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Il politeismo moderno 27 I. Max Weber e il tragico 1. Il ritorno del politeismo È raro trovare, nella cultura contemporanea, un padre fondatore più ripudiato di Max Weber. Non c’è scuola o corrente culturale che non abbia preso le necessarie distanze, sottolineato l’inconsistenza filosofica del suo metodo o l’incompiutezza delle ricerche, minimizzando il suo ruolo culturale o demo- lito il suo tentativo di influenzare le vicende della repubblica di Weimar. Una rassegna sommaria della fortuna di Weber nella cultura europea successiva agli anni Venti potrebbe costituire una piccola antologia di humour nero involontario. Gli storicisti lo accusavano di sociologismo, i sociologi di storicismo. I marxisti, tranne poche ma illustri eccezioni, 1 di fornire l’estrema copertura ideologica a un capitalismo agonizzante. I liberali ne facevano un esempio di pessimismo culturale. Gli ideologi del totalita- rismo un modello di disfattismo borghese. La teoria critica ha visto in Weber un apologeta della razionalizzazione e un precursore delle teorie autoritarie dello Stato. Luhmann considera la sua teoria della razionalità debitrice di un’epistemologia ottocentesca, e quindi superata. Habermas ritiene invece che il suo modello di razionalizzazione sia troppo limitato. Infine, quando qualche anno fa i nouveaux philosophes ne hanno scoperto l’esistenza, hanno 1 In particolare M. Merleau-Ponty, Les aventures de la dialectique, Paris, Gallimard, 1955; trad. it. Umanesimo e terrore – Le avventure della dialettica, Milano, Sugarco, 1965, pp. 215 e sg. Merleau-Ponty sottolinea l’influenza di Weber sul cosiddetto marxismo occidentale, e in particolare su Lukàcs.

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I. Max Weber e il tragico

1. Il ritorno del politeismo È raro trovare, nella cultura contemporanea, un padre fondatore più ripudiato di Max Weber. Non c’è scuola o corrente culturale che non abbia preso le necessarie distanze, sottolineato l’inconsistenza filosofica del suo metodo o l’incompiutezza delle ricerche, minimizzando il suo ruolo culturale o demo-lito il suo tentativo di influenzare le vicende della repubblica di Weimar.

Una rassegna sommaria della fortuna di Weber nella cultura europea successiva agli anni Venti potrebbe costituire una piccola antologia di humour nero involontario. Gli storicisti lo accusavano di sociologismo, i sociologi di storicismo. I marxisti, tranne poche ma illustri eccezioni,1 di fornire l’estrema copertura ideologica a un capitalismo agonizzante. I liberali ne facevano un esempio di pessimismo culturale. Gli ideologi del totalita-rismo un modello di disfattismo borghese. La teoria critica ha visto in Weber un apologeta della razionalizzazione e un precursore delle teorie autoritarie dello Stato. Luhmann considera la sua teoria della razionalità debitrice di un’epistemologia ottocentesca, e quindi superata. Habermas ritiene invece che il suo modello di razionalizzazione sia troppo limitato. Infine, quando qualche anno fa i nouveaux philosophes ne hanno scoperto l’esistenza, hanno

!1 In particolare M. Merleau-Ponty, Les aventures de la dialectique, Paris, Gallimard, 1955; trad. it. Umanesimo e terrore – Le avventure della dialettica, Milano, Sugarco, 1965, pp. 215 e sg. Merleau-Ponty sottolinea l’influenza di Weber sul cosiddetto marxismo occidentale, e in particolare su Lukàcs.

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concluso che era un epigono di Hegel, e lo hanno perciò liquidato come apologeta del totalitarismo.2

Se trascuriamo i verdetti più grossolani, si deve riconoscere che in alcune di queste valutazioni c’è qualcosa di vero. Forse Weber è stato tutto questo, ma il vero problema è che è stato molto di più. Infatti la sua grandezza, rispetto alla frequente modestia dei suoi critici, consiste proprio nella polie-dricità della sua figura e soprattutto nel carattere contraddittorio, spinto fino alla lacerazione teoretica e personale, delle sue posizioni. Di pensatori fedeli a una visione del mondo fino a inabissarsi con essa e trascurare le obiezioni del mondo reale abbondano le biblioteche. Invece la coerenza di Weber ha un segno opposto. È l’adesione, fino alle estreme conseguenze, alle contraddizioni oggettive e insolubili di un’epoca, la consapevole accet-tazione della schizofrenia della modernità.3 È un riflesso consapevole e volontario di una condizione storica. In questo senso la sua figura teorica sarà sempre inacettabile per chiunque abbia della filosofia o della ricerca storico-sociale un’immagine univoca e rassicurante.

Due esempi molto conosciuti, ma soggetti a incomprensioni di ogni tipo, possono illustrare l’aspro dualismo che attraversa il pensiero weberiano, e spiegare in parte il rifiuto in cui esso è incorso in molti settori della cultura contemporanea. Il primo è il ben noto problema dell’avalutatività. Nell’e-poca in cui si pensava che la trasformazione della teoria in prassi fosse all’ordine del giorno, la proposta di tener distinti gli elementi idiosincratici della personalità del ricercatore (i valori, secondo la terminologia weberiana) dal processo della ricerca doveva sembrare una bestemmia scientistica. Se la storia ha un andamento univoco, guidato dall’interazione di teoria e prassi, il pensiero dovrà necessariamente prendervi parte, confluirvi o contrastarlo. Astenersi dal conflitto storico, ignorare l’impossibilità di sottrarsi al verdetto della prassi è peggio che un’illusione, è ideologia. Sul versante opposto, il positivismo scientifico non poteva che compiacersi di questa apparente ri-nuncia dello storico ai condizionamenti di parte. Ma in realtà il tema del-

!2 Giudizi di questo tipo si possono trovare in A. Glucksmann, Les máitres à penser, Paris, Grasset, 1977; trad. it. I padroni del pensiero, Milano, Grazanti, 1977. 3 Per una discussione di questo concetto nella storia della cultura cfr. il capitolo III del presente lavoro.

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l’avalutatività aveva ben poco a che fare con la metodologia: era un pro-blema etico, o meglio documentava l’esistenza di due etiche inconciliabili.

Con Nietzsche, Weber era consapevole che già nella sua epoca la sfera scientifica della certezza si era scissa da quella del senso, dalla verità.4 Tutto ciò che si riferisce al senso non è più organizzabile in un sapere comunicabile. Il senso si è frammentato in una pluralità di sensi, divinità, dèmoni, interessi, valori. Il discorso scientifico deve combattere queste realtà, tendere quanto più è possibile a una legalità convenzionale. Chi appartiene a entrambi i mondi non potrà che riflettere la loro opposizione. Egli è immerso inevitabilmente nel mondo della vita, e quindi dovrà condi-viderne i determinismi, i condizionamenti, i valori. Ma al tempo stesso è un suo “dannato dovere” separare nell’attività scientifica i fatti dalle valutazioni e dai desideri. Si tratta di un dovere patetico e difficilmente realizzabile, e lo stesso Weber lo definisce utopico. Ma riflette una lacerazione interiore, che a sua volta ricalca il nichilismo presente nella razionalizzazione scien-tifica. L’avalutatività in Weber non è dunque né ideologia né neutralità accademica. È invece un sintomo di frammentazione che la filosofia della prassi ha creduto di dominare e che il positivismo ha ignorato.5

