Il quarto stato 1 2 definitivo

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IL QUARTO STATO dedicato a Nenni e Rosselli N°1 - 2016 a cura di Marco Piscetta

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IL QUARTO

STATO dedicato a Nenni e Rosselli

N°1 - 2016

a cura di Marco Piscetta

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Direttore Responsabile: Mauro Pompili Sede: via Gianmatteo Giberti, 6/a 00151 - Roma Hanno collaborato a questo numero: Lorenzo Capo Favilli, Laura Fincato, Paolo Maddalena e Mauro Pompili TIPOGRAFIA: Eta Beta - Ps Registrazione al Tribunale di Roma n. 5 del 21.01.2016

IL QUARTO STATO

dedicato a Nenni e Rosselli

N°1 - 2016

a cura di Marco Piscetta

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“Le crisi delle società ormai esauste e la loro fine si annuncia sempre con lo sfacelo morale. Così le civiltà antiche. Così Atene e Roma. Così la Chiesa romana e avignonese nel medioevo prima della Riforma. Così nei tempi moderni e contemporanei la monarchia, la nobiltà...”

(Pietro Nenni)

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Indice

Italia - Libano. 2000 anni di incontri. (Mauro Pompili) pag. 5

Sudamerica: un diario tra Argentina, Uruguay, Cile. (Laura Fincato) pag. 13

Falso in bilancio – reato valutativo. Il reato di falso in bilancio… è falso. (Lorenzo Capo Favilli) pag. 21

L’Enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco. Riflessi giuridici. (Paolo Maddalena) pag. 31

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Italia – Libano 2000 anni di incontri

Mauro Pompili

BEIRUT. Per le strade di Beirut o nelle

chiacchiere dei bar si sentono spesso alcune

espressioni che alle orecchie di noi italiani

non passano inosservate.

“Tutte le strade portano a Roma” o “È

tutta colpa degli italiani” sono tipiche

nell’intercalare libanese. La prima, nota un

po’ in tutto il mondo, risale senz’altro ai

tempi della conquista romana. Le origini della

seconda le rivela la storica e archeologa

libanese Nina Jidejian “Non si riferisce

all’idea degli italiani di piazzare semafori

nelle vie della nostra città, provocando il

caos, bensì al bombardamento italiano del

febbraio 1912 contro la flotta ottomana alla

fonda nel porto di Beirut.”

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Il linguaggio comune testimonia le

relazioni profonde tra Italia e Libano, due

paesi centrali nella storia dei popoli del

Mediterraneo, stretti da un legame antico.

Dall’egemonia fenicia nei traffici marittimi

alla conquista romana, dalle colonie fondate

dalle Repubbliche Marinare nel Medio Evo ai

costanti rapporti commerciali tra i due paesi.

Un rapporto che ha segnato anche un

periodo fondamentale della storia del Libano.

Tra il 1500 e il 1600 l’Emiro Fakhr al-Dīn II

unificò il Paese contrastando l’impero

ottomano, i suoi rapporti con il Granducato

di Toscana erano stretti e influenzarono la

storia e la politica del Libano, ispirando le

riforme sociali, l’arte e l’architettura del

lungo regno di Fakhr al-Dīn II.

“Siamo simili, ci piace divertirci e

mangiare – dice Ragda Husseini, giornalista

che ha studiato in Italia – siamo disordinati e

casinisti, ma senza essere troppo arroganti.

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Combattiamo quotidianamente con una

burocrazia farraginosa, che costantemente

tentiamo di aggirare, e soprattutto abbiamo

in comune molto della nostra storia e cultura

millenaria.” Una somiglianza che si avvicina

alla fratellanza e alla solidarietà. “In tanti

momenti difficili della storia recente del

Libano gli italiani ci sono stati vicini. L’Italia

è per noi un Paese occidentale che sentiamo

fratello, che non dobbiamo temere come la

Francia che ci ha dominato o gli USA guidati

sempre dai loro interessi geopolitici ed

economici. Il rispetto che sentiamo verso

l’Italia non è dettato dalla paura, ma dalla

stima e dalla similitudine, pensiamo sempre

che tra i nostri due paesi sia possibile trovare

un accordo, un compromesso.”

Momenti difficili che sono durati lustri,

come i quindici anni della guerra civile che

dal 1975 al 1990 ha sconvolto il Paese.

Durante quella lunga tragedia, racconta

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Antonio Righetti che dal 1976 lavora

all’Ambasciata d’Italia, gli aiuti umanitari del

nostro Paese sono arrivati a tutte le comunità

attraverso tutti i confini eretti dalle fazioni in

lotta. Inoltre, la nostra Ambasciata fu l’unica

occidentale a non chiudere mai.

“Nel 1982 avevo dieci anni – ci dice

Hussein Gandour, un palestinese del comitato

del campo rifugiati di Burj al-Barajna a Beirut

– quegli uomini con le buffe piume

sull’elmetto bianco che giravano per i vicoli

del campo di Shatila parlando con i

comandanti ci mettevano quasi allegria.”

Quegli uomini erano i bersaglieri italiani

arrivati in Libano in una missione

multinazionale per garantire l’uscita dal

Paese dei militanti dell’OLP e dei soldati

siriani, sulla base di un accordo raggiunto con

Israele che aveva occupato Beirut. “Con gli

italiani partirono anche mio padre e mio zio,

restammo soli e pochi giorni dopo l’orrore,

quello che restava della mia famiglia

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massacrato dai Falangisti dentro il campo.

Quando gli italiani tornarono per proteggerci

non riuscivamo più ridere.”

Durante la guerra civile le due missioni

militari italiane contribuirono a rafforzare i

legami, ma è soprattutto nella cessazione

delle ostilità tra Libano e Israele nel 2006 che

l’Italia diventa protagonista.

“L’impegno italiano in alcuni momenti

fondamentali della storia libanese è stato

positivo - dice ancora Ragda Husseini – penso

alle due missioni militari durante la guerra

civile e al ruolo avuto per raggiungere

l’armistizio con Israele nel 2006.”

La guerra d’agosto con Israele, 34 giorni

che portarono alla morte di circa 2.000 civili

alla distruzione delle infrastrutture del Paese,

si concluse con un armistizio e una

risoluzione dell’ONU fortemente voluti

dall’’Italia. Da allora i nostri militari sono

impegnati nella missione UNIFIL che

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controlla il confine e garantisce il rispetto

degli accordi.

“La missione – dice Andrea Tenenti,

portavoce di UNIFIL – non si limita

all’interposizione, ma svolge un compito di

mediazione. Grazie a UNIFIL si è realizzata

una camera di compensazione per controllare

le tensioni. Una prova recente è stata la

gestione del tragico incidente del 28 gennaio

scorso (la morte di un peackeeper spagnolo

sotto i colpi israeliani in reazione a un attacco

di Hezbollah ndr).” Da nove anni più di

10.000 militari di tutto il mondo vigilano su

uno dei confini più caldi del pianeta,

relazionandosi alle forze politiche, a quelle

militari e alla popolazione locale. “Una delle

armi della missione – continua Tenenti – è il

buon rapporto con le istituzioni locali,

politiche e religiose, e con la popolazione. Il

contingente italiano si contraddistingue

proprio per la sua capacità di relazione, di

rispetto della cultura e delle tradizioni. La

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vicinanza dei due popoli ci aiuta, mentre il

personale di altri paesi a un approccio più

tecnico e distante. Quando al comando della

missione c’era il Generale spagnolo Asarta

Cuevas i pattugliamenti del territorio erano

più problematici.”

Un impegno costante e importante quello

italiano in UNIFIL, lo testimonia la presenza

di più di 1.000 uomini e la guida, quasi

esclusiva, della missione. La crisi economica e

i cambiamenti del nostro panorama politico

hanno, finora, avuto uno scarso peso sulle

responsabilità che l’Italia si era assunta in

quell’estate del 2006.

La solidarietà e la somiglianza da sole non

bastano a spiegare sia questo impegno, che

pesa sulle casse del nostro Stato, sia la visione

positiva che i libanesi hanno del Belpaese. A

queste si somma una solida collaborazione

economica. Dal 1976 al 2008 l’Italia è stata il

primo partner commerciale del Paese. Nel

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2014, secondo i dati forniti dall’ICE, l’Italia

con un export di 1.645 milioni di dollari si

piazza al secondo posto dietro la Cina,

precedendo Francia, Germania e Stati Uniti.

“Non si deve negare – dice Tenenti – che

la difesa degli interessi economici ebbe il suo

peso nella scelta di avere un ruolo di primo

piano nella missione dell’ONU.”

Storia, politica ed economia sono i fili che

tessono la ragnatela dei rapporti tra i due

paesi. Fili che sembrano intrecciarsi nel

centro di Beirut, intorno ai resti delle terme

romane, dove nelle vetrine regnano le firme

della nostra moda e sono tenti gli uffici

commerciali e i ristoranti italiani.

Manifestazioni della vitalità di un legame

antico come il Mediterraneo.

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Sudamerica: un diario tra Argentina,Uruguay,Cile

Laura Fincato Ottava volta in Argentina, terza in

Uruguay, quarta in Cile non posso negare che amo questo Sudamerica tanto europeo e così distante, raggiunto con un viaggio aereo lungo: niente in confronto a quanto (mesi) un tempo veniva impiegato dalle navi dei migranti italiani. Centinaia di migliaia di poveri cristi, di famiglie lacere e affamate, di contadini di terre allora povere, il mio Veneto ma anche tanto Sud, si imbarcavano per terre assai lontane, per la Merica Merica, che non era quella del nord, peraltro difficile e dura, ma per quella assai più distante e sconosciuta ma anche più facile, per via di una accoglienza meno discriminante e perché, in fondo, i conquistadores erano stati gli spagnoli.

