Il saio sepolto

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Maria Rosaria Regina Angellotti, avventura medievale

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MARIA ROSARIA REGINA ANGELLOTTI

IL SAIO SEPOLTO  

 

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IL SAIO SEPOLTO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2012 M. Rosaria Regina Angellotti ISBN: 978-88-6307-415-4

In copertina: Immagine fornita dall’autore

Finito di stampare nel mese di Febbraio 2012 da Logo srl

Borgoricco - Padova  

 

 

 

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Alle mie nipoti

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Ringrazio mia sorella Patrizia per la foto in copertina

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PARTE PRIMA

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I Era l’inizio gennaio dell’anno 1157. Il sole del primo mattino riverberava sul sentiero gelato e costringeva il giovane che lo percorreva a proteggere il viso con l’ombra della mano. Più in basso, radicato alla collina perché il vento non lo strappasse via, si scorgeva il borgo. I suoi miasmi non giungevano, ma s’intuiva l’umanità inutile, senza speranza né scopo, che tuttavia questuava speranze nei simboli di pietra che la opprimevano, come mendicanti sul sagrato delle chiese. Così almeno riteneva il giovane, feroce nel dispensare giudizi, ma senza mai manifestarli. Era novizio dell’ordine benedettino e da anni aspettava la consacrazione, sebbene poi non sapesse immaginarsi frate e desiderasse invece nascondersi all’abbazia, dove Dio l’aveva intrappolato martire di un corpo che non voleva. Alto e ben fatto, aveva la gamba sinistra più corta dell’altra, mentre il viso pareva spezzarsi in due profili; l’uno con tratti regolari, armonizzati dalle sfumature dorate dei capelli e gli occhi azzurri, l’altro deturpato da una profonda cicatrice che dalla mascella giungeva alla tempia. Già, rimuginava spesso, Dio aveva creato l’uomo usando se stesso come modello, ma di lui aveva fatto l’esempio delle mortificazioni terrene, per distrazione o perché si annoiava, in ogni caso palesando peculiarità fin troppo umane. Quel mattino procedeva pensando ai casi suoi quando, superato il tratto di sentiero scoperto, nel fitto del bosco, gli parve che una voce lo chiamasse. Pochi istanti e un ragazzino del borgo corse verso di lui. «Fra Fortunio!» gridò concitato «venite, presto! C’è un uomo qui sotto, venite!» e indicò il punto in cui il ruscello che stava costeggiando s’interrava sotto una scarpata. «Hai detto un uomo?» chiese Fortunio trattenendo il ragazzino pronto a discendere la scarpata «che uomo?» «Sì, un uomo, è nudo, coperto di sangue e nudo. Venite, si lamenta!» Stavolta Fortunio non riuscì a fermare il ragazzino, che scomparve oltre la scarpata. Per quel che poté gli andò dietro, ma fatto qualche passo oltre il ciglio del costone inciampò sulla gamba corta e ruzzolò giù finendo sul

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letto del ruscello gelato; per poco non si fracassò il cranio su uno spuntone di roccia. «Vi siete fatto male?» si preoccupò il ragazzino. Fortunio fece cenno di no, ma si assicurò di non essersi ferito. «Allora forza, muovetevi!» Fortunio seguì con lo sguardo la voce del ragazzino. Accanto al piccolo che si agitava impaziente, vide un ammasso violaceo che sulle prime scambiò per la carcassa di grosso maiale; doveva essere il corpo dell’uomo, sembrava inerme, non si muoveva. Avvicinandosi si avvide che era riverso di schiena, qualche passo ancora, scorse piaghe e altri segni che indicavano torture. Ormai il corpo ai suoi piedi, sentì deboli rantoli, si chinò e lo voltò in modo da poterlo guardare in viso. Il ragazzino, fino a quel momento tra lo spaventato e il curioso, rise istericamente vedendo i genitali lacerati, Fortunio invece rabbrividì, perché riconobbe l’uomo e si accorse che aveva la lingua mozzata. «Corri all’abbazia» disse al ragazzino quando si riebbe dall’orrore «di’ che ti mando io, che portino un carro, di’ che il vescovo Guglielmo…» «Un Vescovo!» esclamò il ragazzino «un Vescovo?» «Sbrigati, fa’ presto!» lo incalzò Fortunio e il ragazzino sparì. I soccorsi giunsero un’ora dopo e il ferito fu portato su per la scarpata dai quattro frati che erano accorsi. Fortunio li seguì incredulo, incapace di riconoscere nel sofferente l’uomo cui aveva consegnato stima e speranze. Ogni volta che il vescovo si fermava all’abbazia, conversava con lui come si trovasse dinanzi a un pari e gli regalava anche preziosi volumi. Le Confessioni di Sant’Agostino era stato il dono più apprezzato, Fortunio non se ne separava mai e l’aveva anche quel giorno, nella sporta che portava a tracollo. Divenuto guida alla sua anima travagliata, vi cercava la speranza che infine anche in lui la fede esplodesse e che la vita monacale divenisse un dono, non un destino imposto. Non vedeva il vescovo dalla settimana che precedeva il Natale e in quell’occasione, seppure con disagio, si era spinto alla supplica ponderata da tempo. «Mio signore, vorrei chiedervi se poteste intercedere presso l’abate affinché mi conceda di pronunciare i voti.» Per Fortunio non fu facile sollecitare tale richiesta, non era abituato a chiedere né voleva apparire accattone di favori agli occhi dell’uomo che più ammirava e della cui considerazione era orgoglioso. Non che fosse l’unico, il vescovo s’intratteneva con tutti, aveva modi semplici e cortesi, cosa che stizziva Fortunio, poiché avrebbe desiderato quel privilegio solo per sé. Compiacere il vescovo, dimostrargli quanto fosse degno, era ciò

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che più desiderava, invece non riusciva a emergere in quel rapporto esclusivo e credeva che fosse la sua anima rozza a tradirlo, un cruccio che pesava più delle menomazioni. Gli era stato detto che era un orfano, ma degli orfani non aveva avuto l’unico privilegio; lui sapeva che i suoi genitori avevano abitato il borgo, sapeva chi era stato suo padre, e credeva che proprio quel sangue lo schiacciasse nei più bassi gradini, vituperato anche dai servi. «Servire Dio è mio desiderio e conosco un solo modo per farlo» proseguì e sapendo di mentire, abbassò lo sguardo. Era terribile ingannare il vescovo, ma il saio era l’unica via che sapeva immaginare per risalire i gradini, almeno quei pochi sufficienti a porlo sopra ai servi. «Però, se voi credete che io non ne sia degno…» aggiunse quasi a riparazione. «Ma io non lo penso, comunque ne riparleremo, te lo prometto.» Fortunio aveva atteso il suo ritorno e che compisse la promessa, e adesso incalzava il frate che portava il carro a fare presto, guardava Guglielmo e sentiva inutili le preghiere. Per la prima volta era di fronte al male, vero e inesorabile, lo vedeva su quel corpo massacrato, uno scempio operato dagli uomini, creature di Dio, e ne era sconvolto. L’abbazia infine si profilò sulla collina in cui si ergeva, massiccia e imponente ricordava piuttosto una fortezza. Era stata fondata da Federico il Sassone, l’avo più celebre di Guglielmo, poi ribattezzato il Conte Pio. Federico, due secoli anni prima, a Lechfeld, nella battaglia contro gli Ungari, aveva conquistato il diritto di aggiungere quel nome al casato e di rispondere unicamente all’imperatore come vassallo diretto. In seguito, ottenuta la marca a ovest dell’Oder, aveva richiamato monaci e supportato con la spada il loro impegno sulla sponda orientale del fiume. Quel fervore nel versare il sangue degli irriducibili gli aveva conquistato l’appellativo Pio e oscurato la memoria del tempo in cui i suoi stessi avi per non piegarsi al dio in croce dei Franchi, avevano ingrassato con le loro teste il bosco di Verden. Da allora l’abbazia era un bene dei Lechfeld e chi adesso la reggeva, era parente di Guglielmo. Il vescovo tuttavia vi si fermava poche volte l’anno, quando veniva in visita al fratello, il conte Ermanno, il quale invece vi aveva soggiornato spesso, ma ormai non sarebbe più tornato, era morto a Natale. Non appena il carro varcò le mura, il parlottare dei frati che aveva accompagnato l’attesa cessò. Seguito dal giovane segretario, l’abate

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Anselmo si fece avanti per vedere il ferito, poi turbato dallo strano caso fece cenno a due servitori di portarlo dentro. «Cos’è accaduto?» chiese a Fortunio, che sceso dal carro si apprestava a seguire Guglielmo «credevo che il vescovo fosse ripartito, che faceva nel ruscello? È caduto?» «Ne so quanto voi, reverendo padre, ma non penso sia caduto. Come avete visto, il mio mantello è l’unica cosa che indossa, non c’è traccia della scorta o della carrozza e le ferite sul corpo…» L’abate gli fece cenno di tacere. «Tornate alle vostre occupazioni e pregate per il vescovo» disse per disperdere i troppi testimoni «anche voi, fra Modesto, andate, se avrò bisogno vi farò chiamare.» Il giovane segretario indugiò, lanciò uno sguardo di disappunto verso Fortunio, ma obbedì. «Andiamo dentro» intimò l’abate a Fortunio. Varcata la soglia della cella in cui Guglielmo era stato sistemato, un frate si avvicinò ad Anselmo e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. L’abate sbiancò, Fortunio intuì che i bisbigli riguardassero la lingua mozzata. «Si dovrà avvertire la contessa, è necessario, ma poiché questo sappiamo, sosterremo che il vescovo sia caduto» disse l’abate «la contessa è già in lutto e non credo sia opportuno turbarla.» «E la lingua?» proferì il frate, poi guardò Fortunio con l’aria di chi si era lasciato sfuggire un segreto. «Fortunio ne è a conoscenza» fece l’abate con un moto di fastidio «chi sa ancora di questa storia?» chiese al frate. «Nessuno oltre a noi tre» rispose il frate «sono io che m’intendo di scienze curative e io…» «Bene, allora il vescovo è caduto» deliberò l’abate «nessuno deve avvicinarlo, io mando per avvertire la contessa.» «E la lingua?» ripeté il frate. «Gli fasceremo la mascella in modo da serrare la bocca» si spazientì l’abate in evidente stato di agitazione, forse di panico. Guardò Guglielmo «tanto non credo che vivrà e alla contessa non verrà certo in mente di fargli ispezionare la bocca» fece il segno della croce e si apprestò a uscire. «Andiamo, Fortunio!» Il giovane non lo udì. Con le lacrime agli occhi fissava l’uomo che gli giaceva dinanzi, i nobili tratti del viso alterati dalle piaghe. Adesso, così sofferente, sembrava più basso e come rinsecchito, ricordava l’innaturale magrezza del fratello, ma non gli somigliava. Si diceva che il conte Ermanno fosse stato molto bello prima della follia, lui sapeva soltanto che

