha la pretesa di essere una raccolta di“ricette” quanto, piuttosto, lo spunto per un’analisi che lascia molte que-stioni aperte al giudizio professionale dell’operatore responsabile, nelrispetto della libertà di pensiero e di atteggiamento e nel riconoscimentodelle difficoltà personali che possono rendere delicati alcuni compiti parti-colari dell’operatore di polizia. Sebbene il testo, come si è detto, ambiscaad essere uno strumento pragmatico, utile alla pianificazione e all’impo-stazione di modalità di lavoro spesso totalmente nuove per gli operatori dipolizia, non abbiamo voluto rinunciare a proporre quegli elementi di rifles-sione teorica che ci sembravano imprescindibili per la stessa comprensionedi quanto suggerito nei paragrafi “L’azione della polizia”. Siamo inoltreconvinti che gli elementi teorico-concettuali contenuti nel testo possanoessere utili a chi ha compiti di formazione ed aggiornamento del persona-le. Per questa ragione abbiamo anche inserito dei “suggerimenti per la for-mazione”, presentati in forma di esercitazione per il lettore ma che posso-no essere facilmente adattati e usati per la formazione e l’aggiornamentoin aula degli operatori di polizia. Le sezioni “Per chi vuole approfondire”propongono un arricchimento degli argomenti trattati in modo essenzialenel corpo del testo. Chi si sentisse poi particolarmente coinvolto da temiche noi crediamo appassionanti, potrà attingere maggiori conoscenze con-sultando la ricca bibliografia suggerita in appendice.

In appendice al manuale è riportato un glossario al quale i lettori ele lettrici possono fare riferimento durante la lettura e in momenti diversi.Sentiamo tuttavia la necessità di precisare in apertura alcune annotazionisulla terminologia usata. Abbiamo usato la parola discriminazione perlopiùassociata agli aggettivi razziale e religiosa. Tuttavia, anche quando il ter-mine è usato isolatamente (salvo che non sia diversamente espresso) esso

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introduzione -– 13

si riferisce, per evitare ripetizioni faticose alla lettura, alla discriminazionein campo razziale, etnico e religioso. Abbiamo adottato la terminologiagruppo etnico minoritario (o di origine etnica minoritaria) perché essarispecchia la terminologia ufficiale degli accordi europei e delle leggi ita-liane in materia. Sappiamo però che essa può essere contestata e che i cam-biamenti nella composizione e nei rapporti della società italiana ed euro-pea richiedono una costante attenzione alle parole che definiscono le iden-tità. Come si spiega nel testo, particolarmente problematico è l’uso di ter-mini come cultura, etnia e soprattutto etnia minoritaria o minoranza etni-ca: essi sono spesso usati nel tentativo di identificare la base della discrimi-nazione razziale, soprattutto nella forma del razzismo culturale, ma glistessi termini possono anche risultare offensivi per alcuni. La scelta di que-sta terminologia è stata dunque fatta nella consapevolezza dei suoi stessilimiti e nella speranza che un giorno ogni gruppo avrà la possibilità, e ilpotere sociale, di autodefinirsi e che tali definizioni saranno precise, adat-te ai contesti in cui saranno usate ed accettabili da parte degli altri gruppi.Purtroppo non esistono termini privi di associazioni o significati di valore eperfino la parola “razza”, anche se ormai inaccettabile come divisionescientificamente fondata degli esseri umani, continua ad avere un signifi-cato sociale che si manifesta nel razzismo che rimane da combattere. Puòsembrare strano che organizzazioni diverse, comprese le istituzioni inter-nazionali, soprannazionali e nazionali usino la parola “razza”, oggi che glistessi biologi hanno riconosciuto come la divisione degli esseri umani in“razze” non abbia fondamento scientifico. Infatti, gli esseri umani potreb-bero più utilmente essere classificati, da un punto di vista biologico, secon-do mille altri elementi che attraversano tutti i gruppi cosiddetti “razziali”.D’altra parte, l’eventuale uso della parola “razza” in questo testo nonimplica l’accettazione di alcuna teoria fondata sull’esistenza di “razzeumane”. Molti gruppi sociali, per parte loro, rivendicano la propria diffe-renza: i neri, ad esempio, e ciò non attiene unicamente al colore della pelle(così come le donne l’hanno rivendicata nei confronti degli uomini), chia-mando in causa esperienze storiche, socio-culturali, economiche, ecc., piut-tosto che l’idea della divisibilità dei gruppi umani in “razze” distinte. Usareil termine “razziale” offre la possibilità di dare un nome, e quindi ricono-scere, la discriminazione che viene operata da alcuni soggetti e da orga-nizzazioni nei confronti di altri, proprio sulla base dell’appartenenza raz-ziale, e ci permette quindi di identificare il razzismo.

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agire controla discriminazione,un impegnoper la polizia1

1 - Perché la discriminazione riguarda la polizia

Con questo manuale vogliamo proporre suggerimenti e consigli aifunzionari di polizia per facilitare la rilevazione dei casi di discriminazionesu base razziale, etnica e religiosa; per mettere in atto programmi preven-tivi di azioni discriminatorie e per gestire operativamente segnalazioni dicasi e/o incidenti che potrebbero avere una matrice razzista, o comunquediscriminatoria, per questioni di appartenenza etnica, nazionale o religiosa.

La discriminazione di cui si tratta in questo manuale concerne il trat-tare certe persone in modo diverso (di solito peggiore) dalle altre sulla basedi valori che sono associati a certe differenze fra gruppi o categorie di per-sone. Di solito le differenze fra persone e gruppi non creano problemi e lamaggior parte delle differenze tra le persone, o gruppi di persone, sonoconsiderate insignificanti. Al di là delle preferenze personali o delle neces-sità di tipo medico, normalmente non diamo molta importanza, per esem-pio, al colore degli occhi o al gruppo sanguigno di una persona; sicura-mente queste preferenze non costituiscono dei criteri sulla base dei qualidecidere se offrirle un lavoro o negarlo. Tuttavia, nella storia recente e pas-sata, molte persone, popoli, nazioni e gruppi politici hanno attribuitoimportanza e un valore preciso al colore della pelle, all’orientamento ses-suale, alla religione, alla cultura o nazionalità, al sesso. È proprio quandoattribuiamo un valore alla differenza, e di conseguenza agiamo in modoiniquo a causa di essa, che la discriminazione entra in gioco.

Ogni società, in ogni tempo, è composta da una moltitudine di per-sone diverse, con infinite differenze tra di loro. È però innegabile che lasocietà italiana del ventunesimo secolo presenta una gamma di diversità

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differente da quella nella quale la maggior parte di voi é cresciuta o hacominciato a lavorare in polizia e in questi ultimi anni la polizia italiana,come le altre polizie europee, è chiamata spesso ad occuparsi del proble-ma della discriminazione e della sfida posta da società sempre più multi-culturali e multietniche.

La società nella quale prestate il vostro servizio di polizia è dunqueoggi “diversa” in un modo differente da quella del passato e anche la diver-sità all’interno del personale di polizia sta lentamente cambiando per riflet-tere la nuova diversità della società attuale. I cambiamenti nella composi-zione della società italiana moderna sono stati accompagnati dai cambia-menti nei valori associati a certe differenze. Per molti anni la relazione tra ilneonato e la madre è stata considerata di primaria importanza, era quindilogico che alle madri fosse concesso il diritto speciale di assentarsi dal lavorodopo il parto per un periodo sufficiente alla buona relazione con il neonato.Oggi la relazione tra il neonato e il padre è stata riconsiderata e anche aipadri è concesso di assentarsi dal lavoro dopo la nascita del figlio. Il tabù del-l’omosessualità, per quanto ancora vivo, ha subito profonde incrinature ed èpossibile oggi per le persone omosessuali ritrovarsi pubblicamente, lottareper i propri diritti e accedere a cariche pubbliche. Inoltre gli atteggiamentinei confronti dei disabili stanno lentamente cambiando, muovendo dallapietà al riconoscimento che differenze intellettuali e fisiche possono noncostituire un handicap. I confini tra il mondo delle donne e quello degliuomini sono oggi meno rigidi e le donne hanno accesso a professioni primaesercitate solo da uomini, ad esempio nell’esercito e in polizia. Infine, l’at-teggiamento di superiorità intellettuale e morale dei bianchi cristiani sopraogni altro gruppo è oggi considerato sempre meno accettabile.

La discriminazione, come detto, avviene quando individui, o gruppidi persone, o categorie di persone, sono trattate in modo diverso perché,nell’opinione di chi agisce, esse appartengono ad un gruppo, o categoria,le cui differenze sono giudicate in qualche modo negativamente e non cisono giustificazioni per tale giudizio e per un diverso trattamento.Naturalmente capita spesso a tutti noi di trattare gruppi diversi di personein modi diversi perché abbiamo una buona ragione per farlo: quandoentriamo in una moschea ci togliamo le scarpe perché il gruppo di personeper le quali la moschea è un luogo di preghiera ha una sensibilità partico-lare verso la profanazione di un posto considerato sacro se ci si camminacon le scarpe; in polizia si fa in modo, quando è possibile, che sia un ope-

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perché la discriminazione riguarda la polizia -– 17

ratore di polizia donna ad occuparsi di una donna che denuncia di esserestata vittima di violenza sessuale, perché la delicatezza del caso rendereb-be difficile per la vittima raccontare l’accaduto ad un uomo. In questi casic’è un buon motivo per assicurare che il servizio offerto alla vittima sia ade-guato alla situazione e alla specificità dell’incidente e appare evidente chenon si tratta di un trattamento “di favore”: si ha infatti un caso di discri-minazione quando non c’è una buona ragione per trattare un gruppo peg-gio di un altro. Per esempio, se un operatore di polizia rifiutasse di crede-re ciò che dicono gli uomini con gli occhi blu e perciò li interrogasse più afondo degli uomini con gli occhi castani, allora egli o ella starebbe discri-minando perché essere interrogati più spesso e più a lungo è spiacevole efastidioso e, soprattutto, non c’è nessuna ragione per credere che gli uomi-ni con gli occhi castani siano più onesti di quelli con gli occhi blu.

La discriminazione da parte di operatori di polizia, così come la discri-minazione nel più ampio contesto della società, è inaccettabile, oltre adessere non professionale e incostituzionale, eppure gli operatori di polizia,così come gli operatori di altre istituzioni e organizzazioni, corrono il peri-colo di discriminare, a meno di non mantenere il passo con i cambiamentidella società, assicurando che i valori in essa presenti siano coerenti conquelli del servizio di polizia e della società che servono.

Oltre agli aspetti deontologici, i casi di discriminazione (o “di odio”come sono chiamati ormai in diversi contesti europei ed extraeuropei)1 por-tano in sé fattori particolari che li rendono degni di una speciale attenzio-ne. Le discriminazioni colpiscono le vittime non per quello che esse sonocome individui ma per il gruppo o categoria alla quale appartengono o allaquale qualcuno pensa che esse appartengano. La vittima in quanto indivi-duo non c’entra – o c’entra poco - e l’effetto su di essa può essere moltopesante. Cerchiamo di chiarire con un esempio: pensate a voi stessi quan-do, per l’ennesima volta, ad una festa, una persona con cui chiacchierere-ste volentieri vi respinge solo perché le dite che fate il poliziotto. C’è benpoco che potete fare a questo punto, potreste forse tentare di spiegare chequello del poliziotto è un mestiere onorevole, che richiede speciali qualitàe che offre un servizio fondamentale alla società ma non è garantito chepossiate diventare amici se la categoria professionale alla quale apparte-nete provoca nell’altro una reazione negativa; pensate a quante volteavete taciuto la vostra professione per non incorrere in queste imbaraz-zanti e umilianti situazioni. Nel caso fosse il colore della vostra pelle o il

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vostro accento straniero a infastidire l’altro, sarebbe quasi impossibilerimediare: voi potete fingere di fare un altro lavoro ma un africano nonpuò negare di essere nero e non può nemmeno tenere un corso di anti-raz-zismo nel bel mezzo della festa nella speranza di guadagnarsi un nuovoamico. Se dall’esempio di discriminazione diretta come quello appena illu-strato passiamo a contesti istituzionali, come è il caso della selezione perun posto di lavoro o per una promozione, è ben possibile che non avretemai un contatto diretto con la persona che prende la decisione discrimina-toria e non potreste mai sapere su che base è stata presa la decisione.

Infine, gli episodi di razzismo possono avere un effetto negativo suuna comunità intera: le vittime possono essere tante e l’effetto può costi-tuire un danno per tutta la società. Un gruppo di persone considerato pre-giudizialmente inaffidabile, per esempio, può avere più difficoltà nel tro-vare impieghi con alte responsabilità e alti stipendi e tutto il gruppo puòrisultare segregato in una povertà inaccettabile. A quel punto il gruppopuò ribellarsi, come i neri in Sud Africa o i cattolici in Irlanda del Nord. Ilgruppo può avere ragione da vendere sull’inaccettabilità della situazionema resta il fatto che le conseguenze per la società possono essere anni ditensione e di violenza e a poco servirà ribadire che la violenza o il terrori-smo sono anch’essi inaccettabili, l’esperienza storica dimostra che essi sonopurtroppo fenomeni reali ed inevitabili quando si producono nel tempogravi ingiustizie. C’è anche un alto rischio che gli incidenti di razzismo siripetano e che ogni incidente costituisca parte di un problema più ampio,a volte organizzato, per esempio nella creazione di ronde anti-immigrati.

Ricapitolando, la discriminazione e la lotta alla discriminazione sonodunque fatti che riguardano la polizia perché:

• la discriminazione è vietata dalla legge e la polizia deve applicarele leggi;

• la discriminazione è in primo luogo un’offesa alle vittime ma èanche un costo per la società. L’emarginazione ingiustificata diqualsiasi gruppo o categoria di cittadini porta alla disgregazionedella società e impedisce la collaborazione che è necessaria perqualsiasi gruppo di persone che voglia vivere insieme (o sia costret-to a farlo) in sicurezza e tranquillità;

• l’odio razziale, etnico e religioso non colpisce solo le vittime perquello che esse sono ma per ciò che esse rappresentano.

Il primo punto merita un’attenzione particolare.

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1.1 - Applicare le leggi

I compiti che la Polizia di Stato è chiamata a svolgere al servizio delleistituzioni democratiche e dei cittadini sono:

> tutelare l’esercizio delle libertà e dei diritti di ogni individuo;> vigilare sull’osservanza delle leggi, dei regolamenti e dei provvedi-

menti della pubblica autorità;> tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica;> provvedere alla prevenzione e alla repressione dei reati;> prestare soccorso in caso di calamità ed infortuni;> offrire ogni altra forma di assistenza e di servizio al pubblico.Uno dei compiti primari della polizia è dunque quello di fare rispet-

tare la legge. L’impegno della polizia nella lotta alla discriminazione, inparticolare su base razziale, etnica, religiosa e nazionale di cui ci occupia-mo in questo manuale, è un impegno affermato in primo luogo nellaCostituzione italiana all’articolo 3:

______“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senzadistinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condi-zioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordineeconomico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione ditutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Nel 1975, con la Legge n. 645, l’Italia ratifica la Convenzione di NewYork sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale la cuidefinizione è stata successivamente ripresa in modo letterale dall’Art. 43del Decreto Legislativo n. 286/1998 (Testo Unico sull’immigrazione, notocome Legge Turco-Napolitano) che, proprio agli articoli 43 e 44, regola lamateria degli atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali oreligiosi, e delle relative azioni civili e penali:

______“1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che,direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione opreferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica,le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere odi compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di

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parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico,sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la perso-na incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica neces-sità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cit-tadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di apparte-nente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiu-stamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire benio servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione distraniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o naziona-lità”; (in appendice il testo completo degli Artt. citati).

Tali articoli sono rimasti in vigore anche dopo le modifiche apportateal Testo Unico dalla più recente legge sull’immigrazione (n. 189/2002),detta Legge Bossi-Fini. Benché la definizione di “atto discriminatorio” con-tenuta nell’Art. 43 abbia specifico rilievo con riguardo all’azione civile, lacircolare ministeriale 11/98 del 20 marzo 1998 precisa che “gli stessi fattipotrebbero anche rilevare ai fini disciplinari e, nei casi più gravi, assumerevalenza penale o giustificare l’adozione di una misura di prevenzione”.

Infine, per completare il panorama delle leggi attualmente in vigorein Italia, il Decreto-Legge 26.4.1993, n. 122, convertito con modificazioninella Legge n. 205 del 1993, tratta delle misure urgenti in materia didiscriminazione razziale etnica e religiosa (in appendice il testo degli arti-coli rilevanti).

Anche l’Unione Europea ha legiferato in materia e di particolare rilie-vo e importanza sono le due Direttive emanate dal Consiglio dell’UnioneEuropea n. 43/2000 e n. 78/2000 (in appendice il testo completo delle diret-tive europee) che sono state recepite nell’ordinamento italiano rispettiva-mente dal Decreto Legislativo 9 luglio 2003 n. 2152 e dal DecretoLegislativo 9 luglio 2003 n. 2163. In particolare, la Direttiva n. 43 fissa glistandard minimi ai quali ogni Stato dell’Unione deve adeguarsi in materiadi “parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza edall’origine etnica”. I decreti attuativi del governo italiano purtroppohanno recepito le Direttive in un’accezione limitativa in punti diversi esostanziali. Ad esempio, il rifiuto di procedere ad una revisione della legi-slazione vigente alla luce della Direttiva stessa e all’integrazione dellenuove disposizioni con la legislazione preesistente in materia di discrimi-nazioni. In alcune parti, il Decreto Legislativo ha operato delle modifichesostanziali, come nel caso degli “organismi per la promozione della parità

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di trattamento” trasformati in “Ufficio per il contrasto delle discriminazio-ni” che da organo indipendente diventa organismo sotto il controllogovernativo. All’Art. 3 scompaiono gli organismi di diritto pubblico comecampo di applicazione del decreto e l’Art. 4, al terzo comma, sostituiscel’“inversione dell’onere della prova” con un riferimento all’Art. 2729 delCodice Civile, rendendo assai meno efficace la norma. È da notare chequanto previsto dalla Direttiva, in relazione all’inversione dell’onere dellaprova, è già presente nell’ordinamento giuridico italiano e sarebbe statosufficiente riprodurre parzialmente l’Art. 4 comma 5 della Legge 125/91.

Va rilevato che entra nell’ordinamento italiano il concetto di “mole-stia” (Art. 2, comma 3) ovvero “quei comportamenti indesiderati, posti inessere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto diviolare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile,degradante, umiliante e offensivo”. Il termine si riferisce al concetto rico-nosciuto perlopiù in Italia oggi con il termine mobbing.

Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità di tratta-mento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (G.U. n. L180 del 19/07/2000pag.0022-0026)

(omissis)

Articolo 2Nozione di discriminazione

(omissis)

2. Ai fini del paragrafo 1:a) sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trat-tata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemen-te neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di par-ticolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano ogget-tivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appro-priati e necessari;

(omissis)

dirett iva 2000/43/CE del consigl io dell’Unione Europea , 29 giugno 2000

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Il Consiglio d’Europa ha infine emanato la Raccomandazione (Rec2001/10) “Codice etico europeo per la polizia” che in diversi punti (18, 25,43, 44, 49) richiama i doveri della polizia sul rispetto dei diritti fondamen-tali della persona e dell’agire equo e professionale e ai punti 25 e 40 pre-cisa che il reclutamento del personale di polizia deve avvenire con criterinon discriminatori e tali da includere tutti i gruppi presenti nella società eche l’agire di polizia deve essere sempre ispirato all’imparzialità e alla nondiscriminazione.

2 – Perché la discriminazione riguardachi ha la responsabilità di unità operative

Ci sono anche motivi individuali per i quali, come operatori di polizia,dovreste occuparvi della discriminazione, sia nel servizio offerto al pubbli-co, sia nell’organizzazione interna e nella gestione.

In primo luogo, oltre a dovere rispondere dei vostri stessi atti, sieteanche responsabili per gli atti o le omissioni del personale che gestite,tanto da dover rispondere legalmente dei comportamenti sbagliati deglioperatori per i quali avete responsabilità, se non potete dimostrare di averfatto tutto quanto necessario per prevenirli4. È dunque vostro obbligo assi-curarvi che il personale adempia ai propri compiti nel miglior modo possi-bile.

In secondo luogo, in quanto manager di risorse umane, avete ancheil compito di valorizzare i diversi elementi presenti nella forza lavoro (visi-bili e non visibili, come età, sesso, origine etnica e “razziale”, disabilità,personalità, stile di lavoro, ecc.) in modo da creare un ambiente produtti-vo nel quale ognuno si senta apprezzato, dove i talenti di ognuno sianovalorizzati e che possa favorire il raggiungimento dello scopo di erogare unservizio di polizia equo e libero da discriminazioni. La questione delladiscriminazione all’interno della Polizia a questo riguardo è soggettaanch’essa alla Legge n. 286/1998 Art. 44 (Azione civile contro la discrimina-zione, Legge 6 marzo 1998, n. 40, art. 42):

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______“9. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del comporta-mento discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o linguistico, dellaprovenienza geografica, della confessione religiosa o della cittadinanza può dedur-re elementi di fatto anche a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi con-tributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progres-sione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata. Il giudice valuta i fattidedotti nei limiti di cui all’articolo 2729, primo comma, del codice civile.”

Si nota qui l’importanza della raccolta di dati e dell’analisi statistica(anche per evitare azioni civili contro la polizia), tema che riapparirà quan-do tratteremo la questione del monitoraggio dei dati relativi all’apparte-nenza etnica, religiosa e di genere.

In terzo luogo, proprio per quanto detto sopra, l’esempio che voi,personalmente, in quanto operatori di polizia sapete offrire alla vostrasquadra e le relazioni che tutto il gruppo sa instaurare con la comunità cheserve sono di vitale importanza.

Lo scopo di questo manuale è dunque di offrire alcuni degli strumenticoncettuali e pratici per raggiungere il fine di un servizio di polizia equo elibero da discriminazioni, pur nei limiti posti dagli strumenti stessi e dalpotere decisionale degli operatori di polizia ai quali questo testo è indiriz-zato. Siamo infatti consapevoli che, senza un cambiamento profondo ditutta la struttura e della cultura che complessivamente l’organizzazioneesprime, i cambiamenti possibili rischiano di essere limitati sia territorial-mente che nella loro portata e nella loro qualità. In particolare due cose cisembrano fondamentali perché il processo possa considerarsi completo edefficace:

> l’impegno che i dirigenti della polizia devono assumere pubblica-mente nei confronti della lotta alla discriminazione e per un servi-zio di polizia che sia equo e non discriminatorio, oltre che profes-sionalmente valido;

> la raccolta di informazioni sull’appartenenza etnica e religiosa del-le persone che vengono in contatto con la polizia.

Riguardo al primo punto, benché l’impegno della polizia per il rispet-to dei diritti umani sia implicito nella deontologia dell’operatore, è impor-tante che venga costantemente riaffermato il principio che la polizia agi-sce a difesa di tutte le persone che si trovano sul proprio territorio, sì da

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permettere anche alle persone di origine etnica minoritaria, di religione ecredo minoritari, così come a tutti gli uomini e a tutte le donne, di ricono-scersi in quelle comunità i cui diritti la polizia ha il compito di difendere.

Riguardo la raccolta di informazioni sull’appartenenza etnica dellepersone che sono controllate e perquisite per strada o arrestate, autori evittime di omicidi o di violenze e molestie, esso è uno strumento fonda-mentale di gestione:

> per garantire che il servizio erogato sia equo nei confronti di tuttele componenti della comunità locale e per essere in grado di dimo-strarlo;

> per rendere possibili ulteriori attività di monitoraggio da parte dialtri uffici e istituzioni, come per esempio la magistratura;

> per attivare programmi di prevenzione.Fino a quando non saranno disponibili questi dati, ogni analisi sulla

situazione in Italia rispetto alle discriminazioni e ai casi di razzismo saràapprossimativa, imprecisa e unicamente affidata alle conclusioni che si pos-sono trarre dai dati sistematicamente raccolti nel resto dell’Europa.

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Considerate le generalizzate resistenze, da parte delle vittime del reato, adenunciare gli sfruttatori alle pubbliche autorità, per una serie complessa dimotivazioni tra cui il timore di ritorsioni sui familiari nei Paesi d’origine e valutatainvece la maggiore disponibilità a raccontarsi che le immigrate straniere, oggettodi tratta, mostravano alle associazioni di volontariato che le avvicinavano sustrada, l’Ufficio Immigrazione della Questura di Napoli ha utilizzato, negli annidal 2001 al 2003, per riuscire a penetrare nella realtà criminale, sottraendo nelcontempo le vittime da ulteriore sfruttamento, le modalità di applicazionedell’Art.18 (D. Lgs. 25 luglio 1998, n.286) che consente alle associazioni iscrittenell’apposito registro nazionale la prerogativa di presentare la proposta per ilrilascio del permesso di soggiorno.

Grazie all’accordo tra l’Ufficio e le associazioni operanti nel territorio, ragazzestraniere che avevano dimostrato la volontà di sottrarsi alla condizione diassoggettamento e violenza ed erano state accolte presso centri di primaaccoglienza venivano condotte presso l’Ufficio Immigrazione. Nell’Ufficio siprocedeva ad integrare le informazioni fornite dal responsabile dell’associazioneche accompagnava la ragazza, con un colloquio diretto preceduto da vari incontriinformali volti a mettere a proprio agio la vittima e guadagnarne la fiducia.

La realizzazione di questa attività era affidata a due appartenenti al ruolo degliispettori individuati, all’interno della Sezione Accertamenti di Polizia Giudiziaria,come persone in possesso della professionalità e sensibilità necessarie, incaricateuna di seguire le vittime provenienti dai Paesi balcanici e l’altra quelleprovenienti dalla Nigeria.

Grazie alle informazioni dettagliate ed approfondite fornite dalle ragazze nelcorso di svariati colloqui, è stato possibile avviare indagini che hanno portato allaricostruzione dell’attività di organizzazioni criminali dedite alla tratta e allosfruttamento della prostituzione e all’individuazione dei responsabili.

Naturalmente, verificata la fondatezza delle situazioni riferite e descritte, venivarilasciato alle ragazze il permesso di soggiorno per sei mesi, rinnovabili allecondizioni previste dalla legge.

I risultati sono stati apprezzabili perché le vittime, superato il timore iniziale,inserite nel mondo lavorativo e sottratte quindi alla condizione diassoggettamento psicologico in cui vivevano, hanno sostenuto le dichiarazioniiniziali anche innanzi all’A.G., divenendo a tutti gli effetti testi del procedimentopenale a carico dei responsabili del turpe traffico.

ESEMPIO

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note

1 Questo testo non adotta l’espressione “reati d’odio” (hate crimes) per due motivi: a) l’e-spressione sembra fare riferimento all’intenzionalità dell’azione mentre la discriminazio-ne e gli atti di razzismo prescindono dall’intenzione dell’autore e si misurano solo sullabase degli effetti che producono; b) la parola “reato” sembra limitare l’azione della poli-zia alle azioni sanzionate per legge mentre sappiamo che la polizia ha anche ampi com-piti di prevenzione.

2 “Attuazione della Direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indi-pendentemente dalla razza e dall’origine etnica” (GU n.186 del 12.8.2003), testo in vigo-re dal 27.8.2003.

3 “ Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupa-zione e di condizioni di lavoro” (GU n.187 del 13.8.2003), testo in vigore dal 28.8.2003.

4 LA DICHIARAZIONE IN MATERIA DI POLIZIA adottata dall’Assemblea Parlamentare delConsiglio d’Europa con Risoluzione 690 del 1979. Artt. 9,10,11 dei Principi Etici

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criminalitàe criminalizzazionedei migranti2

1 - Troppe facili certezze

Parlare di criminalità e di criminalizzazione degli immigrati in unmanuale di questo tipo può apparire fuorviante o perlomeno bizzarro. Nelnostro Paese, infatti, esiste una tendenza abbastanza consolidata, sia nel-l’opinione pubblica che negli operatori che si occupano quotidianamentedi questioni inerenti alla sicurezza pubblica, a dare per scontato che unafetta consistente della popolazione immigrata presente sul nostro territo-rio (soprattutto di quella “clandestina” e proveniente da Paesi extracomu-nitari) sia dedita ad attività criminali, e che quindi l’immigrazione, accantoad alcuni indubbi vantaggi per l’economia nazionale, presenti aspetti diforte problematicità per la sicurezza del nostro Paese. Si tratta di opinioniormai talmente radicate nell’immaginario collettivo da sembrare quasidelle verità assolute e dimostrate, anche perché ricevono un’autorevoleconferma dalle statistiche ufficiali che si occupano di tracciare il quadrodella criminalità nazionale. Esse vengono ogni giorno riaffermate dai tito-li strillati a voce e su carta dai nostri mezzi di comunicazione e trovano ecoanche nella politica, nei discorsi dei nostri colleghi di lavoro e della gentecomune. Non sono più semplici convinzioni ma veri e propri assiomi o, peradottare un linguaggio di tipo sociologico, sensi comuni.

In questo capitolo noi ci proponiamo proprio lo scopo di istillarequalche dubbio nei nostri lettori a proposito di tali “verità assolute”: cipermettiamo, cioè, di mettere in discussione il senso comune imperantenell’opinione pubblica che vede l’immigrato come elemento tendenzial-mente propenso a delinquere più della popolazione locale. Infatti, vedre-mo che queste convinzioni, dipinte come certezze acquisite nella nostra

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attuale società, sono in realtà da parecchio tempo oggetto di aspre e viva-ci discussioni all’interno del dibattito criminologico che si è sviluppato dap-prima nel continente americano (meta di considerevoli flussi di manodo-pera immigrata già dalla fine del XIX secolo) e poi in territorio europeo apartire dal secondo dopoguerra. Inoltre tali opinioni di senso comune pog-giano, in realtà, su basi assai meno solide e dimostrate di quanto non sipossa pensare in un primo momento, di fronte alla quasi totale unanimitàdi consensi che si può rinvenire sui principali mezzi di informazione. Infine– cosa ancor più importante per un manuale destinato ad operatori e for-matori della Polizia di Stato – riteniamo che acquisire un maggiore spiritocritico nei confronti di queste “facili certezze” sulla criminalità degli immi-grati può giocare un ruolo di fondamentale importanza per evitare che taliconvinzioni, associate a talune pratiche routinarie nella concreta gestionedell’ordine pubblico ed incentivate dalle sempre più pressanti richieste disicurezza a cui gli operatori di polizia sono sottoposti, possano involonta-riamente condurre ad una complessiva criminalizzazione degli immigratida parte delle forze dell’ordine stesse.

2 - Il dibattito criminologico in Italia

In Italia il tema della devianza degli stranieri e del loro contributo allacriminalità nazionale è emerso in tutta la sua rilevanza solo a partire daiprimi anni Novanta. Da quando, cioè, l’Italia ha scoperto di essere non piùterra di emigranti in cerca di fortuna all’estero o nelle regioni settentrio-nali, ma meta di individui in cerca di lavoro e di ospitalità; da quando,quindi, l’immigrazione è diventata, anche in Italia, un fenomeno struttura-le e non transitorio.

In realtà la questione della criminalità degli immigrati è un problemaannoso, vecchio almeno quanto l’immigrazione stessa. Come constatavaGeorg Simmel, nel suo famoso saggio Excursus sullo straniero (1908), “lostraniero è l’ospite che forse resterà”: una persona diversa da noi, che peròpuò desiderare di inserirsi stabilmente nella nostra società e diventarecome noi, avanzando (in maniera più o meno esplicita) pretese di ricono-scimento, di uguaglianza, di giustizia. Per queste ragioni, è facile capirecome l’ostilità dei gruppi autoctoni nei confronti degli stranieri e la preoc-

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criminalità e criminalizzazione dei migranti -– 29

cupazione che la loro presenza costituisca una minaccia per gli equilibri egli stili di vita consolidati siano sentimenti storicamente presenti all’inter-no di svariate formazioni sociali di ogni epoca e latitudine, al di là del fattoche tali sentimenti siano effettivamente fondati o meno, e possano essereamplificati da altri fattori presenti nelle diverse società.

Quindi, risulta altrettanto comprensibile che fin dagli albori dellescienze sociali – e di quelle criminologiche in particolare – l’attenzionedegli studiosi dei Paesi maggiormente interessati dal fenomeno si sia sof-fermata sul comportamento degli stranieri all’interno delle rispettivesocietà di approdo, ed abbia tentato di trovare risposte certe e scientifica-mente dimostrabili a due fondamentali interrogativi: se, come paventatodagli atteggiamenti xenofobi di volta in volta presenti nell’opinione pub-blica, gli stranieri delinquessero effettivamente di più rispetto alla popola-zione locale e, quindi, costituissero una potenziale minaccia per gli equili-bri di quella società; e, in caso di risposta affermativa al primo quesito, perquali ragioni ciò avvenisse.

In questo capitolo cercheremo di illustrare, in maniera sintetica maesauriente, l’attuale dibattito criminologico sviluppatosi in Italia intorno atale questione, grazie ad alcune fondamentali ricerche realizzate nell’ulti-mo decennio. Nella sezione Per chi vuole approfondire sono trattate leprincipali teorie classiche sul rapporto fra immigrazione e criminalità ela-borate all’interno della criminologia statunitense del ventesimo secolo.

Volendo passare in rassegna le principali ricerche sviluppate in Italiasulla criminalità dei migranti, possiamo cominciare ad affermare che nelnostro Paese non c’è una grande tradizione scientifica sull’argomento e perragioni che sono ben note a tutti coloro che si sono occupati di tali feno-meni: in primo luogo perché l’Italia, fino all’ultima parte degli anni Ottanta,era considerata terra di emigrazione verso l’estero e non di immigrazionedall’estero. Quindi le prime ricerche di una certa rilevanza sull’immigrazio-ne straniera in Italia e sui fenomeni ad essa collegati iniziano con l’iniziodegli anni Novanta, quando il tema dell’immigrazione raggiunge semprepiù spesso importanti spazi sui mezzi d’informazione ed entra a pieno tito-lo nelle agende del mondo politico e di quello scientifico.

A dire il vero, in precedenza il nostro Paese aveva già conosciuto unimportante fenomeno migratorio: non si trattava, però, di migranti stra-nieri, ma della migrazione interna dalle regioni centro-meridionali verso le

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zone del cosiddetto “triangolo industriale”, che ebbe il suo momento cul-minante fra gli anni Cinquanta e Sessanta ma continuò a più riprese anchenei successivi decenni. Anche in quel caso furono intraprese svariate ricer-che, soprattutto nel corso degli anni Settanta, sul rapporto fra immigra-zione e criminalità nelle regioni settentrionali del Paese. Ricerche che arri-varono, in maniera pressoché concorde, a tali conclusioni: che esisteva,effettivamente, un contributo rilevante degli immigrati meridionali alla cri-minalità di quelle regioni; che emergeva, inoltre, una chiara sovrarappre-sentazione di immigrati meridionali all’interno della popolazione carcera-ria di quelle regioni (ossia la percentuale di immigrati meridionali in carce-re era nettamente superiore a quella della popolazione immigrata presen-te in quelle regioni); erano, in particolare, evidenti i disagi psicologici esociali legati alla cosiddetta “seconda generazione” (meglio definiti comei figli degli immigrati stessi), cosa che aveva portato molte ricerche a rile-vare uno stretto rapporto fra immigrazione e criminalità minorile nelleregioni settentrionali; infine, che parallelamente a tali fenomeni, si eranodiffusi, nell’opinione pubblica di quelle regioni, stereotipi negativi (alcunia sfondo certamente razzista) nei confronti del “meridionale” all’internodella popolazione autoctona. Più controverse (e mai del tutto risolte) furo-no invece le discussioni teoriche sui motivi che spingevano gli immigratimeridionali ad offrire un contributo rilevante alla criminalità e sulle accu-se, mosse all’epoca nei confronti delle agenzie di controllo (forze dell’ordi-ne e sistema giudiziario), relative ad una loro presunta azione discrimina-toria a danno della popolazione immigrata, volta ad assecondare queglistereotipi negativi allora diffusi nelle regioni settentrionali.

Ma passiamo alle più recenti ricerche sulla criminalità degli immigra-ti stranieri in Italia. Per quanto il numero di studi esistenti sia ancora abba-stanza limitato, già questo nucleo ridotto di indagini apre un ventaglio diapprocci abbastanza ampio sull’argomento. Tuttavia occorre mettere inchiaro che, pur nella differenza di opinioni, esiste allo stato attuale unaspetto relativamente condiviso da tutte queste ricerche, una sorta di“patrimonio comune” a cui esse fanno riferimento. Esso consiste nella con-sapevolezza che il contributo quantitativo nei tassi percentuali di crimina-lità e di delittuosità registri in questi anni un’evidente sovrarappresenta-zione degli individui stranieri rispetto al campione degli italiani. E ciò risul-ta evidente anche quando si cerca di comparare – pur con tutte le difficoltàdi ordine metodologico che ciò comporta – campioni correttamente con-

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criminalità e criminalizzazione dei migranti -– 31

frontabili, utilizzando cioè campioni di cittadini italiani che siano in qual-che modo paragonabili a quelli degli immigrati, secondo, per esempio, letradizionali variabili statistiche, del genere e dell’età.

Ovviamente si conviene anche sul fatto che questa sovrarappresenta-zione nella statistica della delittuosità e della penalità degli stranieri nonriguarda indiscriminatamente tutti i fenomeni criminali ma prevalente-mente alcuni fenomeni criminali. Riguarda soprattutto la cosiddetta crimi-nalità “opportunistico-predatoria”, alcuni reati contro la persona, e il feno-meno dello spaccio di stupefacenti. Secondo gli ultimi dati statistici1,aggiornati al 2000, la quota degli stranieri sul totale dei denunciati è pari,ad esempio, al 56% per il reato di “sfruttamento della prostituzione”, al50% per il reato di “rapina impropria” (il furto seguito dall’uso della forzao dalla minaccia per procurarsi l’impunità), al 40% per quello di furto. Maanche nei reati in cui è meno cospicuo l’apporto deviante dei soggetti stra-nieri, come ad esempio nel caso degli omicidi consumati (18% sul totale deidenunciati) o delle estorsioni (16%), è tuttavia evidente una chiara sovra-rappresentazione di immigrati rispetto ai cittadini italiani, se si pensa che,secondo gli ultimissimi dati resi noti dalla Caritas, gli stranieri presentiregolarmente nel nostro Paese arriverebbero al 4,2% sul totale della popo-lazione e non arriverebbero comunque al 5% anche facendo una grossola-na stima per eccesso degli immigrati irregolari.

Tali cifre non si discostano di tanto anche se, anziché le percentualidegli stranieri denunciati, si vogliono prendere in considerazione le cifrerelative agli stranieri condannati o a quelli incarcerati sui rispettivi totali.Anzi, a proposito di quest’ultimo aspetto, alcuni autori hanno parlato diuna progressiva “sostituzione” dei cittadini meridionali (che dal secondodopoguerra sono stati per lungo tempo uno dei “noccioli duri” della popo-lazione carceraria in Italia) con gli immigrati, se si pensa che nell’arco di undecennio la loro presenza all’interno degli istituti di pena è passata dal16% sul totale della popolazione carceraria nel 1991 al 28% nel 2000.

Un ulteriore punto di tale dibattito su cui generalmente si conviene èche la sovrarappresentazione degli stranieri nella statistica della delittuo-sità, della criminalità e della penalità non si distribuisce indifferentementetra le diverse etnie: variano le caratteristiche in modo particolare tra un’et-nia e l’altra, e talora vi sono differenze marcate anche a seconda delle areegeografiche di provenienza all’interno della stessa comunità. Ad esempio,mentre per alcuni reati (come la rapina) esiste una sostanziale dispersione

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nella distribuzione per gruppo nazionale dei denunciati, figurano invecereati con un forte grado di concentrazione: nel 2000 il 70% dei denunciatiper reati connessi allo spaccio di stupefacenti proveniva dai Paesi dell’areamaghrebina, addirittura l’80% dei denunciati per contrabbando era dinazionalità marocchina, mentre il 54% dei denunciati per lo sfruttamentodella prostituzione era di provenienza albanese.

Un altro aspetto generalmente condiviso riguarda le regioni italianein cui il fenomeno della criminalità degli immigrati risulta maggiormenteproblematico: i tassi di delittuosità degli stranieri sono decisamente più altinelle regioni settentrionali che in quelle meridionali. In particolare, relati-vamente ai dati del 2000, solo riguardo ai reati di “tentato omicidio” e di“violenza carnale” la quota degli stranieri sul totale dei denunciati era lamedesima al nord e al sud; per tutti gli altri reati questa quota era più altanelle regioni settentrionali, con fortissime differenze relativamente ai reatidi furto, contrabbando, spaccio di droga e sfruttamento della prostituzione.

Un ultimo aspetto condiviso dalla quasi totalità delle ricerche effet-tuate sul rapporto fra criminalità ed immigrazione è, infine, relativo aldiverso contributo alle statistiche criminali, da parte dei soggetti stranieri,in ragione del momento migratorio; soprattutto appare evidente una fortedifferenziazione fra l’apporto alle attività devianti da parte degli immigra-ti regolari e quello degli irregolari. Il ruolo dei secondi è complessivamen-te molto maggiore rispetto a quello dei primi: nel 2000, sul totale degliindividui di provenienza extracomunitaria denunciati per i vari delitti,quelli privi di regolare permesso di soggiorno vanno dal 65 al 92% a secon-da del tipo di reato preso in considerazione. Così si può concludere che segli immigrati regolari appaiono oggi, in base alle statistiche ufficiali, com-mettere più spesso reati rispetto alla popolazione autoctona, gli immigra-ti irregolari superano di molte volte, per tassi di criminalità, sia i primi chei secondi.

Ovviamente questi dati dicono tanto e dicono poco: sono dati pura-mente descrittivi di un fenomeno, così come vengono registrati dalle stati-stiche ufficiali del nostro Paese, dati che, come vedremo nel prossimo para-grafo, si prestano già di per sé ad una serie di obiezioni, alcune di caratte-re sistematico ed altre di carattere metodologico (cfr. § 2.3). Dove ci sicomincia a dividere – ed a dividere fortemente – è quando si passa da un’a-nalisi puramente descrittiva a tentativi interpretativi o esplicativi del feno-meno. Volendo tracciare un quadro brutalmente sintetico delle diverse posi-

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zioni teoriche al riguardo, si può dire che sono sostanzialmente due oggi inItalia – ed in tutti i principali Paesi europei – gli approcci esplicativi.

C’è un primo approccio, al cui interno sono poi molte le posizionidiversificate, che ammette che effettivamente gli immigrati oggi delin-quono di più rispetto alla popolazione autoctona. Non si tratterebbe sol-tanto di un fenomeno apparente rispetto alla cifra oscura dei reati com-messi, ma di un fenomeno reale, di un’effettiva maggiore propensione adelinquere da parte degli stranieri. Una posizione in deciso contrasto conla tradizione classica degli studi sul rapporto tra criminalità e immigrazio-ne che, a partire dalle pionieristiche ricerche degli anni ‘20 e degli anni ’30,aveva sempre sostenuto la tesi contraria: che, cioè, la prima generazione diimmigrati avesse in realtà una propensione a delinquere più bassa di quel-la della popolazione residente, mentre esistevano concreti rischi rispettoalla seconda generazione di immigrati, specie se non ancora del tutto inte-grata all’interno della società di arrivo.

All’interno di questo primo tipo di approccio abbiamo poi una varietàdi posizioni diversificate attenenti all’aspetto eziologico di tali ipotesi, allecause, cioè, che determinerebbero (o concorrerebbero a determinare) que-sta maggiore propensione a delinquere da parte degli immigrati. La posi-zione più autorevole e seguita all’interno di questo filone interpretativo èquella che fa riferimento alla teoria classica della deprivazione relativa.Questa tesi sostiene che la motivazione che spinge di più a delinquere nonsarebbe data tanto dalla situazione di emarginazione degli immigrati, madalla loro povertà “relativa” rispetto al contesto locale in cui vivono. In par-ticolare, secondo Marzio Barbagli ed altri studiosi a lui vicini, tale teoriaspiegherebbe particolarmente bene per quali ragioni gli immigrati delin-quono di più nelle regioni settentrionali (caratterizzate da minori difficoltàd’inserimento sociale e lavorativo e da un più alto livello di benesseresocio-economico rispetto a quelle meridionali) che nel sud. Inoltre questatesi farebbe luce sui motivi per i quali anche gli immigrati della primagenerazione, al giorno d’oggi, sarebbero spinti a delinquere in misurasuperiore ai cittadini autoctoni: nella società del consumo di massa pubbli-cizzato da mezzi di comunicazione sempre più globali, la meta sociale daraggiungere sarebbe rappresentata dal successo economico facile edimmediatamente spendibile all’interno delle società di arrivo; ciò porte-rebbe fatalmente un certo numero di immigrati a scegliere il percorso cri-minale nel momento in cui essi si rendono conto dell’impossibilità di rag-

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giungere in tempi brevi tale obbiettivo.Vi sono, invece, autori che giustificano questa tendenza degli immi-

grati a commettere più reati rispetto ai cittadini autoctoni riprendendo letesi dell’interazionismo simbolico. Questi autori hanno rilevato, nel corsodi una serie di ricerche, come nel nostro Paese sia in atto una diffusione didefinizioni simboliche assolutamente ostili nei confronti dell’immigrato (edin particolar modo dell’immigrato clandestino). Ciò avverrebbe da un latoa livello comunicativo, con la proliferazione, all’interno dei mass-media edell’opinione pubblica, di luoghi comuni e di stereotipi che tendono adindividuare nell’immigrato extracomunitario un soggetto potenzialmentepericoloso per gli equilibri della nostra società; dall’altro lato queste defi-nizioni ostili sarebbero confermate anche a livello normativo, con l’ado-zione di politiche sempre più restrittive nei confronti del fenomeno migra-torio, tali da amplificare l’esclusione sociale di questi soggetti. Quindi, unaparte degli immigrati, definiti come “ontologicamente pericolosi o devian-ti” e posti ai margini della nostra società, tenderebbe sempre più ad iden-tificarsi con le immagini negative che li riguardano e ad amplificare il pro-prio comportamento deviante, seguendo il meccanismo dell’“etichetta-mento” di cui parleremo nella sezione d’approfondimento in chiusura dicapitolo.

Una sorta di mediazione fra queste due diverse teorie (della depriva-zione relativa e dell’interazionismo simbolico) viene invece proposta daAsher Colombo, autore di un’interessante ricerca di tipo etnografico con-dotta all’interno di alcuni gruppi di immigrati algerini che vivevano in con-dizioni di marginalità ed illegalità nella città di Milano. Colombo rileva daun lato che le scelte iniziali che spingevano la maggior parte dei ragazziimmigrati a dedicarsi ad attività devianti non erano dovute ad una situa-zione di assoluta miseria o disperazione, ma al desiderio di raggiungere,con mezzi rapidi e quindi anche illeciti, le mete sociali (successo economicoe prestigio sociale) di quella società consumistica occidentale che essi stes-si, spinti dal richiamo dei mezzi di comunicazione di massa, avevano presocome nuovo punto di riferimento della loro esistenza. Dall’altra parte,però, mano a mano che le forme di trasgressione diventavano da occasio-nali a “professionali”, quei ragazzi sviluppavano una “identità deviante”di gruppo, che li portava sempre più a far coincidere i loro comportamen-ti individuali con le rappresentazioni ostili della società esterna. Per riusci-re ad accettare più facilmente la strada che avevano scelto di percorrere,

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finivano per considerarsi a pieno titolo “nemici” di una società che li esclu-deva, finendo per radicalizzare il loro atteggiamento criminale.

Fin qui l’approccio che possiamo definire “giustificazionista”, checioè intende legittimare i risultati emersi dall’elaborazione delle statisticheufficiali, cercando al contempo di motivare la tendenza della popolazioneimmigrata a delinquere di più rispetto a quella italiana. C’è però un secon-do approccio, che potremmo definire “critico”, che contesta i risultati dellestatistiche ufficiali ed afferma che gli stranieri non delinquono effettiva-mente di più degli italiani, ma semmai incappano nel sistema penale piùfacilmente rispetto agli italiani. Che la loro sovraesposizione nelle statisti-che sulla delittuosità e criminalità sarebbe dovuta al criterio di selettivitàdel sistema penale, che tenderebbe a colpire soggetti che hanno un livellopiù basso di legami e difese sociali, e quindi gli immigrati in primis. Che lestatistiche ufficiali della criminalità non indicherebbero, pertanto, unamaggiore propensione degli immigrati a delinquere rispetto ai cittadiniautoctoni, ma semmai una maggiore propensione delle forze dell’ordine edel sistema giudiziario italiani a “reclutare” fra le fila della popolazioneimmigrata i soggetti passibili di essere denunciati, condannati ed incarce-rati.

Fra gli studiosi che hanno fatto proprio un approccio di questo secon-do tipo, possiamo annoverare Salvatore Palidda che ha evidenziato comenelle società post-moderne le forze dell’ordine, per fronteggiare la crimi-nalità degli immigrati, adottino un atteggiamento non puramente “reatti-vo”, cioè di risposta alle richieste di sicurezza ed alle denunce provenientidalla società civile, ma sempre più spesso “proattivo” che anticipa ed altempo stesso cerca di conformarsi a tali richieste. Tutto ciò porterebbe leforze dell’ordine ad assecondare gli interessi dei cittadini autoctoni insicuri,incrementando così gli interventi di natura repressiva che hanno come ber-saglio gli immigrati ed altre fasce marginali della popolazione considerateportatrici di degrado ed insicurezza e pericolose per l’ordine sociale.

Un altro autore appartenente a questo filone di studi è MassimoPastore che, in seguito a scrupolose analisi delle statistiche penali delnostro Paese, ritiene che il sistema giudiziario italiano presenti svantaggioggettivi per gli immigrati e contribuisca quindi alla loro sovrarappresen-tazione all’interno delle statistiche criminali e degli istituti di pena. In par-ticolar modo, Pastore fa rilevare come, a parità di reato commesso, lacustodia cautelare in carcere viene imposta più spesso agli immigrati che ai

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cittadini italiani; inoltre, a parità di pena inflitta, gli stranieri godono inmisura minore delle misure alternative al carcere e delle pene sostitutiverispetto agli autoctoni; infine, sarebbero presenti svantaggi oggettivianche nella gestione dei riti processuali abbreviati, nonché nell’istituto delpatrocinio gratuito (o “d’ufficio”) per gli imputati stranieri.

Infine una delle posizioni più radicali, fra quelle attualmente esisten-ti nel panorama italiano, è quella del sociologo Alessandro Dal Lago. Eglisostiene che gli immigrati, lungi dall’essere colpevoli di una propensione adelinquere maggiore rispetto a quella dei cittadini italiani, sono in realtàvittime di un complesso processo di costruzione sociale che tende, attra-verso l’operato congiunto dei mezzi di controllo sociale formale (sistemapolitico, forze dell’ordine, sistema giudiziario) ed informale (mass-media,opinione pubblica, rappresentanti del mondo intellettuale) ad individuarenell’immigrato il “nemico pubblico numero uno” dell’attuale società italia-na. I pregiudizi ed i luoghi comuni esistenti in larghi settori della societàitaliana e la diffusa percezione d’insicurezza ad essi collegata avrebberoinnescato un perverso meccanismo circolare attraverso il quale vengonolegittimati gli interventi di carattere repressivo e normativo nei confrontidei migranti (in particolare di quelli irregolari, considerati alla stregua di“non-persone”) e la loro progressiva esclusione dalla nostra società.Secondo questa teoria, quindi, la criminalità stessa degli immigrati sarebbediventata l’esito finale di tale processo di costruzione sociale, perché fun-zionale a tale logica di esclusione.

Per concludere questa rassegna di studi criminologici condotti inItalia sul rapporto fra criminalità ed immigrazione, possiamo segnalare unpaio di studi che si sono posti, per così dire, in una posizione intermedia fragli approcci presentati in precedenza: le ricerche effettuate da DarioMelossi si sono soffermate, ad esempio, sul ruolo che la devianza degli stra-nieri ricoprirebbe all’interno della nostra società. Riprendendo le tesi delsociologo nordamericano Kai Erikson (secondo il quale la discussione pub-blica di casi famosi ed esemplari di devianza è un modo attraverso il qualeuna società ridefinisce collettivamente i confini della propria morale e diciò che è lecito ed illecito), secondo Melossi la questione della criminalitàdegli immigrati ha assunto una sorta di “funzione specchio” delle disfun-zioni e dei comportamenti illeciti già esistenti nel nostro Paese. Attraversol’ostilità nei confronti degli immigrati e la loro demonizzazione, la popola-zione italiana avrebbe in qualche modo rimosso o allontanato i sospetti

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relativi alla nostra società ed ai codici morali esistenti al suo interno, addos-sando tali colpe su un bersaglio comodo ed agevolmente sacrificabile.

La tesi, invece, di Vincenzo Ruggiero sulle cosiddette “economie spor-che” equipara il ruolo degli immigrati all’interno dei settori criminali edelle economie illegali con quello ricoperto da tali soggetti all’interno deimercati ufficiali del lavoro. Partendo da un’attenta analisi dei mercati atti-nenti allo spaccio di sostanze stupefacenti nelle città di Torino e Londra,Ruggiero sostiene che le economie sporche o illegali avrebbero dei criteridi reclutamento della forza lavoro simili a quelli dell’economia legale. Cosìcome all’interno dell’economia legale, nei lavori indesiderati o pericolosi, icittadini italiani tendono ad essere progressivamente rimpiazzati dagliimmigrati, così anche nel mondo illegale le “figure professionali” più bassesarebbero coperte dai soggetti stranieri, cosa che varrebbe in particolareper lo spaccio di droga, per i furti d’appartamento e i furti d’auto. Questatesi sostiene, pertanto, che non ci sarebbe una produzione aggiuntiva dicriminalità da parte degli immigrati, ma semmai una progressiva sostitu-zione dei soggetti, all’interno di un mercato che risente, così come quellilegali, delle leggi della domanda e dell’offerta.