Questo mio ultimo tour, ultimo nel senso del tempo, non della occasione (conto di

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tornarci l'anno prossimo), è stato di conferma del fascino di queste terre, della loro bellezza fisica e della forza, della comprensione della loro identità ma ancora una volta la conferma di tante contraddizioni, non risolte, di un progresso nello sviluppo della democrazia un po' lento, secondo i nostri parametri e tale da non far svolgere a questi Paesi un ruolo da protagonisti nel panorama mondiale.

L'Argentina ha appena mandato a casa la Presidenta Cristina (li si chiamano per nome) che non voleva lasciare e, costretta, aveva provato prima con il figlio poi con una controfigura che si è schiantata, al ballottaggio, contro Mauricio Macri, terza generazione di calabresi.

Primo atto di Macri: licenziati sui due piedi 2000 gnocchi (espressione non culinaria ma del malgoverno clientelare: gente a libro paga della Presidenza senza far altro che ritirare lo stipendio a fine mese).

Su Macri ci sono le speranze di una Argentina che si è liberata con il voto dei peronisti ma riuscirà a liberarsi del peronismo questo Paese così grande, variegato nella sua

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natura splendida di laghi, ghiacciai, Ande, pampa sterminata e vuota, Patagonia, oceano e Fin du mundo, terra del fuoco, canale di Beagles, Missiones ed estancias gesuitiche, vigneti, milioni di vacas e milioni di corderos, parrilla a gogò e tango, una capitale che vorrebbe essere Parigi, i capitali portati per paura in Uruguay?!?!

Quando arrivi a Punta de l'Este, un brevissimo volo (ci si arriva anche in battello, traversando quello che pare mare marron, ma è Rio de la Plata) ti trovi a scoprire che vi sono più argentini che uruguagi a riempire le vie di negozi ma soprattutto ad utilizzare innumerevoli banche, finanziarie e ad abitare belle ville ed appartamenti in fronte all'oceano. Un Paese tranquillo, anche qui con un nuovo Presidente, eletto dopo quello che si e' presentato in vespino al giuramento, che ha rinunciato all'appannaggio e ha vissuto sempre nella sua modesta casa. Vedremo il successore.

Campagna ben tenuta, cavalli, mucche, un turismo ricco ed in crescita ma con rispetto

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dell'ambiente. Sono forti questi Uruguagi, pochi, tre milioni, con un sistema di trasporti, scolastico, sanitario, sociale misto: molto privato ma il minimo pubblico garantito. Montevideo, la loro capitale, dove risiede la metà della popolazione (immaginate dunque quanto vuoto e' il resto) non può essere citata tra quelle da assolutamente visitare, anzi, ma corrisponde in fondo alla tradizione europea.

Una ulteriore notazione, politico/storico/sociologica: mai visto un non bianco, per dirla politically correct, una persona di razza diversa da quella caucasica. Emigrazione dalla Spagna, direttamente, poco da altre realtà europee poiché l'attrazione era da parte della enorme Argentina ed un po' del Cile, senza schiavi per lavorare i campi, senza autoctoni indios, fanno di questo Paese un esempio di non necessaria integrazione. Forse per questa assenza di melting-pot un po’ sonnacchioso e lento, tranquillo ma noiosetto!!!

Forte, duro, resistente e' il Cile, nella sua

terribile conformazione fisica, Ande che lo

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spingono verso un oceano difficile, pericoloso, con terremoti che lo squassano in continuazione, piccole scosse e tremende catastrofi. Gente splendida come il loro Paese, questi cileni, combattenti le avversità' naturali, difensori dell'ambiente, green anche alla ricerca di una dimensione di sviluppo che mantenga, protegga, aiuti la natura: montagne dalle cime irraggiungibili, vulcani ancora vivi, ghiacciaio (campo de jelo) che taglia in due il Paese e lo tiene distante dalla Argentina (fu il famoso Perito Moreno, da cui il nome del ghiacciaio, a fissare i confini ma continuarono le scaramucce, se non la guerra ed ancora si guardano in cagnesco argentini e cileni), saline e deserto al nord, isole tante e lontane, da Chiloe' a Pasqua, salmoneras...

Ordinati, silenziosi, determinati... europei ma anche molti nativi, andini scuri che si individuano tra i biondi di origine tedesca (vi sono luoghi che hanno chiese bavaresi, birrerie e meleti estesi), gli italiani, molti dalla Liguria (qui si arrivava, diversamente che in Argentina, con contratti che rendevano possibile la acquisizione gratis della terra).

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Lungo tanti kilometri questo Cile, con una costa frastagliata battuta da venti ed onde, stretto e la sua gente è forgiata per resistere alla natura matrigna e alle cattiverie degli uomini.

Non piace ai cileni affrontare con gli stranieri la storia della dittatura, sono riservati e pudichi. Gli Argentini invece non ne parlano perché forse non vogliono ricordare quegli aerei dove i generali facevano imbarcare i giovani, gli oppositori di Videla, gli intellettuali, per aprire i portelloni e farli inghiottire dalle acque. La memoria è tenuta viva dalle nonne che cercano di rintracciate almeno nipoti, che furono sottratti ed adottati dai golpisti torturatori. Le madri di Plaza de Mayo ancora combattono, sempre più vecchie, ma coscienza critica di un Paese che non ha mai voluto condannare i militari perché, in fondo, erano solo il peronismo in divisa.

Al cimitero monumentale della Recoleta vi è la tomba di Evita. Sono andata a visitarla perché, e questo è un tema indiscutibile, quella donna era ed è' sentita come una

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grande protagonista argentina, ben al di là del marito e di ogni valutazione politica sul peronismo (di allora).

Vi sono fiori freschi come fiori freschi sono davanti al monumento a Santiago di Salvador Allende. Emozionante deporre un garofano rosso per salutare il martire socialista che non si arrese se non al bombardamento de La Moneda. Ancora più sconvolgente leggere migliaia di nomi dei desaparecidos e la loro data di nascita. Giovani, giovani che non hanno potuto vivere, massacrati senza pietà, torturati, scomparsi: nomi a migliaia scolpiti in un alto e lungo muro, il prezzo e la testimonianza di una fede e la memoria della atroce dittatura di Pinochet.

Per me, che portai, alla vigilia del referendum, un 8 di marzo, il saluto a Ricardo Lagos, in prigione, e alle studentesse che celebravano la festa della donna, il ricordo di tante botte e dei gas per stanarci dalla sala. Partecipai allora e fui vittima di violenza, piccola in confronto a quanto pativano i cileni e questo mi onora ancora così come mi commuovo al ricordo di Allende che, prima di

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morire, dedicò le ultime parole al suo Paese bellissimo e fortissimo.

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FALSO IN BILANCIO - REATO VALUTATIVO IL REATO DI FALSO IN

BILANCIO …. E’ FALSO

Lorenzo Capo Favilli Sul reato di falso in bilancio la V

Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata con due sentenze diametralmente opposte in merito al falso valutativo. Con la sentenza 890/2016 la Corte ha affermato la sussistenza del reato di falso in bilancio ove le valutazioni delle attività, o delle passività, siano sopravvalutate, o sottovalutate, con dolo. Con la sentenza 6916/2016, invece, ha ribaltato la precedente sentenza, depenalizzando i falsi estimativi, nella considerazione che il legislatore, con la L. 69/2015, ha eliminato dagli artt. 2621 e 2622 del codice civile l’inciso: ancorché oggetto di valutazione. La questione, pertanto, è stata

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rinviata alle Sezioni unite della tessa Cassazione e verrà discussa il 31 marzo 2016.

Le norme di cui agli originari articoli 2621

e 2622 sono certamente quelle che hanno subito maggiormente le pressioni delle lobby e tali articoli sono stati sostituiti dai seguenti: 2621, 2621- bis, 2621-ter e 2622. Queste nuove norme, proprio per l’intrusione delle lobby, risultano molto pasticciate e, proprio per l’eliminazione dell’inciso relativo alle valutazioni, hanno dato origine a interpretazioni contrastanti e alle due sentenze sopra indicate.

La sentenza 6916/2016 è manifestamente

errata; infatti, il nuovo art. 2621 cod. civ. dispone: “gli amministratori ….. i quali ….. nei bilanci ….. consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ….. sulla situazione ….. finanziaria della società ….. in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti …..”. Quindi, sopravvalutando o sottovalutando i beni dell’impresa scientemente e volutamente,

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cioè con dolo, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore è reato, perché altera in modo significativo il risultato di bilancio e la situazione finanziaria della società. Lo stesso principio è affermato anche nel novellato art. 2622, con riferimento alle società quotate in borsa. Inoltre l’art. 2423 dispone: “Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio”. Ma il bilancio non risulta veritiero se le attività e/o le passività sono state artatamente esposte con dolo perché, per effetto di queste manipolazioni, la situazione patrimoniale, economica e finanziaria risulta fortemente alterata. Ancora l’art. 2426, al n. 8, recita: “ I crediti devono essere iscritti secondo il valore presumibile di realizzazione” e ciò perché il fine principale della norma è quello di informare i terzi, cioè gli utilizzatori del bilancio, sulle reali condizioni economico-finanziarie della società, al fine di orientare correttamente le loro scelte operative, in modo consapevole e

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responsabile (v. sentenza 890/2016, pag. 10). Infine l’art. 2433 cod. civ. 2^ comma, dispone: “Non possono essere pagati dividendi ….. se non per utili realmente conseguiti …..”. Questa norma, dettata per le società per azioni, è valida per ogni altro tipo di società e per gli imprenditori in genere. Ora, se una società sopravvaluta le attività e svaluta le passività con dolo, può distribuire utili non conseguiti, con la conseguenza che, se distribuiti, potrebbe incappare nei rigori degli articoli 216 e 218 della legge fallimentare; l’art. 216, infatti punisce l’imprenditore che ha falsificato le scritture contabili, mentre l’art. 218 punisce gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori che ricorrono al credito, dissimulando lo stato d’insolvenza e spesso, proprio gonfiando le attività o sgonfiando le passività, si ottengono i finanziamenti bancari. Concludendo, si può sicuramente affermare che, in base alla legislazione vigente, è previsto il reato valutativo, anche se dagli originari articoli 2621 e 2622 sia stato

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espulso l’inciso: “ancorché oggetto di valutazione”.

