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IL PATRIMONIO ETICO ED IL COMPORTAMENTO DEI CONSUMATORI: IL CASO DEL FAIR TRADE TONINO PERNA Il Pil ed Il Patrimonio Nazionale Da alcuni decenni si discute, soprattutto nel mondo occidentale, se il Pil (prodotto interno lordo) sia ancora una misura affidabile della “Ricchezza delle Nazioni”, per usare la categoria usata da Adam Smith, il padre della economia politica. 1 Ormai molti dubitano che questo indice sintetico riesca a dare una misura reale della ricchezza materiale e che le stime sulla ricchezza nazionale vadano riviste ed integrate con altri parametri. La prima obiezione forte è stata quella che da diversi decenni portano avanti alcuni studiosi di matrice ecologista che hanno messo in evidenza come il Pil non tenga conto dei danni ambientali e sociali che la crescita economica determina. Anzi, questa schiera sempre più numerosa, di <<critici dello sviluppo>> 2 ha sostenuto la tesi che in questa fase dello sviluppo capitalistico spesso la crescita del Pil sia legata alla distruzione di risorse e quindi, in ultima istanza, ad una diminuzione della ricchezza reale di un paese. Gli esempi sono tanti: l’aumento degli incidenti stradali, degli incendi delle foreste, dell’inquinamento atmosferico che provoca nuove patologie, sono tutti fattori che fanno crescere il Pil. Anche il malessere delle popolazioni, il disagio psichico crescente nel mondo occidentale, fa crescere il Pil attraverso l’espansione dell’industria farmaceutica. Basti pensare, solo per fare un esempio, all’enorme e crescente quantità di Prozac (un farmaco antidepressivo) e Ritalin (un farmaco tranquillizzante) che ingeriscono ogni anno milioni di giovani negli Usa ed in Europa. 3 A queste critiche se ne deve aggiungere un’altra, più tecnica, che riguarda la definizione stessa di Pil. In tutti i manuali di economia la definizione di Prodotto Interno Lordo è la 1 Adam Smith fu il primo a teorizzare un concetto di ricchezza strettamente legato al valore della produzione, cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, ISEDI, Milano, 1973, (ed. orig. An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776. 2 Vedi, fra gli altri, i lavori di W. Sachs, S. Latouche 3 Si stima che negli Usa il 20 5 dei giovani sotto i vent’anni fa uso di questi farmaci, ed a questa percentuale si sta avvicinando anche alcuni paesi europei, tra cui l’italia che, soprattutto nelle regioni del nord, sta superando il dato nordamericano. 69

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IL PATRIMONIO ETICO ED IL COMPORTAMENTO DEI

CONSUMATORI: IL CASO DEL FAIR TRADE

TONINO PERNA Il Pil ed Il Patrimonio Nazionale Da alcuni decenni si discute, soprattutto nel mondo occidentale, se il Pil (prodotto interno lordo) sia ancora una misura affidabile della “Ricchezza delle Nazioni”, per usare la categoria usata da Adam Smith, il padre della economia politica.1 Ormai molti dubitano che questo indice sintetico riesca a dare una misura reale della ricchezza materiale e che le stime sulla ricchezza nazionale vadano riviste ed integrate con altri parametri. La prima obiezione forte è stata quella che da diversi decenni portano avanti alcuni studiosi di matrice ecologista che hanno messo in evidenza come il Pil non tenga conto dei danni ambientali e sociali che la crescita economica determina. Anzi, questa schiera sempre più numerosa, di <<critici dello sviluppo>>2 ha sostenuto la tesi che in questa fase dello sviluppo capitalistico spesso la crescita del Pil sia legata alla distruzione di risorse e quindi, in ultima istanza, ad una diminuzione della ricchezza reale di un paese. Gli esempi sono tanti: l’aumento degli incidenti stradali, degli incendi delle foreste, dell’inquinamento atmosferico che provoca nuove patologie, sono tutti fattori che fanno crescere il Pil. Anche il malessere delle popolazioni, il disagio psichico crescente nel mondo occidentale, fa crescere il Pil attraverso l’espansione dell’industria farmaceutica. Basti pensare, solo per fare un esempio, all’enorme e crescente quantità di Prozac (un farmaco antidepressivo) e Ritalin (un farmaco tranquillizzante) che ingeriscono ogni anno milioni di giovani negli Usa ed in Europa.3 A queste critiche se ne deve aggiungere un’altra, più tecnica, che riguarda la definizione stessa di Pil. In tutti i manuali di economia la definizione di Prodotto Interno Lordo è la

1 Adam Smith fu il primo a teorizzare un concetto di ricchezza strettamente legato al valore della produzione, cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, ISEDI, Milano, 1973, (ed. orig. An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776. 2 Vedi, fra gli altri, i lavori di W. Sachs, S. Latouche 3 Si stima che negli Usa il 20 5 dei giovani sotto i vent’anni fa uso di questi farmaci, ed a questa percentuale si sta avvicinando anche alcuni paesi europei, tra cui l’italia che, soprattutto nelle regioni del nord, sta superando il dato nordamericano.