2.1 – La vittimizzazione degli immigrati

Finora, parlando del rapporto fra criminalità ed immigrazione e dellestatistiche ufficiali al riguardo, abbiamo sempre guardato alla nazionalitàdell’autore del reato. Resta ora da analizzare l’altra faccia della medaglia,ossia la nazionalità di chi subisce quegli eventi criminosi, cioè le vittime.

Nelle analisi e nelle cronache giornalistiche che parlano di criminalità,spesso i mass-media e gli esponenti del mondo politico tendono a metterein risalto soprattutto i delitti commessi da stranieri a danno di cittadini ita-liani, interpretando tale fenomeno come minaccia per i beni e per l’inte-grità personale degli autoctoni. In questo modo essi danno per scontatoalmeno un paio di circostanze: la prima è che i cittadini italiani siano col-piti più frequentemente degli immigrati dai fenomeni delittuosi, ed in par-ticolare da quelli commessi da questi ultimi; la seconda è che in Italia i reativengano commessi prevalentemente con autore e vittima appartenenti adiversi gruppi nazionali (atti intergroup), anziché avvenire all’interno dello

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stesso gruppo (atti ingroup). Si tratta di due generalizzazioni ricorrenti, chepartono dal medesimo presupposto: quello che tende ad interpretaremotivazioni e relazioni fra autoctoni ed immigrati sulla base di un model-lo di conflitto. Così gli stranieri provenienti da Paesi in via di sviluppo sono,in linea di massima, descritti come persone povere che cercherebbero diprocurarsi i mezzi di sussistenza sottraendoli illecitamente ai cittadini ita-liani ricchi; oppure sono rappresentati come persone insofferenti per unacondizione di subalternità all’interno della nostra società, che cerchereb-bero di sfogare questi risentimenti aggredendo elementi della popolazio-ne autoctona (specie nei reati di natura violenta). Le reazioni ostili o vio-lente della popolazione italiana alla minaccia costituita dagli immigratisarebbero, a loro volta, inquadrabili all’interno dello stesso schema conflit-tuale.

Eppure, le ultime ricerche criminologiche condotte in Italia (le stessea cui abbiamo fatto riferimento in materia di dati statistici aggiornati sullacriminalità commessa da immigrati2) indicano chiaramente che questomodello conflittuale riesce a spiegare, in realtà, solo una minima parte deireati commessi; inoltre queste ricerche dimostrano che quelle due genera-lizzazioni che abbiamo citato in precedenza si rivelano assolutamenteinfondate alla prova dei fatti.

È vero che il rischio di rimanere vittima di un reato nel nostro Paesevaria fortemente in ragione della diversa nazionalità ma non è assoluta-mente vero che i cittadini italiani sono più frequentemente vittima di reatorispetto a quelli stranieri. Se si tiene conto (come, in una corretta analisi ditipo statistico, occorre fare) delle diverse dimensioni dei gruppi analizzati,si scopre in realtà che tale affermazione è vera solo per i reati di “furto diauto”, “furto in appartamento” e “furto in negozio” (svantaggi giustifica-ti soprattutto dal più elevato valore dei beni posseduti dai cittadini italia-ni rispetto a quelli di origine straniera). Mentre per le altre categorie direato considerate (omicidi, rapine, scippi, borseggi, lesioni dolose e violen-ze carnali) sono invece gli immigrati a risultare vittime di tali reati più facil-mente dei cittadini italiani: oltre cinque volte di più per rapine e borseggi;oltre tre volte di più per omicidi, lesioni e violenze sessuali.

È poi assolutamente falso l’assunto secondo cui i reati avvengono inmaggior parte con autore e vittima appartenenti a diversi gruppi naziona-li (atti intergroup). Dai dati statistici di questa ricerca emerge, semmai, cheè vero l’opposto, e cioè che i reati sono commessi soprattutto all’interno

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del medesimo gruppo nazionale (ingroup) e che ciò avviene soprattuttoquando l’autore di reato appartiene ad un gruppo di origine etnica mino-ritaria. Tale tendenza è particolarmente accentuata nei delitti di naturaviolenta: l’omicidio è il reato nel quale gli stranieri colpiscono più spesso unconnazionale, ed è seguito dalle lesioni e dalla violenza carnale.

Infine le statistiche ufficiali rivelano un terzo dato che va controcor-rente rispetto alle opinioni diffuse, e cioè che – in proporzione alla diversaconsistenza numerica dei gruppi considerati – quando l’autore del reatoappartiene ad un gruppo nazionale diverso rispetto alla sua vittima, sonopiù numerosi i casi in cui l’autore è italiano e la vittima è straniera rispettoa quelli in cui chi delinque è straniero e chi subisce il reato è di nazionalitàitaliana. E tutto ciò pur in assenza di specifiche pratiche poliziesche di cata-logazione e di indagine sui cosiddetti hate crimes (o “reati d’odio”), chepermetterebbero una raccolta di dati maggiormente significativa sull’inci-denza dei reati e degli altri casi a sfondo “razziale” a danno della popola-zione immigrata (cfr., a questo proposito, il capitolo 5).

3 - Alcune perplessitàsull’uso delle statistiche ufficiali

Abbiamo segnalato in precedenza l’uso spesso disinvolto che i rap-presentanti del mondo politico ed informativo fanno delle statisticheufficiali sulla criminalità degli immigrati, spesso citate come autorevoleed indiscutibile conferma delle tesi dominanti nell’opinione pubblicasulla “pericolosità sociale” degli immigrati e sulla loro propensione adelinquere in misura maggiore rispetto alla popolazione autoctona.Abbiamo anche visto che, in realtà, nel dibattito criminologico attual-mente esistente in Italia, sono stati sollevati dubbi sulla veridicità edattendibilità di tali statistiche (che noi stessi abbiamo sommariamenteillustrato in precedenza).

Vediamo ora, in particolare, quali sono le principali obiezioni chevengono sollevate in merito all’attendibilità ed all’utilità di questi dati.Diciamo subito che, a nostro giudizio, le statistiche ufficiali sulla crimina-lità (e, quindi, anche quelle inerenti alla criminalità degli immigrati) non

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possono essere considerate perfettamente illustrative della situazionerealmente esistente nel nostro Paese.

In primo luogo, infatti, queste cifre rappresentano solamente i delit-ti di cui le forze dell’ordine vengono a conoscenza nell’espletamento delleloro funzioni e non di tutti i reati che effettivamente sono stati realizzatiin un determinato lasso di tempo: esiste, perciò, il problema della cifraoscura della criminalità, costituita dal numero degli eventi delittuosi che sisono realmente verificati ma che non sono stati denunciati o scoperti esono così rimasti esclusi dal computo delle statistiche criminali. L’esistenzadi questa cifra oscura, difficilmente quantificabile per molti dei reati consi-derati, ci impedisce di considerare pienamente attendibili questi dati uffi-ciali sulla criminalità registrata, in assenza di approfondite ricerche volte afar emergere il livello di criminalità nascosta (ad esempio attraverso inchie-ste di vittimizzazione puntuali e sistematicamente organizzate).

Una seconda difficoltà in merito alle statistiche ufficiali sulla crimina-lità è attinente alla validità scientifica di queste cifre: ossia, il grado dicostanza e di coerenza con cui le procedure di rilevazione sono state appli-cate, rispetto ai criteri prestabiliti, da parte delle agenzie preposte allaproduzione dei dati (forze dell’ordine ed Autorità Giudiziaria) e di quelledeputate alla loro raccolta (ISTAT). Non sempre, infatti, queste fonti si sonorivelate attendibili in passato, proprio a causa di errori commessi nella clas-sificazione e/o raccolta dei dati3. Questi problemi, peraltro, sono ora in viadi risoluzione, grazie al nuovo sistema informatizzato di registrazione delledenunce, imposto dal Ministero dell’Interno dal 1999; questo nuovo meto-do di raccolta dei dati, se inizialmente può aver provocato qualche ulterio-re scompenso, ha l’indubbio merito di aver reso finalmente omogenei i cri-teri di rilevazione statistica adottati dalle diverse forze dell’ordine in tuttele città italiane.

Vi è, poi, un ultimo ordine di considerazioni da fare, ancora piùimportante rispetto ai due precedenti, ed è quello relativo all’interpreta-zione di questi dati ufficiali sulla criminalità: dal momento che essi nonmisurano direttamente la realtà effettiva, ma quella identificata, segnala-ta e denunciata del fenomeno, c’è il rischio tangibile che queste cifre sianomolto più indicative dell’attività concretamente messa in pratica dalleforze dell’ordine che non del livello di devianza realmente esistente sul ter-ritorio. Che, in altre parole, questi dati – anche quando siano corretti edattendibili – siano comunque condizionati dalle scelte operative attuate

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dalle polizie, dalla scala di priorità adottata nei loro interventi, dalle moda-lità concrete con cui pongono in essere la loro attività investigativa e dicontrollo del territorio e, quindi, anche dai luoghi comuni e dalle convin-zioni personali dei singoli operatori di polizia, nonché dalle pressioni cheessi ricevono ad opera dei mass-media e della locale cittadinanza.

Un esempio abbastanza interessante di queste pratiche di polizia chepossono produrre oggettive discriminazioni a danno degli stranieri nellaproduzione delle statistiche ufficiali può essere fornito dalle risultanze diuna serie di interviste effettuate alla fine degli anni Novanta nella regioneEmilia-Romagna, aventi ad oggetto la sicurezza dei cittadini ed i controllisubiti da parte delle forze dell’ordine4. In particolare venne sottoposta adue differenti campioni rappresentativi, rispettivamente, della popolazio-ne autoctona e di quella immigrata residenti nella regione emiliano-roma-gnola, la medesima domanda: “Nel corso degli ultimi dodici mesi le è capi-tato di essere fermato per la strada mentre era in automobile o a piedi,anche per un semplice controllo dei documenti, dalla Polizia Stradale, Cara-binieri o Guardia di Finanza?”. La risposta a quella domanda metteva inevidenza forti differenze a seconda della provenienza nazionale dell’inter-pellato.

Infatti, se ad una prima sommaria analisi poteva quasi sembrare chevi fossero disparità di trattamento a danno della popolazione autoctona (il38,5% del campione “italiano” affermava di essere stato fermato nel corsodell’ultimo anno, contro il 31% del corrispondente campione di immigra-ti), la situazione cambiava radicalmente prendendo in considerazione ladiscriminante “fermi in auto / fermi a piedi”. In questo caso risultava che,mentre il 37,4% del campione di residenti autoctoni (pari al 97,3% dei cit-tadini di nazionalità italiana che avevano ammesso di essere stati fermati)era stato controllato dalle forze dell’ordine mentre si trovava all’internodella propria automobile e solo l’1,1% del campione mentre era a piedi,nel caso degli stranieri residenti in Emilia-Romagna il 22% del campioneera stato fermato mentre era in macchina ed il 9% mentre era a piedi. Ilche significa che gli stranieri erano fermati quasi nove volte di più degli ita-liani attraverso il “fermo a piedi”, che ben più del “fermo in auto” (che èdovuto perlopiù a ragioni di traffico automobilistico e raramente si basasui tratti fisionomici del guidatore) esprime un’intenzione di controllareuna persona sulla base del suo aspetto esteriore e per motivi collegati aduna potenziale criminalizzazione del soggetto. E questa sproporzione era

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ancora superiore prendendo in considerazione l’ulteriore discriminante delsesso: il 14% dei maschi di origine immigrata erano fermati a piedi, control’1,4% dei maschi di origine italiana, con un rapporto di dieci ad uno. Sinoti, infine, che il campione di immigrati intervistati era composto esclusi-vamente da immigrati residenti e quindi regolarizzatisi ormai da tempo nelnostro Paese; è del tutto ipotizzabile che il dato sul “fermo a piedi” di tuttigli stranieri (comprendendo al loro interno quelli irregolari, da poco arri-vati in Italia) comporterebbe una sproporzione ancora superiore, a scapitodei soggetti stranieri.

Mettendo in luce questi dati non si vuole certo accusare le forze del-l’ordine italiane di adottare intenzionalmente pratiche di comportamentodiscriminatorie e criminalizzanti nei confronti degli immigrati: è indiscuti-bile, infatti, che le sproporzioni esistenti fra italiani e stranieri per quantoriguarda, ad esempio, i “fermi a piedi” siano in buona parte dovute allenormative vigenti in materia d’immigrazione (la “Turco-Napolitano” all’e-poca delle interviste emiliano-romagnole; la “Bossi-Fini” attualmente), cheassegnano alle forze dell’ordine il compito di controllare il rispetto degliobblighi e delle formalità previste dalla legge da parte degli immigrati pre-senti sul territorio italiano.

Peraltro, è altrettanto indubbio che tali ricorrenti pratiche di “fermoselettivo” adottate nei confronti degli stranieri facilitano la diffusione distereotipi e tipizzazioni negative anti-immigrati all’interno dei corpi stessidi polizia (inevitabilmente portati a considerare “sospetti” e quindi “dafermare e controllare” i soggetti che maggiormente presentino trattisomatici distintivi della loro diversità e della loro potenziale “irregolarità”),alimentano un effetto indiretto di “selezione criminale” negativa nei loroconfronti (con ciò che può conseguire a livello di statistiche ufficiali dellacriminalità) e provocano una risentita reazione degli immigrati stessi, chediventano sempre più propensi a considerare l’agente di polizia come unmero “controllore-persecutore”, chiamato a svolgere le sue funzioni esclu-sivamente contro gli stranieri e non (anche) al loro servizio.

Il fatto che i controlli di tipo discrezionale operati dalle forze dell’or-dine vengano esercitati in maniera selettiva a seconda della diversa nazio-nalità degli interessati o del colore della loro pelle e si risolvano in eviden-ti svantaggi per gli appartenenti ai gruppi etnici minoritari riceve, inoltre,autorevoli conferme da una fitta serie di ricerche svolte in questi ultimianni in altri Paesi europei sull’operato delle locali forze di polizia5; nono-

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stante le evidenti differenze di procedure e normative che si incontrano daPaese a Paese, tali ricerche convergono in maniera pressocché uniforme suquesto aspetto, tanto che alcuni autori parlano, a questo proposito, di raz-zismo istituzionale delle forze dell’ordine, provocato, cioè, non tanto dalleconvinzioni personali dei singoli agenti, ma dal concreto funzionamentodell’apparato repressivo e dalle pratiche poliziesche in uso.

4 - Per una polizia al servizio – anche –del cittadino immigrato

Occorre, quindi, che le forze di polizia maturino un’evoluzione deipropri atteggiamenti nei confronti dei soggetti di origine etnica minorita-ria, evitando – ove possibile – il ricorso sistematico a pratiche invasive dicontrollo e/o perquisizione che indirettamente comportano una disuma-nizzazione dei rapporti con i soggetti di origine etnica minoritaria edamplificano, all’interno della popolazione immigrata, la diffusione di ungenerale sentimento di diffidenza e di ostilità nei confronti delle forze del-l’ordine. Occorrerebbe, al contrario, sforzarsi di mantenere la “dimensioneumana” al centro delle interazioni fra agenti ed immigrati e di concepirelo svolgimento della propria funzione in un’ottica di “servizio”. Un serviziorivolto non solo ai tradizionali referenti dell’attività del poliziotto (i citta-dini italiani) ma anche ai nuovi arrivati, nel quadro di una società semprepiù diversificata e multiculturale. Proprio per rispondere ai cambiamentidella nostra società, anche il servizio offerto dalle forze di polizia dovrànecessariamente mutare, avvicinandosi maggiormente alle esigenze con-crete della cittadinanza.

In quest’ottica appare centrale il tentativo, avviato in questi ultimianni dalla Polizia di Stato, di intraprendere un dialogo costante e costrut-tivo con i principali rappresentanti delle istanze della popolazione civile.Uno sforzo che può essere sufficientemente riassunto all’interno del con-cetto di polizia di prossimità, una nuova filosofia d’azione nel lavoro dipoliziotto che, pur continuando a porre in primo piano i tradizionali setto-ri della sicurezza pubblica e del rispetto della legge, muta i consueti modu-li operativi ed amplia gli obiettivi di fondo del proprio agire.

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Con l’avvento della polizia di prossimità6, la posta in gioco non è piùlimitata alla repressione dei fenomeni criminosi in una determinata zonaed al controllo dell’ordine pubblico ma, più in generale, diventa la salva-guardia della pace sociale (o il ripristino di apprezzabili condizioni di paci-ficazione sociale, laddove tali presupposti fossero venuti meno). Un tra-guardo che, pur passando necessariamente attraverso l’affermazione diuna situazione di legalità diffusa, richiede altresì di affrontare tutta unaserie di circostanze non direttamente riconducibili alla sfera penale (con-flitti di vicinato, atti di “inciviltà”, infrazioni scolastiche, problemi di degra-do, ecc.) ma che rientrano all’interno della categoria dei “comportamentiantisociali” e sono suscettibili di minare alle fondamenta la situazione dipace sociale esistente in un determinato territorio. Tali comportamenti, purnon essendo sanzionati dalle leggi penali, possono, infatti, rivelare undisprezzo per le regole di condotta generalmente condivise o per le auto-rità vigenti nelle diverse istituzioni della società civile, se non una mancan-za totale di rispetto nei confronti degli altri: se ignorati, essi possono darvita a disagio sociale, creare insicurezza, provocare atti delittuosi in sensostretto e mettere a repentaglio gli equilibri e la pace sociale della zona.

Si accentua quindi l’agire preventivo della polizia in un’ottica quasi-educativa che parte da una conoscenza approfondita delle specificità esi-stenti sul territorio e punta ad anticipare i problemi sociali cercando diallontanare o di far scemare le tensioni direttamente dall’interno. È chia-ro, però, che questo obiettivo richiede al poliziotto un lavoro svolto più inprofondità, costantemente a contatto ed in relazione con il territorio e conle diverse componenti sociali che lo animano. La polizia deve, così, diven-tare una delle componenti stabili che sono presenti ed interagiscono sulterritorio, conquistandosi il riconoscimento e l’appoggio delle altre: soloattraverso questo appoggio fiduciario e queste relazioni durature essa puòcostruire un sistema di intelligence collettiva che porta ad una più agevolecomprensione delle dinamiche sociali esistenti ed alla tempestiva cono-scenza di ogni episodio suscettibile di minacciare la pace sociale.

Nel quadro di questo sforzo di avvicinamento alle altre componentipresenti sul territorio, le relazioni della polizia con i gruppi di origine etni-ca minoritaria andranno a rivestire un’importanza sempre più decisiva peril successo dell’azione delle forze dell’ordine, proporzionalmente alla cre-scita della consistenza numerica e della visibilità sociale di tali gruppi.Ciascun gruppo di immigrati stanziati stabilmente in una determinata zona

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costituisce una delle componenti sociali che interagiscono fra di loro inquel territorio e che possono dar vita a tensioni o conflitti fra i diversi grup-pi. Riuscire a relazionarsi nella misura più corretta e soddisfacente con que-sti gruppi può, quindi, facilitare il compito delle forze di polizia a più livel-li: accresce il livello di fiducia reciproca, legittima e stabilizza i rapporti dicollaborazione con i rappresentanti riconosciuti di tali gruppi, aumenta ilnumero e la qualità di informazioni a disposizione della polizia per cono-scere le dinamiche sociali e le potenziali fonti di attrito sul territorio, rendepiù semplici e socialmente “accettati” gli eventuali interventi di tiporepressivo necessari al mantenimento dell’ordine sociale. Una situazione, aben vedere, radicalmente differente da quella attuale, in cui i compiti dicontrollo e di reperimento delle informazioni vengono espletati attraversopratiche selettive di stop and search che semmai alimentano l’ostilità reci-proca, rendono praticamente inattuabili forme di collaborazione sponta-nea ed arrecano ulteriore disagio ed esclusione sociale ai soggetti di origi-ne etnica minoritaria.

Sarà, pertanto, fondamentale per le forze dell’ordine italiane inten-dere nella maniera più corretta quel concetto di “polizia di prossimità”ripreso dalle forze dell’ordine di altri Paesi. Fare in modo, cioè, che questoavvicinamento alle esigenze ed alle istanze della cittadinanza non si rivol-ga esclusivamente all’ala forte di questa cittadinanza, alla categoria degli“inclusi”, ai loro valori ed alle loro richieste e che, di conseguenza, l’attivitàstessa della polizia non finisca per convergere sempre più con le aspettati-ve di questi cittadini, a scapito degli appartenenti agli altri gruppi sociali(immigrati ed altri soggetti marginali). Una polizia al servizio di una partesoltanto della popolazione svelerebbe il volto più odiosamente repressivodella propria funzione, acuirebbe le tensioni e gli squilibri già esistentinella nostra società, fallirebbe nel proprio compito di mantenere (o rista-bilire) la pace sociale.

Ecco spiegato, quindi, il motivo per cui noi riteniamo di primariaimportanza che le forze dell’ordine cerchino di reimpostare in maniera piùcorretta ed equilibrata le proprie relazioni con i soggetti di origine etnicaminoritaria ed i loro rappresentanti, combattendo quei pregiudizi e ste-reotipi diffusi che possono condizionare e compromettere fin dall’iniziotali rapporti. Su queste basi si mette in gioco l’obiettivo di una reale paci-ficazione sociale, grazie al contributo attivo (e dall’interno della societàstessa) di una polizia moderna ed al servizio dei cittadini. Perché, se la stra-

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da di un maggiore avvicinamento fra polizie e cittadini è stata tracciata,un’altra questione è, invece, il come percorrerla e il dove tale strada ci puòportare.

5 - L’azione della polizia

Come indicavamo nella parte introduttiva di questo capitolo, il primoobiettivo da porsi è quello di sviluppare, all’interno degli operatori di poli-zia chiamati a contrastare i fenomeni di microcriminalità urbana, uno “spi-rito critico” nei confronti dei facili luoghi comuni che tendono ad indivi-duare nel soggetto di origine etnica minoritaria il principale responsabiledi tali fatti.

Così come per gli altri stereotipi presenti nell’opinione pubblica, sitratta di convincimenti difficili da estirpare, proprio perché quotidiana-mente essi ricevono conferme più o meno autorevoli da diverse fonti (l’os-servazione diretta degli agenti, i commenti di uomini politici, le protestedei comitati di cittadini e di altri rappresentanti più o meno accreditatidella cittadinanza) e vengono amplificati attraverso le notizie selezionatedai mass-media (cfr. cap. 3, § 4). Peraltro, come abbiamo visto, si tratta dipregiudizi che un agente di polizia non può permettersi di avere, poichéessi possono condizionare pesantemente l’operato delle forze dell’ordine(ad esempio, nella selezione degli individui sospetti da fermare e control-lare nei casi in cui tali valutazioni siano rimesse alla discrezionalità degliagenti), provocare un’indiretta ed ulteriore criminalizzazione dei soggettiimmigrati e rendere sempre più conflittuali i rapporti fra comunità di ori-gine etnica minoritaria e forze di polizia.

In quest’ottica, la diffusione di informazioni all’interno del servizio dipolizia sui diversi orientamenti criminologici che abbiamo riportato in que-sto capitolo sul tema del rapporto fra criminalità ed immigrazione, puòsicuramente aiutare a mettere in discussione i luoghi comuni e gli stereoti-pi imperanti nella nostra società. Ma ancor più importante, per voi, fun-zionari e responsabili di uomini, sarebbe avere una precisa consapevolezzadella “cultura” specifica (inclusa la cosiddetta “cultura della mensa”, quel-la che si sviluppa cioè nei luoghi sociali informali) sviluppata all’interno delvostro team:

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> in che misura gli stereotipi anti-immigrati presenti nella societàcivile hanno attecchito anche fra gli agenti sotto la vostra respon-sabilità?

> ed in che misura, eventualmente, tali luoghi comuni condizionanoil loro operato?

Avere il polso preciso della situazione, attraverso il monitoraggio e lavalutazione delle performance di squadra, può indurre il funzionarioresponsabile a prendere le misure più opportune per assicurare l’espleta-mento di un servizio di polizia equo e non condizionato.

Un secondo obiettivo da raggiungere dev’essere quello del progressi-vo avvicinamento delle forze di polizia alla cittadinanza in generale ed aigruppi di origine etnica minoritaria in particolare, in modo da trasformare ilruolo degli agenti di pubblica sicurezza da temuti controllori che agisconocon strumenti prevalentemente repressivi ed in risposta ad input provenien-ti dall’alto (in maniera quasi avulsa dal contesto sociale su cui vanno adinfluire) ad operatori umanizzati che utilizzano prevalentemente risorse diintelligence sviluppate grazie alla conoscenza profonda degli ambienti socia-li in cui s’inseriscono e prevengono problemi di convivenza fra diversi grup-pi e/o soggetti, allo scopo di mantenere (o di ristabilire) la pace sociale.

A prescindere dall’istituzione di specifiche figure professionali (comei “poliziotti di quartiere”) incaricate di operare seguendo le regole e leprocedure proprie della cosiddetta “polizia di prossimità”, l’obiettivo diun’umanizzazione delle forze dell’ordine e di un concreto avvicinamentoai problemi ed alle esigenze della popolazione dislocata sul territorio deveessere trasversale ai diversi corpi di polizia. Si tratta di considerare il lavorodi operatore di polizia in un’ottica “di servizio”, in cui gli interventi daeffettuare e l’adozione delle specifiche misure da prendere devono neces-sariamente tenere conto anche dell’impatto sociale che essi provocheran-no sul territorio. In determinati casi, ad esempio, a pratiche di tipo coerci-tivo-repressivo (che comportano elevati costi sociali per i loro destinatari erischiano di acuire situazioni conflittuali) possono essere preferibili, laddo-ve vi siano per l’operatore di polizia margini di discrezionalità, interventipiù “morbidi”, in modo da non esasperare le tensioni esistenti e prevenirepossibili scontri. In altri frangenti sarà, invece, necessario intervenire a pre-scindere dal fatto che siano state violate norme penali: la reazione ferma epronta al verificarsi di semplici “atti di inciviltà” che però rischiano di mina-

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re gli equilibri instauratisi in una determinata zona può prevenire la futu-ra commissione di veri e propri reati, con tutto il carico di conflitti socialiche essi comportano.

In quest’ottica occorre però che gli operatori di polizia sviluppinoun’approfondita conoscenza del territorio nel quale essi sono chiamati adoperare; una conoscenza che va acquisita direttamente dall’interno emediante un costante ed articolato rapporto con i diversi gruppi e le altreistituzioni ivi presenti. È necessario, in altre parole, che le forze di poliziadiventino una fra le varie componenti sociali che animano stabilmentel’ambiente urbano di riferimento. Per raggiungere questo scopo sarànecessario innanzi tutto che gli agenti, compatibilmente con le limitazionidi organico, frequentino con maggiore assiduità il territorio, in modo dadiventare una “presenza fissa” al suo interno e da poter sviluppare queirapporti interpersonali con i membri dei diversi gruppi, che costituiscono ilfulcro dell’azione di “prossimità”. Ma, ancora più importante, occorreanche che questo sforzo di avvicinamento a tutte le diverse componentisociali presenti sul territorio di riferimento avvenga in maniera socialmen-te equa. Che sia aperto, cioè, anche a quei gruppi aventi consistenzanumerica o importanza socio-economica minoritaria all’interno del conte-sto di riferimento. Infatti, come già sottolineato in precedenza, una poliziache si ponesse al servizio di una parte soltanto della popolazione, consa-crandone di fatto la posizione di preminenza all’interno del corpus sociale,non farebbe altro che aggravare le tensioni e gli squilibri già esistenti nellanostra società, fallendo nel proprio compito di mantenere (o ristabilire) lapace sociale.

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In una recente ricerca sui comitati di cittadini di Modena (Poletti, 2002) è emersoche in quella realtà locale lo sforzo di avvicinamento alla cittadinanza operatodalle forze di polizia sia coinciso con il rafforzamento in pianta stabile deirapporti fra le forze dell’ordine ed i comitati attivi sul tema della sicurezzaurbana, considerati espressioni sufficientemente rappresentative della collettivitàlocale.

Tali rapporti, oltre ad aver dato origine a forme di collaborazione innovative (peril panorama italiano) tra cittadini e polizie in vista della segnalazione di fenomenidi devianza che si verificavano all’interno dei diversi quartieri della città, avevaperò di fatto influito anche sulla tipologia delle modalità di controllo delterritorio concretamente praticate dalle forze dell’ordine. Si verificava infatti unasorta di corrispondenza fra lo spirito di mobilitazione battagliera che animava imembri dei comitati e l’azione di repressione dei fenomeni devianti esercitatadalla polizia. Tanto che le forze dell’ordine avevano in molti casi orientato lapropria attività in funzione delle sollecitazioni e delle segnalazioni ricevute daquesti comitati: attraverso frequenti operazioni di “bonifica del territorio” controi fenomeni dello spaccio di stupefacenti e dell’immigrazione irregolare, unapresenza più cospicua di pattuglie appiedate ed un ricorso massiccio ai centri dipermanenza temporanea per l’identificazione e l’espulsione degli stranieri chenon fossero risultati in regola.

Tali circostanze, se vennero salutate positivamente dai rappresentanti dei comitatidi cittadini e delle associazioni di commercianti come simbolo di unriavvicinamento fra polizie e cittadinanza, vennero invece accolte con rabbiadagli esponenti della locale Consulta dell’Immigrazione che sottolinearonol’assoluta disparità dell’operato delle forze dell’ordine (descritte come attentealle sollecitazioni delle categorie maggiormente influenti della popolazione, esorde di fronte alle richieste provenienti dagli immigrati e dagli altri gruppimarginali) ed accusarono apertamente i comitati di aver alimentato situazioni direciproca ostilità e di risentimento fra stranieri e cittadini modenesi.

ESEMPIO

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per chi vuole approfondireLe prime, pionieristiche, ricerche che cercano di far luce su quei due sopraccitati interro-gativi (se e per quali motivi gli immigrati delinquono di più rispetto agli autoctoni) sonocondotte all’inizio del XX secolo negli USA, più precisamente dagli studiosi dell’Uni-versità di Chicago. Era il periodo della cosiddetta “età progressiva”, in cui i fenomeni del-l’urbanizzazione e dell’immigrazione selvaggia s’accompagnavano ad una serie di impor-tanti rivendicazioni sociali (come quelle relative al diritto di sciopero e di associazione col-lettiva dei lavoratori nelle industrie del Paese) e ad un continuo ricorso alla violenza, daparte sia dei manifestanti che delle forze dell’ordine locali, durante il dispiegarsi di taliconflitti sociali. La giovane democrazia americana stava facendo i conti con la sua“bigness”, con quelle rapide trasformazioni sociali ed economiche che avevano reso smi-suratamente grandi tanto le principali città del Paese quanto gli squilibri esistenti al lorointerno.In questo quadro per molti versi esplosivo, il problema dell’integrazione o dell’assimila-zione degli immigrati all’interno del tessuto sociale americano appariva di fondamentaleimportanza: pur essendo un Paese che aveva fondato la propria esistenza sul fenomenodella migrazione, negli USA dell’età progressiva il tradizionale atteggiamento di favoreverso gli stranieri era sempre più spesso soppiantato dalla diffusione, in certi strati del-l’opinione pubblica americana, di pregiudizi e convinzioni sulla pericolosità sociale dellenuove masse di immigrati che arrivavano nel Paese: essi erano considerati di cultura erazza inferiore rispetto all’americano medio e responsabili del dilagare della criminalità edella violenza.I ricercatori della Scuola di Chicago – città industriale al centro della rete ferroviaria e flu-viale della East Coast, in rapidissima espansione urbanistica e demografica e popolata damigliaia di immigrati provenienti da ogni parte del mondo – contribuirono a sconfiggeregli stereotipi ed i luoghi comuni diffusi sull’immigrazione all’interno della società ameri-cana di quel periodo. Con una serie di ricerche – condotte dall’inizio degli anni Dieci finoalle soglie della seconda guerra mondiale – dimostrarono a più riprese che la criminalitàdegli immigrati giunti in America, così come i loro tassi di incarcerazione, erano com-plessivamente inferiori a quelli dei cittadini autoctoni, mentre solo per alcune categorie direati – i reati di sangue e quelli contrari all’ordine pubblico – erano superiori. In partico-lare risultava evidente che la diversa provenienza nazionale e culturale degli immigrati eracorrelata alla commissione di diverse tipologie di delitti: gli irlandesi ed i finlandesi, adesempio, avevano alti tassi di incarcerazione per ubriachezza ed alcoolismo; i tedeschierano prevalentemente dediti al furto con scasso; gli italiani erano più frequentementeincarcerati per reati di sangue (omicidi e lesioni personali).

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Se, quindi, tali ricerche avevano dimostrato che la convinzione che gli immigrati avesserouna propensione a delinquere maggiore rispetto ai cittadini statunitensi fosse sostanzial-mente errata, diverse furono, invece, le conclusioni relative ai tassi di criminalità dellaseconda generazione di immigrati, ossia dei figli di quegli immigrati, nati sul territorioamericano e cresciuti all’interno della società USA. Numerose ricerche, infatti, erano con-cordi nell’affermare che gli immigrati della seconda generazione tendevano a commetterei delitti caratteristici della cultura ospitante, senza distinzioni di rilievo fra i diversi grup-pi etnici di provenienza. E, soprattutto, tendevano a commettere quei delitti e ad essereincarcerati in misura proporzionalmente superiore a quella dei cittadini autoctoni di parietà e sesso.Per tentare di interpretare i risultati di quelle ricerche ed i comportamenti della popola-zione immigrata, in ambito criminologico vennero elaborate diverse teorie, che ancor oggicostituiscono il principale fondamento teorico degli studi in materia. I primi studiosi dellaScuola di Chicago, ad esempio, misero a punto la teoria ecologica della criminalità: perShaw e McKay le cause della criminalità erano da ricercare nell’ambiente urbano, degra-dato o “disorganizzato”, piuttosto che nei singoli individui o gruppi sociali. Di conseguen-za tali autori ipotizzavano che le varie generazioni di immigrati fossero propense a segui-re il tipo ed il livello di criminalità caratteristico del luogo in cui erano cresciute: se laprima generazione di migranti (arrivata da poco nel Paese d’accoglienza) tendeva a ripro-durre la criminalità del Paese d’origine, la seconda generazione si sarebbe “conformata”altipo di devianza esistente nella zona di approdo. Per questo motivo, ad esempio, gli ita-liani emigrati in America ad inizio secolo tendevano inizialmente a commettere soprat-tutto reati contro la persona (crimini di natura passionale tipici, a quei tempi, delle zonedell’Italia meridionale da cui provenivano), mentre con la seconda generazione, nata negliUSA, passavano a commettere soprattutto reati contro la proprietà (più usuali nellasocietà americana dell’epoca). Peraltro la teoria ecologica, se spiegava alcune caratteriz-zazioni su base etnica nella criminalità degli stranieri, non aiutava a comprendere le diver-se motivazioni individuali che stavano dietro il comportamento deviante di quegli immi-grati; non spiegava, inoltre, la maggiore propensione a delinquere esistente nella secondagenerazione di immigrati rispetto alla popolazione locale.Il sociologo americano Thorsten Sellin, alla fine degli anni Trenta, sposta l’attenzione dal-l’ambiente fisico che circonda le popolazioni immigrate all’ambiente culturale entro ilquale sono inserite, elaborando così la teoria del conflitto culturale: secondo Sellin, ognisocietà ha proprie norme di condotta che indicano come devono comportarsi coloro chesi trovano in determinate situazioni e che vengono trasmesse da una generazione all’altra.Ma in determinate situazioni, come ad esempio accade nel caso dell’immigrazione da unPaese all’altro, le norme di comportamento seguite all’interno di un gruppo sociale entra-no in contrasto con le norme imposte dalla società di riferimento, ed avviene quindi un

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conflitto fra la cultura di provenienza e quella ospitante. Questo conflitto fra norme e cul-ture differenti può portare ad una situazione di “conflitto interiore” (o anomia) all’internodegli individui che si trovano in tale situazione, favorendone un comportamento deviante.In particolare tale conflitto culturale tenderebbe a manifestarsi non tanto negli immigratidi prima generazione (ancora orgogliosamente legati alla cultura ed ai valori della societàd’origine) ma soprattutto nella seconda generazione, che vive il contrasto fra le norme dicomportamento trasmesse dai genitori e proprie di una cultura ormai lontana e spessodisprezzata, e quelle trasmesse dalla società ospitante (attraverso il contatto con le istitu-zioni scolastiche e con i pari età), nella quale ancora non ci si sente perfettamente inte-grati. Per questo motivo i tassi di criminalità degli immigrati seguirebbero percorsi ana-loghi a quelli della cultura d’origine nella prima generazione, per poi crescere nella secon-da generazione, uniformandosi alla tipologia di reati propria della società ospitante.Se le teorie viste finora, per spiegare la propensione criminale di certi settori della popo-lazione immigrata, enfatizzavano il ruolo dell’ambiente (fisico o culturale) in cui essi vive-vano, la teoria della frustrazione strutturale di Robert K. Merton pone invece l’accentosull’individuo deviante e sui percorsi psicologici che possono condurlo a delinquere. PerMerton ogni uomo è essenzialmente un animale sociale che durante le fasi dell’infanzia edell’adolescenza interiorizza le norme della società di riferimento e le fa proprie. In ognisocietà esistono delle mete culturali, ossia degli obiettivi generalmente condivisi dallamaggioranza degli appartenenti ad una formazione sociale (nelle società occidentali, adesempio, tali mete possono essere rappresentate dal prestigio sociale o dalla ricchezzaindividuale, ecc.); ed esistono dei mezzi, ossia degli strumenti a disposizione di ciascunindividuo per raggiungere tali mete (il lavoro, il risparmio, l’istruzione, ecc.). Tali mezzi,però, all’interno di ciascuna struttura sociale sono distribuiti in maniera squilibrata fra isuoi vari membri, che si ritrovano così ad avere opportunità diseguali di raggiungere lemete prefissate.Secondo questa teoria, quindi, l’individuo che commette un reato è spinto da una situa-zione di frustrazione strutturale, provocata dallo squilibrio esistente fra le norme cultura-li, che fissano le mete da raggiungere, e la struttura sociale, che nega pari opportunità atutti i suoi membri: alcuni di questi membri, pur condividendo le mete fissate dallasocietà, rifiutano i mezzi leciti previsti per raggiungerle e cercano di arrivare all’obiettivocomune (il successo economico) attraverso mezzi illeciti (i crimini). In particolare gliimmigrati sarebbero portati a delinquere perché farebbero propria la meta culturale delpaese in cui sono entrati (il successo economico) senza, però, avere le reali opportunità diraggiungerla. Questa teoria è detta anche della “deprivazione relativa”perché secondo talistudiosi non sarebbe necessario appartenere alle classi sociali economicamente più disa-giate per avvertire quella “frustrazione strutturale” idonea a spingere al comportamento

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criminale: ogni individuo, infatti, adatta le mete che intende raggiungere (le proprie aspi-razioni personali) al gruppo di riferimento in cui si trova inserito. Per questi motivi siparla di deprivazione “relativa”: un esponente delle classi agiate (i cosiddetti “colletti bian-chi”) non commetterà reati per procurarsi i mezzi di sussistenza (che già possiede) ma perelevare ulteriormente il proprio livello economico e prestigio sociale; allo stesso modo, leseconde generazioni di immigrati saranno portate a delinquere in maggior misura, rispet-to alle prime generazioni, per poter ambire ad obiettivi più elevati (e più difficilmente rag-giungibili) rispetto a quelli dei loro genitori. La teoria di Merton si sofferma, quindi, sullacomponente psicologica dell’individuo che sceglie di delinquere, all’interno di un contestosociale che influenza tali scelte; peraltro, essa appare maggiormente adatta a spiegare icomportamenti devianti all’interno di società utilitaristiche e fortemente competitive comequella americana (in cui le mete sociali sono condivise da tutti, ma non da tutti raggiun-gibili) piuttosto che altrove. Inoltre essa fornisce chiavi di lettura convincenti per i reati ditipo predatorio o contro la proprietà, mentre risulta meno convincente per comprenderealtri tipologie di delitti.Un’ulteriore teoria criminologica scaturita in seguito agli studi della scuola di Chicago è lateoria del controllo sociale, elaborata inizialmente dal filosofo americano George HerbertMead, e poi sviluppata nel secondo dopoguerra da numerosi studiosi statunitensi meglioconosciuti come “neo-Chicagoans”. Secondo Mead l’uomo costruisce la propria personalitàattraverso una ripetuta serie di interazioni con la società circostante e con i gruppi socialipresenti al suo interno. Questo processo comunicativo fra società da una parte ed indivi-duo dall’altro determina una sorta di “controllo” che la società stessa esercita nei confron-ti di ogni individuo e che gli impedisce di compiere azioni considerate devianti o criminalidal gruppo sociale di riferimento. Questo controllo sociale può essere un controllo concre-to, esercitato all’esterno dell’individuo stesso (per mezzo di svariate forme di sorveglianzaesercitate dalle cerchie sociali frequentate da quel soggetto, per scoraggiare od impedire isuoi comportamenti devianti) oppure al suo interno (attraverso sentimenti di colpa o divergogna che prova chi viola una norma o l’attaccamento psicologico ed emotivo provatoper gli altri e il desiderio di non perdere la loro stima e il loro affetto).In quest’ottica è chiaro che le probabilità che una persona violi la legge sono tanto mino-ri quanto più numerosi sono i vincoli che lo legano agli altri e più forte è il controllo socia-le esercitato su quel soggetto. Per quanto riguarda, ad esempio, il fenomeno dell’immi-grazione, è innegabile il fatto che i soggetti provenienti da Paesi lontani siano spesso pocointegrati nella società di arrivo e manchino di legami forti con altre persone significativee cerchie sociali di riferimento. Inoltre tale teoria chiarisce ulteriormente le ragioni dellamaggiore propensione a delinquere presente nella seconda generazione di immigrati, chesarebbe dovuta al progressivo indebolimento di quei legami tra i figli ed i genitori che

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costituiscono una delle primarie forme di controllo sociale esercitate su ogni individuo.Un secondo filone della teoria del controllo sociale, denominato interazionismo simbolico,prende invece le mosse dal controllo sociale di tipo simbolico che viene esercitato su ogniindividuo attraverso il linguaggio e le altre interazioni di tipo discorsivo o comunicativo.Secondo Mead ed altri studiosi (come Herbert Blumer alla fine degli anni Sessanta) l’uo-mo progredisce e comprende la realtà che lo circonda grazie al linguaggio ed ai processicomunicativi. È attraverso queste interazioni linguistiche con la società circostante cheogni individuo arriva a definire ciò che lo circonda, a riempire di significati le azioni pro-prie e quelle degli altri membri della società. Questo insieme di definizioni convenzional-mente condivise all’interno della società guida le azioni di ogni individuo, e genera quin-di controllo sociale: un controllo meno visibile di quelli a cui si faceva riferimento in pre-cedenza ma forse più efficace, perché investe potenzialmente ogni comportamento dell’in-dividuo stesso. Ad esempio, per quanto riguarda un comportamento criminale, ogni qualvolta si definisce all’interno di un gruppo sociale una determinata azione come “illecita”,e tale definizione diventa condivisa da tutti gli appartenenti a quel gruppo, si genera uncontrollo sociale indiretto che guiderà il comportamento di ciascun individuo di quelgruppo, spingendolo a non commettere quella determinata azione.Dalla teoria dell’interazionismo simbolico trarranno ispirazione tutti quei filoni di “crimi-nologia critica” che porranno in rilievo i possibili effetti distorsivi di tale tipo di controllosociale all’interno delle società di massa contemporanee. In particolare, per tornare altema della criminalità degli immigrati, da tali riflessioni scaturiscono le ricerche di tuttiquegli autori denominati “teorici dell’etichettamento”, che hanno messo in luce i pericoliprovenienti dall’etichettare come “deviante” o “particolarmente propenso a delinquere” undeterminato gruppo sociale (come appunto gli immigrati, le bande giovanili o altre cate-gorie di popolazione marginale), attraverso il proliferare di stereotipi e di definizioni sim-boliche contenute nei mezzi di comunicazione di massa. Attraverso la diffusione massme-diologica di queste “etichette sociali” apposte su tali gruppi, si corre, infatti, un duplicerischio: da un lato, quello di diffondere tali stereotipi nell’opinione pubblica, trasforman-doli in “definizioni socialmente condivise” e rendendo quindi tali gruppi “nemici pubblici”della società stessa; dall’altro lato, quello che i soggetti che fanno parte dei gruppi consi-derati devianti (demonizzati ed isolati dal resto della società) si identifichino ulteriormen-te con le definizioni e con il “ruolo” assegnato loro dalla società, finendo per amplificareed incrementare il proprio livello di devianza in una sorta di “interazione simbolica” alcontrario.

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note

1 I dati statistici relativi ai tassi di criminalità degli immigrati stranieri in Italia sono presi daM.Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002.

2 Cfr. M.Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002 3 Per fare un esempio concreto, fino ai rapporti sullo stato della sicurezza relativi all’anno

1998, si pensava che Modena fosse la capitale italiana relativamente al reato di truffa, poi-ché il tasso per centomila abitanti, calcolato sul totale dei reati registrati nel solo capo-luogo, era all’incirca pari al triplo del valore medio regionale, ed era ben al di sopra deglistessi valori registrati nelle principali città italiane. Nell’anno seguente si scoprì che, nelperiodo dal 1994 al 1997, si erano verificati in realtà dei “disguidi nella raccolta delledenunce per questo particolare tipo di reato”, che avevano reso totalmente inattendibilii dati in questione: si passò, così, dalle circa 1.500 denunce all’Autorità Giudiziaria regi-strate nel 1997 alle 101 truffe denunciate nel 1998, dato finalmente da ritenersi plausibi-le per una realtà socio-economica come quella modenese.

4 I dati relativi alle interviste effettuate con i cittadini residenti in Emilia-Romagna di nazio-nalità italiana e straniera sono, rispettivamente, tratti da M.E.Luciani, G.Sacchini (a curadi), La sicurezza dei cittadini in Emilia-Romagna. 1997-1998, Milano, Franco Angeli, 2000e da D.Melossi, Multiculturalismo e sicurezza in Emilia-Romagna: prima parte, in Quadernidi Città Sicure n.15, Bologna, 1999.

5 Esempi assai interessanti di tali ricerche attengono alla pratica dello stop and search daparte della polizia britannica: già uno studio condotto a metà degli anni Novanta dallaPolizia Metropolitana di Londra metteva in evidenza che la popolazione nera era fermata(stopped) circa tre volte di più di quella bianca e che esisteva una maggiore propensionedegli agenti a procedere ad una perquisizione personale (search) quando si trattava di unfermato appartenente ad un gruppo etnico minoritario (il 25% dei fermi a danno di neri sitraduceva in una perquisizione, contro il 18% per gli asiatici e meno del 10% per i bianchi).Una più recente ricerca sui fermi e sulle perquisizioni personali effettuate dal nucleo spe-ciale di polizia britannica attivo contro i ravers e gli hooligans negli stadi sottolineava comei neri fossero fermati circa 27 volte di più dei bianchi; e tutto ciò nonostante gli apparte-nenti alle due categorie “incriminate” fossero in netta prevalenza bianchi.

6 I principi teorici della polizia di prossimità, già sperimentati con successo in numerosi altriPaesi europei, dovrebbero trovare piena attuazione pratica anche in Italia attraverso l’i-stituzione del servizio del “Poliziotto di Quartiere”, figura già presente, in via sperimen-tale, in diverse realtà urbane e pronta a diventare pienamente operativa nei prossimimesi.

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le relazioni trapolizia, comunitàe persone di origineetnica minoritaria3

1 - Conoscenza e generalizzazioni

Quando alcuni anni fa noi dell’associazione COSPE fummo coinvoltinella formazione di operatori di polizia sui temi della multiculturalità, citrovammo subito di fronte alla richiesta dei partecipanti ai corsi di fornireconoscenze sulle culture Altre e una lista di “regole” di comportamento daadottare nei rapporti con le persone provenienti da altri Paesi. Resistemmoper qualche tempo a questa pressione, convinti, come siamo anche ora, chefornire delle informazioni in pillole su culture, religioni e pratiche diffusetra le persone di etnia minoritaria presenti in Italia e ricette di comporta-mento da usare al bisogno, portasse in sé il rischio di banalizzare un’e-spressione così complessa e, come vedremo, di così difficile definizione,come una cultura e di rafforzare proprio quegli stereotipi che invece inten-diamo combattere. Le domande che ci poniamo sono, per esempio, di que-sto tipo: quale verità svela affermare che gli arabi sono perlopiù musulma-ni e quindi pregano cinque volte al giorno? Forse la stessa dell’affermareche gli italiani sono cattolici e quindi vanno a messa tutte le domeniche!

Ci accorgemmo però che le nostre parziali risposte a queste richieste(ogni persona è un caso a sé, non possiamo generalizzare, pena ricorrere astereotipi che non trovano riscontro nella realtà) lasciavano totalmenteinsoddisfatta la sincera preoccupazione del personale di polizia, desidero-so di mostrarsi rispettoso nei confronti delle persone di origine etnicaminoritaria con le quali venivano in contatto e di instaurare con loro rela-zioni positive.

È per questo dunque che abbiamo inserito nel manuale questo capi-tolo e il successivo, sul tema delle culture e dei concetti di etnia, gruppo

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–- le relazioni tra polizia, comunità e persone di origine etnica minoritaria58

etnico e comunicazione interculturale. Confortati anche dall’esempio dellealtre polizie europee che da tempo formano i propri operatori al temadelle relazioni interculturali, abbiamo inserito in appendice alcune schedesulle religioni più diffuse e più praticate in Italia, oltre alla religione catto-lica. Proprio le esperienze delle altre polizie ci avvertono però che, nellacompilazione di queste schede, si producono inevitabili errori come, adesempio, non tenere conto delle diverse forme che una grande religionecome quella musulmana – e diffusa in Paesi molto diversi tra di loro – possaprendere. Per capire la grossolanità di alcuni errori nei quali si può incor-rere, immaginate di dovere raccontare in due o tre pagine i principi fon-danti, le pratiche, le liturgie, le relazioni tra le persone, la gerarchia eccle-siastica, ecc. della religione cristiana. Come raccontare di un’unica religio-ne mentre esistono differenze radicali tra cattolici, protestanti e ortodossi?E tra le varie e tante forme di protestantesimo? Come raccontare che ledonne cristiane non possono diventare preti quando la chiesa anglicana,senza essere per questo meno cristiana, ha ammesso le donne al sacerdo-zio da alcuni anni? Oppure che i preti fanno voto di celibato? O, ancora,che i cristiani vanno a messa la domenica e confessano al prete i loro pec-cati, mentre ciò non è affatto vero per le tante forme di protestantesimo?E se volessimo rimanere nell’ambito del cattolicesimo, come spiegare che lachiesa è contro l’aborto mentre in Italia, Paese definito cattolico, il refe-rendum sulla legalità dell’aborto del 1978 fu vinto grazie al voto massicciodi tante donne certamente cattoliche?

Senza contare che le culture (tutte le culture) si modificano nel tempoattraverso l’inevitabile contatto con le altre culture, al punto che anche ildiritto ne viene poi modificato e ciò che era legge ieri non lo è più oggi.Chi avrebbe infatti pensato cinquanta anni fa che il diritto di famigliasarebbe stato modificato radicalmente in Italia, passando ad una limitazio-ne drastica del diritto di paternità fino ad una sostanziale parità tra padree madre nella tutela dei figli. E quanto orrore ci fa oggi la sola espressione“delitto d’onore”!

Queste le preoccupazioni che abbiamo avuto presenti nell’elaborarele schede che trovate in appendice e che suggeriamo di considerare comeuna prima, generica traccia per il lavoro di ricognizione e di conoscenza delvostro territorio che vi permetterà di perfezionare e integrare le informa-zioni di queste stesse schede. E questa chiave di lettura vi preghiamo diavere presente quando consulterete quelle schede. D’altra parte, confidia-

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mo che la lettura dei capitoli 3 e 4 possa contribuire alla costruzione di unsolido riparo dalla tentazione di operare generalizzazioni arbitrarie.

2 – Le culture

Nei rapporti fra la polizia e i vari gruppi o categorie che compongo-no la società, quello con le comunità di persone di origine etnica minorita-ria o di culture straniere sembra suscitare particolare diffidenza tra le partie numerose incomprensioni.

Si sente spesso usare parole come “cultura”, “etnia”, “gruppo etni-co” nel contesto dei rapporti fra la polizia e gruppi della comunità. Non ènecessario che ogni poliziotto diventi un esperto di antropologia per capi-re il significato generale e l’importanza di questi concetti nel lavoro dellapolizia e, in ogni caso, non c’è nessun accordo sui significati precisi di que-sti termini nel mondo accademico le cui diverse teorie ed approcci sonobrevemente trattati in questo capitolo.

Qualunque sia l’approccio attraverso il quale analizziamo questi con-cetti, quello che rimane fondamentale per la polizia é conoscere bene lasocietà e il territorio che serve. Una parte di questa conoscenza costituiscel’intelligence: chi fa che cosa, chi esce di galera, chi dispone improvvisa-mente di molti soldi, chi sparisce, chi frequenta chi, quali famiglie sembra-no entrare in crisi ecc. Ma dietro questo ci deve essere una conoscenza deimodi di vivere, delle abitudini, dei valori delle persone che abitano nellezone per le quali siete responsabili, informazioni, queste, necessarie perinterpretare fatti ed accadimenti. Una folla davanti alla chiesa alle otto disera il lunedì può attrarre la vostra attenzione in modo diverso da una folladavanti a una chiesa alle undici di mattina la domenica perché conoscetele usanze religiose dei cattolici. Ma conoscete le usanze dei musulmani cheabitano nella vostra zona? Una grande bagarre in un angolo della piazzaprincipale il lunedì mattina può stimolare una diversa attenzione in unpoliziotto di una bagarre fra anziani alla stessa ora se il poliziotto è abi-tuato alle discussioni, il giorno dopo la partita, sui risultati del calcio. Macome bisogna reagire ad una bagarre fra operai nigeriani o industriali cine-si? È chiaro che la conoscenza che abbiamo della società nella quale siamocresciuti è sofisticata e sottile. Abbiamo ottimi modi per capire il compor-

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tamento di persone secondo se sono maschi o femmine, bambini o adole-scenti, di mezza età o anziani, secondo il loro ceto sociale, le origini regio-nali, se sono cristiani o ebrei e tanti altri fattori. Senza questa comprensio-ne di base, l’intelligence che possiamo raccogliere per prevenire o indaga-re reati serve a poco. È in questo senso che parliamo di rapporti fra cultu-re o gruppi etnici ed è chiaro che i problemi sono reciproci. Persone cheprovengono da zone dove la polizia è, o è percepita come, completamen-te inaffidabile o semplicemente il braccio armato di un regime dittatoria-le, possono avere difficoltà a fidarsi di voi, così come potrebbero anche nonfidarsi di voi perché sono costantemente oggetto di controlli da partevostra (su questo argomento si veda il capitolo 2).