Entrambe le sentenze citate, però, sono errate perché basate sugli articoli 2621 e 2622 del codice civile che giurisprudenza e dottrina concordemente ritengono che regolino il reato di falso in bilancio. Questi due articoli, in realtà, sia nella stesura originaria, che nella attuale, disciplinano la presentazione in assemblea dei soci, per l’approvazione, di un bilancio falso, non disciplinano il reato di falso in bilancio, come ho già sostenuto in diverse pubblicazioni e ribadito il 22 dicembre 2015, in occasione della presentazione presso la sala stampa della Camera dei Deputati del mio libro “CRISI”. Dunque, in Italia esistono bilanci falsi, ma non esiste il reato di falso in bilancio. Insomma il reato di falso in bilancio, così come è attualmente ritenuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina, è falso, cioè non esiste. Per inciso, va anche chiarito che gli amministratori non presentano in assemblea per l’approvazione un bilancio, vero o falso che sia, ma un progetto di

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bilancio, che diventerà bilancio solo con l’approvazione da parte dell’assemblea. Peraltro il progetto di bilancio che loro presentano è già un documento falso e, quindi, gli articoli citati non disciplinano questo reato. Ma chi lo ha commesso? Gli amministratori? Forse!, Ma può averlo commesso anche un professionista del tutto estraneo alla società, o può esservi stato anche un concorso nel reato, tra amministratore e professionista (Codice Penale, artt. 110-119). Ma in cosa consiste questo reato? Certamente non nella comunicazione all’assemblea di un progetto di bilancio falso.

Pertanto un progetto di bilancio falso (o,

come erroneamente dice il legislatore, un bilancio falso) non diventa falso per effetto della sua presentazione in assemblea per l’approvazione; un progetto di bilancio falso è già falso. Ciò significa che questo reato è stato commesso a monte, falsificando le scritture contabili, comunemente note come artifizi contabili. Ho individuato quattro

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gruppi di tali artifizi: a) artifizi contabili stricto sensu, che consistono nelle scritture che alterano il risultato di bilancio, ma che non costituiscono valutazioni dolose delle poste di bilancio; appartengono a questo gruppo l’omissione di attività o passività, l’omissione di costi o ricavi; l’inserimento di attività, passività, costi e ricavi inesistenti o contabilizzati in misura diversa; b) la sopravvalutazione e la sottovalutazione di attività o passività che alterino in modo significativo il risultato di bilancio; c) gli artifizi contabili posti in essere da società sovranazionali. Ho ritenuto opportuno evidenziare separatamente questi artifizi sia per la loro complessità, sia perché vengono compiuti normalmente da più società che operano spesso in paradisi fiscali, sia perché si possono scoprire solo con la collaborazione di organi di più Stati; d) falsa rappresentazione della situazione finanziaria di un’impresa. Supponiamo che una società abbia un grosso credito a lunga scadenza e che lo esponga in bilancio tra i crediti a breve, o un’altra società che abbia un grosso debito a breve e che lo

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esponga tra quelli a lungo termine. In entrambi i casi il risultato di esercizio non cambia e non sono state alterate le scritture contabili, per cui i loro bilanci sono veri e reali, ma i loro bilanci espongono una liquidità fittizia; entrambe queste società possono fallire proprio per mancanza di liquidità e il loro fallimento dovrebbe comportare anche quello degli amministratori, dei direttori generali, dei sindaci e dei liquidatori (il legislatore ha dimenticato i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari), perché con la loro azione hanno cagionato il dissesto della società (art. 223 legge fallimentare, reato di bancarotta impropria da reato societario). Mentre tutti gli artifizi contabili, esclusi quelli relativi al falso valutativo, evidenziano chiaramente il loro scopo di falsificare i dati di bilancio e, pertanto, si configurano sempre come reato, le valutazioni, invece, atteso il loro carattere soggettivo, per essere false occorre che le attività e/o le passività siano erroneamente valutate con il preciso scopo (elemento

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psicologico) di alterare il risultato di esercizio. In pratica occorre che oltrepassino determinate soglie previste dal legislatore, il quale, però, rimane vincolato ai principi contabili internazionali, IAS/IFRS. Comunque, artifizi e valutazioni menzognere sono operazioni tutte che hanno, come necessaria ed imprescindibile conseguenza, la redazione di un progetto di bilancio falso, destinato a divenire, con l’approvazione dell’assemblea dei soci, un bilancio falso. Gli artifizi contabili, visti sotto questo angolo visuale, l’unico possibile, non solo rendono, de jure condendo, l’istituto del falso in bilancio perfettamente razionale, ma hanno anche come diretta conseguenza che le pene da comminare al reo saranno certe e semplici da applicare.

Per ragioni di completezza faccio, infine, le

seguenti precisazioni:

a) Per aversi un bilancio vero, occorre introdurre la contabilità per l’inflazione;

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b) Va abolita la differenza tra falso in bilancio di pericolo e falso in bilancio di danno; il falso in bilancio è sempre un reato unico, ma va graduata la pena;

c) De jure condendo il reato di falso in bilancio va inserito nel codice penale;

d) Gli artt. 2621 e 2622 del cod. civ., eliminata la condizione di ingiusto profitto a favore dell’autore e/o di terzi, andrebbero unificati quale unico reato di false comunicazioni sociali.

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L’Enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco. Riflessi

giuridici

Paolo Maddalena

1. La grandezza di questa straordinaria

Enciclica, che ha il fine precipuo di offrirci una visione del mondo in contrasto con l’attuale immaginario collettivo, si nota già nella scelta del filo conduttore dell’intero discorso: la bellezza. Se ne parla all’inizio (par. 1), ricordando “la casa comune come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia”, e se ne riparla frequentemente, come quando si ricorda che “suolo, acque, montagne, tutto è carezza di Dio” (par. 84), o quando si afferma che “Dio ha scritto un libro stupendo, le cui lettere sono la moltitudine delle creature presenti nell’universo” (Par. 85).

Sappiamo che definire “intellettualmente” la bellezza non si può. Lo aveva detto Kant

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qualche secolo fa e lo si deve ribadire anche oggi, nell’imperante relativismo filosofico secondo il quale è bello ciò che piace a ciascun individuo, indipendentemente da qualsiasi canone o regola estetica.

Ciò non ostante, se non è possibile una

definizione concettuale, è certamente possibile affermare che il bello è certamente qualcosa che “si percepisce” in modo intuitivo da parte di ogni uomo. Lo conferma il fatto che l’educazione alla bellezza non può essere espressa in un manuale, ma solo attraverso la contemplazione stessa di ciò che è bello. D’altro canto, è intuitivo anche il concetto opposto alla bellezza: la bruttezza, che deve essere intesa come la percezione di una mancanza di bellezza, o un accumulo di imperfezioni, che suscita indifferenza o dispiacere e genera una percezione negativa dell’oggetto. La scelta di Papa Francesco di mantenere la bellezza come punto fermo di riferimento ha dunque anche un significato, per così dire, di comunicazione diretta. Tutti infatti sono in grado di distinguere il “bello”

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dal “brutto”, trattandosi di una scelta intuitiva e non intellettualistica.

Tuttavia, se la bellezza la si percepisce

intuitivamente, ciò non significa che non si possa definire quale cosa possa essere “oggetto di bellezza”. E qui è da porre in evidenza che per la nostra cultura occidentale (Aristotele, Platone, Vico, Kant) il “bello” esiste “nella natura” e “nell’arte”. Nella Critica del giudizio Kant definisce il “bello naturale” come il “bello d’arte” e il bello d’arte come il bello di natura. Insomma gli oggetti di un “giudizio” di bellezza possono essere la Natura nel suo complesso e l’attività artistica dell’uomo.

A questo punto, considerando il “bello” (che proviene da una intuizione) come oggetto di una riflessione intellettuale, ci si accorge che c’è un elemento comune nei caratteri di qualsiasi cosa noi definiamo “bella”: è “l’armonia” tra le varie componenti dell’oggetto e tra l’oggetto e il contesto naturale nel quale l’oggetto si trova. E, a questo proposito, è puntuale il richiamo

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dell’Enciclica a S. Francesco d’Assisi: “Egli manifestò un’attenzione particolare verso la creazione di Dio e verso i più poveri e abbandonati. Amava ed era amato per la sua gioia, la sua dedizione generosa, il suo cuore universale. Era un mistico e un pellegrino che viveva in semplicità e in una meravigliosa “armonia” con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso” (par. 10).

