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IL MASSIMILIANO SPES FRUCTUS LUCIS Trimestrale diffuso in tutte le gallerie antiquarie, in tutti i musei, enti culturali, fondazioni, assessorati alla cultura e autorità competenti delle Tre Venezie POSTE ITALIANE SPA - SPEDIZIONE IN AB. - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27 FEBBRAIO 2004 N. 46) ART. 1 COMMA 1 DR CB TS. - IN CASO DI MANCATO RECAPITO RESTITUIRE ALL’UFFICIO DI TRIESTE CPO DETENTORE DEL CONTO, PER LA RESTITUZIONE AL MITTENTE CHE SI IMPEGNA A PAGARE LA RELATIVA TARIFFA. CONTINE I.P. GENNAIO - MARZO 2009 ANNO XIII - Numero 49 DIFFUSIONE GRATUITA Ognuno ha i suoi gusti, come disse Morris quando baciò la vacca. Joice, “Ulisse” Il futuro del mercato La previsione di Daniela Boi esperta in metodologie scientifiche per la corretta valutazione del mercato delle opere d’arte DI DANIELA BOI [email protected] LONDRA L’anno che si è appena concluso è stato particolarmente tumultuo- so per i mercati finanziari e immobiliari, in particolare per le economie occidenta- li, ma non solo: la crisi ap- pare generale e globale. Il futuro viene descritto da molti analisti quale grigio e incerto ma quello che avverrà è, come sempre succede in tempi di crisi, un cambiamento e la for- mazione di un nuovo equi- librio. Viene da chiedersi cosa succederà al mercato dell’arte in questa situazio- ne. Alcuni commentatori sostengono che il mercato dell’arte non sia condizio- nato dall’andamento dei mercati finanziari, altri che il mercato dell’arte ne sia influenzato ma gli ef- fetti si percepiscano solo dopo un periodo di tempo di almeno otto - dieci mesi. Ma fondamentalmente la storia insegna che le eco- nomie vanno avanti per cicli e il mercato dell’arte è altrettanto ciclico e con- dizionato, almeno in parte, dall’andamento economico generale. Gli anni di boom sono solitamente seguiti da anni di calma, in cui i prezzi e il sistema si stabi- lizzano dopo gli eccessi de- gli anni di crescita incon- trollata dei prezzi. Come accadde negli anni ‘80, che videro una cresci- ta esponenziale nel merca- to degli Impressionisti, ac- quistati da Giapponesi che vedevano un boom econo- mico che sembrava infi- nito, gli ultimi dieci anni (almeno sino al settembre 2008) hanno visto una crescita esponenziale del mercato contemporaneo. Artisti quali l’americano Jeff Koons (classe 1955) o l’inglese Damien Hirst (classe 1965) hanno visto le loro quotazioni raggiun- gere soglie fino ad allora impensabili per artisti così giovani. Figure di artisti bene lontane dall’immagi- ne stereotipata del genio che aspetta nel suo studio nella speranza che qualcu- no possa acquistare le sue opere. Il 15 e 16 settembre 2008 nel salone londinese di Sotheby’s si è tenuta la storica vendita di Damien Hirst: l’asta interamente dedicata all’artista, pre- sentava una serie di opere realizzate appositamente negli ultimi due anni e che si affacciavano al merca- to per la prima volta. Una vendita eccezionale in cui i 223 lotti (di cui solo 5 ri- masti invenduti) sono stati realizzati su commissione per Sotheby’s, un succes- so indiscutibile che però si realizzava all’alba della fine, o quanto meno del ri- dimensionamento a cui la crisi porterà. La vendita ha totalizzato oltre 110 milioni di sterline. A fare la parte del leone è stata l’opera dal titolo “The Golden Calf”, venduta per 10.345.250 di sterline e valutata tra gli otto e i dodici milioni di sterline. L’opera è co- stituita da una vasca di formaldeide nella quale è contenuto un toro, o me- glio il suo cadavere. Hirst ha posto una corona d’oro sulla testa del toro e ha di- pinto le corna, sempre in oro. La seconda opera per valore è “The Kingdom”, uno squalo immerso nel formaldeide, venduto per la cifra di 9.561.250 sterli- ne. Valutato tra i quattro e i sei milioni, è andato ben oltre le previsioni. Questo in una giornata in cui i mercati finanziari vedeva- no una forte scossa dopo la bancarotta della Leh- man Brothers Holdings e l’atmosfera mondiale si faceva cupa. In sala erano presenti molti nuovi colle- zionisti, forse attratti più dal marchio Hirst e dalle possibilità di facili guada- gni che dal piacere del go- dimento estetico derivato dal possesso di un’opera d’arte. L’arte contemporanea nelle due capitali mondiali del mercato dell’arte è sta- ta negli ultimi cinque anni un susseguirsi di prezzi che facevano parlare di sé un numero crescente di giornalisti. Un vero e proprio sistema intorno ad artisti che vengono ve- nerati come divinità. Frie- ze Art Fair a Londra o Ar Basel Miami Beach più che luoghi di esperienze di natura estetico-culturale, appaiono come luoghi di intrattenimento e di effet- ti speciali per miliardari che a bordo di aerei priva- ti raggiungono la capitale dell’arte contemporanea a ottobre o il caldo della Flo- rida nel mese di dicembre. Anche l’elemento esotico gioca dunque un elemen- to importante. Cosa ac- cadrà nei prossimi anni? Sicuramente le quotazioni iperboliche andranno di- menticate e i prezzi qua- si certamente caleranno come le aste autunnali di arte contemporanea han- no già dimostrato. Solita- mente in condizioni econo- miche difficoltose le opere d’arte contemporanea ap- paiono le più rischiose, specie quelle di artisti che hanno raggiunto un certo status. Una soluzione ap- pare il ripiegare su artisti poco noti nella speranza che nel giro di pochi anni riescano ad emergere e a incrementare il proprio va- lore. Oppure si punterà su settori di mercato diversi dall’arte contemporanea e con quotazioni più sta- bili, quali, ad esempio, i dipinti antichi, che appa- iono come un investimento sicuro, un “bene rifugio” che, specie in periodi di difficoltà economica, è uti- le al fine di diversificare il proprio portafoglio. Il mercato dell’arte con- temporanea, che negli ultimi anni è apparso for- temente speculativo, sem- bra essere giunto ad un momento critico o perlo- meno ad un momento di ripensamento e formazio- ne di un nuovo equilibrio. Se negli anni ‘80 degli Im- pressionisti i protagonisti erano i Giapponesi, negli ultimi anni i protagonisti affascinati dal glamour del mondo dell’arte contempo- ranea sono sempre più i nuovi ricchi provenienti da Russia, Cina, India e Me- dio Oriente. Ma la specu- lazione e l’arte non cammi- nano nello stesso binario o perlomeno non troppo a lungo... Le aste di settem- bre avrebbero già mostrato una tendenza al ribasso di circa il 14%. A questo pun- to il 2009 va paragonato ai primi anni ‘90, in cui i prezzi scesero in media del 44% in due anni. Un calo così pronunciato oggi vie- ne ritenuto possibile, visto che negli USA, ad esempio, la speculazione ha fatto crescere i prezzi delle ope- re in asta del 67% dal 2005 al 2007. In contrapposizione a questi luoghi d’élite e prez- zi da capogiro, il mercato italiano può essere visto come una conferma del detto “l’oceano è fatto di gocce”. Nessun prezzo o record paragonabile alle due piazze di Londra e New York, ma un merca- to frammentato che nella sua frammentazione trova anche una flessibilità che gli permette di avere una certa stabilità la quale si rivela utile soprattutto nei momenti di crisi. I colle- zionisti comprano più per passione che per l’investi- mento in sé, quindi la spe- culazione è stata lontana da questi mercati. A conferma di ciò si noti che alcuni artisti italiani hanno ottenuto i loro re- cord mondiali il 20 ottobre del 2008 nel saloni londine- si di Christie’s e Sotheby’s durante le aste di Arte Ita- liana del XX secolo. Nono- stante le tensioni generate dalla crisi finanziaria, i sa- loni delle due celebri case d’asta inglesi erano popo- lati da nostri concittadi- ni che sembravano molto più rilassati dei protago- nisti dell’asta di Arte Con- temporanea che solo tre giorni prima aveva avuto luogo in un clima nervoso e teso. Quest’ultima era considerata come la prova del nove per verificare se e quanto il mercato dell’arte contemporanea fosse con- dizionato dalla crisi e la risposta non era stata par- ticolarmente positiva: 30% di invenduto e prezzi a ri- dosso della stima minima. Le due aste italiane del XX secolo, al contrario, aveva- no registrato il 94% di lotti venduti: si era riscontrato l’andamento in controten- denza delle opere di artisti italiani del ‘900. Michelan- gelo Pistoletto ha realizzato il suo record mondiale con l’opera “Lui e lei che parla- no”, datata 1967, battuta all’asta da Sotheby’s per 340.000 sterline il 20 otto- bre 2008. Jannis Kounel- lis, con “Senza titolo” del 1960, nello stesso giorno ha realizzato presso il sa- lone di Christie’s il suo re- cord mondiale di 620.000 sterline inglesi. Gli artisti del movimento a cui il criti- co Germano Celant ha dato il nome di “Arte Povera”, inizialmente sottovalutati, ora vengono apprezzati per il loro valore. Il movimen- to battezzato dal critico Achille Bonito Oliva come “Transavanguardia”, con artisti quali Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, sta cominciando a raccogliere altrettanti fa- vori. Secondo Artprice, il principale database di set- tore (un archivio completo di prezzi e indagini di mer - cato, in risposta all’ineffi- cienza naturale del merca- to dell’arte), il successo e la validità degli artisti italiani starebbe in particolare nel- la solidità dei movimenti che li ospitano. Anche la quindicesima edizione di Artissima a Torino, sebbene non sia un evento mondano alla portata di Frieze o Art Ba- sel Miami Beach, è andata molto bene e sotto la dire- zione di Bellini si è confer - mato una vera e propria “avventura intellettuale” in cui giovani e fotografia la fanno da padroni. Il mercato dell’arte ita- liano appare un “gigante addormentato” come nelle parole di. Larry Gagosian, uno dei più grandi galle- risti al mondo, il quale ha aperto una galleria a Roma nel dicembre del 2007. Il mercato italiano, costituito da piccoli e medi collezio- nisti armati di grande pas- sione ed entusiasmo e pri- vi di ambizioni speculative, sembra premiare la quali- tà, e la qualità sembra es- sere l’antidoto migliore alla crisi. Collezionisti nel mercato dell’arte italiano. Fonte: “Commercio dei Beni Artistici 2006”, Nomisma 2007. IN QUESTO NUMERO LE PAROLE E LE LEGGI PAG. 3 ESITI DALLE CASE DASTA PAG. 4 L’UNICO MERCANTE DI ARTE CLASSICA PAG. 5 FONDAZIONE MINISCALCHI - ERIZZO PAG. 6 CHE VOLETE PAG. 7 GLI IMPRESSIONISTI SLOVENI PAG. 8 INSERTO FOTO OPERE DARTE RUBATE LA SUPERBIA PAG. 10 DIAGNOSTICA PER LARTE PAG. 11 AGLI EREDI LASCERÀ “MAMANPAG. 12 LE TRE ETÀ DI GUSTAV KLIMT PAG. 13 I CALENDARIETTI DA BARBIERE PAG. 13 BREVE MA ANCORA IN VITA PAG. 14 IN GIRO PER MOSTRE PAG. 15 TRIESTE - MUSEO REVOLTELLA FINO AL 1 FEBBRAIO FEDERICO RIGHI NEL CENTENARIO DELLA NASCITA Info: 040 6754350 - www.museorevoltella.it GENERART.IT 899 006 094 collezionisti privati gallerie, mercanti, case d’asta banche e fondazioni musei investitori 1% 4% 6% 20% 69%

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IL MASSIMILIANOSPES FRUCTUS LUCIS

Trimestrale diffuso in tutte le gallerie antiquarie, in tutti i musei, enti culturali, fondazioni, assessorati alla cultura e autorità competenti delle Tre Venezie

POSTE ITALIANE SPA - SPEDIZIONE IN AB. - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27 FEBBRAIO 2004 N. 46) ART. 1 COMMA 1 DR CB TS. - IN CASO DI MANCATO RECAPITO RESTITUIRE ALL’UFFICIO DI TRIESTE CPO DETENTORE DEL CONTO, PER LA RESTITUZIONE AL MITTENTE CHE SI IMPEGNA A PAGARE LA RELATIVA TARIFFA. CONTINE I.P.

gennaio - marzo 2009anno Xiii - numero 49

DiFFUSione graTUiTa

Ognuno ha i suoi gusti, come disse Morris quando baciò la vacca. Joice, “Ulisse”

Il futuro del mercatoLa previsione di Daniela Boi esperta in metodologie scientifiche

per la corretta valutazione del mercato delle opere d’artedi daniela Boi

[email protected] LONDRA L’anno che si

è appena concluso è stato particolarmente tumultuo-so per i mercati finanziari e immobiliari, in particolare per le economie occidenta-li, ma non solo: la crisi ap-pare generale e globale. Il futuro viene descritto da molti analisti quale grigio e incerto ma quello che avverrà è, come sempre succede in tempi di crisi, un cambiamento e la for-mazione di un nuovo equi-librio. Viene da chiedersi cosa succederà al mercato dell’arte in questa situazio-ne. Alcuni commentatori sostengono che il mercato dell’arte non sia condizio-nato dall’andamento dei mercati finanziari, altri che il mercato dell’arte ne sia influenzato ma gli ef-fetti si percepiscano solo dopo un periodo di tempo di almeno otto - dieci mesi. Ma fondamentalmente la storia insegna che le eco-nomie vanno avanti per cicli e il mercato dell’arte è altrettanto ciclico e con-dizionato, almeno in parte, dall’andamento economico generale. Gli anni di boom sono solitamente seguiti da anni di calma, in cui i prezzi e il sistema si stabi-lizzano dopo gli eccessi de-gli anni di crescita incon-trollata dei prezzi.

Come accadde negli anni ‘80, che videro una cresci-ta esponenziale nel merca-to degli Impressionisti, ac-quistati da Giapponesi che vedevano un boom econo-mico che sembrava infi-nito, gli ultimi dieci anni (almeno sino al settembre 2008) hanno visto una crescita esponenziale del

mercato contemporaneo. Artisti quali l’americano Jeff Koons (classe 1955) o l’inglese Damien Hirst (classe 1965) hanno visto le loro quotazioni raggiun-gere soglie fino ad allora impensabili per artisti così giovani. Figure di artisti bene lontane dall’immagi-ne stereotipata del genio che aspetta nel suo studio nella speranza che qualcu-no possa acquistare le sue opere. Il 15 e 16 settembre 2008 nel salone londinese di Sotheby’s si è tenuta la storica vendita di Damien Hirst: l’asta interamente dedicata all’artista, pre-sentava una serie di opere realizzate appositamente negli ultimi due anni e che si affacciavano al merca-to per la prima volta. Una vendita eccezionale in cui i 223 lotti (di cui solo 5 ri-masti invenduti) sono stati realizzati su commissione per Sotheby’s, un succes-so indiscutibile che però si realizzava all’alba della fine, o quanto meno del ri-dimensionamento a cui la crisi porterà. La vendita ha totalizzato oltre 110 milioni di sterline. A fare la parte del leone è stata l’opera dal titolo “The Golden Calf”, venduta per 10.345.250 di sterline e valutata tra gli otto e i dodici milioni di sterline. L’opera è co-stituita da una vasca di formaldeide nella quale è contenuto un toro, o me-glio il suo cadavere. Hirst ha posto una corona d’oro sulla testa del toro e ha di-pinto le corna, sempre in oro. La seconda opera per valore è “The Kingdom”, uno squalo immerso nel formaldeide, venduto per la cifra di 9.561.250 sterli-ne. Valutato tra i quattro e

i sei milioni, è andato ben oltre le previsioni. Questo in una giornata in cui i mercati finanziari vedeva-no una forte scossa dopo la bancarotta della Leh-man Brothers Holdings e l’atmosfera mondiale si faceva cupa. In sala erano presenti molti nuovi colle-zionisti, forse attratti più dal marchio Hirst e dalle possibilità di facili guada-

gni che dal piacere del go-dimento estetico derivato dal possesso di un’opera d’arte.

