Il patrimonio culturale nell'era della globalizzazione del ... patrimonio culturale nell'era... ·...

10
Il patrimonio culturale nell’era della globalizzazione e del turismo di massa Bizot Group, Firenze 11 Aprile 2014 Grazie per l'invito. Il titolo di questa sessione è stimolante. Mette insieme concetti che possono sembrare in contraddizione. Il concetto di patrimonio è legato soprattutto alla cultura, qualcosa che è stato conservato dal passato e deve essere conservato per il futuro. La globalizzazione e il turismo di massa sono invece concetti sociologici o economici che riguardano la nostra epoca. Io sono un economista, voi siete soprattutto storici dell'arte, direttori di musei, esperti d'arte. Lo scopo di questo dibattito è vedere se possiamo trovare un terreno comune, o se le nostre vedute su queste questioni divergono completamente. Il titolo della conferenza suggerisce una qualche forma di contrapposizione tra il patrimonio culturale, da un lato, e il turismo di massa e la globalizzazione, dall'altro. I patrimoni dell'umanità - in particolare, il patrimonio culturale - sono minacciati dalla globalizzazione e dal turismo di massa? O la globalizzazione rappresenta un'opportunità per il patrimonio culturale?

Transcript of Il patrimonio culturale nell'era della globalizzazione del ... patrimonio culturale nell'era... ·...

 

Il patrimonio culturale nell’era della globalizzazione e del turismo di massa Bizot Group, Firenze 11 Aprile 2014 Grazie per l'invito. Il titolo di questa sessione è stimolante. Mette insieme concetti che possono sembrare in contraddizione. Il concetto di patrimonio è legato soprattutto alla cultura, qualcosa che è stato conservato dal passato e deve essere conservato per il futuro. La globalizzazione e il turismo di massa sono invece concetti sociologici o economici che riguardano la nostra epoca. Io sono un economista, voi siete soprattutto storici dell'arte, direttori di musei, esperti d'arte. Lo scopo di questo dibattito è vedere se possiamo trovare un terreno comune, o se le nostre vedute su queste questioni divergono completamente. Il titolo della conferenza suggerisce una qualche forma di contrapposizione tra il patrimonio culturale, da un lato, e il turismo di massa e la globalizzazione, dall'altro. I patrimoni dell'umanità - in particolare, il patrimonio culturale - sono minacciati dalla globalizzazione e dal turismo di massa? O la globalizzazione rappresenta un'opportunità per il patrimonio culturale?

 

Nel mondo dell'arte sembra sussistere un timore legato all'onda crescente del turismo di massa. Forse si teme che sia più difficile conservare il patrimonio culturale in presenza di una domanda crescente di questo tipo, rivolta soprattutto alle "icone" culturali. Il turismo di massa potrebbe anche confondere il messaggio culturale globale che il patrimonio artistico dovrebbe trasmettere alle nostre società. Per essere concreti, è noto che una percentuale sempre più alta dei turisti che raggiungono Firenze ci trascorrono solo qualche ora, e si mettono in fila prima agli Uffizi e subito dopo all'Accademia, soprattutto con lo scopo di vedere la Venere di Botticelli e il David di Michelangelo, fare una fotografia e qualche acquisto veloce e poi continuare, o verso Nord, con destinazione Venezia, o verso Sud, a Roma, dove si comporteranno più o meno allo stesso modo. I turisti un po' più sofisticati potrebbero trascorrere un tempo più lungo agli Uffizi e all'Accademia, e forse spingersi addirittura fino a Palazzo Pitti e al giardino di Boboli. Questo è naturalmente un ritratto caricaturale, ma rappresenta il genere di turismo di cui vogliamo discutere. Quest'orda di turisti crea una serie di esternalità (termine che gli economisti usano per alludere alla presenza di un fallimento di mercato) per le città e i musei che visitano. Si creano lunghe code, facendo sorgere un'economia sommersa e sporcando i dintorni dei musei. Si rende difficile il godimento della visita agli altri amanti dell'arte. Si mette alla prova le strutture dei musei, la sorveglianza, le stesse opere d'arte. Il risultato è di creare molti insoddisfatti: i visitatori sono insoddisfatti perché devono aspettare troppo, invece di andare in altri musei o dedicarsi allo shopping; gli altri visitatori perché non possono vedere i loro capolavori preferiti come avevano sperato. I direttori dei musei sono