L’armonia, come agevolmente si capisce, è espressione,nel campo del “bello”, di un principio universale che governa il mondo e l’universo intero: “l’equilibrio”. Qualità che riguarda, sia il mondo naturale, sia il mondo delle attività umane. Equilibrio, armonia, bellezza, appaiono, dunque, come concetti strettamente connessi, per cui si può capire perché taluni studiosi hanno parlato di bellezza, non solo per la natura e per l’arte, ma anche per le forme di governo, le strategie, i modelli matematici e così via dicendo. D’altro canto quante volte noi stessi abbiamo detto “questo articolo è bello, questo libro è bello”, per dire che si tratta di un’opera ben fatta, che segue i criteri della logica e che

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raggiunge i fini che l’autore si era proposto di perseguire. Anche a questo proposito, sono puntualissime le affermazioni di Papa Francesco, che richiama, insieme, “l’armonia”, gli “equilibri naturali” e le “leggi di natura”, che dell’armonia e dell’equilibrio sono la massima espressione.

L’Enciclica osserva infatti che “la legislazione biblica si sofferma a proporre all’essere umano diverse norme, non solo in relazione agli altri esseri umani, ma anche in relazione agli altri esseri viventi: se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti. Quando, cammin facendo, troverai sopra un albero o per terra un nido d’uccelli con uccellini o uova e la madre che sta covando gli uccellini o le uova, non prenderai la madre che è con i figli (par. 68). Ed è sempre la legislazione biblica “che ha cercato di assicurare l’equilibrio e l’equità nelle relazioni dell’essere umano con gli altri e con la terra dove viveva e lavorava”, ponendo in evidenza che “il dono della terra con i sui frutti appartiene a tutto il popolo”(par.71).

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Se i concetti di equilibrio, armonia, bellezza investono l’universo intero, esprimendosi nelle leggi di natura, non si può fare a meno di ricordare, nel contesto su cui andiamo riflettendo, che tutto l’universo non è immobile, ma scorre nello spazio e nel tempo, mentre tutti gli esseri viventi nascono, crescono e muoiono sempre rinnovando la loro specie. Insomma, se ne deve dedurre, come diceva

Platone, che “questo mondo è davvero un essere vivente dotato di anima”, o, se si preferisce, che la Natura è essenzialmente “vita”. Del resto, la parola “natura” deriva dal participio futuro del verbo “nascor”, e significa, dunque, ciò che nasce, nel momento in cui nasce, e, quindi, la vita. Altrettanto è da dire per la parola greca “fusis”, che significa “natura”, e viene dal verbo “fuo”, che significa generare, per cui “natura” è ciò che viene generato, considerato nel momento in cui è generato, e, dunque, significa vita. Ed è sintomatico che l’Enciclica “Laudato sì” si concluda proprio con un inno alla vita, osservandosi che “la persona umana tanto più

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cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da se stessa “per vivere” in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature” (par.240), osservandosi ancora che “la vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati” (par. 243).

Eppure questa “madre bella”, continua Papa Francesco (par. 1 e par. 2), “protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi”.

Sull’onda di questo grido di dolore, l’Enciclica passa a considerare le cause di questo abuso e di questo saccheggio. “Osservando il mondo notiamo che questo livello di intervento umano, spesso al servizio

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della finanza e del consumismo, in realtà fa sì che la terra in cui viviamo diventi meno ricca e bella, sempre più limitata e grigia, mentre contemporaneamente lo sviluppo della tecnologia e delle offerte di consumo continua ad avanzare senza limiti” (par. 34).

L’Enciclica continua su questa via con delle affermazioni di grandissimo rilievo. Essa sottolinea che “la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana”. (par.189). E’ arrivato il momento di opporsi decisamente “all’idea di una “crescita infinita o illimitata”, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la “menzogna” circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a spremerlo fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che esiste una quantità illimitata di energia e di

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mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti” (par. 106). D’altro canto, sottolinea Papa Francesco, “i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente … oggi qualunque cosa che sia fragile come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta” (par.56).

Al contrario, incalza Papa Francesco, “dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un “dominio assoluto” sulle altre creature …. i testi biblici si invitano a “coltivare e custodire” il giardino del mondo … custodire vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare” (par. 67).

Di qui la grande e innovativa affermazione secondo la quale “quando parliamo di

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ambiente facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra natura e la società che la abita”. Questo non deve farci “considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, “siamo parte di essa” e ne siamo compenetrati”. (par 139). “La relazione originariamente armonica tra essere umano e natura si è trasformata in un conflitto. Per questo è significativo che l’armonia che S. Francesco d’Assisi viveva con tutte le creature sia stata interpretata come una guarigione di tale rottura” (par. 66).

Alla luce di questi fondamentalissimi principi, l’Enciclica entra poi direttamente anche nel campo giuridico, affermando che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il “diritto di proprietà privata”, e ha messo in risalto la “funzione sociale” di qualsiasi forma di proprietà … Dio ha dato la terra a tutto il genere umano perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno … non sarebbe veramente degno dell’uomo un tipo di sviluppo che non

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rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli …. la chiesa insegna che su ogni proprietà privata grava sempre “un’ipoteca sociale”, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha dato loro” (par. 93). Di conseguenza, “l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti” (par. 95).

Sempre sotto il profilo giuridico, Papa Francesco, dando molto risalto al concetto di “comunità”, sia che si tratti di quella che noi chiamiamo “comunità biotica”, sia che si tratti di quella che noi chiamiamo “comunità politica” o Stato, sottolinea con molta chiarezza che “sono funzioni inderogabili di ogni Stato quelle di pianificare, coordinare, vigilare e sanzionare all’interno del proprio “territorio”(par. 177), mentre le relazioni tra gli Stati devono salvaguardare la “sovranità di ciascuno” (par. 173). Per Papa Francesco, dunque, la “globalizzazione” riguarda solo la “transitabilità” dei confini e non fa venir meno l’idea stessa della “comunità politica”,

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cioè l’essenzialità dei Popoli e dei territori, e, quindi l’importanza “degli Stati nazionali”, “che, purtroppo, perdono potere a causa della dimensione economica finanziaria” (par.175). Né è da sottovalutare l’importanza che l’Enciclica dà alla “partecipazione” popolare(par. 181 e par.183) e alle “comunità locali”, nelle quali “possono nascere una maggiore responsabilità, un forte senso comunitario, una speciale capacità di cura e una creatività più generosa, un profondo amore per la propria terra” (Par. 179). In altri termini, secondo Papa Francesco “se riconosciamo il valore e la fragilità della natura, e allo stesso tempo le capacità che il Creatore ci ha dato, questo ci permette oggi di porre fine al mito moderno del progresso materiale illimitato”, ed alle sue conseguenti devastazioni ambientali (par. 77).

Dunque, ben diverso deve essere il comportamento che l’uomo deve mantenere verso la natura. Anzi si deve necessariamente ritenere che uomo e natura, agendo entrambi sul piano della soggettività, sono naturalmente stretti da un “patto” inviolabile

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secondo il quale il “dono” immenso che la natura fa all’uomo porgendogli, con i servizi ambientali, tutto ciò di cui ha bisogno, compreso il soddisfacimento dell’insopprimibile desiderio di “bellezza”, deve essere ricompensato dall’uomo, non solo con il rispetto della natura, ma anche e soprattutto con una sua completa dedizione alla cura e al benessere della natura stessa. E questo “patto”, come sottolinea papa Francesco, deve consistere in una “conversione ecologica”, che deve avvenire riconoscendo “il mondo come dono ricevuto dall’amore del Padre con l’amorevole sicurezza di “non essere separati dalle altre creature”, ma di formare una “stupenda comunione universale” (par. 191). E se si tiene conto che oggi la terra è abitata da settemilioni e duecentomila abitanti, e che la stessa, come hanno affermato gli scienziati, dal 2 agosto 2012 non è più in grado di rigenerare quanto noi consumiamo, appare evidente che in queste parole di papa Francesco deve scorgersi un invito a quella che noi chiamiamo “decrescita”.

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Occorre cambiare gli “stili di vita”. Si deve respingere il “consumismo”, si deve, in ultima analisi ristabilire un “equilibrio” tra l’azione dell’uomo e la vita di tutti gli altri esseri viventi.

2.

Il problema, a questo punto diventa necessariamente giuridico. Ci si deve chiedere, infatti, quali devono essere i comportamenti che l’uomo deve seguire per ricompensare la Natura dei suoi immensi doni. E qui la risposta non può non essere che quella di un “giusnaturalista”, fondata, cioè, sul “diritto naturale”, al quale Papa Francesco riserva tanta rilevanza. Infatti, non è chi non veda come una risposta data secondo i criteri del “positivismo giuridico”, oggi degradato a “nichilismo giuridico”, non avrebbe senso, per il semplicissimo fatto che il positivismo toglie alla natura ogni valore e ritiene che l’uomo può fare tutto ciò che vuole, purché obbedisca a leggi emanate secondo particolari procedure preventivamente stabilite.

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Insomma, è inevitabile rivolgersi al “diritto naturale”, secondo il quale il comportamento dell’uomo deve essere indiscutibilmente conforme alle “leggi di natura”, poiché soltanto queste consentono alla natura e all’opera dell’uomo di esplicitarsi nella “bellezza”, che appare come supremo valore da conservare e proteggere.