L’arte contemporanea nelle due capitali mondiali del mercato dell’arte è sta-ta negli ultimi cinque anni un susseguirsi di prezzi che facevano parlare di sé un numero crescente di giornalisti. Un vero e proprio sistema intorno ad artisti che vengono ve-nerati come divinità. Frie-ze Art Fair a Londra o Ar Basel Miami Beach più che luoghi di esperienze di natura estetico-culturale, appaiono come luoghi di intrattenimento e di effet-ti speciali per miliardari che a bordo di aerei priva-ti raggiungono la capitale dell’arte contemporanea a ottobre o il caldo della Flo-rida nel mese di dicembre. Anche l’elemento esotico gioca dunque un elemen-to importante. Cosa ac-cadrà nei prossimi anni? Sicuramente le quotazioni iperboliche andranno di-menticate e i prezzi qua-si certamente caleranno come le aste autunnali di arte contemporanea han-no già dimostrato. Solita-mente in condizioni econo-miche difficoltose le opere d’arte contemporanea ap-paiono le più rischiose, specie quelle di artisti che hanno raggiunto un certo status. Una soluzione ap-pare il ripiegare su artisti poco noti nella speranza che nel giro di pochi anni riescano ad emergere e a incrementare il proprio va-lore. Oppure si punterà su settori di mercato diversi dall’arte contemporanea e con quotazioni più sta-bili, quali, ad esempio, i

dipinti antichi, che appa-iono come un investimento sicuro, un “bene rifugio” che, specie in periodi di difficoltà economica, è uti-le al fine di diversificare il proprio portafoglio.

Il mercato dell’arte con-temporanea, che negli ultimi anni è apparso for-temente speculativo, sem-bra essere giunto ad un momento critico o perlo-

meno ad un momento di ripensamento e formazio-ne di un nuovo equilibrio. Se negli anni ‘80 degli Im-pressionisti i protagonisti erano i Giapponesi, negli ultimi anni i protagonisti affascinati dal glamour del mondo dell’arte contempo-ranea sono sempre più i nuovi ricchi provenienti da Russia, Cina, India e Me-dio Oriente. Ma la specu-lazione e l’arte non cammi-nano nello stesso binario o perlomeno non troppo a lungo... Le aste di settem-bre avrebbero già mostrato una tendenza al ribasso di circa il 14%. A questo pun-to il 2009 va paragonato ai primi anni ‘90, in cui i prezzi scesero in media del 44% in due anni. Un calo così pronunciato oggi vie-ne ritenuto possibile, visto che negli USA, ad esempio, la speculazione ha fatto crescere i prezzi delle ope-re in asta del 67% dal 2005 al 2007.

In contrapposizione a questi luoghi d’élite e prez-zi da capogiro, il mercato italiano può essere visto come una conferma del detto “l’oceano è fatto di gocce”. Nessun prezzo o record paragonabile alle due piazze di Londra e New York, ma un merca-to frammentato che nella sua frammentazione trova anche una flessibilità che gli permette di avere una certa stabilità la quale si rivela utile soprattutto nei momenti di crisi. I colle-zionisti comprano più per passione che per l’investi-mento in sé, quindi la spe-culazione è stata lontana da questi mercati.

A conferma di ciò si noti che alcuni artisti italiani

hanno ottenuto i loro re-cord mondiali il 20 ottobre del 2008 nel saloni londine-si di Christie’s e Sotheby’s durante le aste di Arte Ita-liana del XX secolo. Nono-stante le tensioni generate dalla crisi finanziaria, i sa-loni delle due celebri case d’asta inglesi erano popo-lati da nostri concittadi-ni che sembravano molto più rilassati dei protago-nisti dell’asta di Arte Con-temporanea che solo tre giorni prima aveva avuto luogo in un clima nervoso e teso. Quest’ultima era considerata come la prova del nove per verificare se e quanto il mercato dell’arte contemporanea fosse con-dizionato dalla crisi e la risposta non era stata par-ticolarmente positiva: 30% di invenduto e prezzi a ri-dosso della stima minima. Le due aste italiane del XX secolo, al contrario, aveva-no registrato il 94% di lotti venduti: si era riscontrato l’andamento in controten-denza delle opere di artisti italiani del ‘900. Michelan-gelo Pistoletto ha realizzato il suo record mondiale con l’opera “Lui e lei che parla-no”, datata 1967, battuta all’asta da Sotheby’s per 340.000 sterline il 20 otto-bre 2008. Jannis Kounel-lis, con “Senza titolo” del 1960, nello stesso giorno ha realizzato presso il sa-lone di Christie’s il suo re-cord mondiale di 620.000 sterline inglesi. Gli artisti del movimento a cui il criti-co Germano Celant ha dato il nome di “Arte Povera”,

inizialmente sottovalutati, ora vengono apprezzati per il loro valore. Il movimen-to battezzato dal critico Achille Bonito Oliva come “Transavanguardia”, con artisti quali Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, sta cominciando a raccogliere altrettanti fa-vori. Secondo Artprice, il principale database di set-tore (un archivio completo di prezzi e indagini di mer-cato, in risposta all’ineffi-cienza naturale del merca-to dell’arte), il successo e la validità degli artisti italiani starebbe in particolare nel-la solidità dei movimenti che li ospitano.

Anche la quindicesima edizione di Artissima a Torino, sebbene non sia un evento mondano alla portata di Frieze o Art Ba-sel Miami Beach, è andata molto bene e sotto la dire-zione di Bellini si è confer-mato una vera e propria “avventura intellettuale” in cui giovani e fotografia la fanno da padroni.

Il mercato dell’arte ita-liano appare un “gigante addormentato” come nelle parole di. Larry Gagosian, uno dei più grandi galle-risti al mondo, il quale ha aperto una galleria a Roma nel dicembre del 2007. Il mercato italiano, costituito da piccoli e medi collezio-nisti armati di grande pas-sione ed entusiasmo e pri-vi di ambizioni speculative, sembra premiare la quali-tà, e la qualità sembra es-sere l’antidoto migliore alla crisi.

Collezionisti nel mercato dell’arte italiano.Fonte: “Commercio dei Beni Artistici 2006”, Nomisma 2007.

In questo numeroLe paroLe e Le Leggi pag. 3esiti daLLe case d’asta pag. 4L’unico mercante di arte cLassica pag. 5Fondazione miniscaLchi - erizzo pag. 6che voLete pag. 7gLi impressionisti sLoveni pag. 8inserto foto opere d’arte rubate

La superbia pag. 10diagnostica per L’arte pag. 11agLi eredi Lascerà “maman” pag. 12Le tre età di gustav KLimt pag. 13i caLendarietti da barbiere pag. 13breve ma ancora in vita pag. 14in giro per mostre pag. 15

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collezionisti privati

gallerie, mercanti,case d’asta

banche e fondazioni

musei

investitori

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IL MASSIMILIANO 3Gennaio - Marzo 2009

Le parole e le leggiCuriosità e paradossi

di Sandro apa

Vice QueStore aggiunto

polizia di Stato

trieSte

[email protected]

Le parole sono strumen-ti per esprimere concetti e la precisione nell’usar-le non può considerarsi asfissiante esercizio di pignoleria, ma ineludibile necessità espressiva.

Se nessuno userebbe la forchetta per mangia-re pasta in brodo, non si comprende perché analo-go criterio di funzionalità non debba essere usato anche con i vocaboli, ver-bi, sostantivi o aggettivi, che servono a comunicare agli altri il pensiero e, cosa ancora più importante, a formularlo; va da sé, infat-ti, che senza i termini non soltanto non si saprebbe come trasmettere le pro-prie idee agli altri, ma non si riuscirebbe neppure a costruirle: se non esistes-se – poniamo – il termine contratto, o altro equiva-lente, come si potrebbe pensare di vendere o di comprare qualcosa?

Le parole dunque rap-presentano ciò che de-nominano. E a parola sbagliata corrisponde di conseguenza un concetto diverso.

Usare i vocaboli in modo semanticamente disin-volto, ossia svincolandoli dal loro significato ed at-tribuendogliene uno o più altri diversi o più estesi, comporta il rischio – se non la certezza – dell’equivoco o dell’incomprensione.

Se si può concordare sul fatto che ogni lingua è in costante evoluzione ed è tanto più viva quanto più è capace di impossessarsi di nuove forme espressive, è anche vero che ciò non può avvenire per stravolgi-mento interno di regole ed usi: la vitalità di una lin-gua consiste nella sua ca-pacità di coniare, nell’am-bito del proprio sistema etimologico, nuovi termini per indicare i nuovi feno-meni che la vita produce, anche recependoli da lin-gue straniere donde essi possano essere originari (con l’ovvia esclusione di quelli appartenenti all’in-glese de noantri, inventati in Italia e perfettamente ignoti ai Britannici), non nel distorcere i significati della terminologia esisten-te.

È poi evidente che un vocabolario ricco, sia quel-lo collettivo di una lingua, frutto della cultura di una

nazione, sia quello indi-viduale, determinato dal bagaglio di conoscenze di ciascun individuo, co-sente maggiori possibilità espressive e maggior pre-cisione nell’individuazione dei concetti: è caratteri-stica dei linguaggi rozzi o comunque poco evoluti avere poche regole gram-maticali e pochi vocabo-li, cosicché col medesimo termine vengano indicate diverse cose o differenti azioni che, seppur acco-munate dal medesimo ge-nere, hanno tuttavia non irrilevanti differenze fra loro.

Ciò appare tanto più chiaro nell’ambito del di-ritto, dove la definizione precisa ed inequivocabile delle posizioni dei sog-getti rispetto alla legge è indispensabile al raggiun-gimento di un risultato conforme alla volontà del legislatore ed accettabile per la società.

In proposito va subito precisato che l’applicazio-ne delle norme necessita sempre di quell’operazio-ne logica chiamata inter-pretazione; è nota la bat-tuta secondo cui la legge si applica agli avversari e si interpreta per gli amici: se anche si può realistica-mente accettarne l’assunto nel senso che non sempre le leggi vengono applicate in modo uniforme e che si notano talora sia eccessi di zelo di sembianza (se non di natura) quasi per-secutoria, sia favoritismi, gli uni e gli altri piuttosto indecenti e comunque in-debiti, non si può ritene-re concettualmente esatta l’espressione.

La legge infatti va co-munque interpretata per capire che cosa voglia il le-gislatore: che questa ope-razione interpretativa sia effettuata con criteri rigidi o elastici è altra questione. Sarebbe opportuno che le modalità interpretative fossero omogenee e non venissero adottate ad per-sonam, ma ciò non altera i termini del problema: la legge deve essere inter-pretata ed il modo fonda-mentale per farlo è quello letterale, espressamente stabilito dall’art. 12 delle così dette Preleggi, ossia delle Disposizioni sulla legge in generale contenu-te nel I libro del Codice Ci-vile all’art. 12, il cui primo comma recita testualmen-te: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attri-buire altro senso che quel-lo fatto palese dal signifi-cato proprio delle parole

secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.

A quest’obbligo – scritto – dell’interprete ne corri-sponde però un altro, non scritto ma non meno im-portante, del legislatore: quello di farsi capire e di usare appunto espressio-

ni chiare e termini inequi-vocabili.

In proposito, a coloro che lamentano difficoltà a comprendere il contenuto delle norme per il linguag-gio troppo specialistico con il quale esse sono re-datte, va fatto notare che a ragione la formulazione delle leggi è (o era, data la negativa evoluzione at-tuale) sintetica, a costo di sembrare difficile ai non esperti: la legge è un pre-cetto, ossia una prescri-zione cogente e generale del legislatore, il quale si limita ad esporre in poche e chiare parole, di conte-nuto preciso, che cosa si debba fare in determina-te occasioni, ovvero quali siano i diritti ed i doveri di ciascuno nei vari casi quo-tidiani.

La norma non è un trat-tato di diritto, non deve spiegare il funzionamento dei fenomeni, fare esempi o palesare i motivi politi-ci o ideologici che abbiano indotto il legislatore a de-cidere in un certo modo: la volontà del legislatore (il quale non è una per-sona fisica, ma il soggetto a cui il sistema giuridico attribuisce il potere di le-giferare, cioè, in Italia, il Parlamento), che coincide con la voluntas legis, os-sia con lo scopo al quale è volta la legge stessa, si desume dal tenore lettera-le di questa; che è (e deve essere) formulata in modo appunto sintetico e chia-ro: se non vi è certezza del comando, non può esservi

coercizione: nulla può es-sere legato se la corda è forse annodata.

Poiché destinatari del-la disposizione legislativa sono indistintamente tutti i soggetti interessati, dei quali solo minima parte ha una adeguata prepa-razione giuridica, sarebbe

opportuno che i testi del-le leggi fossero redatti in maniera, oltre che sinteti-ca, anche facilmente com-prensibile, per evitare che i più, non comprendendone il contenuto, finiscano pur in buona fede per violarlo o disattenderlo. E sotto questo profilo la produzio-ne legislativa attuale, con testi chilometrici ed oscu-ri, zeppi di rinvii ad altre norme, lascia molto a de-siderare.

Ma l’aspetto peggiore di molte norme recenti, che ne rende difficoltose tanto la lettura quanto l’appli-cazione, è il più delle volte la mancanza di logica, che porta con sé contraddi-zioni di portata tale da ri-durre notevolmente, ed in taluni casi annullare l’effi-cacia del comando stesso del legislatore.

Se ne illustrano ora al-cuni casi, rilevati, da un esame molto sommario e puramente esemplificativo di disparati tipi di prov-vedimenti legislativi (non avendo senso né essendovi possibilità passare in ras-segna in questa sede tutte le leggi affette da difetti di redazione).

L’art. 156 bis della legge 22 aprile 1941 n. 633 sul diritto di autore, introdotto dal Decreto Legislativo 16 marzo 2006 n. 140, recita: “Qualora una parte abbia fornito seri elementi dai quali si possa ragionevol-mente desumere la fon-datezza delle proprie do-mande etc.”. Se si rilegge il testo omettendo l’agget-

tivo e l’avverbio trascritti in corsivo, si vede che il precetto resta inalterato e, se mai, ne esce rinforza-to: la mania di dir troppo e di usare termini inutili ed inopportuni fa dubita-re invece che il legislatore diffidi del buon senso di giudici ed avvocati e tema che essi prendano per buoni elementi non seri o che possano desumere la fondatezza di una pretesa in maniera irragionevole. Sembra del tutto ovvio che colui che voglia far valere una pretesa la sostenga con elementi seri: sarebbe stato magari opportuno, visto che si è premurato di evidenziarne la necessità, che il legislatore fissasse i canoni per individuare ed accertare questa serie-tà; chiedere che una cer-ta cosa venga fatta bene o adeguatamente senza indicare l’unità di misura della bontà o dell’adegua-tezza equivale a dir nulla.

Tali espressioni sono dannose fonti di confusio-ne in una norma, perché introducono valutazioni soggettive, indefinite e mutevoli, in un contesto che, per la certezza, esige assoluta oggettività.