Quindi, una sfida per la polizia oggi è di trovare modi di valutare irapporti esistenti fra la polizia e tutti i gruppi nel territorio e di fare inmodo che essi continuino in maniera positiva e soddisfacente o venganomigliorati dove necessario.

2.1 - Che cosa si intende per cultura

Sebbene ogni individuo sia unico, dobbiamo riconoscere che i suoivalori e le sue azioni sono molto legati alle aspettative e alle norme preva-lenti nella società in cui vive. In una definizione semplice, possiamo dire chela cultura consiste dell’insieme dei valori degli appartenenti ad un deter-minato gruppo, delle norme che essi seguono e dei beni materiali che essiproducono, è insomma l’insieme dei valori e dei sistemi di comportamentoche permettono a quel gruppo di persone di attribuire senso al mondo.

La lingua che si parla è un elemento importante di una cultura ed idiversi linguaggi sono spesso rivelatori di idee e concetti di una cultura,compresi quelli che tendono a perpetuare e rafforzare la disparità e lo svan-taggio. La cultura e il linguaggio che la esprime fanno da sfondo ad ogniaccadimento della vita e producono pensieri e azioni che sono date perscontate e diventano routine da non mettere in discussione. Spesso posso-no quindi avere l’effetto di veicolare idee e concetti che vanno al di là di ciòche veramente si intende, anche nell’inconsapevolezza dello stesso autore.

È anche a livello culturale, oltre che individuale e sociale, che gruppie individui possono essere esclusi ed emarginati nella creazione di un “noi”

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e di un “loro”. È chiaro che il senso di appartenenza, il dare per scontateuna serie di cose, ha anche un aspetto positivo, quello di sentirsi sicuri eintegrati e di avere radici e ci permette di affrontare il quotidiano senzadovere mettere in dubbio qualsiasi cosa facciamo, è insomma uno stru-mento necessario per non avere un corto circuito informativo.

Molte persone sono orgogliose della propria cultura perché essaesprime ciò a cui danno valore, cosa sono e cosa vogliono essere ma il peri-colo, sempre in agguato, nel quale si rischia di incorrere, è l’etnocentrismo,cioè la tendenza a vedere il mondo attraverso i limitati confini della pro-pria cultura e a proiettare su altri gruppi il proprio insieme di valori enorme. L’etnocentrismo offre il maggiore contributo al razzismo perché:

> non riconosce le differenze culturali e la loro importanza per lepersone coinvolte;

> si basa sull’erronea premessa che ci sono culture superiori allealtre.

L’etnocentrismo si traduce spesso nella riduzione di un’altra cultura apochi, stereotipati, elementi: gli albanesi sono violenti, i cinesi sono furbi,gli italiani sono brava gente. Eppure, appena ci accorgiamo dell’enormecomplessità di ogni cultura umana, appare immediatamente ridicolo ope-rare questa generalizzazione e stilare una gerarchia delle culture, cosìcome è insensato fare una gerarchia del cibo, della famiglia, del lavoro. Sitratta in tutti i casi di concetti così ricchi, così complessi e così difficilmentecomprensibili, se non inquadrati nel contesto ampio e ancor più complessodella cultura che li produce, che paragonarli l’uno con l’altro non ha senso.Questo non significa che tutto è “relativo”, che non possiamo più dire “iocredo che provocare dolore inutilmente sia cattivo” o “io credo che aiuta-re il prossimo sia una cosa buona”. Questi giudizi però vanno riferiti cia-scuno ad un elemento particolare di una cultura e non ad una cultura nelsuo complesso. Si può quindi criticare come vengano trattate le donne inuna certa cultura e, al tempo stesso, ammirare il sistema giuridico di riso-luzione dei conflitti di quella stessa cultura.

L’incontro con le altre culture è un momento di arricchimento perchéci offre la possibilità di estendere i confini dell’identità personale e socia-le. Tuttavia, quell’incontro può anche disorientare, mettendoci a confron-to con mondi così diversi che addirittura certe cose possono apparire pernoi moralmente ripugnanti mentre sono un gesto splendido per un’altracultura. Per esempio, come ci racconta efficacemente Mantovani1, nono-

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stante la pratica sia oggi bandita, nell’87 ci raggiunse la notizia di un epi-sodio di suttee in India: una studentessa si immolò sulla pira dove bruciavail cadavere del suo sposo, così come avevano fatto la gran parte delle vedo-ve indù prima di lei. A noi ciò può sembrare ripugnante e immorale ma permolte delle persone che appartengono a quella cultura quell’atto, non soloè dotato di senso, ma è addirittura “santo”, perché nella concezione indùla morte non è la fine della vita ma l’inizio di qualcos’altro.

Come comportarci dunque di fronte a queste sconcertanti differen-ze? La risposta non è facile, però è d’aiuto sapere che queste differenze esi-stono, essere preparati ad un incontro che può essere anche molto diso-rientante, non abdicare a principi che riteniamo imprescindibili (per esem-pio quelli che fanno riferimento ai diritti umani) e nel contempo nonrespingere nella “incultura” o inciviltà, nella barbarie, ciò che è “semplice-mente” diverso. D’altra parte, per tenere alta la guardia su questo feno-meno, possiamo sottolinearne l’universalità. È vero infatti che certe cultu-re sono più aggressive di altre ma è altrettanto vero che nessuna cultura èesente dal produrre pregiudizi. Non sono pochi i popoli che dividono l’u-manità in due: gli Uomini, cioè se stessi, e gli altri, qualunque cosa ciò signi-fichi e qualunque effetto possa determinare nei rapporti con essi.

Per molto tempo gli europei hanno pensato che esistesse un’unicastoria lineare del progresso umano e che in essa le culture dovessero esse-re collocate in un continuum che, partendo da forme più arretrate e “pri-mitive”, salissero fino alla cultura per eccellenza, quella occidentale moder-na. Questa concezione è ora respinta da tutte le discipline sociali, prima fratutte l’antropologia. Senza lanciarci in disquisizioni teoriche complesse,appare evidente che ogni cultura ha dei problemi nel sistema di valori cuisi ispira e difficilmente si potrà trovare una cultura che sia migliore, più giu-sta o anche solo più razionale di un’altra: non è forse nostra la prerogati-va di avere schiavizzato e deportato milioni di neri dall’Africa o di avereucciso la quasi totalità degli indios delle Americhe, o, ancor più recente,l’uccisione di milioni di ebrei, zingari, persone omosessuali e dissidenti poli-tici? E non siamo forse noi gli stessi che affittiamo le camere ad affitti inde-centi agli immigrati, che siamo i clienti delle prostitute nigeriane e albane-si e quelli che offrono i documenti necessari ad ottenere il soggiorno solodietro il pagamento di una mazzetta?

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Ti invitiamo a riflettere sul concetto di cultura e a tentarne una definizione:

La cultura è....................................................................................................................................................................................................................

....................................................................................................................................................................................................................

....................................................................................................................................................................................................................

....................................................................................................................................................................................................................

Fatto? È stato semplice?

È cosa complessa cercare di capire le culture, compresa la propria; signifi-ca prendere in considerazione molti aspetti della vita, alcuni dei quali sonomeglio visibili, mentre per altri bisogna indagare a fondo.Ti proponiamo diseguito una lista di elementi che contribuiscono a definire una cultura e tiinvitiamo a cercare di rispondere pensando alla cultura alla quale senti diappartenere (per esempio, italiana o italiana del Nord, o altro):

> Cosa è bene e cosa è male secondo la cultura alla quale senti diappartenere?

> Qual è la struttura familiare?> Come sono le relazioni tra uomini e donne?> Come sono percepiti spazio e tempo?> Quali tradizioni sono importanti?> Quali lingue si parlano?> Quali norme e consuetudini regolano il consumo di cibo e bevande?> Come circola l’informazione?> Chi ha il potere e come lo ottiene?> Come si reagisce alle altre culture?> Cosa è ritenuto spiritoso e buffo?> Che parte ha il gioco?> Che ruolo gioca la religione?

La lista si può allungare. Hai in mente elementi che si potrebbero aggiun-gere?

Alcune risposte potrebbero sembrare ovvie ma non lo sono perché cambia-<

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no secondo i tempi e i luoghi e anche rispetto a sottogruppi di appartenen-za: pensiamo ad esempio a chi è italiano e di religione valdese, o di lingualadina. Che dire poi delle opinioni politiche che in ognuno di noi possonosegnare differenze anche molto marcate nei comportamenti e nell’indicarein modo inequivocabile la nostra appartenenza ad una cultura, al punto chesi parla anche di “sub-culture” per indicare le differenze che segnano grup-pi diversi all’interno di una stessa matrice culturale. Per esempio la sub-cul-tura giovanile e ancora, al suo interno, potremmo distinguere i diversi seg-menti dei neo-punk e dei giovani in carriera che indicano addirittura stilidi vita diversissimi e quasi opposti!Siamo convinti che, nel complesso, non sia stato facile rispondere alledomande, sebbene ti avessimo proposto di applicarle alla cultura nellaquale meglio ti riconosci.Aggiungiamo a questa lista un’altra domanda alla quale ci sembra interes-sante rispondere: a quale aspetti o elementi della tua cultura di apparte-nenza sei disposto a rinunciare?Dopo avere cercato di rispondere alle domande alle quali anche tu hai cer-cato di rispondere abbiamo fatto le seguenti osservazioni che proponiamoalla tua valutazione:

• la cultura italiana è ricca e complessa, tanto che possiamo indivi-duare diverse culture “regionali” o di porzioni ancora più limitate.Non esiste dunque “una cultura italiana” e tantomeno ne esiste“una” immobile nel tempo;

• non è sempre facile riconoscere la propria identità culturale né leproprie origini o ‘retroterra’ culturale o etnici;

• non è possibile conoscere tutto della cultura italiana;• nessuno incorpora o esprime tutta la cultura italiana ma solo una

parte;• nessun individuo può rappresentare la cultura italiana.

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Quindi:

• possiamo supporre che ogni cultura sia ricca e complessa e mute-vole nel corso del tempo;

• una cultura è più grande dell’identità culturale di qualsiasi indivi-duo;

• l’identità etnica e culturale di una singola persona non rappresen-ta la totalità di un’etnia o cultura;

• non importa quanto sai di un’etnia o di una cultura, la persona cheti trovi davanti non è una cultura, non rappresenta una cultura enon è “tipica” di una cultura, è un individuo.

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per chi vuole approfondire

Cosa sia una cultura è tema dibattuto e controverso, per lo più studiato in campo antro-pologico, tanto da fare dire ad alcuni autori (Clifford) che il concetto di cultura è “un imba-razzo”,“un impiccio” per le sue incongruenze e per lo scarso potere di essere un elementodi riferimento sia sul piano empirico che teorico.È solo alla fine del Settecento che il termine cultura viene usato in riferimento a popoli enazioni e non più solo come attributo dell’individuo “colto”. Si deve ad Edward Tylor unaprima, fortunata, definizione di cultura:

«La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complessoche include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasialtra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società». (Tylor, 1871)

Franz Boas, un altro padre fondatore della moderna antropologia culturale, fondava leproprie ricerche sull’assunto che una cultura è data dall’esistenza di una storia comunead un gruppo e di una lingua nella quale si esprime la cultura in questione. Nell’accezionedi Boas, e di tutta l’antropologia moderna, le culture non esistono in una gerarchia masono pari tra loro, anche se stereotipi, pregiudizi e oppressioni sono lì a dimostrare cheesistono dei rapporti di forza tra gruppi diversi.Oggi si tende a vedere la cultura come il risultato di un accordo tra individui che “nego-ziano” un certo significato. Ne segue che la cultura non è definita una volta per tutte maè qualcosa che scaturisce da un’interazione e da un accordo tra soggetti comunicanti e,dunque, in continuo movimento.C’è poi chi (Mantovani) vede la cultura come un insieme di mappe che ci sono fornite eper mezzo delle quali esploriamo la realtà. Quando ci avventuriamo in terre sconosciutenon possiamo fare a meno delle mappe ma dobbiamo anche sapere che, per quanto accu-rate, esse non esauriscono il territorio e ogni individuo dovrà trovare un proprio modo diorientarsi una volta trovati i capisaldi forniti dalla mappa. Inoltre, le persone usano le loromappe più o meno lacunose per orientarsi rispetto ai propri obiettivi e per questo ognu-no arricchisce di dettagli importanti la sua mappa che può dunque differire anche note-volmente dalla mappa di uno stesso territorio perfezionata da un’altra persona.Si è però anche affermata in un passato recente l’idea di cultura come qualcosa di analogoai programmi del computer e c’è chi ha definito la cultura come “il software della mente” 2.Secondo Hofstede, ogni persona ha un software mentale, costituito da una serie di file disistema. È la cultura che definisce la programmazione mentale collettiva che distingue imembri di un gruppo o categoria da quelli di un altro gruppo o categoria. Nonostante icontinui e sempre più rapidi cambiamenti in tutte le società del mondo globalizzato,

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«tutte le società umane hanno in comune alcuni problemi di base che sono sempre esisti-ti e che continueranno ad esistere. Sono i problemi di (in)uguaglianza, della solidarietà digruppo, del ruolo dei generi, del futuro incerto e del bisogno di gratificazioni. Nel corsodei millenni le diverse società hanno sviluppato le proprie soluzioni a questi problemi e lehanno trasmesse alle generazioni successive. Per coloro che appartengono ad una societàle proprie soluzioni appaiono naturali, razionali e moralmente giuste, ma da una societàall’altra le soluzioni sono diverse e per ragioni che non appaiono sempre ovvie. Questo èl’ambito dei valori fondanti che costituiscono l’elemento centrale delle culture nazionali esi scopre ciò solo quando si entra in contatto con un’altra cultura».3

Questa visione è però giudicata insoddisfacente da alcuni perché considera la culturacome qualcosa che rende tutto uniforme e non rende possibile la comprensione della gran-de variabilità di credenze, convinzioni e comportamenti anche tra persone appartenenti aduna stessa cultura. Inoltre essa sembra sottostimare il fatto che le culture si incontrano incontinuazione e si scambiano idee, oggetti, persone e che tutte le culture sono il prodottodi interazioni, di scambi, di influssi provenienti da altrove: non esiste dunque una cultura“pura”.

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Ogni società è profondamente influenzata da ogni altra ed è il risultato di dinamiche che si sviluppanoal proprio interno e di influenze indotte dalla presenza di altre culture che ogni società assorbe e riela-bora secondo le proprie premesse culturali e le proprie strutture sociali.Di ciò dà conto il brano che riportiamo, citato in L’identità etnica (Fabietti, 1998) da Studio dell’Uomo,un trattato di antropologia pubblicato nel 1936 da Ralph Linton:

“Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nelvicino Oriente ma che venne poi modificato nel Nord Europa prima di essere importato in America.Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria del vicino Oriente; odi lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu sco-perto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicinoOriente. Si infila i mocassini, inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, icui accessori sono un misto di invenzioni europee ed americane, entrambe di data recente. Si leva ilpigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni gal-liche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani(…).Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’an-tica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di elementi presi daaltre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è d’acciaio, legafatta per la prima volta nell’India del Sud, la sua forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio èun derivato dell’originale romano (…).Quando il nostro amico ha finito di mangiare si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondoun’abitudine degli indiani d’America (…).Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su diun materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i reso-conti dei problemi che s’agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano.”

Fabietti U., L’identità etnica, Carrocci Editore, Roma, 1998. pag 22/23

ogni società è profondamente influenzata

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3 - L’invenzione dell’etnia

È difficile separare nettamente i concetti di cultura, “razza” ed etnia(ed anche nazione) perché essi sono stati spesso usati come equivalenti,non solo nel linguaggio quotidiano ma anche nel linguaggio scientifico ela fortuna di un concetto, piuttosto che di un altro, è molto legata almomento storico, alla società che l’ha prodotto e per quali fini4.

In realtà tutti questi termini, ed in particolare quello di etnia, sonodelle invenzioni: non delle creazioni fantastiche, beninteso, ma “una fab-bricazione a partire da alcuni dati reali la cui unicità viene enfatizzata,esagerata, allo scopo di determinare in senso unico l’oggetto preso in con-siderazione” (Fabietti). A volte il disegno che sostiene questa invenzioneappare inequivocabilmente chiaro. I WASP (White Anglo-Saxon Prote-stant) sono il gruppo che si è consolidato prima dell’arrivo della grandeemigrazione negli Stati Uniti e quindi quello che aveva accumulato pote-re e ricchezze. Per difendere tutto ciò si sono creati diversi miti e la pauradi perdere privilegi ha prevalso persino sulla realtà di una società oggiben diversa. Così le potenze coloniali si servivano dei primi studi antropo-logici per enfatizzare delle divisioni tra gruppi, fissandole poi in etnie, concaratteristiche distinte e irriducibili, allo scopo di dividere le popolazionidominate e prevenire eventuali progetti di unità. Così fecero i francesi inAlgeria (contrapponendo arabi e berberi) e così fecero i britannici stabi-lendo gerarchie tra i gruppi dei territori da loro controllati. Insomma, ilconcetto di etnia, così come quello di cultura, nasce in anni lontani peraffermare la distinzione tra “noi” e “loro”, dove per loro si intendevanole società cosiddette “primitive”. Ne è un retaggio ancora oggi l’uso che sifa dell’aggettivo “etnico”, per esempio associato alla musica per indicarela musica degli “altri”, oppure la moda e la cucina, rimandando all’idea diun mondo originale e primitivo, quello che esiste prima e al di là dell’arri-vo della società postindustriale avanzata. Eppure, per la definizione stes-sa di “etnia” e “gruppo etnico” che qui abbiamo riportato, non esistonodifferenze tra gli abitanti della Val Camonica e quelli della Valle delLimpopo. Non si capisce infatti perché i modelli di Armani siano da consi-derare meno “etnici” di quelli delle signore eritree quando usano il pro-prio abbigliamento tradizionale. O perché la musica di Mozart non possadefinirsi etnica.

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Eppure, ci dicono gli antropologi, questo è un uso distorto dei termi-ni coniati dall’antropologia che devono essere intesi per quello che sono,delle “finzioni”, cioè delle convenzioni che rendono possibile un discorso,ed essere sempre vigili affinché non ne venga fatto un uso totalmentedistorto come è accaduto e sta tuttora accadendo in Italia, dove sono statiinventati miti di etnie del Nord semplicemente per giustificare dei cambia-menti nell’assetto istituzionale del Paese e dove essi rappresentano l’e-spressione di interessi precisi di certi strati sociali. A questo punto l’etnia èintesa non come strumento di analisi ma come ideologia, altrettanto falsadi quella che esalta l’italianità, come se in Italia esistesse un’unica etnia enon fosse invece, l’Italia, il risultato del sovrapporsi di gruppi e tradizionidiversi.

Cercare di definire l’etnia e il gruppo etnico, di nuovo, come per il con-cetto di cultura, si presenta dunque come compito arduo poiché ogni con-cetto sfuma facilmente nell’altro. Tuttavia, è generalmente considerato ungruppo etnico un gruppo di persone che condividono un’identità collettivabasata su un senso comune della storia degli antenati. I gruppi etnici pos-siederebbero quindi una cultura propria, dei costumi, delle norme e delletradizioni. Altre caratteristiche che si riconoscerebbero condivise sono la lin-gua, le origini geografiche, la letteratura e la religione. Un gruppo etnicopuò essere maggioritario o minoritario in una più ampia comunità.L’etnicità è un fenomeno culturale e distinto da quello di “razza” che è per-cepito avere una base biologica: la cultura è appresa e tramandata di gene-razione in generazione e, come si è visto, evolve e cambia e il riconosci-mento di questa fluidità è importante in modo da non stereotipizzare ungruppo etnico in un insieme fisso di espressioni della sua identità culturale.

3.1 - Pregiudizio e stereotipo

È difficile distinguere pregiudizi e stereotipi nel linguaggio comune equotidiano, così come nelle teorie scientifiche. I pregiudizi sono giudizi checi facciamo su altri senza conoscerli e, essendo appresi come parte del pro-cesso d’inculturazione, sono molto resistenti. Il pregiudizio etnico è la pre-disposizione a percepire, giudicare, agire in maniera sfavorevole nei con-fronti di appartenenti a gruppi etnici diversi dal proprio.

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Secondo teorie di stampo psico-sociale, lo stereotipo è una forma diorganizzazione preventiva dei dati necessaria alla conoscenza di unarealtà che, a causa della sua estrema complessità, non può essere conosciu-ta in quanto tale ma solo attraverso dei processi di semplificazione e diorganizzazione delle conoscenze5. La categorizzazione è il principale diquesti meccanismi e avviene raggruppando stimoli ed eventi in insiemi ilpiù possibile omogenei. Una volta formati, tali insiemi tendono a perma-nere immutati anche di fronte ad esperienze diverse, in questo modo con-dizionando a loro volta i processi cognitivi di percezione ed elaborazionedei dati della realtà. L’altro processo che entra in gioco nella formazionedei pregiudizi è la generalizzazione, cioè la tendenza costante della menteumana ad estendere ad ampie serie di eventi le osservazioni effettuate suipochi eventi disponibili. Dalla combinazione di categorizzazione e genera-lizzazione nasce lo stereotipo, ossia una combinazione di immagini fisse,valutazioni e aspettative che si aggiungono ad una categoria per descri-verla e per giustificare il nostro comportamento.

Allo stereotipo viene però riconosciuta anche un’origine sociale inquanto deriva essenzialmente dal contesto culturale, economico e politicoe svolge l’importante funzione di spiegare e razionalizzare l’organizzazio-ne sociale esistente: lo status dei gruppi, le dinamiche di maggioranza eminoranza, la distribuzione sociale delle risorse, i processi di produzione etrasmissione della cultura e delle ideologie sociali ed è in concreto ciò cheattiva le dinamiche psico-sociali di differenziazione. Le teorie di stamposociale trovano che questi elementi siano determinanti e che, dunque, lostereotipo non sia il risultato di un’errata procedura cognitiva ma sia piut-tosto il risultato del contesto nel quale avviene la definizione dell’identità,perché ogni cultura fornisce un insieme di credenze che orientano i giudi-zi e i pre-giudizi dei suoi membri. Tanto è vero che gli stereotipi cambianonel tempo, col cambiare delle condizioni storico-politiche, come è dimo-strato da ricerche condotte negli USA che mostrarono come nel 1951 glistereotipi che descrivevano i giapponesi e i tedeschi (nemici fino a pocotempo prima nella guerra) avevano connotazioni estremamente negativee ostili mentre, col passare degli anni, emergevano caratteristiche comel’industriosità e l’intelligenza.

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Fai una lista di stereotipi sugli “extracomunitari”.

es.– spacciatori..................................................................................................................................................................................................

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Fai una lista di stereotipi sui “poliziotti”.

es.– violenti..................................................................................................................................................................................................

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Rispondi alle seguenti domande:

> Si tratta di cose vere o false?> Esistono cittadini non comunitari che non corrispondono a questa

descrizione? > Esistono poliziotti che non corrispondono a questa descrizione?> Se sì, allora qual è il processo che interviene nella creazione di uno

stereotipo?> Che ruolo hanno i mezzi di comunicazione di massa nel creare,

diffondere e rafforzare uno stereotipo?> C’è in gioco un elemento di “potere” nella creazione e riproduzione

di uno stereotipo?

Come sempre, abbiamo cercato di rispondere alle stesse domande equeste sono le nostre osservazioni:

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le relazioni tra polizia, comunità e persone di origine etnica minoritaria -– 73

• Gli stereotipi sono socialmente condivisi e creare stereotipi spessoriflette il potere culturale e sociale di un gruppo su un altro grup-po. I nostri giudizi e le giustificazioni che ne diamo sono fortemen-te influenzati dal nostro etnocentrismo: ciò significa che siamo con-vinti che la nostra risposta al mondo – la nostra cultura – è quellagiusta, gli altri “sbagliano” o “non sono normali”. Ci sembra che inostri valori e il nostro modo di vivere siano universali e correttiper tutti, gli “altri” sono semplicemente troppo stupidi per capirequesta ovvietà. Il semplice contatto con persone appartenenti adaltre culture può addirittura rafforzare i nostri pregiudizi tanto gliocchiali del nostro etnocentrismo ci rendono ciechi a tutto trannea quello che vogliamo vedere. La dimensione collettiva, ideologica,istituzionale che gli stereotipi spesso assumono rende inadeguatoun approccio puramente individuale a questi fenomeni; citandoMantovani:“I nazisti non erano persone che avessero, ciascuna perconto proprio, maturato un personale astio contro gli ebrei. Essierano invece membri a pieno diritto di un’illustre cultura europea- trasmessa da famiglie, scuole, chiese, partiti, giornali e storiellesugli ebrei – che portava in sé, nella sua storia, alcuni dei germi diquella violenza”6.

• Non li creiamo personalmente ma li apprendiamo dall’ambiente,dalle tradizioni e da tutto ciò che ci rimanda ad una cornice cultu-rale che provvede a fornire di senso ciò che incontriamo sullanostra strada. Ciò che vogliamo dire è che, come conseguenza, ilrazzismo non nasce solo da un “atteggiamento”mentale di una datapersona ma esso è nutrito, anche nell’inconsapevolezza della per-sona stessa, da una cultura che, attraverso una religione, una leggedello stato o una convinzione morale condivisa e rispettata, conse-gna al singolo individuo ciò che può apparire come un “semplice”,personale pregiudizio. Arrivano da lontano i pregiudizi nefasti neiconfronti degli ebrei (l’Europa cristiana medievale e moderna), deineri africani schiavizzati nel nuovo mondo da conquistatori dellavecchia Europa, ecc.

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• Sono generalizzazioni non soggette alla smentita. Di fronte allaprova del contrario si scoprono le “eccezioni”. Pregiudizi e stereo-tipi sono categorizzazioni che ci aiutano a comprendere la realtà:quando la realtà non corrisponde al nostro pregiudizio è più facileper il nostro cervello cambiare la nostra interpretazione dellarealtà che cambiare il pregiudizio.

• Spesso sono frutto di una pigrizia mentale ma anche di un mecca-nismo di economia delle risorse di cui disponiamo per conoscere ilmondo. È infatti attraverso l’assegnazione di nomi e il loro rag-gruppamento in categorie che gli esseri umani ordinano il loromondo fisico e sociale e proprio le categorie ci servono per mette-re in evidenza analogie e differenze. L’attribuire ad una categoriacose, eventi, persone, ci permette di trattarle allo stesso modoanche se non le conosciamo per esperienza diretta.

• A volte essi generano un fastidio che non dipende da un contenutopositivo o negativo dello stereotipo ma dal fatto che le persone inquestione si sentono oggetto di una generalizzazione invece di sen-tirsi considerate come individui.

• Il fatto che alcuni individui corrispondano ad alcuni stereotipi nonvuol dire che questi siano ‘veri’ per tutti i membri di un dato gruppo.

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<le relazioni tra polizia, comunità e persone di origine etnica minoritaria -– 75

per chi vuole approfondire

Guerre “etniche”, partiti e movimenti che raccolgono consensi attorno a programmi diesclusione e di “purezza del sangue”, conflitti di stampo nazionalista-religioso, razzismisono fenomeni che vorremmo vedere estinti, eppure non è così. Per spiegarli servono inter-pretazioni di carattere storico, economico e politico come il controllo delle materie prime,il commercio delle armi, l’imposizione di modelli di sviluppo, ecc., ed elementi di dinami-ca psico-sociale: l’appartenenza, la differenza, il pregiudizio, lo stereotipo.Sembrerebbe un fatto incontrovertibile, sostenuto dalle ricerche di tipo psico-sociale eantropologico, che tutti i gruppi umani sono etnocentrici, manifestano cioè una tendenzaa vedere il proprio gruppo come positivo e desiderabile e gli altri gruppi come inferiori,barbari, incivili. D’altra parte l’etnicità costituisce un “complesso pratico-simbolico sfac-cettato, il quale ha la sua ragion d’essere in motivi di ordine politico, ideologico, simboli-co, psicologico, affettivo, economico, che solo se letti simultaneamente possono rendereconto con sufficiente plausibilità del fenomeno”7. Esso è il risultato di un processo socia-le: sorge e si sviluppa nell’interazione quotidiana con gli altri; ne consegue che solo rico-noscendosi nell’altro l’individuo riconosce se stesso.8

Anche l’identità etnica nasce da una serie di processi complessi ed è pensabile solo in que-sti termini di “contrasto”: per potere pensare me stesso devo potere pensare a qualcunaltro. Lo stesso accade quando definisco gli altri. L’identità ci viene attribuita dagli altri:veniamo “etichettati” (secondo la labelling theory – la teoria dell’etichettamento) e perciòidentificati in ragione dei saperi e dei saper fare che possiamo mettere in campo in circo-stanze date. Come sempre, è lo sguardo degli altri che ci fa essere.L’identità etnica quindi è una definizione del sé e/o dell’altro collettivi che sembra affon-dare le proprie radici in rapporti di forza tra gruppi che riconoscono di avere gli stessiinteressi in precise circostanze storiche, sociali e politiche.Tanto è vero che le identità etni-che cambiano, nascono e muoiono. Si pensi ad esempio alla recente novità della rappre-sentazione etnica degli abitanti del Nord-Est da parte di partiti politici e del richiamo alleorigini celtiche fino a pochi anni fa da nessuno rivendicato. Appare evidente come essesiano un costrutto culturale suggerito e richiesto da ragioni di tipo politico ed economico.Una volta costruite però, le etnie assumono una consistenza molto concreta per coloro chevi si riconoscono e la prova sono i conflitti etnici i quali però non sono altro, secondomolti, che il risultato di processi di etnicizzazione voluti e favoriti dall’esterno o da grup-pi che competono, appunto, in precisi momenti storici, per l’accesso a determinate risorsemateriali o simboliche. Il pregiudizio diventa dunque strumentale agli interessi di unaclasse, al potere costituito, a individui senza scrupoli.

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Le teorie per spiegare questo fenomeno sono innumerevoli e sono cambiate negli anni eprovengono da discipline tanto diverse come la biologia, la genetica, l’etologia, la psicolo-gia (in particolare la psicologia sociale), l’antropologia e la sociologia.Le prime spiegazioni di questo fenomeno, dalla fine dell’Ottocento fino ai primi delNovecento, sono state di tipo biologico, centrate sul ruolo della competizione come leggefondamentale della natura e fortemente ancorate alla prospettiva evoluzionistica darwi-niana. Esse hanno ripreso vigore negli ultimi anni grazie all’approccio socio-biologicosecondo il quale anche la dimensione sociale e culturale dell’uomo, assieme a quella fisio-logica, sono influenzate dalla sua dotazione genetica. All’altro estremo si trovano le teorieche considerano ogni riferimento alle teorie biologiche come un tentativo di giustificare leforme di aggressività e di ostilità nei confronti degli altri (se sono naturali sono dunqueinevitabili), trascurando la dimensione politico-economica della discriminazione. Unadelle discipline considerate più colpevoli al riguardo è la psicologia sociale che tanto hastudiato questi fenomeni e che viene accusata da alcuni di “riduzionismo psicologico”, valea dire di tendere ad ignorare le determinanti sociali e culturali di fenomeni complessi comela conflittualità interetnica e la discriminazione, riducendole allo studio delle caratteristi-che psicologiche individuali. Tali critiche sono condivisibili, a nostro avviso. Tuttavia, ècondivisibile anche la critica che le più avanzate teorie in campo di social cognition psi-cologia culturale avanzano nei confronti di teorie puramente sociologiche ed economicistedi non riconoscere la funzionalità psicologica delle diverse forme di semplificazione e dischematizzazione della realtà. Esse rappresentano il modo con cui il sistema cognitivo fafronte alla sovrabbondanza e all’estrema varietà delle informazioni provenienti dall’am-biente esterno e costituiscono però anche la base dei fenomeni di stereotipizzazione e dipregiudizio che contribuiscono a produrre conflittualità tra gruppi. Sicché oggi è opinio-ne molto diffusa tra più autori che le spiegazioni a tali fenomeni non possano che venireda una collaborazione di discipline diverse – dalla biologia alla sociologia – riconoscendodunque tutta la complessità delle cause che entrano in gioco nel determinare l’aggressi-vità dei gruppi umani nei confronti degli altri. Inoltre, anche nelle teorie evoluzionistichedi stampo biologico e genetico, si viene ormai riconoscendo che, accanto alla tendenza allachiusura dei gruppi (pregiudizi, stereotipi, auto-favoritismo) esiste una tendenza all’aper-tura (che si manifesta attraverso il confronto sociale, l’apprendimento, l’elaborazione col-lettiva della conoscenza) e che gli individui sceglieranno l’una o l’altra via secondo unavalutazione strategica di opportunità che fa riferimento ad altre variabili, quali lo statusdel gruppo di appartenenza, la condizione di pluriappartenenza (l’appartenenza cioè con-temporaneamente a più gruppi), la reciprocità dei comportamenti cooperativi.

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4 - Il ruolo dei mass-medianella diffusione dello stereotipo anti-immigrato

Viviamo in una società dominata dai mezzi di comunicazione dimassa che influenzano i nostri atteggiamenti, i nostri pregiudizi e persinocondizionano i nostri comportamenti. Le immagini che irrompono quoti-dianamente nelle nostre case, le notizie e i commenti che i giornali ripor-tano danno forma alla comprensione che abbiamo della società nella qualeviviamo. La capacità di influenzarci che hanno i mass media cresce via viache aumenta la rapidità con la quale avvengono le comunicazioni e con ilnascere e sovrapporsi di sempre nuovi media, ieri la televisione, oggi inter-net. Con l’uso accorto e competente dei mass media si influenzano le opi-nioni politiche degli elettori fino al punto che il confronto democratico deiprogrammi elettorali è diventato un faccia a faccia televisivo e decisivo trai due candidati delle opposte forze politiche in campo, si conducono bat-taglie giudiziarie, si influenzano il comportamento e le aspirazioni di milio-ni di adolescenti e i consumi di milioni di famiglie. Come si potrebbe pen-sare che l’immagine che noi abbiamo di una società multietnica e multi-culturale non faccia parte delle rappresentazioni che, influenzate dai massmedia, danno forma alle nostre opinioni e ai nostri comportamenti neiconfronti dei migranti e delle persone di origine etnica minoritaria?

Un esempio illuminante dell’importanza dei media nella diffusione distereotipi e pregiudizi e nell’orientamento del dibattito pubblico sul temadell’immigrazione è sicuramente attinente al ruolo dei mezzi di comunica-zione nella diffusione delle notizie sulla criminalità degli immigrati (tema-tica su cui ci siamo già diffusamente soffermati nel corso del secondo capi-tolo).

L’inizio degli anni Novanta è il periodo nel quale si comincia a parla-re (sia sulle pagine dei giornali che nelle agende degli uomini politici) diun’ “emergenza sicurezza” a livello nazionale e la presenza dei migranti diorigine extracomunitaria è sempre più messa in relazione con il verificarsidi crimini più o meno gravi nelle nostre città. Nel settore dell’informazionemediatica il tema diventa, così, oggetto di frequenti e martellanti campa-gne di stampa e ciò viene caratterizzato, nei giornali di allora, da un’evi-dente selezione delle notizie fornite al pubblico, sia di tipo quantitativoche di tipo qualitativo.

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Sotto il primo versante, svariate ricerche concordano nel rilevare chein quegli anni il numero di articoli che trattano l’argomento immigrazione-criminalità cresce in misura esponenziale (secondo Maneri arriverebbero acoprire il 56% dell’informazione sull’immigrazione nel suo complesso), ascapito degli articoli che invece parlavano di diversi aspetti collegati aifenomeni migratori (il tema del razzismo, delle condizioni disagiate deimigranti, delle specificità culturali di tali soggetti, ecc.). Ma l’aspetto mag-giormente significativo è quello attinente alla qualità di queste variazioni.In una società della comunicazione di massa che tende a rendere attraentied a spettacolarizzare sempre più le notizie che diffonde, la ricerca delloshock emotivo prevale sullo sforzo di approfondimento e di comprensionedel fenomeno descritto, soprattutto quando i media si occupano di crimi-ne e di devianza. Ecco quindi che i mezzi di informazione, nella tematicaimmigrazione-criminalità, iniziano a far ricorso ad un linguaggio di tiposimbolico, capace di generare reazioni emozionali forti nei loro fruitori(attingendo, per esempio, a piene mani dal linguaggio di tipo bellico perdescrivere le “invasioni” dei migranti, le città in “stato d’assedio”, la “bat-taglia” contro la criminalità degli immigrati, ecc.); un linguaggio che fa,dunque, un uso massiccio di immagini stereotipe, che spesso riprende(senza verificarli) le denunce confuse e vagamente razziste dell’“uomodella strada” e che tende a ritrarre i fenomeni devianti che descrive comefatti vieppiù incontrollabili, pericolosi per l’ordine sociale e per la vita stes-sa dei cittadini (cfr. Maneri, 1998; Quirico, 1992).

Il problema è che, trattandosi di informazioni che entrano in un com-plesso meccanismo comunicativo di massa, i mass-media non si limitano afornire ai propri lettori informazioni più o meno distorte ed amplificate sulfenomeno descritto. Essi danno vita ad un duplice meccanismo di risposta(o feed-back) a tali notizie: quello dei soggetti di origine etnica minorita-ria descritti nelle cronache – che possono arrivare ad identificarsi nell’eti-chetta pubblicamente attribuita loro, radicalizzando i loro comportamentidevianti (cfr. le teorie dell’etichettamento esposte nel secondo capitolo) –e quella degli altri attori sociali presenti sulla scena pubblica. Queste veree proprie campagne di “panico diffuso” vengono così sfruttate da talunirappresentanti del mondo politico, degli ambienti intellettuali e dei comi-tati di cittadini per legittimare la sempre più pressante richiesta di misurelegislative o repressive ad hoc nei confronti dei soggetti additati comepotenzialmente pericolosi per la nostra società o per mobilitare l’opinione

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pubblica in occasione di nuove emergenze. Con il probabile esito di un’ul-teriore criminalizzazione degli immigrati (e degli altri soggetti marginalidella nostra società) e, quindi, di una giustificazione a posteriori della fon-datezza degli allarmi sociali già innescati.

Viene così a prodursi (ed a riprodursi) un perverso circolo vizioso (o“corto circuito sicuritario”), in cui i mass-media giocano un ruolo decisivoper quell’operazione di manipolazione emotiva che è alla base dell’insor-gere delle paure e delle ossessioni sicuritarie nella collettività e della col-pevolizzazione pubblica della figura dell’immigrato di origine extracomu-nitaria nel nostro Paese.

Un esempio interessante sul ruolo dei mass-media nel processo di diffusione dideterminati messaggi e/o stereotipi e sulle modalità attraverso le quali i mezzi dicomunicazione selezionano le notizie da “dare in pasto” ai loro lettori ci provieneda una recente ricerca sui comitati di cittadini attivi nella città di Modena e suiloro rapporti con i mass-media locali (cfr. Poletti, 2002).

Secondo i vari leader dei comitati intervistati, la visibilità sui giornali e sulletelevisioni locali delle proteste messe in pratica dai comitati modenesi contro lospaccio di droga e contro la prostituzione esistenti nelle zone del centro storicoebbe un’importanza fondamentale per dare maggiore peso a tali organizzazionie per indurre le autorità politiche e le forze dell’ordine locali ad intervenirepesantemente contro i fenomeni denunciati. Grazie a tale visibilità i comitati diModena sono riusciti, in poco tempo, a diventare uno stabile interlocutore siadelle autorità comunali (con cui collaborano nell’organizzazione e nellaconcertazione delle locali politiche di sicurezza), sia delle forze dell’ordine di cuisono diventati, a detta della capo-ufficio di gabinetto della locale Questura“l’occhio della polizia laddove noi non riusciamo ad arrivare”.

La cosa particolarmente interessante è il rapporto diretto che molti di questicomitati erano riusciti ad instaurare con i media locali, tanto che in molti casi sipuò dire che il punto di vista dei comitati abbia rappresentato la principale fonted’informazione utilizzata dai giornali nel descrivere la situazione della sicurezzaurbana nella città modenese. Questi rapporti diretti, favoriti in alcuni casi dallespecifiche e smaliziate conoscenze di alcuni membri dei comitati (che prima dioccuparsi di sicurezza dei quartieri avevano lavorato nelle radio o nei giornalilocali), facevano sì che i rappresentanti di questi gruppi contattassero le testatelocali nei momenti più adatti al raggiungimento del loro scopo, e cioè soprattutto

ESEMPIO

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nei cosiddetti “periodi di stanca” delle notizie (così che i mezzi d’informazionepotessero concentrare le loro energie in campagne di stampa martellanti sul temadella sicurezza) oppure nelle fasi immediatamente precedenti le elezioni locali (inmodo da esercitare una particolare pressione sui rappresentanti politici locali).

Veniva così a realizzarsi una sorta di “patto di reciproco interesse” fra media ecomitati: i primi disponevano di una produzione relativamente continua dinotizie che suscitavano l’interesse (e l’allarme) dei loro lettori, mentre i secondiaccrescevano la propria visibilità ed importanza, incarnando di fatto il punto divista del “cittadino comune” (o dell’uomo della strada) che confermava i luoghicomuni sul “dilagare” di determinati fenomeni criminosi e richiedeva l’adozionedi urgenti provvedimenti di natura repressiva. Poco importava ai mezzi dicomunicazione locali che le notizie diffuse fossero anche veridiche o perlomenorealistiche: nel corso della ricerca gli stessi leader dei comitati confermavano chespesso fornivano ai giornalisti notizie gonfiate esageratamente o vecchie diqualche mese, purché fossero notizie “pubblicabili” nei momenti giusti, in mododa dare risonanza alla loro voce.

Fin troppo facile, poi, prevedere il bersaglio delle proteste di tali gruppi: gliimmigrati extracomunitari, accusati di aver provocato un aumento dei fenomenidi microcriminalità nella città modenese da quando la loro presenza s’era fattapiù consistente (malgrado le statistiche ufficiali smentissero in buona parte taletesi). E altrettanto immaginabile, una volta che i comitati riuscirono ad imporre illoro punto di vista alle autorità locali, il tipo di risposta adottato dalle forzedell’ordine locali: una serie di puntuali “retate” che prendevano di miraprincipalmente gli immigrati irregolari presenti sul territorio, e la loro“detenzione” all’interno del locale centro di permanenza temporanea, fattocostruire appositamente per rispondere alle esigenze di sicurezza dellapopolazione locale.

ESEMPIO

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Una recente ricerca condotta da CENSIS e COSPE nell’ambito del pro-getto europeo Tuning in to Diversity9 si è soffermata sulla rappresentazio-ne dell’immigrato nella televisione e nella stampa quotidiana e periodicaitaliana. Ne è risultata un’immagine razzista e quasi sempre confinatanella cronaca nera. L’immagine negativa degli immigrati rappresenta com-plessivamente per il mezzo televisivo l’83% delle notizie e delle immaginiproposte dalle televisioni sia pubbliche che private. Le trasmissioni nellequali si parla maggiormente degli immigrati sono i telegiornali (95,4%) equasi sempre per fatti di cronaca nera, dove l’argomento prevalentementetrattato è la criminalità e l’illegalità. L’analisi della stampa non fa che con-fermare le conclusioni dell’indagine sulle televisioni.

Un’indagine commissionata dall’Osservatorio di Vienna sul Razzismoe la Xenofobia (EUMC) conclusasi nel 200010 ha messo in evidenza che ilfocus negativo (problema, crimine, conflitti) nelle notizie sulle minoranzeetniche, culturali e religiose è un fenomeno che non risparmia nessunPaese dell’Unione. Ciò che si rileva ovunque è una tendenza generalizzataad enfatizzare e ad esagerare la qualità e la quantità di crimini commessida persone di origine etnica minoritaria. Specie nei sommari e nei titoli sistabilisce un collegamento tra l’origine etnica e il comportamento crimina-le o deviante. È questo, come abbiamo visto, ciò che costituisce la base perle generalizzazioni che associano i migranti con il crimine. Al punto che inalcuni paesi (Spagna e Gran Bretagna, per esempio) simili associazioni tra imigranti e la criminalità sono state proibite e denunciate dall’ordine deigiornalisti o sono oggetto di una severa autoregolamentazione da partedelle stesse emittenti televisive e testate giornalistiche. Anche in Italiamolti giornalisti e associazioni hanno segnalato la scorrettezza di questomodo di riportare le notizie e proposto più di una carta di autoregola-mentazione che sono rimaste, purtroppo, inascoltate.

Le ricerche mostrano anche che altre forme di servizi o articoli sugliaspetti meno visibili dell’immigrazione, o le cause di esclusione sociale chevi soggiacciono, così come le ostilità e le forme di razzismo, sono quasi deltutto inesistenti. La società che viene presentata nelle fiction, nei pro-grammi d’intrattenimento e di approfondimento è, con rarissime eccezio-ni, una società monoculturale di fatto inesistente. È chiaro che questo nonsolo rafforza nella popolazione autoctona la sensazione che ci siano degli“altri”, degli “intrusi” ma aliena ancor più le persone immigrate che non sivedono rappresentate e non possono riconoscersi nella società nella qualevivono e che i media riflettono.

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I mezzi di comunicazione di massa possono essere una brutale arma didiscriminazione dei gruppi etnici minoritari, oppure possono rappresentare unponte di comunicazione fra culture differenti. Dipende dal modo con cui essivengono utilizzati.

Un esempio di tipo negativo. Qualche anno fa, il figlio del presidente diun’associazione cinese di Firenze morì tragicamente; ai suoi funeraliparteciparono centinaia di persone, fra parenti ed amici della famiglia. Il giornodopo un giornale locale presentò un articolo sul funerale, intitolato “MUORE ILFIGLIO DI UN BOSS CINESE. CENTINAIA AL FUNERALE”. Il contenuto dell’articolodescrisse quel funerale come se si fosse trattato della scena del film “L’anno deldragone”, in cui si svolgeva il funerale di un boss della mafia cinese a New York.Ciò provocò, ovviamente, un forte sentimento di rabbia ed irritazione nellacomunità cinese di Firenze che protestò con quel giornale e perse la fiducia neimezzi di comunicazione italiani.

Un esempio positivo. Il mensile bilingue “Zhong Yi Bao”, edito dal Cospe, già dadiversi anni costituisce una preziosa fonte di informazioni utili per la comunitàcinese di Firenze e fornisce un utile servizio ai comuni ed alle province di Firenzee di Prato, ponendosi come vero e proprio ponte di comunicazione fra entipubblici ed immigrati. Inoltre tale organo d’informazione riesce a far arrivare alleautorità locali un quadro realistico delle condizioni e delle opinioni dellacomunità cinese stanziata sul territorio. In questo modo, esso è riuscito aguadagnarsi la fiducia degli immigrati come fonte di riferimento della comunitàcinese stanziata in quella zona.

5 - L’azione della polizia

L’erogazione di un servizio di polizia equo e professionalmente vali-do ricade sulla polizia stessa, la responsabilità per la sicurezza e la tran-quillità pubblica è però della società intera. Senza la cooperazione del pub-blico la polizia non può fare molto, in una società democratica. I rapportifra polizia e le comunità di etnie minoritarie non si discostano da questoprincipio ma, poiché questi rapporti sono relativamente nuovi rispetto airapporti con altre categorie sociali, sarà necessario avere una strategia coe-

ESEMPIO

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rente per assicurare che i rapporti continuino buoni laddove già lo sono eche migliorino laddove ancora non sono sufficientemente buoni.

Il primo passo è quello di stabilire qual è lo stato dei rapporti attuali,procedere ad un’analisi e adottare le strategie e le azioni più appropriate:

> La prima domanda da porsi è: chi avrà la responsabilità di fareun’analisi della situazione?

Una possibilità è di nominare un responsabile o forse creare un appo-sito ufficio per le relazioni con le comunità etniche minoritarie. Mentrequesta soluzione ha il notevole vantaggio di garantire che il tema saràaffrontato, essa comporta però il rischio che l’argomento diventi responsa-bilità unicamente di quell’ufficio e che non diventi mai una parte normaledel lavoro della polizia, elemento che potrebbe contrastare proprio con ilprincipio di mainstreaming11.

> È necessario insomma aprire un dialogo.Per evitare che le strategie e le azioni intraprese dalla polizia siano

totalmente autoreferenziali, e cioè basate sull’idea che la polizia può deci-dere da sola se i rapporti vanno bene o no, é bene adottare sin dall’inizioun approccio di partenariato fra la polizia e le comunità in questione, pro-muovendo relazioni continue tra le due parti. Ciò può avvenire a tre livel-li, due di tipo formale ed uno informale:

a) il livello formale dei tavoli di lavoro da tenere a cadenze regolari,con ordini del giorno precisi, su temi individuati da entrambe leparti o su proposta di uno dei due gruppi (é questa una realtà giàpresente in molte città; ne possono essere un esempio i “gruppi dicontatto” di cui si parla al paragrafo successivo, oppure gli incon-tri periodici fra rappresentanti delle Questure e dei gruppi minori-tari presenti in un determinato territorio);

b) il livello ancora formale di partecipazione di operatori di polizia(qualora siano invitati) ad eventi organizzati dalle comunità di ori-gine etnica minoritaria, come feste e convegni e, viceversa, l’invi-to esteso ai rappresentanti delle comunità a partecipare a eventipubblici organizzati dalla Polizia;

c) infine il livello informale dei contatti personali e quotidiani, inbase ai quali diventa normale e bene accetto, per esempio, che unoperatore di polizia entri in una moschea per un rapido saluto allepersone che vi si trovano in quel momento, senza che questo atto

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venga necessariamente percepito come un controllo di polizia. Vada sé che questo tipo di comportamenti non può essere adottatoda un giorno all’altro, senza un’adeguata preparazione e senzache si sia instaurata una base di fiducia reciproca sulla qualecostruire importanti passi futuri. In questa direzione va certamen-te il ruolo del poliziotto di quartiere e la filosofia d’approccio dellapolizia di prossimità (vedi cap. 2, § 4). D’altra parte, quello dellebuone relazioni e del partenariato con le comunità di origine etni-ca minoritaria è uno dei mezzi a disposizione della polizia per nonricorrere sistematicamente ed unicamente ai posti di controllo perla prevenzione e la repressione dei crimini, incoraggiando al con-tempo la segnalazione di casi di discriminazione e molestie (perapprofondimenti sulle mancate segnalazioni di casi di discrimina-zione si veda il cap. 6, § 3).

> La leadership, cioè le cariche più alte nella polizia, sia al livellonazionale che locale, deve dare il buon esempio.

Questa regola si applica anche a voi stessi, perché la responsabilità diavviare e mantenere un dialogo non può essere limitata ai gradi più bassi.Toccherà a voi, e agli altri funzionari, assicurare che esista una politica chia-ra e ben pubblicizzata, sia all’interno della polizia che al pubblico, peraffrontare la situazione. L’inizio del dialogo può essere facilitato se lecomunità stesse sono coinvolte nella ricerca da svolgere per stabilire lanatura dei rapporti esistenti fra le due parti e se il dialogo è ufficialmentee personalmente offerto e proposto da un dirigente della Polizia.

> Serviranno statistiche sull’operato della polizia, soprattutto su atti-vità altamente visibili come il controllo e perquisizione per strada ogli interventi sullo spaccio di droga o la prostituzione.

Chi viene controllato per strada? Chi è arrestato per attività connessealla droga? L’attività della polizia riesce a colpire la criminalità in modosignificativo? Il lavoro di polizia del quartiere migliora la sicurezza e latranquillità di tutti o solo delle persone più influenti o numerose, mentrequelle innocenti ma appartenenti alle etnie minoritarie vivono in uno statodi sicurezza minore, sicure solo della maggiore probabilità che corrono diessere controllati dalla polizia? Queste, ad esempio, alcune delle domandeda porsi. Vogliamo richiamare l’importanza, per la polizia ancor più che peraltre organizzazioni, di procedere sulla base d’ipotesi di lavoro invece che

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sulla base di stereotipi, una differenziazione che produce effetti sostanzia-li sull’agire della polizia. Infatti mentre, come abbiamo spiegato, gli ste-reotipi resistono anche di fronte alla prova del contrario, le ipotesi di lavo-ro sono soggette alla disconferma. Si ricorderà il caso della moglie che, inuna regione del Nord-Est, sorpresa dal marito con l’amante nel salotto dicasa, con l’aiuto dello stesso amante colpì il coniuge e, credendolo morto,chiamò i carabinieri per denunciare un’aggressione da parte di albanesi.Prima ancora che fossero svolte delle indagini, si diffuse la notizia che coin-cideva perfettamente con l’immagine dell’albanese criminale e la conse-guenza immediata fu che gruppi di cittadini organizzarono nella zonaronde anti-immigrati. Quel modo di operare senza sottoporre a verifica ciòche, a quello stadio, è solo un’ipotesi, è una modalità che non può esserericonosciuta come professionale, mentre trattare il caso come un caso dainvestigare avrebbe permesso di non diffondere notizie le cui conseguen-ze sono disastrose per la società nel suo complesso ma in particolare per lecomunità di albanesi e per tutti gli stranieri. Indagini successive stabilironopoi la verità dei fatti: a distanza di qualche tempo, la donna ammise chenon si trattava di albanesi ma del suo amante le cui effusioni in tarda notteavevano svegliato il marito. Sarà ancora più facile capire le conseguenzedell’uso di stereotipi, se pensiamo ai fatti di Genova e della Uno bianca, algrave danno d’immagine subito dalla Polizia e a come la Polizia stessaabbia faticato a recuperare la stima e la fiducia di un gran numero di cit-tadini italiani. In questo caso, al contrario dell’episodio della donna e delsuo amante, si trattava di fatti veri che tuttavia gettavano un discreditopesante, nefasto e in parte ingiustificato su tutto l’operato della Polizia.