E si deve sottolineare a questo punto che l’antica diatriba tra positivismo e giusnaturalismo è stata risolta dal costituzionalismo moderno del secondo dopoguerra, che ha dato nuovo impulso al giusnaturalismo, inserendo nelle Costituzioni europee il valore della natura e dell’arte. Lo afferma esplicitamente l’art. 9 della nostra Costituzione, secondo il quale “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e storico della Nazione”, mentre l’art. 33 della stessa Costituzione sancisce che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Né è da sottovalutare il fatto che l’art. 117, del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione, novellato con legge costituzionale n. 3 del 2001, ha assegnato alla

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potestà legislativa esclusiva dello Stato le materie dell’“ambiente, ecosistema e beni culturali”. Il “giusnaturalismo”, dunque, è entrato a pieno titolo nella Costituzione e la “bellezza”, che si esprime nella natura e nell’arte, è da ritenere, dunque, a sua volta, “valore costituzionale”.

Nel giusnaturalismo costituzionale (anche se taluno lo nega) risiede, a nostro avviso, la “bellezza” della nostra Costituzione: infatti, il dar rilievo, non solo al “lavoro” umano, considerato il “fondamento” della Repubblica, ma anche al paesaggio, ai beni artistici e storici, all’arte e alla scienza, nonché all’ambiente, all’ecosistema e ai beni culturali in genere, vuol dire che la Costituzione stessa pone in “equilibrio”, e quindi in “armonia” tra loro, il valore uomo e il valore natura, considerando entrambi indispensabili per lo “sviluppo della persona umana” e il “progresso materiale e spirituale della società” (art. 3 e art. 4 Cost.). Oggetto di regolamentazione, in altri termini, è la “vita nel suo complesso”, che, come sopra si notava, è la massima espressione della “bellezza”. E a

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questo punto non si può sottacere che la “bellezza” della quale è ammantata la nostra Costituzione deriva anche da quella che è stata definita “l’etica repubblicana”, il fatto cioè che tutte le disposizioni costituzionali si ispirano ai principi di “libertà, eguaglianza e solidarietà” (“l’eguaglianza” soprattutto), principi che costituiscono, per così dire, l’asse portante del “bello” che si ritrova nella nostra Carta costituzionale.

Dunque, per ricompensare la Natura dei suoi immensi doni, la via è già tracciata: è scritta nella Costituzione, che è impostata secondo le linee di papa Francesco, poco sopra esposte, e che è, come si accennava, “equilibrata” e “armonica” e, quindi, “bella”.

3.

Vien fatto di chiedersi, a questo punto, come mai con una Costituzione così bella, armoniosa e equilibrata, ci troviamo in un mondo nel quale sono aumentati oltre i limiti della sostenibilità il degrado ambientale e le difficoltà di trovare un lavoro. Oggi, infatti, non c’è lavoro, ma disoccupazione, specie

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quella giovanile, e il “bello” in natura è sempre più raro e limitato.

La risposta è complessa, e anche molto amara e preoccupante: ci troviamo in questa situazione, poiché, per un verso il “sistema economico finanziario” è diventato un sistema “deviato”, e, quindi “squilibrato”, e per altro verso, specie nell’ultimo ventennio e a causa della subordinazione della politica alla finanza, si sono ammassate numerose leggi incostituzionali, che hanno avuto come scopo, non il perseguimento degli interessi generali, ma il perseguimento degli interessi particolari delle multinazionali e delle banche, ed hanno dato luogo a un confuso “ordinamento giuridico” del tutto “squilibrato”, che arreca danni incalcolabili all’ambiente e alla vita individuale e sociale.

Cominciamo dal sistema economico finanziario. Questo sistema, prima che Nixon, nel 1971, annunciasse la non convertibilità del dollaro in oro, era fondato sullo scambio di “beni reali”. Era un bene reale anche la moneta, poiché, dopo il Trattato di Bretton Wood del 1944, al quale noi aderimmo nel

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1947, tutte le divise del mondo occidentale erano convertibili in dollari, e questi erano convertibili nell’oro custodito nel Forte Knox. Sennonché, quando Nixon, come si è accennato, si accorse che erano stati stampati tanti dollari da superare tutto il corrispettivo in oro conservato dalla Banca Centrale Americana e decise la non convertibilità in oro anche del dollaro, venne a crearsi un altro tipo di economia, si passò in altri termini dall’”economia dello scambio” a quella che poi è stata denominata “l’economia della concorrenza”. Infatti, a quel punto, la moneta, non essendo più convertibile in un bene reale (l’oro) e avendo perso il suo valore intrinseco, divenne in sostanza un “titolo di credito”, più precisamente un “diritto cartolare di prelievo”, dalla ricchezza esistente, di una certa quantità di beni reali il cui valore corrispondesse a quello stampato sulla moneta. Importante divenne allora, non tanto acquistare beni reali, ma acquistare diritti di credito, con la conseguenza della “finanziarizzazione” dei mercati, nel senso che divenne più conveniente investire in “prodotti

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finanziari”, fatti valere come “titoli commerciabili” (in Italia vi provvide la legge n. 130 del 1999), piuttosto che in “attività produttive”. Insomma al tradizionale

percorso “finanza‐prodotto‐finanza” venne a

sostituirsi il percorso “finanza‐finanza”, il cui fine, ovviamente, non è quello di produrre “beni reali” e “occupazione”, ma quello di “raschiare” i beni esistenti in tutti i casi in cui i debitori non fossero in grado di pagare i loro debiti. A questo punto, paradossalmente, assunse valore il “debito”, poiché il rovescio del “diritto di credito” è, per l’appunto il “debito”, e la ricchezza di un individuo è venuta a misurarsi, non più con la quantità di moneta convertibile in oro, e, quindi, con i beni reali, che un determinato soggetto possiede, ma con la quantità dei “diritti di credito”, trasformati in “titoli commerciabili”, in possesso dello stesso soggetto. E non è da sottovalutare il fatto che, normalmente, i debiti vengono acquistati a basso prezzo, e che le “valutazioni” di mercato possono anche aumentarne il valore dei “titoli commerciabili” dei quali essi sono a

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fondamento, qualora si ritenga che si tratti di “debiti” certamente, o quasi certamente, esigibili.

A questo punto, come agevolmente si nota, i “giudizi” di mercato non sono più basati sulla previsione dell’andamento dei prezzi di determinate merci, in relazione alla loro “quantità” prodotta e disponibile (ad esempio, acquisto grano nel momento del raccolto quando ce n’è grande quantità e, per questo, il prezzo è più basso, e penso di rivenderlo durante l’inverno, quando la quantità del raccolto è diminuita e il prezzo, conseguentemente, si è innalzato), ovvero sulla previsione dell’esito positivo di un programma di investimento produttivo da parte di una certa impresa, ma sul “gioco e la scommessa”, che possono avere ad oggetto la previsione della “solvibilità” del debito (e questo avviene per i “derivati” e le “cartolarizzazioni dei crediti”), o la previsione di “vendere” tutti gli immobili acquistati per un prezzo corrispondente a quello della somma dei titoli commerciabili collocati sul mercato per raccogliere danaro prima della

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vendita degli immobili stessi (il che avviene con la “cartolarizzazione degli immobili”), o la previsione dell’aumento di valore di determinate aree a seguito della costruzione di una data opera pubblica (il che avviene con la collocazione in mercato dei “projet bond”), e così via dicendo. In tutti questi casi, il valore del “titolo commerciabile” non dipende più dalla quantità dei beni reali disponibili sul mercato, o da programmi di investimento nella produzione di beni, e in ultima analisi dalla legge della “domanda e dell’offerta”, ma dal verificarsi o non dell’evento sul quale si è scommesso, cioè, in buona sostanza, dal “caso”. Se il gioco riesce, l’operatore finanziario guadagna, ma, lo si deve sottolineare con forza, se il gioco non riesce, chi perde (è questo l’assurdo) non è l’operatore finanziario, ma chi ha acquistato i titoli commerciabili collocati sul mercato. In sostanza, si gioca, come dice Luciano Gallino, con i soldi degli altri, provocando molto spesso veri e propri disastri finanziari.

In questa maniera, si disancora il mercato dalla realtà dei beni concreti (materiali o

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immateriali che siano) e lo si ancora invece al rischio del gioco e della scommessa. Il dato più sconcertante è che questi “titoli commerciabili”, che sono rischiosi e non offrono sicure garanzie, sono espressione di una “ricchezza fittizia”, e più precisamente di una “ricchezza creata dal nulla”, che tuttavia il mercato accetta come espressione di una “ricchezza reale”, e sono usati come se avessero un “valore intrinseco”, sino al punto che una legge del governo Berlusconi, ispirata dal Ministro delle finanze Giulio Tremonti, ha concesso ai Comuni di “pareggiare” i loro bilanci anche con i “derivati”, cioè con titoli tossici ad altissimo rischio di insolvenza. In questi casi, come agevolmente si capisce, il crollo dei derivati provoca lo stato di insolvenza dei Comuni (e non è da dimenticare al riguardo anche il caso del Monte dei Paschi di Siena, ritenuta una banca troppo importante per fallire), con la conseguenza che a pagare siano gli incolpevoli cittadini che vengono costretti al pagamento di nuove imposte dei tipi più disparati.

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E’ evidente, a questo punto, come il “sistema economico finanziario” ha dato ingresso al mercato a una quantità enorme di titoli commerciabili che non hanno un valore reale, ma solo fittizio, creando uno “squilibrio” oramai incolmabile tra beni reali e beni fittizi (si parla di trilioni e trilioni di derivati in dollari e in euro) ed abbia posto tutte le premesse affinché la speculazione finanziaria possa arricchirsi agevolmente, scaricando sulla collettività le conseguenze nefaste del suo spericolato agire. Il risultato è stato la formazione di una classe di operatori economici e finanziari, che ha acquistato un potere immenso, accentrando la ricchezza nelle proprie mani e condizionando le scelte dei politici a proprio vantaggio e ai danni dell’intera popolazione. E’ la conseguenza diretta dell’affermazione di una teoria del tutto illogica, ma che ha saputo conquistare l’immaginario collettivo, il cosiddetto “neoliberismo economico”, secondo il quale l’unica forma di appartenenza è la “proprietà privata”, lo “stato sociale” deve essere abbattuto, l’”accentramento” della ricchezza

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nelle mani di pochi giova a tutti (Bauman ha risposto: “è falso”) e la “libertà del mercato” deve essere incondizionata.