Il medesimo Decreto Le-gislativo introduce sempre nella legge 633 un ulterio-re articolo, il 156 ter, nel quale si legge che “L’au-torità giudiziaria (…) può ordinare, su istanza giu-stificata e proporziona-ta del richiedente ... etc.”: che chi chieda abbia l’one-re di provare il proprio diritto ad ottenere è prin-cipio generale del Diritto, ma che una parte, che persegue naturalmente il proprio interesse, debba preoccuparsi di fare da moderatore fra se stessa e la controparte, formulan-do richieste giustificate e proporzionate, è una no-vità almeno singolare, se non comica per un verso e sconcertante per un altro. Non si vuol discutere qui la buona intenzione del le-gislatore, ma la norma in esame sovverte gli equili-bri processuali, addossan-do ad uno dei contendenti una funzione propria del giudice: chiunque, nel legittimo perseguimento dei propri interessi può chiedere qualunque cosa, anche la più esagerata ed irragionevole, nella spe-ranza di ottenerla (può darsi: la fortuna, l’inca-pacità degli avversari o la loro generosità potrebbero determinare un risultato favorevole); è il giudice, invece, che deve decidere

secondo legge e secondo giustizia (quando la prima rimandi empiricamente alla seconda in certi casi) accertando la fondatezza e la proporzione delle pre-tese o accordandole con i limiti del caso. Se, para-dossalmente, una delle parti in causa fornisse la certezza della fondatezza e proporzione delle proprie richieste, a che servirebbe il giudice?

A risultati di totale va-nificazione delle proprie intenzioni perviene il le-gislatore allorché, volen-do mostrare i muscoli ed emanare norme di ferrea vincolatività, nel Decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, “Codice in materia di protezione dei dati per-sonali”, dispone all’art. 10 che “Per garantire l’effet-tivo esercizio dei diritti di cui all’art. 7, il titolare del trattamento è tenuto ad adottare idonee misu-re volte in particolare a (…)”. A parte il fatto che, se si garantisce qualcosa, si vuole che la cosa garan-tita sia effettiva, altrimenti non avrebbe senso garan-tirla, l’uso sconsiderato dei due aggettivi genera una contraddizione che ne annulla il valore: se si dispone di adottare mi-sure idonee, senza altra determinazione, si rimet-te il giudizio di idoneità al destinatario del precetto, introducendo un elemento di soggettività, come si è prima rilevato improprio: anche in perfetta buona fede il soggetto interessa-to può dire che a suo pa-rere quel che ha fatto gli sembrava sufficiente, al-meno a priori, e che solo dopo si è dimostrato ina-deguato. Pretendere che le misure in esame siano solo volte ad un certo sco-po, prescrive un’intenzio-ne, anch’essa puramente soggettiva, che potrebbe però non raggiungere l’ef-fetto desiderato. Come al solito, troppe parole: sa-rebbe bastato prescrivere misure idonee a etc.: ri-sparmiando un aggettivo ed invertendo l’ordine dei termini, anche senza indi-care in che modo, il legi-slatore avrebbe costretto il titolare ad adottare si-stemi di controllo efficaci; per come ha scritto, gli prescrive attualmente solo buone intenzioni, preclu-dendosi la possibilità di sanzionarlo qualora egli, facendo il finto tonto, per i più disparati motivi non raggiungesse il fine impo-stogli.

Può bastare?

Un acceso diverbio in Parlamento. Courtesy ANSA

GEREMIANTIQUARIATO

Piero Marussig(Trieste 1879 - Pavia 1937)

Paesaggio, dipinto olio su tavolafirmato e datato 1935cm 65x58

di prossimo inserimento nel catalogo generale dell’artista

GEREMI S.R.L. TRIESTEVIA DELL’ANNUNZIATA 5 (ANGOLO VIA CADORNA)

TEL. 040 309501 - FAX 040 3224723e-mail: [email protected] - [email protected]

VALUTAZIONI GRATUITE - RILEVIAMO INTERE GIACENZE EREDITARIE

Antonio Lonza(Trieste 1846 - 1918)

Il cuoco, dipinto olio su tavolafirmato

cm 40x60

con dedica a Riccardo Zampierifondatore del circolo artistico triestino nel 1884

DI DANIELA [email protected]

CAGLIARI Il problemadell'attribuzione e della cor-retta valutazione economi-ca di un'opera d'arte sonodi grande attualità.L’aleatorietà del mercatodell’arte ha favorito lo svi-luppo di un problema tipicodi questo settore: la falsifi-cazione. Ne deriva, quindi,la necessità per gli acqui-renti di avere delle garanziesull'autenticità. Se unmanufatto artistico del pas-sato non reca la firma delsuo autore o non vi sonodocumenti d’archivio d’epo-ca (commissioni, contratti,ricevute di pagamento,ecc.) che ne attestino ine-quivocabilmente la paterni-tà, l’opera d’arte deve esse-re considerata di autoreignoto o se si preferisce dianonimo. Soltanto dopouna serie di confronti stili-stico-formali ed iconograficicon altre opere che si riten-gono dello stesso autore esoprattutto dopo un’accu-rata analisi microchimicadel pigmento strutturale(analisi che certifica il tipoe la composizione del mate-riale cromatico e non, uti-lizzato al tempo della realiz-zazione del manufatto arti-stico) si può soltanto ipotiz-zare il suo possibile inqua-dramento in un determina-to periodo storico ed even-tualmente e timidamenteaccostarla allo stile, allascuola o alla bottega di unartista affermato di cui ènata la sua bravura e lasua produzione artisticadocumentata. Ne derivadunque la necessità diusare con precisione la ter-minologia impiegata perdefinire i diversi gradi dicertezza nell'attribuzione.La presenza della firma noné comunque garanzia, dalmomento in cui la firma èuna delle aggiunte piùovvie e semplici che posso-no aumentare il valore diun’opera. Molte delle firmefalsificate anticamente nonci ingannano più, in quan-to indicano semplicementeil mutare del gusto.

La valutazione economi-ca di un'opera d'arte sibasa su vari elementi qualila certezza dell’autografia,la qualità dell’opera, ilsignificato culturale e lostato di conservazione.Fatta eccezione per il casoin cui l’oggetto sia davverounico, lo stato di conserva-zione ha un’importanzafondamentale. Infatti, se lavita residua del manufattoè troppo breve, spariscel’interesse dal punto divista dell’investimento.Un’opera in buono stato di

conservazione ha un mer-cato più vasto: i musei,specie quelli americani, dif-ficilmente prendono in con-siderazione opere che nonsiano integre o che abbianosubito restauri molto inva-sivi. Questo vale anche peri collezionisti privati, ameno che non si tratti di unrestauro storicizzato, chedocumenti la concezionedello stesso in un determi-nato periodo storico.

L'accuratezza e la traspa-renza sono fondamentali eper questo è importanteconoscere la terminologiache gli esperti del settoreutilizzano per distinguere idiversi gradi di certezzanell’attribuzione di un’ope-ra d’arte:

Autentico: l’opera d’arte èinteramente dell’epocaindicata (o di un determi-nato autore);

Originale: l’opera d’arte èrealmente di un determina-to artista del quale presen-ta tutte le caratteristichestilistiche;

Replica: riedizione di unprototipo originale, esegui-ta dall’artista stesso.

Copia: riproduzione del-l’opera eseguita da un arti-sta diverso.

Attribuito a: tale indica-zione indica che l’opera èstata eseguita ai tempi del-l’artista in questione e chelo stesso è l’autore più pro-babile.

Firma di: tale indicazioneha lo scopo di garantirel’attribuzione all’artistanominato, sebbene vi siacomunque da verificarel’autenticità di tale firma;

Scuola di: l’autore del-l’opera è un artista gravi-tante nell’ambiente dell’ar-tista citato, in manieradiretta o si tratta di unallievo;

Seguace: artista che rive-la alcuni tratti stilisticiriconducibili ad un deter-minato maestro;

Falso: consiste nellasostituzione totale di unmanufatto a fini speculativi.

L’attribuzione di un’ope-ra d’arte è un’operazionealquanto complessa ed èmolto facile essere tratti ininganno: è, dunque, fonda-mentale uno studio appro-fondito dell’opera in que-stione. La difficoltà derivaanche dal fatto che tral’opera originale e il falsoesistono quasi sempre ungran numero di categorieintermedie, come le copie ele repliche. Le repliche,nonostante siano state ese-guite dalla stessa mano,presentano piccole diffe-renze, a volte difficili dariconoscere. Tali operevanno pertanto studiate alungo e con perizia: ad un

occhio attento ed espertonon può sfuggire la discri-minante della qualità. Lecopie, comunque, risultanomeglio individuabili ad unocchio esperto. Ma, indiversi casi opere originali erepliche sono state consi-derate in passato copie: ciòè dipeso spesso dal cattivostato di conservazione (ridi-pinture, sporco, verniciingiallite) delle suddetteopere, la qual cosa ha con-tribuito alla non correttaidentificazione. Spesso, perdistinguere una replica ouna copia dall’originale, ènecessario eseguire rifletto-grafie o radiografie dalle

quali si evincono eventualipentimenti: a tal riguardo,pur senza generalizzare, èpossibile affermare che, seun dipinto non ha penti-menti, in linea di massimevuol dire che non è l’origi-nale. Il fenomeno delleattribuzioni semplicisticheè antichissimo. Scrive ilVasari nella sua opera «LeVite», circa le confusionalied errate considerazionifatte da alcuni visitatorimilanesi davanti alla stu-penda opera delMichelangelo, la Pietà, chesi trova nella Basilica di S.Pietro in Roma: «…un gior-no Michelangelo entrandodove l’è posta, vi trovò ungran numero di forestieri,che la lodavano molto: unodei quali domandò ad unodi quegli, chi l’aveva fatta,rispose: “il Gobbo” nostroda Milano. Michelangelostesse cheto, e quasi gliparve strano che le sue fati-che fussino attribuite ad unaltro. Una notte vi si serròdentro con un lumicino, eavendo portato gli scarpegli,vi intagliò il suo nome».

Un falso consiste, invece,in una truffa. Le falsifica-zioni sono sempre esistite.Le prime notizie storiche difalsificazioni d’arte risalgo-

no all’epoca romana comerisulta dagli scritti di Plinioil Vecchio e Fedro i qualidenunciarono alcuni arti-giani del loro tempo chealteravano dolosamentesculture in marmo e manu-fatti d’argento, firmandolicon i nomi dei maestri greciPrassitele e Mirone. Grandiscrittori quali Marziale,Cicerone e Plinio testimo-niano come, fin dai tempidegli antichi Romani, fossediffuso lo scambio di falsi:ma in quel tempo la ripro-duzione non era altro cheun omaggio alla grandezzadell’artista, un tentativo diemumarlo. Solo con la cul-

tura illuminista le riprodu-zioni cominciarono adassumere un connotatonegativo e quando, a parti-re dall’Ottocento, le operecominciarono ad assumereun certo valore economico,l’autenticità divenne unaspetto fondamentale el’uso improprio delle firmediventò dilagante. La sma-nia per l’antichità classicaportò alla celebre falsifica-zione riguardante un affre-sco realizzato dal pittoretedesco Anton RaphaelMengs, raffigurante Gioveche abbraccia Ganimede,che fu notevolmenteapprezzato da Winckel-mann il quale lo consideròun capolavoro sublime. Inseguito, però, numerosiparticolari iconografici estilistici permisero di capireche si trattava di una sinte-si delle tradizioni antiche erinascimentali realizzataattraverso il linguaggio tipi-co del classicismo settecen-tesco: la falsificazione, d’al-tronde, può essere ricono-sciuta solo quando il puntodi vista dell’osservatore noncoincide più con quello delfalsario. Uno dei più celebrifalsari del XX secolo, l’olan-dese Hans Van Meegeren,riuscì a raggirare esperti di

tutto il mondo che per anniacclamarono i suoiVermeer come le opere piùsignificative del maestro.Paradossalmente finì in tri-bunale perché fu accusatodi aver violato le leggi sulvincolo del patrimonio arti-stico olandese e si autode-nunciò. Per essere credutodovette realizzare in tribu-nale un falso Vermeer.Inoltre, in passato spesso èaccaduto che falsificazionee restauro coincidessero:restauri eseguiti dai falsarisono state delle vere e pro-prie scuse per sostituirecompletamente l’originaleoppure l’intervento alteravatotalmente l’opera da nonpoter più distinguere traciò che era coevo e ciò chenon lo era.

Nonostante le difficoltà viè modo di assincerarsi dellaautenticità di un'operad'arte. Nel caso dell’artecontemporanea, se l’autoreè vivente, può rilasciare eglistesso certificati di autenti-cità; se l’autore è morto,una fondazione a lui intito-lata, di solito gestita dallavedova o comunque daglieredi, provvede a certificar-ne l’autenticità. Di grandeimportanza appare, inoltre,la pubblicazione di unapposito catalogo, cheriproduca tutte le opere diun artista: una fonte fonda-mentale, sebbene con i suoilimiti. Più problematicarisulta, comunque, l’attri-buzione per quanto riguar-da l’antico: nel caso di undipinto, ad esempio, del cuiautore non esista un cata-logo affidabile, sono i criticie gli storici dell'arte a pro-cedere alla valutazioneattraverso un accurato stu-dio stilistico e un'approfon-dita indagine bibliografica.Fondamentale è l'esperien-za e la preparazione dellostudioso.

Il mercato dell’arte com-porta un minimo rischiocome ogni atto d’amore:scopo degli operatori delsettore è quello di ridurre alminimo questi rischi: l’an-damento del mercato, infat-ti, dimostra che la clientelaè sempre più selettiva e allaricerca di garanzie e sicu-rezza.

Inoltre, esiste una legi-slazione specifica e accura-ta a tutelare i diritti di chisceglie di investire in arte.Dal punto di vista legislati-vo, viste le lacune delCodice Penale in materia difalsificazione di opere d’ar-te, nel 1971 è stata emana-ta una legge specifica,riguardante le “normepenali sulla contraffazioneod alterazione di opere d’ar-te, che oggi costituisce l’ar-ticolo 178 del Codice dei

Beni Culturali e delPaesaggio. Chi inizia un’at-tività di commercio di opered’arte deve darne entro seimesi comunicazione alMinistero, tenendo unapposito registro che vafornito alla Sovrintendenzacompetente ogni tre mesi.La normativa punisceanche coloro che, pur cono-scendo lo stato di falso, siprestano a fornire uningannevole giudizio diautenticità. D’altrondechiunque può svolgere ilruolo di esperto in quantomanca l’albo degli esperti.Chiunque svolga un’attivitàdi vendita di opere d’artedeve fornire all’acquirente icertificati di autenticitàrelativi; l’opera vendutadeve essere accompagnatada una dichiarazione diautenticità e dalla dichiara-zione della provenienza,recanti la firma di chivende.

La legge prefigura tre tipidi reato:

contraffazione (è la pre-sentazione di un’operacome diversa dalla suaeffettiva intrinseca consi-stenza: ad esempio, l’arti-sta può retrodatare la suaopera per inserirla in unperiodo della sua produzio-ne maggiormente apprezza-to);

alterazione (riguardaun’opera originale cheviene modificata perché siapiù appetibile; può accade-re che il restauro, qualoranon sia leggibile sull’opera,rientri in questa categoria);

riproduzione (è l’attivitàdi copiatura degli originalifacendoli passare per tali).

I rei, qualora operinoall’interno di un’attivitàcommerciale, subisconol’aggravante dell’interdizio-ne ai sensi dell’articolo 30del codice penale. Nei pro-cedimenti penali, mancan-do un albo di consulenti diopere d’arte, il giudice deveavvalersi di un perito indi-cato dal Ministro per i Benie le Attività Culturali, ilquale è tenuto a sentire lacomponente sezione delcomitato di settore.

In sintesi: attribuzione evalutazione non sono sem-pre semplici, bravi falsarisono spesso in agguato maa favore di investitori eamatori ci sono esperti elegislazione che garantisco-no la trasparenza e l'affida-bilità che gli acquirentivanno cercando: per questoè importante affidarsi aprofessionisti seri e prepa-rati che rendano giustiziaalla magia e al fascino con-nessi all'acquisto di unopera d'arte, che accompa-gnino l'investitore in unmomento tanto speciale.