> Sarà necessaria una profonda riflessione sulla cultura della poliziastessa, soprattutto la cultura dei gruppi o squadre che hanno mag-giore contatto con le persone di etnie minoritarie come l’UfficioImmigrazione e la Squadra Mobile.

Che linguaggio usano quando parlano di persone o comunità di etnieminoritarie? Quali stereotipi prevalgono? Come giudicano la loro attivitànei confronti delle comunità e delle persone di origine etnica minoritaria?

> Nello stesso modo, è necessario ascoltare gli altri. Cosa pensano le comunità della polizia? Cosa dicono? Come giudica-

no l’operato della polizia? Può essere spiacevole ascoltare certe opinioni ostereotipi sulla polizia ma costituisce un passo importante nel creare undialogo sincero e aperto.

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> Non confondere gli stereotipi con altre forme di generalizzazione. Tutte le scienze – e anche le procedure d’indagine – poggiano sul

principio della generalizzazione ma alla condizione di mettere alla provale ipotesi così formulate. Gli stereotipi, come si è visto, hanno la particola-re caratteristica di non essere soggetti alla disconferma, tanto che, se larealtà non corrisponde allo stereotipo, quasi sempre si dice che quell’e-sempio rappresenta un’eccezione e non può che confermare lo stereotipostesso. Procedere per “ipotesi di lavoro” può essere la metodologia corret-ta: esse possono corrispondere o no ad uno stereotipo (per es., gli svizzerisono ricchi perciò questo svizzero è ricco) ma richiedono però la verificadella loro fondatezza.

5.1 - I gruppi di contatto

Qualche anno fa, nell’ambito di un progetto denominato PAVEMENT,si realizzarono una serie d’incontri a intervalli regolari tra operatori diPolizia di Stato e Polizie Municipali di Modena, Bologna e Torino, e gruppidi persone immigrate come complemento alla formazione in aula alleforze di polizia. Il gruppo di contatto aveva lo scopo di avviare il dialogofra i cittadini immigrati e le Polizie di Stato e Municipali su un periodo ditempo sufficientemente lungo a sviluppare una reciproca conoscenza delleattività, delle esigenze e bisogni, degli atteggiamenti, credenze, modi divita e ruoli professionali degli operatori di polizia e dei cittadini di etniaminoritaria, e di concetti quali sicurezza, ordine pubblico, legalità, discri-minazione, diritti. Aderendo al programma, le due parti coinvolte si impe-gnavano a sostenere un dialogo continuo in modo che il gruppo di con-tatto potesse continuare, anche dopo il termine del progetto, come luogofisso di dialogo e consultazione. Le persone di etnia minoritaria erano scel-te dalle associazioni dei cittadini non comunitari o dall’Ufficio Immi-grazione del Comune, mentre gli operatori di polizia erano volontari tracoloro formati nel corso che partecipavano alle riunioni nelle ore di servi-zio. Dietro questa scelta dei gruppi di contatto esistono riflessioni cheriportiamo, anche se parzialmente, perché ne mettono in evidenza van-taggi e limiti.

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Sembra essere un fatto che l’assoluta maggioranza dei poliziotti hacontatti diretti soprattutto con immigrati che delinquono o che essi sup-pongono abbiano adottato comportamenti devianti12 e sarebbe eticamen-te grave se una formazione rivolta agli operatori di polizia ignorasse que-sto fatto. Tale squilibrio di conoscenze che, a differenza del contatto con igruppi sociali di etnia maggioritaria, non viene compensato da altre e piùapprofondite conoscenze, sia nella vita professionale che sociale, con col-leghi, parenti, appartenenti ad associazioni, ecc., contribuisce ad una visio-ne parziale e deforme della società e particolarmente dei cittadini immi-grati e/o di etnia minoritaria, spesso visti come categoria e non come indi-vidui. Poiché per la polizia è essenziale avere un quadro il più veritiero pos-sibile dei reali bisogni dei cittadini e promuovere relazioni positive ecostruttive con i vari gruppi che costituiscono una società, è indispensabileche essa abbia un feedback dai diversi settori della comunità sull’efficaciae la rilevanza delle proprie politiche e dei propri programmi (come di fattogià avviene per alcune categorie di cittadini). Dobbiamo segnalare che laposizione assunta dal progetto non era unanimemente condivisa e leragioni che, secondo alcuni, motivano la creazione di gruppi di contattoerano contestate. Costoro pensavano infatti che, se i poliziotti ritengono diconoscere solo gli italiani che delinquono, ciò non è certo perché essihanno contatti diretti con la totalità degli italiani. Se per natura del pro-prio lavoro gli operatori di polizia conoscono più delinquenti che onesti cit-tadini, ciò dovrebbe essere vero sia per l’un gruppo che per l’altro. Sembracosì di potere affermare che con gli italiani funzioni la presunzione di one-stà mentre con gli immigrati ci si avvicina molto alla situazione del tipo“non sei onesto fino a quando non dimostri di esserlo” e ciò proverebbeancor di più che il “conoscersi per rispettarsi”, in tema di rapporti intercul-turali può generare grosse e inaccettabili confusioni. In ogni caso, qualun-que fosse la posizione adottata dai singoli consulenti del progetto a que-sto riguardo, era opinione condivisa che una conoscenza distorta da partedella polizia sui cittadini immigrati e di etnia minoritaria, unita a presun-zioni di onestà o disonestà applicate a categorie di cittadini, producono unrapporto malsano da combattere. D’altra parte, nei gruppi di contattoanche le persone di etnia minoritaria possono vedere un interesse direttonel sentirsi considerati “cittadini”, con il diritto di esprimersi e di essereascoltati e di potere parlare “alla pari” con rappresentanti delle istituzionicon i quali, di norma, il rapporto è forse particolarmente conflittuale per leragioni già più volte espresse.

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Il concetto di gruppo di contatto usato nel progetto non si riducevaad un’occasione di conoscenza. Infatti, come è provato da diversi studi dipsicologia sociale, questi incontri, se non accuratamente preparati e gesti-ti, non hanno molte speranze di superare i soliti rapporti stereotipati fre-quenti nei contatti sociali in altri contesti.

Un’adeguata preparazione e gestione dei gruppi di contatto devecomprendere almeno i punti seguenti:

1) i partecipanti di origine etnica minoritaria devono essere scelti trapersone che hanno una buona conoscenza dell’italiano, note perla loro capacità di dialogo e per l’abilità nell’essere assertivi senzaincorrere in atteggiamenti che possano portare ad uno scontro. Gliuffici comunali, le associazioni degli stranieri e di lotta alla discri-minazione possono fornire un valido aiuto nell’individuazionedelle persone più adatte;

2) tutti i partecipanti – persone di origine etnica minoritaria e poli-ziotti - vanno bene informati degli scopi degli incontri e questoprima che gli incontri comincino;

3) gli incontri devono essere gestiti possibilmente da due facilitatoriprovenienti dai due gruppi rappresentati;

4) all’inizio degli incontri si deve stabilire un accordo fra i compo-nenti del gruppo sugli obiettivi e le modalità di lavoro, in mododa garantire un’autogestione molto più proficua di quella che ci sipotrebbe attendere da un gruppo spontaneo.

In appendice C abbiamo riportato le riflessioni metodologiche fruttodel lavoro svolto nelle tre città del progetto PAVEMENT, sperando che pos-sano essere utili anche a voi.

A ciò possiamo aggiungere quanto segnalato nelle considerazioni diun piccolo gruppo di polizia relative alla Dichiarazione di Rotterdam: “LaPolizia di Stato inserisce tra le necessità della formazione anche quella del-l’apprendimento delle lingue straniere più diffuse, necessaria onde permet-tere al personale la comprensione delle esigenze di un’utenza che non parlao mal comprende la nostra lingua, e l’opportunità di soggiorni all’estero perperfezionare la conoscenza linguistica. Il documento inoltre sottolinea l’op-portunità di integrare i seminari di conoscenza sulle culture straniere constages, tenuti da sociologi e psicologi, “incentrati sull’individuazione deglielementi e delle cause di comportamenti a carattere razzista”.

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Ad Osmannoro, l’area industriale di Sesto Fiorentino, vivono e lavorano più diduecento cinesi in piccole unità produttive e sono presenti più di un migliaio dicinesi come lavoratori. Quest’area è sempre un punto “caldo” per i controlli delleforze dell’ordine. Un giorno una macchina della polizia con due operatori abordo, fermatasi all’ingresso di un laboratorio, avendo intravisto qualcunofuggire dal retro, cominciò ad interrogare il proprietario. Poiché questi nonrispondeva alle domande (probabilmente il suo italiano non era così buono dapermettergli di rispondere o, forse, era spaventato per via di qualche lavoratoreirregolare), uno degli intervenuti cominciò ad alterarsi e ad apostrofarlo in malomodo pensando che il silenzio esprimesse una mancanza di volontà nelcollaborare. Quando la persona in questione mi raccontò l’accaduto gli chiesi sevoleva segnalare l’episodio alla Polizia ma la risposta fu negativa per timore diritorsioni. Ogniqualvolta, inoltre, arriva nel quartiere una macchina delle Forzedell’Ordine, i bambini cinesi che giocano nella strada corrono impauriti daigenitori. Mi chiedo cosa sono per questi bambini i poliziotti, che immagine hannodegli operatori di polizia e quale effetto avrà sulla loro vita da adulti l’esserecresciuti in questa atmosfera.Testimonianza di un rappresentante di gruppo etnico minoritario

Un operatore della guardia di finanza entrò un giorno in una fabbrica cinese etrovò che c’erano alcuni lavoratori irregolari. Sembravano molto giovani e ilproprietario fu subito accusato di impiegare forza lavoro minorile, oltre cheirregolare. In realtà i ragazzi erano tutti maggiorenni ma i cinesi sembranosempre più giovani della loro età! Il proprietario spiegò che non si trattava diminorenni ma il finanziere non prestò alcuna attenzione. Il cinese disse anche chei ragazzi lavoravano soltanto da poche settimane ma l’operatore di poliziaregistrò che i ragazzi lavoravano in quella fabbrica da più di un anno. Agli occhidi molti operatori di polizia la ricchezza dei proprietari di imprese cinesi è ilrisultato dell’impiego sistematico di forza lavoro irregolare, persone che, secondoloro, sono trattati come schiavi ed è grazie a questo sfruttamento che alcunicinesi possono ostentare ottime auto, orologi costosi e cellulari dell’ultimagenerazione. Di fatto molti cinesi, non appena hanno guadagnato qualchedenaro, amano mostrare il proprio benessere attraverso appunto l’ostentazionedi status symbol, come d’altronde succede in molti gruppi umani, non esclusi gliitaliani. È spesso un modo di fare che importano direttamente dalla loro zona diprovenienza, specie se un’area rurale. Bisogna invece sapere che moltefabbrichette sono a conduzione familiare, dove il proprietario lavora le stesselunghe ore dei suoi impiegati e mangia e dorme negli stessi luoghi e con gli stessiritmi. È spesso attraverso questo lavoro pesante che essi accrescono il propriobenessere e non sempre attraverso lo sfruttamento sistematico di altri.

Testimonianza di un rappresentante di gruppo etnico minoritario

ESEMPIO

ESEMPIO

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note

1 Mantovani G., L’elefante invisibile. Tra negazione e affermazione delle diversità: scontri eincontri multiculturali, Giunti, Firenze, 1998.

2 Hofstede G., Culture and Organization: Software of the Mind, McGraw-Hill, 1991.3 Hofstede G., op. cit., Preface to the revised edition, pag XII, traduzione a cura dell’autrice.4 Un esempio che dimostra le difficoltà a definire un “gruppo razziale” viene da una sen-

tenza della Camera dei Lord britannica (che potremmo equiparare alla Corte diCassazione in Italia), emessa nel 1983 in relazione ad un caso di discriminazione razziale.La corte stabilì una lista di criteri per definire un “gruppo razziale”: una storia lunga econdivisa, una propria tradizione culturale, un’origine geografica comune o una discen-denza da un numero limitato e comune di antenati, una lingua comune, una letteraturacomune, una religione comune, costituire una minoranza o una maggioranza in unacomunità più ampia. Si diceva anche nella sentenza che una persona doveva essere con-siderata membro di un “gruppo razziale” se ella stessa si ritenesse parte di quel gruppoe da quel gruppo fosse accettata come tale. Nonostante l’apparente precisione della defi-nizione, si noti che i criteri usati sono soprattutto criteri culturali e sono gli stessi che ven-gono usati per definire un “gruppo etnico”.

5 Per chi ha responsabilità di assicurare che il personale di polizia non subisca l’influenzafuorviante di stereotipi e pregiudizi, può essere utile notare che gli stereotipi di solitocostituiscono la controparte sociale dei pregiudizi i quali tendono ad essere più persona-li. Contrastare gli effetti dei pregiudizi, quindi, richiede attenzione soprattutto agli indi-vidui più che al gruppo. L’effetto dello stereotipo tende invece a propagarsi a livello socia-le, con effetti probabilmente più ampi, attraverso i media e nella cultura dell’organizza-zione, nel linguaggio e nel gergo usato. In questo caso, occorre perciò attenzione al livel-lo del gruppo piuttosto che a livello individuale.

6 Mantovani G., op. cit., p. 37.7 Fabietti U., L’identità etnica, Carocci, Roma, 1998.8 Sciolla L. (a cura di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Rosenberg & Sellier, Torino,

1983.9 Tuning in to Diversity. Immigranti e minoranze etniche nei media, Roma, CENSIS, 2002.

10 Racism and cultural diversity in the mass media. An overview of research and examples ofgood practice in the EU Mamber States, EUMC, 2000.

11 “Il mainstreaming ha lo scopo di integrare la lotta contro il razzismo come un obiettivoin tutte le azioni di una comunità e nelle politiche a qualunque livello (…). Per questo, sidevono usare azioni generali e politiche per combattere il razzismo prendendo in consi-derazione attivamente, e in modo che sia visibile a tutti, l’impatto che queste azioni epolitiche avranno nella lotta contro il razzismo, sin dal momento in cui esse sono pensa-te”. Da Realizzazione del piano d’azione contro il razzismo – mainstreaming la lotta con-tro il razzismo, rapporto della Commissione Europea.

12 Opinione condivisa da quasi tutti i progetti nazionali NAPAP e riportata anche da RobinOakley in Note da sottoporre per l’indagine sull’omicidio di Stephen Lawrence, docu-mento non pubblicato.

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la comunicazioneinterculturale4

1 - Comunicare

Quando la comunicazione avviene tra persone che appartengono aduna stessa cultura, essa risponde ad una serie fittissima di regole di com-portamento accettate come ovvie e non più oggetto di riflessione. Non perquesto la comunicazione è da considerarsi un processo semplice. Ancheall’interno di una stessa cultura, la persona che emette un messaggio (chia-mata “fonte” o “emittente”) deve scegliere le parole giuste (comunicazio-ne verbale), i gesti, l’intonazione della voce, l’espressione del viso e la posi-zione del corpo (elementi della comunicazione paraverbale e non verbale)per codificare il messaggio che ha nella testa e poterlo trasmettere ad altri(si veda la sezione per chi vuole approfondire in questo stesso capitolo).

Mentre l’“emittente” invia il suo messaggio in codice, riceve i segna-li di comunicazione non verbale del ricevente, allo stesso modo in cui il rice-vente decodifica i suoi messaggi verbali e paraverbali. Il ricevente decodifi-ca il messaggio usando tutta la sua esperienza precedente di comunicazio-ne con quella persona, o di precedenti comunicazioni di quel tipo e, quin-di, inevitabilmente opera una selezione in ciò che ascolta e nel modo in cuilo decodifica. Ci possono essere disturbi (rumori) che intervengono a ren-dere ancora più complessa e difficile una comunicazione efficace: veri epropri rumori oppure il disturbo causato dal fatto che il pensiero di chiascolta è molto più rapido della parola e chi ascolta ha così agio di pensa-re ad altre cose nel frattempo. L’emittente dunque entra in competizioneanche con questi disturbi.

Anche il contesto nel quale avviene la comunicazione segna un ele-mento di sfondo che pone dei vincoli e delle restrizioni alla realizzazione

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–- la comunicazione interculturale92

dei diversi significati: può essere accettabile (anche se non auspicabile) cheun insegnante dica all’allievo “non hai capito” ma può risultare persinooffensivo che qualcuno si esprima in questo modo con un collega.

Il processo che abbiamo descritto può essere rappresentato da questodiagramma:

emittenterumore

ricevente

contesto

messaggio messaggiointenzionato interpretatomessaggio messaggio

espresso ricevuto

codifica decodifica

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la comunicazione interculturale -– 93

2 - La comunicazione tra personeche non appartengono alla stessa cultura

La comunicazione interculturale è invece interazione nella quale lecompetenze comunicative di due persone entrano in gioco in una relazio-ne tra sfondi culturali differenti, infatti straniero e autoctono fanno riferi-mento a competenze comunicative diverse, efficaci e pertinenti per lacomunicazione nei contesti di appartenenza e non automaticamenteanche in altri.

“ (…) Tutti gli individui, in quanto membri di una comunità linguistica e sociale, possiedono la capa-cità di produrre e capire messaggi e quindi di interagire con altri soggetti.Questa fondamentale capacità viene definita competenza comunicativa e si riferisce all’insieme dellepresupposizioni reciproche, delle conoscenze e delle regole che rendono possibile uno scambio comu-nicativo. (…)In specifico, la competenza comunicativa comprende le seguenti abilità:• competenza linguistica, cioè la capacità di produrre e di interpretare segni verbali;• competenza paralinguistica, la capacità di produrre e interpretare elementi che modulano la comuni-

cazione, come l’enfasi, la cadenza nella pronuncia, le risate, le esclamazioni;• competenza cinesica, la capacità di realizzare la comunicazione anche mediante gesti (cenni, mimica

del volto, movimenti delle mani, ecc.);• competenza prossemica, la capacità di variare il rapporto con lo spazio in cui avviene l’interazione (la

distanza interpersonale, il contatto reciproco, ecc.);• competenza performativa, la capacità di usare intenzionalmente un atto linguistico per realizzare gli

scopi della comunicazione;• competenza pragmatica, la capacità di usare i segni linguistici e non linguistici in maniera adeguata

e funzionale alla situazione e ai propri scopi;• competenza socioculturale, la capacità di interpretare correttamente le situazioni sociali, i rapporti di

ruolo e gli elementi che caratterizzano una cultura.Le competenze comunicative non sono un patrimonio stabile e possono modificarsi o aumentare e ciòsignifica sempre porre mano ad aspetti profondi della propria identità”.

Da Zani B., Selleri P., David D., LA COMUNICAZIONE. Modelli teorici e contesti sociali, Carocci, Roma, 1998, pag. 31.

competenze comunicative

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Pensate ad esempio all’uso delle metafore che abbondano, anchenella nostra inconsapevolezza, nei discorsi quotidiani. La frase “Laura è unangelo” potrebbe risultare totalmente incomprensibile nel suo significatoletterale e metaforico a chi non è cresciuto, non conosce profondamente onon è stato educato nella religione cristiana per la quale esistono “angeli”in cielo, esseri meravigliosi, uno dei quali è addirittura responsabile dellacacciata agli inferi di Lucifero.

«La metafora attribuisce a qualcosa di cui si sta parlando un attributo preso da unaltro dominio di realtà. (…) Se non siamo consapevoli dell’effetto cornice, non com-prendiamo che la prospettiva che adottiamo per inquadrare una situazione non è l’u-nica possibile, né è necessariamente la migliore in circolazione. Il caso più tragico èquello di chi non pensa di star vedendo le cose da un particolare punto di vista, maè sicuro di vederle così come sono.»1

Le più recenti ricerche sulla comunicazione sostengono che essa, persvilupparsi, ha bisogno che tra gli interlocutori esista un terreno comune acui essi possono fare riferimento per esplorare le intenzioni reciproche.Quando Colombo arrivò a Trinidad e cercò di fare salire gli indigeni sullanave, decise di fare una festa sperando di attrarli con canti e balli. Fu a quelpunto che gli indigeni imbracciarono gli archi e incominciarono a tirarefrecce. Un chiaro esempio di malinteso: ciò che era un segno di pace nellaSpagna di allora era per i nativi di Trinidad una dichiarazione di guerra. Insituazioni come queste si aprono due strade:

«o sviluppare una comunicazione aperta all’altro, multiculturale, faticosa e frustran-te per gli europei, tutti presi dal loro sogno di conquista. Oppure rinunciare a comu-nicare, impadronirsi al più presto di tutto ciò che si può afferrare, sfruttare l’altrosenza riguardi, partendo dal principio che l’altro non ha diritti, non ha tradizioni,non ha dignità che meritino di essere rispettati».2

L’importante è avere la consapevolezza che non esiste mai un unicopunto di vista, che le cose non le vediamo “così come sono” e che la lettu-ra che ciascuno di noi dà della realtà è determinata in gran parte dal colo-re delle lenti che ci vengono assegnate in dotazione dalla nostra cultura,dalla nostra posizione sociale, dalla nostra educazione, dalla famiglia, dallascuola e dagli altri ambienti di socializzazione. Il nostro modello di comu-nicazione si complica quindi, introduce la “cultura” come elemento fonda-mentale per dare senso ad una comunicazione ed appare come rappresen-tato in questa figura:

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Poiché sarebbe impossibile acquisire competenze comunicative pro-prie dei tanti diversi background culturali ai quali appartengono le perso-ne di minoranza etnica presenti nel nostro Paese, è importante riconosce-re due regole fondamentali:

> tenere presente che ciò che è implicito nella comunicazione trapersone che condividono lo stesso background culturale non puòessere dato per scontato per chi appartiene a cultura diversa e vadunque reso esplicito nella comunicazione interculturale. Unesempio desunto dal calcio: se parlo del risultato di una partita che

emittente ricevente

cultura culturaemittente ricevente

contesto

messaggio messaggiointenzionato interpretatomessaggio messaggio

espresso ricevuto

codifica decodifica

rumore

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mi ha entusiasmato, riferendomi al fuori gioco che è costato l’in-successo della mia squadra del cuore, la persona che sta ascoltandodeve sapere cos’è il fuorigioco per capire la portata del fatto ed iodevo sincerarmi che la persona effettivamente lo sappia. Altrimentidovrò esplicitare ciò che avevo dato per scontato;

> non solo le parole ma anche i gesti, la posizione del corpo, lo spa-zio tra le persone che stanno comunicando, lo sguardo, ecc., insom-ma tutti gli elementi della comunicazione non verbale sono cultu-ralmente determinati e poiché, come si vede altrove in questo capi-tolo, la comunicazione non verbale spesso prevale sul contenutoverbale in una comunicazione, dobbiamo prestare grande atten-zione a questi aspetti. Come? Di nuovo, non dando per scontatoche ciò che io faccio sia interpretato esattamente come è nelle mieintenzioni e che io sto capendo esattamente ciò che l’altro sta cer-cando di comunicarmi.

Nelle borse di tre persone sono stati trovati questi oggetti:

Persona 1: agenda elettronicacarta di credito American Expressburro di cacao per labbrachiavi con anello senza portachiavi

Persona 2: gomme da masticareaspirinesalviette “fresh and clean”agenda cartacea

Persona 3: biglietti dell’autobusfazzoletti di cartalibro “Con i Palestinesi”preventivo di spesa per lavori di ristrutturazione della casaIl Manifesto

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Quale tipo di persona ti sembra questi oggetti svelino? uomo o donna? gio-vane o anziana? quale potrebbe essere il loro lavoro? e il loro carattere? ele inclinazioni politiche? la classe sociale? la formazione? sposati o singoli?la loro appartenenza etnica/culturale?

Concediti qualche attimo ma, senza troppo pensare, prendi nota delle coseche questi oggetti ti suggeriscono.

Adesso chiediti: incontrando le persone alle quali questi oggetti apparten-gono, la mia comunicazione con loro sarebbe libera da qualunque “pre-giu-dizio”? oppure il mio comportamento e il mio giudizio su di loro sarebbe inbuona parte guidato dalle idee che me ne sono fatta? e che conseguenzeavrebbe tutto ciò sul nostro rapporto?

Leggi quanto segue solo dopo avere fatto l’esercizio.

Qualunque sia stata la risposta, siamo convinti che gli oggetti ti abbianoimmediatamente ed inevitabilmente suggerito un’opinione sulle persone inquestione e che la relazione che si dovesse instaurare fra te e queste perso-ne sarebbe fortemente condizionata da questi pre-giudizi.Il pregiudizio comunicativo interviene quando vengono attribuite delle ca-ratteristiche psico-socio-culturali o socio-economiche a delle persone inbase alla loro comunicazione. Si può basare su tutti gli elementi che unapersona trasmette e che vengono utilizzati per accumulare velocementeinformazioni sull’altro. Come tutti i pregiudizi esso ha dunque un valorepositivo. Tuttavia dobbiamo stare molto attenti nell’attribuire un valoredefinitivo e assoluto a queste sensazioni e opinioni e dobbiamo essere pron-ti a sospendere il giudizio in attesa di conoscere veramente l’individuo checi troveremo davanti.

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Il linguaggio non è qualcosa di neutro, un mero strumento: attraver-so il linguaggio noi selezioniamo la realtà e la apprendiamo. Esso, nell’uo-mo, è un punto di vista privilegiato per capire il mondo e per costruire“una” visione della realtà. Nell’ipotesi di due linguisti moderni (Sapir eWhorf) esiste una realtà oggettiva e una nostra realtà e quest’ultima èimportante perché spesso noi ci muoviamo da una all’altra delle due, sco-prendo che esistono dei limiti oggettivi nei nostri percorsi, che possonoessere superati scivolando nell’altra e questo ci porta pericolosamente anon tenere conto di quanto avviene “fuori” di noi e da cui dobbiamo spes-so difenderci e con cui dobbiamo spesso interagire. Così non dobbiamo cre-dere che per un giapponese sia davvero impossibile distinguere tra verde eazzurro, perché così ci fa credere la sua lingua. Egli vede gli stessi colori chevediamo tutti, a meno che non sia daltonico, ma il suo interesse è attiratoverso una divisione dello spettro diversa da quella di un italiano. I sensiattraverso i quali conosciamo il mondo sono quelli che sono ma diversa èl’attenzione che poniamo alle cose.

L’idea che ogni elemento di una cultura sia relativo unicamente a quella culturapuò nascondere delle trappole. Un rappresentante di un gruppo sindacale,durante un seminario al quale partecipavano dodici mediatori linguistico-culturali,sosteneva che i diversi concetti del tempo di vari gruppi culturali rendeva questigruppi inadatti a lavori con orari fissi. La conseguenza sarebbe dunque che sidovrebbero indirizzare immigrati non comunitari a lavori senza orari fissi,contrariamente a ciò che accade negli uffici e nelle fabbriche. I mediatoririspondevano che, nonostante possibili differenze concettuali, nei loro Paesi (cheincludevano Algeria, Camerun, Cina, Marocco, Nigeria, Perù, RepubblicaDominicana e Somalia) l’orario scolastico, di ufficio o di fabbrica, andava rispettatoesattamente come in Italia. In questo caso una presunta diversità culturalerischiava di escludere molte persone da normali opportunità di lavoro.Testimonianza di un formatore di una ONG

ESEMPIO

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Prendiamo ad esempio il concetto del tempo. La misurazione del tempodetermina una percezione della realtà attraverso tale misura. Nelle societàcapitalistiche, nate in ambiente calvinista, il tempo è denaro. Altrove iltempo è associato ad altri valori. Lo spagnolo, per il quale la componenteculturale islamica non è insignificante, “perder tempo” lo esprime conganar tiempo, cioè “guadagnare tempo”, per sé, per fermarsi a guardarenei propri spazi interiori. Dunque la valutazione del valore del tempo èsoggettiva ed è indubbiamente culturale. Spesso la mentalità deimusulmani rifiuta il concetto di una democrazia basata sul consenso diuna maggioranza perché nociva alla coesione di una comunità, dove leminoranze sarebbero scontente. Dunque, solo l’unanimità vale e questa siottiene a prezzo di lunghe, estenuanti discussioni. Non economiche? Forsepiù durature. E le minoranze non esistono? Più facile per noi pensare chein quelle società non sono rispettate le minoranze, tacciando diimmobilismo il mondo islamico antico dove invece hanno sempre trovatoposto anche cristiani ed ebrei.

Ma il calendario e l’orologio, almeno loro, sono realtà oggettive?Certamente no. Non solo la varietà di modi per calcolare il tempo è facil-mente dimostrabile ma il tempo si misura a partire da date diverse. Per ilmusulmano il tempo che conta inizia con l’Egira del Profeta il 16 luglio del622 dell’era cristiana. E se oggi siamo nel 1417 è perché il computo deglianni avviene sulla base dei cicli lunari, per cui ogni 32 anni solari il calen-dario islamico guadagna, grosso modo, un anno. Le ore del giorno, poi,sono diverse e tale diversità si basa su un fatto importante: l’osservazionediretta (astronomica) del tempo. Sebbene in molti Paesi oggi l’orologiofunzioni come in Europa, in altri (e nel passato) il giorno comincia al tra-monto. La notte di giovedì, dunque, è quella tra mercoledì e giovedì, inquanto giovedì termina al tramonto, di conseguenza, le tre europee sonoin realtà le nove. Di più. L’orologio non serve, né i telescopi, per determi-nare i momenti importanti della vita. Gli arabi sono famosi per i loro studiastronomici e ancor oggi oltre duecento stelle sono ricordate con i nomidati da astronomi arabi del passato. Eppure, per determinare l’inizio delramadan, il mese del digiuno, non serve saperne calcolare la data, nonserve saper usare un computer: l’inizio è determinato a vista. Occorronodue validi testimoni che annuncino al mondo di aver osservato in cielo ilsorgere della nuova luna.

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Quando un immigrato cinese rinnova il proprio permesso di soggiorno, se ci sonovariazioni, è quasi certo che l’operatore di polizia farà qualche errore nellatrascrizione dei documenti, come una scorretta ortografia del nome o lo statocivile errato. Questo perché la maggior parte dei cinesi non parlano benel’italiano e non sono perciò in grado di fare rilevare immediatamente l’errore cheapparirà evidente solo quando la persona in questione dovrà mostrare ilpermesso di soggiorno per ottenere altri documenti (con la possibilità che a quelpunto l’errore abbia già prodotto conseguenze negative spesso di altissimo costoper l’immigrato). Ma anche quando la persona immigrata è in grado di segnalareimmediatamente l’errore, per lo più i poliziotti non vogliono apportare lacorrezione e insistono per correggerlo alla successiva occasione di rinnovo delpermesso di soggiorno. Questi errori sono dovuti a una certa pigriziadell’operatore di polizia che non considera i tanti problemi che questa apparentebanalità causerà all’immigrato. Altre volte gli errori sono in realtà dellevalutazioni arbitrarie e soggettive da parte dell’operatore di polizia, come nelcaso in cui un uomo cinese che vive in una stanza in affitto presso una donnacinese, al rinnovo del permesso di soggiorno si vede “attribuita” una moglie e sipuò bene immaginare a quale sequela di interminabili procedure burocratichedovrà ottemperare quando vorrà aprire una pratica di ricongiungimentofamiliare con la sua vera moglie che si trova ancora in Cina.Testimonianza di un rappresentante di gruppo etnico minoritario

per chi vuole approfondire

“Non si può non comunicare”, ha affermato uno dei più grandi studiosi della comunica-zione della nostra epoca, Paul Watzlawick. Ogni individuo comunica in maniera moltepli-ce e non può esimersi dal farlo in alcun modo. Basti pensare al viaggiatore che, seduto sultreno, spalanca il suo quotidiano e si tuffa nella lettura: non volendo comunicare non puòesimersi tuttavia dal comunicare, e in modo forte e chiaro, che non vuole dialogare e pre-ferisce leggere! Eppure questo processo, che può sembrare normale e quasi meccanico, è fonte di moltimalintesi ed una delle esperienze che più spesso abbiamo nella vita è quella frustrante difare in modo che ciò che esce dalle nostre labbra raggiunga l’orecchio dell’altro con ilsignificato delle nostre intenzioni. Per misurare l’efficacia di una comunicazione nonabbiamo altro strumento che il responso che se ne ottiene.Ma perché è così difficile comunicare con efficacia? Perché la comunicazione è il risultato

ESEMPIO

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della combinazione di un processo di acquisizione di regole che comincia quando nascia-mo e di una serie complessa di calcoli che apprendiamo nel corso della vita. Di tutto ciòsiamo solo in parte consapevoli. Infatti, a meno di non essere degli esperti di comunica-zione, difficilmente saremo consapevoli in ogni momento che quando comunichiamo usia-mo spesso tre linguaggi diversi, o meglio, tre livelli di comunicazione: il livello verbale,paraverbale e non verbale.L’elemento verbale è legato alle parole, dunque al linguaggio, che esprime il contenutodella comunicazione:“cosa” stiamo comunicando.Gli altri due elementi invece sono legati al “come”comunichiamo. Gli elementi paraverba-li sono il tono, il volume, il ritmo e il timbro della voce. Gli elementi non verbali sono lagestualità, le espressioni del viso, l’abbigliamento, la gestione dello spazio. Ciò cui si pre-sta più attenzione nella comunicazione solitamente è il linguaggio verbale (cioè le paroleche si scelgono) e si tende a trascurare, almeno coscientemente, gli altri due aspetti. Ciò ècurioso poiché alcune ricerche (Mehrabian) sembrano dimostrare che, mediamente, in unacomunicazione il peso della parte verbale è attorno al 7%, il peso della parte paraverbaleè del 38% e il rimanente 55% è comunicazione non verbale.Ma perché usiamo il linguaggio non verbale e paraverbale? Perché le parole non bastano?Perché non tutto si può esprimere con le parole in modo adeguato. Lo usiamo così percompletare il messaggio (per esempio usando l’abbigliamento come un ulteriore modo perinviare informazioni), per rafforzarlo (la gestualità), a volte lo usiamo al posto del conte-nuto (pensate a un eloquente, ancorché silenziosa, alzata di sopracciglia) o per comunica-re uno stato emotivo (con la voce, il volto, i movimenti del corpo) o gli atteggiamenti chesi hanno nei confronti degli altri (con la vicinanza fisica e lo sguardo).Gli elementi non verbali e paraverbali sono così potenti che, nel caso di un conflitto tra lacomunicazione verbale e quella paraverbale e non verbale, quest’ultima prevale. In altreparole: il “come” lo dico prevale sul “cosa”dico. Pensate ad esempio, in quanti modi è pos-sibile proferire la parola “bravo”, veicolando di volta in volta sincera approvazione odisappunto o addirittura il significato opposto!

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3 - L’azione della polizia

Da tutto quanto abbiamo scritto sinora, dovrebbe ormai risultarechiaro che comunicare tra persone appartenenti a culture diverse è ancorapiù complesso che comunicare tra persone appartenenti alla stessa culturae che i contesti nei quali avvengono queste comunicazioni possono modi-ficare enormemente il senso del contenuto che si intende trasmettere e chel’altro riceve. Si sarà anche capito che bisogna prestare molta attenzioneagli elementi della comunicazione non verbale perché i gesti, la posizionedel corpo, gli sguardi, la lontananza o la vicinanza dei corpi sono di fon-damentale importanza per la comprensione reciproca. Allora che fare percomportarsi in modo adeguato nella babele di culture e lingue diverse conle quali un operatore di polizia può venire in contatto?

Vi proponiamo alcune, parziali, soluzioni:> avere acquisito la consapevolezza che le fonti di incomprensione

possono essere tante e possono manifestarsi a diversi livelli, è unprimo passo importante verso una posizione di dubbio sulla comu-nicazione e il comportamento dell’altro: non è detto che se unadonna originaria di un Paese africano non mi guarda dritto negliocchi stia mentendo, è forse più probabile che stia in questo modomostrandomi il suo rispetto! Allo stesso modo, è probabile che unadonna di religione musulmana, o una persona cinese, abbassino losguardo per modestia;

> essere gentili e avere pazienza può migliorare la comunicazioneperché un tono pacato può forse tranquillizzare l’altro, facilitandocosì la sua comunicazione con noi. In Inghilterra la polizia feceun’indagine presso le comunità d’origine etnica minoritaria sucome avrebbero voluto che la polizia agisse: risultò che la richiestapiù forte era di un comportamento gentile e di scusa nel caso dierrore. Anche noi abbiamo chiesto ai nostri colleghi e amici di ori-gine etnica minoritaria come vorrebbero i poliziotti e la cortesia ela gentilezza sono risultati tra i requisiti più significativi (si veda ilcapitolo 6);

> rivolgersi alle persone con la formula di cortesia “lei”. Per chi parlabene la nostra lingua appare subito oltraggioso che qualcuno sirivolga a loro con il tu mentre con una persona italiana si sarebbe

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usato il lei. Passate al tu solo quando avrete verificato che la per-sona non comprende e pensate che l’uso del tu possa facilitare dav-vero la comunicazione;

> parlate con le persone di origine etnica minoritaria che vivono nelvostro territorio e chiedete loro se ci sono questioni particolari chegli operatori di polizia dovrebbero tenere presente;

> se nel vostro territorio è presente una comunità particolarmentenumerosa, sarebbe bene assegnare una persona ai contatti conquella comunità di cui, in questo modo, potrà conoscere meglio leusanze, i bisogni e le richieste e con la quale potrà instaurare piùfacilmente un rapporto di reciproca fiducia;

> ricordate che per alcuni gruppi di musulmani e non musulmani dicerti Paesi non è bene che le donne stringano la mano a un uomoo che si trovino sole con un uomo che non appartiene alla lorofamiglia e non insistete dunque per vedere la donna da sola (ameno che questo non sia strettamente necessario per un’indaginee, anche in questo caso, fornite tutte le informazioni e rassicura-zioni necessarie, oltre alla ricerca di soluzioni alternative);

> se fate un errore (per esempio, allungare la mano per stringerla aduna donna che non vuole fare altrettanto con voi, e non per scor-tesia), semplicemente scusatevi e proseguite. Le persone sonomolto più pronte di quanto noi crediamo ad accogliere scuse sin-cere;

> fate tutto il possibile affinché nei vostri uffici si possa ricorrere ainterpreti in campo sociale (o mediatori linguistico-culturali comespesso vengono identificati) ogni volta che sia necessario. Oggi esi-stono in tante città anche dei servizi di interpretariato telefoniciche facilitano molto l’intervento dell’interprete;

> producete volantini e fogli informativi in diverse lingue e fate inmodo che queste informazioni circolino nelle comunità attraversola rete di conoscenze e di contatti che avrete stabilito con i rappre-sentanti delle comunità e le loro associazioni, con i sindacati, gliuffici comunali e i tanti altri modi che risulteranno appropriati nelvostro particolare contesto. Non dimenticate però che alcune per-sone immigrate non sanno leggere e che spesso la lingua inglese ofrancese sono per loro la seconda o la terza lingua! È perciò anco-

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ra più necessario che persone della stessa comunità possano veico-lare loro le corrette informazioni.

Per chi volesse approfondire alcuni aspetti della comunicazione inter-culturale suggeriamo la lettura di un testo breve ma denso di informazio-ni che è riportato anche nella bibliografia consigliata. Si tratta di “Parolecomuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale” di PaoloBalboni (1999). In particolare i capitoli 3, 4 e 5 offrono una lista di tipizza-zioni di formule comunicative e comportamenti di macro-gruppi umani. Vatenuto presente che Balboni si rifà alla teoria del software mentale diHofstede che, ricordiamo, dopo avere avuto enorme successo sia di pubbli-co che nel mondo accademico, è oggi oggetto di critiche da parte di alcu-ne correnti, in particolare di psicologia culturale.

3.1 - Tutti hanno diritto a capire e a farsi capire

Accade spesso che, nei contatti tra gli operatori di polizia (all’UfficioImmigrazione delle Questure, ai controlli per strada o nelle case, ecc.) e lepersone di origine etnica minoritaria, ci siano per diversi motivi incom-prensioni che possono portare anche a gravi conseguenze per i cittadinistranieri o per l’efficacia dell’operato della polizia. Se può essere vero chealcune persone fingono di non capire l’italiano, è però vero che, nella mag-gioranza dei casi, le persone straniere non hanno una conoscenza della lin-gua italiana che, specie in momenti di tensione e apprensione come puòessere per un immigrato il contatto con la polizia, permetta loro di inter-loquire con serenità ed efficacia. Sono tanti i casi di persone che arrivanopersino ad essere detenute senza sapere nemmeno di quali reati sono accu-sati.

Tutte le persone – sia operatori della polizia che pubblico - hannoinvece diritto a capire e farsi capire e la polizia, per la delicatezza delle que-stioni che tratta e per il suo impegno nella difesa dei diritti umani, ha unparticolare dovere a fare sì che ciò si realizzi. L’interpretariato dovrebbedunque essere disponibile in tutti i casi in cui le persone in questione nonconoscono l’italiano; parlano poco l’italiano; richiedono un interprete perparticolari procedure, come la richiesta di un permesso di soggiorno o perdenunciare un torto subito.

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Oggi molte questure hanno contatti con interpreti (o di persona otramite un servizio di interpretariato telefonico) e si spera che questa pras-si si diffonda sempre di più, anche se, va detto, il mondo dell’interpreta-riato in campo sociale (o della mediazione linguistico-culturale come, anostro parere erroneamente, viene spesso chiamata3) è ancora poco svilup-pato in Italia, la formazione non è sempre di qualità, non esistono linee-guida, né una politica chiara sull’argomento.

Ci sono alcuni pericoli nell’uso d’interpreti che vogliamo mettere inevidenza. Spesso, per assenza o impossibilità a contattare degli interpretiprofessionalmente preparati, si ricorre ai favori di amici o familiari, cosache rende ancora più complicata una comunicazione già molto difficile.Alcuni studi realizzati nei Paesi anglosassoni hanno dimostrato infatti cheusare interpreti non formati, in alcune circostanze, comporta rischi più altiche non avere interpreti per nulla. La presenza di qualcuno che traducainduce infatti la falsa sensazione di sicurezza - sia per l’operatore, sia per ilcliente – che sia in corso una comunicazione accurata. Degli interpreti nonformati possono invece, anche involontariamente, introdurre distorsioninella comunicazione in diversi modi:

• aggiungere informazioni che non sono state date dal cliente• omettere di tradurre delle informazioni• alterare le informazioni• fornire consigli• non avere dimestichezza con la terminologia specifica• non rispettare la confidenzialità• provare imbarazzo• provocare imbarazzo

Ciò che deve essere sempre, in ogni circostanza, evitato, è il coinvol-gimento di bambini.

Anche quando si lavora con interpreti professionalmente preparati, èbene rispettare alcune regole che facilitano la buona comunicazione. Eccoalcuni suggerimenti:

• stabilire la regola con l’interprete e con il cliente che ogni cosadetta deve essere tradotta;

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• fornire in anticipo all’interprete e al cliente tutti gli elementi chepossono aiutarlo a comprendere la situazione e il contesto;

• ogni volta che è possibile e appropriato, scegliere un interpretedello stesso sesso del cliente;

• considerare le possibili differenze politiche e/o di religione;• concedere tempo per le presentazioni e per tentare di creare il più

possibile un clima rilassato;• parlare direttamente al cliente e non all’interprete;• parlare con frasi chiare e pause frequenti;• lasciare che l’interprete interrompa se non ha capito o se pensa di

dovere tradurre la frase appena pronunciata dall’operatore;• evitare il gergo, le abbreviazioni e le sigle.

note

1 Mantovani G., op. cit., pag. 69.2 Mantovani G., op. cit., pag. 95.3 C’è, purtroppo, molta confusione fra “interpretariato”, “mediazione culturale” e “advo-

cacy”. Un interprete può fare un lavoro puramente tecnico, semplicemente traducendo,parola per parola, quello che dicono le parti. Nella forma più estrema, l’interprete nondeve occuparsi della comprensione del messaggio. Se un immigrato britannico non capi-sce la differenza fra ‘residenza’ e ‘domicilio’ (concetti indistinti nel sistema giuridico ingle-se) non è responsabilità dell’interprete spiegarla. Un tentativo di colmare questa lacunanella comunicazione ha dato vita ad una nuova professione: il mediatore culturale.Purtroppo, i mediatori culturali, per poter svolgere davvero un lavoro di ponte sia lingui-stico che culturale, dovrebbero avere competenze ampie e approfondite, quasi a diventa-re antropologi culturali e interpreti specializzati (e probabilmente anche psicologi edesperti legali). Nell’impossibilità ovvia di essere all’altezza di una prova così difficile, l’o-perato del mediatore rischia di sfumare nell’”advocacy”, cioè, la difesa di una delle parti.Quale parte difende può dipendere da fattori personali e politici o semplicemente dalfatto di essere pagato da una parte (nel nostro caso la Questura).

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discriminazionee razzismo5

1 - Il primo passo: indagare in modo efficace

Nella gestione dei rapporti della Polizia di Stato con le comunità dietnia minoritaria o immigrate, uno dei momenti più critici è quando l’ope-ratore di polizia è chiamato ad occuparsi di – e possibilmente risolvere – uncaso di razzismo.

Fino ad oggi non esiste in Italia una procedura specifica per guidarel’operatore di polizia in questo tipo di situazione ma, in considerazionedella gravità di tali incidenti e della difficoltà insita nel loro accertamento,siamo convinti che sia necessario offrire, a chi ha responsabilità diretta oindiretta di indagine, delle linee guida e dei principi che possano aiutare agarantire un servizio di polizia efficace anche in questi casi.

Inoltre, come già detto nel capitolo 1, le Direttive emanate dalConsiglio dell’Unione Europea (n. 43/2000 e n. 78/2000) e la Raccoman-dazione (Rec 2001/10) “Codice etico europeo per la polizia” richiamano idoveri della polizia sul rispetto dei diritti fondamentali della persona e del-l’agire equo e professionale. I rischi di errori da parte della polizia sonomolti, come evidenziato dal rapporto della commissione parlamentare bri-tannica “McPherson Report” che, dopo l’approfondito studio di una notatragedia nella quale morì nel 1993 un giovane britannico nero1, elenca unatriste lista di mancanze e gravi dimenticanze da parte della polizia diLondra. Di particolare importanza è stato il riconoscimento dell’aspettoforse più subdolo nel fallimento dell’erogazione del servizio di polizia, ladiscriminazione istituzionale, dove è l’istituzione di Polizia nel suo com-plesso, piuttosto che i singoli individui, a discriminare una parte di quellastessa società che avrebbe invece l’obbligo di servire.

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Siamo convinti che anche la Polizia italiana, così come hanno fattomolte polizie europee, debba procedere ad una riflessione approfondita ead una revisione degli standard di servizio, delle modalità di erogazione edei criteri e indicatori di verifica. In attesa di una più ampia riforma, si puòpensare che alcuni elementi di novità possano essere gradualmente inseri-ti a livello locale con esperienze pilota da valutare e, possibilmente, ripe-tere altrove.

Come sempre, prima di illustrare i nostri suggerimenti per l’azionedella polizia, vogliamo proporvi alcune informazione e riflessioni su cos’èla discriminazione e come essa agisce.

2 - Come agisce la discriminazione

Discriminare significa identificare differenze e ciò può essere sianegativo, sia positivo: se stiamo guidando è importante essere in grado didiscriminare tra le varie corsie del traffico. C’è però un altro livello di signi-ficato, connotato negativamente, che diventa un’etichetta negativa attri-buita a persone, gruppi o entità diverse e questa “discriminazione contro”non è casuale ma segue dei modelli precisi di classe, genere, “razza” oappartenenza etnica, disabilità, orientamento sessuale, età. Quando que-sta discriminazione esiste essa diventa un’esperienza di oppressione perchéagita da soggetti in un rapporto di potere diseguale, o due gruppi sociali,di cui uno più potente e l’altro meno potente. L’oppressione così intesaimplica calpestare i diritti di un individuo o di un gruppo e creare così unosvantaggio. Le disparità sono mantenute attraverso processi di discrimina-zione che hanno l’effetto di distribuire le opportunità della vita, il poteree le risorse in un modo che rafforza le relazioni di potere già esistenti. Èproprio attraverso questo processo interattivo tra discriminazione e dispa-rità che lo status quo è mantenuto.

La discriminazione agisce a tre livelli2: personale, culturale e istitu-zionale (o strutturale) e tutti e tre interagiscono tra di loro.

Personale o individualeI pensieri, i sentimenti ma soprattutto gli atteggiamenti e le azioni di

un individuo, specie se in posizione di potere. La manifestazione più evi-

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dente di un pregiudizio è l’espressione di un’opinione (un giudizio) e ilrifiuto di cambiarla o abbandonarla anche di fronte ad un’evidente provacontraria. Può essere consapevole o inconsapevole ma l’effetto non cam-bia. È importante riconoscere che il pregiudizio (e la discriminazione che nepuò seguire) non è unidimensionale e coinvolge persone diverse in situa-zioni diverse: una donna nera può essere vittima di razzismo e sessismo etuttavia discriminare gli anziani e i disabili.

Un’azione discriminatoria è personale quando l’attore la fa in nomesuo; per esempio, rifiutare di sedersi accanto ad una persona nera o sce-gliere di non invitare un ebreo a cena a casa propria perché non si “sop-portano” gli ebrei. Anche quando una persona fa un’azione discriminato-ria nell’ambito del proprio lavoro, l’azione può costituire una discrimina-zione individuale (e non istituzionale). Se, per esempio, l’autista di unautobus non si ferma ad una fermata dove l’unica persona in attesa è nera,e se l’autista sa che il suo compito è di fermarsi per chiunque aspetti l’au-tobus alla fermata, allora fa questo atto di sua propria volontà e responsa-bilità3.

CulturaleSebbene ogni individuo sia unico, dobbiamo riconoscere che i suoi

valori e le sue azioni sono molto legati alle aspettative e norme prevalentinella società in cui vive.

È anche a livello culturale che gruppi e individui possono essere esclu-si ed emarginati nella creazione di un “noi” e di un “loro”. È chiaro che ilsenso di appartenenza, il dare per scontate una serie di cose, ha anche unaspetto positivo, di sentirsi sicuri e integrati, di avere radici e ci permette diaffrontare il quotidiano senza dovere mettere in dubbio qualsiasi cosa fac-ciamo, è insomma uno strumento necessario per non avere un corto circui-to informativo. Il pericolo in agguato è però l’etnocentrismo, cioè la ten-denza a vedere il mondo attraverso i limitati confini della propria cultura ea proiettare su altri gruppi il proprio insieme di valori e norme.L’etnocentrismo offre il maggiore contributo al razzismo perché non rico-nosce le differenze culturali e la loro importanza per le persone coinvoltee si basa sulla premessa errata che ci sono culture superiori alle altre. Adesempio, sono manifestazioni di etnocentrismo le dichiarazioni di perso-naggi di spicco del mondo politico e culturale che affermano la superioritàdella cultura occidentale nei confronti di quella orientale o dell’islam nei

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confronti del cristianesimo o il riferimento nei giornali alle origini nazionalio etniche o all’appartenenza religiosa solo di certi gruppi di immigrati.

Strutturale (o istituzionale)I modelli culturali non esistono nel vuoto ma sono in costante intera-

zione con fattori sociali, politici ed economici. L’elemento del potere (giàpresente anche nei livelli personale e culturale) appare qui evidente e simanifesta in norme, regole e prassi che hanno l’effetto di escludere alcunigruppi dal godimento di certi diritti, per il solo fatto di appartenere a queigruppi. Questo tipo di discriminazione si manifesta anche dove il potere didiscriminare è agito da una persona ma in virtù di un’investitura istituzio-nale. Per esempio, un professore può discriminare alcuni suoi alunni inforza del suo ruolo istituzionale e non per sua individuale volontà. Moltiautori contestano che il razzismo sia dovuto alle idee e ai pregiudizi dellepersone. Secondo costoro, ciò che veramente importa sono le strutture dipotere, le istituzioni e le pratiche sociali che producono l’oppressione raz-ziale e gli effetti delle discriminazioni. Allo stesso modo, le idee sessistenon sorgono per caso ma per proteggere privilegi, in questo caso per man-tenere gli uomini in posizione di potere e privilegio.

La Polizia Metropolitana della Gran Bretagna ha adottato questadefinizione di discriminazione nelle organizzazioni (detta anche “discrimi-nazione istituzionale”):

Il fallimento collettivo di un’organizzazione nel rappresentare piena-mente, ed in ogni aspetto, la comunità che serve, a causa delle origini “raz-ziali” o etniche, della religione o credo di alcuni membri di quella comu-nità. Può essere rilevata nelle procedure, negli atteggiamenti e nei com-portamenti che portano alla discriminazione attraverso un pregiudizioinvolontario, ignoranza, incuranza e stereotipo che si traducono in svan-taggi per i membri del pubblico e in un fallimento nell’assicurare l’ugua-glianza di opportunità ai dipendenti di un’organizzazione o di un’organiz-zazione dipendente. Il fallimento delle procedure dell’organizzazione stes-sa nel rilevare la discriminazione, o nell’intraprendere azioni contro di essa,può essere visto come un indicatore di discriminazione nell’organizzazione(o “istituzione”).

Sono state per prime le studiose femministe a mettere in dubbio l’i-deologia che sottende ad una società patriarcale e sessista, basata su una

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differenza biologica che confinerebbe “naturalmente” la donna nella casae nell’allevamento dei figli. Allo stesso modo il razzismo si basa sull’ideache ci siano “razze” biologicamente diverse, alcune delle quali sono infe-riori alle altre. Ed è proprio questo processo di attribuire un significato alledifferenze e di assegnare ad ognuna livelli di valore diversi che sta alla basedella discriminazione, dell’oppressione e dell’esclusione. Un fenomeno cheè il risultato di una costruzione sociale e storica è trattato come un eventonaturale o come l’inevitabile risultato di caratteristiche naturali cosicché,per esempio, la divisione sociale del lavoro tra uomini e donne è ritrattacome il prodotto di caratteristiche e differenze fisiologiche tra i sessi. Inaltre parole, fenomeni storico-sociali sono privati del loro aspetto storico edescritti e considerati come eternamente ricorrenti e immutabili. Lo stessoprocesso di “naturalizzazione” interviene quando si considera la vecchiaiacome “naturalmente” un periodo di ritiro e disimpegno dalla vita sociale,così come, all’altro capo dello spettro dell’età, sta la costruzione socialedell’infanzia che, pur essendo cambiato nel corso dei secoli anche all’inter-no della nostra stessa società, viene ancora relegata a una posizione privadi potere e con scarsa enfasi sui diritti. Così come per le persone disabili èancora presente un’immagine sociale che li vede prevalentemente comedestinatari di cura ed assistenza, lontani quindi da un’esperienza di vita incui la presenza di un deficit non neghi la possibilità di costruire e godereuna qualità di vita globale.