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in Guglielmo morente non doveva cercare la bellezza, la sentiva nel cuore, nell’appoggio che vi aveva sempre trovato. «Fortunio!» ripeté l’abate. Il giovane seguì Anselmo. «Avete davvero intenzione di avvalorare questa tesi?» gli chiese. «Mi pare sia meglio che ricercare immaginari briganti.» «E lascerete che questo crimine sia impunito?» «La giustizia degli uomini non è nulla e non gioverà certo al vescovo.» «E non pensate che quei malvagi potrebbero fare ancora male? In questa zona ci sono briganti, non sono immaginari!» «Ti ordino il silenzio, obbedisci Fortunio!» «Sì, reverendo padre, ma ci sarebbe qualcosa che forse non avete considerato.» «Cosa?» chiese l’abate con voce quasi stridula. «Il ragazzino che ha trovato il vescovo, lui sicuramente…» «Me ne occupo io. Adesso vai e prega per il vescovo.» Liberatosi di Fortunio, l’abate pensò tuttavia che il moccioso del borgo potesse davvero diventare un pericolo, qualche pagnotta non ne avrebbe fermato la linguaccia; sperò che Guglielmo non si riavesse e che morisse in fretta. La sua inquietudine crebbe con il trascorrere delle ore, poiché una frase pronunciata dal conte Ermanno per la vigilia di Natale gli ronzava ossessiva. La Vigilia era l’unica occasione in cui al castello fosse concesso banchettare con opulenza, il conte pretendeva la presenza di ogni vassallo e che partecipasse alla messa solenne. La festa tuttavia, e ormai da parecchi anni, era soprattutto memoria di un dolore che il conte celebrava pregando in solitudine e flagellandosi. L’abate Anselmo era costretto ad assistere, a denudarsi la schiena e colpirsi, ma anziano com’era e allergico al dolore, s’infliggeva colpi innocui temendo ogni volta che il conte lo notasse e s’incollerisse. Solo dopo tale purificazione quell’uomo si confessava, momento che Anselmo temeva. Il conte non era mai stato facile da assecondare, ciò che andava bene un giorno, il successivo poteva inferocirlo, ma negli ultimi mesi con il suo pernicioso tarlo era divenuto una iattura. «Voi cosa mi consigliate?» martellava. Anselmo non sapeva cosa dirgli, ma poiché non voleva neanche restare depositario di un segreto gravoso, quella sera si decise a fornirgli l’unico parere possibile.

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«Se volete far qualcosa, mio signore, dovete farlo adesso» gli rispose certo che il conte, per le angherie che s’infliggeva, non sarebbe vissuto a lungo. «Sì, avete ragione, ma prima voglio parlarne a Guglielmo.» L’abate era stato felice di tale decisione, ma adesso ne era tormentato. Si chiedeva se ciò che era accaduto a Guglielmo la riguardasse, se il conte avesse fatto il suo nome. Temeva che la lingua mozzata fosse un avvertimento diretto a lui, perché certo un segreto rivelato in confessione non avrebbe fermato gli uomini che avevano massacrato Guglielmo, ma chi erano? Con chi altri il conte aveva parlato oltre al fratello?

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II La mattina di Natale il conte Ermanno fu trovato inerme sul pavimento della sua camera. Aveva compiuto cinquant’anni da pochi mesi e nessuno si sorprese per quella fine, ma fu la prima volta in cui fece ciò che tutti si aspettavano, morire, e morì come tutti prevedevano, da solo. Aveva sorpreso invece con la sua follia, e a ritroso negli anni, con un’ascesa che nessuno si sarebbe atteso, ma Ermanno, a dispetto della follia, era stato un uomo piuttosto intelligente. Il momento in cui si capì la sua tempra fu alla morte del padre, quando si pensò che il casato dei Lechfeld fosse finito. A quel tempo Ermanno si ritrovò con appena un quarto del territorio, parecchi debiti e costretto a difendere dai vassalli ciò che gli rimaneva, ma allora aveva diciassette anni, la forza di sfidare la vita e quella per non scoraggiarsi. In pochi anni fu capace di recuperare gran parte di ciò che gli era stato espropriato, riaffermare il dominio sulla marca e sorprendere tutti con i suoi successi. Intanto, insofferente alla tradizione di famiglia, aprì la corte a ogni mente illuminata, cristiana, ebrea o musulmana. Fu curioso delle arti liberali e volle lui stesso imparare a scrivere oltre che a leggere, ma senza disdegnare gli svaghi che la giovinezza esigeva. Nessuno quindi avrebbe potuto prevedere il successivo scatenarsi di persecuzioni né il fiorire di supplizi degni della più fervida, benché malata, intelligenza. Fu un’involuzione di anni che si annunciò con crisi mistiche sempre più frequenti e culminò in regole cui lui per primo, affinché fosse d’esempio, si sottopose. I digiuni divennero la norma, l’abbazia fu il suo luogo d’elezione, ma ovunque si spostasse, volle una stanza con pavimento d’ortiche, rovi e ogni sorta di oggetti acuminati, perché potesse percorrerlo a piedi nudi. D’inverno, vestito di una tunica grezza, rimaneva ore in ginocchio sulla neve, si flagellava con frustini uncinati, mentre monaci dovevano leggergli passi sui migliori nella mortificazione del corpo. Si mormorava che all’origine vi fossero due vicende che avevano attivato sospetti e fantasiose congetture. La prima risaliva al tempo in cui Ermanno, rimasto vedovo e con il figlio ancora in fasce, era riuscito a conquistare un matrimonio nel ramo cadetto

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della casa imperiale. Dall’unione si generò un altro maschio ed Ermanno ne fu tanto orgoglio da imporgli il nome del celebre avo. Nello stesso periodo il primogenito, che già si annunciava debole, perì in una dubbia sciagura. L’altra vicenda si consumò sette anni dopo con il suicidio della moglie e molti sostennero che il gesto fosse conseguente al ritrovamento in più pezzi del giovane da lei protetto. La vicenda segnò la vera svolta nella vita di Ermanno, il quale, che ne fosse responsabile o no, da allora ebbe nemico il figlio, vessillo del suo orgoglio e a parere di tutti così somigliante da sembrare lui stesso in un altro tempo. Il bambino fu trovato davanti alla finestra da cui la madre si era lanciata e rimase muto per settimane, allora Ermanno per purificarne lo sguardo dal sacrilegio cui aveva assistito, gli fece versare aceto negli occhi. In seguito lo portò all’abbazia e ve lo lasciò per mesi, sancendo la frattura che anni dopo lo avrebbe annientato. Tutto si compì il giorno in cui ospitò un monaco italico, giunto dopo la caduta di Edessa per raccogliere consensi alla nuova crociata. Ermanno a questi si rivolse per avere consiglio sulla riottosità del figlio a ogni regola. «È lodevole tale vostra angustia» gli rispose il monaco «ritengo tuttavia che se volete condurre sulla retta via la giovane anima di Federico, dovete voi per primo purificare la vostra.» Ermanno obiettò che da anni ormai ogni sua azione e pensiero erano rivolti a Dio, ne elencò le prove e offrì uomini, mezzi e se stesso per la sacra impresa. «Mio buon signore, non dubitavo di ciò, la vostra fama è giunta fino a Roma, per questo il Santo Padre mi ha inviato a voi. Riguardo al vostro cruccio tuttavia, credo che voi nutriate per vostro figlio più del legittimo affetto paterno. Dalle vostre parole stimo che per voi sia motivo d’orgoglio, sentimento che poco si addice alla fede, anche se rivolto verso i figli, perché i figli sono dono del Signore, ma il Signore ci ha insegnato con Abramo che non sono dei padri, ma di Lui che li ha dati e può disporne come la Sua Altissima Volontà ritiene giusto.» Ermanno fu molto turbato da un giudizio che indicava il figlio come peccato d’orgoglio, così, ritenendo che lui per primo dovesse fornirgli esempio con la rinuncia, risolse di offrire il suo Isacco alla volontà di Dio e inviarlo sedicenne in Terra Santa. Concedere l’unico figlio legittimo era pegno supremo, Ermanno era certo che Dio lo avrebbe premiato, ma voleva una prova tangibile e che Dio gli assicurasse con un altro maschio la prosperità della discendenza. Decise quindi per un nuovo matrimonio che tuttavia fu una provocazione, poiché

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la scelta cadde sul casato rivale. La contesa in realtà era stata risolta da suo padre, il quale, in cambio del giuramento di fedeltà, aveva concesso in castellania ciò che nel tempo gli era stato sottratto. Accordo mai riconosciuto da Ermanno che per romperlo, avanzò la pretesa su Matilde, figlia adolescente di Goffredo. Ricevutone l’auspicato rifiuto, finse di accettare lo scontro diretto, poi invece fece rapire Goffredo, lo tenne senza cibo, legato a una finestra esposta al gelo e ordinò d’incendiare due dei suoi castelli. Ottenuto ciò che chiedeva, gli rese la libertà, perché miglior rivalsa gli parve umiliarlo, e lo indebolì a tal punto da non costituire più nessun pericolo. Dal matrimonio ebbe ancora un maschio, Roberto, che fu subito allontanato dalla madre perché non ne fosse guastato. Ermanno in realtà non l’aveva con Matilde, ma con la donna che morendo gli aveva rubato l’unico degno di dirsi suo sangue e del quale soffriva la lontananza e l’ostilità dichiarata con il silenzio. Giuntagli infine notizia del fallimento sulle mura di Damasco, si piegò a scrivergli, celando nella richiesta di chiarimenti il tormento per il prolungato silenzio. La risposta fu ancora silenzio, ma stavolta così umiliante che nella collera Ermanno inviò un’altra lettera, nella quale espresse la propria vergogna nel saperlo ancora in vita e gli ordinò di cercare la morte tra le schiere degli infedeli. Solo così il mio onore potrà essere riscattato dinanzi a Dio e agli uomini, gli scrisse, ammonendolo infine che lo avrebbe riaccolto solo cadavere, e se così non sarà, io stesso, di mia mano, mi accerterò che accada. In seguito tuttavia, riconoscendo la lettera delirante, si piegò ancora e gli inviò il consenso a tornare, ma anche stavolta il messo non riportò risposta e in aggiunta riferì di aver consegnato il messaggio alla cancelleria del re Baldovino, poiché Federico non si trovava a Gerusalemme. Ermanno perseverò con altri messi finché fu raggiunto dalla più tragica delle notizie. Uno scudiero del figlio tornò con la sua veste insanguinata. «Mio signore… c’è stato un agguato, la calca era terribile» balbettò piegato a capo chino «e ho assistito a ciò che le belve più feroci mai oserebbero e… mio signore… non ho potuto riportarvi altro…» «Ma tu sei stato risparmiato, perché?» «Perché… perché riferissi cos’era accaduto… gli infedeli fanno così, mio signore, loro…» Ermanno non si rassegnò a un racconto confuso, sebbene denso di dettagli e risposte a ogni domanda. Sicuro che lo scudiero mentisse, lo volle in catene e inviò un fiduciario alla corte di Gerusalemme. L’emissario riportò a convalida una lettera con il sigillo reale, in cui si confermava che