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seguente: <<flusso di beni e servizi prodotto in un anno in una nazione, fermo restando il patrimonio>>. Vale a dire che il Pil è un flusso di ricchezza che non deve intaccare lo stock di risorse naturali e culturali possedute da un determinato paese. E qui viene il bello. Se la definizione è corretta, più complessa è la sua traduzione pratica nella contabilità nazionale. Se, per esempio, aumenta la quantità di legname che un paese produce il valore aggiunto di questa produzione non dovrebbe intaccare lo stock di alberi esistenti. Quanto meno bisognerebbe fare una sottrazione tra il numero di alberi tagliati a vantaggio dell’industria del legno e mobilio ed il numero di nuovi alberi piantati. Se, per fare un altro esempio, aumenta il tonnellaggio della pesca, bisognerebbe escludere che questo incremento abbia intaccato il patrimonio ittico. Ma, chi è in grado di fare una stima attendibile del patrimonio ittico? E poi, siccome la gran parte della pesca industriale avviene su acque internazionali, chi lo dovrebbe fare? Il risultato di queste difficoltà è che la contabilità del Pil che fanno i paesi ricchi quanto quelli poveri si basa su un assunto di invarianza nel patrimonio nazionale che non tiene conto della perdita di stock di risorse naturali. Si tratta, quindi, di una manipolazione statistica della ricchezza nazionale che può portare a risultati paradossali : la distruzione del patrimonio naturale, se venisse contabilizzata, può essere superiore alla crescita del Pil. Un determinato paese può avere la sensazione che si sta arricchendo mentre di fatto si sta impoverendo. Ancora più complicato si fa il discorso quando passiamo ad occuparci del patrimonio culturale - artistico - paesaggistico di una determinata nazione. In questo caso la monetizzazione di questa forma di ricchezza è più difficile. Ce ne rendiamo conto solo quando siamo di fronte a fatti catastrofici o eclatanti. Un sisma, per esempio, quando colpisce il patrimonio architettonico-artistico di un territorio ci porta a calcolarne i danni , mentre è più difficile averne consapevolezza quando assistiamo ad un degrado progressivo per incuria. Lo stesso si può dire per il patrimonio paesaggistico. Dalla seconda metà del ‘900 diversi territori a grande valenza paesaggistica sono stati degradati in seguito ad istallazioni di grandi fabbriche inquinanti o per via di un eccessivo sfruttamento edilizio. Il danno che ne è derivato è difficilmente calcolabile, anche se è indubbio che il degrado ambientale e paesaggistico ha inciso sul turismo e su altre attività. Si pensi, per esempio, al centro siderurgico di Bagnoli (Napoli) e Taranto in Italia che sono stati localizzati in aree ad alta vocazione turistica legata al patrimonio paesaggistico e storico-architettonico. Si pensi, per fare un altro esempio che riguarda l’Italia - il paese con il più grande patrimonio culturale del mondo - al caso dello stabilimento petrolchimico di Augusta-Priolo, localizzato in un’area con una vasta presenza di siti archeologici. In termini più generali si può affermare che questo modello di sviluppo ha indotto, in tutto il pianeta, a fare un uso eccessivo del patrimonio nazionale (naturale, paesaggistico,storico, ecc.), a ridurne lo stock a favore dei flussi di reddito, conseguendo un vantaggio immediato di breve periodo ed un danno, una perdita netta, per le generazioni future. La crescita economica a livello globale passa oggi sempre più attraverso un poderoso processo di indebitamento. Ciò che noi percepiamo è l’indebitamento finanziario mentre ci sfugge il valore del debito contratto con la Natura, vale a dire il nostro habitat, sia ambientale che culturale.

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Il Patrimonio Etico-Culturale ed I Modelli Di Sviluppo Lo spirito del capitalismo, come sostenne Max Weber in un famoso saggio,4 è stato il motore di quel processo che ha portato allo sviluppo del capitalismo in Europa prima e poi nel resto del mondo. Determinante è stata la presenza della cultura calvinista che metteva al centro della vita il valore del lavoro e vedeva il profitto - a differenza della Chiesa cattolica e di altre religioni - come una benedizione divina, la “prova” che Dio forniva della <<salvezza>> individuale. Oggi, nell’era della globalizzazione, se il modo di produzione capitalistico si è esteso su tutto il pianeta, mantiene delle differenze qualitative che sono strettamente correlate alla storia ed alla cultura dei diversi paesi-aree. Pur in presenza di forti convergenze, imposte dalla sempre più sfrenata competitività e concorrenza internazionale, il <<peso della storia,>> da ancora oggi la possibilità di distinguere tra diversi modelli di sviluppo capitalistico. Per brevità possiamo così riassumerli:

a) il modello anglo-americano in cui lo sviluppo economico è il risultato di una spinta dal basso che viene dal mondo delle imprese e di una regolazione dall’alto che si basa sul modello di Montesquieu5 (divisione ed indipendenza dei tre poteri) e sulla difesa dei diritti civili, ma sposa totalmente il principio smithiano del <<laisser faire,>> vale a dire: la non ingerenza dello Stato nella sfera del mercato; b) il modello franco-tedesco e nipponico, che segna una forte presenza dello Stato come motore e regista dello sviluppo economico. Tendenzialmente protezionista nei momenti di crisi, questo modello ha comportato un forte intreccio tra istituzioni pubbliche, grandi banche e grandi imprese private. Pur avendo subito profondi cambiamenti in questi ultimi anni, è conosciuto anche - nella versione tedesca - come modello di <<economia sociale di mercato>> che si caratterizza per una forte presenza dei sindacati dei lavoratori e del welfare pubblico nella erogazione di servizi.6

c) Il modello asiatico, che è figlio del modo asiatico di produzione di cui si era occupato per primo Karl Marx.7 Questo modello che si sta configurando con chiarezza in questi ultimi anni può essere definito come una forma di capitalismo autoritario che combina il massimo del dirigismo statale e del potere politico con il moderno neoliberismo. Un modello di sviluppo che ha conseguito uno straordinario successo in Cina, con tassi di crescita del Pil mai raggiunti dai paesi occidentali, e si sta estendendo ad altri paesi asiatici (Vietnam, Cambogia, ecc.) e trova una sostanziale convergenza con il nuovo corso della Russia di Putin che, pur mantenendo le forme della democrazia rappresentativa, di fatto le ha sterilizzate e rese subalterne al potere politico.