Gli stessi meccanismi hanno operato quando le donne cominciaronoa lavorare in polizia o nell’edilizia o quando gli stranieri cominciarono aimmigrare. L’arrivo di una minoranza in un’organizzazione inizialmenteprovoca incertezza nella maggioranza, la gente non si sente più tanto sicu-ra sul comportamento da tenere (“posso ancora raccontare quella barzel-letta? come mi devo comportare con una persona così?”), al punto chequesta insicurezza fa dimenticare ai membri della maggioranza le tantedifferenze all’interno del loro gruppo (le persone sposate e quelle singole,chi ha figli e chi non ne ha, il ceto di appartenenza, ecc.). Ora essi hannoocchi solo per le differenze tra maschio e femmina, tra abile e disabile, traautoctono e immigrato. E questa insicurezza, per difesa, porta ad unrafforzamento della cultura esistente e cioè della cultura dominante, la cul-tura del “qui si fa così”.

L’esagerazione delle differenze ha anche un’altra seria conseguenza,quella di spianare la strada per l’esclusione delle minoranze, cosicché a

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donne, anziani, gay e lesbiche, disabili, minoranze etniche sono date mino-ri opportunità di lavoro e di carriera. Per questi outsider diventa quindi dif-ficile penetrare nei circuiti informali dove si prendono veramente le deci-sioni.

I gruppi dominanti usano tre diverse strategie per limitare l’influen-za degli outsider che possono essere usate senza volere oppure deliberata-mente. Essed4 propone tre concetti fondamentali per capire e descrivere letre strategie che si riscontrano in tutte le società a maggioranza bianca eche possono essere applicati a qualunque gruppo subordinato: marginaliz-zazione (o emarginazione), problematizzazione e contenimento.

Emarginazione – una forma di esclusione> Ignorare le forme di discriminazione

I lavoratori di un’organizzazione non si sentono responsabili perquelle relazioni che escludono gli altri. Razzismo, omofobia, sessismo, ecc.non sono messi in questione da nessuno e lo status quo permane.

> Il pensiero gerarchico

Il gruppo dominante è convinto della propria superiorità: gli uominisono superiori alle donne, la cultura europea è la norma ed è superiore, ecc.

> Ostacoli alle pari opportunità

Ci sono molti modi per rendere l’ingresso difficile agli “altri” o la loroprogressione in carriera. Ciò può avvenire in forme più o meno sottili: ilnon riconoscimento delle qualità, le tattiche di scoraggiamento, il sovrac-caricarli di lavoro, il trattenere informazioni fondamentali, ecc.

Problematizzazione – ideologie usate dal gruppo dominanteper legittimarsi

> Denigrare la personalità

Le persone sono etichettate come inaffidabili o eccessivamente sensi-bili.

> Denigrare la cultura

Le differenze sono spiegate in termini di cultura: “loro sono indietrorispetto a noi” o addirittura gli altri sono considerati incivili.

> Denigrare su base biologica

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Le persone sono etichettate come “problematiche” attraverso unprocesso di criminalizzazione o ascrivendo loro, per esempio, aberrazionisessuali.

Contenimento – una forma di repressione> Negazione della discriminazione

Si può ignorare la discriminazione evitando di prendere posizione ocon una posizione attiva di diniego in risposta a lamentele di razzismo, ses-sismo o altro.

> Amplificare le differenze

I responsabili e i dirigenti possono inavvertitamente amplificare ledifferenze riservando certi lavori alle minoranze o possono introdurre mec-canismi di decisione che premiano la maggioranza.

> Il paternalismo

Il paternalismo può assumere molte forme, dalla protezione all’a-spettativa della gratitudine, tutte cose che rafforzano la dipendenza.

> Negazione della dignità

Le persone possono essere sminuite o umiliate.> Intimidazione

Molestie e intimidazioni possono assumere varie forme, dalla violen-za fisica o sessuale, alle minacce verbali o a prepotenze per creare un’at-mosfera ostile attraverso scherzi o forme di ridicolizzazione.

> Ritorsioni

L’assertività può essere punita, le promozioni provocano gelosia e sicovano invidie, e si cercano modi per consumare una vendetta.

La Dichiarazione Internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazionedi ogni forma di discriminazione razziale (1969) afferma che:

«Costituisce discriminazione razziale ogni distinzione, esclusione, restrizione o pre-ferenza basata sulla razza, sul colore, sulla nascita, sulle origini nazionali ed etnicheche abbia lo scopo di modificare o limitare il riconoscimento, il godimento o l’eserci-zio su un piano di parità dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo poli-tico, economico, sociale e culturale o qualunque altro campo».

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Nel 1978 l’UNESCO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Edu-cazione, la Scienza e la Cultura, dichiarò che:

«Qualunque teoria che asserisca che gruppi “razziali” o etnici siano intrinsecamentesuperiori o inferiori - sottintendendo così che alcuni avrebbero il diritto di dominareo eliminare altri che sarebbero inferiori - o che attribuisce un giudizio di valore alledifferenze razziali, non ha fondamento scientifico ed è contraria ai principi morali edetici dell’umanità».

Innumerevoli conferenze e dichiarazioni in campo internazionale sisono susseguite negli anni fino al 2001 che fu dichiarato “Anno interna-zionale della mobilitazione contro il razzismo, la discriminazione razziale,la xenofobia e l’intolleranza” e che ebbe il suo massimo evento nellaConferenza mondiale di Durban (31 agosto – 8 settembre 2001).

Ciononostante il razzismo e le discriminazioni razziali, etniche e reli-giose sono un’esperienza purtroppo quotidiana per milioni di persone,comprese le persone di origine etnica minoritaria o di religione minoritariache si trovano nel nostro Paese. Uno dei pochi documenti di ricerca svoltain Italia “Atti di violenza contro gli immigrati” (studio sulle notizie ripor-tate dai giornali condotto dall’Osservatorio sulla Comunicazione Sociale eil Dipartimento Radio e Televisione dell’Università La Sapienza di Roma,che presenta i dati sui primi nove mesi del 2000) riporta nella presentazio-ne le parole dell’allora capo del governo Giuliano Amato: “In Italia unostraniero è vittima di violenza ogni 25 ore”. Secondo questo rapporto,anche escludendo, peraltro in modo piuttosto arbitrario, gli assalti perpe-trati da stranieri ai danni di stranieri, il 34,7% di tutti i casi di violenza con-tro stranieri ha una chiara matrice razzista.

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per chi vuole approfondire

Il razzismo classico, quello che si fa risalire a Joseph-Arthur deGobineau, imputa la diversità culturale ad un elemento naturale, assegnaall’altro un valore negativo e spiega tutto individuando nell’elementogenetico-razziale la supposta inferiorità. Le teorie che stanno alla base diquesto razzismo, come abbiamo detto, sono state confutate anche sulpiano biologico e genetico. È facile inoltre dimostrare che una personaappartenente ad una “razza”, se sin da piccola viene cresciuta ed educatain un ambiente del tutto diverso da quello di appartenenza “razziale”, cre-scerà come persona socialmente “media” secondo gli standard della cultu-ra nella quale è stata allevata.

Oggi difficilmente si troverà qualcuno che si dichiari apertamente raz-zista, nel senso appena indicato. Ciò non significa che il razzismo, sia comeideologia, sia come pratica quotidiana, stia scomparendo. Tutt’altro. Esso sipresenta piuttosto in forme più sottili e perciò più subdole e difficili da com-battere: dalla nozione di “razza” si è passati a quella di “etnia” (vedi cap.3, § 3) e gran parte del dibattito attuale sul razzismo riguarda in realtà nonla “razza” biologica, bensì l’appartenenza etnica e la conflittualità interet-nica. Ci sono persino rischi di razzismo in quelle teorie che, come il relativi-smo culturale, concetto caro a molti autori in campo antropologico ed etno-grafico, nel loro intento originario volevano arrivare ad un’idealizzazionedella differenza, alla diversità vista come valore, come fonte di confronto edi arricchimento. È anche per questa via, estremizzandone i contenuti, chesi arriva al “giustificazionismo culturalista”, la forma di razzismo oggi piùdiffusa che considera comunque e sempre valide e rispettabili tutte le mani-festazioni di cultura (a meno che non siano palesemente contrarie ad alcu-ni principi etici basilari come il rispetto della vita, o della dignità umana) econsidera ingiusta ogni pressione esterna finalizzata alla modifica di queitratti. Essa é particolarmente insidiosa perché non necessariamente partedalla superiorità della propria cultura ma piuttosto dall’irriducibile diffe-renza tra le culture, ogni cultura avendo prodotto senso nel contesto in cuisi è sviluppata e dove ha diritto di conservarsi, purché non esca da quel con-testo o territorio e non minacci il diritto alla identità culturale degli altri. In

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sostanza, il ragionamento è semplice: tutti gli esseri umani sono uguali masono legati a sistemi di significato che si sono differenziati, le “culture”appunto, che vanno rispettate nella loro diversità, e la conclusione è“ognuno a casa sua”. I sostenitori di questa posizione sono convinti che ladecadenza comincia quando le culture interagiscono e creano fenomeni disincretismo, in sostanza confusione, delle culture e dei suoi prodotti.Altrove, in questo testo, si riferisce invece di come tutti gli approcci antro-pologici, sociologici e di psicologia sociale riconoscano che quelli cheappaiono come “risultati” di una cultura

«non sono mai stati prodotti da culture isolate, bensì da culture che, volontariamen-te o involontariamente, combinavano i loro giuochi rispettivi e realizzavano con varimezzi (migrazioni, influenze, scambi commerciali e guerre) quelle coalizioni (neces-sarie a produrre quei risultati). (…) La possibilità che una cultura ha di totalizzarequel complesso insieme di invenzioni di ogni ordine che chiamiamo una civiltà, è fun-zione del numero e delle culture con cui essa partecipa all’elaborazione – il più dellevolte involontaria – di una comune strategia».5

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In Italia, secondo l’ultimo Rapporto Zincone sull’integrazione6 (2000),“è difficile comporre un quadro ragionevolmente esteso degli atti e dellepratiche discriminatorie a causa della mancanza di un rilevamento siste-matico e con criteri condivisi sul territorio nazionale”. Questa situazione èa tutt’oggi immutata, sebbene non siano stati abrogati nemmeno dallalegge 189/02, detta legge Bossi-Fini sull’immigrazione, gli articoli della pre-cedente Legge Turco-Napolitano sulla discriminazione i quali, oltre a defi-nire la discriminazione e a identificarne i possibili autori, chiedevano alleRegioni di istituire dei centri regionali di osservazione e studio delle discri-minazioni e di assistenza alle vittime.

Queste norme, purtroppo, sono tutto sommato ancora inapplicatema le ricerche svolte sul tema rilevano che le discriminazioni di stamporazziale ed etnico sono tante, sia nella forma diretta che nella forma indi-retta. Esse per lo più avvengono nell’ambito della casa, sia nel mercato pri-vato che nell’edilizia pubblica; nell’ambito dell’accesso ai servizi bancari,finanziari ed assicurativi dove esistono disparità di trattamento tra cittadi-ni italiani e immigrati, nello sport e non solo nel razzismo negli stadi maanche nell’accesso ai servizi sportivi; nella rappresentazione negativa chei media fanno del fenomeno e che ha contribuito a creare nell’immagina-rio collettivo un’immagine negativa delle persone immigrate.

Nel 1998 è stato creato l’ Osservatorio Europeo dei fenomeni di razzismo e di xenofobia, con sede aVienna. Gli scopi dell’Osservatorio sono di raccogliere ed analizzare dati e informazioni per impostareun sistema di monitoraggio e di prevenzione, aumentare la consapevolezza del pubblico e svilupparestrategie di lotta al razzismo. È creato come corpo indipendente dell’Unione, nel cui consiglio d’ammi-nistrazione sono rappresentati gli Stati membri, la Commissione Europea, il Parlamento Europeo e ilConsiglio d’Europa. Una delle prime attività dell’Osservatorio è stata la creazione di RAXEN – ilnetwork europeo d’informazione su razzismo e xenofobia: ha il compito di raccogliere, elaborare e valu-tare informazioni e dati provenienti da tutte le organizzazioni ed istituzioni coinvolte ed interessate.

osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo

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Provare che sia avvenuta una discriminazione, d’altronde, è cosaestremamente difficile, a volte impossibile, per assenza di testimoni o per-ché spesso gli elementi di prova sono in possesso del soggetto che ha com-piuto l’atto discriminatorio, individuo o istituzione che sia. Un cambiamen-to significativo sarebbe stato introdotto nella normativa italiana conl’”inversione dell’onere della prova” prevista dalle Direttive 43/2000 e78/2000 emanate dal Consiglio dell’Unione Europea (si veda il cap. 1, § 1.1).L’inversione dell’onere della prova pone a carico dell’autore, o suppostotale, dell’episodio di discriminazione l’onere appunto di provare che quel-l’atto non è un atto di discriminazione. Il cambiamento che questo nuovoistituto avrebbe apportato nel sistema giuridico italiano (e non solo) sareb-be stato di enorme rilievo. Purtroppo, i decreti applicativi delle direttiveeuropee hanno lasciato l’onere della prova a carico del ricorrente, utiliz-zando una formulazione diversa da quella usata nella legge 125 del 1991sulla parità di genere nei luoghi di lavoro. In sostanza, il ricorrente è tenu-to a dimostrare “in termini gravi, precisi e concordanti” che c’è stata discri-minazione a proprio danno e viene “lasciato alla discrezione del giudicevalutare tali prove”.

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Può sembrare facile identificare i diversi possibili tipi di discriminazione.Chi non riconoscerebbe infatti come forma estrema, consapevole, dichiara-ta, intenzionale e cattiva l’aggressione violenta di un gruppo di naziskin aidanni di una persona nera? Ingannevoli invece sono i tanti modi di discri-minare che si nascondono persino dietro le buone intenzioni e l’inconsape-volezza degli autori e che nondimeno producono degli effetti.La tabella che segue elenca alcuni tipi di discriminazione. Ti proponiamodi cercare esempi per ognuno dei tipi, specie per quelli riportati nellacolonna Tipo 2. Scoprirai quanta discriminazione avviene quotidianamen-te, anche in situazioni insospettabili.

Alcuni esempi:> discriminazione passiva: tacere quando vengono raccontate barzellette

offensive nei confronti delle persone nere, o delle donne, ecc.> discriminazione legale: fino a non molti anni fa in Italia non erano

ammesse a concorsi pubblici le persone di età superiore ai 42 anni> discriminazione sottile e probabilmente non intenzionale: in un gruppo

di lavoro tutti i partecipanti maschi sono presentati con il loro titolo pro-fessionale mentre l’unica donna è presentata come “signora”

Tipi di discriminazione

TIPO 1 TIPO 2

consapevole inconsapevoledichiarato nascosto

attivo passivoestremo sottilediretto indiretto

intenzionale non intenzionalecattivo ben intenzionatoillegale legale

<>

sug

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men

ti p

er

la f

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per chi vuole approfondire

“Tutti uguali – tutti diversi”é lo slogan che in questi ultimi anni in Europa ha avuto gran-de diffusione anche grazie all’impegno della Commissione Europea nella lotta alla discri-minazione razziale lanciata nel 1997, proclamato “Anno europeo contro il razzismo”. Inquell’anno l’Unione Europea inseriva ad Amsterdam l’ Art.13 nel Trattato dell’Unione. Inbase a questo articolo, l’Unione Europea ha acquisito maggiori poteri e autorità per intra-prendere opportune misure di lotta contro le varie forme di discriminazione per motivirelativi a sesso,“razza”o origine etniche, religione, credo, disabilità, età e orientamento ses-suale.Lo slogan “tutti uguali, tutti diversi” esprime la convinzione che ognuno è diverso dall’al-tro e tuttavia tutti siamo uguali. L’affermazione non è banale e sottintende un concettoforte: cose diverse hanno lo stesso valore. Si potrebbe dire che non è innovativo perché èassioma delle democrazie l’affermazione che “tutti sono uguali davanti alla legge”. Il pro-blema è che in realtà non tutti hanno le stesse opportunità e le stesse risorse e gli indivi-dui non sono in condizione di parità. Genere, appartenenza etnica e religiosa, orienta-mento sessuale, età, abilità/disabilità sono seri ostacoli all’ottenimento della parità e que-sto non perché i giovani, gli anziani, le donne, le persone omosessuali o le persone di mino-ranza etnica siano meno capaci ma perché molte delle persone appartenenti a gruppidominanti li considerano “inferiori”.

In Italia: 1 su 2 persone è uomo1 su 2 persone è donna1 su 25 persone ha un background etnico-culturale diverso da quello della maggioranza1 su 6 persone ha più di 65 anni1 su 7 persone ha meno di 14 anni1 su 20 persone è omosessuale1 su 20 persone è disabile

Il concetto di “parità” è complesso e può essere inteso in modi diversi. Certamente non siconfonde con il concetto di “uniformità” perché, anzi, una buona comprensione delle dif-ferenze e della diversità è una parte importante del promuovere la parità.Il concetto di parità porta in sé il concetto di diritti, sul piano civile (garanzia delle libertàindividuali e uguaglianza davanti alla legge), politico (diritto al voto e alle cariche politi-che) e sociale (benessere sociale, sicurezza e appartenenza – nel senso contrario a emargi-nazione - secondo gli standard prevalenti in una data società).

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Ciò che caratterizza il concetto di parità nelle società contemporanee è che l’ineguaglian-za non si dà più per scontata, che non è più inevitabile o naturale e che si può e si devefare qualcosa per contrastarla.Un modo per promuovere la parità è quello delle pari opportunità. L’approccio delle pariopportunità si basa sul desiderio di raggiungere un punto di partenza uguale per tutti inmodo da eliminare lo svantaggio sistematico di alcuni nel lavoro, nell’accesso ai servizi,alla casa, ecc. Questo approccio, nonostante i suoi indubbi meriti, è stato criticato per lasua prospettiva ristretta all’individuo e per il fatto che non si occupa delle strutture dipotere che producono le disparità. In altri termini, se l’accento è sulle opportunità inveceche sui risultati, il risultato stesso può essere tutto tranne che pari se la cultura generalee la struttura sociale non lo sostengono.Anche la promozione del pari trattamento in situazioni di ineguaglianza rischia di raffor-zare l’ineguaglianza stessa.

3 - L’azione della polizia

L’accertamento relativo ad un caso di razzismo è, come ogni altraattività d’indagine, un processo di problem solving la cui efficacia non puòprescindere da una chiara identificazione del problema. Nel caso di un epi-sodio razziale l’elemento “razziale” deve essere identificato sin dall’iniziocon estrema chiarezza. Pertanto dovrebbe essere approntato un modulospecifico per ricomprendere tra i dati registrati anche quelli relativi all’ap-partenenza “razziale”, etnica, nazionale, alla cittadinanza, al colore dellapelle, al credo religioso, che oggi non sono normalmente raccolti, eviden-ziando – a seconda del caso – il dato in base al quale è stata presuntiva-mente operata la discriminazione.

Inevitabilmente, dare maggiore importanza all’investigazione di que-sti casi implica un impegno maggiore di risorse umane ed economiche non-ché di tempo e, come sempre, il costo di un’indagine efficace è dunque ele-vato. D’altra parte, il costo del fallimento di un’indagine sarebbe ancorapiù alto perché andrebbe ad incidere sul livello di fiducia della società e, in

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questo caso particolare, delle comunità di origine etnica minoritaria, neiconfronti della polizia, oltre che sulla qualità di vita individuale e colletti-va, sull’integrità della vita umana e sulla stabilità sociale.

3.1 - Definizioni

La definizione di “episodio razziale” o “caso di razzismo” si estendea ricomprendere comportamenti e atteggiamenti che non necessariamen-te danno luogo ad un reato penalmente perseguibile. È importante sotto-lineare che, per essere classificato tale, un episodio razziale deve sempli-cemente ingenerare nella vittima, nell’operatore di polizia che intervieneo nei terzi, la percezione di una discriminazione effettuata sulla base del-l’elemento “razziale”, etnico, nazionale o religioso. L’ampiezza di questadefinizione serve per assicurare la rilevazione di ogni elemento utile all’ac-certamento di casi in cui risulta spesso estremamente difficile identificarepersino l’esistenza di un episodio, allo stesso modo in cui risultava difficilefar emergere, nel passato, casi di violenza sessuale o come risulta difficilerilevare, ancora nel presente, episodi di estorsione. Infatti, la circostanzache la vittima di un reato di estorsione ometta di segnalarlo alle compe-tenti autorità non solleva queste ultime dall’onere di procedere autono-mamente all’attività di intelligence necessaria al suo accertamento e, ana-logamente, se una persona vittima di un episodio di razzismo non intendedenunciarlo come tale, gli operatori di polizia dovrebbero ugualmenteavviare un’indagine sul fatto.

Questo fenomeno, noto come under-reporting (mancata segnalazio-ne) dei casi di razzismo, è ben conosciuto da tutti coloro che si occupano dilotta alla discriminazione razziale, comprese le polizie di diversi Paesi euro-pei. La Polizia di Northumbria (Gran Bretagna), ad esempio, ha enunciatouna serie di motivi per i quali le vittime di “episodio razziale” decidono dinon farne denuncia e ha per questo accresciuto il proprio impegno nellaformazione degli operatori di polizia e nella costruzione di buone relazio-ni con le comunità di origine etnica minoritaria e con le altre organizza-zioni impegnate nel campo.

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È dunque da considerarsi caso di razzismo (o episodio di razzismo)qualsiasi episodio che venga percepito dalla vittima, o da terzi, avere comedato significativo un elemento di discriminazione operato sulla base della“razza”, dell’appartenenza etnica, della nazionalità, della cittadinanza, delcolore della pelle o altri aspetti fisionomici o del credo religioso, a prescin-dere dal fatto che tale episodio costituisca reato secondo l’ordinamentogiuridico italiano.

La definizione fornita non descrive necessariamente un reato o uncomportamento civilmente sanzionabile ma costituisce l’elemento cheobbliga l’operatore di polizia ad attivarsi per accertare se il fatto ha datoluogo o meno ad una discriminazione penalmente rilevante (ad esempio,istigazione all’odio razziale)7, civilmente sanzionabile (ad esempio, manca-ta erogazione di un servizio pubblico ad un soggetto in ragione della suaappartenenza etnica)8 o pienamente legale, anche se moralmente censura-bile (ad esempio, rifiuto di far entrare nella propria abitazione una perso-na in ragione della propria identità razziale). Alcuni di questi casi sonochiaramente identificabili (come nel caso di un graffito che attacchi espres-samente i “neri” o i “musulmani”), altri non risultano esserlo altrettantofacilmente trattandosi di atti o comportamenti che non mostrano esplici-tamente un messaggio razzista.

Secondo la Polizia di Northumbria (GB)

• timore di rappresaglie da parte degli esecutori dell’episodio• difficoltà di comunicazione legate alla lingua• sfiducia o timore nei confronti delle istituzioni• mancanza di fiducia nel fatto che le istituzioni saranno in grado di agire o vorranno agire• sensazione che le istituzioni rispondano generalmente in maniera insufficiente alle necessità delle

minoranze etniche• insufficiente comprensione delle procedure burocratiche• riluttanza ad ammettere di essere stato vittima di odio razziale• convinzione che l’incidente sia stato troppo banale perché valga la pena sporgere denuncia.

motivi per non denunciare episodi di razzismo

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Un giorno nel Quartiere di Brozzi, una zona dove abitano tanti immigrati cinesi diFirenze, un cinese trova le gomme della sua macchina tagliate. Nei giorniseguenti la stessa cosa succede ad altri immigrati cinesi della zona. Alla finequalcuno denuncia il fatto alla polizia.

Dopo un mese un giovane italiano è arrestato per aver danneggiato le macchinedei cinesi ma è accusato solo di normali atti di delinquenza, non di atti didiscriminazione, mentre é molto chiaro che lui ha tagliato le gomme soltanto allemacchine dei cinesi e mai a quelle degli italiani.

Testimonianza di un rappresentante di gruppo etnico minoritario

3.2 - Fattori particolari

Perché è così importante rilevare un episodio razziale?È importante farlo per la specificità di tale categoria di episodi ascri-

vibile ai seguenti fattori:> l’ incidente non produce effetti solo sulla vittima diretta ma sul-

l’intera comunità> le vittime di un “episodio razziale” possono essere dunque innu-

merevoli> la società intera risente delle tensioni ingenerate da siffatta cate-

goria di episodi> c’è l’alto rischio del ripetersi dell’incidente> sussiste un’elevata probabilità che l’incidente rappresenti solo il

tassello di un puzzle più ampio che, se ricostruito nella sua inte-rezza, può fornire un quadro completo degli autori

> esiste il rischio che, laddove non identificati e neutralizzati, gliautori di un “episodio razziale” possano commetterne di più gravi

> potrebbe sussistere la possibilità che gli autori di tali episodi siorganizzino formalmente o informalmente in strutture associativededite a questo tipo di attività.

Il servizio di polizia, il cui compito è di sostenere in ogni caso le vitti-me di tutti i reati, è nei casi di episodi razziali chiamato ad offrire un soste-gno ancora più forte. Questo non significa riservare alla vittima di tali inci-

ESEMPIO

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denti un trattamento speciale, quanto piuttosto dare il giusto peso a que-sto genere di episodi in ragione della paura e della pressione psicologicaingenerata nei soggetti che hanno subìto la condotta discriminatoria. Latutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, costituzionalmentegarantita e incisivamente ribadita nella Convenzione europea per la salva-guardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, deve esseregarantita senza ricorso ad alcuna forma di discriminazione. Laddove per-tanto l’operatore di polizia non fornisse un sostegno adeguato alla vittimadi un “episodio razziale”, e proporzionato anche alla gravità del fatto, ver-rebbe meno alla sua missione che è quella di costruire una relazione di ser-vizio con un’altra persona che entra in contatto con lui, quasi sempre inuna posizione di potenziale difficoltà psicologica.

Ai fini di un’investigazione efficace é importante delineare la figuradel trasgressore. Un’attività di intelligence condotta su un episodio razzia-le richiede dati completi e accessibili sugli autori conosciuti di tali episodi,come pure una comprensione ampia del tipo di persona che può rendersiprotagonista di tali episodi, il suo modo di pensare, i suoi valori, i suoi com-portamenti, le sue frequentazioni. Ricerche condotte in questo campohanno evidenziato che sussiste un grado di prevedibilità delle azioni chegiovani trasgressori compiranno con l’andare del tempo se non vengonomessi in atto programmi correttivi. Spesso, infatti, essi si fanno coinvolge-re in forme di abuso e di intimidazione via via sempre più violente. Peresempio, già a partire dall’età di quattro anni, i bambini possono mostrarea scuola o per la strada comportamenti discriminatori acquisiti nell’ambitodella famiglia. Cominciando dagli insulti e da atteggiamenti di “bullismo”(o prepotenza) si può passare poi, nell’età adolescenziale e giovanile, a verie propri reati razziali. È anche significativo che, mentre gli anziani in gene-re non commettono reati di questo tipo, le loro opinioni e comportamentipossono avere un’influenza notevole sui giovani.

Un obiettivo primario per la polizia deve essere dunque identificare,indagare e perseguire gli autori di tali episodi in modo soddisfacente perla vittima e la comunità.

Quando l’episodio discriminatorio non ha dato luogo ad un reatoperseguibile penalmente la polizia deve avere quale obiettivo di intra-prendere azioni alternative in partnership con altre associazioni, gruppi eistituzioni competenti in relazione al caso.

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3.3 - Implicazioni per chi è responsabiledi personale sottordinato

Gli operatori di polizia che si occupano di episodi razziali sovente sitrovano a gestire un dialogo ad alta carica emotiva con vittime e testimo-ni. Questo dialogo, al di là dell’episodio specifico per il quale si interviene,può riguardare anche altri precedenti episodi dello stesso tipo, mai denun-ciati o riferiti, ai quali si dovrà estendere l’attività investigativa.

Considerata la mancanza, attualmente, di una procedura standardiz-zata, è estremamente importante che chi ha la responsabilità di personedia un esempio continuo di comportamenti eticamente corretti nell’ap-proccio ad ogni episodio di discriminazione razziale, rendendosi garanteanche dell’uguale correttezza del comportamento dei suoi dipendenti.Sarà sua cura, inoltre, aggiornare continuamente il personale per dargli leconoscenze e competenze appropriate alla gestione di questo particolaretipo di episodio.

È inoltre massimamente importante che l’organo di vertice della poli-zia stabilisca una chiara policy rispetto alla trattazione degli episodi didiscriminazione razziale, delineando i comportamenti e lo stile di atteg-giamento che gli operatori di polizia debbono assumere al riguardo.

Infine, va tenuto presente che operatori che lavorano a lungo o ripe-tutamente in questo ambito possono avere bisogno di un sostegno psico-logico perché sottoposti a forme particolari di stress. I responsabili del per-sonale dovranno essere in grado di rilevare i sintomi di stress professiona-le negli operatori di polizia in modo da avviarli prontamente alla strutturapreposta all’attività di sostegno. Ricordiamo che la Direzione Centrale diSanità, di concerto con il Centro di psicologia medica applicata della Poliziadi Stato, ha approntato la costituzione di gruppi di supporto al personalecoinvolto in incidenti critici di servizio di cui entrano a far parte non sol-tanto psicologi e psichiatri ma anche gli stessi operatori di polizia che,avendo già vissuto esperienze simili, le abbiano sapute efficacemente supe-rare sotto il profilo emotivo.

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3.4 - Il sostegno alla vittima

Quando ci si deve occupare della vittima di un episodio razziale, èimportante capire quello che prova la vittima stessa, altrimenti certi suoicomportamenti o atteggiamenti possono sembrare inappropriati o inutili,quando non di ostacolo. È necessario cercare di identificarsi con lei percapire la gravità dell’impatto psicologico, il senso d’isolamento, d’impo-tenza, di rabbia, di frustrazione e vulnerabilità che si prova nella sua situa-zione.

Per capirlo provate a mettervi nei panni di una vittima di atti di vio-lenza e discriminazione. Immaginate, per esempio, che, a casa, una sera,sentite l’odore di carta bruciata. Fuori dal portone trovate una copia diPolizia Moderna in fiamme sullo zerbino. Il giorno dopo venite a sapereche il figlio di un collega è stato picchiato perché “il suo papà fa lo sbirro”.Qualche giorno dopo, trovate la vostra macchina graffiata.

Quali sarebbero i vostri sentimenti e le vostre opinioni? Forse alcuni,o anche tutti quelli che elenchiamo qui:

• Qualcuno vi odia semplicemente per il lavoro che svolgete.• Non vi conoscono personalmente e probabilmente non vogliono

conoscervi.• Sanno che fate il poliziotto e sanno dove abitate.• Com’è cambiata la qualità della vostra vita?• Come si sentirà la vostra famiglia?• Come vi sentite all’idea di lasciare sola la vostra famiglia?• Siete stati identificati fra i vostri vicini.• Adesso fate parte di un gruppo minoritario.• Come si sentono gli altri poliziotti che abitano vicino a voi?• Adesso appartengono allo stesso gruppo sotto attacco.• Adesso tutti questi poliziotti sono vittime che hanno bisogno di

supporto e rassicurazione.• Vorreste che qualcosa di efficace fosse fatta per mettere al sicuro la

vostra famiglia?• Potreste credere che, qualunque cosa fosse fatta, sarebbe sufficiente?

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• Vi aiuterebbe sentirvi dire che la polizia sta facendo tutto il possibile?• Se gli incidenti continuassero e non ci fosse nessun progresso appa-

rente nell’indagine, come vi sentireste?• Se un gruppo di poliziotti a voi sconosciuti e sconosciuti anche ai

vostri colleghi conducesse le indagini, quanta fiducia avreste inloro?

• Potrebbe succedere che parlereste volentieri dei vostri sentimenticon le altre vittime ma sareste restii ad esprimere le vostre preoc-cupazioni con esterni?

• Gli altri potrebbero non capire?• Comincereste a sentirvi isolati e frustrati?

Con queste riflessioni avete appena cominciato ad avvicinarvi all’im-patto che un caso di discriminazione, di molestia, di prepotenza o violenzaha sulle vittime, senza tuttavia arrivare a conoscerne interamente la porta-ta perché:

• voi potete togliervi la divisa• voi potete scegliere di non dire ai vostri vicini di casa che lavoro

fate• potreste anche pensare di cambiare lavoro.Per quelli che sono visibilmente diversi, come persone di certe etnie

minoritarie o nazionalità, persone che convivono in un rapporto visibil-mente omosessuale o persone che portano abiti particolari come simbolidella loro religione o persone con una disabilità visibile, queste opzioninon esistono. Essere vittima per il colore della pelle, per la sessualità e perla fede è su un’altra scala rispetto ad essere vittima per la propria profes-sione e sarebbe d’altra parte inaccettabile che queste persone dovesseroessere costrette a cambiare casa, a nascondere le proprie inclinazioni ses-suali o a vestirsi diversamente. Come inaccettabile sarebbe anche che unpoliziotto dovesse cambiare la propria professione per evitare di esserebersaglio di attacchi.

Molte vittime hanno un atteggiamento negativo verso la poliziatanto che in altri Paesi, dove studi dettagliati sono stati eseguiti, i casi dirazzismo risultano quelli meno denunciati. A volte le vittime sentono diaver ricevuto poca protezione nel passato e, nella loro esperienza colletti-

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va, hanno subito degli incontri ostili e pregiudizievoli con la polizia. Lepaure da parte delle vittime includono:

• che all’incidente o reato non sarà data molta importanza;• che la reazione del poliziotto possa essere discriminatoria;• che informazioni personali possano essere conservate e “schedate”.

In una comunità chiusa, ogni incidente ha un impatto che va oltre lavittima e la sua famiglia stretta, divenendo parte dell’esperienza colletti-va, nutrendo le percezioni del gruppo verso la società, rafforzando gli ste-reotipi e il senso d’isolamento. Costruire ponti fra la polizia e le comunitàa rischio sarebbe, in un mondo perfetto, il compito di tutte e due le parti.Purtroppo la diffidenza di certe comunità di origine etnica minoritaria onazionale rende loro difficile questo passaggio, ciò è d’altra parte piena-mente comprensibile e deve essere capito ed accettato dalla polizia. In ognicaso, la responsabilità formale e professionale per costruire ponti di comu-nicazione resta saldamente nelle mani della polizia e spetta alla polizia tro-vare il modo.

La vittima di un caso di razzismo rischia di essere due volte vittima:dapprima per l’incidente che ha subito e in seguito se la risposta della poli-zia è di indifferenza, insofferenza o rifiuto di riconoscere la gravità dell’e-sperienza. Gli operatori di polizia possono credere che questo essere vitti-ma una seconda volta non sia giustificato o sia irrazionale ma se ciò siaragionevole o no è irrilevante, compito della polizia è fare sì che non suc-ceda. Questo fattore è fondamentale nel combattere episodi razziali edeve essere riconosciuto e capito da tutti gli operatori di polizia a contat-to col pubblico. Gli effetti psicologici possono lasciare ferite gravi e inci-denti apparentemente lievi possono essere devastanti per comunità intere.Gestire con sensibilità i rapporti fra polizia e vittima in questi casi mette adura prova le competenze interpersonali, comunicative e interculturalidella polizia e di ciò l’operatore deve essere consapevole per potere gesti-re al meglio l’indagine e risolvere il caso.

È bene anche ripetere che, nei casi di razzismo, si ha spesso il feno-meno della “vittimizzazione ripetuta”: quando uno stesso reato viene piùvolte perpetrato a danno della medesima persona o in uno stesso luogo inun periodo di tempo determinato. Alcune ricerche menzionate nel manua-le della Polizia inglese su Hate Crime Management9 hanno evidenziato che:

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> la vittimizzazione tende a ripetersi cosicchè l’esperienza passatacostituisce il migliore indicatore della vittimizzazione futura.L’analisi delle abitazioni e delle persone già coinvolte in un “episo-dio razziale” costituisce, dunque, un buon indicatore delle poten-ziali future vittime di episodi analoghi. La consapevolezza di ciòaiuta ad individuare la potenziale vittima di un “episodio razziale”ed il suo autore eventuale, come pure ad identificare le circostan-ze di luogo e di tempo in cui lo stesso potrebbe essere perpetrato.Ne consegue un più efficace ed economico impiego delle risorsedisponibili;

> un secondo “episodio razziale” tende a seguire rapidamente ilprimo. Se ciò non accade entro un lasso di tempo ravvicinato ilrischio della ripetizione dell’evento tende a diminuire. Per avere uneffetto significativo non sarà necessario impiegare a lungo misuredi prevenzione speciale;

> prevenire la vittimizzazione ripetuta protegge i gruppi sociali piùvulnerabili senza dover identificarli come tali;

> la vittimizzazione ripetuta è fenomeno più frequente, sia in termi-ni assoluti che proporzionali, in quelle aree a più alta incidenzadella criminalità che peraltro rappresentano anche le zone interes-sate dai reati più gravi. Inoltre questo fenomeno può interessaresoprattutto i soggetti più indifesi e incapaci di esprimersi.

Gli obiettivi della polizia nel suo relazionarsi alle vittime diepisodi razziali

Anche se ogni incidente è un caso unico e come tale va trattato, cisono tuttavia alcuni obiettivi fondamentali che tutti gli operatori che sioccupano di “episodi razziali” dovrebbero tenere presenti, al di là dell’o-biettivo investigativo relativo al reato in sé:

• alleviare le paure della vittima: é necessario che la polizia si rendaconto pienamente delle gravi conseguenze degli episodi “razziali”;

• spiegare - se la vittima non fa obiezioni - che i dettagli dell’inci-dente possono essere condivisi con altre istituzioni competenti inordine al problema;

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• ottimizzare la raccolta ed analisi di dati, sfruttando anche quelliprovenienti da fonti aperte (p. es. Internet) e dalla comunità e assi-curando che tutta l’informazione sia inserita e consultabile in undatabase interforze;

• migliorare la fiducia della vittima nella polizia e sviluppare i con-tatti con la comunità in modo da costruire una relazione fiduciariareciproca;

• sviluppare un rapporto di sostegno alle vittime in modo che si sen-tano tranquille nel testimoniare contro gli indagati-imputati;

• raccogliere informazioni su una gamma di incidenti che esula dagliincidenti strettamente illegali per avere una prospettiva più ampiasulla natura della “vittimizzazione ripetuta”;

• circoscrivere i rischi di una reiterazione dell’ “episodio razziale”;• incoraggiare gli operatori di polizia, nonostante le apparenti diffi-

coltà o reticenze, a procedere contro un “episodio razziale” comemetodo primario per combatterne l’insorgenza;

• assicurare che i bisogni delle vittime e dei testimoni siano portati aconoscenza del Pubblico Ministero competente (il flusso di infor-mazioni Polizia-Pubblico Ministero deve mantenersi costante perl’intera durata del processo);

• coordinarsi con tutte le altre istituzioni ed organizzazioni esterneche hanno competenza nell’azione di sostegno alle vittime e diprevenzione in ordine alla reiterazione di episodi di questo genere.

Un giovane rom alcuni anni fa fu fermato dalla polizia per un controllo. Dopoavergli chiesto i documenti e il permesso di soggiorno, al rifiuto,fu maltrattato einsultato dagli operatori che arrivarono persino alla minaccia di ritorsionenell’ipotesi in cui si fosse lasciato “scappare” qualche particolare sull’accaduto. Ilragazzo si rivolse successivamente ad un’associazione per la difesa dei diritti dellepersone immigrate che denunciò l’accaduto alla competente autorità giudiziaria.

Testimonianza di un rappresentante di gruppo etnico minoritario

ESEMPIO

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Che fare se protagonista di un episodio di discriminazionerisulta essere un operatore di Polizia?

Un episodio come quello sopra riportato è estremamente grave per-ché significa rinnegare uno degli obiettivi fondamentali della Polizia diStato che è quello di proteggere ogni persona e di garantire l’applicazionedella legge e il rispetto dei diritti fondamentali di ogni individuo. Può esse-re una difficoltà all’emergere di tali episodi lo spirito di corpo esistenteall’interno di un servizio di polizia che potrebbe portarne gli operatori aignorare, sottostimare o coprire determinati comportamenti posti in esse-re dai loro colleghi. Per fronteggiare questa eventualità due sono gli obiet-tivi da perseguire:

• effettuare un monitoraggio interno continuo seguito da rilievidisciplinari laddove vengano individuate condotte discriminatorieoperate da appartenenti alla Polizia;

• sviluppare uno stile trasparente nella trattazione di segnalazioniconcernenti comportamenti scorretti eventualmente assunti daglioperatori di polizia (coinvolgendo anche l’URP della Questura).

Cosa fare per identificare e contrastarela discriminazione istituzionale?

La discriminazione istituzionale può essere definita così:

Il fallimento collettivo di un’organizzazione nel rappresentare pienamente, ed in ogniaspetto, la comunità che serve, a causa delle origini “razziali” o etniche, della religio-ne o credo, orientamento sessuale, età, disabilità o genere di alcuni membri di quellacomunità. Può essere rilevata nelle procedure, negli atteggiamenti e nei comporta-menti che portano alla discriminazione attraverso un pregiudizio involontario, igno-ranza, incuranza e stereotipo che si traducono in svantaggi per i membri di una comu-nità. Può verificarsi nel fallimento a fornire un servizio appropriato e professionale atutti i membri del pubblico e in un fallimento nell’assicurare l’uguaglianza di oppor-tunità ai dipendenti di un’organizzazione o di un organizzazione dipendente.

Il fallimento delle procedure dell’organizzazione stessa nel rilevare la discriminazio-ne, o nell’intraprendere azioni contro di essa, può essere visto come un indicatore didiscriminazione nell’organizzazione (o “istituzione”).

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Questa definizione è basata su quella contenuta nell’inchiestaMcPherson (Gran Bretagna, 1997-99). Questo tipo di discriminazione puòessere difficilmente identificato e spesso richiede l’aiuto di consulenti spe-cializzati esterni. In ogni caso, è necessario controllare se le procedure, iflussi di comunicazione, la cultura dell’istituzione stessa, garantiscono l’e-rogazione di un servizio equo e professionalmente adeguato a tutta lacomunità che serve e a tutte le persone che ci lavorano.

3.5 - Che fare

Il rapporto che si instaura con la vittima di un caso di razzismo devetener conto dei seguenti elementi:

• soddisfare quanto più rapidamente possibile i bisogni della vitti-ma, cominciando dalla necessità di avere una presenza immediatadella polizia fino all’ottenimento da parte di essa di una rispostaattiva che sia umana e di comprensione;

• le prime impressioni sono importanti. Sarà fondamentale, sin dal-l’inizio, dimostrare empatia e rispetto verso la vittima. Questoatteggiamento rientra a pieno titolo nella professionalità dell’ope-ratore di polizia fondata, prima che sul saper fare, sul saper essere.Il rapporto di empatia dovrà essere mantenuto nel tempo e resooggetto di monitoraggio costante;

• fiducia e confidenza possono essere sviluppate se si dimostraquanto seriamente la polizia considera l’episodio razziale. L’iterinvestigativo va dunque opportunamente illustrato alla vittima sindall’inizio facendo quanto è necessario perché quest’ultima si sentacoinvolta attivamente e seriamente considerata;

• é indispensabile, pertanto, ascoltare le opinioni della vittima eagire di conseguenza, così rinforzando il senso di coinvolgimento edi fiducia di quest’ultima verso la polizia. La trasparenza nell’ap-proccio e il coinvolgimento di organizzazioni esterne sarannoanch’esse di aiuto;

• con un atteggiamento sensibile e professionale è possibile docu-mentare gli episodi razziali attraverso verbali estremamente det-

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tagliati, idonei a fornire fonti di prova importanti per l’accerta-mento in sede penale e per la rilevazione del reale impatto dei casidi razzismo;

• le opinioni della vittima rispetto al procedimento legale sonomolto importanti (per esempio in ordine alla disponibilità dellastessa a testimoniare). La polizia dovrà mantenere un coordina-mento continuo con l’Ufficio del P.M. competente curando, ovepossibile, di farsi delegare le comunicazioni con le vittime con lequali ha costruito un rapporto fiduciario;

• é indispensabile approntare dei modelli di servizio chiari relativialle performance della polizia nei casi di intervento su episodi didiscriminazione. Ad esempio può considerarsi un risultato positivodi azione che sia stato tratto in arresto l’autore di un reato razzia-le o che la situazione non si ripeta entro un certo lasso di tempo (daquantificare) dopo l’intervento della polizia. Qualunque tipo dirisultato difforme dagli standard in tal senso approntati verrebbeconsiderato come negativo;

• il monitoraggio continuo e la valutazione dell’indagine garantiran-no il raggiungimento e il mantenimento degli standard. La rispostadella Polizia deve rimanere sempre positiva ed efficace, adeguan-dosi ai bisogni della vittima e alla loro evoluzione nel tempo;

• qualunque sia la dimensione dell’indagine, è consigliabile che lavittima abbia un referente unico nella polizia con il quale si sentemaggiormente a proprio agio;

• la polizia può assurgere a punto di riferimento di tutte le comunitàed organizzazioni locali idonee a fornire supporto nello specificoambito. Questo approccio integrato alle problematiche dell’ episo-dio razziale è in grado di fornire alla vittima il migliore supportopossibile;

• gli operatori impegnati nel settore della prevenzione hanno unruolo chiave nell’assistere e consigliare le vittime;

• laddove le circostanze lo richiedono, dovrà essere approntato unadeguato programma di protezione dei testimoni;

• sarebbe opportuno formare in maniera specifica degli operatori dipolizia incaricati di mantenere il rapporto con la vittima del caso dirazzismo e con il suo nucleo familiare;

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• tutti i contatti con la vittima, siano essi personali, telefonici o posta-li, debbono essere documentati negli atti di indagine;

• sarebbe opportuno approntare un opuscolo illustrativo sul servizioerogato dalla polizia a vantaggio delle vittime dei casi di razzismoe di discriminazione in genere;

• ogni volta che ciò sia possibile, avvalersi dell’apporto collaborativodei mediatori culturali;

• pianificare una “strategia di uscita” che lasci la vittima e la famigliasoddisfatte dello svolgimento dell’indagine e dell’appoggio fornito.

3.6 - Standard minimi per la registrazionedi episodi razziali

È indispensabile per l’attività di accertamento di un caso di razzismoregistrare il fattore in base al quale è avvenuta la discriminazione. I fattoridi discriminazione possono essere molteplici: alla classica discriminazionebasata su aspetti fisionomici (colore della pelle, forma degli occhi, ecc.), si èaffiancata la discriminazione basata sull’essere espressione reale o presuntadi una data cultura (ad es. nomade) ed ancora sull’appartenenza effettiva oritenuta tale ad un determinato gruppo etnico (ad es. Rom) o religioso (ades. musulmano, ebreo ecc.). Chiaramente questi fattori non sono scissi l’unodall’altro, per cui il credo religioso può essere ad un tempo percepito anchecome fattore culturale (ad esempio, si parla spesso impropriamente dellacultura musulmana piuttosto che della religione musulmana).

Sebbene siamo consapevoli della complessità della situazione, sap-piamo però che, se non si riesce a identificare e registrare sui sistemi infor-matici di intelligence il discriminante di ciascun episodio, non avremomateriale su cui lavorare: come indagare, per esempio, sulla matrice anti-semita di un reato se non si riconosce l’appartenenza reale o presunta dellavittima alla religione ebraica? È poi da notare che non sempre la cittadi-nanza della vittima è sufficiente a rilevare l’origine della discriminazione,perché molti figli di immigrati hanno, e sempre più spesso avranno, la cit-tadinanza italiana ma il colore della pelle e altri tratti somatici che ne rive-lano, in apparenza, una provenienza diversa.

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L’operatore di polizia che riceve la denuncia dovrebbe quindi potereraccogliere queste informazioni minime fondamentali sulla vittima:

• il nome completo della persona che presenta la denuncia;• l’indirizzo;• la data di nascita;• il sesso;• la religione, sulla base di una lista delle principali religioni pratica-

te dai gruppi presenti sul territorio, preventivamente predispostadalla Polizia insieme con le comunità religiose. Dove la religionedichiarata non fosse tra quelle previste nell’elenco occorrerebbedefinirla in uno spazio apposito;

• il gruppo etnico di appartenenza, sulla base di una lista di princi-pali gruppi etnici e nazionali presenti sul territorio, preventiva-mente predisposta dalla polizia insieme con le comunità oppure ilgruppo etnico dichiarato dalla persona nel caso che esso non siaricompreso tra quelli figuranti nell’elenco;

• occupazione;• anni di scolarità;• la madrelingua ed eventuali altre lingue conosciute;• se è stata vittima di altri incidenti negli ultimi dodici mesi;• se gli altri incidenti sono stati denunciati o segnalati.10

Se la denuncia è fatta da persona diversa dalla vittima, si devono regi-strare per questa persona gli stessi dati richiesti alla vittima e la relazioneche li lega.

È bene inoltre raccogliere almeno questi ulteriori dati sul tipo d’inci-dente:

• specificare il tipo di evento, sia nel caso che si tratti di un reato, siache non si tratti di reato;

• se non si tratta di un crimine, descrivere in dettaglio i fatti;• descrivere il luogo dove sono avvenuti i fatti, ad esempio abitazio-

ne, luogo di culto, strada, posto di lavoro, trasporto pubblico, ecc.

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discriminazione e razzismo -– 137

note

1 Si tratta del caso Stephen Lawrence, un giovane nero che fu ucciso alla fermata di un auto-bus una notte del 1993 a Londra. Quando la polizia arrivò sul luogo del delitto trovò ilcadavere di Stephen e il suo amico, pure nero, ferito. La conclusione alla quale la poliziaarrivò rapidamente fu che si trattasse di un “regolamento di conti tra due neri”. Le fami-glie dei ragazzi non si arresero, furono trovati i veri autori dell’assassinio che, come avevasempre riferito l’amico della vittima, risultarono essere un gruppo di giovani bianchi. Perindagare sull’episodio fu creata la commissione parlamentare McPherson che concluse ipropri lavori con l’affermazione che la polizia di Londra era evidentemente razzista e conuna serie lunghissima di raccomandazioni. Oggi le conclusioni di quella commissione costi-tuiscono un punto di riferimento fondamentale per chi voglia combattere il razzismo e, inparticolare, la discriminazione perpetrata dalle organizzazioni.

2 Adattato da Thompson N., Promoting Equality – Challenging discrimination and oppres-sion in the human services, Londra, Macmillan, 1998.

3 Ciò non esclude comunque l’azienda di trasporti dalla propria responsabilità vicaria.4 Essed P., Understanding everyday racism, 1991.5 Lévi-Strauss C., Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino, 1968.6 Commissione per l’integrazione, Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in

Italia, Dipartimento per gli Affari Sociali – Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2000.7 D.L. 26 aprile 1993, n. 122 (G.U. 27-4-1993, n. 97) conv., con modif., in L. 25 giugno 1993,

n. 205 (G.U. 26-6-1993, n. 148). – Misure urgenti in materia di discriminazione razziale,etnica e religiosa.

1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della disposi-zione dell’articolo 4 della convenzione, è punito:

a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sullasuperiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette attidi discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commet-tere o commette violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

8 Art. 43 Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (L. 6-3-1998, n. 40,art. 41)

1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, diretta-mente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenzabasata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzionie le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromet-tere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei dirittiumani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale ein ogni altro settore della vita pubblica.

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–- discriminazione e razzismo138

In ogni caso compie un atto di discriminazione:

a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercenteun servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od omet-ta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizionedi straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o naziona-lità, lo discriminino ingiustamente;

b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o serviziofferti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di stranieroo di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità.

9 Polvi et al, 1990, Repeat break-and-enter victimisation, Once bitten, twice bitten, Farrelland Pease, 1993.

10 Siccome, come abbiamo più volte segnalato, i casi di razzismo sono molto sotto-rappre-sentati, chi raccoglie la denuncia deve indagare ogni possibile precedente al fine di accu-mulare informazioni per il lavoro di intelligence.

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l’opinione di personedi origine etnicaminoritaria6

1 - Un capitolo speciale

Sebbene alla stesura di questo manuale abbiano contribuito, sin dalsuo primo concepimento, persone di origine etnica minoritaria – e per que-sto esse stesse a rischio di discriminazione – abbiamo deciso che fosseopportuno riservare loro l’ultima parola.

Demir Mustafa e Tso Chung-Kuen hanno cercato di raccogliere inquesto breve capitolo una serie di loro speranze e desideri sul comporta-mento delle forze dell’ordine italiane nei confronti della popolazioneimmigrata. Istanze che, pur riprendendo per certi aspetti tematiche giàtrattate altrove nel manuale, sono presentate qui come una sorta di lista diriferimento, o codice di condotta, per gli operatori di polizia che volesseroadoperarsi in tal senso per ragioni di giustizia ed eticità ma non da ultimoanche per migliorare l’efficacia del proprio lavoro, nel rispetto delle mino-ranze e dei loro diritti.

La scelta degli autori è stata quella di presentare, accanto alla lista diriferimento “come vorremmo che i poliziotti agissero”, un breve approfon-dimento sulla storia delle comunità rom e cinese in Italia, perché è ancheattraverso la loro ricostruzione e la loro memoria delle migrazioni che sipossono capire le necessità, le aspirazioni, i drammi e le speranze di popo-li in movimento, a volte per scelta, più spesso per costrizione. Ognuno si èespresso con il proprio sentire, stile e conoscenza.

La scelta di parlare, tra le tante, delle comunità rom e cinese, comed’altra parte l’avere inserito nel gruppo di redazione del manuale una per-sona rom e una persona cinese, risponde al deliberato obiettivo di COSPEe della Polizia di Stato di dare voce ai gruppi più inascoltati.

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–- l’opinione di persone di origine etnica minoritaria140

2 - L’Italia in movimento

L’Italia è un Paese che da più di due decenni ha spalancato le sueporte agli immigrati. Era, prima degli anni ’80, un luogo di emigrazionepiuttosto che di immigrazione, a differenza di altri Paesi europei come laGran Bretagna, l’Olanda, la Germania, la Francia e altri. In quelle nazioni lacultura di immigrazione è cominciata molti anni prima, sia per la presenzanumericamente forte di persone di origine etnica minoritaria, sia per ladiversità di appartenenze etno-culturali.