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Federico era nel drappello assalito e che i resti di ciascuno erano stati inumati con degne esequie a Gerusalemme. Seguivano giustificazioni per le tardive informazioni cui tuttavia Ermanno non badò; ormai gli rimaneva quella veste imbrattata dal suo orgoglio, unico atto di obbedienza del figlio, ma non a lui, alla Legge del Signore: Onora il padre. Com’era nella sua natura fu abilissimo a non mostrare il dolore e dinanzi a tutti, durante le solenni esequie, riuscì a restare fermo, trovando sostegno in un saldo assertore della fede, Tertulliano, che enunciò a memoria. «In quel posto depose i suoi mantelli così gravosi, sciolse dai piedi i suoi fastidiosissimi sandali, perché cominciava a calpestare la terra santa! Oh soldato che ripone la sua gloria in Dio!» Punì tuttavia lo scudiero facendolo squartare e punì se stesso, per il dolore, per la delusione di non essere stato privilegiato come Abramo. «Perché Isacco sì e non mio figlio?» si torturò in ginocchio sulla neve «perché farlo macellare da miscredenti?» Si straziava e chiamava il figlio martire della fede, sapendo che Dio aveva voluto punire lui, il suo peccato d’orgoglio. «Perché non hai preso me? Perché non hai voluto che l’inferno divorasse le mie carni? Solo io dovevo soffrire, solo io!» E si flagellò tutta la notte, fino a perdere i sensi. Da allora non si rialzò più. Non servirono gli anni né le feroci rivalse contro chiunque non si professasse cristiano, eretico o ebreo che fosse, non servì neanche l’affetto di Roberto, cui pure dedicò se stesso. Rivoleva Federico e non gli importava che fosse peccato. I figli non erano un dono che Dio poteva offrire e togliere, i figli erano del sangue che li aveva generati e quel sangue pur sapendo di peccare o per quanto colpevole, non poteva rassegnarsi. La sera della Vigilia, dopo essersi coricato, convocò Anselmo e da lui pretese l’assoluzione di tutti i peccati, presenti e futuri, poi fece chiamare Guglielmo. «Credo di essere giunto al mio ultimo Natale» gli disse. Era una frase che Guglielmo si sentiva ripetere ogni anno. Quella sera tuttavia l’ingombro che il corpo creava sotto la coperta gli parve davvero esiguo, come si consumasse di ora in ora. Le orbite livide soprattutto, dove un tempo era stato uno sguardo blu e intenso, gli provocarono una tristezza infinita. «E io credo che dovreste riguardarvi» rispose «non potete continuare ad abusare di voi stesso.» «Siete tutti voi che abusate di me e mi date il voltastomaco! Tutti a spiarmi, a fingere, sperare nella mia morte! Sono assediato dalla malafede

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e non uno, uno solo, per cui valga la pena di darsi pensiero! Ama il prossimo tuo come te stesso, è scritto, ma io non vedo prossimo, solo ruffiani e meschini corvi, comunque rispetto le Scritture, lo amo come me stesso che odio!» Guglielmo era abituato a quelle reazioni. «Mi sembrate stanco» disse con calma «è meglio che riposiate, parleremo domani.» «No, restate, domani potrebbe essere tardi. Dannati codardi, ho il sangue in fiamme! Vogliono farmi morire nel modo più umiliante, per veleno…» Anche quella frase Guglielmo sentiva spesso. «Ermanno, abbiamo bevuto e mangiato le stesse cose, ma se state così male, chiamo il vostro medico, magari un salasso vi calmerebbe.» «No, non voglio cedere una sola goccia del mio sangue. Ho la gola arsa, versatemi acqua.» Guglielmo rinunciò a replicare e paziente riempì una coppa. «Dovete credermi Guglielmo, voi mi conoscete e non dovreste farvi imbrogliare dalle ciance sulla mia follia, sono loro che continuano a calunniarmi! Si credono furbi, dannati codardi, ma se s’illudono di poter forzare la mano a Dio, non sanno che Dio armerà la mano di Giuda per mio desiderio! Io li rivedrò tutti all’inferno e allora…» «Per amor di Dio, Ermanno! Il nemico è dentro di voi! Lo sapete che è così e se volete che cessino le calunnie, tornate voi stesso!» «Io sono me stesso e non vi ho chiamato per farmi insultare!» «E allora perché? Perché vi compatisca? Tenete, bevete.» «Non ho più sete.» Guglielmo ripose l’acqua con forza. «Il vostro nemico è l’orgoglio.» «Lo so da me.» Al tono scorato che non gli aveva mai sentito, Guglielmo tornò conciliante. «Mi dispiace, io non vorrei parlarvi così, ma…» «No, avete ragione, forse è tutto nella mia testa, forse sono solo stanco, sono anni che aspetto. Sarebbe così facile farla finita e qualche volta la tentazione è forte, ma mi ferma il desiderio di rivedere Federico, perché se muoio per grazia di Dio, forse mi sarà concesso chiedergli perdono. Questa è la mia speranza.» «Forse invece a fermarvi è Roberto, forse è lui la speranza.» «Roberto… io ho molti torti verso di lui, lo guardo e non vedo chi vorrei, mi ama e io mi chiedo perché lui e non Federico. Vi ho fatto chiamare per questo, perché non voglio più fargli torto e mi serve il vostro buonsenso.

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Avevo dubbi a coinvolgervi e ho rimandato, ma non so quanto tempo mi resta…» «Ermanno…» «No, basta con le chiacchiere. Assicuratevi invece che nessuno ci stia spiando.» Guglielmo finse di assecondare la paranoia del fratello, aprì la porta della camera, vi gettò oltre uno sguardo fugace, la richiuse e tornò da lui. «Potete parlare, non c’è nessuno.»

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III Guglielmo fu svegliato con la notizia della morte del fratello, ma neanche allora diede credito a un veleno; il mucchio d’ossa sul letto troppo grande lo rese invece certo che quel veleno avesse nome Federico. Anche per lui era stato difficile rassegnarsi alla perdita del nipote, ma non lo aveva mai santificato e sebbene più volte si fosse posto in sua difesa, riteneva che fosse nato per nuocere a chiunque lo avesse amato. Volle comunque sperare che Ermanno avesse realizzato il desiderio di rivederlo, certo tuttavia che ne sarebbe stato intossicato anche nell’altra vita, semmai ve ne fosse stata una. Dubbio legittimo in lui, poiché Guglielmo aveva un’indole terrena, non si era mai interrogato su Dio o l’Aldilà e a dispetto dell’abito cui era stato destinato, preferiva la certezza dell’immediato, i piaceri che poteva cogliervi senza pensare al domani. Un’indole che gli aveva assicurato la complicità del nipote, ma che d’improvviso divenne orfana della figura che gli aveva permesso l’assenza di responsabilità. Ermanno era stato più anziano di sette anni e lui lo aveva creduto immortale. Alto, bruno e con quello sguardo blu che spiccava sul viso inscurito dallo stare all’aperto, per lui il fratello era stato un dio e in fondo lo era ancora, perché non sapeva rassegnarsi alla decadenza né alla morte. Il dio invece, il fratello, l’amico, si era spento davvero e ogni peso ormai ricadeva su di lui. Una consapevolezza spiazzante che non si poteva eludere, c’era il nipote da tutelare e quanto Ermanno gli aveva consegnato nelle sue ultime ore. «Io credo che ormai non dobbiate fare niente, è meglio così. Ogni cosa è volontà di Dio e noi dobbiamo rispettarla.» Così aveva risposto ai dubbi del fratello e in tal modo intendeva procedere. Sapeva anche come quello fosse il momento peggiore per iniziare a occuparsi della marca, tuttavia contava sul comune scopo per ottenere supporto da Goffredo. A tale fine gli restituì quanto gli apparteneva e acconsentì che partecipasse ai funerali di Ermanno, ma perché i suoi intenti fossero chiari, si dichiarò tutore di Roberto. Partì qualche giorno dopo con il proposito di organizzare la diocesi e tornare al più presto, invece la sua scorta fu assalita e annientata. Un uomo dal volto

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coperto aprì la carrozza, lo tirò fuori di peso e lo tramortì con un colpo al capo. Si riebbe in una sorta di caverna, denudato e legato. Le braccia, fissate a un tronco fossilizzato che sporgeva dalla roccia, sostenevano per intero il suo corpo e sembrava che dovessero strapparsi. Un uomo era accanto a lui, sempre a viso coperto, non seppe dire se fosse lo stesso che lo aveva trascinato via dalla carrozza, vi era poca luce. «Cosa volete da me?» L’uomo non rispose e gli avvicinò una torcia al viso. Guglielmo ne sentì il calore e cercò di scansarsi. «Chi siete? Perché mi avete trascinato qui? Che cosa volete? Oro?» Gelava di freddo o forse era più la paura. Non possedeva l’animo da eroe, così almeno gli era stato ripetuto, perché lui non aveva avuto occasione di provare se stesso né di meditare sulla morte. Sapeva tuttavia che nella zona scorrazzavano sbandati, Ermanno aveva organizzato squadre per eliminarli e lui credeva che fosse in mano loro, che volessero derubarlo. Il cappuccio lo tranquillizzava un po’, se quell’uomo celava il volto, era probabile che non avesse intenzione di ucciderlo. «Non voglio il vostro oro» gli rispose l’uomo «purtroppo siete stato sfortunato» aggiunse stroncando la sua precaria tranquillità. «E cosa volete allora? Chi siete?» L’uomo sorrise, o così parve a Guglielmo, e allontanò la torcia dal suo viso. «Lechfeld, voglio risposte da voi, non domande. Il vostro pazzo fratello era in vena di confessioni la notte di Natale, voi confessatevi con me. Se lo farete, forse vi lascerò andare o forse raggiungerete vostro fratello all’inferno senza soffrire, com’è successo a lui.» «Com’è successo a lui… lui mi ha detto… pensava che… sei stato tu! Ma come… e chi ti ha pagato?» «Ah, ah, ancora domande? Allora, che vi ha detto?» Guglielmo tuttavia smise di ascoltare. Chiarito chi fosse e cosa si prefiggesse, ciò che quell’uomo diceva non poteva più interessarlo, erano solo parole ripetute. Ad annichilirlo invece era la sua maschera, che lo costringeva a guardare la morte, a vederla dinanzi a sé prima che sferrasse il colpo. «Allora, vi decidete?» lo incalzò l’uomo e a lui parve assurdo. Cosa c’era da decidere tra morire subito o essere fatto a pezzi lentamente? Ma doveva decidere, e la maschera lo canzonava, così gli pareva, quasi sapesse quale sarebbe stata la sua risposta. Certamente era stato ben

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istruito dal padrone; Guglielmo è un debole, doveva avergli detto, cederà presto. «Come volete» disse l’uomo e a un suo fischio comparvero altri due, anch’essi mascherati. Guglielmo ne fu disorientato, aveva fatto appena in tempo a sostenerne una di quelle macabre maschere. Li osservò prepararsi come dovessero macellare un maiale, balordi che decidevano la sua fine, recidevano il suo tempo, lo costringevano al terrore. Strattonò le catene da cui era stretto, ma quelli niente, continuarono a parlottare e a prepararsi per macellarlo. «Vi darò il doppio di quanto vi è stato promesso, vi farò ricchi!» tentò allora «potrete andare lontano, dove nessuno vi troverà, lontano da rappresaglie! E neanche io vi farò cercare, se è questo che temete, avete la mia parola!» Due si fermarono e lo fissarono, poi si allontanarono con l’altro e cominciarono a discutere, quasi a litigare. Di ciò che dicevano, Guglielmo riusciva a sentire solo poche parole ma sufficienti perché risorgesse la speranza. Infine uno dei tre si avvicinò. «Penso che sareste disposto a sborsare più del doppio del vostro peso in oro.» «Sì, è così.» «Allora mi dispiace che vi ostinate a non capire. Del vostro oro non so che farmene, parlare è il solo modo per salvarvi.» Guglielmo piombò nel terrore e sapeva che i tre ne erano consapevoli, allora pensò a Ermanno. Forse il fratello lo stava guardando, guardava l’unico ormai che potesse onorare il nome dei Lechfeld. «Non ho niente da dire, niente di un Lechfeld può riguardare dei tagliagole» asserì dando inizio al martirio. Sulle prime fu certo di cedere in fretta, invece riuscì a restare saldo e non dire nulla, cosa che lo stupì e lo incoraggiò. Stranamente il dolore rafforzava la determinazione, era come una droga, lo rendeva incosciente. C’era speranza in quell’incoscienza che infine qualcosa accadesse e lo salvasse, ma era anche stupore per la propria resistenza, volontà di provare se stesso dinanzi al fratello, esaltazione allucinata. «Non credevo che un vescovo fosse tanto cocciuto!» disse infine uno dei tre. «No, forse è solo scemo!» sghignazzò un altro. Guglielmo restò in silenzio. Gli parve che l’ultimo avesse parlato con un forte accento straniero e che la voce di quello che sembrava la guida fosse familiare, ma non poté esserne certo, per la sua mente provata i tre erano