Considerazioni analoghe valgono per il tema oggi ben più rilevante della razionalizzazione. Per Weber l’imporsi in Occidente di una razionalità formale, sia nell’impresa capitalistica sia nell’amministrazione burocratica dello Stato, non era né un valore né il risultato di un processo metastorico. Vedere in Weber un continuatore di Hegel è un vero e proprio abbaglio. Nelle ricerche di Weber dedicate all’economia e alla politica dell’età mo-derna il razionalismo non è il risultato di uno sviluppo necessario. La razio-nalizzazione è invece il risultato fattuale di un processo storico millenario, segnato da svolte, passaggi obbligati e conseguenze imprevedibili di certi sviluppi, che lo storico deve riconoscere nella loro fatidicità. Nulla garantisce che la razionalizzazione sia eterna. Weber parla certamente di “gabbia d’ac-ciaio”, ma si riferisce alla freddezza e all’aridità di una “cultura” fondata

!4 Un’analisi ancora insuperata di questo tema nella filosofia di Nietzsche è K. Jaspers, Nietzsche. Einfübrung in das Verrständnis seinen Philosophierens, Berlin, Walter de Gruyter, 1950, pp. 171 sg. 5 Ho cercato di sviluppare questi aspetti nel mio saggio L’ordine infranto. Max Weber e i limiti del razionalismo, Milano, Unicopli, 1983, da cui sono riprese alcune considerazioni svolte in queste pagine.

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sull’impersonalità del mercato, e non al dominio assoluto della razionaliz-zazione. Anzi, proprio il fatto che il razionalismo si sia imposto brutalmente nelle sfere più disparate della vita, sopprimendo le culture (tutto ciò che nelle scienze dello spirito dell’inizio del secolo veniva definito come comunità, tradizione, solidarietà e così via) può determinare il risorgere di nuovi bisogni irrazionalistici di senso. La razionalizzazione è come una crosta, un magma indurito sotto cui preme l’incandescenza della vita. Certo, in questa immagine demoniaca del razionalismo ritroviamo tutta la terminologia e i fantasmi di una filosofia della cultura tramontata. Ma in Weber, che era del tutto riluttante a impiegare le generalizzazioni della Kulturgeschichte o del-l’antropologia filosofica, il problema è circoscritto ed evidente. Razionaliz-zazione non significa emancipazione definitiva dagli idola, ma sostituzione degli idoli tradizionali con quelli moderni. Significa una fiducia irrazionale nella potenza dei prodotti della razionalizzazione e della tecnica. L’uomo contemporaneo non conosce i segreti dei manufatti, delle macchine e degli strumenti cui si affida quotidianamente più di quanto il primitivo non cono-scesse il segreto del fulmine, del succedersi delle stagioni o del corso delle stelle. Ciò che muta radicalmente è il significato dei due tipi di fiducia non razionale. Nel cosmo primitivo la possibilità di azione magica sulla natura è limitata e ritualizzata. Nel cosmo moderno è logicamente illimitata. La fi-ducia nella potenza dell’agire strumentale è oggi qualcosa che gli apparati e le organizzazioni tecnologiche e politiche utilizzano largamente, ma che controllano solo in modo limitato.6

In Weber, dunque, la razionalizzazione è un processo potenzialmente perverso. L’esempio più noto, ma ancora una volta travisato, di tale processo è il celebre argomento dell’etica protestante come uno dei fattori critici nell’affermarsi del razionalismo moderno. Se confrontata con il cattolicesimo medioevale, la teodicea luterana (e soprattutto la sua radicalizzazione in Calvino) si mostra come il prodotto di una spiritualità superiore. Nel calvi-nismo Dio, sconosciuto e lontano, si sottrae alla possibilità di intercessione,

!6 Cfr. M. Weber, “Wissenschaft als Beruf’”, cit., pp. 19-20. Mi sembra che questo aspetto possa collegare la riflessione di Weber con quella di Gehlen relativa alla Entlastung, e cioè allo sgravio o esonero, grazie a cui le istituzioni moderne producono gli orizzonti di senso per i soggetti nella vita quotidiana. Cfr. A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, Wiesbaden, 1978; trad. it, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 80 e sg.

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espiazione e perdono. Non c’è opera di carità che permetta all’uomo di ov-viare all’originaria mancanza di grazia. Ma questa lontananza, in cui Weber ha visto un’eco della terribile concezione della divinità dei profeti d’Israele, apre la strada a un disincantamento totale del mondo. Il credente non ha più a disposizione alcun mezzo di intervento magico sulla divinità, alcun do ut des delle opere – che ora appaiono come l’espressione di una concezione antropomorfica, e quindi religiosamente primitiva, della divinità. La reli-giosità si è purificata da ogni elemento magico e soprattutto di redenzione terrena. Ma in tal modo essa ha aperto la strada a una conquista razionalistica della Terra. Ciò che è consentito al credente è l’attiva glorificazione di Dio in un mondo di cui non può conoscere il senso. L’estrema solitudine inte-riore si trasforma in attivismo e individualismo. Questo aspetto della primi-tiva psicologia borghese, descritti da Weber negli esponenti delle comunità puritane inglesi e americane del XVII secolo, costituiscono solo l’inizio del processo. Per i calvinisti erano solo la conseguenza esteriore, mondana e sociale, di una religiosità radicale e disperata, ciò che Weber chiama un “mantello sottile”. Ma il mondo materiale, ovvero la razionalizzazione del-l’economia e dell’amministrazione che in quella religiosità ha trovato ali-mento e motivazione, si sviluppa contro la sua stessa fonte. Il materialismo sopprime, nel corso della razionalizzazione capitalistica, la spiritualità che per Weber ne aveva deciso l’avvento nel mondo occidentale, strappa il man-tello e si instaura come gabbia d’acciaio. Nelle battute conclusive delle sue lezioni sulla storia economica, Weber riassume gli effetti perversi di quella lontana e radicale religiosità:

L’etica economica si affermò sullo sfondo di un ideale ascetico; ora è stata privata del suo contenuto religioso. Era possibile per le classi lavoratrici accettarla finché essa conteneva la promessa di una salvezza eterna. Quando questa consolazione svanì, era inevitabile che si manifestassero quelle tensioni che oggi dominano l’economia e la società. Questa svolta è stata raggiunta alla fine della prima fase del capitalismo, all’inizio dell’età dell’acciaio, nel XIX secolo.7

!7 M. Weber, Wirtschaftsgeschichte. Abriss der universalen Sozial und Wirtschaftsgeschichte, Duncker & Humblot, München und Leipzig, 1923.