IL MASSIMILIANOLUGLIO • SETTEMBRE 2008 7

Attribuzione e valutazioneCome muoversi nel mercato riducendo al minimo i rischi

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La valutazione economi-ca di un'opera d'arte sibasa su vari elementi qualila certezza dell’autografia,la qualità dell’opera, ilsignificato culturale e lostato di conservazione.Fatta eccezione per il casoin cui l’oggetto sia davverounico, lo stato di conserva-zione ha un’importanzafondamentale. Infatti, se lavita residua del manufattoè troppo breve, spariscel’interesse dal punto divista dell’investimento.Un’opera in buono stato di

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L'accuratezza e la traspa-renza sono fondamentali eper questo è importanteconoscere la terminologiache gli esperti del settoreutilizzano per distinguere idiversi gradi di certezzanell’attribuzione di un’ope-ra d’arte:

Autentico: l’opera d’arte èinteramente dell’epocaindicata (o di un determi-nato autore);

Originale: l’opera d’arte èrealmente di un determina-to artista del quale presen-ta tutte le caratteristichestilistiche;

Replica: riedizione di unprototipo originale, esegui-ta dall’artista stesso.

Copia: riproduzione del-l’opera eseguita da un arti-sta diverso.

Attribuito a: tale indica-zione indica che l’opera èstata eseguita ai tempi del-l’artista in questione e chelo stesso è l’autore più pro-babile.

Firma di: tale indicazioneha lo scopo di garantirel’attribuzione all’artistanominato, sebbene vi siacomunque da verificarel’autenticità di tale firma;

Scuola di: l’autore del-l’opera è un artista gravi-tante nell’ambiente dell’ar-tista citato, in manieradiretta o si tratta di unallievo;

Seguace: artista che rive-la alcuni tratti stilisticiriconducibili ad un deter-minato maestro;

Falso: consiste nellasostituzione totale di unmanufatto a fini speculativi.

L’attribuzione di un’ope-ra d’arte è un’operazionealquanto complessa ed èmolto facile essere tratti ininganno: è, dunque, fonda-mentale uno studio appro-fondito dell’opera in que-stione. La difficoltà derivaanche dal fatto che tral’opera originale e il falsoesistono quasi sempre ungran numero di categorieintermedie, come le copie ele repliche. Le repliche,nonostante siano state ese-guite dalla stessa mano,presentano piccole diffe-renze, a volte difficili dariconoscere. Tali operevanno pertanto studiate alungo e con perizia: ad un

occhio attento ed espertonon può sfuggire la discri-minante della qualità. Lecopie, comunque, risultanomeglio individuabili ad unocchio esperto. Ma, indiversi casi opere originali erepliche sono state consi-derate in passato copie: ciòè dipeso spesso dal cattivostato di conservazione (ridi-pinture, sporco, verniciingiallite) delle suddetteopere, la qual cosa ha con-tribuito alla non correttaidentificazione. Spesso, perdistinguere una replica ouna copia dall’originale, ènecessario eseguire rifletto-grafie o radiografie dalle

quali si evincono eventualipentimenti: a tal riguardo,pur senza generalizzare, èpossibile affermare che, seun dipinto non ha penti-menti, in linea di massimevuol dire che non è l’origi-nale. Il fenomeno delleattribuzioni semplicisticheè antichissimo. Scrive ilVasari nella sua opera «LeVite», circa le confusionalied errate considerazionifatte da alcuni visitatorimilanesi davanti alla stu-penda opera delMichelangelo, la Pietà, chesi trova nella Basilica di S.Pietro in Roma: «…un gior-no Michelangelo entrandodove l’è posta, vi trovò ungran numero di forestieri,che la lodavano molto: unodei quali domandò ad unodi quegli, chi l’aveva fatta,rispose: “il Gobbo” nostroda Milano. Michelangelostesse cheto, e quasi gliparve strano che le sue fati-che fussino attribuite ad unaltro. Una notte vi si serròdentro con un lumicino, eavendo portato gli scarpegli,vi intagliò il suo nome».

Un falso consiste, invece,in una truffa. Le falsifica-zioni sono sempre esistite.Le prime notizie storiche difalsificazioni d’arte risalgo-

no all’epoca romana comerisulta dagli scritti di Plinioil Vecchio e Fedro i qualidenunciarono alcuni arti-giani del loro tempo chealteravano dolosamentesculture in marmo e manu-fatti d’argento, firmandolicon i nomi dei maestri greciPrassitele e Mirone. Grandiscrittori quali Marziale,Cicerone e Plinio testimo-niano come, fin dai tempidegli antichi Romani, fossediffuso lo scambio di falsi:ma in quel tempo la ripro-duzione non era altro cheun omaggio alla grandezzadell’artista, un tentativo diemumarlo. Solo con la cul-

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tutto il mondo che per anniacclamarono i suoiVermeer come le opere piùsignificative del maestro.Paradossalmente finì in tri-bunale perché fu accusatodi aver violato le leggi sulvincolo del patrimonio arti-stico olandese e si autode-nunciò. Per essere credutodovette realizzare in tribu-nale un falso Vermeer.Inoltre, in passato spesso èaccaduto che falsificazionee restauro coincidessero:restauri eseguiti dai falsarisono state delle vere e pro-prie scuse per sostituirecompletamente l’originaleoppure l’intervento alteravatotalmente l’opera da nonpoter più distinguere traciò che era coevo e ciò chenon lo era.

Nonostante le difficoltà viè modo di assincerarsi dellaautenticità di un'operad'arte. Nel caso dell’artecontemporanea, se l’autoreè vivente, può rilasciare eglistesso certificati di autenti-cità; se l’autore è morto,una fondazione a lui intito-lata, di solito gestita dallavedova o comunque daglieredi, provvede a certificar-ne l’autenticità. Di grandeimportanza appare, inoltre,la pubblicazione di unapposito catalogo, cheriproduca tutte le opere diun artista: una fonte fonda-mentale, sebbene con i suoilimiti. Più problematicarisulta, comunque, l’attri-buzione per quanto riguar-da l’antico: nel caso di undipinto, ad esempio, del cuiautore non esista un cata-logo affidabile, sono i criticie gli storici dell'arte a pro-cedere alla valutazioneattraverso un accurato stu-dio stilistico e un'approfon-dita indagine bibliografica.Fondamentale è l'esperien-za e la preparazione dellostudioso.

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Inoltre, esiste una legi-slazione specifica e accura-ta a tutelare i diritti di chisceglie di investire in arte.Dal punto di vista legislati-vo, viste le lacune delCodice Penale in materia difalsificazione di opere d’ar-te, nel 1971 è stata emana-ta una legge specifica,riguardante le “normepenali sulla contraffazioneod alterazione di opere d’ar-te, che oggi costituisce l’ar-ticolo 178 del Codice dei

Beni Culturali e delPaesaggio. Chi inizia un’at-tività di commercio di opered’arte deve darne entro seimesi comunicazione alMinistero, tenendo unapposito registro che vafornito alla Sovrintendenzacompetente ogni tre mesi.La normativa punisceanche coloro che, pur cono-scendo lo stato di falso, siprestano a fornire uningannevole giudizio diautenticità. D’altrondechiunque può svolgere ilruolo di esperto in quantomanca l’albo degli esperti.Chiunque svolga un’attivitàdi vendita di opere d’artedeve fornire all’acquirente icertificati di autenticitàrelativi; l’opera vendutadeve essere accompagnatada una dichiarazione diautenticità e dalla dichiara-zione della provenienza,recanti la firma di chivende.

La legge prefigura tre tipidi reato:

contraffazione (è la pre-sentazione di un’operacome diversa dalla suaeffettiva intrinseca consi-stenza: ad esempio, l’arti-sta può retrodatare la suaopera per inserirla in unperiodo della sua produzio-ne maggiormente apprezza-to);

alterazione (riguardaun’opera originale cheviene modificata perché siapiù appetibile; può accade-re che il restauro, qualoranon sia leggibile sull’opera,rientri in questa categoria);

riproduzione (è l’attivitàdi copiatura degli originalifacendoli passare per tali).

I rei, qualora operinoall’interno di un’attivitàcommerciale, subisconol’aggravante dell’interdizio-ne ai sensi dell’articolo 30del codice penale. Nei pro-cedimenti penali, mancan-do un albo di consulenti diopere d’arte, il giudice deveavvalersi di un perito indi-cato dal Ministro per i Benie le Attività Culturali, ilquale è tenuto a sentire lacomponente sezione delcomitato di settore.

In sintesi: attribuzione evalutazione non sono sem-pre semplici, bravi falsarisono spesso in agguato maa favore di investitori eamatori ci sono esperti elegislazione che garantisco-no la trasparenza e l'affida-bilità che gli acquirentivanno cercando: per questoè importante affidarsi aprofessionisti seri e prepa-rati che rendano giustiziaalla magia e al fascino con-nessi all'acquisto di unopera d'arte, che accompa-gnino l'investitore in unmomento tanto speciale.

IL MASSIMILIANOLUGLIO • SETTEMBRE 2008 7

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G. Bernardino BisonAssalto alla carovana nel boscoTempera su cartone, cm 69,5 x 92,5Milano, 25 novembre 2008Euro 60.000 Noè BordignonRiposo nei campiOlio su tela, cm. 56 x 86Milano, 18 novembre 2008Euro 44.000 Ippolito CaffiIl Pantheon di RomaOlio su tela, cm. 22 x 30Monaco, 4 luglio 2008Euro 77.000

Tullio CraliEliche nel cieloOlio su tavola, cm. 46 x 35Roma, 13 novembre 2008Euro 14.000 Giacomo FavrettoLa sorella AngelaOlio su tela, cm. 44 x 35Milano, 14 maggio 2008Euro 48.000 Ugo FlumianiVele al soleOlio su tela, cm. 50 x 65Londra, 3 ottobre 2008Euro 5.500 Pietro FragiacomoAcqua correnteOlio su tela, cm. 84 x 55Milano, 18 novembre 2008Euro 15.000 Carlo GrubacsCanale di VeneziaOlio su tela, cm. 38 x 49Monaco (D), 5 dicembre 2008Euro 11.000 Francesco HayezIl bacioOlio su tela, cm. 125 x 95Londra, 12 novembre 2008Euro 835.000

Egisto LancerottoSandalo nella lagunaOlio su tavola, cm. 40 x 58Parigi, 18 marzo 2008Euro 16.000 Marcello MascheriniAmazzoneScultura in bronzo, cm. 118Monaco (D), 10 ottobre 2008Euro 18.000 Luigi NonoUn pollaioOlio su tela, cm. 64 x 88Roma, 5 giugno 2008Euro 190.000 Angelo dall’Oca BiancaAnime assolteOlio su tela, cm. 61 x 78Venezia, 24 maggio 2008Euro 26.500 Pietro PajettaPastori con gregge (1892)Olio su tela, cm. 40 x 62Milano, 18 giugno 2008Euro 21.500 Giuseppe PongaVeduta di VeneziaOlio su tela, cm. 54 x 72Vienna, 15 ottobre 2008Euro 8.000

Alberto ProsdocimiLago di ComoAcquarello, cm. 50 x 34Vercelli, 19 ottobre 2008Euro 2.000 Antonio RottaIn famigliaOlio su tela, cm. 35 x 51Roma, 12 giugno 2008Euro 9.200 Luigi QuerenaLa battaglia di S. MartinoOlio su tela, cm. 37 x 105Milano, 2 dicembre 2008Euro 36.000 Francesco SartorelliMarina di GradoOlio su tela, cm. 127 x 192Roma, 27 novembre 2008Euro 11.000 Giovanni SegantiniMucche nella stallaOlio su tela, cm. 51 x 66Zurigo, 15 ottobre 2008Euro 35.000 Giuseppe ZigainaInverno (1960)Tecnica mista, cm. 71 x 81Prato, 31 maggio 2008Euro 8.600

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Giovanni FattoriCavalleggero e carabinierea cavallo, 1906Olio su tela, cm. 75 x 106Milano, 18 giugno 2008Euro 195.000

Filippo De PisisNatura morta conmaschera, 1926Olio su tela, cm. 50 x 70Prato, 31 maggio 2008Euro 110.000

Carlo CarraNatura morta con orcio elibro, 1931Olio su tela, cm. 40 x 55,5Prato, 31 maggio 2008Euro 120.000Giuseppe De Nittis

On the roadOlio su tavola, cm. 10,2 x 8,9Boston, 16 maggio 2008Euro 17.400Mario Sironi

Paesaggio urbano, 1945 c.Olio su tela, cm. 60 x 70Prato, 31 maggio 2008Euro 180.000

Federico ZandomeneghiRagazza con bambolaPastello su carta, cm. 46 x 38Prato, 18 aprile 2008Euro 60.000

Giorgio De ChiricoCavallo marrone in riva al mareOlio su tela, 42 x 58Prato, 31 maggio 2008Euro 105.000

Giorgio MorandiNatura mortaOlio su tela, cm. 35 x 40Prato, 31 maggio 2008Euro 560.000

Lucio FontanaConcetto spaziale, 1962Olio su tela, cm. 90 x 116Prato 31 maggio 2008Euro 420.000

Alberto BurriMuffa, 1951Tecnica mista, cm. 65 x 54Prato, 31 maggio 2008Euro 260.000

Pietro ConsagraColloquio maggioreBronzo, cm 33 x 30 x 2,3Milano, 26 maggio 2008Euro 14.000

Arnaldo PomodoroSfera, 1966Bronzo, cm. 29 x 34Prato, 31 maggio 2008Euro 240.000

Getulio AlvianiSuperficie III° con 3 da 3Alluminio e legno,cm. 51 x 51Prato, 31 maggio 2008Euro 12.500

Fernandez ArmanViolon cubiste n° 3-4 su 30Bronzo, cm. 20 x 72 x 20Cornette de Saint Cyr, 23giugno 2008Euro 5.700

Michelangelo PistolettoUomo grigio su scala a pioliTecnica mista,cm. 125 x 125Londra, 28 febbraio 2008Euro 185.000

Fabio CescuttiRitratto muliebreTecnica mista, cm 128 x 88Milano, 30 maggio 2008Euro 11.200

Roberto Gaetano CrippaSpirale, 1951Olio su tela, cm. 70 x 120Prato, 31 maggio 2008Euro 38.000

Enrico PrampoliniTensioni astratte, 1950Olio su tela, cm. 120 x 80Milano, 27 maggio 2008Euro 43.500

Giulio TurcatoItinerari con orizzonte,1970Olio su tavola, cm. 80 x 100Milano, 27 maggio 2008Euro 11.500

Giuseppe CaporossiSuperficie 90, 1954Olio su tela, cm. 92 x 73Milano, 26 maggio 2008Euro 175.000

Leonor FiniLes jumeaux ingrats, 1982Olio su tela, cm. 100 x 80Lokeren, 10 maggio 2008Euro 70.000

Antonio BuenoVolto pallido, 1960Olio su tela, cm. 40 x 30Prato, 30 maggio 2008Euro 15.000

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Ixion: l’unico mercanteNelle Tre Venezie solo una galleria specializzata in Arte Classica

di diego VaScotto

In occasione dell’ uscita della loro prima pubblica-zione “Contaminazioni. So-pravvivenze etniche nella ceramica apula prima della conquista romana (IV°-III° Sec. a.C.)” siamo andati a trovare l’unico antiquario del triveneto specializzato in arte classica, la IXION Archeogallery di Trieste dove, con i titolari Lorenzo Turco e la moglie Marina, abbiamo fatto il punto del-la situazione non solo del microcosmo dell’arte antica ma anche su tutto il mondo antiquario in generale.

La vostra prima pubbli-

cazione coincide anche con il traguardo dei primi due anni di attività. E’ un perio-do ancora breve ma forse sufficiente per tratteggiare un primo bilancio: soddi-sfatti?