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indistinguibili, apparivano un’unica figura triplicata e lo confondevano. Ancora ebbe la carne bruciata, urlò, ma non disse nulla. «Per l’ultima volta, sputate fuori la confessione del conte!» Guglielmo strinse i denti aspettando ancora il supplizio. L’uomo invece, quello che aveva parlato per ultimo, fermò i compagni. «È inutile» disse loro «se non vuole parlare, mozzategli la lingua e…» «Sono un Lechfeld» sorrise Guglielmo nella sua delirante esaltazione «forse per voi balordi non significa niente, ma chi sa della mia famiglia, sa anche che un Lechfeld non può spaventarsi alle minacce di prezzolati.» «Già, un Lechfeld. A vostro fratello sarebbe molto piaciuto questo vostro martirio. Be’, potrete divertirlo all’inferno!» Guglielmo si ritrovò sul ruscello gelato, dove infine fu gettato perché creduto morto. Il corpo spezzato e la mente che urlava, per lui fu il momento più duro, quasi che subire la tortura fosse stato più facile che sentirne gli effetti sedimentarsi. Poi apparve Fortunio e forse rassicurato dalla sua presenza, riuscì a calmarsi e perse i sensi. All’abbazia, quando si riebbe, gli parve di sentire meno dolore e chiese da bere al frate che lo accudiva. Il contatto con l’acqua sulla bocca mutilata fu ancora tortura, allontanò la ciotola da sé, chiuse gli occhi, li riaprì e cercò di far capire al frate che gli serviva l’occorrente per scrivere. Di nuovo solo poggiò i pensieri su ciò che non aveva mai osato, su quanto rimandato stimando di avere tempo. Minuti infiniti, poi la porta si aprì e l’abate apparve. Guglielmo che aspettava invece il frate, cercò di scrutarne lo sguardo, che a sua volta lo indagava. «Vi ho portato ciò che avete chiesto» disse Anselmo «vi sentite un po’ meglio?» Guglielmo accennò a sollevarsi, l’abate con solerzia gli sistemò i cuscini dietro alla schiena e ve lo fece appoggiare, lui, una smorfia di dolore, lo ringraziò con lo sguardo e con un cenno chiese i fogli che Anselmo teneva in mano. Questi poggiò una tavoletta sulle sue gambe, vi sistemò un foglio, intinse la penna nell’inchiostro e gliela porse. «Ho fatto avvertire la contessa» accennò con la voce che tradiva impazienza. Guglielmo lo guardò e cominciò a scrivere, lentamente e con difficoltà, fermandosi quasi a ogni lettera, mentre Anselmo spiava ogni tratto con un’ansia che giungeva al parossismo. Infine, quando capì cosa la mano stava vergando, gli strappò il foglio. «Ma allora è stato per questo! È come pensavo!» proferì leggendolo. Guglielmo aveva solo scritto di voler inviare una lettera alla madre, ma tanto era bastato per agitare l’abate.

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«Anche voi dunque sapete, e chi altri sa? Nessuno, nessuno, certo, perché altrimenti avrebbero voluto saperlo da voi? Ma voi avete parlato? Che gli avete detto? Ma sapete su cosa stiamo discutendo?» Guglielmo negò con il capo. «Vostro fratello non vi ha detto niente? So che la sera di Natale intendeva parlarvi!» Guglielmo alzò le spalle e ripeté il diniego. «No, non è così? Ma sapete almeno chi è stato a ridurvi così?» Guglielmo accennò ancora un no e per sbarazzarsene, finse di perdere i sensi. Anselmo, sicuro che gli avesse mentito, recuperò tutti i fogli, anche quelli non scritti, e uscì. Era pallidissimo e lo rese ancora più nervoso trovare il suo segretario insieme al frate che aveva in cura Guglielmo. «Che fate voi qui?» inveì contro il giovane. «Volevo informarmi sulle condizioni…» «Fra Modesto, il vescovo ha necessità di estrema tranquillità» cambiò tono l’abate, divenendo quasi amabile «gli sarete più utile pregando per la sua anima.» «Fate in modo che il vescovo non sia disturbato da nessuno» intimò al frate dopo essersi assicurato che il giovane fosse sparito finanche dalla visuale «nessuno senza eccezioni!» Il frate rientrò, Guglielmo continuò a fingere di non essere in sé. Desiderava restare solo, usare il tempo per capire come spendere quei brandelli di vita, ma neanche la sua mente lo assecondava. Inseguiva ed era inseguita da una voce che ormai sedimentata diveniva davvero familiare e si tradiva troppo coinvolta per essere mercenaria. Eppure non riusciva a racchiudervi un volto, gli sfuggiva, e se tentava di scacciarla tornava con maggiore intensità. Era questo il suo tormento, non poter conservare quel tempo solo per se stesso o piuttosto cadere nell’incoscienza e in quel modo scivolare nella morte. Neanche il frate accennava a uscire, anzi, dopo qualche minuto si accostò al letto per controllare se non fosse già morto. Allora lui aprì gli occhi e gli fece cenno di avvicinare la ciotola con l’acqua, v’immerse l’indice e premé sul saio, ribagnando varie volte il dito fino a comporre il nome di Fortunio. «Volete che vi chiami Fortunio?» chiese il frate, incerto se contravvenire all’ordine dell’abate. Guglielmo fissò dinanzi a sé, poi annuì e la sua espressione commosse il frate che uscì per obbedire.

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Fu solo, come desiderava, ma fitte lancinanti sminuzzarono il tempo e i brandelli che vi si sostenevano. Volle fuggire ed era terribile non poter fuggire. Da cosa? Dal suo corpo? Dalla morte? Mio Dio! Urlò muto. Fortunio gli venne in soccorso, entrò nella stanza. «Come vi sentite mio signore? Non posso credere a ciò che vi hanno fatto, ma li troveremo, l’abate ha già avvertito la contessa, lei vi renderà giustizia…» Guglielmo sospirò e fermò con un gesto la sua concitazione. Restò in una fissità che intimidì Fortunio, infine gli fece capire di volere fogli per scrivere. «Sì, certo, ma non li ho con me, vado a prenderli» disse Fortunio e sparì dalla stanza. Tornò pochi minuti dopo e sedette accanto a Guglielmo, il quale cominciò a scrivere, ma si fermò alle prime parole e gli fece capire che non doveva leggere. Fortunio fissò il viso sul muro e si limitò a intingere la penna quando gli veniva chiesto e a recuperarla quando la mano la lasciava cadere per stanchezza. Guglielmo infine gli consegnò una lettera che volle fosse sigillata con grasso di candela. Fortunio obbedì ed ebbe un altro foglio, nel quale lesse ciò che doveva fare. «Perché volete che annunci a vostra madre la vostra morte? Voi non…» Guglielmo gli porse l’anello vescovile e scrisse: Come prova per mia madre. «Non sono stati briganti! Quest’anello vale una fortuna e voi l’avete ancora!» E Guglielmo scrisse: Non pensare e fai quello che ti ho detto, ma non parlarne neanche con l’abate, mi fido solo di te. «Di me!» Guglielmo annuì, poi scrisse: Prometti che consegnerai la lettera. «Sì, ve lo prometto, ma…» Guglielmo gli fece cenno di andare, Fortunio indugiò e lui ripeté il gesto con maggiore fermezza. Le lacrime del giovane nel salutarlo, acuirono il terrore nell’attesa della morte, che tuttavia fu clemente e giunse prima del previsto. Anselmo si presentò con una ciotola fumante. «Vi ho portato un infuso, vi farà bene» e in fretta gli sollevò il capo e lo costrinse a bere. Pochi istanti e tutto si velò, Guglielmo non sentì più dolore né paura, l’ultima immagine fu l’abate che gli impartiva l’estrema unzione. Il tocco

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di un’unica campana annunciò la sua morte, il corpo, rivestito di un semplice saio, fu portato in chiesa e vegliato l’intera notte. Due giorni dopo una carrozza varcò le mura. Quando si fermò, il capitano della scorta porse aiuto alla donna che ne discese. Goffredo la accompagnava. «Siate la benvenuta, mia signora» fu accolta dall’abate «mi duole solo per le circostanze, purtroppo il vescovo non è più tra noi.» «Una terribile disgrazia» intervenne Goffredo. «Una perdita incolmabile, che Dio lo abbia in gloria» avvalorò l’abate. Fortunio, spinto dalla curiosità di conoscere la giovane contessa, si era trattenuto fino al suo arrivo e adesso, nascosto in un angolo, non riusciva a staccarsi da quel volto. Non capiva la natura dell’emozione che lo coglieva, ma era provato da più emozioni in quei giorni per essere capace a distinguerle o farvi ordine. Sentì però che in un istante quel volto fece scempio di ogni volontà e bruciandogli il sangue, gli irrorò l’inguine di un fiotto caldo. Matilde sparì oltre il portale che si apriva sulla chiesa, lui si affrettò a lasciare l’abbazia chiedendosi se mai l’avrebbe rivista.