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Esposta in questi termini, e cioè isolata dal contesto della monumentale ricerca sulle religioni universali, la formulazione weberiana dell’avvento e del declino dell’ascetismo razionalistico si espone a ogni tipo di obiezione. E infatti gli storici di professione non hanno mancato, da sessant’anni, di individuare gli aspetti più deboli. Il fatto è però che il saggio in cui Weber la esponeva non era che il primo capitolo di una vasta ricerca storico-comparativa sul problema della redenzione nelle religioni del mondo. Di-scutere la tesi di Weber nel quadro globale di questa ricerca non consente certamente di risolvere i dubbi e le difficoltà presenti nel saggio su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Permette però qualcosa di più: cogliere la portata teorica di quello che può essere considerato come uno degli ultimi tentativi di interpretazione globale della cultura umana. Questo è l’aspetto che è sfuggito ai critici di Weber, e in primo luogo agli storici.8 Il tema apparente della Sociologia della religione9 è infatti lo specifico affermarsi del razionalismo occidentale, l’unicità del mondo moderno. Ma il problema che ricorre con un ritmo ossessivo nelle migliaia di pagine dell’opera, intrecciandosi con il tema precedente, è il conflitto tra magia e razionalità. Come erede coerente dell’illuminismo Weber non ha dubbi sulla fatalità con cui la ragione prende il sopravvento, in innumerevoli svolte, episodi e fasi della storia umana, sullo spirito magico. Ma rifiutando, da ricercatore imparziale e tormentato, di inserire queste conquiste in una concezione progressiva della storia, egli è estremamente sensibile agli effetti, ai sottoprodotti e alle conseguenze perverse della vittoria del razionalismo.10 !8 Mi riferisco qui alle classiche critiche di Tawney e a quelle più recenti di Trevor-Roper e di Braudel. Per una discussione critica, ma equilibrata e comprensiva delle tesi weberiane, si veda invece H. Lüthy, Le passé présent. Combats d’idées de Calvin à Rousseau, Monaco, ed. du Rocher, 1965; trad. it. Da Calvino a Rousseau, Bologna, Il Mulino, 1971. 9 M. Weber, Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Tübingen, Mohr (Paul Siebeck), 1920-1921, tre volumi; trad. it. Sociologia della religione, Milano, Comunità, 1982, due volumi. Si veda anche M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, Mohr, (Paul Siebeck), 1972, due volumi; trad. it Economia e società, Milano, Comunità, 1968, due volumi (ed. Reprint, Milano, Comunità, 1981, vol. II). Mentre la Sociologia della religione è una ricerca storico-comparativa sui rapporti tra le grandi teodicee religiose e le società (India, Cina ecc.), il capitolo sulla religione di Economia e società esamina le condizioni sociali e strutturali entro cui si sviluppano le credenze religiose, da quelle più elementari alle grandi religioni monoteistiche. 10 In questo senso, come cercherò di mostrare nel III capitolo, le ricerche di Weber mi sembrano indicare alcuni punti di convergenza con le indagini compiute da Aby Warburg nella storia dell’arte e della cultura.

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In breve, uno dei fili principali che Weber dipana nella storia comparata delle religioni è la caduta nel tempo.11 Solo le religioni che si sono svin-colate da una concezione magica e chiusa dell’universo hanno potuto fondare i presupposti razionalistici della posizione dell’uomo nei confronti di Dio e del mondo. Le conquiste della razionalità si presentano allora come fasi di un esilio progressivo dalla terra. Le radici dell’Occidente af-fondano infatti nelle vicissitudini di un popolo che, esempio forse unico nella storia umana, si è sviluppato nell’esilio e nella diaspora. La perenne separazione di Israele dalla terra ha significato infatti sia un precoce rifiuto della religiosità magica, che è strettamente connessa all’esistenza di divinità locali e agrarie, sia la fondazione del tempo della redenzione, del futuro. Nella distanza, nell’esilio, nella terribile lontananza del Dio d’Israele poe-ticamente espressa nei libri profetici, Weber ha visto il germe di quella spiritualità individualistica che ha un ruolo decisivo nel razionalismo occi-dentale.12 Ma l’individuazione, da parte di Weber, della religiosità biblica come preistoria dell’Occidente non ha nulla a che fare con le posizioni13 che identificano più o meno rozzamente, o tendenziosameme, ebraismo e razionalismo capitalistico. La religiosità biblica diviene patrimonio comune dell’Occidente. È il cristianesimo, visto soprattutto come organizzazione burocratica ed ecclesiastica, a raccogliere queste eredità, insieme al pa-trimonio di razionalismo burocratico lasciato dall’Impero romano. Dal Medioevo fino all’età moderna, la storia del razionalismo confluisce nello sviluppo politico, sociale e materiale dell’Occidente. L’influenza dell’etica protestante e la svolta che essa determina nella cultura moderna possono essere apprezzate solo su questo sfondo, che Weber ricostruisce soprattutto in Economia e società, nei saggi sul declino della cultura antica e nella Wirtschaftsgeschichte. Rispetto a questa fatale peregrinazione del raziona-lismo dalla teologia ebraica della redenzione all’individualismo protestante, Weber mantiene un atteggiamento ambivalente. L’elaborazione di una teologia della redenzione infraterrena (che egli contrappone sia al misticismo e alla

!11 Prendo questa espressione da Cioran, La chute dans le temps, Paris, Gallimard, 1968, che discute, in una prospettiva filosofica, la dipendenza della moderna cultura occidentale dalla dimensione del tempo illimitato. 12 M. Weber, Sociologia della religione, cit., vol. II, pp. 370 e sg. 13 Ad esempio, quelle di Wemer Sombart. Si veda il suo Die Juden und das Wirtschaftsleben, Leipzig, Duncker & Humblot, 1913.

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redenzione ultraterrena delle religioni indiane, sia al razionalismo ritualistico delle religioni cinesi) è il sintomo di una progressiva spiritualizzazione. L’umanità si libera delle concezioni magiche e utilitaristiche della divinità. La spiritualità occidentale diviene al tempo stesso più intensa e più rarefatta. Ma la demitizzazione, il disincantamento, capovolge con effetti imprevedibili il rapporto tra umanità e cosmo. L’effetto più importante è appunto la sosti-tuzione della Storia alla Terra come orizzonte dell’esistenza. Come sarebbe stato mostrato da studiosi profondamente influenzati da Weber, l’escatologia della redenzione avrebbe portato sia alle concezioni del progresso infinito care all’illuminismo, sia alle periodiche illusioni di un capovolgimento delle condizioni terrene capace di arrestare definitivamente la caduta nel tempo.14

Per quanto considerazioni di questo tipo rivelino la stretta affinità di Weber con gli sviluppi che hanno portato da Burckhardt e Nietzsche a Heidegger (e alla crisi della metafisica e dello storicismo), l’interesse della Sociologia della religione è molto più che filosofico. Parallelamente al-l’inimitabile sviluppo dell’Occidente, Weber ricostruisce le caratteristiche strutturali e religiose delle antiche civiltà dell’Oriente. Sarebbe impossibile descrivere in poche pagine l’intelaiatura di tale ricostruzione. Possiamo solo notare che l’etichetta di sociologia religiosa è del tutto inadeguata e restrit-tiva. Il saggio sul confucianesimo e il taoismo è soprattutto un’analisi storica dello Stato burocratico più sviluppato che mai sia stato conosciuto al di fuori dell’Europa. Il capitolo sui letterati (e sul ruolo e sul funzionamento degli esami) nel mantenimento della cultura burocratica in Cina risulta an-cora insuperato, soprattutto se lo si paragona a quella parodia della statistica che oggi viene spacciata per sociologia dell’educazione. Analogamente, il saggio sull’induismo, sotto l’apparenza di trattato sulla struttura delle caste, si rivela un’analisi serrata di una delle più alte manifestazioni dello spirito umano. Se le pagine di Weber sono lette senza l’arida equanimità di uno storico, che non può non rilevarvi un’erudizione enorme ma inevitabilmente superata, è difficile sottrarsi al pathos che ne emana. Anche se riferita alle

!14 Per una discussione di questi problemi nell’ambito della filosofia della storia, cfr. K. Löwith, Weltgeschichte und Heilsgescheben. Die theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie, Stuttgart, Kohlhammer, 1953; trad. it. Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Milano, Comunità, 19652. Una recente discussione del mito religioso dell’esodo e della redenzione, e delle sue conseguenze politiche, è M. Walzer, Exodus and Revolution, New York, Basic Books, 1985.