4 Cfr. Max Weber , L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, (Tubinga 1920), Firenze , 1965. 5 Vedi il famoso saggio“ L’esprit des lois “ di J.L. Montesquieu (Ginevra,1748) in cui per la prima volta venne sancita la divisione tra il potere politico, il potere esecutivo e quello giudiziario, come base per una reale democrazia. 6 Vedi sui diversi modelli di sviluppo capitalistico e soprattutto sul modello “renano” di economia sociale di mercato, gli approfondimenti di Carlo Trigilia in Sociologia Economica, Volume II, il Mulino, Bologna, 2004. 7 Sul modo di produzione asiatico , in cui è fondamentale il ruolo dello Stato e la tradizione autoritaria, vedi K. Marx, Il Capitale, Ed. Riuniti , Roma, 1970, vol. III pp. 199 e seguenti.

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Naturalmente esistono altre via nazionali allo sviluppo capitalistico che spesso sono un mix di queste categorie o una loro variante locale. Questa articolazione nei modelli di sviluppo dipende dal rapporto tra tre soggetti fondamentali: Stato-Mercato-Società civile organizzata. Nel modello anglo-americano è prevalente il mercato e le forme organizzate della società civile. In quello franco-tedesco-nipponico è decisivo il ruolo dello Stato, ma hanno una parte importante anche gli altri due soggetti. Infine, nel modello asiatico il potere politico detiene il posto di comando e determina uno spazio strategico per il mercato - funzionale alla politica di potenza - mentre è completamente assente o represso il terzo soggetto delle società moderna: le forme organizzate della cosiddetta <<società civile>>. Il dispiegarsi di questi differenti modelli di sviluppo è il frutto di patrimoni culturali differenti che si sono sedimentati nel tempo. E’ difficile, ad esempio, capire il modello di neoliberismo autoritario che tanto successo sta riscuotendo in Cina ed in altri paesi del mondo se non si conosce la morale confuciana così profondamente radicata nella società cinese, dal tradizionale “orrore del caos” di cui è infarcita la cultura popolare cinese e dal corrispettivo culto dell’Imperatore, del Potere assoluto e capace di generare e mantenere l’Ordine delle cose, l’Armonia, il valore più importante nella millenaria cultura di questo paese8. Così come non si può capire la profonda differenza che passa tra nord e sud Europa rispetto al valore del lavoro se non si tiene conto della secolare esperienza delle work-house che ha segnato la nascita del mercato del lavoro nel centro-nord Europa e che si è fermata, per ragioni storiche e culturali, sul meridiano di Barcellona, saltando la gran parte dell’Europa del sud che ancora oggi rispetto al “lavoro”, al suo valore sociale ed al senso che da alla vita, ha un approccio profondamente diverso9. Altrettanto si può dire rispetto al “senso dello Stato”, al lavoro pubblico vissuto come una “missione” dove è prevalente la cultura protestante che ha segnato i paesi del centro-nord Europa e reso possibile la crescita di uno Stato sociale efficiente e sostenibile fino agli anni ‘90 del secolo scorso, quando i flussi migratori hanno minato le basi culturali prima che economiche del welfare generalista. Lo stesso mercato capitalistico ha avuto forme diverse di implementazione a seconda le leggi e le tradizioni locali, il ruolo dei partiti e la cultura politica, il “senso dello Stato”, le forme associative sia a livello di produttori che di consumatori. Quello che con un termine generico indichiamo come <<mercato>> non è un dato neutrale, un meccanismo biologico e naturale, bensì il frutto di una costruzione sociale dagli esiti più diversi. In queste sue forme storiche un ruolo importante l’hanno giocato i consumatori, il loro comportamento e la loro capacità di organizzarsi e di far valere i propri diritti e la propria cultura.

8 Per capire quanto conti il bisogno di Ordine e Armonia e la sacralità del Potere nella tradizione confuciana cinese val la pena di leggere il saggio-colloquio di Matteo Ricci , grande intellettuale e missionario gesuita che visse in Cina alla fine del XVI° secolo: M. Ricci, Il vero significato del “Signore del Cielo”, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, Roma, 2006. 9 Su come le esperienze delle work-house abbiano inciso nella cultura del centro-nord Europa e le differenze rispetto alla Europa del sud ed al resto dei paesi mediterranei, vedi per un approfondimento T. Perna, Lo sviluppo insostenibile, Liguori ed., Napoli, 1994, cap. I°.

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Il Comportamento Dei Consumatori: Nella Teoria e Nella Prassi Nella storia del pensiero economico, ed in generale delle scienze sociali, si sono andate affermando - in tempi diversi - due diverse concezioni del consumo e del comportamento dei consumatori che, pur prendendo le mosse da posizioni molto distanti tra di loro, hanno un fondamento in comune nell’approccio deterministico e dogmatico alla fenomenologia del consumo. La prima visione del consumo a cui facciamo riferimento è quella della teoria neoclassica. Tra i fondatori di questa scuola vi è stata all’inizio una particolare attenzione al problema della formazione e dell’evoluzione dei <<bisogni>> del consumatore, arrivando a cogliere un punto nodale: la gerarchizzazione dei bisogni. Purtroppo, questo approccio non ha portato ad un approfondimento delle modalità di formazione della domanda , ma, a causa di un aprioristico principio di razionalità utilitaristica ed individualistica, ha dato vita ad una visione estremamente riduttiva che ha compresso i variegati bisogni della gente nella sola funzione della <<utilità marginale>>. Come è stato più volte osservato la teoria neoclassica,10 assumendo come date le preferenze dei consumatori, dovrebbe logicamente assumere come dati i beni presenti sul mercato (altrimenti rispetto a che cosa si formerebbero le preferenze?) e quindi cade in un circolo vizioso, in una forma di truismo da cui non ne uscirà più. Un approccio, diametralmente opposto, ha riscosso un successo crescente dalla seconda metà del ‘900 relativamente all’affermarsi di nuovi modelli di consumo. Ci riferiamo al filone di studi, che ha interessato più discipline, della critica radicale alla << società dei consumi>>. Vari studi e ricerche che, pur partendo da ambiti disciplinari diversi, hanno in comune una visione del mondo in cui il consumatore appare come una marionetta mossa a piacimento da forze diaboliche e capaci di prevedere, produrre, manipolare e gestire i bisogni della gente, senza contraddizioni: dai <<persuasori occulti>> di Packard alla <<tecnostruttura>> di Galbraith, che pianifica e determina i bisogni della gente e quindi la curva di domanda dei consumatori, per arrivare ai lavori di J. Baudrillard che afferma apoditticamente che i consumi sono nient’altro che un’estensione organizzata della fase produttiva.11