4.

E’ inoltre da porre in evidenza che questa “deformazione” del mercato ha riguardato, non solo la “creazione dal nulla” di una “ricchezza fittizia”, ma anche l’affermazione, presto diffusasi nell’immaginario collettivo ad opera delle citate teorie neoliberiste, di una tendenza volta a portare tutto sotto il “giudizio dei mercati”. Ed è stato a causa di questa tendenza che nell’autunno del 2011 gli speculatori finanziari, in aperta violazione di tutti i trattati internazionali che tendono ad assicurare la stabilità dei prezzi, e senza che nessun governo si opponesse, hanno potuto attaccare i “debiti sovrani” e cioè di incidere sui “tassi di interesse del debito pubblico” dei Paesi da loro ritenuti economicamente più deboli. Questo attacco deve essere stato necessariamente concordato dagli speculatori, poiché, per quanto ci riguarda, sul finire del 2011 l’economi italiana era ancora in ottima

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salute ed è stata solo la firma e poi l’esecuzione del “fiscal compact” da parte del governo Monti (che si è inchinato ai voleri della “troica”) a gettarla nella “recessione” e poi nella “deflazione”, dalle quali, nella persistenza dell’attuale stato delle cose, è impossibile uscire. Non sfugge, infatti, che qui non si tratta di una crisi economica ciclica, ma dello”squilibrio” del sistema finanziario, causato dall’estrema libertà degli operatori economici, “squilibrio” che si potrebbe sanare solo con una nuova legislazione a livello internazionale, europeo e nazionale, che ponga limiti a questa estrema libertà dei mercati.

Inoltre, come si accennava, la situazione italiana è complicata dalla posizione dominante della Germania, la quale, impone agli Stati membri (Grecia e Italia in primo piano) una politica di “austerity”, che provoca recessione e miseria, mentre essa stessa, come gli altri Paesi del nord

Europa, mantiene indenne il suo Stato sociale e persegue una politica di investimenti produttivi, facilitata dal fatto che i mercati,

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ritenendo il suo debito pubblico agevolmente solvibile (eppure si tratta di due miliardi di euro, più o meno come il nostro debito pubblico) praticano su di esso un bassissimo tasso di interesse, con la conseguenza che in Germania è facile avere credito dalle banche, e, quindi, investire in attività produttive, che producono occupazione e benessere collettivo, mentre il contrario avviene nei Paesi del sud Europa, costretti alla recessione e alla miseria, come poco sopra si diceva.

Il fatto è che la Germania ha raggiunto, in anticipo sugli altri Paesi Europei, questa sua posizione di dominio economico, perché i suoi governi hanno sempre seguito una politica di interesse nazionale, anche a costo di violare gli impegni assunti in sede internazionale. Infatti, essa, per un verso ha pagato in minima parte i suoi danni di guerra, mentre ha fatto pagare a tutta l’Europa il costo della riunificazione tedesca, e, per altro verso, ha più volte violato i limiti posti dai Trattati Europei.

Quanto ai danni di guerra, questi erano stati valutati dal Trattato di Londra del 1953

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in 23 miliardi di dollari, che furono poi ridotti a 11,5 miliardi di dollari da pagare in 30 anni, somma che, con il benestare tra l’altro dell’Italia e della Grecia, non fu rivalutata e che fu pagata nel 2010 con il versamento di poco più di 69 milioni di euro, praticamente il costo di una ventina di appartamenti nel centro di Roma. Quanto alla riunificazione tedesca, è da ricordare che Kohl pose il principio “una sola Germania un solo euro”, per cui, mentre il rapporto tra il marco della Germania est e quello della Germania ovest era di 1 a 5, egli considerò entrambi di pari valore, imponendo però degli altissimi tassi di interesse per evitare l’inflazione, contagiando così le economie degli altri Paesi europei e in particolare la nostra, che si vide aumentare i tassi di interesse fino al 25%.

Quanto alla violazione dei Trattati europei, la Germania ha superato per quattro anni i limiti del 3% del deficit rispetto al PIL, imposti dal Trattato di Maastrich; ha violato il divieto di “aiuti di Stato” alle imprese, concedendo a queste altissime elargizioni da parte di una banca pubblica istituita molti

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anni prima in attuazione del piano Marchal; e infine ha nascosto il suo avanzo commerciale, che ha toccato l’8%, mentre, secondo i Trattati, esso non deve superare il 6% nel triennio. In questa maniera, la Germania ha mantenuto indenne il suo Stato sociale, è riuscita ad accattivarsi la simpatia dei mercati, i quali considerano il suo debito pubblico (che è quasi pari al nostro) un debito sicuramente solvibile e, quindi, soggetto a bassissimi tassi di interesse, ha potuto, in virtù di questa fiducia da parte dei mercati, investire in attività produttive capitali concessi a credito da parte delle banche e, conseguentemente, ha potuto mantenere un basso tasso di disoccupazione. Né deve essere sottovalutato il ruolo che ha svolto a favore dell’economia tedesca l’esistenza della moneta unica, e cioè di un “cambio fisso” tra i vari Paesi dell’Unione Europea, poiché, come è evidente, il cambio fisso ha impedito ai Paesi in condizioni economiche svantaggiate di svalutare la propria moneta per favorire le esportazioni, mentre la Germania, essendosi creata, nel modo che si è visto, un’economia

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più forte di quella degli altri Paesi europei, non ha avuto problemi nell’esportazione dei suoi prodotti.

5.

Diversamente dalla Germania, i governi italiani hanno invece sempre perseguito una politica poco ispirata agli interessi nazionali e decisamente favorevole ai poteri finanziari. C’è un dato importante che ha caratterizzato questa politica ed è il grande impulso che essa ha dato, dal 1990 in poi, al disastroso fenomeno delle “privatizzazioni”, le quali hanno immensamente impoverito il nostro Paese e hanno altresì fortemente contribuito alla affermazione della potenza del mercato globale. Sia ben chiaro che “privatizzare” i beni, le aziende e le industrie italiane, significa impoverire le nostre risorse economiche e, fatto questo importantissimo, eliminare il collegamento tra beni, aziende e industrie con il “territorio”, poiché, come è evidente, un bene intestato non più allo Stato o a un Ente pubblico territoriale, ma a un privato cittadino, specie se si tratta di un

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cittadino straniero, significa porre tutte le premesse affinché quel bene giri per il mondo secondo la volontà del suo proprietario, come suol dirsi, “si delocalizzi”, producendo, in Italia, licenziamenti, disoccupazione e miseria.

La triste storia del nostro impoverimento comincia con una lettera del febbraio 1981 con la quale il Ministro delle finanze Beniamino Andreatta comunicava al Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi che il Tesoro rendeva autonoma la Banca d’Italia e, soprattutto, la scioglieva dall’obbligo di acquistare i titoli del debito pubblico italiano rimasti invenduti sul mercato. Fu un fatto gravissimo. Infatti, da quella data lo Stato, per pareggiare le proprie spese, non ebbe altra via se non quella di rivolgersi al mercato, sottoponendosi ai “tassi di interesse” che questo imponeva, tassi di interesse che furono la causa prima dell’innalzamento del nostro “debito pubblico”, e cioè del nostro impoverimento, cui si collegava l’aumento di potere dei mercati sull’andamento della nostra economia.

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Il secondo passo fu compiuto dal Ministro del tesoro del Governo Andreotti, Giuliano Amato, il quale nel 1990 pensò di “privatizzare” le banche italiane pubbliche o di interesse nazionale, privatizzando così anche la Banca d’Italia (che oggi è formata da 50 banche private con a capo Unicredit e Banca Intesa). In tal modo l’organismo pubblico che dovrebbe difendere la nostra moneta è caduto nelle mani di banche private, le quali, ovviamente, gestiscono il tutto, non nell’interesse nazionale, ma nell’interesse delle banche stesse, e, quindi, del mercato in generale.

L’attacco proditorio all’economia italiana fu consumato, tuttavia, il 2 giugno del 1992 sulla nave Britannia, il panfilo della regina D’Inghilterra, che aveva gettato l’ancora a Civitavecchia, dove salirono a bordo i nostri politici, tra i quali Draghi, e, come sembra, Prodi e Tremonti, insieme al Presidente dell’IRI Bernabé e molti altri esponenti dell’industria italiana. Su quel panfilo, i nostri rappresentanti incontrarono un centinaio di esponenti finanziari specie britannici e

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decisero la “privatizzazione” dei gioielli italiani. Così il governo italiano, presieduto da Giuliano Amato, privatizzò le Aziende di Stato: Enel, Eni, Iri, e le industrie di Stato Alitalia e Pirelli. Seguirono poi infinite altre privatizzazioni e ora l’Italia si trova nello Stato che sappiamo.