Sicuramente si, anche se ci sono stati due periodi molto ben distinti. L’inizio, contro ogni aspettativa è stato molto più dinamico ed appagante del previsto, mentre quest’ultimo anno è stato vissuto tra luci ed ombre.

Beh, il momento non è al-legro per nessuno. La crisi dei mercati finanziari ha anticipato un momento di recessione delle economie a livello mondiale.

Certo, questo è indub-bio. Le classi medie, quelle più sensibili a certi richia-mi culturali, già fortemen-te colpite nel reddito, in questi ultimi anni, sono state definitivamente mas-sacrate anche nei loro ri-sparmi. E’ ovvio che ven-dere arte, di questi tempi, non è certo facile. Però per noi è peggio ...

Intende per chi opera nel mercato dell’antiquariato archeologico?

A dir la verità no. Sia-mo ancora ben pochi nell’ operare in questa nicchia del mercato antiquario, in Italia. Le difficoltà nasco-no nell’ approccio da parte della clientela, che spesso strabuzza gli occhi di fron-te ai nostri oggetti e non ri-esce a capacitarsi del fatto che siano commerciabili e quindi liberamente acqui-stabili. Per troppi anni si è teso una sorta di cordone sanitario su questa parte del mondo dell’arte con il risultato che il pubbli-co si è convinto di poter comprare (avendone i ca-pitali, ovviamente) un co-dice leonardesco ma non, che so, un semplice calice

etrusco. Il timore è spes-so quasi palpabile e ogni volta spingere il potenziale cliente solo a prendere in mano un manufatto è già un’enorme fatica, figuria-moci convincerlo ad “adot-tarlo” in casa propria. Ep-pure questi oggetti, spe-cialmente le ceramiche, non sono stati creati per stare in un museo: sono piatti, brocche, contenitori di profumi, tazze, tutti og-getti che erano pensati per un utilizzo intensivo e quo-tidiano. Non si sbriciolano certo in mano, eppure ...

Terrorizzati dal pensiero di dover risarcire un even-tuale danno se un ma-nufatto dovesse cader di mano?

Non direi. Al momento l’arte classica ha quota-zioni piuttosto depresse rispetto a molti altri perio-di storici. Basta guardare il nostro Listino. A fare qualche paragone, non è raro trovare che un ve-tro francese dei primi del Novecento di produzione industriale sia più caro di uno romano del II° Secolo. Come anche che, piutto-sto assurdamente, grandi ceramiche magnogreche come l’anfora presentata nel nostro libro quotino meno di parecchie tele di pittori “locali” di fine Otto-cento. D’altra parte il mer-cato vive sulle leggi della domanda e dell’offerta e, come detto, finché non si sbloccheranno le resisten-ze psicologiche di molti potenziali clienti tutto ri-marrà confinato ad una ri-stretta elite di cultori, che proprio in questi momenti stanno facendo ottimi af-fari.

Guardando i vostri ma-nufatti, qui nella galleria, spiccano quelli di prove-nienza italica; ma la legge non dice che tutti questi reperti delle antiche civiltà sono di esclusiva proprietà dello Stato Italiano?

No, la legge su questo è molto chiara e dice che tutto ciò che viene ritrova-to da scavi o ritrovamenti fortuiti nel territorio della Repubblica è (con qual-che eccezione) un bene dello Stato. Ma una cosa è parlare di ciò che si può ritrovare adesso una al-tra di quella che esiste già e che circola da deci-ne o centinaia d’anni in tutta Europa e nel resto del Mondo. Questi ogget-ti, spesso estremamente interessanti, ovviamente non ricadono in nessun modo tra quelli trafugati, frutto di scavi clandestini o altro. Sono spesso pez-

zi affascinanti che spesso racchiudono storie nelle storie. La tutela dei Beni Archeologici è qualcosa che ci riguarda particolar-mente ed è per questo che abbiamo instaurato un ot-timo rapporto di collabora-zione con la locale Soprin-tendenza ai Beni Archeolo-gici ed abbiamo una linea diretta di comunicazione con i Carabinieri del Nu-cleo per la Tutela del Patri-monio Culturale di Roma. I problemi semmai sono altri, più strutturali.

In questo momento l’anti-quariato sembra il parente povero del mondo dell’arte. Si riferisce a questo?

Vediamo di capirci. Le mostre mercato di arte contemporanea, aldilà degli incassi stratosferi-ci che riescono ancora a raccogliere, attirano folle oceaniche, sterminate. Ci sono eventi nei quali i visi-tatori (età media compresa tra i 20 ed i 45 anni), de-vono rassegnarsi a ore di fila solo per poter entrare. Le pubblicazioni attorno a questi eventi riempiono scaffali interi, il “rumore” culturale esce amplificato dalle sale ed arriva dap-pertutto e chiunque sia dotato di un minimo di

sensibilità artistico-cultu-rale ne viene coinvolto.

Al di là delle cifre, ad-dirittura mostruose, che certi artisti contempora-nei hanno raggiunto resta il fatto che i quadri “rotti” (come li chiama il mio figlio più piccolo, riconoscendo-li!) di Fontana , le sfere di Pomodoro, la tecnica fu-mettistica di Lichtenstein o gli allegri “ometti” dan-zanti di Haring si sono già radicati nel nostro imma-ginario collettivo perme-andoci in maniera talmen-te massiccia da asfissiare praticamente qualsiasi altra forma d’ arte del pas-sato.

Invidioso di tutta questa popolarità?

Vuole la verità? Si, lo sono, come sono anche consapevole che ben poco si è fatto per invertire que-sto trend. Recentemente ero a Todi in qualità di espositore in occasione del 40 anniversario della loca-le mostra antiquaria, che fu storicamente una delle prime (se non la prima) che si tenne in Italia. Beh, ad un certo punto, giran-do tra i tabelloni comme-morativi mi sono bloccato, incredulo, di fronte ad un fotografia che mostrava la

bellissima Piazza del Po-polo, che è a pochi pas-si dalla sede espositiva, letteralmente straripante di gente che attendeva di entrare alla Mostra. Centi-naia di persone in fila. E lì ho capito.

Colpito da improvvisa il-luminazione?

Esatto. Lì ho realizza-to che la stessa gente, mutatis mutandis, che si spingeva per entrare alla Mostra Antiquaria di Todi alla fine degli anni ‘50 è la stessa che oggi fa file chi-lometriche per entrare che so, alla ART di Basilea, o alla Arte Fiera Bologna.

Alle ultime mostre an-tiquarie, (quelle in cui ho partecipato direttamente, e in quelle di cui ho sen-tito parlare i colleghi), du-rante le aperture dei giorni feriali si poteva tirare una rete e giocare a tennis, in tranquillità, tra uno stand e l’altro. Per non parlare del problema dei giovani. Dell’assoluto, eclatante e totale disinteresse dei gio-vani per il mondo antiqua-riale. Chi ha visto passeg-giare ragazzi sotto i venti-cinque anni in una Mostra Antiquaria racconta agli altri standisti l’avveni-mento con toni sommessi ed epici.

Conclusione?Semplicemente, che in

cinquant’anni circa siamo stati capaci di bruciarci tutto un mercato ed una clientela che era invece ammaliata, affascinata dall’antico.

L’Italia del dopoguerra è un caso particolare. C’era una passione, una voracità culturale ed anche econo-mico-consumistica che ha avuto pochi raffronti nella nostra storia...

Verissimo. Ma il fatto che si sia dilapidato un si-mile capitale umano non si spiega solo in un diminui-to potere d’acquisto o un cambiamento di mode .

Se adesso un profes-sionista milanese ostenta una fotografia di Basilè sulla parete dell’ufficio e un fiammante Panerai al polso, invece che so di un Francesco Guardi e di un bel Patek Philippe d’epo-ca, la colpa è anche nostra che non siamo riusciti a far conoscere anzi a “far amare” a sufficienza i no-stri oggetti. C’e’ stata una gestione troppo disinvolta, senza regole e senza freni che ha grippato un moto-re che girava forse troppo bene. E quel che è peggio è stato il danno fatto alla figura dell’antiquario pro-fessionista, divenuto nell’

immaginario collettivo una sorta di avido rapace pron-to solo a rifilare qualche patacca o ad incamerare pezzi pregiati pagandoli quattro soldi.

I precedenti, in effetti, non si contano…

Purtroppo è vero ma le cose, per fortuna, stan-no cambiando. E’ emersa una nuova sensibilità e il desiderio di rinnova-re un’immagine, quella dell’ antiquiario, che ora intende presentarsi più come un veicolo di cul-tura, un “declinatore di conoscenze” che non un semplice mercante di cose antiche. L’altro fronte su cui intervenire è la specia-lizzazione e la diffusione di tali conoscenze: gli an-tiquari devono iniziare a rendere participi i clienti delle loro professionalità, prendendo carta e penna in mano e facendosi “ve-dere” con scritti e pubbli-cazioni. ”Contaminazioni” vuol essere un esempio che, per fortuna, non è isolato: in ambito locale penso al recente studio sull’oreficeria antica au-stroungarica realizzato da Roberto Borghesi e Giulia Bernardi per la mostra del Comune di Trieste “Il teso-ro riscoperto”, ed anche il libro che Paolo Saxida sta per completare sulle “Zee”, le sacre perle d’agata tibe-tane o ancora, la collana di “quaderni” sui disegni dei pittori triestini del Nove-cento editati dal mercante Fabio Lamacchia, solo per fare degli esempi a me vici-ni. Ci vorrà del tempo ma questa è la nuova figura che dobbiamo sforzarci di plasmare lottando tenace-mente contro facili com-promessi.

Autoregolazione e dif-fusione della cultura anti-quaria come parole d’ordi-ne per recuperare credibili-tà e clientela basteranno a rivitalizzare un settore che sembra in così pesanti dif-ficoltà?

Queste sono le condi-zioni essenziali che devo-no comunque andare di pari passo ad una ripre-sa dell’economia globale. Quando questo avverrà dovremo essere pronti, e non farci scippare di nuo-vo la “torta” dai galleristi d’arte contemporanea ed a far capire che un bel qua-dro del ‘700 od un anfora Magno Greca possono an-cora dare qualcosa di più, allo stesso prezzo, che so, di una serigrafia numerata fatta l’altro ieri. E’ per que-sto bisogna impegnarsi già da adesso.

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Il ‘700 a GoriziaDI LORENZO PAOLO SCORZIATI

GORIZIA È difficile chele banche riscuotano sim-patia: come tutti coloro dicui abbiamo bisogno e chenon hanno affatto bisognodi noi (singolarmente inte-si), esse dànno l’esatta sen-sazione di essere – ancheperché effettivamente losono – il contraente fortenel rapporto commercialee, anche quando offronoservizi e condizioni appa-rentemente vantaggiosi, èchiaro che non lo fanno peramore o amicizia ma perse-guono solo il proprio –quasi sempre legittimo,almeno formalmente – inte-resse. D’altronde, in qual-siasi economia avanzataesse sono un elementoindispensabile; e da alcunidecenni in qua hannoassunto un’ulteriore fun-zione che una volta spetta-va ad altri soggetti, i quali osi sono estinti o hanno adessa abdicato: la promozio-ne della cultura e delle arti,ossia, se si preferisce, ilmecenatismo. Non che siauna gran novità: anche inAmerica alcuni fortunatiindustriali e finanzieri delpassato, dopo aver accu-mulato colossali fortune(secondo taluno con unacerta disinvoltura almenosotto il profilo etico) eresse-ro grandi fondazioni benefi-che a protezione dei debolio delle arti. Ed in Italia daqualche tempo alcuni isti-tuti bancari hanno scorpo-rato una parte delle loroattività istituendo delleparallele fondazioni per ilperseguimento di fini uma-nitari; una di queste è la laFondazione Cassa diRisparmio di Gorizia che,con l’ausilio di altri sponsored il patrocinio di delComune e della Provinciadi Gorizia ha organizzato,nella sua sede di Palazzodella Torre, nel capoluogoisontino, una mostra note-vole dedicata alla pitturaveneziana e veneta del ‘700.

Da diverso tempo, per laverità, le mostre si sonomoltiplicate oltre ogniragionevole limite, vengonospesso acquistate a scatolachiusa e non sono pertantoespressione di un realeinteresse artistico collegatoal luogo ove si effettuano; ilpiù delle volte sono soltan-to un richiamo turistico edil loro contenuto, soventepretestuoso, si rivela insuf-ficiente e di gran lungainferiore alle aspettative:ciò ha prodotto in chi real-mente si interessa di cosed’arte una sorta di “vacci-nazione” che lo porta adaccostarsi con estrema dif-fidenza a questo genere dimanifestazioni. Fa dunquepiacere imbattersi di tantoin tanto in una mostracome questa, che ha i non

indifferenti meriti di offrirealla visione opere apparte-nenti tutte a collezioni pri-vate e quindi sconosciute aipiù e comunque difficil-mente fruibili, e di annove-rarne in notevole quantità –poco più di un centinaio – edi qualità media piuttostoelevata.

Si tratta di dipinti, preva-lentemente ad olio, di auto-ri del ’700, nati o operanti aVenezia e nel Veneto: alcunidi loro sono entrati nellaStoria, altri conseguironogrande fama ai loro tempie, dopo essere stati alloraassai di moda ed aver pro-dotto una enorme quantitàdi opere la cui quantitàandava spesso a detrimen-to della qualità, sono statipiuttosto dimenticati; esopravvivono nella memo-ria dei cultori del genere,poco conosciuti dal grandepubblico, in attesa – chi samai! – di qualche improba-bile ma non impossibileribaltamento delle opinionicritiche che li riporti inauge (non è il caso di farparagoni, ma occorre purricordare che fino ad un’ot-tantina di anni fa ancheCaravaggio o Corot, pernon fare che due nomi,erano considerati con unacerta sufficienza).

La mostra si articola intre sezioni, dislocate secon-do un percorso espositivodi interesse crescente (nonnecessariamente in sensoqualitativo, ma riguardo algusto: solitamente la mag-gior parte del pubblico pre-ferisce le vedute di luoghiconosciuti alle raffigurazio-ni mitologiche o sacre), par-tendo da soggetti biblici edallegorici, passando allescene di genere ed al ritrat-to e approdando infine alpaesaggio o, più propria-mente, alla vedutistica: ilpanorama offerto può dirsicompleto. Fra i nomi prin-cipali che si trovano nellaprima sezione, quella mito-logico-allegorica, campeg-

gia quello di Marco Ricci,bellunese (1676-1730), chesi colloca a metà strada franarrazione e paesaggio: glieventi raffigurati in cinquesuoi dipinti di gradevoleeffetto sono in realtà il pre-testo per la raffigurazionedi ampi scorci paesaggisti-ci, nel cui vasto spettacolo

naturale le figure dei prota-gonisti sono relegate in unospazio marginale e sembra-no star lì più come compar-se per vivificare la scenache non per recitare un epi-sodio. In chiave meno con-sueta, lo stesso autore èpresente pure con un“Plenilunio” un po’ spettra-le e con un altro paesaggio,di fantasia, fluviale, sempredi quel genere arcadico invoga a quell’epoca, in cui ilgusto per il pittoresco loinduce a sfidare le leggidella fisica ponendo unamassiccia torre sulla cimasporgente di un dirupo, coneffetto spettacolare ancor-ché irreale.

Piuttosto ordinarie, senon addirittura mediocri,sono invece le opere espo-ste di altri autori coevimolto celebri ai loro tempi:Francesco Zuccarelli tosca-no, pittore arcadico dai toniun po’ troppo tenui ed insi-pidi, Giuseppe Zais, veneto

di Canale d’Agordo, paesag-gista mediocre, versato piùper le scene di genere o leallegorie spicciole, cheanima con vivide figurette isuoi scorci alquanto piatti egrezzi nei particolari; eGaspare Diziani, produtto-re a cottimo di allegorie escenette popolari di dimen-

sioni solitamente piccole edi non maggiore qualità.