In sintesi, abbiamo da una parte l’ipotesi della concorrenza perfetta, della <<trasparenza>> del mercato, di un consumatore <<razionale>> perfettamente informato e consapevole delle sue scelte; dall’altra una visione del consumatore totalmente <<dipendente>> dalle strategie delle grandi imprese, che esclude la soggettività del consumatore e l’insorgere di crisi di produzione e riproduzione di bisogni, nonché di senso nella cultura del consumatore. L’insoddisfazione per queste teorie ha dato vita a vari contributi critici e ad un approccio profondamente diverso al comportamento del consumatore. Rilevante è stato l’influsso esercitato dalle discipline, vecchie e nuove, che studiano a vario titolo la mente umana ed i

10 Per una disamina critica di questo approccio della scuola neoclassica, vedi S. Zamagni, Georgescu-Roegen: i fondamenti della teoria del consumatore, Etas Libri, Milano 1979. 11 Vedi V. Packard, I persuasori occulti, Il saggiatore, Milano, 1968 (ed. or. The Hidden Persuaders, N.Y. 1957); J.K. Galbraith, Il nuovo stato industriale, Einaudi, Torino, 1968 (ed. orig. The New Industrial State, Boston, 1967); J. Baudrillard, La Societé de consommation. Ses mythes, ses structures, Paris, 1970.

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nostri comportamenti (psicologia, neurobiologia, ecc.). E questo non deve stupirci dal momento che i <<paradigmi,>> da cui si sono sviluppate le teorie economiche del comportamento del consumatore, sono fondati spesso su una psicologia dell’agire umano che non può essere considerata come un dato ricavabile in maniera univoca dalla realtà .12

Ciò che emerge da questi contributi critici rispetto alla teoria del consumo neoclassica, è il fatto di aver sottolineato che il comportamento del consumatore va analizzato all’interno di un determinato contesto socio - culturale, fuori del quale non ha senso porsi problemi di ottimizzazione delle scelte. Come sostenne per primo Duesenberry, “è necessario cominciare a riconoscere pienamente la caratteristica sociale dei modelli di consumo. Dal punto di vista della teoria delle preferenze o dell’utilità marginale , i desideri sono rivolti a beni specifici: ma nulla ci dice riguardo al processo di formazione di tali desideri e al modo in cui essi subiscono dei cambiamenti”.13

Anche rispetto agli sviluppi più recenti della teoria economica queste critiche si sono dimostrate fondamentali. Mercati perfettamente concorrenziali, consumatori perfettamente informati su prezzi e qualità dei prodotti, capisaldi della scuola neoclassica , sono stati messi seriamente in discussione da un numero crescente di economisti di fama internazionale. Nell’ambito di questa critica alla teoria neoclassica sono emerse due questioni cruciali:

a) l’informazione imperfetta che caratterizza il mercato dei beni di consumo; b) le modalità con cui il consumatore acquista informazione sul mercato.

Su questi temi si è sviluppato negli anni settanta ed ottanta del secolo scorso un grande ed interessante dibattito a cui si rimanda14, ma è soprattutto con la ricerca condotta da Smallwood e Conlisk che si registra un punto di svolta importante nella teoria del comportamento dei consumatori. La prima assunzione rilevante di Smallwood e Conlisk è che il consumatore può stabilire la <<qualità>> di un prodotto solo attraverso l’uso e non attraverso l’ispezione (il search goods teorizzato da Nelson).15

La storia, il contesto sociale, l’esperienza e la cultura sono elementi indispensabili per comprendere il comportamento del consumatore. Ma il sistema capitalistico tende proprio ad azzerare queste diversità, a omologare i comportamenti e cancellare la memoria individuale e collettiva. Proprio analizzando l’evolversi del comportamento dei consumatori ci rendiamo conto che esso non è altro che la punta di un iceberg dove si nascondono le forze e i meccanismi che regolano il costituirsi dei bisogni in rapporto alle relazioni sociali e 12 Sul rapporto tra comportamento razionale ed emozioni , nonché sul riduzionismo della psicologia tradizionale, vedi S. Rizzello, L’economia della mente, Laterza, Roma, 1997. 13 Cfr. Duesenberry J.S. Income, Saving and the Theory of Consumer Behaviour , Harvard University Press, 1949. 14 Vedi, tra gli altri, i contributi di Stigler (1961), Lancaster (!966) e Akerlof (1970) che aprirono la strada verso un’analisi critica dello scambio di mercato in cui le parti in gioco hanno un diverso accesso alla qualità dei beni e l’asimmetria informativa diviene un elemento strutturale del mercato, per un’analisi di questo dibattito ed un approfondimento sugli autori citati, vedi T. Perna, Mercanti, Imprenditori, Consumatori, F. Angeli, Milano, 1984. 15 Nelson ha introdotto un elemento fondamentale rispetto all’acquisto di informazione da parte del consumatore: <<L’informazione sulla qualità differisce dall’informazione sul prezzo, in quanto la prima è più cara da acquisire rispetto alla seconda, vedi P. Nelson, Information and Consumer Behavior in <<Journal of Political Economy,>> n° 78, pp. 311-329.