Il drammatico cambiamento della situazione politica, economica esociale in Paesi europei non appartenenti all’UE e in altri continenti ha cau-sato nel passato recente ondate d’immigrazione di massa verso l’Europacomunitaria, fatto nuovo, in particolare verso il Sud dell’Europa e l’Italia. Igoverni per lo più non hanno affrontato questo fenomeno in modo effica-ce e competente e ancora oggi mancano leggi, sistemi, programmi e per-sonale adeguato alla preparazione dell’accoglienza degli immigrati e allaloro piena integrazione nella società di arrivo. Il continuo cambiamento delquadro politico che è sfociato in diverse leggi sull’immigrazione, comin-ciando dalla Legge Martelli (1990), per finire con la Legge Bossi-Fini (2002),non ha migliorato la funzionalità dei servizi d’accoglienza ma, al contrario,ha peggiorato un quadro che sempre più produce stereotipi, pregiudizioetno-culturale e discriminazione.

Il servizio di polizia non è sfuggito a questa tendenza e la necessità diagire in un contesto dove sono presenti nuove realtà culturali e religiosesenza un’adeguata preparazione ha portato gli operatori di polizia a com-mettere, volontariamente o no, molti errori e ingiustizie nei confronti degliimmigrati. I capitoli precedenti raccolgono una messe di materiali, infor-mazioni e analisi utili per migliorare questa situazione e contribuire a pre-parare operatori di polizia capaci di lavorare con efficacia e professionalitàin società multiculturali e nel rispetto delle diverse identità di ognuno.Proprio partendo da quanto scritto sinora, noi qui vogliamo delineare ilprofilo del poliziotto ideale dal punto di vista dell’immigrato.

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l’opinione di persone di origine etnica minoritaria -– 141

3 - Come vorremmo che fosse l’operatore di polizia

> Una figura protettiva, non oppressiva.Il poliziotto deve essere la persona che protegge l’immigrato da ogni

tipo di discriminazione e non solo la persona che ne controlla la presenzaregolare sul suolo italiano.

> Con una conoscenza di base sulle differenze culturali e religiose.La polizia deve fornirsi di un’adeguata documentazione per la pre-

parazione del poliziotto nell’affrontare la diversità culturale, etnica e reli-giosa.

> Rispettoso delle differenze linguistico-culturali, delle religioni edelle tradizioni degli immigrati.

La conoscenza di base aiuta il poliziotto a rispettare la diversità cul-turale e la religione nel modo giusto.

> Paziente nei confronti degli immigrati, specialmente quelli che nonparlano l’italiano.

La provenienza degli immigrati da Paesi diversi comporta inevitabilidifficoltà di apprendimento della lingua italiana, a causa del sistema lin-guistico-culturale diverso.

> Che parli lentamente e in modo chiaro, usando parole semplici edevitando espressioni dialettali con le persone che non capiscono bene l’ita-liano.

> Rispettoso dei diritti civili degli immigrati, senza abusare del pro-prio potere di poliziotto.

> Gentile con gli immigrati, specialmente in presenza di bambini.Il comportamento non adeguato del poliziotto davanti ai bambini puòinfluire negativamente sulla loro crescita psicologica.

> Rispettoso della persona immigrata così come è rispettoso di uncittadino italiano.

> Capace di spiegare bene all’immigrato i suoi diritti in ogni situa-zione.

A questo si deve aggiungere la disponibilità di un interprete in casodi incomprensioni, elemento riferibile al servizio di polizia piuttosto chedirettamente al singolo operatore.

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3.1 - Diritti e doveri

È giusto che gli immigrati pretendano il rispetto dei propri diritti maè anche giusto che rispettino i propri doveri. Innanzitutto, l’immigratoappartenente alle diverse comunità deve avere una rete di comunicazionee informazione sulle leggi e i decreti da rispettare. Questi canali possonoessere di natura pubblica, come gli uffici immigrazione dei quartieri, deicomuni e delle questure, le camere di commercio, le prefetture, le ASL maanche le associazioni delle stesse comunità, ONG, sindacati, ecc.

Gli immigrati, con la chiara consapevolezza di dovere rispettare leleggi, devono organizzarsi per la diffusione di queste informazioni tramitepersone preparate adeguatamente (per esempio, i mediatori linguistico-culturali), con volantini, manuali e giornali bilingue.

Per costruire un ponte di comunicazione fra le comunità immigrate ele strutture pubbliche per un migliore rispetto dei doveri, le associazioni, oi rappresentanti delle comunità immigrate, devono avere, o dovranno chie-dere, incontri periodici con la rappresentanza della questura o dello stessoquestore, dove possono informare ed essere informati e risolvere i casi piùclamorosi sulla documentazione e regolarizzazione degli immigrati stessi esui casi di discriminazione.

3.2 - Prospettive per la partecipazione dellecomunità minoritarie al corpo di polizia italiano

Sappiamo che la Carta di Rotterdam e la politica di molte polizieeuropee (per esempio quella olandese) dicono che la polizia dovrebbeessere lo specchio della società, cioè rappresentare al suo interno le tantediversità presenti nella società. Noi pensiamo che ciò sarebbe bello, le per-sone di origine etnica minoritaria potrebbero essere dunque rappresenta-te anche nelle forze dell’ordine, riconoscersi in esse più facilmente e sidarebbe un segnale forte di integrazione alla società nel suo insieme.Tuttavia pensiamo che oggi in Italia numerosi ostacoli di diverso ordineimpediscono che ciò avvenga.

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l’opinione di persone di origine etnica minoritaria -– 143

Innanzitutto, sotto l’aspetto legale, esiste l’ostacolo della cittadinan-za italiana che è richiesta per esercitare quella professione al servizio delloStato e oggi sono poche in Italia le persone di origine etnica minoritariache possiedono la cittadinanza italiana. In fondo però, se ci fosse unavolontà politica chiara, questo ostacolo potrebbe essere superato elimi-nando, per esempio come hanno fatto alcuni Lander tedeschi, il requisitodella cittadinanza per essere ammessi nelle forze di polizia.

Siamo convinti però che esistono anche altri ostacoli che attengono aun diverso ambito. Nella nostra opinione, avere un operatore di polizia diorigine etnica minoritaria dipende da diverse situazioni fondamentali, inparticolare il livello d’integrazione nella società italiana e l’immagine posi-tiva o negativa della polizia.

Se prendiamo ad esempio la comunità rom essa è molto, molto lon-tana da questa prospettiva, anche se il desiderio, in sé, esisterebbe. Questaprospettiva è ancora lontana perché, a nostro avviso:

> non è ancora sufficiente l’inserimento dei rom nella società italia-na; basta vedere i campi nomadi nei quali vivono i rom e la segre-gazione che essi comportano;

> mancanza di documenti per diversi motivi (per esempio, per i ricon-giungimenti familiari, per matrimoni precoci non registrati, per laprovenienza da Paesi in guerra) e purtroppo il fatto che molti romsiano italiani non li libera dal rischio di discriminazione;

> la persistenza di forti pregiudizi nei confronti dei rom;> l’inadeguato livello di studio e scolarizzazione.Solo dopo un inserimento effettivo nella società italiana si potrà

prendere in considerazione l’inserimento di persone rom nella polizia. Inaltri Paesi, dove i rom vivono da molti anni, essi partecipano pienamentealla vita sociale, professionale e politica. Nei Paesi europei non apparte-nenti all’UE, i rom sono riusciti ad avere un riconoscimento nelle costitu-zioni come minoranza linguistico-culturale e questo ha permesso loro dipartecipare attivamente alla vita di quel Paese. Nella UE invece i rom anco-ra si organizzano come associazioni o rappresentanti delle varie comunitàe non riescono ad essere riconosciuti come portatori di diritti.

Per quanto riguarda la comunità cinese in Italia essa è una comunitàabbastanza autosufficiente e omogenea perché quasi al 90% provienedalla stessa provincia di Zhejang. È diffusa tra i cinesi una forte tradizione

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culturale e un forte senso di indipendenza dalla società ospitante. I cinesiprovano sempre di risolvere i loro problemi all’interno della propria comu-nità e solo nel momento in cui appare impossibile trovare una soluzionenell’ambito dell’associazione o del gruppo tentano la via del ricorso all’au-torità italiana.

Comunque, nelle comunità che conosciamo, i rapporti fra le comunitàcinesi e gli enti pubblici sono quasi sempre tenuti, soprattutto per ragionidi competenza linguistica, dal rappresentante delle varie associazioni cine-si mentre manca un diretto rapporto di fiducia tra l’amministrazione ita-liana e i singoli immigrati. Fino ad ora l’immagine dei poliziotti italiani pergli immigrati cinesi è negativa ed è sempre considerata come una figuraoppressiva. Qualunque cinese che collabori con la polizia perde la fiduciadei connazionali e diventa una spia ai loro occhi, tutti cercheranno di allon-tanarsi da lui e di isolarlo. Questo succede presso tutti i gruppi di cinesi,anche quelli – e sono i più – che non avrebbero nulla da temere dalle forzedell’ordine. Purtroppo, come abbiamo spiegato altrove nel manuale, i rap-porti tra i due gruppi sono talmente deteriorati che è necessario un gran-de impegno da parte di tutti per superare questo problema. Se non cam-bia quest’impressione sulla polizia non si può pensare che un cinese diven-ti un poliziotto e, anche se ciò avvenisse, non sarebbe dal punto di vistadella comunità cinese un fatto positivo perché egli/ella sarebbe visto come“oppressore”, perché poliziotto e “spia” e perché poliziotto cinese. Fino ache le cose non cambieranno non si può sperare che un cinese voglia diven-tare poliziotto allontanandosi così dalla propria comunità.

Siamo però convinti che degli operatori di polizia ben preparati,capaci di agire con professionalità, consapevoli del rispetto e della genti-lezza che è dovuta agli altri, anche quando questi altri sono di origine etni-ca minoritaria, saranno un potente fattore di cambiamento.

4 - Approfondimento sulle comunità rom in Italia

La situazione dei rom in Italia é stata sempre precaria e i rom sonosempre stati oggetto di discriminazione, sebbene essi siano da secoli in que-sto Paese, accampandosi sempre nei cosiddetti “campi nomadi”, oppure“campi di sosta”, che erano inizialmente creati da loro stessi, con le roulot-

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te e qualche baracca. Tradizionalmente essi svolgevano lavori d’artigianatocome lavorazioni del rame, produzione di pentole e altri piccoli mestiericome ombrellai e arrotini. Le donne andavano in giro a prevedere il futuro,leggendo le mani alle persone oppure i fondi di caffè. Ricordate quantevolte ci veniva il desiderio di farci leggere il futuro dalla zingara? Oggi perònon possiamo dire che questi mestieri sono utili per una sopravvivenza.

Per lo più i rom passavano inosservati, soprattutto quando andavanonei piccoli paesi a vendere oppure a offrire i loro lavori di artigianato. Certevolte invece destavano scalpore per cose in fondo banali, come quandopassavano i bambini mal vestiti o la zingara si portava dietro i piccoli spor-chi e scalzi oppure i bambini tentavano piccoli furti. Tutto ciò finiva maga-ri nelle prime pagine dei giornali locali. È chiaro che i mass media hannoavuto quasi sempre un ruolo fondamentale nel creare e diffondere un’im-magine negativa degli zingari.

Alcuni gruppi rom sono in Italia da più di sei secoli e perciò hanno giàdimenticato la cultura dei loro Paesi di partenza (Macedonia, per esempio)ma non dimenticano la cultura e la lingua dei loro padri, romanes, cosìcome la cultura dei loro antenati, cioè le feste, le tradizioni, le usanze.

Il fenomeno del nomadismo ha sempre creato turbamento fra lagente comune, e questo in tutte le culture, soprattutto per una società chenon ha l’abitudine di spostarsi da un Paese all’altro come fa gran parte deirom (o zingari e nomadi, come vengono generalmente chiamati i rom inItalia). Il termine “nomadi” ha due facce: quella di un mestiere legato agiostrai e luna park e quella di un nomade senza fissa dimora che provocapaura nella gente comune e rappresenta un problema ingestibile per leforze dell’ordine e per le istituzioni comunali. “Zingaro” é un’espressioneantica, con una forte connotazione negativa che purtroppo i rom si porta-no addosso da secoli, perché nomadi, perché si spostano sempre, perchélegati alla storia antica quando, ancora nell’impero Bizantino, si dicevanodediti alle magie nere. In realtà erano cartomanti, prevedevano il futuroleggendo la mano o i fondi del caffè, mestieri che oggi sono svolti dagli ita-liani o da altri stranieri.

La parola zingaro proviene dal termine greco atinganoe – atingani -che vuol dire “intoccabili”, da non confondere con gli “intoccabili” (paria)dell’India, sebbene le ultime ricerche in campo antropologico conferminole loro origini indiane. Rom é la parola con la quale questo popolo defini-sce se stesso e ha un significato duplice: uomo e marito.

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L’8 aprile del 1971 a Londra si tenne la prima conferenza mondialecon tutti i rappresentanti rom in provenienza dai diversi Stati europei. Fudeciso allora che quella ricorrenza sarebbe diventata il giorno internazio-nale rom che si festeggia ogni anno (Romani Union). Fu decisa la bandierabicolore blu (che rappresenta il cielo) e verde (che rappresenta la terra) ein mezzo la ruota del carro che rappresenta il viaggio dall’Oriente versol’occidente. Fu anche scelto l’inno rom (gelem, gelem= ho camminato, hocamminato) e fu deciso che i rom sono un popolo unico, senza uno stato esenza divisioni etniche.

Il popolo rom è un popolo che non ha mai fatto guerre ma le ha sem-pre subite e dalle quali è spesso stato in fuga. Anche recentemente sonoarrivati rom dall’area dei Balcani e dell’ex Jugoslavia, dapprima per ragio-ni economiche e poi in fuga dalle guerre che hanno colpito l’ex Jugoslavia(Bosnia e Herzegovina nel 1991 e quella in Kosovo con il bombardamentodella NATO nel 1999). Sono costretti alla fuga e a cercare altrove un rifugiodove possono vivere una vita tranquilla, senza guerre e senza discrimina-zioni razziali e/o etnico culturali, senza pulizie etniche. Arrivati in Italia,sono immediatamente spediti presso i “campi nomadi” dove gli stessi romitaliani (tra questi sono chiamati sinti coloro che arrivarono in Italia viaterra, attraverso i Paesi est europei) sono segregati in una condizione giàdi per sé discriminatoria, emarginata, esclusa dalla maggior parte dellagente intorno. È chiaro che i rom Balcani non conoscono il fenomeno dei“campi nomadi”, creato e voluto dalle Istituzioni comunali e regionali, conspecifiche leggi e decreti, e che oggi comportano piuttosto un nuovo disa-gio e un problema per quelle stesse Istituzioni. Perciò quando si inserisco-no in un campo nomade non sono accettati immediatamente bene da chivive lì intorno (gli stanziali) e non riescono a trovare un lavoro, meno chemai un lavoro regolare, cadendo così facilmente preda delle offerte dellamalavita. Questo comporta avere problemi quotidiani con la polizia e icarabinieri, insomma con la giustizia. Molti rom affermano che la poliziaperò non perde occasione per maltrattarli, offenderli, umiliarli, fermando-li alcune volte anche per banalità oppure per chiedere i documenti e fareaccertamenti, trattenendoli anche per ore.

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ESEMPIO

ESEMPIO

Dopo una preghiera al campo, un rom prende il figlio già addormentato, lomette in macchina e si dirige verso casa, un normale appartamento del comune.Viene fermato da una volante della polizia che dopo un quarto d’ora è raggiunta,nel posto di controllo, da altre due volanti, ciascuna con due poliziotti a bordo.L’auto è perquisita mentre uno dei poliziotti interroga il rom chiedendogli chi sia,dove abiti, quale lavoro svolga, se ha il permesso di soggiorno regolare, se hasubito condanne in Italia ecc. Chiedendosi il motivo di tanta attenzione, il romrisponde di essere “regolare”, di avere il permesso di soggiorno e un lavororetribuito. Un secondo poliziotto, rivolgendosi al suo collega, dice: “io lirimanderei tutti a casa loro questi zingari”. Alla domanda del rom: “perchéscusi?” il poliziotto reagisce bruscamente continuando a perquisire l’auto,nonostante le rassicurazioni fornite e nonostante il bambino dorma sul sedileposteriore della macchina. Dopo quarantacinque minuti di controllo, avendotrovato due pezzi di legno di venticinque centimetri legati fra di loro con unacatena, gli operatori procedono a denunciare il rom per porto d’armi abusivo. Ilnostro rom sarà poi assolto in Tribunale.

Testimonianza di un rappresentante della comunità rom

I rom, avendo spesso una famiglia numerosa composta da genitori, figli, figlisposati, nipoti ecc. sono costretti anche a chiedere la carità per mantenere lafamiglia.

Un rom con la moglie e due figli minori chiedeva l’elemosina in un paese. Dopocirca un’ora, scattato l’allarme per furto in appartamento ad opera di soggettinon identificati, tutta la famiglia si vedeva raggiunta da una pattuglia dellaPolizia che procedeva al suo accompagnamento per identificazione presso illocale Commissariato. Senza alcuna domanda, né spiegazione, il capofamigliaveniva perquisito intimandosi a lui di consegnare la refurtiva. Dopo quattro ore diattesa nella stazione di polizia e tutte le relative indagini e confronti, siconstatava che non era stata la famiglia rom a rubare. Ciononostante tuttivenivano rilasciati dal Commissariato senza nemmeno un cenno di scusa.

Testimonianza di un rappresentante della comunità rom

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5 - Approfondimento sulle comunità cinesi in Italia

Per tracciare una breve storia dell’immigrazione cinese in Europa sideve risalire alla prima guerra mondiale: prima di allora non esistevanoimmigrati veri e propri ma soprattutto studenti nelle università europeeche tornavano sempre in Cina al termine dei loro studi.

Quando scoppiò la prima guerra mondiale, la Cina - che faceva partedell’alleanza Italia, Francia, Inghilterra contro Germania, Austria, Turchia -invece di mandare soldati mandò dei lavoratori per aiutare a costruire lestrutture difensive. Qualcuno di questi lavoratori rimase in Europa al ter-mine della guerra, principalmente in Francia, Olanda, Inghilterra, alcunirimasero anche in Italia. Poiché si trattava di poche persone non facevanonotizia e si notavano poco. Questi immigrati erano tutti giovani maschi sin-goli e non esisteva il problema del ricongiungimento familiare, molti diloro infatti si sposarono con donne locali. Si trattava soprattutto, comedicevamo, di uomini provenienti dalla provincia di Zhejang e tuttora il 90%degli immigrati cinesi in Italia proviene da quella provincia.

La seconda onda di immigrazione cinese verso l’Europa avvenne dopola seconda guerra mondiale, allo scoppiare della guerra civile in Cina tranazionalisti e comunisti. Molti commercianti e industriali scapparono dallaguerra, spesso facendo sosta a Hong Kong per poi proseguire verso StatiUniti ed Europa, compresa l’Italia. L’attività degli immigrati cinesi in Europain quel periodo e per molti anni a venire fu quasi esclusivamente la risto-razione.

Negli anni ’70 arrivarono i rifugiati vietnamiti (boat people) cheerano però per lo più di origine cinese ed ancora in numero limitato.

Nei primi anni ’80 cambiò la politica della Cina con l’apertura versol’occidente e si permise ai cittadini cinesi che avevano parenti all’estero diraggiungerli. Chi viveva già in Italia cercò quindi di farsi raggiungere daipropri parenti. Con il fallimento e la privatizzazione delle imprese statali inCina emerse il fenomeno della disoccupazione, specialmente nelle zonerurali e montagnose. La differenza tra il livello di vita nelle città e nellecampagne si acuì e i contadini ebbero sempre più difficoltà a sopravvivere.Molti abbandonarono la loro terra per cercare lavoro in città e quelli che

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avevano parenti in Europa cercarono di fuggire dalla Cina per trovare for-tuna all’estero.

È proprio questo insieme di condizioni che causarono un’ondatad’immigrazione clandestina dalla Cina verso altri Paesi nel mondo, non solol’Europa. In maggioranza dunque, i più recenti immigrati cinesi provengo-no dalla campagna, il loro livello di studi è molto basso e anche i cinesidelle città li tengono ai margini perché ignoranti, sia per ragioni culturali,sia perché ignari della vita urbana e moderna. È facile immaginare dunquelo shock che subiscono quando arrivano in Paesi così diversi anche cultu-ralmente e linguisticamente. Tutte queste ragioni contribuiscono alla diffi-coltà di un’integrazione dei cinesi nella società italiana, anche se i contadi-ni cinesi hanno reputazione di essere molto forti e capaci di sopravviveread ogni disastro, sono grandi lavoratori e finalmente, in queste nuoveterre, intravedono la speranza di accumulare capitale e diventare un gior-no benestanti. La sostanziale omogeneità della provenienza fa sì che essi siassociano molto tra persone provenienti dagli stessi villaggi, per mutuasolidarietà. Un fenomeno questo che non si presenta allo stesso modo inaltri Paesi europei dove pure la presenza cinese è alta.

Infine, negli anni ’90 sono arrivati in Italia immigrati cinesi da un’al-tra provincia, il Fujian. È una provincia costiera e generalmente le personehanno un livello di scolarizzazione più alto. C’è anche un interesse e unavolontà di esplodere in altri campi di lavoro, non più come succedeva pergli immigrati delle prime generazioni che tendevano a ripetere le occupa-zioni dei loro connazionali. Nascono così altri mestieri, come per esempioquello delle confezioni; tuttavia l’entità di queste attività è di molto infe-riore a quelle complessivamente svolte dai cinesi oggi in Italia.

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appendici

A - Società pluraliste e multiculturali:come ci siamo arrivati

L’Europa che attrae

È vero che l’Europa è sempre stata multietnica, esistono infatti indiversi Paesi delle stabili minoranze etniche (come, per esempio, ebrei erom) alcune delle quali spesso rivendicano una base territoriale. È peròaltrettanto vero che è stato nel periodo postbellico che l’Europa ha cono-sciuto un’importante ondata migratoria di lavoratori e delle loro famiglie,non solo dal Sud dell’Europa e dal Mediterraneo ma anche dalle ex colo-nie. Si conviene ormai a livello internazionale di raggruppare le cause dellenuove migrazioni in fattori di espulsione (push factors) e fattori di attra-zione (pull factors) che sempre coesistono in varia misura.

Fattori di espulsione

La popolazione mondiale è aumentata ma soprattutto è aumentatanei Paesi del sottosviluppo (ad un ritmo 2,5 volte più rapido del primomondo), in particolare grazie alla diminuzione cospicua del tasso di morta-lità (maggiore igiene, profilassi delle malattie infettive, vaccini, cure piùefficaci), per quanto in molti Paesi in via di sviluppo (PVS) esso permanga

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ancora molto alto, e per il migliorato tenore di vita in alcuni di questi ter-ritori. Tuttavia ancora non è diminuito il tasso di natalità. È un fenomenoche anche l’Europa ha conosciuto nel secolo che va dalla metà del 1800 apoco prima della metà del 1900: è il cosiddetto periodo della transizionedemografica. Inoltre, mentre la popolazione dei Paesi del Sud del mondodiventa sempre più giovane, quella dei Paesi sviluppati invecchia perché siallunga la speranza di vita alla nascita e si fanno sempre meno figli. È evi-dente che ciò comporta nei Paesi sviluppati una preoccupante contrazionerelativa della popolazione in età produttiva, mentre nel cosiddetto TerzoMondo aumenta a dismisura l’esercito di riserva dei disoccupati e questonon può che determinare una forte spinta all’emigrazione.

La pressione demografica tuttavia non è il solo fattore.Contemporaneamente sono peggiorate le condizioni di vita di una

gran parte della popolazione dei PVS : l’80% delle ricchezze nel mondo èraggruppato nelle mani del 20% della popolazione. C’è quindi una coinci-denza tra Paesi di emigranti e Paesi che appartengono alla fascia di piùbasso reddito pro capite annuo. È questo il risultato di un processo di svi-luppo (ma che sviluppo?) che condanna all’emarginazione intere regionidel mondo.

Un caotico processo di urbanizzazione abbandonato all’azione diforze spontanee (New York e Londra nel 1950 erano le città più popoloseal mondo mentre oggi Londra non figura nemmeno più nelle prime ventitra le quali invece sono Città del Messico, San Paolo, Il Cairo e Bombay) pro-voca un ulteriore degrado dell’ambiente, il tracollo dei trasporti e dei ser-vizi e un generale e ulteriore deterioramento di già precarie condizioni divita che ingenerano gravi fenomeni di aggressività e violenza.

A ciò si aggiunga la corruzione diffusa e la repressione attuata daalcuni Paesi del Sud (ma non solo, si pensi ai regimi militari e dittatoriali diun recentissimo passato di Stati come Grecia, Turchia e Polonia), e poi leguerre civili, gli scontri tra fazioni, i conflitti più o meno mascherati da con-flitti etnici e razziali (Ruanda e Burundi, Sri Lanka, ex Yugoslavia).

Infine i fattori di carattere ecologico, solo apparentemente naturali,come la siccità e la progressiva desertificazione del Sahel così come di altrezone dell’Africa australe e boreale (Etiopia, Capo Verde, Malawi, ecc.)coniugata ad uno sfruttamento economico irrazionale delle monocultureimposte dai regimi coloniali.

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Fattori di attrazione

Accanto ai fattori di espulsione si riconosce l’azione dei fattori diattrazione dei Paesi di accoglienza delle migrazioni. Primo fra tutti il diffe-rente livello retributivo tra i Paesi poveri e i Paesi occidentali cosiddetti svi-luppati e le incomparabili offerte lavorative. Basti pensare alle aree forte-mente industrializzate del Nord dell’Italia, oggi in crisi per necessità dimanodopera ad alta flessibilità e basso costo, disponibile anche per attivitàpericolose e nocive e prestazioni anomale per orari e ritmi, che non si rie-sce a recuperare sul mercato interno. Aggiungiamo anche di una manodo-pera altamente ricattabile quale quella che deve fare i conti con la “clan-destinità” e che può dunque essere facilmente tenuta nell’illegalità, nelsommerso, insomma nel lavoro nero. Con gli operatori di questi comparti,del resto, buona parte dei lavoratori stranieri sono spesso conniventi nonsolo per necessità ma anche perché tendono a monetizzare in proprio unaparte degli oneri evasi che diventano rimesse. Infatti, spesso il progettomigratorio prevede di realizzare il maggior risparmio nel minor tempo pos-sibile e certamente è più disposto a lavorare chi vive lontano dalla propriafamiglia, in un ambiente che, piuttosto che estraneo, è ostile.

Ci sono però anche fattori di carattere culturale che determinanoun’attrazione verso l’occidente: la diffusione dei modelli di vita occidenta-le sempre più veicolati dalle facili comunicazioni d’oggi, l’effetto di unaglobalizzazione che tende a massificare valori ed orientamenti (unica forzadi contrasto a livello internazionale, non dimentichiamolo, sono oggi certeforme di integralismo islamico).

Per più secoli però il flusso dei movimenti andava da un’Europa pove-ra e sovrappopolata verso i nuovi mondi da valorizzare che furono quindioggetto di una rapida conquista e di una lunga dominazione coloniale. Sicalcola che solo fra il 1840 e il 1940 si siano definitivamente trasferitioltremare cinquanta milioni di europei. Gli italiani diedero un cospicuocontributo a questi spostamenti tanto che si calcola oggi che i discendentidi italiani all’estero siano cinquantotto milioni, una popolazione dunquepiù numerosa di quella residente sul territorio nazionale.

È però dal 1950 che il saldo migratorio tra l’Europa e il resto delmondo si fa positivo perché l’Europa comincia ad avere bisogno di mano-dopera e la importa dai Paesi del Terzo Mondo (termine coniato proprio inquell’epoca per designare, accanto ai due blocchi contrapposti, i Paesi

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dell’Asia, Africa e America Latina di nuova indipendenza o ancora in lotta).Contemporaneamente questi flussi interessavano sempre più anche gliUSA, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda, così come il Giappone ealcuni Paesi produttori di petrolio.

Le tre fasi delle migrazioni internazionali in Europa1

È consuetudine suddividere la storia delle migrazioni internazionalinell’Europa del dopoguerra in tre fasi:

• la prima fase (1950-1967) della ricostruzione post-bellica;• la seconda fase (1967-1982) della crisi strutturale e della nuova divi-

sione internazionale del lavoro;• la terza fase (dal 1982 ad oggi) della crisi dei PVS e della ripresa

delle economie capitaliste.Nella prima fase (1950-1967) le migrazioni internazionali rispondono

ad una reale domanda di lavoro delle aree d’immigrazione, costituite quasiesclusivamente da Paesi industrializzati dell’Europa centro-settentrionalegià in precedenza importatori di manodopera e provengono per lo piùdalle aree europee meno sviluppate. È l’epoca della ricostruzione post-bel-lica e della manodopera necessaria al suo compimento e sono proprio gliimmigrati, provenienti per lo più dal bacino del Mediterraneo, che costrui-scono il miracolo economico di molti di questi Paesi (Germania, Svizzera,Regno Unito, Belgio, Francia). L’Italia partecipa in questi processi solo comePaese d’emigrazione ma bisogna tenere presente che al suo interno sonopresenti forti migrazioni dalle regioni del Sud verso il Nord industrializza-to che risponde alle stesse logiche. In alcuni Paesi, in particolare inGermania, si sviluppa il modello del “lavoratore ospite” che considerava ilavoratori stranieri come dei migranti reclutati a termine e per dei compitidefiniti, con diritti limitati e che sarebbero rientrati in patria appena aves-sero raggiunto i propri obiettivi con profitto sia per il Paese ospitante cheper il Paese d’origine. Quest’immigrazione aveva inoltre il pregio, comenella fase attuale in Italia, di riservare agli immigrati i lavori meno graditima il difetto, visibile negli anni a venire, del consolidarsi di sentimenti eposizioni razziste in tutta la società ma soprattutto nelle classi lavoratrici.

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In realtà le cose andarono assai diversamente da come erano state pensa-te e molti degli immigrati finirono per radicarsi nel Paese d’immigrazione,divenendo quindi una componente estranea e permanente della sua popo-lazione.

Nella seconda fase (1967-1982) le migrazioni internazionali subisconoil contraccolpo della crisi economica (la stagflazione degli anni ’70, gliaumenti del prezzo del petrolio, la fine della forza propulsiva dell’industriapesante che aveva fatto la ricostruzione economica) e delle misure di carat-tere amministrativo che tendono a bloccare le immigrazioni. È l’epoca incui i Paesi industrializzati decentrano parte della produzione in Paesi pove-ri a causa dell’aumento del costo della manodopera e nascono così i nuoviPaesi industriali (Brasile, Iran, India, Singapore, Corea del Sud sono alcuniesempi). Tuttavia, due elementi fondamentali permangono a rendereancora “redditizia” una certa quota di manodopera straniera: a) non tuttele attività possono essere dislocate altrove (turismo, edilizia, lavoro dome-stico); b) la clandestinizzazione che favorisce la flessibilità del mercato e,come abbiamo visto, la ricattabilità della stessa manodopera, con il sostan-ziale effetto di creare un doppio mercato del lavoro: un mercato garantitoe protetto per manodopera locale e un mercato illegale e senza garanzieper la manodopera straniera. Infine, le migrazioni in realtà non si arresta-no anche perché continuano ad operare i fenomeni di espulsione dai Paesidel Terzo Mondo ma diventano per lo più illegali e cominciano ad esten-dersi ad altri Paesi: è l’epoca in cui alla migrazione dai Paesi del Sud Europacomincia a sostituirsi quella dai Paesi extraeuropei. L’Italia in questo perio-do è ancora ai margini del fenomeno e interessata alla ricerca di manodo-pera interna, ancora relativamente flessibile e a buon mercato. In queglianni in Italia giungono soprattutto esuli e rifugiati politici: cileni, argenti-ni, eritrei, palestinesi, ecc.

Nella terza fase (dal 1982), le migrazioni internazionali aumentanocoinvolgendo sempre più nuovi Paesi, sia come aree d’emigrazione checome aree d’approdo. Esse sono sempre meno motivate da richiesta dimanodopera e sempre più dai fattori di carattere espulsivo nei Paesi di pro-venienza. È proprio in questi anni infatti che cominciano a prodursi e adevidenziarsi i drammatici effetti dell’esplosione demografica, del degradoecologico, politico e sociale e del disastro economico nei Paesi più poveri.Queste catastrofi non naturali colpiscono non solo i Paesi poverissimi maanche quelli che avevano fatto ben sperare per le loro ricchezze (petrolio

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come in Nigeria, Venezuela, ecc.) o perché dotati di altre ricchezze natura-li (Brasile), o per le risorse sociali operate (Tanzania, Cina, Cuba, ecc.). Aquesti Paesi si aggiungono quelli dell’Europa dell’Est con la caduta dei regi-mi a economia centralizzata. Con il progressivo e fermo irrigidirsi dei mec-canismi di selezione degli immigrati dei Paesi di tradizionale immigrazione,rimangono aperti in questi anni per i migranti i Paesi dell’EuropaMeridionale, come dice Melotti “più per la loro incapacità di fare rispetta-re le norme restrittive all’immigrazione, anche in essi vigenti, che per un’ef-fettiva scelta in tal senso”.

Si tratta ora di persone in fuga dalle aree più disastrate del mondo,sempre più disponibili quindi a qualunque sfruttamento pur di costruireuna seppur fragile base economica. Le caratteristiche dell’immigrazione diquesti anni, immigrazione che per la prima volta coinvolge in pieno l’Italia,danno vita a fenomeni nuovi come un tasso di disoccupazione alto tra gliimmigrati, forme di marginalità, specie in aree urbane e aumento dei feno-meni di razzismo e xenofobia. Si tratta non solo di disoccupazione ma divero e proprio sradicamento e di perdita d’identità che caratterizzanocome un fenomeno sociale e politico, prima che economico, la fase attua-le delle migrazioni.

Oggi la popolazione immigrata sull’insieme della popolazione euro-pea rimane pari al 5% (la metà rispetto a quello che si riscontra negli StatiUniti e un terzo rispetto al Canada). La percentuale è rapidamente cresciu-ta negli Stati mediterranei negli ultimi anni, mentre è stabile o addiritturain ribasso nel Nord Europa.

Come tutte le migrazioni precedenti, anche quelle più recenti mostra-no una chiara tendenza a stabilizzarsi, tanto che i dati che si riferiscono alleacquisizioni di cittadinanza nel 1999 mostrano un aumento rispetto all’an-no precedente del 13%, indice significativo appunto della tendenza adinsediamenti stabili, assieme alla tendenza crescente ai ricongiungimentifamiliari2.

Se si pensa poi che, nei Paesi del Nord Europa (per esempio GranBretagna e Olanda), non figurano tra questi i molti che, pur essendo citta-dini naturalizzati, appartengono a minoranze etniche, la realtà multicultu-rale di questi Paesi è ben più ampia della presenza straniera.

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L’Italia multietnica

Confrontando i dati presentati nel Dossier Caritas sull’immigrazione2002 con quelli elaborati nella nuova edizione dello stesso Dossier immi-grazione (2003), emerge con evidenza il considerevole aumento dellapopolazione immigrata in Italia. Nel 2002 la presenza straniera regolare inItalia era stimata a circa 1.600.000 persone, pari al 2,8% della popolazione,una percentuale che supera di poco la metà della media europea. I datiaggiornati all’anno 2003 stimano la presenza straniera complessiva in Italiaa 2.469.324 persone, includendo non solo i lavoratori ma tutti i soggior-nanti regolari (quindi anche i familiari giunti nell’ultimo anno grazie allepossibilità offerte dai ricongiungimenti familiari, i nuovi permessi di sog-giorno concessi nell’anno), comprese le persone in attesa di regolarizza-zione prevista dalla legge Bossi-Fini.

Per raggiungere l’80% del totale dei soggiornanti occorrono ben tren-ta nazionalità, e questa ripartizione policentrica della presenza immigratain Italia, e cioè in diversi gruppi nazionali di notevole consistenza, attribui-sce al contesto italiano una specificità rispetto ad altri Paesi europei dove lapresenza degli immigrati si concentra per lo più in grandi gruppi etnici(come ad esempio indiani, pakistani e afrocaraibici in Gran Bretagna).

La tipologia dei permessi di soggiorno (secondo i dati del Ministerodell’Interno al dicembre 2001) è per il 95% del totale per lavoro, motivifamiliari e altro (adozione, residenza elettiva, ecc.); ciò indica un’immigra-zione stabile, come una dimensione strutturale della nostra società cheesige una correlativa politica di accoglienza e inclusione.

I soggiornanti stranieri al 31 dicembre 2002 (1.512.324) sono cosìripartiti per provenienza continentale (Dossier Caritas 2003): 642.362Europa (sono aumentati molto negli ultimissimi anni i Paesi dell’EuropaCentro Orientale, arrivando ad oltre il 30% del totale), 401.440 Africa,279.816 Asia, 178.593 Americhe e 2.655 Oceania.

Si evidenzia che:• sono rappresentati tutti i continenti con gruppi consistenti;• non vi è la preponderanza di uno o pochi gruppi per cui si può con-

tinuare a parlare di policentrismo dei gruppi etnici;• i grandi gruppi nazionali hanno conosciuto uno sviluppo differen-

ziato nei passati dieci anni con oltre il doppio da Polonia e Pakistan,

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tre volte Cina, India, Bangladesh e Nigeria, sei volte Albania e Perù,nove volte la Romania.

La ripartizione territoriale degli immigrati in Italia ha mostrato neitempi recenti aspetti innovativi. Il Nord Ovest (32,7%) e il Nord Est (24,1%)arrivano insieme al 56,8% della presenza immigrata per cui il Nord si accre-dita sempre più come l’epicentro dell’immigrazione: la Lombardia da solaaccoglie quasi un quarto di tutti gli immigrati3.

Come si legge nel Dossier CARITAS 2003, la tendenza demograficanegativa, che porta a prevedere a metà secolo la diminuzione di almenodieci milioni di persone nella popolazione italiana, sarà bilanciata dall’in-cessante aumento del numero degli immigrati, sempre più necessari perrispondere al fabbisogno delle imprese e alla crescente richiesta di lavora-tori per l’assistenza familiare.

Ciò che ci attende è già realtà in diversi Paesi (Canada, Svizzera, StatiUniti, ad esempio) e mette in evidenza la necessità strutturale dell’immi-grazione. “Il vero problema, quindi, non è il numero degli immigrati quan-do questi sono necessari per i bisogni della società, bensì la mancanza dipolitiche che riescano ad essere inclusive nei confronti delle persone dellequali si ha bisogno.”4

Purtroppo, così come accade nel resto dell’Europa, il razzismo e laxenofobia contro queste minoranze sono diventati sempre più evidenti e,anche se non è l’immigrazione a “provocare” fenomeni di razzismo – la“sindrome da accerchiamento” non è giustificata dalle statistiche, secondole quali soltanto il 5% della popolazione in Europa è straniera - , è peròvero che una popolazione immigrata consistente pone con più evidenza laquestione della necessità di politiche d’integrazione per la promozione diuna società interculturale e di lotta alle discriminazioni.

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B - I diritti umani

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani,tra universalismo e relativismo

Il fondamento giuridico per tutta la legislazione sui diritti umani èancora oggi la ‘Dichiarazione Universale dei Diritti Umani’ (DUDU), appro-vata dall’Assemblea Generale della nascente Organizzazione delle NazioniUnite (ONU) il 10 dicembre1948. Da allora ogni anno in quel giorno si cele-bra in tutto il mondo la giornata internazionale per i diritti umani. Si trattòdi un fatto rivoluzionario: per la prima volta veniva scritto un documentoche conteneva il “codice etico” di condotta degli uomini a livello mondia-le, andando oltre i limiti dei confini statali che caratterizzavano le prece-denti carte dei diritti umani (dalla dichiarazione d’indipendenza dellaVirginia nel 1775 e dalla Rivoluzione francese in poi). La Dichiarazione ful’atto fondativo del nuovo “diritto internazionale dei diritti umani”, chemetteva in discussione il principio tradizionale e assoluto della “non inge-renza” negli affari interni di un altro Stato. Infatti in materia di dirittiumani, per la prima volta, si operava una limitazione della sovranità stata-le. L’idea di fissare una carta internazionale dei diritti venne nel corso dellaseconda guerra mondiale, quando fu evidente la necessità di fondare unnuovo ordine mondiale in cui fossero banditi i massacri e le atrocità cuinegli anni Quaranta si stava assistendo.

Essa fu il frutto del lavoro di un comitato di redazione di otto mem-bri, composto dai rappresentanti dell’Australia, del Cile, della Francia, dellaGran Bretagna, del Libano, degli Stati Uniti, dell’URSS. Tra i padri fondato-ri che lavorarono al progetto il principale fu il francese René Cassin.L’approvazione avvenne con 48 voti favorevoli sui 58 Paesi che allora for-mavano l’ONU, con 8 astensioni (Unione Sovietica, Polonia, Cecoslovacchia,Yugoslavia, Ucraina, Bielorussia, Sudafrica, Arabia Saudita), mentre duePaesi non parteciparono al voto (Honduras e Yemen). Un gruppo di Paesioccidentali, con Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, di fatto guidò i lavo-ri, mantenendo la leadership. Ad essi si aggregarono anche i Paesidell’America Latina. I Paesi asiatici ebbero scarso peso, eccetto quellimusulmani, guidati da Arabia Saudita e Pakistan, che espressero delle riser-

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ve legate alla propria tradizione musulmana, in materia di religione e divita familiare. Contro la proposta occidentale furono schierati i Paesidell’Europa socialista. La Dichiarazione Universale, concepita all’internodelle dinamiche della guerra fredda, fu alla fine un compromesso fra posi-zioni diverse, che tuttavia trovarono un punto d’incontro.

Lo scontro che si ebbe, dunque, nell’elaborazione della Dichiarazionevide una contrapposizione tra le grandi democrazie occidentali e i Paesidell’Europa socialista. All’interno delle Nazioni Unite era allora assai mino-ritaria la presenza dei Paesi in via di sviluppo, che vivevano ancora spessoin regime coloniale. Cassese individua tre fonti ideali che concorsero all’e-laborazione del testo finale: il giusnaturalismo della tradizione occidenta-le, lo statalismo dei Paesi socialisti, il nazionalismo5.

Gli occidentali proponevano la loro concezione “giusnaturalista”,secondo la quale gli uomini erano dotati in natura di alcuni diritti dellapersona che lo Stato era tenuto a rispettare. Si trattava dei diritti civili epolitici, i soli che gli occidentali intendevano proclamare a livello mondia-le. Come si legge nell’articolo 1, “Tutti gli esseri umani nascono liberi edeguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devo-no agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”, ovvero i diritti umanisono preesistenti allo Stato, il quale basava il proprio consenso su di un“patto sociale” che aveva proprio lo scopo di proteggere gli uomini e noncerto di assoggettarli ad esso.

Dall’altro lato i Paesi socialisti sottolinearono la centralità dei dirittieconomici e sociali, in base alla loro concezione “giuspositivista”, secondola quale lo Stato poteva concedere per sua scelta una serie di garanziesociali ed economiche, sotto forma di organizzazione generale della col-lettività. Nell’articolo 22 si afferma infatti che l’individuo non vive isolato,ma inserito nella società, per cui è compito dello Stato garantire a ciascu-no la sicurezza personale e il godimento dei diritti. Inoltre i Paesi socialistichiesero l’inserimento del principio di eguaglianza (ossia il divieto di discri-minazioni basate su razza, sesso, colore, lingua, religione, opinioni politi-che, nazionalità o altro status), il “diritto di ribellione” contro autoritàoppressive, il diritto delle minoranze nazionali a veder riconosciuti e rispet-tati i loro diritti di gruppo e il diritto all’autodeterminazione dei popolicoloniali. Si trattava cioè di estendere la fascia dei diritti civili e politici inuna direzione forte su cui gli occidentali non erano però disposti a darel’assenso. Infatti gli emendamenti vennero tutti respinti.

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Un fattore importante di dissenso riguardava il fatto che per i Paesisocialisti i diritti umani non avrebbero dovuto ledere la sovranità naziona-le degli Stati, nel senso che si doveva concepirli in modo da renderli com-patibili con il sistema statale. Il ruolo della comunità internazionale avreb-be dovuto essere quello di stabilire dei parametri e direttive sui dirittiumani, lasciando poi allo Stato il compito di precisare nel dettaglio queiparametri generali, senza ulteriori controlli. I Paesi occidentali ritenevanoci dovesse essere un continuum tra l’azione internazionale e quella nazio-nale, per il semplice fatto che gli organi internazionali dovevano avere lapossibilità di controllare il rispetto delle norme internazionali da parte deisingoli Stati, i quali spesso le accettavano solo formalmente. Questa que-stione rimase sempre aperta e ancor oggi viene talvolta riproposta.

Una terza matrice, infine, quella nazionalista, era ispirata alla salva-guardia della sovranità nazionale e si rese evidente nella rinuncia ai dirittidi ribellione, di petizione contro gli abusi e di protezione delle minoranzenazionali. Un aspetto fondamentale fu poi la decisione di non attribuirevalore giuridico vincolante alla Dichiarazione, che rimaneva un impegno dicarattere etico-politico, in attesa di norme attuative che comportasseroobblighi giuridici per gli Stati.

I limiti più evidenti della nuova carta erano senz’altro il fatto che essanon proclamava il diritto dei popoli all’autodeterminazione (per il ricono-scimento del quale bisognava aspettare i Patti Internazionali del 1966), nonaccordava il diritto di petizione alle vittime delle violazioni dei diritti umani(diritto in parte riconosciuto dal Protocollo facoltativo annesso al Patto suidiritti civili e politici del 1966), non riconosceva il diritto dei popoli oppres-si a ribellarsi contro un regime dispotico.

Si dovette attendere fino al 1966 perché fossero approvati dalleNazioni Unite i due “Patti Internazionali”, ovvero il “Patto Internazionalesui diritti civili e politici” (con annesso un Protocollo facoltativo) e il “PattoInternazionale sui diritti economici, sociali e culturali”, che dovevano tra-durre in norme vincolanti per gli Stati ratificanti i principi fondamentalienunciati nella Dichiarazione. Tutti assieme, con l’aggiunta dei “Protocolli”opzionali ai Patti, formarono la “Carta Internazionale dei Diritti Umani”.Aperti alle ratifiche da parte degli Stati, il Patto sui diritti civili e politicientrò in vigore nel 1973, mentre l’altro entrò in vigore nel 1976. Al 7 luglio2003 il primo risulta ratificato da 149 stati, il secondo da 147. L’Italia rati-ficò entrambi nel 1978.

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Innanzitutto il fatto che i Patti fossero due sta ad indicare la cristal-lizzazione in seno alla comunità internazionale della divisione nel modo diintendere i diritti umani da parte dei due blocchi geopolitici. La primaimportante novità fu che entrambi i Patti iniziavano con due disposizioni,agli articoli 1 e 2, in cui si affermava il “diritto all’autodeterminazione deipopoli” e in cui vi era una clausola intesa a vietare ogni discriminazione,nel godimento dei diritti enunciati, “fondata sulla razza, il colore, il sesso,la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origi-ne nazionale o sociale, la condizione economica o qualsiasi altra condizio-ne”. L’affermazione che i popoli “decidono liberamente del loro statutopolitico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e cul-turale”, per il quale fine “possono disporre liberamente delle proprie ric-chezze e delle proprie risorse naturali” (articolo 1), colmava dunque unagrave lacuna della Dichiarazione Universale, che non aveva parlato di“diritti dei popoli”, per non contrastare con le potenze occidentali colo-niali. Qualcosa era però cambiato nel frattempo: il diritto internazionalerecepiva i mutamenti storici legati al processo di “decolonizzazione” deglianni Cinquanta e Sessanta.

Al Patto sui diritti civili e politici, per l’impossibilità di trovare unaccordo diverso, fu aggiunto un “Protocollo opzionale”, che conferisce alComitato dei diritti dell’uomo, istituito per vigilare sull’applicazione dellenorme, il potere di ricevere e di esaminare “comunicazioni provenienti daindividui, i quali pretendano essere vittime di violazioni di un qualsiasidiritto enunciato nel Patto”. Questa possibilità di ricorsi individuali, peral-tro molto contrastata a livello internazionale, era una manifestazione evi-dente dei progressi fatti nel campo della tutela dei diritti umani (anche seancora oggi non esiste un’analoga facoltà nell’ambito dell’altro PattoInternazionale sui diritti economici, sociali e culturali). Tale protocollo al 7luglio 2003 risulta ratificato da 104 Stati (tra cui l’Italia dal 1978, ma nongli U.S.A.).

Il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali esten-deva la sfera dei diritti inclusi nella Dichiarazione, dove mancava il dirittoalla parità di remunerazione tra uomini e donne, quello al miglioramentodelle proprie condizioni di vita, la tutela delle lavoratrici madri, la prote-zione dei bambini dallo sfruttamento economico e sociale.

Accanto al processo di “internazionalizzazione” della tutela dei dirit-ti umani, grazie al rafforzarsi delle Nazioni Unite e delle loro agenzie, si

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verificava anche un processo parallelo di “regionalizzazione” della prote-zione, ovvero i vari Paesi e continenti realizzavano propri strumenti diattuazione della Dichiarazione Universale. In accordo con quanto stabilitonella Carta delle Nazioni Unite, sono diversi gli organi che all’internodell’ONU si occupano della realizzazione dei diritti umani. Tra questi svol-gono una funzione centrale l’Assemblea Generale, il Consiglio economicoe sociale, la Commissione dei diritti dell’uomo.

Ad essi si aggiungono diverse agenzie specializzate delle NazioniUnite, che svolgono un ruolo di rilievo nella realizzazione pratica dei dirit-ti. Tra queste ricordiamo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO),l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e laCultura (UNESCO), l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura(FAO), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS - WHO).

Accanto al sistema internazionale di protezione dei diritti umani sisvilupparono sistemi di protezione a livello regionale, tra cui il più artico-lato è certamente quello della comunità europea.

Innanzitutto a livello europeo, in seno al Consiglio d’Europa, fu ela-borata la “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo edelle libertà fondamentali”, firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entra-ta in vigore il 3 novembre 1953. La ratifica italiana venne con la legge n.848 del 1955. Ad integrazione della stessa furono elaborati alcuniProtocolli aggiuntivi, tra cui il Sesto nel 1983 prevede l’abolizione dellapena di morte. La Convenzione, dopo aver enunciato i diritti fondamenta-li, istituì due organi, la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo e laCorte europea per i diritti dell’uomo che, assieme al Comitato dei Ministridel Consiglio d’Europa, avevano il compito di garantire il rispetto dei dirit-ti sanciti. La Commissione è competente ad esaminare, oltre ai ricorsi diuno Stato parte contro un altro parte, anche ricorsi individuali o di gruppidi individui o di organizzazioni non governative; promuove, inoltre, la con-ciliazione tra le parti in causa e, se questa non si verifica, può ricorrere allaCorte europea per i diritti umani o al Comitato dei Ministri, al quale tra-smette un rapporto. Possono ricorrere alla Corte, le cui sentenze hannoforza vincolante per gli Stati, oltre alla Commissione, anche lo Stato accu-sato oppure lo Stato di cui l’individuo leso è cittadino. Per quanto riguar-da nello specifico i diritti economici, sociali e culturali nel sistema di prote-zione europeo, occorre ricordare la “Carta sociale europea”, redatta dalConsiglio d’Europa e sottoscritta dagli Stati a Torino il 18 ottobre 1961. In

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base ad essa gli Stati hanno l’obbligo di presentare rapporti che ne valuta-no l’attuazione, i quali vengono analizzati da un Comitato di sei espertiindipendenti, eletti dal Comitato dei Ministri.

Il 18 dicembre 2000 la Commissione Europea ha approvato la Cartadei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, che riunisce in un testo unicoi diritti enunciati in fonti diverse e aggiorna la precedente ConvenzioneEuropea. Nel preambolo si afferma che i popoli europei hanno deciso dicondividere un futuro di pace, fondato sui “valori indivisibili e universali didignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà”, nonché sui prin-cipi di democrazia e dello stato di diritto. Oltre ai tradizionali diritti, si inse-riscono il diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali (art. 8), ildiritto degli anziani a condurre una vita dignitosa e indipendente (art. 25),la protezione dei consumatori (art.38), la tutela dell’infanzia (art. 24), lapiena integrazione dei disabili. Si vietano la pena di morte e la tortura omaltrattamenti (art. 4), la schiavitù (art.5), le espulsioni collettive (art. 18).Si riconoscono il diritto di sciopero e il diritto di asilo. Resta da vedere sequesta carta avrà valore vincolante sugli ordinamenti interni degli Stati, inquanto costituisce un passo avanti notevole sulle politiche sociali, sull’im-migrazione, sul diritto di asilo e sulla democrazia.

All’esperienza europea, la prima e la più evoluta, si ispirò nel quadrodell’“Organizzazione degli Stati Americani” (OSA) la “Convenzione intera-mericana sui diritti dell’uomo”, firmata a San Josè de Costarica il 22 novem-bre 1969 ed entrata in vigore il 18 luglio 1978.

Più recentemente fu adottata nel quadro dell’ “Organizzazione perl’Unità Africana” (OUA) la “Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popo-li”, siglata a Banjul il 10 gennaio 1981, per un sistema africano di prote-zione dei diritti umani, entrata in vigore nel 1986.

Un’esperienza importante è quella svolta dalla comunità degli Statiarabi, per le specificità culturali che la distinguono dall’esperienza dei Paesieuropei. Da un lato, infatti, c’è il giusnaturalismo e la libertà della persona,dall’altro la legge islamica, in cui l’individuo è sottomesso ad Allah, da cuiogni cosa dipende. All’interno della Lega degli Stati Arabi nel 1966 fu isti-tuita una Commissione Permanente Araba per i Diritti Umani, che comin-ciò l’elaborazione di una Carta Araba dei Diritti Umani. Dei progetti furo-no presentati nel 1971, nel 1985 e infine nel 1993, quando finalmente siarrivò all’adozione della Carta, il 15 settembre 1994.