Due grandi nature morte,di interesse più documen-tario che pittorico, rivelanoun aspetto ignoto del cele-bre Francesco Guardi, checon intento prevalentemen-te decorativo pone alcunipappagalli fra un rutilaregagliardo di fiori e frutta,ritratti tuttavia in modoalquanto sciatto e somma-rio, approssimativo nellaprospettiva, artificioso etroppo luccicante nell’effet-to. Nella sezione delle scenedi vita popolare, quasi tutteperaltro di modesta levatu-ra e rivolte più agli aspetti“dialettali” che non a quellipropriamente pittorici, tracui alcune di quella infinitaserie che rese famoso ilLonghi, ne spicca una deci-samente migliore, a tempe-ra, di Giuseppe BernardinoBison (nato a Palmanovanel 1762), graziosa (credoripresa dal Longhi), che

deve tuttavia la sua celebri-tà al fatto di essere stataper lungo tempo riprodottasulle scatole di un dentifri-cio. Nutrita è anche lasezione ritrattistica, cheannovera, fra diverse fisio-nomie, un vecchio barbutodal vivace colorito, probabi-le raffigurazione fantasticadel filosofo Pitagora, abba-stanza espressivo anche selo sguardo, che vorrebbeessere profondo, risulta unpo’ vitreo, opera delTiepolo, figlio però, Gian-domenico (1727-1804), pit-tore di scaltrito mestierema ben al di sotto del gran-de genitore, Giambattista.

Varrebbero da soli la visi-ta alla mostra i cinquemagnifici volti a pastello diRosalba Carriera, dellaquale lo scorso anno sitenne una ricca esposizionea Palazzo Cini a Venezia; lamorbidezza delle sfumature(morbidezza che riguarda ilmezzo, non la raffigurazio-ne, che è invece perentoria)si coniuga in un modoquasi inspiegabile con ladefinizione dei contorni: davicino i tratti sono accenna-ti, quasi incomprensibili;alla media distanza si ottie-ne un’immagine di mirabilenitore e vivacità, in cuiall’espressione decisa deivolti si accompagna la pre-ziosità delle vesti e degliaccessori. Sarebbero basta-ti: ma il desiderio diampliare la rassegna,estendendola anche ad altricoevi non ha reso alla loromemoria un gran servizio:messi accanto alla grandeRosalba, l’onesto PietroRotari (veronese, 1707-1762), lui pure pastellistapresente con quattro picco-li ritratti, e Pietro Nogari(veneziano 1699-1763)escono massacrati dall’in-sostenibile paragone.

La parte più cospicua,soprattutto per la quantità,della mostra è quella dedi-cata alle vedute, ossia alpaesaggio come riproduzio-

ne e documento di luoghiesistenti o anche come“capriccio”, quell’assem-blaggio fantastico di archi-tetture reali o inventate,ricostruite e accoppiate adestro del pittore.

Molte sono le tele espo-ste, tutte più o meno piace-voli, a parte due grandi diGian Antonio Guardi dellequali non si comprende lanecessità né l’opportunità,essendo esse sgraziate,piatte, grossolane nel dise-gno e nei colori ed impreci-se nella prospettiva. Vi sitrovano, fra le altre, alcuneconsuete vedute venezianedi Michele Marieschi, dinon sempre irreprensibileortodossia prospettica, edalcuni meno ripetitivi e piùinteressanti scorci, sempreveneziani, di BernardoBellotto, virtuoso dellafedeltà paesaggistica, unodei quali dalle luci taglientie di lenticolare precisione; eun paio di vedute delGuardi vero, Francesco,che, pur distorcendoalquanto le proporzioni,limitandosi ad accennare ivolumi e trascurando i par-ticolari, rende intensamen-te l’atmosfera nella suaimmediatezza espressiva.Ci sono pure cinque tele delCanaletto: eccettuataneuna piuttosto grande didimensioni ma bruttina,con la chiesa della Salutesproporzionata e piatta, lealtre quattro sono immagi-ni terse e viventi, che sem-brano proiettarsi verso lospettatore più ancora cheattrarre il suo sguardo sulfondo.

Attorno ai grandi, unaconsistente corona diminori ricorda al pubblicola propria esistenza: nessu-no è tale da sconvolgereconsolidate classifiche; e laloro presenza, se mai, sem-bra avere la principale fun-zione di far capire ai menoesperti la differenza fra ipittori e gli artisti. Fra quel-li che oscillano tra le duecategorie si potrebbe anno-verare Luca Carlevarijssapido costruttore di“capricci”, forse un po’troppo descrittivo nellescene popolari poste adanimarli, e il già citatoMichele Marieschi che intal genere indulge partico-larmente al pittoresco.

In un’ultima saletta sonoesposte anche stampecoeve accanto ai quadrettida cui sono tratte, utili perqualche aspetto storico piùche per la pittura in sé, e amo’ di conclusione sincreti-stica, sintesi di tempi, ditemi e di luoghi, è postainfine una piacevole tela delgoriziano Italico Brass, pit-tore attivo a Venezia nellaprima metà del secolo scor-so, che ritrae una proces-sione su un canale venezia-no.

Lorenzo Tiepolo - Maschere venezianeOlio su tela, 49,5x72 cm

e-antiqua.it

IL MASSIMILIANOLUGLIO • SETTEMBRE 2008 5

Danilo di SherwoodNella recente campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia

il precursore ed ideologo della Robin Hood TaxDI GIOVANNI TALLERI

www.giovannitalleri.it

Tra i candidati alle ulti-me elezioni, alle Regionaliin Friuli Venezia Giulia, c’èstato pure un signore che siè qualificato, simpatica-mente, come Slokar Hood,con in testa il cappello delleggendario Robin Hood,l’ardito cavaliere scozzeseche, nel XV secolo, rubavaai ricchi per distribuire aipoveri. Ma non è stato elet-to benché la schiera deileghisti, alla quale appar-tiene, abbia conseguito unlusinghiero successo.Comunque è uno da tantodi cappello, indifferente diche tipo, volendo farsi eleg-gere ad una carica pubblicaper poter “rubare” a chi hatroppo e distribuire a chiha poco.

Ma uno che venga elettoin base a tali dichiarazioni,che richiedono logicamenteun ben preciso programmapolitico, una volta elettopuò discostarsene? Egli èstato eletto dalle personeche hanno creduto nel suoprogramma, e appunto peravere in parlamento unoche si battesse per le lororagioni. Altrimenti perchéeleggere lui e non un altro?Perché in definitiva elegge-re qualcuno se questo qual-cuno può fare, una voltaeletto, ciò che vuole?

Io non so. Si parla dipopolo sovrano, di demo-crazia e dunque di elezionida parte del popolo dei pro-pri rappresentanti, cioè dicoloro che discuteranno,decideranno, legifererannoin suo favore, o meglio infavore della parte che li haeletti, cioè che essi rappre-sentano. Però, se non c’èvincolo di mandato (art. 67della Costituzione), glieletti chi è che rappresen-tano? in nome di chi agi-scono? per quale ragionehanno speso nelle lorocampagne elettorali unamontagna di soldi deglielettori, soldi che avrebberopotuto servire a scopi benpiù nobili? Qui non parlaun giurista, un professore:parla un qualsiasi uomo dibuon senso, parla un sem-plice “buon padre di fami-glia”.

Dicevano: nel caso delleelezioni politiche non esistepiù il mandato imperativoperché vi è stata un’evolu-zione del concetto di rap-presentanza politica inmodo da eludere qualsiasivincolo tra elettore ed elet-to, rifacendosi addiritturaallo statuto del re CarloAlberto di Sardegna, untipo assolutista, paternali-

sta, il quale aveva precisato(art. 41 dello statutoAlbertino) che “i deputatirappresentano la nazionein generale e non gli puòessere dato dagli elettorinessun mandato imperati-vo”. E’ possibile che larepubblicana, democraticaItalia a un secolo di distan-za (1948) lo abbia mante-nuto in vita? Perché?

Ritornando al nostro“Hood”, quello da lui propo-sto è infatti un problemamolto attuale che ha presoa gonfiarsi giorno dopogiorno nella nostra crona-ca, ormai di parecchi anni.Un professore di liceo, confamiglia, dopo una carrieradi studio e di lavoro, cheviene retribuito con 20.000euro annuali; un ragazzoche prende a calci un pallo-ne o lo lancia in un cane-stro, per quanto modesto eagl’inizi sia, che si prendedieci volte tanto, e, se èbravo, cento volte tanto.Per non dire della gente chevive nella TV svolgendomansioni non particolar-mente difficili, sebbenerichiedano di base unagrande faccia tosta e amici-zie e raccomandazioni. Pernon dire di tutti i nostriamministratori, quelli chenoi eleggiamo, dai consi-glieri comunali ai senatori,agli onorevoli, pronti adelargirsi stipendi e privilegida sogno, e scale mobiliparticolari, e diritti a pen-sionamento particolari. Pernon dire della folla di com-mercianti e professionisti eartigiani che pagano letasse in base a ciò chedichiarano al fisco, non inbase a ciò che in effettiintascano, e questo contra-riamente alla sorte di tutti imilioni di lavoratori dipen-denti; benché si tratti didisposizioni di legge impo-ste dopo la famosa svolta asinistra della fine degli annisessanta e l’inizio deglianni settanta, momento incui, tra l’altro, la scala

mobile prese ad aumentarevertiginosamente. Ho dettodopo la svolta a sinistra,con la sinistra che non hasaputo creare nulla, ha sol-tanto sprofondato il paesein un immenso lago didebiti per poter accontenta-

re qualcuno e creare l’im-pressione del benessere,conservando un’ideologiache è fallita ovunque hannocercato di applicarla, d’im-porla. Basti vedere l’exURSS, gli Stati dell’Europaorientale.

Tutti si appellano, emolto spesso, alla nostraCostituzione, si riempionola bocca e ci riempiono leorecchie, lo stomaco, ilsacco di pazienza che c’è in

ognuno di noi. Eppure,dopo sessant’anni di socia-lismi e comunismi vari(infatti ne sono di tanti tipicon varie insegne) hannosaputo solamente spingercisu quel difficile e scivolosopiano inclinato che è il libe-

rismo economico, su cuilentamente ma inesorabil-mente si dissolve lo Statosociale e, appunto, il riccodiventa sempre più ricco eil povero sempre più pove-ro. Non è da meravigliarsi:l’uomo è l’automa di sem-pre, i suoi istinti non sonomutati, i condizionamentidella sua natura hannosubito mutamenti, miglio-ramenti talmente minimida tenerlo ancora molto

lontano dal sapere, dalpotere attuare quei pochi esemplici comandamentiche tutti conosciamo.

E’ proprio il caso di ricor-dare - lo avevo già fattoqualche anno fa, inutil-mente neanche a dirlo - ciòche aveva a suo tempoaffermato un certo signore,non quello di cui sopra conil cappello da Robin Hoodma quello con il fez nero nel1924, “ l’ideale del superca-pitalista è la standardizza-zione del genere umanodalla culla alla bara”; equanto diceva dell’impresacapitalistica, che “cessa diessere un fatto economicoquando le sue dimensionila conducono ad essere unfatto sociale, momentopreciso nel quale, trovan-dosi in difficoltà, si getta dipiombo nelle braccia delloStato” (cioè sulle spalle delpopolo). Ed è quello che èsempre successo e ci haportato alle presenti condi-zioni senza che lo volessimoammettere, né, purtroppo,che pensassimo di doverammettere. La standardiz-zazione, in effetti, ricordi digioventù a parte, oggigior-no corrisponde parecchioalla situazione reale; lo sipuò rilevare nelle manife-stazioni popolari, oltre chedall’osservazione un po’attenta, disincantata, ditante piccole vicende indivi-duali e collettive. Il singoloche si chiude nel proprioegocentrismo e ignora lacollettività rimanendoindifferente nella sua sferaindividuale.

Più soldi per vivere era ilmotto del candidato Slokar,ma penso che, se lo puòconfortare, anche se eletto,non avrebbe potuto risolve-re l’immenso problema.

Avevo già scritto a suotempo che ci vorrebbe unavera rivoluzione per smuo-vere questa nostra classepolitica di sofisti, chiac-chieroni inconcludenti. Enon è che sia cambiato

molto. Comunque oggi unapiccola speranza, ma assaipiccola, la si può avere se siconsidera che gli elettorihanno saputo eliminarecon i loro voti quella massadi partitini di destra e disinistra, da baruffe chioz-zotte, i quali con i loropunti e le loro virgole e laloro testa nel sacco, rossoo nero che fosse, impediva-no qualsivoglia decisione inmerito ad un’infinità diargomenti, specie trattan-dosi di investimenti peropere pubbliche in ordinecol progresso di ogni gene-re.

Speriamo si cominci colfederalismo fiscale, delquale si ritrovano chiare leradici nell’art. 5 dellaCostituzione. E con l’os-servare l’art. 8 della mede-sima dove è stabilito che“gli statuti delle varie reli-gioni non devono contra-stare con l’ordinamentogiuridico italiano”. E siregoli il penultimo capover-so dell’art. 10 che specieper la piccola Italia èimproponibile, direi assur-do. E l’art. 16 dove parla disanità e sicurezza, datal’evidente sporcizia allaperiferia di moltissimecittà; e alla libera circola-zione delle prostitute,degli spacciatori di droga,dei camorristi. E l’art: 17sulle riunioni in luogo pub-blico per impedire anchecon la violenza l’effettuazio-ne di lavori nell’interessedella collettività, della suasalute e del suo decoro. Eper quanto all’art. 19 eall’art. 21 definire, specifi-care, descrivere che cosaoggi si debba intendere per“buon costume”, perché sen’è perduta traccia. Eall’art. 27 si restringano itempi per la condanna defi-nitiva (che secondo il cita-tissimo Beccarla deve esse-re certa e immediata)e siaumenti il numero deimagistrati e li si metta incondizioni di lavorare benesenza soffocarli con valan-ghe di leggi. Ormai di espe-rienza se ne ha avuta tantain sessant’anni che sarebbeben ora di portare qualcheradicale modifica al nostrocomplessivo sistema divita. Non sono i regolamen-ti, le leggi e leggine chemancano, anzi, dato chefiniscono col servire quasiesclusivamente da alibi:sono invece da ricostruire,riplasmare sia pure condurezza e inflessibilità, ipochi , i sani principi gene-rali; come quando si potaun albero e lo si cura allaradice. Se no è tempo but-tato.

Il “santino” di Danilo Slokar

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IL MASSIMILIANO6 Gennaio - Marzo 2009 IL MASSIMILIANO 7Gennaio - Marzo 2009

“Visita al museo”La Fondazione - Museo Miniscalchi Erizzo e le sue piccole-grandi meraviglie

di roBerta toSi

[email protected]

VERONA La straordi-naria avventura dell’arte, di quel mondo che ricon-giunge l’uomo al cosmo e alla storia, in cammino verso il divino, trova a Ve-rona un luogo in cui potersi esprimere liberamente, una sorta di “museo immagina-rio”, secondo lo spirito di Malraux, dalle fondamen-ta solide e creative, in cui le opere si confrontano in una metamorfosi che ri-manda l’una all’altra. A poca distanza dalla famosa piazza delle Erbe, apparen-temente lontana dalle ben più affollate strade del cen-tro, nell’antico rione della Carega si erge fieramente Palazzo Miniscalchi, in via san Mammaso, una splen-dida dimora gentilizia che, nella prima metà degli anni Cinquanta del secolo scor-so, venne trasformata in Museo.