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ai diversi modi di produzione. La verità è che nel rapporto produzione-consumo si cela un conflitto reale d’interessi e di bisogni divergenti. La nascita di grandi associazioni di consumatori in tanti paesi non ha forse una base materiale nel conflitto produzione-consumo che è intrinseco al mercato capitalistico? Con lo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate, con l’espandersi della globalizzazione nei processi produttivi, con il passaggio del valore aggiunto dalla fase produttiva a quella distributiva, dal valore d’uso al valore-segno, lo scarto informativo tra venditori e consumatori, tende ad aumentare inesorabilmente. Lo sganciamento spaziale dei luoghi della produzione rispetto a quelli del consumo rafforza questo processo, procurando al tempo stesso più profitti per le grandi imprese transnazionali e maggiori perdite (in termini di qualità, salute, informazione) per i consumatori. Joseph E. Stiglitz , nobel per l’economia nel 2001, ha svolto gran parte delle sue ricerche su questa fondamentale questione dell’asimmetria dei mercati, dimostrando come l’attuale funzionamento del mercato globale porti a processi di disuguaglianza e polarizzazione sociale crescente.16

I movimenti dei consumatori nati a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso, hanno tentato di porre un argine all’asimmetria dei mercati ed alla subalternità dei consumatori. Sviluppando spesso forme originali di boicottaggio per le imprese che non rispettano i diritti umani e la tutela ambientale, hanno ottenuto qualche parziale successo, ma soprattutto hanno contribuito a creare una nuova coscienza critica dei consumatori. E’ nell’ambito di questo mutamento culturale che è nato il fair trade, un movimento che ha dato vita a centinaia di organizzazioni di commercio equo e solidale che in pochi decenni hanno coinvolto milioni di produttori, contadini ed artigiani del sud del mondo, e milioni di consumatori del nord. Etica ed Economia: Nascita e Sviluppo Del Fair Trade Con lo sviluppo del mercato globale il superamento dell’asimmetria informativa dei mercati è diventata una questione centrale che ha che fare, innanzitutto, con la questione della giustizia, vale a dire del “giusto prezzo” per chi produce. Una questione che il movimento del fair trade, per primo al mondo, ha tentato di affrontare attraverso l’uso strategico della trasparenza nei prezzi e la conoscenza dei prodotti (da dove vengono, chi li produce, in che modo, ecc. ). Partendo da una ricerca di maggiore giustizia nei rapporti di scambio Nord-Sud, non avendo finalità di lucro e cercando la partecipazione più ampia possibile, il fair trade ha prodotto una vera e propria rivoluzione negli scambi internazionali. Ha dimostrato che i meccanismi del mercato mondiale non sono dati una volta per tutte, che è possibile costruire dal basso un altro mercato in cui viene dato ai piccoli produttori - contadini ed artigiani soprattutto - la possibilità di vivere con dignità, di avere la sicurezza di un contratto quinquennale con cui sfuggire ai capricci delle borse internazionali che spesso, attraverso complicati meccanismi di futures e derivati, fanno oscillare rovinosamente i prezzi dei prodotti agricoli del sud del mondo. Inoltre, la forma tipica dei contratti tra le organizzazioni occidentali del fair trade ed i produttori del sud del mondo permette a questi ultimi di 16 Tra i tanti lavori di Stiglitz apparsi in questi ultimi anni, vale la pena ricordare: Globalization and Its Discontents, W.W. Norton, New York , 2002.

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ottenere un anticipo del 50% sugli ordini e quindi sfuggire ai ricatti degli usurai . Il successo di questa forma sociale di mercato internazionale è data chiaramente dai numeri di questi ultimi anni. Nel 2005 il fatturato delle organizzazioni del fair trade europee ha superato i 660 milioni di euro, una cifra enorme se si considera che nel 2000 era pari a 260 milioni di euro.17 Partito alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, in Olanda, il movimento del fair trade si è esteso oggi a quasi tutti i paesi del mondo con l’eccezione della Cina, Russia e paesi ex URSS.18 Partito da pochi gruppi di volontariato, coinvolge oggi nella sola Europa qualcosa come 12.000 tra volontari e lavoratori delle botteghe del mondo. Ha anche moltiplicato i progetti ed i settori merceologici: se fino agli anni ‘90 del secolo scorso il fair trade si concentrava soprattutto sui prodotti agricoli ed artigianali tradizionali, oggi coinvolge il settore delle cosmetica, l’industria del tessile e dell’abbigliamento, dei giocattoli, dell’arredo per la casa, ecc. Migliaia di progetti, piccoli e grandi, non gestite da una multinazionale della solidarietà, ma da tanti piccole e medie organizzazioni di base che riescono a lavorare in rete per tagliare, attraverso economie di scala, alcuni costi rilevanti nella operazioni di import dal sud del mondo. In breve: una spinta etica che motiva milioni di consumatori occidentali è riuscita a dimostrare che può esistere e funzionare un altro modo di fare commercio internazionale. Un commercio eticamente orientato, non assistito né dipendente da fondi pubblici, che offre vantaggi consistenti ai produttori del sud. Basti citare il caso delle banane biologiche acquistate in Equador da cooperative di piccoli produttori locali che vengono pagate dalle organizzazioni del fair trade intorno ai 21 dollari alla cassa contro i 3-4 dollari che offre il mercato gestito dalle multinazionali (vedi il famoso marchio Chiquita), e vengono rivendute in Europa con un aggravio di prezzo per il consumatore, rispetto ai prezzi del mercato “normale”, che oscilla tra il 10 ed il 15%, con in più il valore aggiunto del biologico. Il successo del fair trade in Europa non si è dispiegato in maniera uniforme. Ci sono paesi europei in cui è diventata una realtà ben visibile ed altri in cui è ancora un fenomeno marginale. Cercando di capire quali siano le variabili strutturali che determinano la crescita del fair trade abbiamo provato a mettere in graduatoria i paesi europei sia in base alla propensione al consumo di prodotti del fair trade che in base al reddito pro-capite, applicando l’indice di cograduzione di Spearman. Il basso valore che ne risulta dimostra che non vi è alcuna correlazione tra reddito pro-capite e propensione al consumo pro-capite di prodotti del fair trade. In altre parole: non è vero che lo sviluppo del fair trade, come qualche volta è stato sostenuto, sia un fenomeno legato ad una fascia di consumatori particolarmente benestanti. Una seconda ipotesi è che il fair trade sia un fenomeno correlato a fasce di popolazioni con un più alto livello di istruzione. Anche in questo caso abbiamo provato a usare l’indice di Spearman mettendo a confronto due graduatorie in ordine decrescente dei paesi europei: una in base al consumo pro-capite di prodotti del fair trade, l’altra in base ai dati relativi alla