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Tale documento, aperto alla ratifica degli Stati, garantisce i diritti dilibertà della Dichiarazione Universale, i diritti dei popoli a disporre delleproprie ricchezze e a determinare da sé il proprio sviluppo. Viene limitatala pena di morte, escludendola per i minori di anni 18, per le donne incin-te e per i prigionieri politici. L’articolo 29 riconosce il diritto di sciopero e dicostituire sindacati, nonostante l’opposizione di alcuni Stati arabi.L’articolo 34 obbliga gli Stati a combattere contro l’analfabetismo; l’artico-lo 39 riconosce il diritto dei giovani a sviluppare la propria capacità intel-lettuale e fisica. L’articolo 37 riconosce alle minoranze il diritto a manife-starsi e alla libertà di culto. Tale Carta è un passo avanti verso la pienaaccettazione della Dichiarazione Universale e dei Patti da parte della comu-nità dei paesi Arabi. Tuttavia il meccanismo giuridico per l’applicazionedella Carta è primitivo, se rapportato a quello dell’Unione Europea (un“Comitato di esperti arabi”, sette in tutto, che deve esaminare i rapportiperiodici da parte degli Stati membri, ma senza raccogliere denunce degliindividui od organismi della società civile).

L’emanazione della Carta fu preceduta da alcune dichiarazioni, tra cuila Dichiarazione di Decca sui Diritti Umani nell’Islam del 1983 e laDichiarazione del Cairo, adottata il 2 agosto 1990 dalla Conferenza deiMinistri degli Affari Esteri della Organizzazione della Conferenza Islamica(O.C.I.). Esse proclamano il rispetto della Sharia come motivo principale perdare uguaglianza agli uomini e sradicare gli egoismi, nel tentativo di fareascrivere i diritti umani all’interno della tradizione islamica come parteintegrante e intrinseca all’Islam. Si riconosce che gli uomini hanno gli stes-si diritti e responsabilità, senza distinzioni di razza, colore, lingua, religio-ne, sesso, opinione politica e status sociale. Tuttavia non si fa esplicito rife-rimento alla Dichiarazione Universale.

Una volta gettate le basi del diritto internazionale dei diritti umani,l’evoluzione successiva vide un progressivo processo di “specializzazione”,attraverso la stipula di convenzioni e accordi internazionali su singoli dirit-ti, preceduti spesso da dichiarazioni delle Nazioni Unite.

Tra le altre, ricordiamo la “Convenzione delle Nazioni Unite sull’elimi-nazione di ogni forma di discriminazione razziale” (in vigore dal 1969, con168 Stati aderenti al 7 luglio 2003, tra cui l’Italia dal 1975); la “Convenzionecontro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradan-ti”, adottata il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987, cheha istituito il Comitato contro la tortura (133 ratifiche al 7 luglio 2003); la

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“Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei con-fronti della donna”, adottata il 18 dicembre 1979 ed entrata in vigore il 3settembre 1981 (ratificata da 173 Stati al 7 luglio 2003, in Italia dal 1985); la“Convenzione sullo status di rifugiato”, sottoscritta a Ginevra il 25 luglio1951; la “Convenzione sui diritti dell’Infanzia” (entrata in vigore il 2 set-tembre 1990, con 192 Stati parte al 7 luglio 2003, ratificata e resa esecutivain Italia con Legge 27 maggio 1991). Il 15 dicembre 1989 vi fu l’adozione del“Secondo Protocollo opzionale” annesso al Patto internazionale sui diritticivili e politici, finalizzato all’abolizione della pena di morte, che i Paesi ade-renti si impegnavano ad eliminare totalmente (49 al 7 luglio 2003).

Nel corso degli anni ‘60 e ‘70, anche per il contributo dei Paesi in viadi sviluppo, si vennero affermando sulla scena internazionale una nuovaserie di diritti umani, detti “diritti di solidarietà” o “diritti di terza genera-zione”. L’espressione fu usata per la prima volta a metà anni Settanta daWasak, direttore dell’Istituto internazionale dei diritti umani di Strasburgo.Essi comprendevano il diritto all’ambiente, il diritto alla pace, il diritto alpatrimonio comune all’umanità, il diritto allo sviluppo. Il diritto alla pacevenne proclamato dall’Assemblea Generale il 12 novembre 1984, quando siaffermò che “i popoli del nostro pianeta hanno il sacro diritto alla pace edi conseguenza la salvaguardia del diritto dei popoli alla pace e la promo-zione della sua realizzazione costituiscono un fondamentale obbligo diogni Stato”. Il diritto allo sviluppo fu formalmente riconosciuto in unadichiarazione delle Nazioni Unite del 1986, certamente in ritardo.

L’ampliarsi e storicizzarsi della legislazione in materia di diritti umaninel tempo ha reso meno attuale il tema della pretesa “universalità” dinorme che in pratica, sostenevano molti critici, provenivano da un’unicamatrice culturale. A tal proposito si possono distinguere almeno due scuo-le di pensiero. Da un lato ci sono gli “universalisti”, fautori della tesi dellarivoluzionarietà dei diritti umani in quanto portatori di una nuova eticaglobale; dall’altro ci sono i “relativisti”, che in ambito filosofico e antropo-logico sostengono la tesi dell’egemonia politico-diplomatica e culturaledell’Occidente nell’elaborazione dei diritti umani. Recentemente sta pre-valendo una linea di mediazione tra l’impianto teorico e politico dei dirit-ti e la sua realtà locale di applicazione. Infatti le culture non occidentalihanno prodotto delle proprie carte dei diritti, come emanazione dellaDichiarazione Universale. Gli antropologi vedono una conflittualità apertatra Occidente, che fonda i diritti sull’esclusività dell’individuo, slegandolo

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da appartenenze culturali ed etniche, e altre culture che esaltano propriotali appartenenze.

Secondo Antonio Papisca, il fatto che i diritti umani siano innati econnaturati alla persona, dunque inalienabili e inviolabili come nella tradi-zione liberale, è un baluardo in difesa degli stessi e della persona controogni mutamento storico o politico che possa rimetterli in discussione, ripor-tando la sovranità statale al di sopra della sovranità della persona. Non acaso tra i maggiori critici della universalità dei diritti umani ci sono alcuniStati autoritari (come Malaysia, Singapore, Emirati Arabi, Cina). Dall’altrolato un numero crescente di organizzazioni per i diritti umani, anche inAsia e Africa, asseriscono la loro universalità.

Se inizialmente la piattaforma dei diritti fu il frutto del lavoro dipochi Stati occidentali, tuttavia dagli anni ‘60 in poi gli Stati del Sud delmondo sono stati protagonisti dell’evoluzione dei diritti umani. Anche ladicotomia della guerra fredda tra diritti civili e politici contro diritti socialied economici si è venuta ricucendo tra gli anni ‘80 e ‘90, quando in variedichiarazioni si è affermata l’indivisibilità dei diritti umani. In altre parole,non era vero che per raggiungere un certo grado di ‘sviluppo’ economicocerti Stati erano legittimati ad ignorare o trascurare diritti politici o socialidi libertà e democrazia. Solennemente ciò fu affermato nella Dichiarazioneconclusiva della Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna nel 1993.

Un problema, denunciato da Papisca, è quello della tendenza in attoa legare i diritti umani a quelli di cittadinanza, in questo tradendo i detta-mi della Dichiarazione Universale. Infatti, se i diritti spettano alla personain quanto tale, in quanto avente una dignità umana, non si potrà vincola-re il godimento dei diritti al fatto di avere o no una cittadinanza, come adesempio quella europea. I diritti sono della persona prima che del cittadi-no. Su questi temi è acceso un forte dibattito interno alle istituzioni euro-pee.

La legislazione italiana nel campo della discriminazione“razziale”, etnica, religiosa e nazionale

La materia degli atti di discriminazione per motivi razziali, etnici,nazionali o religiosi, e delle relative azioni civili e penali, è regolata essen-zialmente dagli articoli 43 e 44 del decreto legislativo n.286/1998 (Testo

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Unico sull’immigrazione) e dalle disposizioni contenute nella legge n.654del 1975 – di ratifica della convenzione di New York sull’eliminazione ditutte le forme di discriminazione razziale – nonché nel decreto-legge26.4.1993, n.122, convertito con modificazioni nella legge n.205 del 1933(Misure urgenti in materia di discriminazione razziale etnica e religiosa).

Accanto a questi provvedimenti di fondamentale importanza, le duedirettive europee (n.43/2000 e n.78/2000) recentemente recepite nell’ordi-namento italiano.

Riportiamo di seguito gli articoli citati (43 e 44) che la nuova LeggeBossi-Fini (n. 189/2002) sull’immigrazione non ha abrogato, perché di fon-damentale importanza per la tutela dei diritti delle persone a rischio didiscriminazione.

“1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni com-portamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione,esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascen-denza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose,e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il rico-noscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei dirittiumani e delle libertà fondamentali in campo economico, sociale e cultura-le e in ogni altro settore della vita pubblica (…)”.

Questa definizione riprende a sua volta letteralmente la definizionedi discriminazione che si ritrova nella convenzione internazionale sull’eli-minazione di tutte le forme di discriminazione razziale di New York (1966).

L’Articolo prosegue identificando gli autori degli atti di discrimina-zione:

“2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la

persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’eserci-zio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cit-tadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di stra-niero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etniao nazionalità, lo discriminino ingiustamente;

b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di forni-re beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto acausa della sua condizione di straniero o di appartenente ad unadeterminata razza, religione, etnia o nazionalità;

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c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose osi rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istru-zione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allostraniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragionedella sua condizione di straniero o di appartenente ad una deter-minata razza, religione, etnia o nazionalità;

d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l’esercizio diun’attività economica legittimamente intrapresa da uno stranieroregolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della suacondizione di straniero o di appartenente ad una determinatarazza, confessione religiosa, etnia o nazionalità;

e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell’articolo 15della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integratadalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990,n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca uneffetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, ilavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad ungruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad unacittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamen-to pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantag-gino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori apparte-nenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnicoo linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad unacittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimentodell’attività lavorativa.

Il presente articolo e l’articolo 44 si applicano anche agli atti xenofo-bi, razzisti o discriminatori compiuti nei confronti dei cittadini italiani, diapolidi e di cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea presenti inItalia.

Art. 44. Azione civile contro la discriminazione (L. 6-3-1998, n. 40,art.42).

1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica ammini-strazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici,nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare lacessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni

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altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuoveregli effetti della discriminazione.

2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personal-mente dalla parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domi-cilio dell’istante.

3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale alcontraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agliatti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai finidel provvedimento richiesto.

4. Il pretore provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigettodella domanda. Se accoglie la domanda, emette i provvedimentirichiesti che sono immediatamente esecutivi.

5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato,assunte, ove occorra, sommarie informazioni. In tal caso fissa, conlo stesso decreto, l’udienza di comparizione delle parti davanti a séentro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando all’i-stante un termine non superiore a otto giorni per la notificazionedel ricorso e del decreto. A tale udienza il pretore, con ordinanza,conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati nel decreto.

6. Contro i provvedimenti del pretore é ammesso reclamo al tribuna-le nei termini di cui all’articolo 739, secondo comma, del codice diprocedura civile. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli737, 738 e 739 del codice di procedura civile.

7. Con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì con-dannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patri-moniale.

8. Chiunque elude l’esecuzione di provvedimenti del pretore di cui aicommi 4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale di cui al comma 6 épunito ai sensi dell’articolo 388, primo comma, del codice penale.

9. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno delcomportamento discriminatorio in ragione della razza, del gruppoetnico o linguistico, della provenienza geografica, della confessio-ne religiosa o della cittadinanza può dedurre elementi di fattoanche a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contri-butivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimen-ti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti dell’azienda

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interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all’arti-colo 2729, primo comma, del codice civile.

10. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un compor-tamento discriminatorio di carattere collettivo, anche in casi in cuinon siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratorilesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rap-presentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormenterappresentative a livello nazionale. Il giudice, nella sentenza cheaccerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensidel presente articolo, ordina al datore di lavoro di definire, sentitii predetti soggetti e organismi, un piano di rimozione delle discri-minazioni accertate.

11. Ogni accertamento di atti o comportamenti discriminatori ai sensidell’articolo 43 posti in essere da imprese alle quali siano statiaccordati benefici ai sensi delle leggi vigenti dello Stato o delleRegioni, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinen-ti all’esecuzione di opere pubbliche, di servizi o di forniture, éimmediatamente comunicato dal pretore, secondo le modalitàpreviste dal regolamento di attuazione, alle amministrazioni pub-bliche o enti pubblici che abbiano disposto la concessione delbeneficio, incluse le agevolazioni finanziarie o creditizie, o dell’ap-palto. Tali amministrazioni o enti revocano il beneficio e, nei casipiù gravi, dispongono l’esclusione del responsabile per due anni daqualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o crediti-zie, ovvero da qualsiasi appalto.

12. Le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, con leassociazioni di immigrati e del volontariato sociale, ai fini dell’ap-plicazione delle norme del presente articolo e dello studio delfenomeno, predispongono centri di osservazione, di informazionee di assistenza legale per gli stranieri, vittime delle discriminazioniper motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.”

Di seguito si riporta integralmente il testo del decreto legislativo concui il Governo italiano ha recepito la direttiva 2000/43/CE, per la parità ditrattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origineetnica.

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DECRETO LEGISLATIVO 9 luglio 2003, n. 215

Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indi-pendentemente dalla razza e dall’origine etnica. (GU n. 186 del 12-8-2003)

Testo in vigore dal: 27-8-2003

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;

Vista la direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, sull’attuazione delprincipio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza edall’origine etnica;

Visto l’articolo 29 della legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare l’allegato B;

Visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione enorme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio1998, n. 286, e successive modificazioni;

Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunionedel 28 marzo 2003;

Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e delSenato della Repubblica;

Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 3 luglio2003;

Sulla proposta del Ministro per le politiche comunitarie, del Ministro del lavoro edelle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità, di concerto con ilMinistro degli affari esteri, con il Ministro della giustizia e con il Ministro dell’econo-mia e delle finanze;

Emana il seguente decreto legislativo:

Art. 1. - Oggetto

1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di trat-tamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, dispo-nendo le misure necessarie affinché le differenze di razza o di origine etnica nonsiano causa di discriminazione, anche in un’ottica che tenga conto del diversoimpatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini,nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

Art. 2. - Nozione di discriminazione

1. Ai fini del presente decreto, per principio di parità di trattamento si intende l’as-senza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’ori-gine etnica. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazionediretta o indiretta, così come di seguito definite:

a) discriminazione diretta quando, per la razza o l’origine etnica, una persona è

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trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’al-tra in situazione analoga;

b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, unatto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere lepersone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di partico-lare svantaggio rispetto ad altre persone.

2. È fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2, del testo unico delle disposi-zioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dellostraniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, di seguito deno-minato: «testo unico».

3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche lemolestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi dirazza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una per-sona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

4. L’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica è consi-derato una discriminazione ai sensi del comma 1.

Art. 3. - Ambito di applicazione

1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza ed origine etnica siapplica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile ditutela giurisdizionale, secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico rife-rimento alle seguenti aree:

a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi icriteri di selezione e le condizioni di assunzione;

b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, laretribuzione e le condizioni del licenziamento;

c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfe-zionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;

d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori dilavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle mede-sime organizzazioni;

e) protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale;

f) assistenza sanitaria;

g) prestazioni sociali;

h) istruzione;

i) accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio.

2. Il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basatesulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relativeall’ingresso, al soggiorno, all’accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previ-denza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, né qual-siasi trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridicadei predetti soggetti.

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3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rap-porto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti didiscriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute acaratteristiche connesse alla razza o all’origine etnica di una persona, qualora, perla natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, sitratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante aifini dello svolgimento dell’attività medesima.

4. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelledifferenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie,siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezziappropriati e necessari.

Art. 4. - Tutela giurisdizionale dei diritti

1. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all’articolo 2 sisvolge nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico.

2. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una dellediscriminazioni di cui all’articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di con-ciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di concilia-zione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile o, nell’ipotesi di rap-porti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’articolo 66 del decre-to legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite le associazioni di cui all’artico-lo 5, comma 1.

3. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discrimina-torio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici,elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta aisensi dell’articolo 2729, primo comma, del codice civile.

4. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richie-sto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione delcomportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente,nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice puòordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione dellediscriminazioni accertate.

5. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 4, che l’at-to o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedenteazione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggettoleso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.

6. Il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza di cui ai commi 4 e 5, aspese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale.

7. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all’ar-ticolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

Art. 5. - Legittimazione ad agire

1. Sono legittimati ad agire ai sensi dell’articolo 4, in forza di delega, rilasciata, apena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, in nome e per

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conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e glienti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro edelle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sullabase delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione.

2. Nell’elenco di cui al comma 1 possono essere inseriti le associazioni e gli enti iscrit-ti nel registro di cui all’articolo 52, comma 1, lettera a), del decreto del Presidentedella Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, nonché le associazioni e gli enti iscritti nelregistro di cui all’articolo 6.

3. Le associazioni e gli enti inseriti nell’elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legitti-mati ad agire ai sensi dell’articolo 4 nei casi di discriminazione collettiva qualoranon siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discri-minazione.

Art. 6. - Registro delle associazioni e degli enti che svolgonoattività nel campo della lotta alle discriminazioni

1. Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportu-nità è istituito il registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nelcampo della lotta alle discriminazioni e della promozione della parità di tratta-mento.

2. L’iscrizione nel registro e’ subordinata al possesso dei seguenti requisiti:

a) avvenuta costituzione, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, daalmeno un anno e possesso di uno statuto che sancisca un ordinamento a basedemocratica e preveda come scopo esclusivo o preminente il contrasto ai feno-meni di discriminazione e la promozione della parità di trattamento, senza finedi lucro;

b) tenuta di un elenco degli iscritti, aggiornato annualmente con l’indicazionedelle quote versate direttamente all’associazione per gli scopi statutari;

c) elaborazione di un bilancio annuale delle entrate e delle uscite con indicazionedelle quote versate dagli associati e tenuta dei libri contabili, conformementealle norme vigenti in materia di contabilità delle associazioni non riconosciute;

d) svolgimento di un’attività continuativa nell’anno precedente;

e) non avere i suoi rappresentanti legali subito alcuna condanna, passata in giu-dicato, in relazione all’attività dell’associazione medesima, e non rivestire imedesimi rappresentanti la qualifica di imprenditori o di amministratori diimprese di produzione e servizi in qualsiasi forma costituite, per gli stessi setto-ri in cui opera l’associazione.

3. La Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le pari opportunitàprovvede annualmente all’aggiornamento del registro.

Art. 7. - Ufficio per il contrasto delle discriminazioni

1. È istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le pariopportunità un ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozio-ne delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica, con funzioni di

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controllo e garanzia delle parità di trattamento e dell’operatività degli strumentidi tutela, avente il compito di svolgere, in modo autonomo e imparziale, attivitàdi promozione della parità e di rimozione di qualsiasi forma di discriminazionefondata sulla razza o sull’origine etnica, anche in un’ottica che tenga conto deldiverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini,nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

2. In particolare, i compiti dell’ufficio di cui al comma 1 sono i seguenti:

a) fornire assistenza, nei procedimenti giurisdizionali o amministrativi intrapresi,alle persone che si ritengono lese da comportamenti discriminatori, anchesecondo le forme di cui all’articolo 425 del codice di procedura civile;

b) svolgere, nel rispetto delle prerogative e delle funzioni dell’autorità giudiziaria,inchieste al fine di verificare l’esistenza di fenomeni discriminatori;

c) promuovere l’adozione, da parte di soggetti pubblici e privati, in particolare daparte delle associazioni e degli enti di cui all’articolo 6, di misure specifiche, ivicompresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o compensare le situazio-ni di svantaggio connesse alla razza o all’origine etnica;

d) diffondere la massima conoscenza possibile degli strumenti di tutela vigentianche mediante azioni di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul principiodella parità di trattamento e la realizzazione di campagne di informazione ecomunicazione;

e) formulare raccomandazioni e pareri su questioni connesse alle discriminazioniper razza e origine etnica, nonché proposte di modifica della normativa vigente;

f) redigere una relazione annuale per il Parlamento sull’effettiva applicazione delprincipio di parità di trattamento e sull’efficacia dei meccanismi di tutela, non-ché una relazione annuale al Presidente del Consiglio dei Ministri sull’attivitàsvolta;

g) promuovere studi, ricerche, corsi di formazione e scambi di esperienze, in col-laborazione anche con le associazioni e gli enti di cui all’articolo 6, con le altreorganizzazioni non governative operanti nel settore e con gli istituti specializ-zati di rilevazione statistica, anche al fine di elaborare linee guida in materia dilotta alle discriminazioni.

3. L’ufficio ha facoltà di richiedere ad enti, persone ed imprese che ne siano in pos-sesso, di fornire le informazioni e di esibire i documenti utili ai fini dell’espleta-mento dei compiti di cui al comma 2.

4. L’ufficio, diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio deiMinistri o da un Ministro da lui delegato, si articola secondo le modalità organiz-zative fissate con successivo decreto del Presidente del consiglio dei Ministri, concui si provvede ad apportare le opportune modifiche al decreto del Presidente delConsiglio dei Ministri in data 23 luglio 2002, recante ordinamento delle strutturegenerali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pubblicato nella GazzettaUfficiale n. 207 del 4 settembre 2002.

5. L’ufficio può avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivicompresi magistrati e avvocati e procuratori dello Stato, in posizione di comando,

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aspettativa o fuori ruolo, nonché di esperti e consulenti esterni. Si applica l’artico-lo 17, commi 14 e 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127.

6. Il numero dei soggetti di cui al comma 5 e’ determinato con il decreto di cui alcomma 4, secondo quanto previsto dall’articolo 29 della legge 23 agosto 1988, n.400 e dall’articolo 9 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 303.

7. Gli esperti di cui al comma 5 sono scelti tra soggetti, anche estranei alla pubblicaamministrazione, dotati di elevata professionalità nelle materie giuridiche, nonchénei settori della lotta alle discriminazioni, dell’assistenza materiale e psicologica aisoggetti in condizioni disagiate, del recupero sociale, dei servizi di pubblica utilità,della comunicazione sociale e dell’analisi delle politiche pubbliche.

8. Sono fatte salve le competenze delle regioni e delle province autonome di Trentoe di Bolzano.

Art. 8. - Copertura finanziaria

1. Agli oneri finanziari derivanti dall’istituzione e funzionamento dell’ufficio di cuiall’articolo 7, nel limite massimo di spesa di 2.035.357 euro annui a decorrere dal2003, si provvede ai sensi dell’articolo 29, comma 2, della legge 1° marzo 2002, n.39.

2. Fatto salvo quanto previo dal comma 1, dall’attuazione del presente decreto nonderivano oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato.

Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficia-le degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti diosservarlo e di farlo osservare.

Dato a Roma, addì 9 luglio 2003

CIAMPI

Berlusconi, Presidente del Consiglio dei MinistriButtiglione, Ministro per le politiche comunitarie

Maroni, Ministro del lavoro e delle politiche socialiPrestigiacomo, Ministro per le pari opportunita’

Frattini, Ministro degli affari esteriCastelli, Ministro della giustizia

Tremonti, Ministro dell’economia e delle finanzeVisto, il Guardasigilli: Castelli

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C - La comunicazione interculturale

Suggerimenti per un corretto usoe la corretta interpretazione delle schede sulle religioni

Per la corretta interpretazione delle schede che seguono è bene leg-gere i capitoli 3 e 4 del manuale, oltre alle precisazioni che seguono, aven-do chiaro che ridurre religioni millenarie, diffuse in tanti Paesi diversi e cheuniscono miliardi di credenti nel mondo a poche, misere pagine, può appa-rire un’operazione “presuntuosa” se non se ne comprendono gli scopi e ilimiti che gli stessi autori del manuale e di questi testi denunciano.

Le schede sono state scritte per fornire agli operatori di polizia unmodello per la raccolta delle informazioni che hanno rilevanza per il lavo-ro quotidiano sul territorio. Per esempio, se un poliziotto dovesse organiz-zare la perquisizione di una casa di persone di religione musulmana,dovrebbe sapere che ci possono essere principi o usanze particolari darispettare, forse il non introdurre cani nell’abitazione o togliersi le scarpeprima di entrare. Cercare di entrare con le scarpe e con un cane potrebbecreare una resistenza causata da un profondo sentimento di offesa all’im-posizione di tanta impurezza e sporcizia dentro la casa. Il poliziotto chenon è consapevole del motivo di una reazione ostile alla perquisizione(un’esperienza probabilmente spiacevole per chiunque) rischia di interpre-tarla come il tentativo di nascondere qualcosa di illecito – interpretazioneche potrebbe portare ad un’enorme perdita di tempo per tutti quanti e unalto livello di stress e conflitto. Conflitti forse evitabili se il poliziotto – con-sapevole - spiegasse, con comprensione per l’offesa che sarebbe procurata,la necessità di usare il cane, oppure potrebbe togliere le scarpe o promet-tere di pulirle molto bene o anche soltanto spiegare il proprio rammaricodi non poterle togliere perché in servizio. È bene sapere poi che non intutte le famiglie queste usanze sono rispettate con rigore.

Va detto per chiarezza che se è necessario perquisire una casa conl’ausilio di un cane, allora la casa deve essere perquisita. Capire – e dimo-strare di capire - il disagio delle persone che ci abitano non significa neces-sariamente scusarsi per il lavoro che si deve svolgere ma ridurre la tensio-

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ne, sia se la persona che si ha davanti è colpevole di qualche reato oppureno, il che rende la vita più semplice per tutti.

Alcuni altri esempi di situazioni nelle quali è bene avere qualcheinformazione sulle comunità che abitano il territorio e sulle loro usanze,abitudini, principi: il sistema dei nomi (qual è il nome e qual è il cognome?Esiste un cognome?); le pratiche rispetto alla morte (se, nel caso di unamorte violenta, si dovesse eseguire un’autopsia, come conciliare questocon l’usanza – o precetto - di seppellire la salma entro ventiquattro ore?);quali lingue si parlano (nel caso in cui si presenti il bisogno e la possibilitàdi chiamare un’interprete); ebrei ortodossi possono essere più vulnerabilidurante il sabato se seguono il principio di non usare il telefono (nonpotranno chiamare aiuto se non in caso di pericolo di morte e gruppi anti-semiti spesso ne approfittano).

Infine, perché delle schede sulle religioni e non su gruppi etnici? Perun primo, ovvio, motivo. Questo manuale è indirizzato ad operatori di poli-zia che lavorano su tutto il territorio dello stato italiano dove oggi risiedo-no centinaia di comunità e di persone di diverse origini etnico-culturali eprovenienze geografiche. Sarebbe perciò impossibile fornire delle infor-mazioni sensate ed utili a tutti. Esiste tuttavia un secondo motivo, legatoal momento storico attuale che, specie dopo l’11 settembre, vede partico-larmente forte (e pericolosamente viva) la contrapposizione di un “noi” edi un “loro”, di un “noi contro loro” che si radica in una contrapposizionereligiosa (quasi sempre confusa con appartenenza etnica e culturale) chenon ha alcuna giustificazione e che potrebbe essere ancora più pericolosase condivisa da operatori di polizia che svolgono compiti così delicati eimportanti per il mantenimento dell’ordine e della pace sociale. L’invito èdunque a leggere queste schede cogliendone gli elementi che possonoessere utili per il vostro lavoro, a verificare se esse descrivono con suffi-ciente precisione le comunità presenti nel vostro territorio e, infine, amigliorarle e a completarle dove necessario.

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scheda su ISLAM

Parlare di Islam significa abbracciare una realtà complessa e diversificata al suo inter-no, in termini sociologici, culturali e anche strettamente religiosi. Non è opportunomai affermare recisamente qualcosa pensando che sia applicabile all’intero “univer-so islamico”.

La maggioranza dei musulmani segue il rito sunnita (oltre 80%) che si divide in quat-tro scuole di diritto. Le differenze sono minime e non riguardano i dogmi e gli obbli-ghi fondamentali. Anche i musulmani sciiti seguono le stesse prescrizioni e si diffe-renziano soprattutto per alcune norme giuridiche. A loro volta gli sciiti sono suddi-visi in varie correnti. Gli sciiti si trovano in Iran, Iraq, in parte del Libano, Yemen, Indiae Pakistan.

In Italia il numero dei musulmani è aumentato in rapporto all’ondata migratoria cheha investito il Paese soprattutto dalla fine degli anni ’80. Si può ritenere che oggi visiano in Italia 6-700.000 musulmani regolarmente residenti. La percentuale di clan-destini musulmani tocca probabilmente oltre il 50% di essi. Esistono diverse decinedi migliaia di musulmani italiani, in parte naturalizzati, ma anche italiani d’origine.La maggior parte degli immigrati musulmani proviene dal Marocco, dalla Tunisia, daaltri Paesi arabi (Egitto, Siria, Algeria, Libia, Yemen, Palestina ecc.) e inoltre dalPakistan, Bangladesh, Iran, Turchia, Somalia, Senegal e altri Paesi dell’Asia edell’Africa, nonché molti bosniaci e albanesi.

Origini

L’Islam nasce in Arabia dalla predicazione del Profeta Muhammad (Maometto, ma laparola italianizzata è sgradita ai musulmani) nel settimo secolo dell’era cristiana:centro spirituale dell’Islam è la città di Mecca (Makka) in Arabia Saudita.

Credenze

Islam significa sottomissione alla volontà di Dio (Allah); esso si basa su cinque Pilastri:

1) la dichiarazione di fede (Non c’è altro Dio che Iddio (Allah) e Muhammad èl’Inviato di Dio);

2) la Preghiera canonica cinque volte al giorno per tutti gli adulti;

3) l’elemosina rituale (zakat) ossia una sorta di decima annuale sulle proprietà devo-luta per le necessità della comunità;

4) il digiuno (dall’alba al tramonto) per i trenta giorni del mese di Ramadan;

5) il Pellegrinaggio a Mecca almeno una volta in vita se non impossibile economica-mente o per ragioni di salute.

La religione islamica riconosce, oltre all’ultimo Profeta Muhammad, una serie di altrimessaggeri precedenti da Adamo a Noè ad Abramo, Mosè e Gesù.

Tutti gli uomini e donne sono uguali di fronte a Dio e responsabili delle loro azioni;

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per quanto riguarda la dimensione sociale vi è in alcune realtà una divisione di ruolitra una donna che cura la casa e l’educazione dei figli e un uomo dedito al lavoroesterno.

Sacre scritture e altre fonti

La Torà e i Vangeli sono stati superati dalla discesa del Sacro Corano in arabo. Nonoccorre leggerlo nella lingua originale. Il volume che racchiude il Corano non va toc-cato con mani sporche o impure. Altra fonte di conoscenza della Legge divina è laTradizione del Profeta (Sunna), racchiusa in raccolte canoniche tra cui le più impor-tanti sono quelle di al-Bukhari e Muslim.

Luoghi di culto

Un musulmano può pregare ovunque con la sola condizione che il luogo sia pulito,abitualmente si usa pregare su un tappetino specifico. La moschea (casa di Allah) è illuogo comunitario per la preghiera. Può consistere di un semplice cortile o di unastanza. Le grandi moschee sono destinate ad accogliere la preghiera del venerdì amezzogiorno in cui i musulmani, pur non essendo individualmente obbligati, si rac-colgono ad ascoltare il sermone di un Imam (semplice guida spirituale e non col ruolodi tramite tra il fedele e Dio).

In tal caso uomini e donne pregano separatamente.

La preghiera non può essere interrotta tranne in casi di estrema urgenza. Occorreperciò attenderne la fine prima di ottenere una risposta anche da chi prega in casaed è sconsigliato passare davanti a chi sta pregando.

Per la preghiera occorre essere in stato di purità (abluzioni preventive) e corretta-mente vestiti di abiti puliti (che coprano dall’ombelico alle ginocchia per gli uominie tutto il corpo a esclusione di viso e mani per le donne).

Festività

Vi sono solo due festività nel corso dell’anno, oltre ad alcuni giorni solenni (la ricor-renza della morte di Husain per gli Sciiti, il Natale del Profeta, la Sua ascesa in cielo,la notte del destino, ecc.).

La Grande Festa (al-Id al-Kabir o Id al-Adha) ricorda il sacrificio di Abramo e si cele-bra il 10 del dodicesimo mese lunare durante il Pellegrinaggio.

La Piccola Festa (al-Id as-Saghir o Id al-Fitr) si celebra al termine del mese di Ramadan(nono mese lunare).

Il calendario lunare islamico inizia nell’anno 622 e consiste di 354 giorni (mediamen-te 11 giorni meno di quello solare): il 1424 è iniziato il 4 marzo 2003. Rispetto alcalendario internazionale quindi le festività risultano mobili.

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Morte

Il musulmano viene sepolto in terra col viso rivolto alla Mecca avvolto in un sudariobianco e dopo che il corpo è stato lavato, possibilmente nella stessa giornata. In Italiasi seguono i regolamenti vigenti.

Non è ammessa la cremazione e le cerimonie si limitano a una speciale preghieracomunitaria.

Norme alimentari

È proibita la carne di maiale e di animali non macellati secondo le regole rituali, checonsistono nel taglio delle arterie carotidi e il dissanguamento dell’animale (anche ilsangue è vietato come alimento) dopo aver pronunciato sull’animale un’invocazionea Dio.

In Italia tale tipo di macellazione è consentita dalle leggi vigenti che sono le stesseper gli ebrei. La carne macellata con rito ebraico è lecita (halal) per i musulmani.

Altri tipi di carne che per consuetudine sono considerati proibiti (haram) sono quel-la di asino, degli animali carnivori (cani, gatti, aquile ecc.), dei rettili e degli anfibi.

Gli alcolici e gli stupefacenti sono considerati proibiti in quanto ottenebrano lacoscienza. In genere tutte le sostanze nocive alla salute, se non proibite sono sconsi-gliate (tabacco ecc.).

Usi

Presso molti musulmani vigono regole che riguardano il vestiario soprattutto fem-minile e il contatto fisico tra i due sessi. Le donne evitano di mostrare in pubblicoparti del corpo che non siano il viso e le mani. La copertura del viso è una pratica chenon trova fondamento nella religione. La modestia nel vestire si addice comunquesia a uomini che a donne e comporta anche la non ostentazione di ricchezze (proibi-ti agli uomini gioielli d’oro e l’uso della seta).

Molti uomini non stringono la mano alle donne quando salutano. In genere pressole comunità arabe la posizione della donna è di netta subordinazione. Meno marca-to tale uso presso comunità asiatiche e africane. La separazione dei sessi è piuttostoforte, comunque, e ciò si riverbera in molte situazioni (visite mediche effettuata dadottoresse su donne, perquisizioni, ecc.).

Spesso usi e tradizioni poco o nulla hanno a che vedere con la religione e si trattasolo di costumi in uso nei Paesi d’origine, talvolta anche in contrasto con la religione(per es. l’infibulazione).

La circoncisione è d’uso presso i maschi, meno presso le femmine, ma è semplice tra-dizione e non obbligo. Ogni pratica mutilante o modificante il corpo è proibita (com-preso il tatuaggio e il piercing). L’uso dei cosmetici è proibito quando si prega (manon sono tali l’henné e il rimmel (kuhl) sugli occhi).

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Lingua

Non è obbligatoria la conoscenza dell’arabo, ma tale lingua rimane la lingua delCorano e quindi riveste grande importanza nella preghiera. Le comunità musulmanein Italia hanno diverse lingue. Gli arabi stessi spesso non conoscono la lingua stan-dard e parlano solo il dialetto del Paese d’origine.

Molti maghrebini parlano berbero, i senegalesi in genere il wolof, i somali il somalo:tutte lingue molto diverse dall’arabo. I Pakistani in genere parlano urdu o panjabi ei bangladeshi il bengali.

Altre lingue “islamiche” importanti sono il turco e le altre lingue della stessa fami-glia, il persiano (farsi), il curdo, il malese/indonesiano ecc.

Gli albanesi parlano inoltre albanese e i bosniaci una varietà di serbo-croato.

Nomi

La casistica dei nomi è varia e complessa: in genere dipende dal Paese di provenien-za. Tra i musulmani italiani è d’uso spesso acquisire un nuovo nome al momento dellaconversione, ma senza valore ufficiale.

In molti Paesi non esiste il cognome, ma si usa il patronimico. In genere molti musul-mani anche non arabi hanno un nome arabo.

Spesso esiste il problema dell’identificazione di persone il cui nome è scritto in carat-teri latini in modi diversi: in realtà il nome è uno solo se scritto per esempio in carat-teri arabi, ma viene traslitterato in modi diversissimi, spesso nello stesso Paese di ori-gine.

Per esempio uno stesso nome si trova trascritto Hussein, Husain, Hosein, Houssine,Hocine, Husseen, Housaine e in altri modi ancora.

Le signore non prendono il cognome del marito.

In genere in Italia oggi si considera cognome anche il patronimico, ma tale praticapuò ingenerare confusione: i figli di una signora hanno “cognome” diverso dallamadre.

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Scheda su EBRAISMO

Essere ebrei vuol dire far parte di una popolazione che segue delle tradizioni cherisalgono a quelle dei tre Patriarchi: Abramo, Isacco e sopratutto Giacobbe.Quest’ultimo viene chiamato anche Israel, e dà il nome al popolo ebraico di cui è unodei patriarchi. La tradizione ed il comportamento del popolo ebraico o popolo diIsraele è dettata dalla Torà, (termine che significa insegnamento) conosciuta anchecon il temine Pentateuco, in quanto è composta da cinque libri, scritti secondo la tra-dizione ebraica da Mosé, sommo Profeta di Israele, sotto dettatura divina. Gli ebreisono sparsi in diverse parti del mondo: la Diaspora è la dispersione del popolo ebrai-co al di fuori della terra di Israele. L’elemento di unità è quindi dato dal manteni-mento delle tradizioni e dal perseguimento degli stessi precetti. Il numero di cittadi-ni ebrei è diminuito in Europa del 75% e in Italia del 25% in seguito alle persecuzio-ni razziali iniziate in Germania nel 1933 ed in Italia nel 1938 e culminate nello ster-minio durante la seconda guerra mondiale. Oggigiorno gli ebrei Italiani sono circa35.000 e 12 milioni sono gli ebrei nel mondo.

Origini

L’origine del popolo ebraico risale ad Abramo, il quale ha per primo la percezionedell’unità di un unico Dio che è padrone non soltanto della terra e creatore di ogniessere vivente, ma è colui che ha creato l’universo e tutto ciò che è in esso. Il pattoeterno stabilito fra Dio ed Abramo riguarda tutta la sua discendenza, ed è la circon-cisione a cui si sottopongono tutti i figli maschi al compimento dell’ottavo giorno divita. Ne sono esenti soltanto coloro che hanno dei seri e accertati rischi di salute.

Credenze

L’ebraismo è la prima delle tre grandi religioni comandate monoteiste. Nell’ebraismonon esistono santi e non viene fatta dall’uomo nessuna raffigurazione iconograficadi tipo religioso. Il giudizio morale ha un valore personale in quanto l’uomo è a diret-to contatto con Dio e non esistono intermediari, come non si pratica la confessione.Gli ebrei sono ancora in attesa dell’età messianica. I Rabbini sono maestri, personesagge che hanno studiato ma non c’è una dottrina ebraica. Esiste invece una comu-ne prassi ebraica: secondo il loro insegnamento (la Torà) gli ebrei si devono identifi-care per quello che fanno, non per quello in cui credono.

Sacre scritture

La TORAH (Pentateuco) di Mosè (la prima e la più importante delle tre partidell’Antico Testamento) è considerato il libro sacro per eccellenza, per il contenutofondamentale rispetto alle regole da seguire. Alla Torà scritta, si integra la Toràorale, ricevuta secondo la tradizione sempre da Mosé sul Monte Sinai ma tramanda-ta oralmente da padre in figlio fino a che nel 200 d.e.v.6 è stata codificata da RabbyJehudà. Il commento e la discussione rabbinica al testo è raccolto in un’opera masto-dontica chiamata TALMUD.

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Luoghi di culto

Il luogo di culto per eccellenza era il Tempio di Gerusalemme. Dopo la sua distruzio-ne, non sono più esistiti altri templi ma solo Sinagoghe. La sinagoga (parola che deri-va dal greco) è il luogo di riunione della comunità e di studio, l’intensa attività di stu-dio è infatti una parte fondamentale della formazione degli ebrei.

Festività

Il calendario ebraico segue un ritmo lunare e non solare come quello a cui qui siamoabituati, la dicitura dei mesi è differente e gli anni non si contano ovviamente dallanascita di Cristo, bensì dalla creazione del mondo: all’inizio del 21° secolo il calenda-rio ebraico segna 5764 anni d.e.v. dalla comparsa del primo uomo sulla terra. Le festi-vità ebraiche sono dettate dal testo della Torà e sono in considerazione di episodifondamentali inerenti la formazione storico-politico-religiosa del popolo ebraico.Eccone alcune tra le fondamentali: SHALOSH REGALIM, tre Pellegrinaggi, chiamaticosì in base ad uno specifico precetto del testo mosaico che dice: “per tre voltedurante l’anno, ti mostrerai al cospetto del Signore tuo Dio”; PESACH: cade intornoal Periodo della Pasqua cattolica e ricorda l’uscita dall’Egitto ed il passaggio del MarRosso, in questo periodo é proibito cibarsi di pane e cibi lievitati, in ricordo di quan-do gli ebrei, nella fretta di uscire dall’Egitto, non ebbero il tempo di far lievitare ilpane; SHAVUOT: cade sette settimane dopo la festa di Pesach e ricorda la donazionedel Decalogo, elemento fondamentale per la costruzione di un popolo; SUCCOTH:verso ottobre c’è la festa delle “capanne”, durante la quale, attraverso l’abitazionedentro capanne di frasche, si ricorda il periodo di quarant’ anni di permanenza delpopolo nel deserto, prima dell’ingresso nella terra di Israele; ROSH HA SHANA’: ilcapodanno in cui si commemora la creazione del mondo e la comparsa dell’uomosulla terra. In questo giorno inizia un periodo penitenziale, in cui si fa un esame delleazioni buone e non buone commesse nell’anno appena trascorso per promettersi inseguito un miglioramento di vita nell’anno che è appena entrato; KIPPUR è il giornodell’espiazione delle colpe commesse nell’anno trascorso.

Il riposo settimanale per gli ebrei è lo SHABBATH che dura dal venerdì all’imbrunirefino al tramonto del sabato. Durante questo lasso di tempo un ebreo praticante nonpuò svolgere nessuna attività che rientri nella categoria ”lavoro”. Sarebbe auspica-bile quindi rispettare la sua posizione qualora si rifiutasse di guidare, di scrivere oanche solo firmare un documento; di usufruire di mezzi pubblici o privati (quindi, peresempio, anche salire su una “volante”).

Norme alimentari

Le regole inerenti l’alimentazione ebraica vengono chiamate dalla tradizioneKASHERUT, termine che deriva da KASHER che significa adatto; nel caso specificoadatto ad essere mangiato dagli ebrei. Le regole della kasherut sono estremamentecomplesse e minuziose e si basano prettamente su una forma di rispetto per la vitadi esseri viventi e la non mescolanza di forme diverse di generi alimentari. La regolafondamentale da seguire in questo caso è la divisione tra carne e latticini. Sono inol-tre proibiti alcuni tipi di carne come quella di cavallo. Questi punti possono esseretenuti in conto ad esempio nel caso dei pasti in carcere per un detenuto ebreo.

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Lingua

L’ebraico è la lingua ufficiale dello stato d’Israele. Esso è una rielaborazione dell’e-braico biblico, che è la lingua dei testi sacri e della liturgia sinagogale, per la letturae lo studio della Torà per tutti gli ebrei. La sua utilizzazione ha la finalità di tenere ilpopolo unito spiritualmente, anche se fisicamente abita in ogni parte del globo ter-restre. È una forma e un mezzo di unità.

Leggi

È importante sapere che esiste una legge dello Stato chiamata INTESA (vi è un’inte-sa per molte religioni) che tutela gli ebrei che vogliono rispettare le loro festività coldiritto all’astensione dal lavoro su richiesta del singolo. Anche nell’esercito può esse-re concessa questa facoltà. Ovviamente, nel rispetto di questo accordo, il sabato e lealtre festività ebraiche non si possono tenere concorsi o esami pubblici.

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scheda su CRISTIANESIMO

Il Cristianesimo si rifà all’insegnamento e alla testimonianza di Gesù Cristo, ricono-sciuto come Figlio e Rivelatore di Dio, come sua Parola venuta nel mondo a rivelarneil “mistero”. In quanto religione, il Cristianesimo propone una serie di riti, gesti eparole attraverso i quali ci si mette in contatto con Dio. In quanto a religione che,però, si rifà alla testimonianza di Gesù Cristo, esso suppone una decisiva adesione difede. Senza fede in Cristo, Signore e Rivelatore del Padre, oltre che Maestro di vita edi sapienza, i riti resterebbero un fatto meramente oggettivo, senza nessuna valen-za soggettiva e, dunque, una realtà incapace di coinvolgere la vita e i sentimentidelle persone.

Divisioni

Il Cristianesimo, a causa di contingenze storiche drammatiche e nelle loro conse-guenze, purtroppo, non ancora superate, appare oggi diviso in diversi tronconi cheseguitano ad essere tali nonostante un lodevole e sempre più significativo impegnonella ricerca dell’unità. Le confessioni cristiane, che pure riconoscono l’unico Cristo eritengono il suo Vangelo come fondamento e ragione di vita, si separano inCattolicesimo, Ortodossia, Luteranesimo, Anglicanesimo e altre confessioni minori.

Il Cattolicesimo, che si riconosce sotto la guida del Romano Pontefice, abbraccia ilmondo occidentale, il Centro e Sud America, parte del Nord America, alcuni stati bal-cani, Nazioni Africane cresciute all’ombra di Stati Europei e cristianizzate dai missio-nari, giovani nazioni dell’Estremo Oriente.

L’Ortodossia raccoglie i popoli e le nazioni dell’antico Oriente greco-romano e laRussia, guidata dal Patriarcato di Mosca.

Il Luteranesimo è presente in modo particolare nella Germania, nell’Olanda e neiPaesi del Nord Europa.

L’Anglicanesimo riguarda l’Inghilterra e il Regno Unito. Esso mantiene ancora quelledimensioni di Chiesa nazionale che, per ragioni storiche, lo caratterizzarono fin dalleorigini.

Sarebbe difficile dare delle varie confessioni le specificità teologiche. Basti sapere chegli studiosi sono impegnati nella ricerca di quell’unità, indubbiamente difficile, mache pur tanto gioverebbe al futuro, alla crescita e alla credibilità del Cristianesimo.

Credenze

I Misteri fondamentali della fede cristiana sono tre – tre sono le cose veramentestraordinarie, è stato scritto: l’unità e la trinità di Dio, la divinità e l’umanità di GesùCristo, la verginità e la maternità di Maria Santissima. Il calendario cristiano si svilup-pa e ruota intorno a questi elementi fondamentali che sono, allo stesso tempo,oggetto di estatica contemplazione e motivo di stupita venerazione.

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Il Cristianesimo insegna a condurre la vita intorno ai Dieci Comandamenti e alle OttoBeatitudini. I Comandamenti sono gli stessi affidati da Dio a Mosè sul monte Sinai; leBeatitudini sono quelle che Gesù proclamò dal monte come da una cattedra solen-ne. Il Cristianesimo, infatti, riconosce come ispirati da Dio, e quindi come storia sacra,dunque come libro di Dio, sia i libri che raccontano le vicende e la saggezza del popo-lo d’Israele (Antico Testamento), sia i libri che raccontano la vicenda e la saggezza diGesù e della Chiesa apostolica (Nuovo Testamento). I Dieci Comandamenti sono comela grande strada su cui i singoli e i popoli sono chiamati a strutturare la loro vita indi-viduale e sociale. Le Otto Beatitudini sono invece la strada della perfezione pratica-ta ed insegnata da Gesù. Fra gli uni e le altre nessuna opposizione, ma continuità ecrescita, in coerenza con quanto affermato da Gesù stesso, il quale disse: “Non sonovenuto ad abolire, ma a perfezionare la Legge” (Mt 5,17).

L’amore di Dio e l’amore del prossimo costituiscono la quintessenza delCristianesimo. Nella visione Cristiana, “prossimo” è ogni uomo. Qui, dunque, si supe-ra il concetto di clan o nazione o di razza o di condizione e si stabilisce il criterio del-l’amore universale. L’uomo è amabile perché è figlio di Dio. Questa affermazionevale sempre e comunque, in tutte le direzioni dello spazio e della storia.

Il Cristianesimo predica un Dio attento alla storia dell’umanità. Come sua creaturaprivilegiata, l’uomo è seguito passo passo dal Signore che ne riscatta il destino, siacon la redenzione operata da Gesù con la sua morte e risurrezione, sia con la salvez-za eterna generosamente offerta a quanti, amando, praticano la giustizia e la verità.Il Dio del Cristianesimo è un Dio condiscendente, e l’espressione massima di questasua condiscendenza sono proprio le braccia di Gesù aperte sul mondo.

Nomi e Volti

Nomi importanti del cristianesimo sono: Maria, la Madre di Gesù e la Madre di Dio;Giuseppe, padre putativo di Gesù; Pietro, apostolo e primo Papa; Paolo, organizza-tore di cristianità, testimone e martire; Giovanni Evangelista, discepolo e apostolo,fondatore di una scuola di pensiero all’interno della quale furono redatti il quartovangelo e l’Apocalisse; gli apostoli.

Sacre scritture

I libri cristiani sono: i quattro vangeli (Matteo, Marco, Luca e Giovanni), gli Atti degliApostoli (Luca), le Lettere (Paolo, Pietro, Giacomo, Giovanni, Giuda), la Lettera agliEbrei (Anonimo), l’Apocalisse (Giovanni). A questi libri, che narrano direttamente ointerpretano la vicenda storica di Gesù, sono da aggiungere i libri dell’AnticoTestamento, che la figura di Cristo preparano o profetizzano: il Pentateuco, i LibriStorici, i Libri Sapienziali e Libri Profetici. Tutti questi libri sono inseriti in un’unicagrande collezione che ha come titolo la “Bibbia”. Per chi la desideri, sono varie leedizioni che aiutano a leggere e a capire la Bibbia. Fra le altre, per l’essenzialità e perla competenza scientifica, ricordiamo in questa scheda La Bibbia di Gerusalemme.

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I Luoghi del Culto

Le chiese hanno un duplice scopo: quello di consentire alla comunità in quanto taledi radunarsi e di raccogliersi, e quello di conservare le specie eucaristiche, sia per l’a-dorazione personale e comunitaria, sia per il conforto dei malati e dei moribondi.

Le feste Cristiane

Le principali feste cristiane sono: la Pasqua, che fa memoria della Risurrezione diGesù e che è preceduta da quello che appunto è chiamato il triduo pasquale: giovedìsanto (che ricorda l’ultima cena), venerdì santo (che ricorda la passione e morte delSignore), sabato santo (che nella celebrazione della veglia pasquale rivive tutte letappe della storia della salvezza); la Pentecoste, che ricorda la discesa dello SpiritoSanto; il Natale (25 dicembre), che ricorda la nascita di Gesù.

Usi

Nel giorno del Battesimo, giorno in cui il cristiano s’innesta nella Chiesa, al cristianosi impone il nome. La Cresima è il giorno della piena assunzione di responsabilitàcirca la fede e dunque impegno forte alla testimonianza. La Comunione è il giornodel primo incontro con il Signore nell’Eucaristia. Questi tre sacramenti sono detti isacramenti dell’iniziazione cristiana.

Il calendario cristiano è scandito dai nomi dei santi.

Giorni di digiuno e astinenza sono il Mercoledì delle Ceneri, con il quale comincia iltempo penitenziale della Quaresima, e il Venerdì Santo, in cui la Chiesa ricorda lamorte del Signore Gesù. Sono giorni di astinenza dalle carni, ma non di digiuno, tuttii venerdì di Quaresima.

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Scheda su BUDDHISMO

Il buddhismo rappresenta una forma di spiritualità molto diversa da quelle delle reli-gioni bibliche (ebraismo, cristianesimo, islamismo) e costituisce un insieme di tradi-zioni e di fenomeni molto complesso, con profonde differenziazioni al suo interno,che però, in genere, non sono sfociate in scontri violenti. Due sono le maggiori cor-renti del buddhismo, il Theravada (“Dottrina degli antichi”), più comunemente notocon il nome di Hinayana (“Piccolo veicolo”), che però è denominazione molto limi-tativa, e pertanto è preferibile evitarla, e il Mahayana (“Grande veicolo”): i seguacidel Theravada sono diffusi soprattutto a Sri Lanka e nell’Indocina, quelli delMahayana nell’Asia centrale e orientale. La forma di Mahayana diffusa in Tibet e trai tibetani all’estero è conosciuta come lamaismo dal nome lama (“superiore”) attri-buito ai maestri spirituali. Una denominazione complessiva del buddhismo che si fastrada anche in Occidente è buddhadharma, termine indiano che vale all’incircacome “dottrina e pratica buddhista”.

I dati statistici relativi al numero dei buddhisti nel mondo variano anche di molto:secondo alcune fonti i buddhisti sono circa 360 milioni di persone, secondo altreparecchi di più. Questa incertezza è dovuta anche al fatto che almeno in alcuni Paesiè diffusa l’usanza di aderire sia al buddhismo sia a un’altra tradizione spirituale, peresempio in Giappone spesso le stesse persone seguono sia la tradizione nazionale, loshintoismo, soprattutto per le usanze e le pratiche della famiglia e della comunità,sia il buddhismo, specialmente per le esigenze di una spiritualità più intima.

Il buddhismo non si è mai posto limiti geografici o etnici per la diffusione del suomessaggio, e almeno dalla fine del sec. XIX si sta diffondendo anche in Occidente.Oggi i buddhisti italiani sono forse 75.000 circa. Bisogna comunque tenere presenteche anche in Italia le forme di adesione possono essere molto varie e non escludononecessariamente un’adesione ad altre tradizioni.