 

insoddisfatti, perché le loro opere sono sotto stress; i direttori degli altri musei, molto meno noti, sono insoddisfatti perché i turisti non hanno tempo per visitarli (questi luoghi meno noti a Firenze includono il Bargello, Palazzo Pitti, San Lorenzo, San Marco e Santa Croce). Anche i commercianti sono insoddisfatti, perché se i turisti perdono tempo in coda, non comprano. Il Sindaco è insoddisfatto, perché i commercianti sono insoddisfatti. L'elenco potrebbe andare avanti... La risposta di un economista a questo problema è l'innalzamento del prezzo del biglietto, che nel caso di Firenze probabilmente è davvero troppo basso e non sufficientemente discriminante. Questa soluzione ridurrebbe l’accesso e aumenterebbe i ricavi, che potrebbero verosimilmente essere usati per garantire un miglior funzionamento dei musei. I fondi addizionali potrebbero anche essere usati per promuovere altri siti meno noti. Questo processo di autoselezione, a fronte dell'aumento di domanda che nasce dal turismo in crescita, probabilmente porterebbe, nel corso del tempo, a tariffe di ingresso sempre più alte. Le icone di Botticelli e Michelangelo non sono molto numerose e, se l'offerta è rigida e la domanda è in aumento, i prezzi sono destinati ad aumentare sempre di più. Dopo tutto, è quello che è accaduto con il prezzo del petrolio. In meno di dieci anni è passato da 20 dollari al barile a 130 dollari al barile! Paragonare la Venere di Botticelli a un barile di petrolio può essere scioccante. In realtà, l'arte non è una merce. Non può essere trattata allo stesso modo. Così la soluzione di restringere l'accesso solo mediante la leva del prezzo non è molto popolare, nemmeno tra i politici e forse neanche tra gli esperti d'arte. Dopotutto, l'arte è universale. Si può razionare l'accesso solo sulla base della ricchezza! L'arte è anche parte del soft power che il

 

mondo occidentale può usare (e dovrebbe probabilmente usare meglio) in questo mondo sempre più globale. Inoltre, il turismo è una fonte essenziale di crescita economica per le economie avanzate. Paesi come l'Italia non possono semplicemente ignorare questa fonte di reddito. Allora qual è la soluzione? Non oso proporre rimedi in questo contesto. Comunque vorrei sollevare due questioni. La prima, come accennavo prima, è una questione che non riguarda solo i musei e l'arte, ma molti altri aspetti della nostra società. Prima ho citato il petrolio, che forse non è altrettanto nobile, ma un altro aspetto legato alla globalizzazione è l'istruzione. La globalizzazione sta mettendo a dura prova l'istruzione pubblica in tutti i paesi, creando una nuova concorrenza per l'istruzione di qualità, costringendo le scuole e le università a cambiare. Riguarda anche le imprese e le infrastrutture, che devono affrontare mercati e flussi di persone molto più grandi. Pensate agli aeroporti, che devono cambiare non solo nelle dimensioni, ma anche nell'organizzazione, per riuscire a gestire i milioni di persone che viaggiano. Gestire un aeroporto oggi è molto più complicato rispetto a solo pochi anni fa e richiede tecnologie molto sofisticate per dirigere il flusso delle persone e delle macchine. L'accostamento tra la gestione aeroportuale e la gestione museale è ancora troppo scioccante? In verità, la globalizzazione riguarda tutti, e può essere affrontata solo con il cambiamento e la capacità di adattamento. La recente crisi ha mostrato che quelli che non si adattano sono quelli più a rischio.

 

Questo riguarda anche il mondo dell'arte, il mondo del patrimonio culturale, il mondo dei musei. Forse non è una coincidenza che l'Italia sia il Paese che ha il più grande patrimonio culturale, e allo stesso tempo il più grande debito pubblico, in rapporto al suo reddito. Non è chiaro se ci sia una qualche correlazione tra i due fenomeni, o quale sia la causa e quale l’effetto. Di fatto, lo Stato italiano ha sempre meno denaro da dedicare alla conservazione del nostro patrimonio culturale. È un peccato, addirittura uno scandalo. Ma è un fatto, e negarlo serve solo a rimandare la soluzione. E se la soluzione è rimandata troppo a lungo, anche se alla fine sarà molto meno che ottimale. Non è una sfida che riguarda solo la cultura. Si pone anche per i problemi di finanza pubblica. I Paesi che rimandano le misure per mettere in ordine i loro bilanci finiscono per prendere le decisioni peggiori (la cosiddetta austerità), alzando le tasse e tagliando indiscriminatamente la spesa pubblica. Lo ripeto: c'è bisogno di cambiare per affrontare le sfide della globalizzazione e il calo delle risorse pubbliche destinate alla cultura. È necessario cambiare anche il modo in cui il patrimonio culturale è gestito, che significa non solo conservarlo, ma anche aumentarne il valore per la società nel suo complesso. Ciò probabilmente richiede di mettere a lavorare insieme competenze diverse, come accade sempre più spesso in altri campi. In Italia, questo problema è reso più difficile da due fattori. Il primo è che il patrimonio artistico è composto non solo dalle opere d'arte, ma anche dagli edifici che contengono queste opere, e a volte anche dal modo in cui le opere sono in relazione con l'edificio che le ospita.