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religioni dell’Occidente, per esempio, la teodicea induista deve essere con-siderata teologicamente perfetta. Mentre però la teologia ebraico-cristiana della redenzione permette una soluzione innovativa dei dilemmi della con-dizione umana, la teodicea indiana àncora le speranze di redenzione indivi-duale al meccanismo irrazionale e ultraterreno del karman, la ruota delle reincarnazioni. In India la religione è suggello simbolico della condizione terrena; in Occidente l’evoluzione religiosa rappresenta la capacità dello stesso immaginario umano di aprirsi all’innovazione e alla storia. Nel confronto tra religioni occidentali e orientali emerge dunque il conflitto, conclusosi ormai senza possibilità d’appello, tra due tipi fondamentali di cultura umana.

Come tante opere letterarie e scientifiche intraprese sullo scorcio del XX secolo, anche la ricerca di Weber non è conclusa. Ai saggi sul prote-stantesimo, sulla Cina e sull’India, connessi da capitoli sinottici e compa-rativi, come l’importante Zwischenbetrachtung, dovevano seguire i saggi sull’ebraismo, sull’Islam e sul cristianesimo. Il saggio sull’ebraismo, che occupa da solo due terzi del secondo volume, si interrompe con l’analisi del popolo-pariah ebraico e della diaspora. Le altre due parti non sono mai state scritte. Ma l’interruzione, che fa della Sociologia della religione un gigantesco frammento, non è dovuta soltanto alla morte di Weber. Benché lo stile espositivo e il metodo di ricerca fossero rigorosamente documentari, i problemi di fondo trascendevano largamente le esigenze della ricerca erudita. Lo scopo di Weber era soprattutto spiegare la genesi del conflitto occidentale tra razionalità e irrazionalità in un confronto con le soluzioni orientali, ricostruire il paradosso per cui la maggiore conquista dell’Oc-cidente, la razionalità, costituiva la più potente minaccia alla sopravvivenza della cultura. La frammentazione e l’incompiutezza della ricerca sono un sintomo dell’impossibilità di risolvere il paradosso.

La posizione di Weber rispetto alla cultura moderna è facilmente rico-struibile in base ad alcuni scritti d’occasione,15 in cui il polemista e il filosofo si sostituiscono al ricercatore ossessionato dall’imparzialità e dal rigore documentario. Il razionalismo contemporaneo appare a Weber come l’erede

!15 Non mi riferisco soltanto a M. Weber, “La scienza come professione”, in Lavoro intellettuale come professione, cit., ma anche al saggio “Zwischen zwei Gesetze”, in Gesammelte politische Schriften, Tübingen, Mohr (Paul Siebeck), 1971; trad. it. “Tra due leggi”, in Scritti politici, Catania, Giannotta, 1970.

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della primitiva spiritualità borghese. Il cosmo sacro in cui questa poteva ancora trovare un senso al tempo dei puritani si è frammentato, è diventato letteralmente politeismo. Il ruolo che un tempo era svolto dalla religione è oggi occupato dalla razionalità strumentale, che Weber concepisce al tempo stesso come qualcosa di fatale, in quanto prodotta da uno sviluppo storico plurisecolare, e di limitato, proprio perché insidiata dalla rinascita del politeismo, e cioè dal conflitto di dèmoni inconciliabili, ovvero da valori e interessi eterogenei. Come il Nietzsche de La volontà di potenza – a cui si richiama spesso negli ultimi scritti – Weber concepisce la razionalizza-zione come un dovere, un dire di sì alla storia, e come una maledizione. Niente è più lontano da Weber di un’apologia della razionalità strumentale, come è divenuto abituale rinfacciargli. Al contrario, la razionalità è un ele-mento costitutivo della condizione umana nel mondo contemporaneo. Nel-l’accettazione di questo dualismo irrisolto Weber non ci può apparire come un patetico maestro del mondo di ieri. Egli si mostra in profonda sintonia con le conclusioni di gran parte della filosofia contemporanea, in primo luogo con gli esiti contraddittori e inquietanti della riflessione di Heidegger, singolarmente vicina, almeno nella sua ultima fase, alla discussione webe-riana del destino della razionalizzazione.16

2. La conoscenza tragica Come dimostra anche la sua rilevanza filosofica, l’influenza di Weber sulla cultura non accenna a diminuire. Diversamente infatti dall’opera di tanti suoi contemporanei che, dopo un’effimera notorietà, sono sopravvissuti solo nelle rassegne accademiche, la presenza di Weber è ingombrante oggi più di ieri. Ciò che ancora stupisce è che questa autorità sia stata conquistata non solo contro l’ostilità di parte del mondo accademico, ma quasi a dispetto dello stesso Weber. Una scuola weberiana non è mai esistita, almeno nel senso in cui si dice che è esistita una scuola durkheimiana. Gli allievi più noti, si pensi solo a Lukàcs o Schmitt, lo hanno respinto o hanno preso le distanze dal maestro. Come ricorda Jaspers, nell’ora della morte Weber era quasi sconosciuto al grande pubblico, il suo tentativo di influenzare il corso !16 Si veda ancora, sul rapporto Weber-Heidegger, C. Piche, “De Max Weber à Heidegger. L’historiographie comme liquidation méthodique de l’histoire”, cit.

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politico della Germania era fallito, i valori su cui aveva ostinatamente fon-dato l’azione politica erano già oltre il tramonto.17 A questo si aggiunga il carattere frammentario della sua opera. Prima che la sociologia ne facesse un padre fondatore, Weber sembra aver ispirato soprattutto filosofie esistenziali e negative, autori come Jaspers o Löwith. Come è possibile che un uomo così segnato dalla sconfitta possa essere legittimamente considerato ancora oggi emblema di un’epoca?18

Una prima risposta sembrerebbe legata a questo elemento di sconfitta, o a ciò che i critici nostalgici della cultura hanno chiamato la perdita del centro. Un paragone non del tutto arbitrario permetterebbe di stabilire la sintonia di Weber con quella stagione culturale in cui le grandi sistemazioni teoriche restano incomplete, mentre la dispersione appare l’unico esito pra-ticabile: narrazioni dell’esistenza borghese che da un luogo presunto rotolano verso l’incognita o si acquietano nel soliloquio, come in Broch, Musil o Joyce; e soprattutto sistemi filosofici che si arenano nelle aporie, avventure conoscitive che sperimentano il primo tempo del progetto e il secondo della disillusione, come in Wittgenstein o Heidegger.19 Weber avrebbe però rifiu-tato, proprio come Wittgenstein, la contaminazione del linguaggio della scienza con simili allusioni da “letterari” all’inesprimibile. Benché i riferi-menti al crollo della cultura borghese siano frequenti nei suoi scritti – e particolarmente taglienti soprattutto negli scritti politici – Weber non cede mai al fascino dell’ammiccamento o dell’allusività. Il ben noto richiamo al “pianissimo” (ovvero al ritirarsi nella sfera privata di ogni riferimento ai valori o all’autenticità dell’esistenza) si oppone soprattutto al misticismo con cui certi intellettuali si salvano l’anima nelle situazioni di crisi.20

!17 K. Jaspers, Max Weber. Deutsches Wesen im politischen Denken, Forschen und Philosophieren, Oldenburg, Stalling, 1932; trad. it. Max Weber politico, scienziato, filosofo, Napoli, Morano, 1969, pp. 35 sg. 18 Per una valutazione complessiva di tale problema si veda K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Napoli, Morano, 1966, appendice II, pp. 159 sg. 19 L’influenza di Weber su Jaspers e Löwith è ben nota. Ma andrebbe studiata la presenza di temi weberiani nelle formulazioni di Heidegger relative alla tecnica, alla razionalizzazione e al disincantamento. Mi riferisco in particolare a M. Heiddegger, “Die Zeit des Weltbildes”, in Holzwege, Frankfurt a. M., Klostermann, 1950; trad. it. “L’epoca dell’immagine del mondo”, in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968. 20 M. Weber, “La scienza come professione”, in Il Lavoro intellettuale come professione, cit., p. 75.