Testi fondamentali e lingue

I testi più antichi del buddhismo sono molto probabilmente quelli in pali, un’anticalingua indiana, che costituiscono il canone, cioè la raccolta delle opere fondamenta-li, del Theravada: si tratta del cosiddetto Tipitaka (“I tre canestri”, che comprendonodiscorsi attribuiti al Buddha, insegnamenti e racconti vari); ai secoli attorno all’iniziodella nostra era risalgono i principali testi del Mahayana, che sono in sanscrito, l’an-tica lingua dei dotti dell’India. Va chiarito che solo in certi casi le opere canonicheassumono un valore analogo per esempio alle sacre scritture che il cristianesimo con-sidera rivelate da Dio: in genere si tratta comunque di testi autorevoli, che sono talisoprattutto all’interno di una certa corrente o in determinate diramazioni di essa.Nel corso del tempo sono stati spesso reinterpretati, integrati, o addirittura sostitui-ti con altri. Naturalmente con la diffusione del buddhismo al di fuori dell’India alleopere indiane se ne sono aggiunte altre, originali o tradotte, in cinese, giapponese,coreano, tibetano, ecc. Queste sono le lingue usate dai buddhisti dei vari Paesi; adesse si aggiungono oggi le lingue europee, e l’inglese come lingua internazionale.

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Origini, storia e dottrine

Il buddhismo deve le sue origini storiche a un nobile indiano d’incerta età (V sec.a.C.?) nato nella regione himalayana orientale, Siddhartha Gautama, che, rinuncian-do agli agi, avrebbe abbandonato la casa e la famiglia dandosi a vita ascetica, percercare la soluzione al problema angoscioso del dolore e dell’insoddisfazione dell’e-sistenza, un problema universale che in India assume una dimensione del tutto spe-ciale a causa della credenza che la vita sia solo un anello di una catena senza princi-pio e senza fine fatta di nascite, morti, rinascite, ecc., il samsara, regolata da unalegge di retribuzione delle opere compiute (il karman). Il futuro Buddha era uno deitanti giovani che in quel periodo cercavano la liberazione dal samsara. Dopo unaricerca di anni avrebbe trovato la verità, raggiungendo il risveglio (bodhi), e da allo-ra è stato conosciuto come il Buddha, lo “Svegliato”. Senza entrare in quei tecnicismiin cui eccelle la sottile intelligenza analitica buddhista, si può sintetizzare la verità dalui raggiunta nel riconoscimento che la dolorosità e l’insoddisfazione dell’esistenzanascono da fattori come il desiderio e l’ignoranza: annullandoli con una rigida disci-plina di autocontrollo si può giungere a una condizione non dipendente da alcun-ché, cioè il nirvana (“estinzione”), che è molto difficile da definire, perché non è unaspecie di paradiso per anime perfette, tanto più che il buddhismo antico nega l’esi-stenza di un’anima permanente (è molto probabile che i buddhisti nel corso deltempo e a seconda della corrente del buddhismo di appartenenza abbiano inteso, eintendano, il nirvana in modi diversi). Dopo una vita tutta dedicata alla predicazionee all’insegnamento, il Buddha sugli ottant’anni sarebbe entrato nel parinirvana(“estinzione completa”). Ai suoi discepoli, soprattutto monaci e monache, ma anchelaici, questi ultimi ovviamente tenuti a una disciplina meno rigida, il Buddha lasciò,oltre al modello della sua vita, una dottrina e un’embrionale organizzazione mona-stica che, con vari mutamenti, continua ancora oggi.

Il Buddha in origine non era un dio, il buddhismo era una dottrina di perfeziona-mento spirituale e di distacco dal mondo, più che una religione come la si intende inOccidente; ma poi la venerazione per questa grande figura spirituale, le esigenze deidevoti, le tradizioni dei vari Paesi in cui il buddhismo si è diffuso, aprirono ampi spazia bisogni che possiamo chiamare religiosi. Il Buddha storico fu visto come uno deitanti Buddha che nei vari cieli e sulla terra incarnano la perfezione e la verità. Questeesigenze trovarono un pieno sviluppo nel Mahayana, nel quale i Buddha, i loro col-laboratori Bodhisattva, che potremmo chiamare dei quasi-Buddha, e le loro partnerfemminili costituiscono un pantheon ricchissimo. Molti sono stati e sono gli sviluppidel Mahayana che in parte lo avvicinano all’induismo: tra questi, oltre all’intensadevozione religiosa e alla fioritura di grandi scuole filosofiche, la diffusione di prati-che di tipo yogico, in particolare di uno yoga che si usa denominare, dai testi (tantra)in cui è insegnato, tantrico e che punta soprattutto alla ricerca di una condizione dilibertà e di potenza che possiamo chiamare magica: lo yoga tantrico ha avuto unagrande diffusione in Tibet e in altri Paesi.

Nelle diversissime forme del buddhismo un elemento centrale comune è dato dal-l’attenzione per l’interiorità, per la ricerca meditativa.

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Luoghi di culto

Il grandissimo rispetto per il Buddha mentre era in vita non si traduceva ancora in attidi culto. Alla sua morte, dopo la cremazione, cominciò ben presto una forma di vene-razione per le sue reliquie. A poco a poco, a partire da sacrari e tumuli, si è svilup-pata una ricchissima tradizione figurativa: templi, pagode, statue, pitture, con alcu-ni capolavori di valore mondiale. A tutti i luoghi legati agli avvenimenti principalidella vita del Buddha e delle figure principali del buddhismo vanno in pellegrinag-gio, per portare offerte, purificarsi, ecc., numeri consistenti di devoti. Comunque ibuddhisti, pur non disdegnando, certo, i luoghi e le immagini direttamente destina-ti a finalità di culto, come anche musiche, canti, processioni e rappresentazioni, pos-sono praticare dappertutto e anche in silenzio, dato il carattere soprattutto interio-re di questa tradizione.

All’inizio i monaci si dovevano accontentare di ripari provvisori. Poi, grazie alla gene-rosità di patroni devoti, comparvero i primi monasteri. Strutture di questo tipo sisono poi diffuse, raggiungendo talora dimensioni gigantesche, in tutte le terre nellequali è avvenuta l’espansione del buddhismo: insieme luoghi di perfezionamentospirituale, di devozione, di culto e anche di studio (sono rimaste famose le cosiddet-te antiche università buddhiste: conventi indiani dove giungevano per istruirsi neldharma, ma anche nelle varie scienze, cinesi, tibetani, coreani, ecc.).

Feste

In genere i buddhisti rispettano i calendari delle diverse tradizioni, quindi le feste sta-gionali, ecc., magari reinterpretandole. Una rilevanza ancor maggiore hanno alcunefeste tipicamente buddhiste, come quella del vesàkh che nella notte di plenilunio delmese omonimo (tra aprile e maggio) celebra i tre massimi avvenimenti della vita delBuddha: la nascita, il conseguimento del risveglio e la completa estinzione. Si festeg-giano anche le ricorrenze di altri avvenimenti, per esempio gli anniversari dei gran-di santi, nei Paesi in cui essi sono vissuti, ma anche all’estero, tra i buddhisti emigra-ti da tali Paesi.

Usanze funebri

Il buddhismo ha grandi capacità di adattamento alle usanze dei vari Paesi in cui giun-ge, ovviamente se non contrastano in misura troppo forte con il dharma. Anche leusanze e le pratiche funerarie variano da Paese a Paese, e a seconda dei defunti: èovvio che le onoranze funebri per un grande santo sono molto diverse da quelle reseai defunti comuni, perché nel primo caso si tratta, per così dire, di un patrimonio spi-rituale con cui tutta una comunità vuole mantenere un legame, non soltanto di unapersona la cui morte coinvolge presumibilmente solo un numero ristretto di familia-ri e conoscenti. I rituali sono spesso celebrati da monaci, come accade per esempio inSri Lanka, dove si pensa che cerimonie funebri caratterizzate da donazioni agli offi-cianti servano a un propizio trasferimento del merito acquisito da questi ultimi. Perpassare a un altro Paese di cultura tipicamente buddhista, ma profondamente radi-cata in tradizioni e usanze locali, come il Tibet, nel Paese delle nevi le salme ricevo-no e soprattutto ricevevano, prima dell’omologazione che gli occupanti cinesi cerca-

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no d’imporre, i trattamenti più vari: cremazione, sepoltura, abbandono dopo unosmembramento perché possano cibarsene gli animali, ecc.: è evidente che usanze diquest’ultimo tipo, praticabili in Tibet, molto vasto e con bassissima densità di popo-lazione, non possono essere mantenute dai tibetani emigrati nel nostro Occidentecosì densamente popolato.

Specialmente degna di nota è la recitazione del cosiddetto Libro tibetano dei morti,in realtà “Liberazione dallo stato intermedio (tra la morte e un’eventuale nuovanascita) mediante l’ascolto”, recitazione che si compie dopo il decesso, per liberare ildefunto dalla rinascita o almeno per indirizzarne la rinascita verso le migliori condi-zioni spirituali possibili.

Alimentazione

Il buddhismo più antico prediligeva un’alimentazione di tipo vegetariano, questosoprattutto per ragioni di carattere morale (esigenze di rispetto per la vita anche ani-male, di evitare l’accumulazione di karman negativo) ma i monaci, dovendo vivere dielemosina, sono tenuti ad accettare in dono qualunque cibo, purché non si tratti dianimali uccisi espressamente per loro. I buddhisti hanno usanze alimentari moltovarie a seconda del Paese da cui provengono, e anche a seconda della corrente o tra-dizione cui appartengono, comunque molti di loro sono vegetariani, integrali o soloparzialmente. In genere comunque si pensa che il cibo debba essere assunto conquella moderazione che il buddhismo raccomanda come via di mezzo tra gli eccessi,secondo un ideale di vita semplice che mira a non provocare né squilibri né eccessivicoinvolgimenti con le esigenze del corpo.

Nomi

Molti buddhisti, e in linea generale i monaci, hanno nomi che si richiamano alBuddha, al dharma, ecc., come Buddhadasa (“Servo del Buddha”), Buddhadatta(“Dato dal Buddha”), ecc.

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I gruppi di contattotra cittadini di origine etnica minoritaria e operatori di Polizia

Riflessioni metodologiche su di un’esperienza a Bologna, Modena e Torino

Le indicazioni che seguono sono state elaborate in seguito all’esperienza dei gruppidi contatto riunitisi a Torino, Modena e Bologna in seno ai progetti Napap ePavement7. Non rappresentano uno schema di regole assolute perché per ogni situa-zione sono necessarie modalità di organizzazione e di gestione differenti. Tuttaviapossono fornire alcuni utili suggerimenti per gestire al meglio incontri di tal genere,nel caso in cui si ripeta l’esperienza.

Partecipazione

La costanza nella partecipazione ai gruppi di contatto è lo strumentomigliore, anche se non sufficiente, per la buona riuscita del progetto, per-tanto l’organizzazione, insieme alla preoccupazione di sollecitare la massi-ma presenza degli immigrati e/o cittadini di etnie minoritarie, deve aggiun-gere la premura di assicurarsi la collaborazione dei dirigenti degli ufficidelle Forze dell’Ordine di cui è richiesta la presenza, di modo che nei perio-di programmati non siano loro assegnati altri incarichi.

Programma degli incontri

È importante stabilire fin dall’inizio il numero minimo degli incontriin base ad una griglia di argomenti da trattare, programmando un tempodeterminato per la discussione di ogni tema.

I punti focali da trattare possono ovviamente essere modificati nelcorso degli incontri: può accadere che i partecipanti propongano essi stessinuove problematiche, oppure che ritengano poco importanti alcuni puntiprestabiliti, o ancora impieghino tempi diversi da quelli previsti per la trat-tazione di un certo argomento. Parimenti, anche il numero di incontridovrebbe potere essere variabile.

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Orari e durata degli incontri

Gli orari e le giornate devono essere stabiliti assieme ai partecipantiper andare incontro alle esigenze dei più. Se infatti per le forze dell’ordi-ne queste ore rientrano nelle giornate lavorative, allo stesso tempo per glistranieri si tratta di ‘tempo libero’, per cui è necessario individuare la fasciaoraria (preferibilmente il tardo pomeriggio) che non coincida con le ore dilavoro. Inoltre è possibile scegliere giornate non lavorative - per es. il saba-to - solo su esplicita richiesta del gruppo, perché è impensabile pretenderedisponibilità nelle uniche giornate di riposo della settimana. È utile stabili-re la data dell’incontro volta per volta, cercando per quanto possibile diconciliare le esigenze della maggioranza.

La durata degli incontri non dovrebbe (se non in casi eccezionali)superare le due ore; la concentrazione diminuisce e la discussione rischia didiventare meno proficua. È inoltre consigliabile non accumulare più di unincontro per settimana. Tuttavia, queste non dovrebbero essere regolefisse: dove un gruppo si sente di proseguire oltre le due ore o decide diincontrarsi in momenti sociali (cene, ecc.) questo dovrebbe essere incorag-giato.

Facilitatori

Deve essere chiaro ai partecipanti che il facilitatore non ha il compi-to di insegnare loro qualcosa. Il ruolo del facilitatore dovrebbe essere quel-lo di proporre gli argomenti (essendo quindi preparato sull’argomento), distimolare il dibattito, di fare in modo che la discussione non venga mono-polizzata dai più loquaci sollecitando gli interventi dei più timidi, infine dievitare che la discussione si allontani dal tema intrapreso. È ugualmenteimportante che il facilitatore non domini il gruppo. Se possibile dovrebbeportare il gruppo ad un’autonomia che renderà possibile la continuazionedel lavoro del gruppo anche senza il supporto di un facilitatore esterno.

È importante che il facilitatore arrivi per primo agli appuntamenti esia pronto ad accogliere gli altri. È il punto di riferimento del gruppo, equesto contribuisce a creare coesione fra i partecipanti, premessa indi-spensabile perché si riesca a lavorare insieme con profitto.

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Uso di strumenti

È necessario prendere nota della discussione. Anzitutto, è importan-te avere materiale scritto da rielaborare al momento della stesura delleconclusioni; in secondo luogo, è fondamentale che il gruppo non abbial’impressione che del dibattito, alla fine, non rimanga traccia.

È utile quindi l’uso della lavagna a fogli mobili su cui un facilitatoreo uno dei partecipanti scriva ed evidenzi parole e ‘concetti chiave’ duranteil corso della discussione. Appesi intorno alla sala, i cartelloni così prepara-ti possono diventare utili in qualunque momento del dibattito per ripren-dere discorsi precedenti, per evitare di ritornare su argomenti consideraticonclusi e per mettere in evidenza le contraddizioni che spesso emergono.

Altrettanto utile può essere la presenza di un osservatore non parte-cipante, esterno al gruppo, che raccolga in maniera più estesa la discussio-ne, riportando quindi anche singoli interventi che possono risultare decisi-vi nella stesura delle conclusioni. In questo caso è necessaria la totale estra-neità dell’osservatore alla discussione.

È anche possibile, per introdurre nuovi argomenti, fornire al gruppoarticoli, o altro materiale, come spunto per la discussione o per presentareaspetti particolari del problema affrontato.

Stesura delle conclusioni

Perché l’incontro conclusivo non risulti dispersivo, sarebbe utile che ilfacilitatore e l’osservatore non partecipante preparassero in anticipo unabozza di conclusioni tenendo ben presenti tutti gli appunti raccolti e facen-dola pervenire prima dell’ultimo incontro al gruppo che avrebbe così iltempo di rielaborarlo per presentare poi le proprie proposte di modifica.Nel caso non lo si faccia, potrebbero riaccendersi dibattiti considerati ormaiesauriti e ciò impedirebbe la necessaria concentrazione per la stesura deldocumento finale. Inoltre una bozza di conclusioni faciliterebbe i parteci-panti nel ripercorrere le varie tappe della discussione.

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Compenso per i cittadini di etnia minoritaria

Se per le forze dell’ordine gl’incontri rientrano nelle ore di servizio, icittadini di etnia minoritaria, mettendo a disposizione il proprio tempolibero, hanno diritto ad un compenso, o quanto meno ad un rimborsospese. Questo peraltro potrebbe costituire un incentivo importante allapartecipazione.

Il luogo d’incontro

Il luogo d’incontro deve essere facilmente raggiungibile da tutti. Lascelta del luogo degli incontri deve prendere in considerazione la disparitàdi potere tra gli immigrati e/o i cittadini di etnie minoritarie e le forze del-l’ordine. Quindi potrebbe essere inopportuno tenere gli incontri presso laQuestura o il Comando di PM che potrebbero, tra l’altro, indurre un rischiodi accuse di “collaborazionismo” da parte di altri rappresentanti dellecomunità immigrate. Meglio sarebbe organizzare gli incontri presso lasede di un’organizzazione degli immigrati o dei cittadini di etnie minorita-rie o in un luogo neutro, quale una sede del Comune (o dei quartieri) diver-sa dal Comando di Polizia Municipale e normalmente frequentata da per-sone di origine etnica minoritaria e immigrati.

Alla fine degli incontri

Se gli incontri fanno parte di un progetto più ampio, è importanteche tutti i partecipanti, terminati gli incontri, siano tenuti al corrente deglisviluppi del progetto e di eventuali aggiornamenti per mantenere costan-te l’interesse e il loro coinvolgimento, e quindi motivarli nel caso in cui sirichieda loro un ulteriore contributo anche in momenti successivi del pro-getto.

Il gruppo di contatto può costituire la premessa per la creazione di undialogo costante tra immigrati e/o cittadini di etnie minoritarie e forze del-l’ordine che continui anche al di là del progetto.

Bologna, gennaio 2001

Il gruppo di lavoro dei Gruppi di contatto tra cittadini di origine etnica minoritariae operatori di Polizia nei progetti NAPAP e PAVEMENT

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D - Lista delle organizzazioni italianeimpegnate nella lotta alla discriminazionerazziale, etnica e religiosa

Nota: la lista non è certamente esaustiva e nemmeno aggiornata all’ultima ora mapuò costituire una traccia per i nostri lettori che si trovano ad operare in tutta Italia.A loro spetta comunque il compito di verificarne l’attualità ed eventualmente com-pletarla.

COSPE - Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi EmergentiVia Slataper 10 - 50134 FirenzeVia Lombardia 36 - 40139 Bolognac/o ITIC G. Galilei P.zza Sopranis 5 - 16126 Genovawww.cospe.it

CICL - Centro Islamico Culturale della LiguriaVia Coronata 2/r - IT16152 [email protected]

ANOLF - Associazione Nazionale Oltre Le FrontiereP.zza Campetto1/7 - Genova IT

ANOLF - Associazione Nazionale Oltre Le frontiereVia Rainusso 56/58 IT 41100 [email protected]/anolf/index

Anolf Lombardia - Associazione Nazionale Oltre le Frontiere-LombardiaViale F. Testi, 42 - IT 20099 Sesto San [email protected]

Anolf - Matera - Associazione Nazionale Oltre Le FrontierePiazza Matteotti, 11, c/o Cisl - IT 75100 Matera

Laboratorio migrazioniSalita della Fava Greca 8 - IT 16128 [email protected]

CSTM - Centro Studi Terzo Mondovia G. B. Morgagni, 39 - IT 20129 [email protected]

LIDLIP - Lega Internazionele per i Diritti e la Liberazione dei Popoli - sezione di Milanovia Bagutta, 12 - IT 20121 [email protected]

Microcosmo OnlusVia Sport 9/D - IT 20020 Arese (MI)[email protected]

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appendici -– 199

CGIL Milano - Centro Immigrati - Confederazione Generale Italiana del Lavoro MilanoC.so di Porta Vittoria, 43 - IT 20122 [email protected]://www.cgil.milano.it/CDLM/CentroImmigrati/Index.htm

ASPP - Associazione Proiezione PetersC.P.169- Udine [email protected]/sogno/index.html

CeSI - Centro Solidarietà ImmigratiP.zza della Chiesa, 1 - IT 33050 Zugliano, Pozzuolo del Friuli (Ud)

CdC - Centro delle CultureVia dell’Industria, 20/a - IT 34144 [email protected]

Associazione Il Ponte Via Marconi, 36/b - IT 34133 [email protected]

CIR - Consiglio Italiano per i RifugiatiCorso Umberto I, 2 - IT 88061 Badolato, [email protected]

Associazione Ricreativa Culturale Italiana Arci “Centro Servizi”Via P. Battaglia, 15 -IT91028 Partanna [email protected]@tiscalinet.itwww.arci.it/sicilia.territoriali/singoli/trapani.htmlwww.comune.partanna.tp.it/rete_civica/uffici/sportello/arci.asp

Arci Circolo Samarcandavia Barone Lombardo, 38 - IT 92024 Canicattì (Ag)[email protected]

Arci Nuova Associazione -Comitato di zona Jesi-Fabriano Via Posterma, 2 - IT 60035 Jesi (AN)[email protected]/arci/

Associazione Senza ConfiniCorso Mazzini, 64 - IT 60121 [email protected]://space.tin.it/associazioni/tbugari/main.html

E.T.N.I.C.A project - Provincia di Ancona - VIII Settore, Ufficio Progetti ComunitariCorso Stamira, 60 - IT 60100 [email protected]://etnica.provincia.ancona.it

Centro Lavoratori Stranieri della CGILPiazza Cittadella, 36 - IT41100 [email protected]

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Unione Italiana Sport Per tutti Comitato Regionale Emilia-Romagna, UISP Emilia-RomagnaVia Riva Reno, 75/III – IT 40121 [email protected]

CESTAS - Centro Educazione Sanitaria Tecnologie Appropriate SanitarieVia C. Ranzani, 13/5/F - IT 40127 [email protected]

Associazione Trama di TerreVia Aldovrandi, 31 - IT 40026 Imola (BO)[email protected]

Centro di accoglienza per stranieriVia Marconi,11 - IT41015 Nonantola (MO)[email protected]://www. comune.nonantola.mo.it

Centro Stranieri del Comune di ModenaViale Montekosica, 6 - IT 4110 Modenaprogetti.centro.stranieri@comune.modena.itwww.comune.modena.it/antenne

Apm - Associazione per i Popoli Minacciati Portici/Lauben, 49 - IT 39100 Bolzano / [email protected]

Ufficio Informa Immigrati del Comune di Belluno Via Gabelli, 11 - IT 32100 [email protected]/sportelli/informaimmigrati

Gruppo Martin Buber - Ebrei per la PaceVia Nomentana, 55 - IT 00101 [email protected] [email protected]

Tavola della PaceVia della Viola, 1 - IT 06122 [email protected]

Coordinamento Nazionale Enti Locali per la PaceVia della Viola, 1 - IT 06122 [email protected]

Associazione Sportiva AfrogrifoVia Campo di Marte, 8/M - IT 06124 [email protected]

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Centro Baha’i - Perugiavia Caprera,1 - IT 06100 [email protected]/umbria/

Comune di Pistoia Centro InterculturaleVia Trinci, 2 - IT 51100 Pistoiacentrointerculturale@comune.pistoia.itwww.comune.pistoia.it

L’altro Diritto: Centro di Documentazione su carcere, marginalità e devianzaPiazza Indipendenza c/o Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto n.9, 50129 IT [email protected]://dex1tsd.unifi.it/altrodir/index.htm

AbusuanVia Strada Vallisa, 67/68 - IT 70122, [email protected]://www.abusuan.com/it/navigation.htm#

Il mondo nell’isolavia Trento e Trieste, 10 - IT 24036 Ponte S. Pietro (BG)

Asce - Associazione Sarda Contro l’Emarginazione - OnlusVico San Nicolò, 3 - IT 09047 [email protected]://web.tiscali.it/a_s_c_e/

Ideadonna - Insieme per i diritti all’eguaglianza e all’autodeterminazione della donnavia San Anselmo, 27 - IT 10125 [email protected]@arpnet.itwww.arpnet.it/idead

Associazione Oasi Via Rocco Cocchia, 16 - IT 84129 [email protected]://www.voloasi.freeweb.supereva.it

Associazione islamica Zayd ibn Thabitvia Piazza larga al Mercato, 35 - IT 80142 [email protected]://www.rcm.napoli.it/zayd/

Associazione ricreativa e culturale italiana - Napoli - Arci Nuova Asociazione- NapoliPiazza Dante, 89 - IT 80135 [email protected]://www.arcinapoli.it

ICS - Consorzio italiano di solidarietàvia Roma 28 - IT 34100 [email protected]://ip21.mir.it/ics/

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E - Bibliografia consigliata per l’approfondimento

Criminalità e sicurezza

Bandini T., Gatti U., Marugo M.I., Verde A., Criminologia. Giuffrè, Milano, 1991.

Barbagli M., Immigrazione e reati in Italia. Il Mulino, Bologna, 2002.

Melossi D., Stato, controllo sociale, devianza. Bruno Mondatori, Milano, 2002.

Palidda S., Polizia post-moderna: etnografia del nuovo controllo sociale. Feltrinelli,Milano, 2000.

Pastore M., Produzione normativa e costruzione sociale della devianza e crimina-lità tra gli immigrati. Quaderni ISMU 9/95.

Ruggiero V., Economie sporche: l’impresa criminale in Europa. Bollati Boringhieri,Torino, 1996.

L’ immigrazione in Italia

Colombo A., Etnografia di un’economia clandestina – Immigrati algerini a Milano.Il Mulino, Bologna, 1998.

Dal Lago A., Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale.Feltrinelli, Milano, 1999.

Osella C., Il popolo invisibile. Edizione Gruppo Abele, Torino, 1997.

Stella G.A., L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi. Rizzoli, Milano, 2002.

Minoranze etniche e religiose

Cacini S., La lingua degli shinte rosengre e altri scritti. Centro d’Informazione eStampa Universitaria, Roma, 2001.

Carpati M., Zingari ieri e oggi. Edizioni Lacio Drom, Roma, 1993.

Donini P.G. (a cura di), Il vicino e l’altrove. Islam e Occidente: due culture a con-fronto. Marsilio, Venezia, 2003.

Gomes A.M., “Vegna che ta fago scriver”. Etnografia della scolarizzazione in unacomunità di sinti. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria, Roma,1996.

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Gritti R., Allam M., Islam, Italia. Chi sono e cosa pensano i musulmani che vivonotra noi. Guerini e Associati, Roma, 1998.

Kenrick D., Zingari dall’India al Mediterraneo. ANICIA, Roma, 1998.

Kopciowski E., I libri dei profeti e la Torà oggi. Marietti, Genova, 1994.

Marcetti C., Mori T., Solimano N., Pontecorboli A., Zingari in Toscana. FondazioneGiovanni Michelucci, Firenze, 1992/1993.

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Piasere L., Italia Romanì vol. I. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria,Roma, 1996.

Piasere L., Italia Romanì vol. II. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria,Roma, 1999.

Piasere L., Pontrandolfo S., Italia Romanì vol. III. Centro d’Informazione e StampaUniversitaria, Roma, 1999.

Rivera A., L’inquietudine dell’islam. Edizioni Dedalo, Bari, 2002.

Toaff E., Elkann A., Essere ebreo. Bompiani, Milano, 1994.

Williams P., Noi non ne parliamo. I vivi e i morti tra i Manus. Centro d’Informazionee Stampa Universitaria, Roma, 1996.

Franci G.R., Il buddhismo (collana “Farsi un’idea”), Il Mulino, Bologna, 2004.

Pasqualotto G., Il buddhismo. Bruno Mondatori, Milano, 2003.

Gnoli R. (a c. di), La rivelazione del Buddha. Mondadori, Milano, 2001.

Diversità e culture

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Balboni P., Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione intercultura-le. Marsilio, Venezia, 1998.

Bernardi U., La Babele possibile. Per costruire insieme una società multietnica.Franco Angeli, Milano, 1994.

Bolaffi G., Gindro S., Tentori T., Dizionario della diversità. Le parole dell’immigra-zione, del razzismo e della xenofobia. Liberal Libri, Firenze, 1996.

Calafato M., Emozioni e confini. Per una sociologia delle relazioni etniche.Meltemi, Roma, 1996.

Mantovani G., L’elefante invisibile. Tra negazione e affermazione delle diversità:scontri e incontri multiculturali. Giunti, Firenze, 1998.

Melotti U., L’abbaglio multiculturale. Seam, Roma, 1996.

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Wieviorka M., La differenza culturale. Laterza, Bari, 1999.

Remotti F., Contro l’identità. Laterza Bari, 1996.

Semproni A., Multiculturalismo. La sfida della diversità nelle società contempora-nee. Franco Angeli, Milano, 1996,

Zani B., Selleri P., David D., La comunicazione. Carocci, Roma, 1998.

Razzismo, xenofobia, discriminazione

Basso P., Razze schiave e razze signore. I Vecchi e nuovi razzismi. Franco Angeli,Milano, 1998.

Bernadac C., Sterminateli. Fratelli Melita Editori, Roma, 1991.

Bravi L., Altre tracce sul sentiero per Auschwitz. Il genocidio dei Rom sotto il TerzoReich. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria, Roma, 1999.

Burgio A., L’invenzione delle razze. Studi sul razzismo e il revisionismo storico.Manifestolibri, Roma, 1998.

Colasanti G., Il pregiudizio. Franco Angeli, Milano, 1994.

Cotesta V., Sociologia dei conflitti etnici. Razzismo, immigrazione e società multi-culturale. Laterza, Bari, 1999

Delle Donne M., Convivenza civile e xenofobia. Feltrinelli, Milano, 2000.

Garonzi L., Art. 13. L’Unione Europea contro le discriminazioni. Istituto Provolo,Verona, 2000.

Mazzara B.M., Appartenenza e pregiudizio. Psicologia sociale delle relazioni inte-retniche. Carocci, Roma, 1996.

Wieviorka M., Il razzismo. Laterza, Bari, 1996.

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appendici -– 205

Internet

http://www.stranieriinitalia.it

http://www.stranieri.it/home.htm

http://www.immigra.org

http://www.ires.it/osservatori.htm

http://www.interno.it/sezioni/attivita/stranieri/s_000000073.htm

http://www.redattoresociale.it/SitoMirror/vis/index.htm

http://www.nigrizia.it

http://www.cospe.it

http://www.migranews.net

http://www.anolf.it/

http://www.puntodipartenza.org/

http://www.uni.net/sos.razzismo

http://www.enar-eu.org/it/

http://digilander.libero.it/asgi.italia/

http://www.dialogo.org/nondiscr/default.htm

http://www.tarolavoro.com/info.html

http://www.agenziaitalia.it/news.pl?id=agionline.immigrazione

http://www.forumimmigrati.org/call2.htm

http://www.cna.it/progetti/rifugiati&impresa/

http://www.uil.it/immigrazione/default.htm

http://www.amistad.it/

http://www.acli.it/aclicolf.htm

http://www.gruppocerfe.org

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http://www.lazio.cgil.it/romacentro/celsi.htm

http://www.cisl.it/pol.migratorie/

http://www.cnel.it/immigrazione/index.asp

http://www.cestim.it/

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Definizioni

antisemitismo

Ostilità verso un gruppo particolare di persone che si considerano o vengono consi-derate ebree.

In quanto rappresentazione psicologica, l’antisemitismo contiene elementi di irra-zionalità, fanatismo e ossessione; si nutre di pregiudizi e stereotipi. Dal punto di vistasociale, come il razzismo, appare il prodotto degli antagonismi sociali esistenti, fun-zionale alla razionalizzazione delle crisi e dei conflitti socio-economici (ebreo come“capro espiatorio”).

assimilazione

Definisce un processo unidirezionale di adattamento dello straniero al nuovoambiente sociale. Ci si aspetta che l’individuo rinunci alle proprie caratteristiche lin-guistiche, sociali e culturali a favore di un suo completo assorbimento nella societàospitante.

criminalizzare

Dal dizionario Zingarelli:

• considerare criminale, trattare alla stregua di criminale, riferito specificamente aproblemi o comportamenti politicamente o socialmente rilavanti: p.e., criminaliz-zare i drogati.

Dal dizionario Garzanti:

• considerare criminale ciò che giuridicamente non lo è: criminalizzare il dissenso ètipico dei regimi dittatoriali.

discriminazione

Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio dellaparità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origineetnica

Gazzetta ufficiale n. L 180 del 19/07/2000 PAG. 0022 - 0026

”Articolo 2

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Nozione di discriminazione

1. Ai fini della presente direttiva, il principio della parità di trattamento comportache non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta a causa della razzao dell’origine etnica.

2. Ai fini del paragrafo 1:

a) sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etni-ca, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sareb-be trattata un’altra in una situazione analoga;

b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o unaprassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinatarazza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto adaltre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettiva-mente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conse-guimento siano appropriati e necessari.

3. Le molestie sono da considerarsi, ai sensi del paragrafo 1, una discriminazione incaso di comportamento indesiderato adottato per motivi di razza o di origine etni-ca e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare unclima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. In questo contesto,il concetto di molestia può essere definito conformemente alle leggi e prassi nazio-nali degli Stati membri.

4. L’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica è da con-siderarsi una discriminazione ai sensi del paragrafo 1.”

discriminazione nelle organizzazioni (o istituzionale)

Il fallimento collettivo di un’organizzazione nel rappresentare pienamente ed inogni aspetto la comunità che serve, a causa delle origini ”razziali” o etniche, dellareligione o credo, orientamento sessuale, età, disabilità o genre di alcuni membri diquella comunità. Può essere rilevata nelle procedure, negli atteggiamenti e nei com-portamenti che portano alla discriminazione attraverso un pregiudizio involontario,ignoranza, incuranza e stereotipo che si traducono in svantaggi per i membri di unacomunità. Può verificarsi nel fallimento a fornire un servizio appropriato e profes-sionale a tutti i membri del pubblico e in un fallimento nell’assicurare l’uguaglianzadi opportunità ai dipendenti di un’organizzazione o di un’organizzazione dipen-dente.

Il fallimento delle procedure dell’organizzazione stessa nel rilevare la discriminazio-ne, o nell’intraprendere azioni contro di essa, può essere visto come un indicatore didiscriminazione nell’organizzazione (o “istituzionale”).

Da “Promuovere il mainstreaming: linee guida per l’erogazione e l’uso di servizi diconsulenza sulla discriminazione istituzionale”, prodotto nell’ambito del progettoeuropeo “Consultancy on institutional discrimination” promosso da COSPE, RADAR,Reading CRE, DIMITRA con il sostegno della CE.

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diversity management

La “gestione della diversità” è nata come metodo per migliorare la produttività, lacreatività e l’efficienza di un’organizzazione, sia questa un’impresa privata, un’isti-tuzione pubblica o un’associazione di volontariato. Tuttavia essa ha anche un effet-to di contrasto alla discriminazione perché valorizza le diversità e le considera unaricchezza. Valorizzare la differenza deve avvenire a livello personale, interpersonalee nelle organizzazioni e ad ogni livello devono essere evidenti le ragioni e i vantag-gi di valorizzare le diversità. Bisogna dunque cominciare dal livello personale e valu-tare che la prima differenza da essere valorizzata è la nostra personale. Ogni lavoroche valorizzi la diversità dovrebbe cominciare con una comprensione di chi siamo noiesattamente – culturalmente, demograficamente ed antropologicamente e cioè inrelazione all’età, all’appartenenza etnica o cosiddetta “razziale”, alla religione, algenere, al Paese, alla comunità di origine, alla lingua, alle inclinazioni sessuali, all’e-ducazione, alla classe sociale, e ai tanti altri aspetti che voi stessi potete elencare pen-sando ad una lista di elementi che vi descriva.

Molti concordano sul fatto che uno degli scopi più importanti nella vita è di svilup-pare al massimo la propria individualità e le proprie potenzialià che, in fondo, è unmodo per dire essere i più diversi che possiamo essere, anzi unici, perché il massimoche io posso essere è molto diverso dal massimo di qualcun altro, date le differenzenelle esperienze di vita, nelle prospettive, nei talenti e nelle personalità.

immigrato

La nozione di immigrato indica la persona nata all’estero, che si è installata nel Paesedella sua attuale residenza, che abbia o no acquistato la nazionalità del Paese di resi-denza. Nel linguaggio comune, come in quello istituzionale e mediatico, con questotermine ci si riferisce indifferentemente a migranti, profughi, rifugiati: la categoriadi immigrato consente di operare una gerarchizzazione all’interno della totalitàapparentemente neutra degli stranieri, ed è spesso usata in modo stigmatizzante.Sono la storia, l’ideologia, la collocazione di classe a decidere la differenza tra stra-niero e immigrato. Alcuni stranieri non saranno mai immigrati (come ad esempio inordamericani, i cittadini UE, ecc.); altri lo sono per definizione (come quelli prove-nienti dal sud del mondo). Se il termine straniero può essere usato semplicementeper designare uno status giuridico, quello di immigrato, in un certo uso che ne vienefatto, può rinviare ad una condizione sociale.

interculturalità

Mira a preservare l’integrità della persona e delle collettività attraverso l’interazionepositiva e la pacifica convivenza tra tutte le collettività, compresa quella autoctona.Per questo modello è necessario tenere conto delle esigenze dei nazionali e delle

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loro insicurezze di fronte al complesso fenomeno dell’immigrazione. È altrettantonecessario tenere presente le esigenze delle comunità immigrate e quindi l’accogli-mento delle istanze dei nazionali va contemperato al riconoscimento delle diversitàdi tali collettività. Riconoscere e rispettare le differenze non deve però portare allacreazione di cellule isolate: l’obiettivo di fondo dell’integrazione è, al contrario,quello di realizzare interazioni positive tra nazionali e immigrati nel quadro di undialogo che si articoli in più dimensioni, estendendosi così a tutte le sfere del convi-vere, e che sia in grado di arricchire entrambe le parti in causa. Una distinzione cosìnetta tra multiculturalità e interculturalità sembra essere soprattutto italiana, men-tre nel mondo anglosassone, e anche nell’Unione Europea, si parla più spesso di mul-ticulturalismo, per quanto il termine sia inteso quasi sempre nell’accezione che si dàoggi in Italia alla parola interculturalità.

Le società interculturali sono dunque società dove le diverse culture, i diversi gruppinazionali, etnici e religiosi che vivono in uno stesso territorio mantengono relazioniaperte di interazione, scambio e mutuo riconoscimento dei propri valori e stili di vitae di quelli degli altri. È un processo, non una meta, dove si intrattengono relazionieque nelle quali è riconosciuta ad ognuno la stessa importanza, dove non ci sonosuperiori ed inferiori.

Molti autori vedono quindi come fondamentale nel termine interculturalità la capa-cità di lasciarsi “contaminare” e la capacità di decentrare i propri punti di vista. Nelmulticulturalismo invece é evidente la separazione tra le culture che si palesa, peresempio, anche nelle separazioni spaziali tra i vari gruppi che vivono nelle grandicittà inglesi, americane, canadesi. Dobbiamo a Umberto Eco l’introduzione del ter-mine “transcultura”, che fa riferimento al termine anglosassone “cross-cultural”, peraccentuare ulteriormente l’idea di dinamicità delle culture che nell’incontro siinfluenzano e si modificano reciprocamente. Balboni8 distingue la logica intercultu-rale dalla logica multiculturale intesa, quest’ultima, come fase transitoria verso un’o-mogeneizzazione che negli Stati Uniti è definita come “melting pot”, dove ogni dif-ferenza culturale si deve fondere in una nuova realtà. L’interculturalità sarebbe inve-ce

“un atteggiamento costante, che prende atto della ricchezza insita nella varietà, chenon si propone l’omogeneizzazione e mira solo a permettere l’interazione più pienae fluida possibile tra le diverse culture”. (…) Entrare in una prospettiva intercultura-le non significa abbandonare i propri valori e far propri quelli del luogo in cui si espa-tria, significa:

conoscere gli altri;

tollerare le differenze almeno fino a quando non entrano nella sfera dell’immoralitàche, secondo i nostri standard non intendiamo accettare;

rispettare le differenze che non ci pongono problemi morali ma che rimandano soloalle diverse storie delle varie culture;

accettare il fatto che alcuni modelli culturali degli altri possono essere migliori deinostri e, in questo caso,

mettere in discussione i modelli culturali con cui siamo cresciuti”.

(Balboni, op. cit. pag.17)

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La caratterizzazione di Balboni ha il merito di mettere in evidenza ciò che comportaper il gruppo maggioritario la scelta dell’interculturalità. Essa presenta tuttavia, anostro avviso, due limiti: il primo, di non esplicitare come questa prospettiva, quan-do riferita allo spazio pubblico e non a quella del privato cittadino, arrivi necessaria-mente a mettere in discussione l’asimmetria di potere tra il gruppo maggioritario e igruppi minoritari; il secondo è il richiamo a elementi di moralità/immoralità cheattengono unicamente alla sfera etica mentre meglio sarebbe parlare di dirittiumani, nozione che chiama in causa l’agire politico e giudiziario. Sappiamo d’altraparte, che il carattere universale dei “diritti umani”, così come espressi dallaDichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, è messo in discussione da alcunianalisti e da alcuni governi in quanto frutto di un’elaborazione che riflette la cultu-ra occidentale e il volere dei Paesi occidentali che, in quegli anni, dominavano l’as-semblea delle Nazioni Unite, al punto che sono state prodotte altre dichiarazioni(Carta africana dei diritti dell’uomo e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uo-mo del Consiglio Islamico d’Europa). Tuttavia, in considerazione delle ampie aree disovrapposizione tra le varie carte dei diritti dell’uomo su questioni come il dirittoall’incolumità personale, alla libertà e ad una vita degna, e per l’ampio consenso sucui i principi enunciati sono fondati, alcuni autori (E. Berti, Il contributo della dialet-tica antica alla cultura europea, Conferenza tenuta al Senato della Repubblica il 25febbraio 2003) ritengono possibile assumere i diritti umani come premesse a partiredalle quali si può argomentare per costruire le norme fondamentali di un’etica pub-blica. COSPE da qualche anno ha adottato il termine interculturalità perché è il piùottimista, anche se si tratta più che altro di un principio che ad oggi non influenza lescelte politiche né a livello centrale né a livello locale e non sembra ancora avere rica-dute sulla vita dei cittadini e delle cittadine.

integrazione

C’è chi identifica l’integrazione con l’assimilazione etnica e, per questa via, arriva adire che

“L’integrazione degli immigrati implica la progressiva diminuzione fino all’elimina-zione totale delle differenze etnico-culturali tra i vari gruppi di società globale”9 inuna progressione che vedrebbe la prima generazione di immigrati disadattata e nonintegrata, la seconda a metà strada e la terza totalmente integrata. È evidente chequesta concezione dell’integrazione è inaccettabile per due ordini di motivi: innan-zitutto da un punto di vista etico perché l’assimilazione è generata dalla presuntasuperiorità della cultura che accoglie; in secondo luogo da un punto di vista praticoperché esso ignora che, accanto a spinte all’omogeneizzazione, esistono, e semprepiù forti, dei processi di differenziazione etnico-culturale.

Alcuni autori sono passati poi al concetto di conflitto culturale. Per questa via si èarrivati a dipingere un quadro a tinte piuttosto fosche delle migrazioni, trasforman-do l’immigrato in un individuo per lo più asociale e incapace di adattarsi alle nuovecondizioni di vita (criminalità, conflitti familiari, malattie psichiche e psicosomatiche,ghettizzazione, emarginazione) che necessita del nostro aiuto. È evidente l’aspettopaternalistico, e quindi discriminatorio di questo approccio.

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Il problema di questo approccio è che vede il conflitto culturale come negativo e dun-que da eliminare o ridurre e scarta a priori l’idea che il conflitto culturale possa inve-ce esprimere la dialettica positiva tra le culture. È questo paternalismo il responsabi-le di molte strumentalizzazioni da parte di coloro che sostengono che rimandare acasa loro gli immigrati sia cosa buona per loro stessi perché li si rimanda nel loroambiente socio-culturale dove si sentono a proprio agio.

È dunque difficile dare una definizione unica del termine “integrazione” anche per-ché esso non descrive un traguardo ma, secondo il “Secondo rapporto sull’integra-zione degli immigrati in Italia”10 della Commissione per l’integrazione del 2000, essosi situa piuttosto in un continuum che va dall’assimilazione all’interculturalità:

islamofobia

Paura, diffidenza e rifiuto verso persone di religione musulmana. Alla base di taledisposizione è il pregiudizio antimusulmano, ossia la tendenza a “razzizzare” l’ap-partenenza religiosa, e a vedere negli individui di religione musulmana i rappresen-tanti di una totalità assolutizzata, essenzializzata, immutabile, sottratta alla storia eal mutamento, contrapposta ai caratteri di modernità, dinamismo, disposizione alcontinuo cambiamento attribuiti al mondo europeo. Il musulmano diventa così figu-ra paradigmatica dell’alterità.

mainstreaming

“Il mainstreaming ha lo scopo di integrare la lotta contro il razzismo come un obiet-tivo in tutte le azioni di una comunità e nelle politiche a qualunque livello (…). Perquesto, si devono usare azioni generali e politiche per combattere il razzismo pren-dendo in considerazione attivamente, e in modo che sia visibile a tutti, l’impatto chequeste azioni e politiche avranno nella lotta contro il razzismo, sin dal momento incui esse sono pensate”. Da Realizzazione del piano d’azione contro il razzismo –mainstreaming la lotta contro il razzismo, rapporto della Commissione Europea.

marginalizzazione o esclusione

Le politiche che si ispirano a questo principio riducono la partecipazione degli indi-vidui solo ad alcune, determinate, sfere della società (in genere quelle connesse colmercato del lavoro) rifiutandogli invece l’accesso alle altre dimensioni.

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multiculturalismo

Coesistenza tra più gruppi che riescono a preservare le proprie tradizioni nei con-fronti del gruppo maggioritario. I vari gruppi rimangono distinti tra loro e dal grup-po maggioritario in ordine a lingua, cultura e tradizioni. Il rischio è la segregazione,la costituzione di comunità ripiegate su se stesse e non interagenti tra di loro.

pregiudizio

Opinione o sentimento, di solito sfavorevole, precostituito sulla base di una limitatae inadeguata informazione (o perfino senza riferimento ad alcuna informazione,conoscenza o ragione). Spesso i pregiudizi sono sostenuti perfino di fronte alla provadel contrario.

razza

Può sembrare strano che istituzioni internazionali, soprannazionali e nazionali usinola parola “razza” che, oggi sappiamo, è stata sconfessata dalla comunità scientifica,specie dai biologi che hanno riconosciuto come la divisione degli esseri umani in“razze” non abbia fondamento scientifico. Infatti, gli esseri umani possono più util-mente essere classificati, da un punto di vista biologico, secondo mille altri elementiche attraversano tutti i gruppi cosiddetti “razziali”. Molti gruppi sociali, per parteloro, rivendicano la loro differenza ( i neri, per esempio, e questo non attiene unica-mente al colore della pelle), così come le donne l’hanno rivendicata nei confrontidegli uomini. L’usare il termine razza offre la possibilità di dare un nome, e quindiriconoscere, la discriminazione che viene operata da alcuni soggetti e da organizza-zioni nei confronti di altri proprio sulla base dell’appartenenza razziale e ci permet-te quindi di identificare il razzismo.

relativismo culturale

Affermazione dell’uguale validità di tutte le culture umane e dei loro sistemi di valo-re. Proposto dalla scuola antropologica americana del novecento, postula la neces-sità di giudicare ogni valore in riferimento all’ambiente culturale in cui nasce.

In una versione radicale, il relativismo conduce alla separazione tra le culture, consi-derate ingiudicabili, determinate, chiuse nella loro autonomia e di conseguenza noncomunicanti fra loro, e rischia quindi di precludere la via al dialogo ed allo scambiointerculturale.

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stereotipo

Immagini fisse associate ad una categoria o gruppo sulla base di una limitata ed ina-deguata informazione o conoscenza. Incasellando persone in quella categoria ogruppo, si ascrivono loro individualmente le caratteristiche associate alla categoria.Spesso gli stereotipi sono sostenuti perfino di fronte alla prova del contrario.”

xenofobia

Indica la disposizione di una persona ad avere paura di altre persone o gruppi di per-sone percepiti come stranieri. La paura, la diffidenza e il rifiuto dello straniero nasco-no dall’idea che la contaminazione con l’Altro possa distruggere la propria identitàetnica o culturale.

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note

1 Adattato da N. Leotta, E. Margelli (a cura di), Immigrazione svantaggio sociale e dirittiumani, Acra (Associazione di Cooperazione Rurale in Africa e America Latina), Milano,1991, Pubblicazione fuori commercio

2 Nella sola Francia, nel decennio 1990-1999, le acquisizioni di cittadinanza sono state600.000 (dieci volte di più rispetto all’Italia) e il loro numero continua ad essere in aumen-to.

3 Per una analisi precisa della ripartizione territoriale e dei modelli d’insediamento si vedaCARITAS, Dossier statistico immigrazione 2003, Ed. Nuova Anterem, Roma, ottobre 2002.

4 Caritas, op. cit.5 Cfr. A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Sagittari Laterza, Roma-Bari

1988, pagg. 36-38.6 “dopo l’era volgare”, espressione ebraica per indicare l’era dopo Cristo.7 NAPAP (NGOs and Police Against Prejudice), progetto transnazionale europeo sulla for-

mazione della Polizia per l’agire in una società multiculturale.

PAVEMENT (Paving the way across Europe for Art.13 of the Amsterdam Treaty), progettotransnazionale europeo con l’obiettivo di produrre raccomandazioni alla CE e ai governinazionali per un’efficace implementazione dell’Art. 13 del Trattato che si esprime controle discriminazioni operate sulla base dell’appartenenza etnica e religiosa, di genere, diorientamento sessuale, età e disabilità.

8 Balboni P.E., Parole comuni culture diverse, Marsilio Editori, Venezia, 19999 C. Giordano in Demetrio, Favaro, Melotti, Ziglio (a cura di), Lonatano da dove, Franco

Angeli, Milano, 1990.10 Da Commissione per l’integrazione, Dipartimento per gli Affari Sociali - Secondo rappor-

to sull’integrazione degli immigrati in Italia - Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma,Dicembre 2000, pagg. 4 e seguenti.

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progretto grafico: Cardo Riccardo

finito di stampare nel giugno 2004

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Con il contributo del"programma di lotta contro la discriminzione"

della Comunità Europea.

Questo lavoro è stato ideato ad uso di quei funzionari, responsabili diUffici e Reparti della Polizia di Stato italiana, chiamati a formare i propri operato-ri ad agire come Servizio e non come Forza di Polizia, in un contesto sociale con-notato dalla diversità la quale impone l’acquisizione di un saper essere, primaancora che di un saper fare, improntato alla mediazione dei conflitti, alla nego-ziazione, alla capacità – come sottolinea il Codice Etico Europeo per i Servizi diPolizia - di comunicare, di comprendere le problematiche sociali, culturali e comu-nitarie, combattendo il razzismo e la xenofobia.

È il compimento di un lavoro avviato cinque anni fa, la storia di una col-laborazione tra Polizia di Stato e COSPE (Cooperazione per lo Sviluppo dei PaesiEmergenti), nata per contribuire a fare della Polizia italiana una polizia capace diadeguarsi alla società che cambia, in grado di offrire un servizio adatto ad unasocietà multietnica e multiculturale. Grazie al progetto europeo NAPAP (NGOsand the Police Against Prejudice), finanziato dalla Commissione Europea e dallePolizie di molti Paesi europei, nel 1997 (dichiarato “anno europeo contro il razzi-smo”), prese avvio la formazione a carattere sperimentale di operatori di Poliziadi Stato e di alcune Polizie Municipali. Da allora la collaborazione tra COSPE ePolizia di Stato si è consolidata dando vita, tra l’altro, alla formazione di forma-tori di polizia, alla traduzione della Carta di Rotterdam e, da ultimo, a questomanuale.

Anche questo manuale è prodotto nell’ambito di un progetto europeochiamato TRANSFER e ha perciò potuto godere del sostegno e del parere dei tantiamici e colleghi di altri Paesi dell’Unione, alcuni dei quali ormai ci accompagnanoin questo lavoro da anni - come la Scuola di Polizia di Catalogna e il Centre UNE-SCO de Catalunya; altri - come l’Accademia di Polizia di Stoccolma e MångfaldUtveckling, An Garda Siochana (Polizia d’Irlanda) e i numerosi rappresentanti diassociazioni irlandesi - conosciuti proprio grazie al progetto TRANSFER.

Il libro è il risultato degli sforzi di una squadra costituita da operatori dipolizia, persone a rischio di discriminazione per ragioni “razziali”, etniche e reli-giose e persone impegnate nella lotta alla discriminazione. E’ dunque il prodottoevidente della possibilità di dialogo e comprensione tra realtà diverse e di quellacomunicazione attraverso le diversità che è l’elemento centrale di tutto il testo.Pur nella coralità del lavoro, tutti gli esempi e le riflessioni sulla Polizia vista dallepersone di origine etnica minoritaria sono opera di Tso Chung-Kuen e DemirMustafa. I riferimenti legislativi, la terminologia specifica e la supervisione sonodel Vice Questore Aggiunto Claudia Di Persio che, assieme a Patrick Johnson, haprodotto il capitolo sulla discriminazione. Il capitolo sulla criminalizzazione deimigranti è da attribuire a Cristian Poletti. Marina Pirazzi ha scritto i capitoli 1, 3,4,i suggerimenti per la formazione e parte delle appendici. Giulio Soravia ha cura-to la scheda sull’Islam, Alberto Sermoneta, rabbino capo della comunità ebraica diBologna, la scheda sull’ebraismo, Giorgio Renato Franci la scheda sul buddhismoe padre Francesco Stano la scheda sul cristianesimo. Costantino Tessarin ha redat-to l’appendice sui diritti umani. La revisione del testo è di Marina Pirazzi. Il manua-le è stato letto dal comitato di consulenza costituito da Udo Enwereuzor, CosimoBraccesi, Rossella Selmini, Samanta Arsani, Ilaria Galletti, Benjamin Benali, GiulioSoravia, Mato Jora e da numerosi funzionari di polizia che, tutti, hanno saputooffrire spunti e suggerimenti importanti per il suo miglioramento.

Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi EmergentiONLUS

Il servizio d

i polizia p

er una società multiculturale - un m

anuale per la P

olizia di S

tato

Il servizio di poliziaper una società multiculturale

un manualeper la Poliziadi Stato

Ministero dell’InternoDipartimento della Pubblica SicurezzaDirezione Centrale per gli Istituti di Istruzione