 

Faccio un esempio pratico. Un modo per fare spazio alla massa crescente del turismo è di facilitare il flusso dei visitatori, cambiando il modo in cui le opere d'arte sono esposte nei musei, in modo da accelerare il movimento delle persone, evitare l'affollamento e impedire di risalire lungo il percorso. Mi immagino che questa sia solo una tra le tante preoccupazioni dei direttori dei musei oggi, specialmente di quelli che dirigono musei in cui il flusso dei visitatori aumenta in specifici periodi dell'anno. Eppure non è necessariamente così semplice. Consideriamo come esempio (il mio esempio preferito) una delle sale museali più belle al mondo, la sala dove la Venere di Botticelli è esposta agli Uffizi. È una sala con 15 dipinti di Botticelli. Ognuno di essi merita di essere ammirato dalla distanza corretta, per un tempo lungo. È semplicemente impossibile! È impossibile oggi, a meno che si faccia una visita privata. Solo durante una visita privata agli Uffizi ci si può sentire inebriati, senza aver inalato sostanze. Se la visita è durante il normale orario di apertura, il senso di eccitazione è contaminato dal fastidio di dover spingere e essere spinti da troppe persone. Una domanda: sarebbe meno fastidioso, per un visitatore, dover aspettare del tempo in fila, ma poi avere il capolavoro tutto per sé, come se fosse una visita esclusiva? In altre parole (per essere provocatorio): se paragoniamo i due modi diversi in cui sono presentate al pubblico la Venere di Botticelli agli Uffizi e la Gioconda di Leonardo al Louvre, quale dei due fornisce un'esperienza migliore al visitatore?

 

Questa domanda è importante in sé, perché fornisce una prospettiva diversa su quello che gli economisti chiamano il "lato della domanda". Che cosa vogliono i visitatori dei musei? Non tutti i visitatori vogliono la stessa cosa, ma forse è importante capire le differenze, ad esempio come si distribuiscono a seconda dell'età, del Paese di origine, ecc. Qui c'è bisogno di umiltà. Possiamo desiderare che i visitatori abbiano certi desideri, che riguardano in particolare la completezza della loro esperienza culturale nel museo. Ma i visitatori possono essere molto diversi da ciò che vorremmo che fossero. Lo so per esperienza personale. La prima volta che portai i miei figli al Louvre (all'epoca avevano 10 e 8 anni), accettarono solo a condizione che vedessimo la Gioconda di Leonardo. Non so perché avessero quest'ossessione, ma probabilmente avevano sentito parlare del capolavoro di Leonardo a scuola. Suggerii che c'erano molti altri dipinti al Louvre che valeva la pena vedere, ma cominciarono a lamentarsi di essere stanchi e di non avere voglia di passare ore in un museo. In questo genere di negoziati, i genitori di solito perdono. Così andammo all'ingresso principale, comprammo i biglietti e cominciammo a cercare le indicazioni per la Gioconda, come se fosse una caccia al tesoro. Alla fine la trovammo, e ci mettemmo in coda per vederla. Per fortuna la fila non era così lunga e avemmo la possibilità di vederla quasi tutta per noi. I bambini erano semplicemente felici, come se avessero vissuto il sogno di tutta la vita. E adesso? Chiesi loro se volevano vedere un altro dipinto di Leonardo, proprio dietro l'angolo, che in realtà è molto più bello della Gioconda, anche se meno noto come icona. Erano così entusiasti che accettarono e mi seguirono. Poi proposi di guardare altri dipinti italiani che i re francesi avevano rubato dall'Italia (dovevo farlo suonare un po' avventuroso!) e li indussi a esplorare tutto il piano per più di due ore. Alla fine erano esausti ma felici.