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Weber è infatti uno degli ultimi illuministi. Ma di tipo molto particolare, un illuminista sopravvissuto all’illuminismo. La peculiarità di Weber, non solo rispetto al decadentismo del suo tempo, ma soprattutto all’illuminismo classico (si pensi a Condorcet), è il rifiuto di ogni tentazione di utopia o ideologia del progresso storico. Egli infatti non distoglie lo sguardo dalle conseguenze negative dell’illuminismo (in altri termini della razionalizza-zione). In Weber, che disprezzava con pari forza il romanticismo, le filosofie della storia o le Weltanschauungen energetiche o finalistiche, c’è però la consapevolezza della storia come fattore cumulativo. Ciò significa che nel mondo umano lo sviluppo non ha “senso”, ma che oltre determinate soglie produce un cambiamento di stato irreversibile, tale che niente può essere come prima. Un epigono di Hegel inserirebbe questi cambiamenti in una prospettiva teleologica, mentre l’illuminista disincantato si costringe a con-siderarli senza riguardo al loro “senso”. Ciò non significa che egli rinunci a valutare l’evoluzione; soltanto, egli non pretende che l’attribuzione di senso sia spacciata come manifestazione di una verità trascendentale. Su questo punto dell’epistemologia weberiana molte sono state le incomprensioni. L’opera di Weber, comprese le parti più tecniche o squisitamente empi-riche, è un raro esempio di valutatività, che spesso diventa autentica passione. Niente è più falso di un Weber neo-positivista o “neutrale”. Ma le analisi del materiale storico-culturale e le valutazioni sono sempre distinte nelle sue ricerche. Weber, proprio perché si dichiara, permette sempre al lettore di separare i due momenti. In breve l’illuminista disincantato non lascia che i suoi valori inibiscano l’analisi della crisi dell’illuminismo.21

È necessario articolare brevemente questo aspetto, perché consente di mettere in rilievo alcune difficoltà evidenti negli scritti storici e politici. Rifiutare razionalità globali o trascendentali, come sforzarsi di contenere l’influenza delle convinzioni personali nel lavoro scientifico, è fare una scelta tragica, accettare la scissione dell’esperienza, una sorta di dualismo.22 Significa separare i propri valori (che per Weber hanno sempre un’origine

!21 Sulla relazione tra valori e analisi scientifica rimando a M. Weber, “L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale”, in Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958. pp. 65 sg. 22 Per la definizione del dualismo in Weber si veda l’importante contributo di M. Scheler ora tradotto come “L’esclusione della filosofia in M. Weber. Sulla psicologia e sulla sociologia del modo di pensare nominalistico”, Il Centauro, 1, 1981, pp. 135 sg.

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non razionalizzabile) dall’analisi del mondo, che deve avvenire secondo regole convenute e in un linguaggio comunicabile. L’uomo di scienza non permetterà che la sua visione del mondo, costituitasi e maturata nella sfera della soggettività, interferisca nella comprensione di ciò che ha scelto di indagare. Nella comprensione e nella spiegazione dei fatti ricorrerà a criteri riconoscibili e confutabili dagli altri; ma non si illuderà che essi consentano di esaurire la conoscenza di quei fatti, allo stesso modo in cui sarà scettico sulla capacità della scienza di penetrare il loro senso.23

Poiché egli sa che la motivazione alla conoscenza scaturisce dalla sfera soggettiva, non razionale, è consapevole che l’azione umana non può essere sostanzialmente attribuita a un prevalere di motivazioni razionali. Oltretutto non può darsi una sola razionalità, ma è necessario riconoscere diverse ra-zionalità relative a diversi valori, scopi e orientamenti. Weber ha sempre insistito sulla pluralità logica delle motivazioni del comportamento sociale. Esse possono essere costituite dagli interessi, dalle idee (se sostenute ade-guatamente da organizzazione e potere), dalla volontà di potenza, dalla combinazione di questi elementi e perfino dall’effettivo trovarsi degli uomini in situazioni contingenti di comunicazione sociale.24

Il fatto che un certo tipo di razionalità si affermi nella storia, date queste premesse, non deriva da necessità o senso metastorici, ma dal sovrapporsi di diversi elementi causali, dall’accumularsi irripetibile di condizioni deter-minanti, dal precipitare di fattori critici. Weber non ha mai preteso, ad esempio, che la sua analisi dell’origine religiosa dell’atteggiamento raziona-listico moderno fosse una spiegazione esauriente della genesi del capita-lismo, ma più modestamente un fattore decisivo tra altri. Analogamente, come non esiste una necessità della causazione, così non è pensabile per Weber una necessità degli effetti e delle conseguenze. Il razionalismo ma-turo, scaturito anche dall’individualismo etico di alcune sette protestanti, si dimostra empiricamente responsabile di una tendenza, la burocratizzazione del mondo, che costituisce una minaccia fatale per l’individualismo. Non vogliamo discutere qui la validità empirica di tali diagnosi, ma sottolineare !23 Per la discussione di questo punto si veda, oltre che il già citato saggio sull’oggettività, anche M. Weber, Saggi sulla dottrina della scienza, Bari, De Donato, 1980. 24 Si veda l’intervento di K. W. Deutsch in AA. VV., Max Weber und die Soziologie heute, Tübingen, J. C. B. Mohr, 1965; trad. it. Max Weber e sociologia oggi, Milano, Jaca Book, 1972, pp. 176-183.

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piuttosto che mai la professione di fede individualistica e razionalistica ha impedito a Weber di guardare, fino alle estreme conseguenze, l’esaurirsi delle possibilità individuali, in campo politico, e l’emergere di vari tipi di misticismo, irrazionalismo e perversione della razionalità moderna.25

Gli elementi più caratteristici della personalità teoretica di Weber, la scissione tra valori e razionalità, il riconoscimento della pluralità dei motivi e del politeismo, l’attenzione per gli effetti perversi dell’azione razionale, spiegano allora, ancor più del fascino della crisi e dello Stato magnifi-camente frammentario e sintomatico delle sue ricerche, l’influenza che la sua figura esercita ancor oggi nella cultura. Elementi che sono in definitiva comuni a tutta un’epoca, da cui noi ci illudiamo di essere usciti, e che risultano presenti, con pari vigore anche se in un contesto diverso, solo nell’opera di Nietzsche.

Un esame non prevenuto e necessariamente sommario della problematica fortuna di Weber mostra che sono stati proprio questi elementi a fare scan-dalo, a suscitare resistenze, rimozioni, interpretazioni parziali ed etichette di comodo. Solo per fare un esempio, a quasi trent’anni dalla sua morte le due celebri conferenze sulla scienza e sulla politica erano presentate in Italia con cautela e riserve. Weber era fatto apparire come un eminente dotto tedesco, pateticamente coinvolto nella fine del mondo di ieri, e comunque sovrastato dalla lunga ombra di Marx.26 Certo, era quella l’epoca di una pedagogia politico-culturale che sconsigliava la traduzione di Schopenhauer e di Nietzsche come potenziali corruttori di un pubblico ancora immaturo. Sulla cultura di sinistra si sarebbe in seguito abbattuto quel trattato di crimi-nologia filosofica che è il libro di Lukàcs sulla distruzione della ragione. La sociologia era considerata con sospetto, come prodotto di un commercio tra l’irrazionalismo europeo e l’imperialismo culturale americano. Ma questa resistenza non era limitata all’Italia. Con qualche eccezione più o meno illustre, tra cui Merleau-Ponty, Freund o Aron, Weber era ignorato o mini-mizzato anche in Francia, dove solo da pochi anni le sue opere più impor-tanti sono state tradotte. !25 Questo è un problema che non domina solo gli scritti politici, ma è anche presente nelle grandi opere di indagine sociologica: si consideri la discussione della redenzione degli intellettuali in Economia e società, cit., vol. I, pp. 505 sg., e la discussione sulla tensione tra razionalità ed etica, in Sociologia della religione, cit., vol. I, pp. 549 sg. 26 D. Cantimori, “Nota introduttiva” a Il lavoro intellettuale come professione, cit.