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IV L’abate Anselmo era nell’opinione di tutti un uomo di poche pretese e senza ambizioni. Lui stesso peraltro ne era consapevole, ma con Fortunio credeva di aver guadagnato un posto in paradiso. Quel neonato nelle ferite e nei difetti del corpo gli aveva ricordato gli storpi del Vangelo e quasi Dio avesse bussato alla sua anima, lo aveva accolto. In realtà aveva creduto che la prova di Dio durasse poco, invece il piccolo era sopravvissuto e per questo gli aveva imposto il nome Fortunio. Gli si era anche affezionato, ma nessuno lo aveva capito, forse neppure lo stesso Anselmo, il quale non si poneva domande persino su se stesso. Su Fortunio tuttavia dovette porsele, almeno quelle per predisporgli un futuro. Anselmo avrebbe voluto assecondarne il desiderio e farne un frate, ciò però sovvertiva le regole non scritte dell’abbazia. Nessun plebeo, peraltro di sangue oscuro, aveva mai vestito il saio e Anselmo non possedeva l’attitudine a trasgredire. La soluzione sarebbe stata offrire la dottrina del giovane per accasarlo come famiglio, Anselmo tuttavia non credeva che potesse cavarsela nel mondo, entità che a lui stesso faceva paura. Gli pareva ricetto di ogni orrore, una selva intricata di agguati e belve feroci, un posto terribile cui abbandonare il suo protetto. Così, com’era nell’indole, rimandava ogni decisione, ma Fortunio aveva ormai compiuto ventotto anni. Anselmo non avrebbe potuto immaginare che le belve feroci si materializzassero con il massacro di Guglielmo né che lui stesso potesse divenire una di esse, benché una belva senza artigli, armata solo di terrore, che paventava la dannazione eterna e che artigli veri lo affrettassero verso l’inferno a cui si era condannato. Morto Guglielmo, imposto il silenzio ai suoi soccorritori con voto sacro, non si riteneva ancora al sicuro. Restavano gli uomini incaricati di spaventare il ragazzino del borgo, i quali avevano travisato i suoi ordini provocando una catastrofe. E che mezzi aveva lui per impedire che quegli animi mercenari lo tradissero e passassero al nemico? Voleva anche sperare che Guglielmo non avesse implicato Fortunio, sapeva però che si erano parlati e poiché conosceva i pochi scrupoli dei

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Lechfeld, cui non faceva eccezione l’anima del vescovo, era inquieto anche per il giovane. L’abbazia, benché ormai non ritenesse nessun luogo sicuro, era pur sempre l’unico riparo che gli desse tranquillità, invece dovette lasciarla per la Rocca dei Lupi, la sede preferita da Ermanno e così battezzata per l’antico nome del casato, Signori dei Lupi, mantenuto nel vessillo. Per il vecchio abate, chiamato a officiarvi i funerali di Guglielmo, fu inoltrarsi nella tana della belva, tanto più che al termine della cerimonia fu traumatizzato dall’annuncio che il nuovo padrone, Goffredo, intendeva parlargli. Il colloquio tuttavia fu breve e generico. L’abate badò a ingraziarsi la belva, Goffredo invece parlò di Ermanno solo riguardo all’amministrazione dell’abbazia e volle pochi chiarimenti su Guglielmo, lasciò però intendere di aspettarsi più di quanto chiedesse. «Reverendo padre, confido che se doveste ricordare qualcosa che al momento vi sfugge, non mancherete di farmene partecipe. Ritengo che alla vostra età vogliate vivere in pace, anch’io sono un uomo di pace e mi rincrescerebbe se qualche equivoco o dimenticanza creasse spiacevoli dissapori.» Dopo essersi affrettato a sottintendere che un segreto in confessione restava un segreto, Anselmo si avviò svelto alla carrozza assaporando il momento in cui avrebbe varcato le mura dell’abbazia. Prima di arrivarvi tuttavia fu avvicinato da un tipo che si presentò come Luigi di St. Velmont, cavaliere d’Aquitania. «Ho presenziato ai funerali per dovere verso il barone, ma vi confesso che volevo anche conoscervi» gli disse con proprietà di lingua, sia pure connotata dall’accento della sua terra e una mimica insolente, quasi accentuata di proposito. «Sapete» proseguì «mia madre era di queste parti e sul suo capezzale mi ha fatto giurare di onorarle, ma ho bisogno di conoscenze e…» «Sono lusingato dal vostro interesse, credo però di non essere la persona adatta. Io…» «Siete modesto, reverendo padre, modesto come ogni uomo di Dio dovrebbe essere, ma la vostra posizione è ben altra. Il barone vi chiede colloqui riservati e a quanto mi hanno detto, siete stato consigliere del conte, oltre che suo confessore.» «Sì, ma questo non riguarda me, siete forestiero e forse non sapete che l’abbazia…» «Anche per un forestiero è facile capire come stanno le cose. Ormai tutto è in mano al barone, e così di colpo che molti trovano strana la vicenda.» «Perdonate, ma davvero io… ho molta fretta.»

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«Solo un momento, reverendo padre, vi prego.» «Ma che volete ancora? Vi ho già detto che sono il meno adatto per…» «Ho saputo che il vescovo è morto da voi.» «E allora?» «Be’, voi più di me dovreste saperlo! Prima il conte e poi il vescovo, volano molti corvi sulla faccenda e ognuno vuole beccare la sua parte. Ma la mia non è curiosità da corvaccio, è che non vorrei trovarmi in una storia poco chiara e visto che ci siamo, forse voi potete chiarirmi la cosa.» «Non c’è niente da chiarire, vi assicuro. Posso solo dirvi che siamo tutti nelle mani di Dio e anche ciò che agli uomini appare come stranezza è Sua Volontà. Perdonate, devo andare.» Anselmo si voltò deciso ad allontanarsi in fretta, St. Velmont tuttavia gli ostruì il passo e lo bloccò. «Già, la volontà di Dio è il vostro mestiere, ma per noi peccatori è diverso» gli disse «nessuno ha fretta di essere carne per vermi. Forse, a quel che si dice, l’aveva il conte, ma il vescovo magari avrebbe aspettato a rendere l’anima. Forse si è affidato a voi per svuotarla, un uomo di Dio si affida sempre a un uomo di Dio, e il vescovo vi avrà pure detto qualcosa prima di morire…» poi St. Velmont si bloccò e guardò oltre l’abate. Anselmo guardando a sua volta nella stessa direzione, vide sopraggiungere Bernardo, giovane di mente svelta che si malignava fosse figlio naturale di Goffredo. Di certo Goffredo lo aveva allevato, ne aveva fatto il suo capitano e da ultimo gli aveva affidato il comando delle milizie di Ermanno. «Reverendo padre» disse Bernardo «il barone mi ha posto a vostra scorta fino all’abbazia.» Anselmo, che era minuto e tarchiato dall’età, si sentì stretto tra i due che lo superavano di parecchio. «Ma… non serve, io… ho già la mia di scorta!» «Il barone ha a cuore la vostra incolumità e vuole assicurarsi che nessun malintenzionato vi dia fastidio» rispose Bernardo e guardò dritto negli occhi St. Velmont. «Certo, reverendo padre» sorrise questi «ho approfittato anche troppo del vostro tempo. Spero di rivedervi, fa sempre bene parlare a un uomo di Dio.» Anselmo guardò St. Velmont allontanarsi e non seppe se fosse un bene essere lasciato in balia del capitano. Nel tragitto fino all’abbazia, lungo parecchie ore, temette a ogni istante il supplizio di Guglielmo. Si vide già con le sue piaghe, gli dolse persino la bocca, come se la lingua stesse per essergli staccata, e credette di morire dallo spavento.

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Di ciò Goffredo era stato certo. «Com’è andata?» chiese quando il capitano tornò dall’abbazia. «Per poco non gli prendeva un colpo, mio signore, e se mi aveste dato licenza, avrebbe parlato senza che io glielo domandassi.» «Bene, lasciamogli ancora tempo per rosolarsi.» Goffredo fidava sul giovane capitano come su se stesso. In verità confidava nell’intera milizia, gran parte della quale lo rispettava e nella disgrazia non lo aveva abbandonato. Difficile che un suo uomo potesse vendersi o tradire e in ciò era la sua forza. Bernardo tuttavia era qualcosa di più e non avendo figli legittimi né riponendo stima sui naturali, meditava di adottarlo, ma di questo non faceva parola con nessuno, nemmeno con il giovane. Gli era bastata la lezione di Matilde e non voleva prestare ancora il fianco aggiungendo altre debolezze. L’affetto che ognuno gli riconosceva per la figlia e la contrarietà a maritarla troppo giovane erano stati causa della provocazione di Ermanno e della propria rovina. Da allora, scampata la morte di cui era stato certo, Goffredo aveva rinnovato la formula degli avi e giurato di cancellare finanche il nome dei Lechfeld, ma aveva dimenticato che Roberto, il nipote, continuava la stirpe. La prima impressione che ne ebbe, fu di un piccolo monaco. Sempre assorto su testi sacri, aveva nozioni persino di greco antico e nello sguardo, a dispetto dei sette anni, una malinconia da adulto. Goffredo scoprì anche che venerava il padre e ciò per lui fu l’ultimo smacco del rivale, al quale era sopravvissuto, ma gli anni erano stati troppi, i guasti anche maggiori e presenti ovunque in quel luogo tetro che Matilde rifiutava di abbandonare. Il malumore lo prendeva soprattutto ogni fine giornata e una sera, quasi a conferma delle pessime impressioni che lo inducevano a detestare quella parte del giorno, Bernardo gli portò notizia della morte dell’abate. «Pare per malattia, mio signore.» Goffredo inviò emissari all’abbazia ed ebbe conferma della malattia. «La morte naturale non esiste se nella tomba si portano segreti! Non mi faccio raggirare da qualche monaco!» si sfogò con il capitano «vai tu, interrogali uno a uno e separatamente, mettigli pressione, lascia intendere che possono finire tutti come Guglielmo, chiaro?» «Sì, mio signore, ma credo che sia sorto un altro problema, perché…» Goffredo intuì che Matilde era entrata nella stanza, poiché lo sguardo del giovane capitano, come accadeva da sempre, si fermò oltre le sue spalle e si abbassò repentino. «Che problema?» gli chiese con indulgente impazienza.

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«Una pattuglia ha riferito che la contessa Adelaide si trova da St. Velmont.» «Ma che combinazione!» ironizzò Matilde. «Mio signore, quell’uomo non mi piace, datemi licenza e io…» Esaurita la pazienza, Goffredo intimò al giovane di uscire. «Dovresti evitare di mettermi in imbarazzo…» disse alla figlia. «Bernardo ha ragione e come sempre mostra più buonsenso di voi. Quell’uomo è falso, volgare, invadente, davvero non capisco come facciate a fidarvi.» «Io non mi fido di nessuno e non m’interessa che vuole o chi è! Lui o un altro per me non faceva differenza, mi serviva per…» «Non riditemi che l’avete fatto per me. Io non dubito che sia così, ma per me avreste dovuto fare altro.» Goffredo uscì dalla stanza. Il giorno dopo tuttavia decise per la partenza. «Sono obbligato, devo capire cosa sta succedendo, ma aspetterò che Bernardo torni dall’abbazia e lo lascerò qui» disse alla figlia. «Se mi accadesse qualcosa, lui…» «Se dovesse accadervi qualcosa, nessuno potrebbe proteggermi, io non rinnegherei il vostro nome, quindi verrò con voi.» «Questo vuol dire che sei tornata da me, Matilde?» «Siete mio padre e riconosco che Roberto avrà beneficio dalla vostra influenza, ma non potete pretendere altro e vi prego di non costringermi a dire altro.» «Sarebbe ora invece! Di’ quello che vorresti, rovesciamelo addosso, Matilde!» «A che servirebbe ormai? E comunque io non ho niente da rovesciarvi addosso. Voi avete agito credendo fosse il meglio per me, adesso sapete che non era così e che se solo aveste ascoltato, avreste risparmiato dolore a entrambi, ma vi è mancato il coraggio o forse sono stata io a sopravvalutarvi.» «Io non ho mai temuto Ermanno! Non è stato per timore di oppormi a lui che…» «Vi è mancato il coraggio di capire, non quello per agire, ma forse per voi Federico e io eravamo solo sciocchi ragazzini, sciocchi per essere ascoltati, ma non per andare a morire. Scusate, devo avvertire Roberto, per lui questa partenza sarà un altro spiacevole cambiamento, ed è meglio che lo sappia subito.» Goffredo si sentì solidale al nipote, vittima di una contesa che vedeva opposti due fantasmi, il padre reale e quello che la madre avrebbe invece desiderato per lui. Gli pareva, infatti, che Matilde recitasse a fare la madre

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del figlio di Ermanno come estremo dispetto. Per quanto tuttavia fossero taglienti le allusioni, lui continuava a non sentirsi colpevole né riteneva di essere stato sordo alla comprensione. Forse la supponenza di un uomo fatto verso gli adolescenti era già un errore, ma non aveva remore ad ammettere di non esserne pentito e che avrebbe ancora agito nello stesso modo. Gli ribolliva troppo che il suo sangue si fosse mescolato a quello dei Lechfeld, che infine fosse accaduto ciò che in ogni modo aveva cercato d’impedire. “Sciocchi per essere ascoltati, ma non per andare a morire.” Non dormì la notte su quella frase, sul pensiero che Matilde si fosse mummificata alla sua adolescenza, che volesse continuare a guastarsi con le muffe di quel castello.