 

Questo è un aneddoto, e non si possono trarre troppe conclusioni dagli aneddoti. Ma mi chiedo quanti visitatori appartengano più alla categoria dei miei figli che alla mia, in termini di preferenze ex ante. La domanda successiva è se l'offerta debba, e possa, adattarsi alla domanda che cambia. Possiamo usare i musei in un modo diverso? Che cosa fa parte del patrimonio? Le opere d'arte, o anche il modo in cui sono esposte? Chi dovrebbe decidere di fare il cambiamento? A meno che i direttori dei musei, o i responsabili della conservazione del patrimonio, prendano tali decisioni, è possibile che alla fine siano altri a prenderle. La tendenza recente di prendere un dipinto "iconico" e mostrarlo fuori contesto, come parte di un progetto di "marketing", sta diventando sempre più irresistibile, attirando grandi sponsorizzazioni. Questo è mettere le arti al servizio del business, anziché il business al servizio dell'arte. Sempre più spesso le imprese condizionano il loro finanziamento alla cultura a questo sfruttamento di massa. È solo colpa degli operatori economici? Non è in parte anche il risultato della resistenza dei musei a cambiare per adattarsi meglio alla globalizzazione? Vorrei concludere con un esempio concreto di quello che facciamo a Palazzo Strozzi, che non è un museo ma uno spazio espositivo. Dall'inizio della nuova gestione, abbiamo deciso di mettere il visitatore al centro del progetto. Forse questo è stato più facile per noi, dal momento che non siamo un museo con una collezione e abbiamo una maggiore flessibilità, ma la sfida è stata grande e lo è ancora.

 

L'obiettivo è fare in modo che le persone tornino a Firenze, dopo esserci venute la prima volta per vedere le due icone che ho citato prima e la seconda e la terza volta per vedere tutto il resto: puntiamo a riportare le persone a Firenze per la quarta o quinta volta e a costruire il desiderio di continuare a tornare regolarmente. Così, anche se non competiamo con gli Uffizi o Palazzo Pitti, noi teniamo testa. Come ci riusciamo? Cerchiamo di dare ai visitatori un'esperienza speciale, essendo contemporanei nel modo in cui facciamo le cose, più che per l’arte che esponiamo. Per riuscirci abbiamo radunato persone con esperienze diverse, nel consiglio di amministrazione, nella dirigenza e nello staff, qualcuno con grande preparazione artistica, altri con conoscenze artistiche minori ma con competenze in aree come la comunicazione, la finanza, la raccolta di fondi e i bilanci. La natura unica di Palazzo Strozzi in Italia è la partnership tra pubblico e privato, ciascuno al 50%, in particolare in termini di governance, che permette alla Fondazione di lavorare in piena indipendenza dagli interessi dei suoi stakeholders. La natura pubblico-privata della cooperazione ci ha permesso di usare competenze in tutti i campi: alcune di esse si trovano tipicamente nel settore pubblico, come quelle legate agli aspetti scientifici e curatoriali dell'attività culturale, altre sono più associate al settore privato, come la promozione, il marketing e lo sviluppo di prodotto. L'interazione tra i due settori ha funzionato molto bene. Ciò non significa che non ci siano state discussioni, anche tensioni, a volte, ma i contrasti sono sempre stati risolti. Alla fine, il bisogno di far quadrare il bilancio è un vincolo molto importante per garantire decisioni coerenti e costanti nel corso del tempo.

 

La governance dell'istituzione è la sua grande forza e ha contribuito a creare la fiducia necessaria tra i vari partner e stakeholders. La reputazione della Fondazione Palazzo Strozzi si basa tanto sulla base scientifica del suo lavoro quando sulla sua solidità finanziaria, e nessuno degli stakeholders potrebbe avere l'intenzione di minare uno di questi due aspetti. Il settore privato, in particolare, apprezza e comprende i benefici finanziari che le attività della Fondazione portano alla città, direttamente e indirettamente. La città apprezza il vantaggio di avere un'istituzione finanziariamente solida che può collaborare con le restanti componenti del complesso sistema culturale di Firenze. Alla fine è una situazione win-win, che mostra come le barriere culturali tra il settore pubblico e il settore privato possano essere superate. Non è imponendo limiti al ruolo dell'altro, ma collaborando e condividendo responsabilità che si creano le condizioni per il successo agli occhi di tutti gli stakeholders della Fondazione. Purtroppo, questo modello non si è mostrato facile da replicare, almeno in Italia, almeno non ancora. La ragione è che il settore pubblico è ancora riluttante a fare un passo indietro, e il settore privato è ancora riluttante a fare un passo avanti. Come il successo di Palazzo Strozzi ha dimostrato, la soluzione è la buona governance, che aiuta a costruire fiducia. Quanto servirà perché un modello simile si sviluppi ulteriormente e si espanda? Lorenzo Bini Smaghi Presidente Fondazione Palazzo Strozzi