17 I dati si riferiscono a 25 paesi europei dove sono presenti le organizzazioni del fair trade, vedi Krier J.M. (a cura di) Fair Trade in Europe 2005 . Facts and Figures on Fair Trade in 25 European Countries, Bruxelles, 2006. 18 Per un approfondimento delle origini, sviluppo e filosofia del fair trade, vedi T. Perna, Fair Trade. La sfida etica al mercato mondiale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. Vedi anche T. Perna, La réalité du commerce équitable, in “Revue du MAUSS ”, n. 15, Paris, 2001.

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percentuale di popolazione con titolo di studio superiore. Anche questa volta l’indice di Spearman ci indica che non c’è correlazione tra queste due variabili. Pertanto, ci domandiamo cosa fa sì che in alcuni paesi europei c’è stata una crescita rilevante del fair trade ed in altri assistiamo ad una crescita lenta o addirittura ad un ristagno come in Francia? Non abbiamo una risposta certa, ma da diverse ricerche sul campo, da una conoscenza dall’interno delle organizzazioni del fair trade, dalla storia, sia pure breve, del movimento del fair trade, pensiamo che si possa sostenere che sia uno specifico patrimonio culturale di alcune nazioni che costituisce il brodo di coltura in cui attecchisce più o meno facilmente una coscienza critica del consumatore. Sicuramente, nell’area europea, pesa molto la cultura politica, la presenza o meno di un impegno sociale delle Chiese, una tradizione che porta i cittadini-consumatori a sentirsi personalmente responsabili al momento di compiere un acquisto. Ci sono paesi europei, come l’Olanda o la Svizzera, dove esiste una tradizione culturale e civile che porta i cittadini a sentirsi protagonisti e responsabili delle loro scelte. Altri Paesi come la Francia, ed in generale i paesi latini, dove esisteva una scarsa presenza di associazioni di consumatori, dove i cittadini tradizionalmente tendono poco a chiedersi cosa possono fare loro e ad aspettarsi dalle istituzioni pubbliche le risposte su tutto. Sicuramente la cultura protestante e calvinista ha giocato un ruolo rilevante nel creare una responsabilità, una coscienza critica nel consumatore. Ma, anche le esperienze storiche hanno avuto un peso determinante. Si pensi al caso dell’Italia dove esiste una profonda differenza socio-politica ed economica tra centro-nord e sud, in gran parte determinate dall’esperienza di autogoverno dei Comuni nel centro-Italia, mentre nel Mezzogiorno è mancata questa esperienza secolare di democrazia partecipata, come nella gran parte dei paesi del bacino del Mediterraneo. Ma, molte cose stanno rapidamente cambiando. E’ proprio nei paesi latini dell’UE che il fair trade, ma anche la finanza etica ed altre forme di economia solidale, si stanno affermando in questi ultimi anni. E lo stanno facendo in forme originali, coniugando le capacità organizzative con la spontaneità dei movimenti, riuscendo a creare delle reti di world shop che, a differenza dei paesi nordici19 non si trasformano in una sorta di franchising della solidarietà, ma lasciano l’autonomia alle singole botteghe del fair trade pur riuscendo a coordinarsi ed organizzarsi per far sì che il costo del trasporto non gravi troppo sugli acquisti dei prodotti dal sud del mondo. Sta altresì cambiando il ruolo dei consumatori che, sia pure in minoranza, si stanno trasformando in consum-attori, cioè in consumatori protagonisti di un cambiamento nelle forme del mercato globale, quanto in quelle del mercato locale. Un esempio di questo straordinario e veloce cambiamento culturale ci è fornito dall’Italia. Un paese che non ha mai avuto grandi organizzazioni di consumatori, dove le riveste di consumo critico hanno una tiratura limitata, ebbene proprio in questi ultimi dieci anni stiamo assistendo ad un cambiamento culturale radicale. I dati forniti nel maggio del 2006 dal GSF, il più importante centro studi sui consumi in Italia, dimostrano che in un decennio siamo passati dal 2 al 18 % 19 Valga per tutti il caso dell’Oxfam, la grande Ong inglese che ha creato una catena di negozi del fair trade che funzionano come punti vendita di un’unica organizzazione, con modalità omologate. Mentre in Italia, Spagna, Portogallo ecc. abbiamo un’autonomia organizzativa ed espositiva delle singole botteghe del mondo.