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PARTE SECONDA

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I Nevicava. Fortunio costeggiava il ruscello nel quale Guglielmo aveva agonizzato ed era solo. Nessuno oltre scheletri piantati sulla terra bianca e giù, sotto la lastra ghiacciata, il fondo del torrente, scuro come inchiostro dentro a un calamaio. Stringeva la sporta che portava a tracollo e camminava guardandosi spesso indietro, sempre pensando di essere inseguito. «Reverendo padre, vi chiedo il permesso di recarmi all’Eremo del Conte Pio» aveva detto all’abate per allontanarsi più giorni senza destare sospetti «vorrei pregare per il vescovo e là mi sarà più facile raccogliermi.» Continuava a voltarsi e affrettava il passo aiutandosi con un bastone, non sapeva se l’abate gli avesse creduto ed era inquieto. Guglielmo gli aveva scritto di seguire il nord, in direzione della rocca di Brandeburgo, ma già valicare il borgo gli pareva un’impresa. Fortunio non conosceva niente del mondo, la sua vita era trascorsa nella lentezza dell’abbazia e nel susseguirsi di codici da ricopiare era diventato adulto. Una monotonia sonnacchiosa forse, ma lui non era stato come quelli che trascrivevano segni senza comprenderli, lui aveva rubato segreti a ogni riga, se ne era imbevuto trasferendoli in se stesso, come l’inchiostro che permeava i polpastrelli. I segni o la realtà per lui non erano differenti, di ogni lettura, di ogni incontro, aveva fatto l’incarnazione di un’inquietudine, densa di semi da far attecchire. Episodi effimeri in lui erano divenuti assoluti, avevano generato attese, rendendo la sua anima un calderone di voci in cui angeli e demoni erano indistinti. Sin da bambino aveva avvertito di percepire ogni cosa diversamente dagli altri, ma se a quel tempo non ne era stato del tutto consapevole, ormai adulto aveva posto a protezione di se stesso le mura dell’abbazia. Gli capitava però di precipitare in intermittenze della coscienza, come se sprofondasse oltre i confini di ciò che di sé conosceva, e in quei luoghi la guida era chi, con timore quasi affettuoso, chiamava il suo demone. In quel viaggio il limite del conosciuto non era ancora stato oltrepassato, era il borgo, ma investito di un compito che voleva portare a termine, Fortunio non poteva tornare indietro, anche se il cuore si appesantiva di due immagini stridenti, la mascella serrata di Guglielmo e il volto di

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Matilde. Entrambe lo incalzavano, entrambe gli pareva che avessero la stessa natura di morte, e lo spaventava essere attratto da entrambe. […]La sua anima subì una ferita più grave di quella subita dal corpo di colui che volle guardare[…]. Vedere il sangue e subire la ferocia fu un tutt’uno, né più se ne distolse, ma attinse inconsciamente il furore, mentre s’inebriava di voluttà sanguinaria[…]. Le parole di Sant’Agostino sembravano scritte per lui. Era come se dalla morte violenta di cui era stato spettatore, che pure l’aveva commosso e spinto a ricercare giustizia, sentisse emanare un fascino inspiegabile. Immaginava gli uomini che si erano accaniti su quel corpo, non come bestie, le bestie uccidevano, sbranavano brutalmente, ma non imponevano la sofferenza, quella era voluttà e facoltà degli uomini, e si chiedeva cosa si provasse a essere arbitri della sofferenza, divinità mortali, sacerdoti del male. Era necessario coraggio, dunque anche il male era coraggio? E lui, che giungeva a chiedersi se quel volto avesse ammirato tale coraggio, dove stava sprofondando? Al borgo lo investì un odore di bruciato e gli parve che gli oscuri pensieri da cui era stato accompagnato prendessero forma in quell’odore. La gente tuttavia era in agitazione, non poteva essere solo frutto delle sue impressioni, doveva esservi qualcosa di reale. S’informò e gli dissero che nella notte era scoppiato un incendio, il fuoco aveva distrutto qualche fienile e la casa da cui si era sviluppato. Fortunio riconobbe nelle rovine annerite e ancora fumanti l’alloggio del ragazzino che aveva trovato Guglielmo, ma non lo vide tra i bambini che gli stavano intorno. Domandò agli adulti. «Quei poveri diavoli sono tutti morti, non hanno avuto scampo» gli fu risposto. In coro, tra la confusione, gli fu poi narrato che si era intervenuti subito, ma le fiamme avevano avvolto la casa in un attimo e nessuno si spiegava com’era potuto accadere. Vi fu anche chi accennò che la sera precedente qualcuno aveva visto armati aggirarsi fuori dal borgo. «Ma non hanno niente a che fare con la disgrazia» obiettò un altro «erano dell’abbazia.» «Sì, le guardie dell’abate» precisò un terzo. «Dell’abate Anselmo!» proferì Fortunio. Rivisse tuttavia la reticenza dell’abate nella vicenda di Guglielmo e sentì una morsa alle viscere. «Sì… fra Fortunio, vi sentite bene?»

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Lui tuttavia non ascoltava più. L’immagine dell’abate si trasformava e quel vecchietto curvo, forse anche un po’ ignorante per la misura che lui assegnava al sapere, si assimilava all’alone maligno che sentiva incombere, da cui si sentiva aggredire e che quasi gli pareva di respirare, come il puzzo di bruciato che impregnava l’aria. «Devo andare via, subito» disse «e ho bisogno di vestiti, ma oltre questo saio non ho da darvi niente in cambio.» Era quello il motivo per cui si era fermato al borgo, Guglielmo gli aveva consigliato di abbandonare il saio per essere meno identificabile. «E non volete recitare nemmeno una preghiera per i morti?» gli domandò qualcuno stupito da tanta indifferenza. Fortunio acconsentì, si fermò per pregare, ma lo fece con voce lontana, i pensieri furono a ciò che lo attendeva. La gente del borgo non volle il suo saio e lui non appena fu di nuovo solo, scavò una buca e ve lo nascose, fermandosi a vegliarlo finché la neve imbiancò la terra smossa. Per due giorni fu ancora neve. Fortunio restò nascosto in una grotta, come un cucciolo che persa la madre aspetti il colpo mortale dei cacciatori. Il terzo giorno il tempo migliorò, il sole era pulito ma spazzato dal gelo, Fortunio tirò sul capo il cappuccio del cencio che indossava e riprese il viaggio. Marciò senza incontrare nessuno fino a sera, quando ai piedi di una roccia trovò riparo, ma non dormì. Riprese il cammino all’alba, e così, marciando e temendo a ogni passo, terminò anche il giorno successivo. La nuova alba si ripresentò uguale, solo alberi spogli e neve, come se l’uomo fosse stato bandito dal mondo, sepolto dalla foresta e dal bianco. Verso il tramonto udendo zoccoli avvicinarsi, sobbalzò a quel sentore umano che riaffermava la propria presenza nel mondo. Uomini a cavallo non erano rassicuranti, forse cercavano proprio lui. In pochi minuti più figure si ritagliarono nel bianco, quando furono abbastanza vicini da poterlo distinguere, uno dei due cavalieri che precedevano gli altri si accostò al compagno e sembrò indicarlo, poi fece segno al drappello di fermarsi. Fortunio fu certo di essere stato trovato, benché in nessuno di quegli uomini riconoscesse qualcuno dell’abbazia. Eccetto i primi due, erano armigeri e portavano insegne a lui sconosciute. «Tu, avvicinati» gli intimò con accento straniero il cavaliere cui era stato indicato, un tipo ben messo tra i trenta e i quaranta, che per meglio guardarlo si liberò dal cappuccio mostrando barba e capigliatura rossicce. Il compagno invece non sembrò più degnarlo e si tenne indietro, mantenendo il cappuccio e guardando in tutt’altra direzione. «Dite a me, mio signore?»

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L’uomo dall’accento straniero si volse più volte intorno come cercasse qualcosa. «Perché, vedi altri in giro? Muoviti!» Fortunio obbedì, si fermò a pochi passi dallo straniero, e poiché gli parve che anche il compagno si volgesse a osservarlo, abbassò lo sguardo, ma non solo per il timore o per il disagio che lo sfregio al volto gli procurava dinanzi a sconosciuti. Ormai aveva in direzione dei propri occhi solo gli stivali di quel cavaliere e non era più neanche certo che continuasse a osservarlo, eppure l’odore che emanava dai finimenti, dal fiato, dal manto nero del cavallo, si fondeva allo sguardo che non vedeva e condensava un nome nell’anima. «Sbaglio o ti trovi abbastanza lontano da dove dovresti essere?» gli chiese intanto lo straniero. «Cosa?» «Non sei l’orfano dell’abbazia?» Fortunio considerò che aver abbandonato il saio era stato inutile, aveva marchi indelebili nella gamba e nel volto. «Sì, io stavo andando…» all’eremo fu per dire, senza pensare che esso si trovava da tutt’altra parte e a poche ore dall’abbazia. «Il tuo nome è Fortunio, giusto?» Annuì sconvolto, conoscevano persino il suo nome! «Bene, ovunque tu stessi andando, fra poco sarà buio e non è saggio restare in giro. Per stanotte ti ospito io» e senza aspettare risposta, lo straniero si voltò verso uno degli armigeri «fallo montare con te.» A Fortunio non rimase che obbedire. Cercò di salire sul cavallo, ma poiché non era capace, sotto gli sguardi che sentiva su di sé, si confuse e restò appeso alla criniera. Rosso di vergogna, si lasciò scivolare lungo il fianco dell’animale. «Posso seguirvi a piedi, sono abituato a camminare.» «Con quella gamba? Faremo notte qui!» rise lo straniero «coraggio, monta, non è difficile!» Sotto lo sguardo beffardo dell’armigero sul cui cavallo sarebbe dovuto salire, Fortunio si rassegnò a ritentare. «Che fai lì impalato?» sbottò lo straniero contro l’armigero «dagli una mano, imbecille, o faremo davvero notte!» L’armigero afferrò Fortunio per un braccio e lo tirò su di peso, poi per dar modo al suo signore di parlare con l’ospite, gli si pose a fianco. Lo straniero tuttavia non disse più nulla e Fortunio fu troppo occupato a chiedersi se fosse stato colto da un’allucinazione, poiché gli uomini adesso mancavano di uno. Li contava e non vedeva più l’altro cavaliere,