E non si può nascondere che abbiamo toccato l’assurdo con il governo Berlusconi, il quale, con il decreto legislativo n. 85 del 2010, istitutivo del cosiddetto “federalismo demaniale” ha reso “vendibili”, e quindi “privatizzabili” i “demani” idrico, marittimo, culturale e minerario, nonché, con altre numerose leggi, ha, per così dire, “messo all’asta” gli immobili pubblici statali, regionali e comunali, consentendo la “svendita”, specialmente a stranieri, anche di veri e propri monumenti artistici e storici, come la “Zecca” di piazza Verdi a Roma e la famosa Casina Valadier del Pincio sempre a Roma. Ma sono stati venduti anche tratti di spiaggia e interi territori di incantevole bellezza.

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Così, è bene ripeterlo, i nostri governi hanno impoverito l’Italia e arricchito gli speculatori finanziari, aumentando la potenza dei mercati. E questa politica, è inutile nasconderlo, è stata proseguita ed è in atto anche dall’attuale governo Renzi.

Si deve comunque osservare che le “privatizzazioni” dei beni e dei demani pubblici italiani, molto lodati dalla “troica” e dalla Germania (che si guarda bene dall’effettuarle nel suo Paese), sono anche una diretta conseguenza della deviazione del sistema economico finanziario, che, come si è visto, tollera il “debito pubblico tedesco”, ma non tollera il “debito pubblico” italiano o Greco, poiché, essendo prevalsa l’idea che l’Italia non offre “adeguate garanzie” e che pertanto deve “tenere i conti a posto”, non c’è altra via per gli amministratori pubblici per tentare di “pareggiare i bilanci”, se non quella di vendere i nostri gioielli, e cioè i nostri beni di maggior pregio e di più esaltante bellezza. E’ da sottolineare, inoltre, che la politica dei governi italiani non si è fermata alle “privatizzazioni”, ma ha anche in mille modi

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favorito la “devastazione” del territorio italiano. Sempre per fare cassa si sono concesse permessi di costruire ovunque, sulle spiagge, sugli alvei di fiumi e torrenti, sui terreni coperti da boschi e foreste, e persino sui vulcani, specie da quando una legge ispirata da Bassanini ha consentito ai Comuni di destinare gli oneri urbanistici anche a spese correnti. Né di può dimenticare che le leggi emanate nell’ultimo ventennio, dalla legge obiettivo di Berlusconi fino allo Sblocca Italia di Renzi, per favorire le imprese e le multinazionali, hanno concesso una enorme quantità di “deroghe” alle norme urbanistiche, fino a stabilire con la recente legge sulla riforma della pubblica amministrazione, che il principio del “silenzio assenso” si applica anche nei territori gravati da vincoli paesaggistici, urbanistici, idrogeologici e cosi via dicendo, mentre le Soprintendenze non sono più organi indipendenti, ma sono sottoposte alla vigilanza dei Prefetti.

Né si può dimenticare che, sempre per seguire le prescrizioni della “troica”, i governi

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degli ultimi anni hanno fortemente indebolito lo Stato sociale, “tagliando le spese” per la sanità, l’istruzione, la ricerca, la protezione dell’ambiente, e persino le spese per la sicurezza e la giustizia. Si direbbe che la politica italiana concorda con la politica della grande finanza, delle multinazionali e delle banche, le cui reali intenzioni sono rivelate dai contenuti del Trattato tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, di prossima attuazione, che prevede “l’immunità”, penale, civile e amministrativa, degli operatori economici e finanziari, come del resto già è stato fatto per il Meccanismo Europeo di Stabilità, organismo europeo che concede i prestiti agli Stati membri in difficoltà, i cui componenti e i cui archivi sono “immuni” da qualsiasi ingerenza dei giudici nazionali.

La tendenza, favorita dai nostri governi, è dunque quella di abbattere gli Stati nazionali per creare un mondo globalizzato, nel quale, come predica il “neoliberismo”, non esistono più “territori” o “Popoli”, ma uno “spazio libero”, nel quale si realizza l’obiettivo unico del “massimo profitto” degli operatori

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economici e finanziari, i quali possono agire con la massima libertà anche se le loro azioni di carattere economico finanziario producono distruzioni ambientali e veri e propri genocidi. Infatti, come prevede il citato Trattato transatlantico di prossima emanazione, essi sono indenni da qualsiasi responsabilità, anche penale. Insomma, stiamo camminando verso una configurazione del mondo in cui il “valore” della “Natura” è completamente calpestato e, con la Natura, è schiacciato anche il ”valore” dell’uomo inteso come essere vivente dotato di intelletto e volontà, mentre viene configurandosi il modello, cui mira l’ideale neoliberista, dell’uomo “auto imprenditore”, la cui attività deve essere rivolta all’accumulo del danaro e all’abbattimento di tutti vincoli che frenano questo tipo di attività.

A questo punto si capisce come e perché ci sia stato un travaso di ricchezza dagli Stati ai privati che agiscono nel mercato e perché “la ricchezza privata supera ora di 12 volte la ricchezza di tutti gli Stati del mondo”. La premonizione di Roosevelt, secondo la quale

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“una democrazia non è salda, se consente a uno dei suoi componenti di possedere una ricchezza maggiore di quella dello stesso Stato democratico”, si è verificata a livello globale e la conseguenza, che è purtroppo sotto gli occhi di tutti, specie dopo le recenti riforme costituzionali, è la fine della “democrazia”. Dal punto di vista giuridico, si può affermare che la “sovranità”, cioè la somma dei poteri da far valere in ultima analisi con la forza, è passata dagli Stati o dalle Unioni di Stati al “mercato”, e cioè alla “finanza”, la quale determina il livello dei prezzi e dei tassi di interesse e, di conseguenza, ha nelle sue mani la nostra vita e il nostro futuro.

6.

E’ urgente, dunque, correre ai ripari. E la soluzione è a portata di mano:si tratta di applicare la nostra Carta costituzionale, la quale è stata violata e addirittura vilipesa dalle sopra citate leggi in contrasto con gli interessi di tutti gli Italiani. Si deve in sostanza affermare che la “potenza” della

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“finanza” è come un gigante dai piedi di argilla, che si può senz’altro neutralizzare se, anziché andar dietro le inconcepibili teorie neoliberiste, si realizza lo “Stato sociale” che la Costituzione prevede, dando reale attuazione alle norme del Titolo III della I Parte della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”.

L’obiettivo fondamentale da raggiungere è far capire che l’arma di cui si serve la finanza per accentrare tutta la ricchezza nei mercati e indebolire gli Stati nazionali togliendo loro pezzi di demani e di estesi territori, è l’istituto giuridico della “proprietà privata”, la quale non è affatto quello “strumento acuminato” al quale è impossibile resistere, che la propaganda neoliberista vorrebbe far credere, ma è, in base alla Costituzione, un tipo di “appartenenza” subordinato all’”utilità sociale” e controbilanciato da un altro tipo di appartenenza che è la “proprietà collettiva del territorio”, che spetta al Popolo a titolo di sovranità.

Conviene innanzitutto mettere in evidenza che “in principio” non esisteva la “proprietà

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privata”, ma la “proprietà collettiva”, come inconfutabilmente ha dimostrato il Niebuhr sin dal 1811. Quando l’uomo branco, che viveva di caccia e di rapina combattendo altri uomini branco, divenuto più maturo, decise di diventare uomo “civile” e costituì la prima “Comunità politica”, intuì subito che nell’ambito dei tre elementi di cui la Comunità era costituita (Popolo, territorio e sovranità) un dato indefettibile era l’“appartenenza del territorio al Popolo”, a titolo di sovranità. Infatti, se, venendo ai tempi storici, si guarda alla fondazione di Roma, si vede subito che l’utilizzazione da parte dei singoli di piccole zone del territorio fu possibile solo a seguito di un atto sovrano del Popolo, la Lex centuriata o un plebiscitum, che era presupposto necessario della divisio et adsignatio agrorum, che questo uso consentiva. “La correlazione tra sovranità e appartenenza del territorio” fu mantenuta anche nel medio evo, quando la sovranità passò al Sovrano e si distinse tra “dominium utile” del coltivatore della terra e “dominium eminens” del Sovrano, e fu recisa

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solo dalla restaurazione borghese, quando il Tomalis diresse i lavori di compilazione del code civil del 1804 in base al principio “l’imperio al Sovrano, la proprietà ai privati”. Fu allora che avvenne una “cesura” tra proprietà collettiva del territorio e sovranità e si cominciò a parlare di “proprietà privata” come di un diritto originario, pieno e assoluto. La questione è stata, tuttavia ricomposta dalla nostra Costituzione, per la quale il “territorio” appartiene al Popolo a titolo di sovranità.

Ciò si ricava da una lettura letterale e logica dell’art. 42 Cost. Secondo questo articolo “la proprietà è pubblica e privata”. L’aggettivo “pubblica”, come da tempo rilevò Massimo Severo Giannini, significa “del popolo”, si tratta cioè di un’appartenenza riferita a tutti i cittadini e inerente, quindi, a “beni fuori commercio”, mentre l’aggettivo “privata” fa riferimento alla proprietà disciplinata dal diritto privato, che riguarda i beni “commerciabili” e può appartenere a qualsiasi soggetto, sia pubblico, sia privato. Lo conferma il seguito dell’art. 42, che così di

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esprime: “I beni economici (e cioè i beni commerciabili) appartengono allo Stato, a enti o a privati”. Si tratta, come agevolmente si nota, di “due tipi di proprietà”, caratterizzati da una ben diversa disciplina.