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È significativo però che anche la sociologia, soprattutto ai suoi inizi, non sia apparsa immacolata nell’uso dell’eredità weberiana. Non ci rife-riamo solo all’annacquamento del discorso di Weber in confronti spesso ingiustificati o ritualistici con altri classici della tradizione sociologica, quanto invece alla vera e propria rimozione di alcuni elementi decisivi. Anche qui, solo un esempio, che ci porta direttamente a contatto con il problema della teoria politica weberiana. In La struttura dell’azione sociale di Parsons, libro che ha sancito il ruolo di Weber nella fondazione della sociologia contemporanea, gli scritti politici weberiani vengono a malapena citati.27 Parsons dedica infatti gran parte della sezione su Weber a un’analisi sistematica della sociologia della religione. L’uso degli scritti politici – come d’altra parte una discussione meno convenzionale dei saggi episte-mologici – non avrebbe consentito a Parsons di far confluire l’opera di Weber in una teoria generale dell’azione sociale. Negli scritti politici appa-iono la vivace ostilità di Weber per il collettivismo, il suo individualismo grande-borghese, l’importanza attribuita alla nozione di potenza nell’analisi della politica e della storia, la concezione quasi eraclitea della lotta come significato profondo delle vicende umane. Un individualismo che ha un evidente corrispettivo nel carattere nominalistico dell’epistemologia. Weber non usa concetti riferiti al “sociale” come ente autonomo (nel senso dur-kheimiano). L’individuo resta il soggetto agente sulla scena sociale. La razionalità è sempre relativa a un senso che si suppone l’attore attribuisca alla sua azione in presenza di altri. Non esiste coscienza collettiva in Weber (che ne avrebbe parlato come di un concetto da “letterati”) e nemmeno una nozione elaborata di intersoggettività, così che a buon diritto la fenome-nologia ha criticato come debole la teoria weberiana della costituzione soggettiva dell’azione.28

!27 T. Parsons, in The Structure of Social Action, Glancoe, Free Press, 1949, trad. it. La struttura dell’azione sociale, Bologna, Il Mulino, 1968, si limita a ricordare che “Egli ebbe una profonda, quasi tragica consapevolezza dell’importanza della coercizione nelle cose umane, e le sue opere politiche ne sono tutte pervase”. 28 A. Schütz, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt, Wien, Springer, 1932, trad. it. La fenomenologia del mondo sociale, Bologna, Il Mulino, 1974.

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3. L’antinomia del politico Gli scritti politici, recentemente tradotti o ripubblicati in Italia, consentono, forse più di ogni altra opera, di riesaminare il nucleo personale, etico e idiosincratico dell’opera weberiana. Non si creda però che essi costituiscano una specie di appendice del corpus maggiore. Allo stesso modo dell’episto-lario di un grande scrittore, essi sono insieme un potente indicatore teorico e un’opera a sé, che richiede una discussione autonoma. In particolare il più lungo e più importante, Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland,29 contiene una efficace descrizione del processo di razionaliz-zazione burocratica e una teoria della crisi delle élite politiche in Germania. I due elementi, che corrispondono approssimativamente alla dimensione empirica e a quella pratico-valutativa della teoria di Weber, non possono essere separati. È proprio il processo di burocratizzazione, visto sotto l’a-spetto del prevalere dell’amministrazione professionale dei funzionari statali sulla decisione politica, che pone il problema delle strategie di preparazione e selezione di un gruppo di politici capaci. Il problema della democrazia par-lamentare è discusso esclusivamente in funzione di questo risultato.

!29 M. Weber, “Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland. Zur politischen Kritik des Beamtentums und Parteiwesens”, in Gesammelte Politische Schriften, Tübingen, J. C. B. Mohr, 1958, pp. 294-431. Di questo saggio esistono ormai tre traduzioni, oltre a parti comprese in Economia e società, cit.; una prima traduzione, a cura di E. Ruta, e ormai scarsamente utilizzabile, fu pubblicata da Laterza nel 1919. Due nuove traduzioni sono uscite negli ultimi anni: Parlamento e governo, a cura di F. Fusillo e con premessa di F. Ferrarotti, Bari, Laterza, 1982; Parlamento e governo e altri scritti politici, a cura di L. Marino e con introduzione di W. J. Mommsen, Torino, Einaudi, 1982. Con la pubblicazione di queste due edizioni gli scritti politici di Weber risultano tradotti in gran parte, restando esclusi alcuni scritti brevi, di cui Einaudi annuncia comunque la pubblicazione nell’ambito di un’edizione completa degli scritti politici. Una buona parte di saggi weberiani (compreso quello importantissimo sul socialismo) è tradotta in Scritti politici, a cura di A. Bruno, Catania, Giannotta, 1970; i saggi sulle due rivoluzioni russe sono disponibili in Sulla Russia, a cura di M. Protti e con presentazione di P. P. Giglioli, Il Mulino, 1981. In questo capitolo abbiamo tenuto conto di entrambe le recenti traduzioni del saggio sul parlamento. Una notevole atten-zione è stata recentemente attribuita al pensiero politico di Max Weber. Si veda in particolare: AA. VV., Razionalità e Politica, Venezia, Arsenale, 1981; L. Cavalli, Il capo carismatico, Il Mulino, 1982. In generale, per uno sguardo d’assieme sull’attualità socio-logica e politica di Weber, si veda soprattutto AA. VV., Max Weber e l’analisi del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1982.!

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Il saggio, scritto durante la Prima Guerra Mondiale nel momento di impasse dell’iniziativa bellica degli imperi centrali, risente dell’atmosfera di prevedibile sconfitta della Germania. Nella prima parte Weber esamina i presupposti della crisi. Essi possono essere sintetizzati nella mancanza di una struttura politica adeguata alla potenza economica e militare della Ger-mania. Le cause di questa inadeguatezza vengono fatte risalire a Bismarck. Weber riconosce in quest’ultimo il genio politico ma anche il distruttore di una potenziale élite di politici responsabili. Non solo Bismarck “non poteva tollerare accanto a sé una potenza in qualche modo autonoma, che agisse cioè sotto la propria responsabilità”,30 circondandosi di mediocri e sicofanti, ma soprattutto ha indebolito il sistema parlamentare e gli stessi partiti, come il Centro, che avrebbero potuto continuare stabilmente la sua politica. In se-condo luogo ha promosso una politica sociale puramente demagogica che, insieme alle leggi speciali contro i socialisti, ha impedito il formarsi di un vero consenso popolare. È necessario qui citare per esteso, per dare un’idea dello spirito nietzscheano con cui Weber demolisce l’opera di Bismarck:

Egli respinse come un’ingerenza nei diritti padronali [...] la protezione dei lavoratori, che era certamente la cosa più indispensabile per la conserva-zione della forza fisica del nostro popolo [...]. Ottenemmo rendite per gli ammalati, gli infortunati, gli invalidi, gli anziani. Questo era certo apprez-zabile, ma poi non ottenemmo però le garanzie più di ogni cosa necessarie per la conservazione della vitalità fisica e psichica e per la possibilità di una reale e consapevole rappresentanza degli interessi dei sani e dei forti, di coloro cioè che, da un punto di vista puramente politico, sono quelli real-mente importanti […] uno stato che voglia fondare lo spirito del suo esercito di massa sull’onore e sul cameratismo, non deve dimenticare che anche nella vita quotidiana, nelle lotte economiche dei lavoratori, il sentimento dell’onore e del cameratismo genera le sole forze morali decisive per l’educazione delle masse, e che perciò bisogna lasciare che esse operino liberamente.31 A questi elementi storicamente contingenti, che hanno indebolito sia la

decisione responsabile sia un moderno consenso nella politica tedesca, Weber aggiunge gli effetti politici dello sviluppo dell’amministrazione bu-rocratica. Non è necessario ricordare le notissime pagine sulla burocrazia

!30 M. Weber, Parlamento e governo, ed. Laterza, cit., p. 16. 31 Ibidem, pp. 18-19.

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come macchina, come spirito “rappreso”.32 Resta il fatto che in Germania il sovrapporsi di impotenza della volontà politica e di potere burocratico ha fatto sì che la direzione degli affari politici cadesse nelle mani dei funzionari. Ciò costituisce un ulteriore fattore di indebolimento proprio per la diversa natura della potenza burocratica e della potenza politica:

II funzionario deve stare “al di sopra dei partiti”, cioè in realtà al di fuori della “lotta” per conquistare una potenza propria. Al contrario la lotta per la propria potenza, e la “responsabilità” personale per la propria causa che da questa potenza deriva, è l’elemento vitale del politico come dell’imprenditore.33

La sostituzione dei funzionari ai politici si rivela disastrosa soprattutto

nei rapporti con la Corona. Una parte consistente del saggio è dedicata al servilismo e alla mancanza cii responsabilità con cui la classe politica tedesca ha accettato le interferenze dell’imperatore nella politica estera. Per Weber non si tratta solo della preminenza della Prussia, e della casta aristocratico-militare in essa dominante, nella confederazione tedesca, ma della mancanza di responsabilità dei politici nei confronti dell’imperatore. È stato proprio il servilismo da “funzionari” che ha permesso i catastrofici interventi dell’im-peratore nelle crisi internazionali che hanno preceduto la Prima Guerra Mondiale, dall’affare Krüger alla crisi di Agadir.34

La preoccupazione dominante di Weber è dunque la creazione di stru-menti che permettano la preparazione e la selezione di un ceto politico re-sponsabile nell’amministrazione interna e nell’uso della “parola pubblica” in politica estera. Il principale di questi strumenti è il parlamento. Di questo organo Weber ha una concezione assolutamente funzionale:

I parlamenti moderni sono in primo luogo rappresentanze di soggetti dominati con i mezzi della burocrazia. Un certo minimo di consenso interiore almeno da parte degli strati socialmente importanti dei dominati è certamente la

!32 Ibidem, p. 36. 33 Ibidem, p. 39. 34 Weber ha sempre mantenuto un atteggiamento di dura critica per gli interventi dell’im-peratore in politica estera. In una lettera a F. Neumann del 1906 egli scrive: “La dose di disprezzo – a ragione: questo è l’elemento importante! – che noi ci meritiamo all’estero come nazione, non facendo nulla contro il regime di quest’uomo, è diventato addirittura un fattore di prima importanza politica…”. In Gesammelte Politische Schriften, I edizione, München, 1921, citato in W. J. Mommsen, L’età dell’imperialismo, Milano, Feltrinelli, 19835, p. 221.

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condizione preliminare della durata di qualsiasi potere, anche del meglio organizzato. I parlamenti sono oggi il mezzo per manifestare esteriormente questo minimo di consenso.35

Questa definizione, che non ha alcun riguardo per il valore della rappre-

sentanza in quanto tale, rende implausibile ogni interpretazione di Weber come alfiere della democrazia. Non c’è dubbio che i soggetti politici siano “durch die Mittel der Bürokratie Beherrschten”.36 La funzione di questa rappresentanza consensuale dei dominanti si può sintetizzare in due punti: permettere, attraverso il dibattito, la lotta e il lavoro politico quotidiano, la formazione di politici con “qualità di capo autenticamente politiche e non meramente demagogiche”; controllare continuamente l’amministrazione dei funzionari e collaborare attivamente con essa. A queste due funzioni stra-tegiche del parlamento Weber affida le possibilità di una ricostruzione poli-tica della Germania.

Fin qui la discussione della funzione della democrazia parlamentare, della necessità di limitare l’invadenza della burocrazia, e la stessa analisi del razionalismo burocratico come fatale compimento della supremazia oc-cidentale, sono in sintonia con le più note meditazioni e ricerche di Weber. Nel saggio sulla politica come professione, che segue di pochi mesi lo scritto sul parlamento, Weber riprenderà con forza ancora maggiore gli stessi argomenti. La democrazia in quanto tale non risolve il problema della direzione politica, se mancano uomini con qualità carismatiche capaci di esercitarla. La democrazia è pertanto un involucro, oltre che uno strumento necessario ma non sufficiente, che può essere riempito solo dal fattore logi-camente imprevedibile e politicamente irrazionale del carisma. Ma anche la presenza del capo carismatico finisce per essere un elemento di compli-cazione della vita politica. In realtà per Weber non è praticabile una forma pura di democrazia, ma si tratta di scegliere tra due soluzioni potenzial-mente perverse:

Ma non v’è che questa scelta: o democrazia autoritaria (Führerdemokratie) e organizzazione di tipo “macchina”, o democrazia senza capo, vale a dire

!35 M. Weber, Parlamento e governo, ed. Laterza, cit., p. 43. 36 M. Weber, Gesammelte Politische Schriften, edizione 1958, cit., p. 327.

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dominio dei “politici di professione” senza vocazione, senza le qualità intime carismatiche che appunto creano un capo.37 La creazione di un sistema parlamentare in quanto tale non risolve

dunque il problema della guida politica. Emerge qui il carattere dualistico, e se si vuole logicamente conflittuale, della posizione weberiana. Da una parte l’esercizio del dominio (con i suoi corollari, come la passione per la potenza e l’elemento demoniaco che vi è intrinseco) è il significato stesso dell’agire politico; dall’altra questo esercizio deve conciliarsi con i moderni strumenti convenzionali della politica professionale. Non c’è dubbio che il dominio (Herrschaft) sia il punto fermo della prospettiva concretamente politica di Weber. Nel saggio sul parlamento egli definisce così il significato di una ricostruzione della potenza tedesca: “Solo i popoli di signori sono chiamati a intervenire nel destino del mondo”.38 L’esercizio del dominio è allora sia il contenuto dell’azione politica individuale sia il significato dell’azione dello Stato. Ma è fatale che per Weber tale esercizio debba venire a patti con i vincoli imposti da una moderna struttura istituzionale. In poli-tica interna ciò significa accettare, tra l’altro, la rappresentanza degli interessi dei lavoratori e moderni istituti di formazione del consenso. Analogamente, in politica estera, gli interessi dei ceti o gruppi tradizionali (la Corona, i militari) devono essere subordinati alle esigenze della diplomazia moderna. In questa dialettica aperta tra contenuti profondi dell’agire politico e artico-lazione degli strumenti moderni della “democrazia” e della diplomazia è tutta l’irriducibilità della posizione di Weber a formule convenzionali.