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ma non si era accorto che si fosse allontanato e sulla neve le orme erano troppe. Poche ore dopo si ritrovò nella residenza di un signore, luogo in cui non era mai stato, ma non aveva l’umore per lasciarsi andare alla curiosità. Notò comunque che il posto non era tetro come aveva immaginato, bensì confortevole e animato da parecchia gente. Tuttavia, per l’odore di polvere e umido che vi si respirava, ebbe l’impressione di trovarsi in un luogo disabitato. La sala in cui fu introdotto confermava la ricchezza che s’intuiva nell’intero edificio. Un enorme camino divideva lo spazio in due ambienti, il riverbero delle fiamme rendeva mobili gli oggetti, ma non copriva lo strano odore né l’impressione che tutto fosse stato risvegliato da un lungo sonno. Lo straniero sedette sul lato corto di un ampio tavolo, schioccò le dita ed entrarono più servitori, ognuno con una pietanza diversa. «Siedi.» «Vi ringrazio mio signore, Dio renderà merito alla vostra generosità» disse Fortunio e sedette dove gli fu indicato, sul lato lungo, abbastanza discosto dall’ospite e rigido come per essere pronto a fuggire. Lo straniero cacciò i servi. «Cambia faccia, alla mia tavola voglio gente di buon appetito, altrimenti mi va tutto di traverso!» Fortunio era stanco, provato da quell’incontro e con lo stomaco chiuso, tuttavia riempì il piatto che aveva davanti, poi come d’abitudine fece il segno della croce. «Sei un frate, allora perché te ne vai in giro con quegli stracci?» «Sono novizio.» «E un novizio non porta il saio?» «Sono caduto e l’ho strappato, un colono mi ha donato questi abiti, che il Signore lo ricompensi.» Lo straniero si versò da bere, poi fece scivolare la brocca lungo il tavolo e lo invitò a servirsi. Fortunio versò appena un sorso e posò la brocca. «Dai, passala!» gli fece cenno l’ospite. Fortunio cercò di imitarlo e spinse la brocca verso di lui, ma con poca decisione e troppo impeto, ottenne solo di rovesciarla. «Mi dispiace…» «Lascia, non è niente!» ma il tono a Fortunio sembrò seccato. Uno schiocco di dita e apparve un servitore, il quale portò via la brocca, riapparve con un’altra piena e lasciò la sala. «So che alla tua abbazia è morto un vescovo, il fratello del conte.» Fortunio deglutì e annuì.

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«Strano caso, dicono che sia caduto anche lui, come te voglio dire, o la brocca, ma lui è stato più sfortunato.» «Io credo che il vescovo sia stato vittima di briganti, non di una caduta, ma è una mia opinione» affermò Fortunio, informazione innocua che ritenne l’unica per non sembrare reticente. «Briganti, eh? E tu non hai paura di questi briganti? Dove sei diretto?» «Mio signore, io non posseggo niente, non credo di essere in pericolo, e mi sto recando…» indugiò per trovare un luogo, temette con quella pausa di tradirsi. «In che rapporti sei con l’abate Anselmo?» «È l’uomo che mi ha allevato ed è il mio abate, gli sono grato e lo rispetto, ma so qual è il mio posto e lo mantengo» rispose Fortunio. Poteva vincere la sfida, gli sorse poi improvviso, perché aveva la mente allenata dalle letture, era sicuramente più intelligente di quell’uomo, e ciò gli procurò una sensazione simile alla voluttà. «Però tu conoscevi il vescovo.» «Si degnava di parlare con me e gli ero grato.» «A quanto pare, tu sei grato a tutti!» «Sì, mio signore, anche a voi, e vi ricorderò nelle mie preghiere.» «Non darti pensiero, a me stesso penso da me e ho intenzione di restare bello vivo ancora per parecchio! Piuttosto, hai pregato anche per il vescovo? L’hai visto prima che morisse?» Fortunio indugiò, lo straniero gli puntò lo sguardo addosso. «Purtroppo no, mio signore. La morte del vescovo mi ha addolorato tantissimo e non ne parlo volentieri perché mi sento in colpa. Avrei voluto dargli conforto, assisterlo, invece l’abate mi ha impedito di avvicinarlo, forse perché non mi ha ritenuto degno, ma adesso sono in viaggio per far penitenza. Il Signore comanda di dar conforto ai sofferenti e io ho disobbedito alla Sua Legge per obbedire a un uomo, ma Dio è superiore a ogni uomo…» «Smetti di blaterare! Finisci il tuo cibo e poi sparisci!» Fortunio ingoiò in fretta ogni boccone senza masticarlo. Anche lo straniero gli parve non avesse più appetito, staccava lembi di carne e li righettava nel piatto, e intanto dava l’impressione di volere far a pezzi lui. Dormì poco quella notte. All’alba un servitore arrivò con un paio di stivali, nuovi, appena ingrassati e della sua misura. «Il mio signore vi ordina di accettarli, mi ha raccomandato di dirvi che da qui all’abbazia la strada è più lunga senza buoni stivali e che vi consiglia di tornarci.»

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Fortunio intese l’avvertimento, accettò comunque il dono e chiese di ringraziare l’ospite, ma il servitore sostenne che non si trovava al castello. Un’ora dopo era già lontano e non sapeva liberarsi dalle suggestioni che quell’avventura aveva risvegliato. “Sirene dolci fino a procurare la rovina…” ripeté con Boezio, un altro dei doni di Guglielmo che aveva letto e riletto e conosceva a memoria.

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II Fortunio sognò se stesso, ma senza vedersi, come guardasse dalla prospettiva dello sguardo. Seguiva due figure dai contorni sfumati, tratteggiate con gesso bianco su un’oscurità densa, che procedevano di schiena e conversavano ignare. L’una aveva grandi ali di angelo, non sapeva tuttavia se fosse maligno, l’altra invece, con il saio, era sicuramente lui stesso. Le raggiunse, toccò la spalla dell’angelo e sobbalzò. Aprì gli occhi ed era ancora buio, in lontananza si sentivano i lupi, ma non c’era nessuno, o così sembrava. Era tuttavia improbabile che lo straniero gli avesse creduto, provabile invece che volesse capire dov’era diretto e che le sue spie fossero abili a occultarsi. Si ripromise di non farsi più vincere dal sonno. La luna rischiarava i ruderi che aveva trovato per trascorrervi la notte, erano abbastanza ampi, come un fortilizio, ma non somigliavano a costruzioni che conosceva. In molte parti il tetto era crollato e non vi erano nemmeno pareti, solo resti di mura e pietre sbriciolate. In altre invece le pareti stavano in piedi senza niente che le sorreggesse; avevano scale che non portavano da nessuna parte, si aprivano ad arco o a forma di porta, una porta aperta sul nulla. Quando era arrivato, uno di quegli archi incorniciava la luna, sembrava tendersi al cielo come un supplice dalle mani congiunte, inducendolo a fermarsi. Aveva trovato rifugio in un angolo riparato, scoprendo che non era il solo a esservi giunto. Il posto era coperto da un tetto di frasche, vi erano resti di un bivacco, ma non era importante, da lì poteva osservare l’arco e la luna. Si avvide che nella copertura di frasche c’era uno squarcio, il cielo si distingueva chiaramente, forse la neve era caduta da lassù. Asciugò il viso e si pose a sedere. Era bagnato di sudore e agitato, non gli piacevano i suoi sogni, non gli piaceva ricordarli, temeva di liberarli e ritrovarli al risveglio. L’arco intanto era tornato un rudere, abbandonato dalla luna, era teso senza speranza verso il cielo, come un angelo dalle ali rotte, e gli sfiorava il corpo con la sua ombra. Si accorse che adesso incorniciava la direzione da cui era giunto, la stessa che superato il borgo portava all’abbazia, là dove era stato certo di finire i giorni fidando nella promessa del vescovo. Si era anche illuso d’ingannare l’abate, compiere il viaggio e tornare

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all’abbazia, invece era stato ingannato. L’abate l’aveva lasciato partire per coglierlo da solo e finalmente liberarsi dal reietto che aspirava ai voti. Ma perché era tanto deluso? Forse perché quell’uomo gli ripeteva di considerarlo un figlio? Lo diceva, certo, ma poi non perdeva occasioni per ricordargli chi era e un giorno al borgo gli aveva pure indicato suo padre. «Vedi quell’uomo?» gli aveva detto «ha sette figli, tu saresti stato l’ottavo, ma sei nato male. A un bifolco serve gente sana, ti ha gettato in un fosso perché eri inutile, a cosa saresti servito con quella gamba? Poi si è pentito e per non bruciare all’inferno ti ha portato all’abbazia, ma all’inferno brucerà lo stesso.» Fortunio aveva guardato l’uomo senza vederlo, perché la rivelazione aveva fatto troppo male. «Avevi il viso incrostato di sangue, per la caduta credo, e quella cicatrice è il marchio di tuo padre» aveva continuato l’abate lungo la via «senza di me saresti morto e io non ti ho dato solo un tetto e una tavola, ma nutrimento alla mente. Magari farò di te un membro della nostra famiglia, sì, forse, ma in cambio esigo obbedienza, dedizione e studio, perché solo così nobiliterai la tua anima rozza.» Lo diceva con tono asciutto, ma senza cattiveria. All’abbazia gli aveva pure dato pane, miele e una carezza, intanto gli aveva marchiato l’anima, continuando a segnarla con la proibizione di giocare con i ragazzi del borgo. “Perché altrimenti la tua anima rozza tornerebbe alle origini.” Per tale motivo, da adulto, Fortunio si era spinto al borgo, tra la gente in cui era nato, che lo considerava già frate e lo amava. Lui non amava nessuno, ma per tutti si prodigava, aveva necessità di provare a se stesso di essere caritatevole, votato al bene, di aver guarito l’anima da quegli esseri che si affidavano alla stregoneria e soffocavano nella preoccupazione di sopravvivere. Voleva ascendere tra i puri di cuore, trovare la suprema felicità nella levità dello spirito, ma il rancore persisteva, e il ribrezzo. Era nella sua natura non saper guardare né avanti né dentro a se stesso, sapeva solo vedere il passato, accusarlo e viverlo come si ripetesse all’infinito. Riprese il viaggio che nevicava, l’alba sorgeva e vi erano sempre gli stessi toni di bianco, nessun altro, spie o viandanti che fossero, e nemmeno animali. Continuava a indossare i vecchi calzari, pur sapendo che il cammino sarebbe stato meno faticoso con gli stivali, ma era turbato. Il dono era stato un modo per allettarlo o tranquillizzarlo, di ciò era ben consapevole, tuttavia ne era ugualmente sbigottito, perché vi rispondeva l’unico periodo felice della sua vita.