E qui, nel fertile silenzio di quello spirito che volle creare una realtà differen-te, prese forma, come tra le mani di un sapiente vasaio, l’attuale prestigiosa Fonda-zione, un unicum nella città scaligera, un luogo in cui potersi soffermare ed attin-gere a piene mani alla fon-te della creazione artistica. Ma quello di cui si può oggi godere, è frutto di una lun-ga ed interessante storia che vede le proprie radici risalire all’epoca della do-minazione viscontea nella città scaligera, quando la famiglia Miniscalchi, d’ori-gine lombarda, giunse a Verona. Da quel momento l’illustre casata si distinse per meriti sociali e matri-moni prestigiosi. Fonda-mentale per la successiva realizzazione del Museo, l’apporto del maggior eru-dito veronese del Seicento, Ludovico Moscardo, legato ai Miscalchi per vie di pa-rentela, che fece confluire nella famiglia quella che viene definita la Wunder-kammer della Fondazione: la stanza, la camera delle meraviglie, che raccoglie il nucleo principale e più an-tico delle collezioni presen-ti. Ed è proprio senza alcun criterio storico, artistico o più semplicemente filologi-co che le raccolte traman-date sono approdate nel-la dimora dei Miniscalchi nell’arco di circa quattro secoli. Così quando l’ulti-mo discendente del casato, il conte Mario Miniscalchi-Erizzo, privo a sua volta di eredi diretti, maturò la volontà, insieme all’insigne prof. arch. Piero Gazzola, allora Soprintendente ai Monumenti per le Province

di Verona, Mantova e Cre-mona, di creare una fon-dazione artistica con sede nel Palazzo appartenuto alla sua famiglia, non si era che all’inizio di quel lungo e complesso cammino di co-stituzione della realtà oggi presente nella città scalige-ra. Il conte morì nel 1957, nominando erede universa-le l’unica nipote “ex fratre” e stabilendo il dettato sta-tutario per cui «...la Fonda-zione ha lo scopo educativo e culturale di conservare le collezioni... rendendole note e accessibili alla visi-ta degli studiosi e del pub-blico». Da quel momento, si operò attivamente per poter giungere all’apertu-ra ufficiale del Museo ma non pochi furono i pro-blemi, anche di carattere patrimoniale che dovette affrontare fin da subito la neonata Fondazione, e l’in-tera impresa richiese anni ed anni di accurati studi scientifici ed impegnativi restauri conservativi. Ma il 30 marzo 1990, finalmente le collezioni d’interesse sto-rico, artistico e archeologi-co in esso contenute, furo-no presentate al pubblico e la vita del Museo cominciò ufficialmente. Per chi oggi si reca a visitare le raccolte

di grande eterogeneità, si sorprenderà di vedere con quanta passione e profes-sionalità questo palazzo, iniziato verso la fine del Quattrocento, è stato pre-servato in tutto il suo ance-strale splendore. A partire dalla sua solenne facciata “concepita come una so-

lenne quinta aperta da un portale in marmi tricomi fortemente strombato e da diciotto finestre disposte simmetricamente, sei per ciascun piano: spiccano, nel registro centrale, le due

grandiose bifore, origina-riamente aperte a modo di loggia su un cavedio affre-scato, seguite su entrambi i lati da una coppia di mo-nofore archiacute”, come la descrive il conservatore, ma anche attento curatore, del Museo Gian Paolo Mar-chini, nel suo ultimo libro,

il secondo volume del cata-logo generale, dedicato alla preziosa collezione d’arte sacra museale. La strut-tura interna della dimora, subì invece innumerevoli alterazioni, dato la famiglia

Miniscalchi vi accorpò altre proprietà, fino a giungere all’attuale conformazione che, con il suo grandioso edificio classicheggiante del tardo-Ottocento, andò ad occupare l’intero isolato.

Per quanti varcano la soglia del portone, l’atmo-sfera che accoglie immedia-tamente il visitatore al suo interno è a dir poco mae-stosa, memore di antichi fasti ed illustri onori. Da lì, dalla vista di quest’atrio grandioso, si accede poi al piano nobile, in cui le col-lezioni sono esposte, attra-verso un imponente scalo-ne: tre rampe di scale con balaustra continua in pie-tra bianca, piacevolmente “accompagnate” da diciotto dipinti di differenti epoche, qualità pittorica e dimen-sioni che, dalle pareti sem-brano vegliare su quanti si recano nella dimora della nobile famiglia. Il viaggio, che si appresta a compie-re il visitatore del Museo è quello che lo vede percorre-re il tempo, la storia, l’arte attraverso i suggestivi am-bienti e le importanti colle-zioni. Incontrerà così quella viene denominata la Sala degli antenati per ritrovar-si poi ad accedere a quella del Procuratore Erizzo; la

sala delle Bifore, seguita dalle sale dei bronzi rina-scimentali; potrà trovare la cosìdetta sala del Cami-no che accede alla sala del Settecento veneto da cui si può passare per giungere alla biblioteca. Il percorso prosegue poi con la sala ar-cheologica, situata nel cor-po ottocentesco del palazzo, seguita dall’armeria, dalla saletta dei soldatini, per giungere subito dopo alla sala di Ludovico Moscardo, alla saletta dell’arte sacra ed infine alla cappella. Un itinerario appassionante che cattura l’attenzione dei visitatori attraverso i suoi innumerevoli tesori: disegni antichi, bronzistica rina-scimentale, arte sacra, ar-cheologia, armi e armature antiche, arti decorative, numismatica e sfragistica, pittura, arredi e libri…

La visita a questo museo d’arte antica “del tutto par-ticolare” non termina però completamente concluso il percorso del piano nobi-le perché, oltre all’esposi-zione permanente, altre, a carattere temporaneo, si sono succedute nel tempo e vengono promosse anno dopo anno. Mostre che si svolgono al piano terreno in un spazio espositivo ideale, sapientemente attrezzato e ricavato dalle ex-scuderie, che ricevono sempre ampi consensi ed attenzione da parte del pubblico di stu-diosi, appassionati o sem-plicemente “Amici del Mu-seo Miniscalchi-Erizzo”. Ma una realtà come questa, animata costantemente dalla volontà di rendere note ai più le meraviglie che vi si conservano, non limita la propria potenzia-lità alla visita, strictu sen-su, alle sue collezioni ma la promuove anche attraverso sempre nuove pubblicazio-ni aggiornate ed approfon-dite, ed è quotidianamente impegnata in progetti ri-volti al futuro. Come quello di rendere operativamen-te agibile e a disposizione degli studiosi, il secondo piano del palazzo, per poter esporre e rendere consulta-bile lo straordinario e vasto archivio storico, pergame-naceo e cartaceo del museo stesso.

Si chiude qui la nostra visita “virtuale” a questa preziosa realtà di Verona, una visita che, come ci suggerisce ancora André Malraux, ci rende consa-pevoli di come il tentativo dell’essere umano attraver-so l’arte sia quello di “una ricreazione dell’universo di fronte alla Creazione. Dopo tutto, il museo è tra i luo-ghi che danno una più alta idea dell’uomo”.

Anonimo franco-fiammingo, Scena allegorica, olio su tavola (metà sec. XVI)

AnticipAzione

trento - castello del Buonconsiglio30 maggio - 8 novembre 2009

DI WALTER [email protected]

Una testimonianza do-verosa.

Ho conosciuto GianniBrumatti nel febbraio del1981. La sua pittura miera nota, mi piaceva:desideravo acquistare unquadro; fu così che nellatarda mattinata di unfredda giornata di boraandai in via del Lavatoiodove abitava e lavorava.Al citofono una voce mirassicurò: Brumatti era acasa e potevo salire. Mifece entrare in casa congentilezza. Mi trovavo inun corridoio piuttostoampio e buio: a destrac’era la porta dello stu-dio.

Una latente, vaga spiri-tualità, accentuò la sen-sazione di disagio cheprovavo. Ci sedemmo nodi fronte l’altro.

Guardai con maggiorattenzione quell’uomoalto, un po’ curvo, magro(notai i suoi pantalonisgualciti, larghi, cinti invita da uno spago).

Indossava un pastranologoro: il bavero smisura-to, fuori moda, le asolescucite. Mi venne inmente Akakj Akakjevic ilprotagonista del famosoracconto di Gogol intito-lato Il cappotto.

Dagli abbondanti ris-volti delle maniche usci-vano le mani ossute infi-late in guanti di lana; lefalangi delle sue lunghedita erano scoperte (in-tuii che ciò gli consentivadi dipingere tenendo conpiù sensibilità i pennellinella sua fredda stanza.

Il volto era glabro, lapelle segnata da poche,profonde rughe. I capelligrigi, spettinati e unabarba leggermente incol-ta, rendevano ancor piùdimessa la sua pur nobi-le, austera figura.

Da miope qual’era, por-tava un paio di occhialidalle lenti spesse. Inseguito capii che le suedeliziose miniature carsi-che e il lungo tempo chead esse il pittore dedica-va, avevano contribuito apeggiorare progressiva-mente la sua debolevista.

La stanza che fungevada studio, nella quale citrovavamo, era illumina-ta da una finestra: glispifferi del vento che sibi-lava anche all’internonon davano tregua. Notaidue armadietti di legno,un vecchio tavolo, unamensola sconnessa con

pochi libri, una stufa inmaiolica che costituival’unica pallida nota dicolore. Evidente, palpabi-le l’armonia che intercor-reva tra il pittore e il suoambiente di lavoro cheodorava di trementina, diolio, di qualche vernice; iparchetti erano chiazzatiqua e là di biacca induri-ta. Dalle alte pareti scen-deva esternamente il filodella corrente: tenevasospesa una lampadinaal centro del soffitto. Sulmuro un paio di disegni ealcune pitture ad olio disoggetti religiosi: unaDeposizione, una Ma-donna con Bambino eL’incontro di Cristo con ipellegrini ad Emmaussoggetto che pure avevaispirato un suo affresco.Sul cavalletto, tutt’altroche monumentale, siste-mato nell’angolo piùesposto alla luce, un qua-dro: rappresentava unalocomotiva a vapore inuna piccola stazione fer-roviaria con i passeggeriche si muovevano sullabanchina. Fu l’unicaopera che Gianni mimostrò…

Desideravo vedernealtre per fare una scelta,ma mi disse che in quelperiodo dipingeva poco.Comunque Brumatti notòla mia perplessità e miconsigliò senza forzature.

Ebbi l’intuito felice delcollezionista che un gior-no ha avuto la fortuna dilasciare lo studio diMorandi con le bottiglie oquello di Music con icavallini. Credo cheanche Brumatti avrà lasua giustizia quando una

retrospettiva mostrerà laqualità ciò che ha saputorealizzare.

Ma quel giorno nonlasciai lo studio con ilquadro sottobraccio.

Quando Brumatti defi-nì il prezzo mi accorsi dinon avere il denaro suffi-ciente: gli diedi un antici-po e me ne andai.

Un’imprevista occasio-ne, dunque, per ritornareda lui. Non era poi cosìfacile vederlo in giro perla città…

Non so quanto rimasiquel giorno da Gianni: miofferse dell’ottimo cognacBoulestrin!

Lunghi silenzi interval-larono la nostra conver-sazione. Era ben dispostoal dialogo e gli ampi gestiintervallati delle suebraccia erano spesso piùeloquenti delle parole: lesostituivano.

Nonostante i suoiottant’anni era lucidissi-mo, ricco di memorie:diceva del Circolo Arti-stico di Trieste, di aned-doti sui pittori che avevaconosciuti (Semeghini,De Chirico, Rosai, Sei-bezzi, Gino Rossi); parla-va dei movimenti cultura-li e storico-artistici ed eraaggiornato su tutto per-ché ascoltava molto laradio.

Le sue opinioni eranoferme, le sue convinzionirigide.

Sosteneva che in artenon ci può essere demo-crazia, che ai pittori inca-paci va detta la verità.

Ricordava la severitàdelle giurie delle Intersin-dacali, delle Biennali edelle Quadriennali.

Le sue scelte pittoricheerano ponderate, specchifedeli di un uomo riflessi-vo, tenace, umile.

Brumatti viveva con lamoglie Fernanda in unappartamento di vastametratura; stava isolatoper ore nel suo studiomisantropo anche tra lemura di casa. Sembravaun penitente in ritiro spi-rituale.

Dopo varie visite, variincontri, imparai a cono-scerlo. Aveva orari precisie precise abitudini. Almattino si alzava di buo-n’ora, predisponeva lesue cose e dopo averascoltato i notiziari pren-deva il bastone da pas-seggio e la sua bisacca distoffa consunta: in essacustodiva fogli da dise-gno, matite, carboncini.Se ne andava con calmaverso il Carso, lo stessodi Spacal per intenderci,ma che egli interpretavaesclusivamente con icolori ad olio. Da sempre,salvo poche eccezioni,aveva fatto così.

Era stato pittore plen-air fino a metà degli anniSettanta. Tornava a casaprima di pranzo conqualche schizzo. Il parcopranzo era seguito da unpisolino, da una riflessio-ne talvolta.

Nel pomeriggio rimedi-tava l’appunto tracciatoprima e lo sviluppava. Glicapitava però, anchedopo mesi di ritoccarecon una lacca lieve undipinto che riteneva con-cluso.

Preparava con moltacura le imprimiture dellefaesiti che costituivano il

supporto prediletto deisuoi quadri. Usava pen-nelli di misure minimespesso ridotti a poche

setole, spatole con lalama arrotondata, ta-gliente che lui stesso rea-lizzava con strumentiartigianali, e bastoncini opunte di ferro per incide-re lievemente la gessatu-ra del fondo.

La sua tavolozza eracomposta da pochi colori,suggeriti dall’esperienza:il bianco di zinco, il giallocadmio, indiano, le terreocre, quella di Cassel, ilrosso cadmio, il verdesmeraldo, il blu oltrema-re ed un grumo di nerofumo. In realtà ne adope-rava altri (il giallo dizinco, i rossi minio, cre-misi, veneziano, Pozzuoli,le terre verdi), ma limita-va il loro uso all’essenzia-le: una punta, non di più!

Spesso li preparava dasolo macinando i pigmen-ti naturali (che conserva-va in vasetti di yogurth) epreferiva sempre lavorarecon i colori magri, privi diolio.

Talvolta, terminato illavoro, usciva.Attraversava la viaCarducci e andava versoil mercato: gli piacevaconfondersi nel movi-mento frenetico della

gente; acquistava poipochi generi alimentari(la sua spesa era frugalepoiché mangiava pochis-

simo e controllava la suaalimentazione con l’at-tenzione di un dietologo).

Si spingeva sino viaSpiro Xydias in un nego-zio di colori dove compra-va la vernice opaca, lacolla di coniglio o il gessoMarcellise. Negli ultimianni era un eccezione perlui fare una scappatinaalla drogheria Toso diPiazza San Giovanni o inuna cartoleria vicina incerca di un pennino dadisegno.

Di sera rimaneva acasa, ascoltava qualcheconcerto o un’opera liri-ca; non guardava mai latelevisione per paura diaffaticare la vista.Oltremodo rare le sueapparizioni in pubblico,la partecipazione a rasse-gne collettive o la presen-za a vernici di pittori con-temporanei. Lo faceva,quasi per obbligo morale,soprattutto se esponeva-no colleghi che stimava.

Si fermava nella galle-ria giusto il tempo perdare un’occhiata, scam-biava qualche parola e sene andava senza farsinotare. Preferiva esporrea distanza di un anno o

IL MASSIMILIANO LUGLIO • SETTEMBRE 20088

Gianni Brumatti, autoritratto, 1960Trieste, Museo Revoltella

Gianni Brumatti, Prosecco, 1968

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Che voletedi gioVanni talleri

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Che volete, pare che qui da noi si possa scrivere di ogni cosa in ogni momen-to, perché è tale e tanta la confusione, il desiderio di caos, di anarchia, quel pro-fondo insaziabile bisogno di disordine in cui dibattere, contrastare, volare a sini-stra e a destra e di sopra e di sotto, in ogni direzione, sfiorando l’amore e l’odio e ogni ragione, ogni torto.