Quanto alla “proprietà privata”, è molto significativo quello che si legge nel secondo comma di questo stesso comma, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ei limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ ovvio che qui si parla solo della grande proprietà, cioè della proprietà dei beni che producono un’utilità esuberante rispetto ai bisogni strettamente individuali e familiari (che sono diritti fondamentali ai sensi dell’art. 2 Cost.) del proprietario privato e il limite che si pone è di grande importanza, poiché afferma che questo tipo di proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge solo e in quanto “assicura” il perseguimento della “funzione sociale”, con l’ovvia conseguenza che “il mancato perseguimento della funzione sociale” fa venir meno la “tutela giuridica” del

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bene stesso, il quale torna là da dove era venuto, cioè nella proprietà collettiva del Popolo, senza bisogno di esproprio e indennità di espropriazione. E’ un discorso questo di grande attualità, poiché riguarda un’immensità di industrie e terreni privati abbandonati che coprono migliaia di Km quadrati del nostro territorio senza essere utilizzati. E’ urgente che i sindaci promuovano adatte procedure per l’acquisizione di questi beni al patrimonio comunale e per la loro utilizzazione per fini sociali. Il Comune di Napoli, con due delibere approvate dalla Giunta comunale, si è già posto su questa strada. Dunque, in base alla nostra Costituzione, che è legge fondamentale della Repubblica, la “proprietà privata” non ha quella portata che il pensiero neoliberista vuol far credere ed esistono tutti i mezzi giuridici per ricomporre il grande “squilibrio” che si è verificato tra “proprietà del Popolo” e “proprietà dei privati”. Né si dimentichi che la ricostituzione dello Stato sociale comporta anche “un’economia mista”, nella quale le industrie di appartenenza del

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Popolo cooperano con i proprietari di industrie e aziende private. In tal modo si assicura anche ai giovani di poter accedere a concorsi, poiché “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”, come prescrive l’ultimo comma dell’art. 97 Cost., concorsi che, ovviamente, sono spariti con le “privatizzazioni”, le quali, tra l’altro, sono state operate in aperto contrasto con quanto prescrive l’art. 43 Cost., riguardo alle imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia e a industrie che possano dar luogo a situazioni di monopolio. Per dettato costituzionale, questi tipi di impresa dovrebbero essere in mano pubblica o di “Comunità di lavoratori o di utenti”. La loro privatizzazione, come anche la privatizzazione di una quantità enorme di imprese e territori, ha reciso il collegamento dell’attività produttiva con il territorio, e ha dato ingresso a licenziamenti di operai, lavori saltuari, “delocalizzazioni”, disoccupazione e miseria.

Da quanto sin qui esposto risulta inoltre evidente che la proprietà collettiva non solo

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ha una precedenza storica sulla “proprietà privata”, ma ha anche una “prevalenza costituzionale” sulla stessa, poiché la tutela giuridica del proprietario privato è subordinata al perseguimento della “funzione sociale”. Insomma è l’interesse pubblico, è l’interesse del Popolo che deve prevalere su quello dei privati e non viceversa, come oggi avviene. Lo conferma anche l’art. 41 Cost., secondo il quale “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. L’interesse pubblico, dunque, deve prevalere sul privato e sono illecite le “privatizzazioni”, poiché perseguono un fine opposto.

Un dato molto importante da porre in evidenza è che la titolarità della proprietà privata immobiliare non porta con sé il potere di edificare, il “ius aedificandi”, o di scavare nel sottosuolo, il “ius fodiendi”. Ciò significa che il Popolo sovrano, nel “cedere” a privati piccole zone del suo territorio, non ha ceduto il potere di “trasformare” il territorio stesso,

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né in superficie, modificando il “paesaggio”, né in profondità, modificando il sottosuolo, le falde acquifere e così via dicendo. Dunque, nel contrasto tra un privato che vuol costruire in base al suo diritto di proprietà privata, ed un cittadino che vuole impedirglielo in quanto comproprietario di una proprietà collettiva che spetta a tutti a titolo di sovranità, è quest’ultimo che si trova in posizione molto più forte, poiché esso fa valere, come “parte” di tutto il Popolo, un potere sovrano che il privato non ha.

7.

Dunque, per “riequilibrare” il grande “squilibrio” che si è verificato tra conservazione e valorizzazione della Natura e speculazione edilizia distruttiva dei suoli agricoli e della bellezza del paesaggio, è necessario far valere il “diritto collettivo di tutti” alla tutela dell’ambiente e del paesaggio” contro i sopraffattori di questi beni, che sono “beni comuni” in appartenenza di tutti.

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Per far sì che la “Natura” si esprima in tutta la sua “bellezza”, la Costituzione ci dà un efficacissimo aiuto, ponendo nelle mani del Popolo la possibilità di ricostituire un “equilibrio” sia del “sistema economico finanziario”, sia dell’”ordinamento giuridico”. Si tratta, in sostanza di abrogare le leggi illegittime sopra menzionate che stravolgono sia il sistema economico che quello giuridico e occorre soprattutto far capire all’immaginario collettivo la posizione subordinata che, nell’ordinamento costituzionale, occupa la “proprietà privata” rispetto alla “proprietà collettiva del Popolo”.

A questo fine, lo strumento giuridico che ci offre la Costituzione è quello della “partecipazione popolare”, che mai come oggi, nel comportamento anomalo dei pubblici poteri, ha assunto il valore di un vero e proprio “contropotere” per correggere gli errori dei governanti. E si badi bene che questo potere si esercita sul piano legislativo con la proposta di legge popolare (art. 71 Cost.) e con la richiesta di un referendum abrogativo (art. 75); sul piano amministrativo

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costituendosi davanti al responsabile del procedimento amministrativo come “portatori di interessi diffusi”, ai sensi della legge n. 241 del 1990; sul piano amministrativo e giudiziario facendo valere i poteri di cui all’ultimo comma dell’art. 118 Cost., secondo il quale: “Stato, Regioni, Città metropolitane, province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa di cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, in base al principio di sussidiarietà”.

E si badi bene che di un “contropotere” rispetto alle prescrizioni della “troica” dispone anche la Corte costituzionale, la quale può vietare l’ingresso nel nostro ordinamento di normative europee che violino i “diritti dell’uomo”. Si tratta della teoria cosiddetta dei “controlimiti”, affermata costantemente dalla stessa Corte costituzionale.

8.

In conclusione, può dirsi che il volontariato italiano, che è tanto attivo in tutti i campi, deve assumersi due importanti

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carichi: l’uno sul piano sociale, l’altro sul piano politico e giudiziario.

Sul piano sociale, l’obiettivo deve essere, in conformità a quanto si legge nell’Enciclica “Laudato sì”, quello della “decrescita”. Come sopra si accennava, gli scienziati hanno già detto che, a partire dal 2 agosto 2012, la Terra non è più in grado di “rigenerare” quanto viene consumato da 7 miliardi e 200 milioni di abitanti. E’ impossibile pensare che si possa andare avanti secondo gli schemi neoliberisti di uno “sviluppo senza fine”, essendosi ormai esaurita la capacità rigenerativa della Terra, e essendo sulla via dell’esaurimento anche le risorse non rinnovabili. Qui, come è ovvio, non ci sono ricette miracolose e la stessa tecnologia può esserci di aiuto solo fino a un certo punto. Il provvedimento da adottare è solo “il cambiamento degli stili di vita”, che significa evitare gli sprechi, incrementare l’agricoltura biologica e l’artigianato, gestire il turismo in modo accorto e consapevole, evitare completamente il consumo dei suoli agricoli

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con altre edificazioni, impedire le emissioni di gas tossici e così via dicendo.

Sul piano politico e giudiziario, anche questa volta in perfetta consonanza con L’Enciclica di Papa Francesco, occorre far capire che potremo salvarci da quella che viene chiamata crisi, abolendo la nostra sottomissione ai voleri della finanza (la quale si esprime soprattutto con le prescrizioni della BCE e del Fondo monetario internazionale, formati entrambi da banche private), ricostruendo lo Stato sociale, vietando le privatizzazioni, le delocalizzazioni e le liberalizzazioni, tutti strumenti micidiali che hanno come fine i guadagni delle multinazionali e l’impoverimento del popolo italiano.

E c‘è, infine, per riattivare l’economia, la necessità di un intervento statale nell’economia attraverso la realizzazione di una grande opera pubblica di risanamento dello “squilibrio” idrogeologico d’Italia, un’opera pubblica che diffonda ricchezza su una vasta platea di lavoratori, i quali certamente chiederebbero prodotti ai negozi,

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costringendoli a rivolgersi alle imprese, le quali, a loro volta dovrebbero, per necessità, assumere operai, ricreando così un circolo virtuoso. Ben altro che gli aiuti diretti alle imprese e alle banche, che si trovano, non alla base, come i lavoratori, ma alla fine del ciclo economico, e che certamente non ritengono conveniente investire i capitali ricevuti in attività produttive.

E’ questo che potrà far crollare il gigante dai piedi di argilla della finanza internazionale. E’ indispensabile, a questo fine, capovolgere l’immaginario collettivo, ponendo al centro dell’attenzione la “proprietà collettiva del territorio” e non la “proprietà privatala”; è necessario abrogare quel fiume di leggi incostituzionali che difendono gli interessi della finanza e non quelli del Popolo; occorre, in una parola, restaurare lo Stato sociale, che, secondo il pensiero di Papa Francesco, è da considerare come una “famiglia”, nella quale si evitano distorsioni e si distribuisce la ricchezza secondo criteri di assoluta “eguaglianza”.

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Se si riuscirà a cambiare l’attuale stato di cose, se gli Italiani sapranno far valere la loro intelligenza creativa e la loro integrità morale, potremo risalire la china e fare del nostro Paese un luogo nel quale domina l’armonia, l’equilibrio, la bellezza, la vita.

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Dedicato a Elena e Flavia. Grazie.

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