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Tutto era iniziato con l’arrivo di Federico, il figlio del conte, pochi giorni dopo la rivelazione dell’abate su suo padre. Fortunio, che allora aveva nove anni, sfidando i divieti, andò a trovare l’infermo ogni giorno, ma all’inizio lo osservò di nascosto, con diffidente stupore. Quel ragazzino stava peggio di lui, cieco e anche muto, era un essere inutile, un fatto che la nascita non poteva cambiare, eppure ciò non bastava a renderli simili. Fortunio continuò nella diffidenza finché l’infermo ne avvertì la presenza, allora gli parlò, tanto era muto, non poteva denunciarlo all’abate. Presto si accorse invece di essere ascoltato e infine, il giorno che l’abate quasi lo sorprese, Federico gli fece segno di nascondersi sotto il suo letto. Quel giorno Fortunio gli raccontò di se stesso, non per consolarlo, piuttosto per consolare se stesso, lo inorgogliva avere un tale compagno di sventura. «…ma anche se la gamba è più corta, non ne ho fastidio, posso persino arrampicarmi sugli alberi, voi ne siete capace, mio signore?» «Sì, sono capace, ma puoi chiamarmi Federico.» Furono le prime parole dopo settimane e Fortunio ne fu così fiero da correre ad avvertire l’abate. Seguirono mesi in cui credette di aver trovato il suo piccolo dio in terra. Al riparo dell’amico tutto divenne lecito, nulla proibito, o così lui riteneva, scoprendo che era l’età, non l’anima rozza, a essere insofferente alle regole. Un’amicizia tuttavia che nel tempo si era adombrata. Federico frequentava sempre meno l’abbazia, spesso trascorrevano mesi senza che Fortunio ne avesse notizie e quando si rivedevano, la differenza di condizione, di sentimenti, che si palesava con crudezza sferzante nella sana giovinezza dell’amico, per Fortunio era barriera invalidante. Non sentiva di ricevere la gratitudine che a suo parere gli era dovuta e gli capitava di pensare come sarebbe stato se Federico non fosse mai guarito, se lui avesse continuato a essere i suoi occhi, la sua voce. Poi era accaduto, i suoi occhi, la sua voce, erano rimasti nel ricordo. «Ti ho portato gli stivali che mi avevi chiesto» gli disse quando partì «ma puoi tenerli?» «Sì, certo… no, non potrei tenerli, ma li nasconderò. Ti ringrazio, Federico, con questi mi sarà più facile camminare.» Quegli stivali da desiderio profano si erano presto trasformati in un pegno d’amicizia che tuttavia, una volta scoperto, l’abate non aveva compreso: “Tu hai il demonio nel cuore!” A quel tempo gli era parsa la più ingiusta delle offese, anche perché la notizia della morte di Federico era stata incrudelita dal divieto di partecipare ai suoi funerali. L’abate aveva disposto così e Fortunio era stato l’unico dell’abbazia a subire il divieto, l’unico oltre ai servi. Adesso

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tuttavia pensava che quelle parole fossero state un ammonimento, perché il demonio prendeva le anime disperate e le assaliva dov’erano più fragili. Si arrestò e gettò gli stivali alle sue spalle, senza guardarli, poi corse via. A tarda mattina, appena smesso di nevicare, sentì qualcuno avvicinarsi, ma stavolta non si fece cogliere impreparato, riuscì a risalire il bosco che costeggiava il sentiero e nascondersi dietro a una roccia. Pochi istanti e apparvero molti cavalieri, facevano da scorta a carrozze da viaggio e carri coperti, procedevano lentamente e avevano le insegne dei Lechfeld. Per meglio vedere, si sporse oltre la roccia puntellandosi con le gambe, ma forse a causa di quella più corta o per l’instabilità del terreno, perse la presa e rotolò giù, proprio sotto gli zoccoli di un cavallo, costringendo il gruppo a fermarsi. «Ma sei scemo!» «Sono caduto da lassù» rispose Fortunio rialzandosi «non sono scemo!» «A giudicare dalla faccia, è sua abitudine cadere!» Non seppe chi pronunciò quelle parole, sentì solo le risate di tutti. «Che succede?» chiese un uomo sopraggiunto al galoppo «perché vi siete fermati?» Fortunio lo riconobbe nell’istante in cui l’uomo riconobbe lui. «Ma non sei il frate tu?» «Sì, no, ma… sì, sono Fortunio» rispose a Balduino, capitano delle milizie di Ermanno. «E che fai qui?» Fortunio non poté rispondere, vide una donna avvicinarsi. Era piuttosto giovane, ma il viso, forse anche bello, non aveva nulla che lo facesse spiccare, e i capelli, i cigli troppo chiari, contribuivano a rendere incolore l’incarnato diafano. A Fortunio apparve di un baluginio malinconico, come quello di certe Madonne che invece di infiammare la fede, rendevano evidente l’artificio della posa e percepibile la fredda materia di cui erano composte. Giungendo improvvisa tuttavia, la giovane lo indusse a mostrare il profilo sano. «La contessa vuol conoscere il motivo della sosta» disse la giovane a Balduino fermando uno sguardo incuriosito su Fortunio, il quale pensò immediatamente a Matilde. Era impossibile che la contessa citata fosse lei, però le insegne erano dei Lechfeld. «Chi è costui?» chiese la giovane. «Un fra…» rispose Balduino. «Mi chiamo Fortunio, mia signora, e sono in viaggio da giorni» precedendo il capitano. Per lui, dinanzi all’assurda eventualità di rivedere Matilde, essere ancora un laico fu la cosa più importante.

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«È costui il motivo della sosta?» la giovane a Balduino. «Sì, mia signora, per poco non finiva sotto un cavallo» rispose Balduino «che ci fai qui?» Fortunio avrebbe potuto formulare la stessa domanda, sapeva infatti che Goffredo aveva cacciato il capitano, ed era impaziente; che significavano quelle insegne? «Forse è meglio portarlo dalla contessa Adelaide» considerò Balduino poiché lui non rispondeva. «La contessa Adelaide? La madre del vescovo Guglielmo? Io sono qui per lei!» proferì Fortunio deluso e sollevato insieme. Poi si accostò all’orecchio di Balduino. «Mi manda il vescovo, ho una lettera molto importante da consegnarle» aggiunse a bassa voce affinché nessun altro potesse ascoltare. L’entusiasmo tuttavia si spense ai primi passi. La giovane lo precedeva, ma dal lato in cui il suo viso era rovinato, Fortunio se ne ricordò, come anche che zoppicava, incrociandone lo sguardo turbato, che si riabbassò repentino e si affrettò verso la carrozza. «Non mi aspettavo di incontrare la contessa» riprese lui con Balduino «ho risparmiato un sacco di strada.» «Ha saputo della morte del conte e ha deciso di ritornare. Immagino che il vescovo voglia comunicarle questa notizia, ma perché ha mandato te?» «Il vescovo è morto.» «Morto! Anche lui?» Fortunio annuì in silenzio, avevano raggiunto la carrozza. Adelaide era in attesa con la portiera aperta. Il volto in penombra era ornato da un velo per coprire i capelli, le mani, prive di guanti, rugose, segnate da venuzze e macchie brune, erano molto curate e fregiate ciascuna di un anello. Evidentemente la giovane le aveva già parlato di lui, congetturò Fortunio, e poté anche immaginare in che termini di ribrezzo. «Ti ha mandato Guglielmo, mi hanno detto, e dov’è lui?» lo aggredì subito la contessa, senza nemmeno invitarlo a salire nella carrozza, dove si trovavano un prete, più giovane dell’abate Anselmo, stimò Fortunio, e una dama di mezza età. «Ho dovuto sapere della morte di suo fratello da estranei!» continuò la contessa e si sporse nervosamente, mostrando un volto da anziana ma forte e deciso. «Mia signora… vostro… il vescovo purtroppo… è morto…» balbettò Fortunio. Adelaide tornò alla penombra e rimase a fissarlo muta.

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«Morto» mormorò poi «come?» «Io non lo so, mia signora, posso dirvi solo quello che ho visto» rispose Fortunio e riferì del ruscello, dell’assenza di vestiti, della lingua mozzata. «È stata quella canaglia, ci giurerei!» proferì Balduino «si è liberato dell’unico che poteva mettere in pericolo la sua reggenza!» «Andate via!» intimò Adelaide. Il prete e la dama scesero dalla carrozza e si allontanarono insieme alla giovane e al capitano. «E tu entra!» disse a Fortunio. Il giovane obbedì e sedette di fronte ad Adelaide, che eretta, la mano destra poggiata su un bastone dal pomello d’argento, l’altra su uno scaldino, iniziò a scrutarlo. Sul volto increspato aveva le stesse macchie brune delle mani, gli occhi erano di vivace smeraldo ma arrossati e appesantiti dalle palpebre, la bocca invece era appena una linea più scura e scavata da solchi, come minuscole cicatrici. Nell’insieme dava l’idea di bellezza agonizzante. «Dunque, Guglielmo avrebbe mandato te, ma tu chi saresti?» «Fortunio, mia signora, vivo nell’abbazia prossima alla Rocca dei Lupi…» «Ah, un monaco di Anselmo? E perché quei cenci? Che hai alla gamba? Che ti è successo al viso?» Domande che sconcertarono Fortunio. Come poteva la contessa preoccuparsi di lui, quando le aveva appena annunciato la morte di un altro figlio? Pur con riluttanza, fece un rapido riassunto su se stesso e tornò al compito affidatogli. «Il vescovo mi ha precisato di fidarsi solo di me, mia signora, e mi ha incaricato di consegnarvi questa lettera.» «Voglio ogni dettaglio» asserì Adelaide, poi batté il bastone sul soffitto e la marcia riprese. «Mia signora» terminò Fortunio il racconto «non sarei mai voluto essere messaggero di una simile notizia, ma voi gli renderete giustizia.» L’espressione dell’anziana signora tuttavia continuava a stupirlo, poiché non mostrava il dolore che si sarebbe atteso da una madre come lui la mitizzava. Fino a quel momento aveva voluto credere che fosse stato il padre a decretare la sua condanna, ma la contessa, all’apparenza così indifferente alla vita spezzata che pure aveva generato, distruggeva l’immagine di tenerezza che lui aveva della madre e gli diceva che forse anche lei aveva assistito senza lacrime al suo sacrificio.

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«Sì, è caduto in mano a senzadio» asserì intanto Adelaide «che il Signore li maledica, e con l’aiuto dell’Altissimo li troverò.» «No, mia signora, non sono stati balordi, questo posso affermarlo con certezza! Io non so cosa sia successo, però so che il vescovo non si è affidato all’abate Anselmo, ha scelto me, e perché? Mia signora, io credo che l’abate sappia qualcosa sulla sua morte!» e tornò a raccontare della reticenza e dell’incendio con maggiori particolari. «Ragazzo mio, io conosco quella mummia. Anselmo è un coniglio, la sua reticenza è solo timore che vi siano problemi per sé e per la sua abbazia. E anche Guglielmo lo conosceva, probabilmente non lo avrà ritenuto adatto.» «E l’anello allora? Ecco, vedete, è di gran valore, ma i balordi non glielo hanno rubato, perché?» «Non è affare che riguardi te.» «Mia signora, io non voglio apparire irrispettoso, ma mi è capitato d’incontrare uno straniero che…» «Questo non è affare che riguardi me. Tieni pure l’anello, è la tua ricompensa.» «No, non voglio ricompense! Il vescovo è stato buono con me e io…» «Allora tienilo per suo ricordo!» si spazientì Adelaide, batté sulla portiera e arrestò la marcia «lasciami.» Fortunio discese mortificato. Pochi istanti dopo, al riprendere della marcia, temette di essere lasciato in mezzo al nulla, senza possibilità di tornare all’abbazia e ancora in balia dello straniero. «Che fai ancora lì? Salta su un carro, trovati un posto» lo soccorse invece Balduino. FINE ANTEPRIMACONTINUA...