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di consumatori “critici” di cui l’8 sono consumatori abituali dei prodotti del commercio equo e solidale. Ciò significa che in Italia ci sono oggi non meno di 3,2 miloni di persone che sono diventati clienti abituali della catena del fair trade. Un dato rilevante ed inaspettato che però presenta una forte divaricazione territoriale, tra nord e sud, tra città e piccoli comuni. Il Patrimonio Etico ed Il Fair Trade: Una Ricerca Sul Territorio Italiano In Italia il movimento del fair trade e le prime world shop sono nate a Bolzano alla fine degli anni ‘80 del secolo scorso, in un’area con una forte presenza di una popolazione di lingua germanica, e si sono immediatamente sviluppate in tutto il Trentino. In pochi anni il movimento del fair trade si è esteso al resto del nord-est italiano, che è anche l’area più ricca e dinamica del paese. Successivamente, attraverso un meccanismo non molto diverso da quello che Pollard descrive per il processo di industrializzazione europea, la cultura del fair trade e le botteghe del mondo si sono espanse in tutto il paese. Che cosa ha permesso questo rapido sviluppo visto che il movimento del fair trade non è finanziato dalle pubbliche istituzioni, che permane una rilevante presenza di volontari, che questa espansione, in termini di fatturato e di world shop, si è registrata in una fase di ristagno dell’economia italiana e di crisi verticale del commercio al dettaglio? Ed ancora: che cosa fa sì che un consumatore scelga i prodotti del fair trade, magari pagando un sovraprezzo, faccia chilometri per trovare il punto di vendita? Quali valori hanno determinato questa scelta? E come corollario: dove e come nascono quei valori di solidarietà? Per rispondere a queste domande abbiamo portato avanti da due anni una ricerca sul campo che si concluderà nell’anno in corso. La ricerca, condotta dal dottore Fabio Mostaccio e coordinata da chi scrive, è stata realizzata su 14 centri urbani, grandi e piccoli, del nord, del centro e del sud, con una scelta di rappresentatività del territorio nazionale20. Questi che vengono qui commentati sono i primi risultati di una ricerca che ha realizzato settanta interviste, basate su storie di vita, su un campione ragionato di volontari e clienti fissi delle botteghe del mondo (world shop), di età compresa tra i 18 ed i 35 anni. Abbiamo scelto un campione ristretto perché ci sembrava metodologicamente corretto andare ad approfondire, con un metodo qualitativo, i risultati delle ricerche quantitative. Abbiamo, infatti, in Italia ed in Europa un gran numero di ricerche sull’identikit del consumatore eticamente orientato. In particolare, in Italia, le indagini più recenti consentono di ricostruire un identikit del consumatore abituale dei world shop: il 65% è donna, ha un grado di istruzione medio-alto con un reddito mensile pro-capite pari a 1.304 euro, un dato che è inferiore alla media nazionale che è di circa 1.750 euro al mese. In base alla professione: il 30% è costituito da studenti, il 25% da pensionati, il 12% da casalinghe ed infine un 8% da professionisti. Il rimanente 25% è distribuito tra insegnanti, impiegati, dirigenti, ecc.21 Sotto il profilo della provenienza culturale e delle esperienze associative emerge che il 32% è costituito dal

20 Per un approfondimento della metodologia di questa ricerca vedi F. Mostaccio, Stili di vita e patrimonio culturale: le nuove scelte etiche, in “Sociologia del lavoro e dei consumi”, Milano , 2007, in corso di stampa. 21 Per un approfondimento dei risultati di questa ricerca vedi Becchetti L. e Costantino M., Il commercio equo e solidale alla prova dei fatti, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

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mondo del volontariato, il 20% dall’associazionismo religioso, l’11% dal mondo delle Ong, ed il 30% dichiara di non aver fatto un’esperienza specifica in una associazione o movimento religioso. Un risultato importante è dato dalla correlazione tra conoscenza dei criteri del commercio equo e disponibilità all’acquisto dei prodotti fair trade: la conoscenza di almeno cinque criteri sugli otto presi in considerazione produce un aumento di spesa pari a quasi il 200%. E’ questo un fatto che ci fa capire quanto sia importante l’informazione, ma, d’altra parte, ci pone di fronte alla domanda: perché tra persone ugualmente informate c’è chi rimane indifferente e chi invece diventa un attivista del fair trade? Al centro del nostro interesse è capire che cosa, quale meccanismo psicologico e sociale fa scattare, innesca, una miccia nella coscienza del consumatore e lo fa diventare responsabile verso gli altri? Se gli economisti hanno elaborato la categoria di <<capitale sociale>> per quel insieme di relazioni sociali e rapporti di willingness che stanno alla base del successo di alcuni modelli di sviluppo territoriale, è indubbio che hanno sottovalutato - come hanno fatto per le risorse ambientale - il Patrimonio etico delle nazioni, vale a dire l’insieme di quelle istituzioni che producono valori di solidarietà e di reciprocità. Sappiamo che il Patrimonio Etico nazionale sia difficilmente valutabile, ma sappiamo altresì che esso è alla base di molti comportamenti sociali che determinano la qualità della vita ed il modello di sviluppo di una determinato paese. Sappiamo soprattutto che quando dovesse indebolirsi il patrimonio etico di una nazione, quella popolazione ne subirebbe disastrose conseguenze. La nostra indagine sul campo ha individuato quattro fattori di base che incidono fortemente sulla formazione di una coscienza eticamente orientata: la famiglia, la scuola, le organizzazioni religiose, le esperienze di vita. Non è facile enucleare dalle storie di vita quali siano stati i momenti clou che hanno determinato la formazione di una coscienza critica che è alla base di un consumo eticamente orientato. Aspettando di vagliare meglio tutte le lunghe interviste e di correlarle ad alcune variabili strutturali è possibile in questa sede avanzare alcune ipotesi interpretative. In particolare, vogliamo mettere in evidenza come si articola territorialmente il patrimonio etico nazionale in un paese come l’Italia che fa registrare la compresenza di tradizioni culturali profondamente diverse. Vale a dire: quali dei fattori sopramenzionati sono oggi più significativi nelle diverse parti del paese: Nord-ovest, Centro-nordest e Mezzogiorno. Questa divisione spaziale del territorio italiano è ormai largamente condivisa dagli studiosi a partire dagli studi degli anni ‘80 sulle Tre Italie che presentano modelli di sviluppo profondamente diversi: il nord-ovest basato sulla grande impresa e grandi aree metropolitane, il centro-nordest dove si è registrato uno sviluppo sociale ed economico originale, basato sulla piccola e media impresa ed un ruolo importante degli enti locali e delle organizzazioni del mondo cooperativo, ed infine il Mezzogiorno dove è prevalso un modello di sviluppo residuale fortemente assistito dallo Stato e bloccato dalla forza della criminalità organizzata. Il nostro campione è stato equamente distribuito su queste macroaree ed ha confermato la diversità culturale tuttora presente. In particolare, dai primi risultati della ricerca emerge una prevalenza delle organizzazioni religiose e della famiglia nella formazione di una coscienza critica dei giovani nel Mezzogiorno. Vale a dire che questi giovani hanno trovato in queste istituzioni quei punti di riferimento etico che hanno prodotto una consapevolezza, una presa