Il dualismo, come coesistenza di due istanze in irriducibile conflitto, è una caratteristica essenziale della teoria politica weberiana. Esso non si esprime solo nella citatissima opposizione di etica della responsabilità ed etica della convinzione, ma nella dialettica tra carattere logicamente irrazio-nale della potenza e necessaria accettazione delle forme della modernizzazione politica: concretamente, nella necessità di far coabitare la direzione politica e la lotta parlamentare. I due momenti non possono essere separati. Weber ha spesso espressioni sprezzanti per il “convenzionalismo anglosassone”,

!37 M. Weber, “La politica come professione”, in Il lavoro intellettuale come professione, cit., p. 131. 38 M. Weber, Parlamento e governo, ed. Laterza, cit., p. 158.

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ma sa bene come la complessità moderna imponga, anche se in una pro-spettiva strumentale e per così dire pedagogico-professionale, la diffusione degli organi “convenzionali” del potere. Ecco dunque il senso della polemica contro i letterati e la loro opposizione neoromantica al parlamentarismo.

Nel saggio sul parlamento coesistono in definitiva sia la manifestazione delle convinzioni profonde di Weber (i suoi valori fortemente ancorati alla tradizione culturale tedesca), sia quella passione del reale che si identifica con la fatalità della modernizzazione. Con la subordinazione a una razionalità che egli disprezza profondamente, ricompare l’aporia che conclude il saggio sull’etica protestante. In quest’ultimo si sottolineava la necessità etica di non negare la razionalità dominata dai gaudenti senza cuore. Negli scritti politici si sottolinea impassibilmente il dominio dei Berufspolitiker ohne Beruf, cioè dei professionisti della politica che hanno smarrito la vocazione, che pure è all’origine di un autentico agire politico.39 Dell’identificazione di Weber con la tradizione del suo ceto e della sua nazionalità sono indubbie testimonianze gli espliciti riferimenti allo “staffile” russo e alla minaccia degli eserciti costituiti da “negri” e masse incolte nella Prima Guerra Mon-diale. Dell’accettazione per la fatalità della modernizzazione sono prove evidenti le prese di posizione sulla guerra sottomarina, la durissima oppo-sizione all’avventurismo della Corona e dei militari, il tentativo di ottenere condizioni di pace onorevoli per la Germania con la consegna al nemico dei capi militari più esposti.40

L’evidente irriducibilità dell’antinomia del politico rende altamente discutibili le interpretazioni correnti del pensiero politico di Weber. In particolare non sembrano accettabili né l’appiattimento delle sue posizioni in un virtuoso parlamentarismo, né il rilievo dato ai presunti esiti totalitari della critica della democrazia. È noto che W. Mommsen in particolare fa di

!39 È noto che per Weber il fatto decisivo è quello di mantenere un margine di libertà per alcuni in un sistema sociale dominato dalla burocratizzazione, dal servilismo dei funzionari, dalla parcellizzazione dell’anima. Queste formulazioni mostrano indubbiamente il carattere elitario della nozione di democrazia in Weber. In tal senso si trovano già in un intervento del 1909 al Verein für Sozialpolitik: “La questione è che cosa possiamo opporre a questo mecca-nismo per mantenere una porzione di umanità libera da questa parcellizzazione dell’anima, da questo supremo dominio dello stile di vita burocratico” (cfr. M. Weber, Scritti politici, cit., p. 115). 40 Si vedano i due testi pubblicati in appendice a Parlamento e governo, ed. Einaudi, cit.

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Weber una sorta di precursore di Schmitt.41 Ora, se è vero che il problema della direzione e della decisione è una preoccupazione costante degli scritti politici, è altrettanto vero che per Weber esso è una condizione necessaria dell’esercizio del potere, non la soluzione del problema della legittimità, come in Schmitt. Per Weber, diversamente da quest’ultimo, la lotta politica moderna implica la necessità del pluralismo. La democrazia parlamentare, proprio nel senso funzionale e strumentale discusso precedentemente, è un fardello indispensabile del moderno esercizio del potere.42

Il carattere conflittuale delle posizioni weberiane (che fanno pensare ai signori rinascimentali descritti da Burckhardt) acquista proprio una dimen-sione tragica nel riconoscimento della necessità di accettare le mediazioni della realtà politica moderna. L’antinomia del politico non è quindi risolta in Weber. Essa testimonia, da questo punto di vista, il punto più alto della crisi dell’individualismo politico contemporaneo. Il documento più impres-sionante di tale antinomia è il breve scritto Tra due leggi.43 In esso appare come l’uomo politico moderno consapevole della sua epoca non possa più appellarsi a nessuna idea di purezza, come la sua anima non possa più salvarsi. Preso al laccio dal determinismo degli interessi e dal demone della potenza, egli non potrà che far scontrare, in un duello mortale, i suoi valori con i vincoli della necessità e della contingenza. Ma se non c’è innocenza dei giusti, non è possibile un’innocenza del demoniaco, nel senso illustrato da Nietzsche, e tantomeno un’utopia della decisione pura, come in Schmitt. I diversi valori e le diverse razionalità si mescolano senza possibilità di scelta e possono trovare una temporanea mediazione nelle forme raziona-lizzate e convenzionali della politica. Nell’impossibilità di sottrarsi a tale contaminazione è la forza del messaggio weberiano.

!41 Secondo Mommsen, Weber sarebbe stato condotto da una sopravvalutazione del processo di burocratizzazione a prefigurare come unica soluzione individualistica la democrazia plebiscitaria e la necessità di capi carismatici. Cfr. W. J. Mommsen, Max Weber und die Deutsche Politik 1880-1920, Tübingen, J. C. B. Mohr, 1959, pp. 386 sg. Per una discussione più equilibrata di tutto il problema si veda D. Beetham, Max Weber and the Theory of Modern Politics, London, George Allen & Unwin, 1974. 42 Sulla tensione tra direzione politica e democrazia parlamentare in Weber insiste anche R. Bendix, Max Weber. An Intellectual Portrait, New York, Anchor Books, 1960, soprattutto pp. 385 sg.; trad. it. Max Weber. Un ritratto intellettuale, Bologna, Zanichelli, 1984. 43 M. Weber, “Tra due leggi”, in Scritti politici, cit., pp. 119-124.

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In questo senso gli scritti politici, e in particolare quello sul parlamento, restano attuali e influenti. Nelle pagine di Weber risuona un appello ad af-frontare le aporie etiche e materiali della politica, un appello assente nelle moderne e ultraconvenzionali teorie sociologiche. La dialettica di direzione e rappresentanza, che gli apologeti della democrazia tendono a tradurre in una mera questione di tecniche e di strumenti, non ha perso né forza né at-tualità. Ma soprattutto nell’analisi delle condizioni moderne del potere Weber mostra una estrema consapevolezza di quella funzionalizzazione della vita sociale su cui oggi tanto si insiste. Da questo punto di vista le critiche attuali che fanno di Weber un teorico condizionato da una concezione ottocentesca del potere appaiono, proprio alla luce degli scritti politici, fuori bersaglio. Weber, per ciò che le condizioni storiche della sua epoca e i suoi stessi valori gli permettevano, mostra una rara consapevolezza della progressiva scomparsa dei significati, della trasformazione della lotta democratica in ritualismo, del disincantamento e della strumentalizzazione dei valori liberali. In questo senso, i suoi scritti politici, anche se storicamente condizionati dall’autunno della Germania guglielmina, offrono straordinarie indicazioni sulla natura della democrazia attuale.