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di coscienza, sulle ingiustizie del mondo e sul dover agire di conseguenza. L’incontro con la rete del fair trade è stata in gran parte casuale, ma ha rappresentato spesso un punto di arrivo per chi cercava la strada per “fare qualcosa di concreto”. Viene in questo senso ribadita la forza del fair trade che consiste soprattutto nell’offrire a tutti, ad ogni singola persona, la possibilità di fare qualcosa per un mondo più equo, hic et nunc e non in un ipotetico domani rivoluzionario. Nell’area del Centro-nordest, bisogna distinguere tra l’area del Centro - Toscana, Umbria, Emilia - e quella del Triveneto . Nel Centro prevale il peso della tradizione politica delle forze della sinistra italiana che qui hanno un radicamento storico. I giovani intervistati sostengono di aver ricevuto questi valori di solidarietà soprattutto dai nonni - partigiani o militanti politici negli anni ‘50-’70- e di aver fatto parte di organizzazioni della sinistra radicale (in particolare Rifondazione ) da cui però sono tutti fuggiti per mancanza di democrazia interna. In sostanza, in quest’area si dimostra importante la tradizione laica e politica nella formazione etica dei giovani consumattori del fair trade, ma emerge altresì una insofferenza per i partiti della sinistra e per tutte le vecchie organizzazioni. La scelta di impegnarsi nel mondo del fair trade è legata a questo bisogno di libertà e di voler fare qualcosa di concreto al di là delle ideologie. Nell’area del Triveneto si conferma il ruolo rilevante delle organizzazioni cattoliche nel trasmettere una coscienza eticamente e socialmente impegnata. E’ in questo bacino che sono nate le tante botteghe del mondo (world shop) ed è questo patrimonio etico che continua ad alimentare le tante iniziative dell’economia solidale. Nel Nord-ovest dalle interviste risulta abbastanza chiaro il ruolo giocato dalle esperienze personali nel mondo del volontariato - laico e cattolico nel determinare una coscienza del consumatore eticamente orientata. Valori religiosi e valori laici si combinano e passano attraverso delle esperienze, soprattutto nel mondo delle ong e dell’economia non profit. Infine nel Mezzogiorno si conferma come determinante il ruolo valoriale che continua a giocare la famiglia unitamente alla scuola. L’aver incontrato nella propria vita un certo tipo di insegnante ha lasciato un segno indelebile, un imprinting, in alcuni di questi giovani intervistati Nel corso della mia relazione orale verranno lette alcune di queste storie di vita che sostanziano quello che stiamo dicendo. Qui ci interessava concludere con un’analisi più teorica. La questione di fondo infatti è la seguente: quanta parte di questo patrimonio etico -che costituisce le fondamenta su cui è nato il movimento del fair trade - si va riproducendo e trasmettendo alle nuove generazioni? La risposta non è né semplice, né univoca. Sicuramente si sta sfaldando, come in tutto l’occidente, il ruolo di incubatore valoriale della famiglia. E’ ormai tramontato il ruolo di formazione etica e politica dei partiti. Anche nel Centro Italia, dove resiste una cultura laica e di tradizione socialista della solidarietà sociale, stiamo assistendo al suo inarrestabile declino. Resistono alcune organizzazioni cattoliche nel trasmettere i valori della solidarietà sociale, anche se ormai sono una minoranza all’interno dello stesso mondo cattolico dove sta prevalendo una spinta più spiritualista e socialmente disimpegnata. Il mitico oratorio, che soprattutto nel nord Italia, aveva un ruolo

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formativo di grande rilevanza fino agli anni ‘80, sta scemando per via delle concorrenza di altri luoghi di socializzazione sempre più legati al consumo di sport e divertimenti. In sostanza è difficile immaginare come il patrimonio etico di questo come di altri paesi europei possa reggere nel futuro. Spesso siamo preoccupati della mancanza di tecnici altamente specializzati, di una scuola che non sa aggiornarsi, modernizzarsi, ma non ci domandiamo che fine faremo quando scompariranno definitivamente i “maestri di vita”, laici e cattolici, che hanno trasmesso un patos ed un etos ai giovani, che nessun computer, nessuna scuola altamente specializzata potrà mai offrire.

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