Che volete, i giornali, im-mensi, pesanti di sessanta pagine perché noi li sovven-zioniamo, che ti lasciano dopo la lettura soltanto le mani nere di stampa. E le tv ipnotizzanti in cui tutti liti-gano volendo essere gli uni-ci ad apparire pur venendo continuamente interrotti dagli spot per le gocce di orina, per la stitichezza, per le rughe e i seni pendenti, per i sughi di pomodoro, i biscotti alla cioccolata, i miracolosi spazzolini da denti e gl’immancabili po-veri magrissimi bambini neri colmi di mosche sulla bocca e sugli occhi.

Che volete, cambiate ca-nale e vi appare una mano con una pistola e sentite uno sparo, più spari, e ve-dete un uomo cadere coper-to di sangue. E cambiate ancora canale e vedete un tale che indovina un nume-ro e lo premiano con 500 mila euro. 500 mila euro.

Che volete, tra un’im-magine e l’altra c’è sempre un politico che vi arringa e vi racconta la verità vera. E ce ne sono tanti. E noi, oltre a pagare loro, molto, paghiamo anche tutto il re-sto, molto. Ma che importa, siamo liberi, liberi anche di guardare una partita di calcio e gridare godendo quando un ragazzo segna gol, e per questo suo lavo-ro riceve 5 milioni all’anno, mentre noi ne riceviamo

20 mila per ben che vada. Ma no, davvero? 5 milioni. All’anno. Cioè? Sì, 250 vol-te di più.

Che volete, è la vita. Loro dopo i trent’anni non ren-dono più, non lavorano più, non guadagnano più. Biso-gna pensarle tutte. E poi danno tanto divertimento e soddisfazione alle folle.

Che volete, i giovani che studiano, invece, e dedi-cano la vita alla ricerca scientifica, quando hanno trent’anni continuano a studiare e a cercare e per di più anche qualche euro per vivere. E le folle non prova-no soddisfazione per tutto ciò che ricevono dai loro studi e sacrifici. Non se ne rendono nemmeno conto. Non vedono, non si diver-tono. Le folle sono davvero superficiali.

Che volete, il bello della vita è nella sua varietà. Per-ciò continuiamo ad essere un paese di sofisti, il paese delle tante verità, delle di-scussioni infinite, dei cento partitini anch’essi sovven-zionati, dei processi eterni, dell’inconcludenza.

Secondo lo studioso Ralf Gustav Dahrendorf, infatti, la varietà, il pluralismo, cioè il diritto di tutti ad essere dappertutto rappresentati, “è la più grande malattia della democrazia perché scoraggia l’indipendenza e rende tutto una poltiglia unitaria”. E pare sia pro-prio così. Perciò la prima cosa da curare dev’essere l’istruzione e l’educazione alla libertà, la forza a rima-nere liberi individualmente, indipendenti, saggi, corag-giosi. E non si tratta certo della libertà dei bulli ora di moda, perché essi non sono affatto liberi, né possiedono le altre indispensabili qua-lità; essi, semplicemente, senza il branco (il partito) non esistono. Si tratta, in-vece, di quel senso della li-bertà personale che un po’

mi riecheggia il pensiero di Spinoza, che da ragazzo mi aveva affascinato; quell’ essere tale da non poter mai rimanere inquadrato in un sistema totalitario, dit-tatoriale, o in una qualsiasi gabbia ideologica; perché diversamente si sentireb-be umiliato, abbandonato

e senza nessuna possibi-le giustificazione. Libertà, dunque, di cambiare idea e coraggio di dichiarare i propri errori, senza unirsi a gruppi e partiti.

Che volete, da che l’uomo incontrò un altro uomo e non fu più solo sulla Ter-ra, capì che non era più completamente, totalmen-te libero, perché in qual-

che modo doveva adattarsi all’altro. E la libertà da su-bito cominciò ad essere re-lativa dato il rapporto con il proprio simile, benché, in assoluto, già lo fosse dall’inizio, nel rapporto con l’esterno da sé.

Che volete, per essere li-bero e indipendente, cioè, in

definitiva, per essere solo, cioè per saper essere solo e quindi libero nella molti-tudine, ci vuole intelligenza e molta forza, molta sag-gezza. Ci vuole l’istruzione per poter seguire le cose del mondo, di tutto ciò che ci circonda, per comunicare, capire, discutere. Ci vuo-le insomma saper tenersi staccati dalle passioni, dal-

le emozioni, dai sentimenti che sono poi le caratteristi-che essenziali del gruppo cui si appartiene e che con la passione diventa folla, diventa massa.

E i politici questo lo han-no ben capito e si sono cre-ati il loro robusto castello di particolari diritti, pieno zeppo di solide nicchie; e lo hanno riempito di abbon-danti privilegi. Quindi, al sicuro dalla massa, han-no cominciato a dedicarsi al rafforzamento della loro nicchia, usando ogni stra-tegia, battagliando tra di loro anche a suon di colpi bassissimi, indifferente la spesa, dato che la spesa è sempre a carico della mas-sa di rappresentati. Impor-tante, essenziale, rimane soltanto il loro personale trionfo.

Ora che la massa, fattasi più attenta, ha saputo vota-re potando qua e là, almeno un poco, il malsano plurali-smo, e che chi è al governo - indifferente chi, sia chia-ro, di destra, di sinistra, di dove volete - finalmente è in grado di fare qualcosa, si può ben vedere come quelli che hanno perduto le ele-zioni abbiano cambiato im-mediatamente direzione e marcia, e insieme con i tan-ti rametti rimasti esclusi, abbiano iniziato una bat-taglia a suon dei consueti colpi bassissimi: accuse di ogni tipo, squallide offese, denunce, adunate nelle piazze, occupazione di pub-blici edifici, e scioperi; osta-colando con le motivazioni più assurde l’attuazione del programma di governo, a iniziare dalla sistemazione di Alitalia, ciechi e sordi al conseguente immenso dan-no; e pompando la rivolta addirittura dei bambini delle elementari per quan-to riguarda la riforma nel campo dell’istruzione.

C’è sempre negli Italiani il gusto di dibattere, ma

anche di baruffare a bas-so livello. Ora chi è stato eletto dalla maggioranza del popolo viene pubblica-mente per tv dileggiato, con sorrisi, loquaci movimenti delle mani, alzata di spalle, e offeso con parole pesanti, e interrotto mentre espone i propri argomenti; e certo pubblico, pur non avendo gli elementi per poter giu-dicare ma essendo ideolo-gicamente ingabbiato, ap-plaude come fosse a teatro. E non capisce che tanto peggio va per il governo, tanto peggio va per loro, e tanto meglio va soltanto per i politici dell’opposizione.

Non hanno davvero ca-pito che è il momento, l’oc-casione di fare della nostra democrazia una vera e fun-zionante democrazia. Biso-gna anche saper rinuncia-re a qualche propria idea, anche perché tra gli uni e gli altri le differenze sono poche, e penso, in defini-tiva, che gli uni e gli altri possano fare bene le stesse cose, basta mettere o que-sti o quelli nelle condizioni di poterlo fare. Poche cose rimangono ma molto diffici-li da sistemare, sia con gli uni sia con gli altri. A mio avviso s’intende. Abbattere certi privilegi, diminuire il numero dei parlamentari e senatori, limitare a due o al massimo a tre le legislature cui poter partecipare e, al fine previdenziale, conside-rare il lavoro politico come una qualsiasi attività re-golarmente retribuita, che concorrerà alla formazione dell’ammontare della pen-sione a decorrere dal com-pimento dell’età prevista per tutti i lavoratori.

Che volete, se non ci pensiamo noi elettori chi ci penserà? Non lasciamoci distogliere. Non permettia-mo che disperdano le loro responsabilità nei meandri del pluralismo. Responsa-bilizziamoli!

PASSARIANO (UD) Nel corso di una conferenza stampa tenutasi nella sede della Regione Friuli Venezia Giulia a Udine, il Presidente, on. Renzo Tondo, l’Assessore alla Cultura, Roberto Molinaro e il Commissario Straordinario dell’Azienda Speciale Villa Manin, Enzo Cainero, hanno annunciato il nuovo corso delle iniziative culturali su Villa Manin. E’ stato presentato il programma biennale (primavera 2009 - primavera 2011) che legherà l’azienda Speciale Villa manin e la società Linea d’ombra Libri incaricata di coorganizzare quattro mostre di eccellenza artistica finalizzate a riannodare un contatto diretto con il territorio, prevedendo due rassegne di artisti del Friuli Venezia Giulia e due di carattere internazionale significativamente motivate dalla posizione ponte della Regione. Pertanto il 21 marzo 2009 (e fino al 30 agosto) si aprirà una ampia antologica dedicata a giuseppe zigaina, nella bella ricorrenza dei suoi 85 anni. Saranno esposte oltre cento opere, dalla prima del 1942 fino ai

Grande Europa nelle nuove mostre di Villa Manin a Passarianomesi ultimi. A seguire, dal 26 settembre 2009, e fino al 7 marzo 2010, una prima, importante mostra internazionale, “L’età di Corot e monet. La diffusione del realismo e dell’impressionismo nell’europa centrale e orientale”. Attraverso prestiti prestigiosi provenienti da notissimi Musei americani ed europei.

Torneranno i grandi friulani con la mostra dedicata a “i Basaldella” dal 27 marzo 2010 (e fino al 29 agosto). Infine, dal 25 settembre 2010 al 6 marzo 2011, la seconda grande mostra internazionale, “Da Böcklin a Klimt a Schiele. Dal Simbolismo alla Secessione tra monaco e Vienna”, per analizzare, facendo ricorso a cento importanti dipinti provenienti da Musei di tutto il Continente, quel momento straordinario in cui la pittura nella Mitteleuropa costituì una superba alternativa ai francesismi che albergavano in così tanti luoghi.

IL MASSIMILIANO LUGLIO • SETTEMBRE 200812

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Il ‘700 a GoriziaDI LORENZO PAOLO SCORZIATI

GORIZIA È difficile chele banche riscuotano sim-patia: come tutti coloro dicui abbiamo bisogno e chenon hanno affatto bisognodi noi (singolarmente inte-si), esse dànno l’esatta sen-sazione di essere – ancheperché effettivamente losono – il contraente fortenel rapporto commercialee, anche quando offronoservizi e condizioni appa-rentemente vantaggiosi, èchiaro che non lo fanno peramore o amicizia ma perse-guono solo il proprio –quasi sempre legittimo,almeno formalmente – inte-resse. D’altronde, in qual-siasi economia avanzataesse sono un elementoindispensabile; e da alcunidecenni in qua hannoassunto un’ulteriore fun-zione che una volta spetta-va ad altri soggetti, i quali osi sono estinti o hanno adessa abdicato: la promozio-ne della cultura e delle arti,ossia, se si preferisce, ilmecenatismo. Non che siauna gran novità: anche inAmerica alcuni fortunatiindustriali e finanzieri delpassato, dopo aver accu-mulato colossali fortune(secondo taluno con unacerta disinvoltura almenosotto il profilo etico) eresse-ro grandi fondazioni benefi-che a protezione dei debolio delle arti. Ed in Italia daqualche tempo alcuni isti-tuti bancari hanno scorpo-rato una parte delle loroattività istituendo delleparallele fondazioni per ilperseguimento di fini uma-nitari; una di queste è la laFondazione Cassa diRisparmio di Gorizia che,con l’ausilio di altri sponsored il patrocinio di delComune e della Provinciadi Gorizia ha organizzato,nella sua sede di Palazzodella Torre, nel capoluogoisontino, una mostra note-vole dedicata alla pitturaveneziana e veneta del ‘700.

Da diverso tempo, per laverità, le mostre si sonomoltiplicate oltre ogniragionevole limite, vengonospesso acquistate a scatolachiusa e non sono pertantoespressione di un realeinteresse artistico collegatoal luogo ove si effettuano; ilpiù delle volte sono soltan-to un richiamo turistico edil loro contenuto, soventepretestuoso, si rivela insuf-ficiente e di gran lungainferiore alle aspettative:ciò ha prodotto in chi real-mente si interessa di cosed’arte una sorta di “vacci-nazione” che lo porta adaccostarsi con estrema dif-fidenza a questo genere dimanifestazioni. Fa dunquepiacere imbattersi di tantoin tanto in una mostracome questa, che ha i non

indifferenti meriti di offrirealla visione opere apparte-nenti tutte a collezioni pri-vate e quindi sconosciute aipiù e comunque difficil-mente fruibili, e di annove-rarne in notevole quantità –poco più di un centinaio – edi qualità media piuttostoelevata.

Si tratta di dipinti, preva-lentemente ad olio, di auto-ri del ’700, nati o operanti aVenezia e nel Veneto: alcunidi loro sono entrati nellaStoria, altri conseguironogrande fama ai loro tempie, dopo essere stati alloraassai di moda ed aver pro-dotto una enorme quantitàdi opere la cui quantitàandava spesso a detrimen-to della qualità, sono statipiuttosto dimenticati; esopravvivono nella memo-ria dei cultori del genere,poco conosciuti dal grandepubblico, in attesa – chi samai! – di qualche improba-bile ma non impossibileribaltamento delle opinionicritiche che li riporti inauge (non è il caso di farparagoni, ma occorre purricordare che fino ad un’ot-tantina di anni fa ancheCaravaggio o Corot, pernon fare che due nomi,erano considerati con unacerta sufficienza).

La mostra si articola intre sezioni, dislocate secon-do un percorso espositivodi interesse crescente (nonnecessariamente in sensoqualitativo, ma riguardo algusto: solitamente la mag-gior parte del pubblico pre-ferisce le vedute di luoghiconosciuti alle raffigurazio-ni mitologiche o sacre), par-tendo da soggetti biblici edallegorici, passando allescene di genere ed al ritrat-to e approdando infine alpaesaggio o, più propria-mente, alla vedutistica: ilpanorama offerto può dirsicompleto. Fra i nomi prin-cipali che si trovano nellaprima sezione, quella mito-logico-allegorica, campeg-

gia quello di Marco Ricci,bellunese (1676-1730), chesi colloca a metà strada franarrazione e paesaggio: glieventi raffigurati in cinquesuoi dipinti di gradevoleeffetto sono in realtà il pre-testo per la raffigurazionedi ampi scorci paesaggisti-ci, nel cui vasto spettacolo

naturale le figure dei prota-gonisti sono relegate in unospazio marginale e sembra-no star lì più come compar-se per vivificare la scenache non per recitare un epi-sodio. In chiave meno con-sueta, lo stesso autore èpresente pure con un“Plenilunio” un po’ spettra-le e con un altro paesaggio,di fantasia, fluviale, sempredi quel genere arcadico invoga a quell’epoca, in cui ilgusto per il pittoresco loinduce a sfidare le leggidella fisica ponendo unamassiccia torre sulla cimasporgente di un dirupo, coneffetto spettacolare ancor-ché irreale.

Piuttosto ordinarie, senon addirittura mediocri,sono invece le opere espo-ste di altri autori coevimolto celebri ai loro tempi:Francesco Zuccarelli tosca-no, pittore arcadico dai toniun po’ troppo tenui ed insi-pidi, Giuseppe Zais, veneto

di Canale d’Agordo, paesag-gista mediocre, versato piùper le scene di genere o leallegorie spicciole, cheanima con vivide figurette isuoi scorci alquanto piatti egrezzi nei particolari; eGaspare Diziani, produtto-re a cottimo di allegorie escenette popolari di dimen-

sioni solitamente piccole edi non maggiore qualità.

Due grandi nature morte,di interesse più documen-tario che pittorico, rivelanoun aspetto ignoto del cele-bre Francesco Guardi, checon intento prevalentemen-te decorativo pone alcunipappagalli fra un rutilaregagliardo di fiori e frutta,ritratti tuttavia in modoalquanto sciatto e somma-rio, approssimativo nellaprospettiva, artificioso etroppo luccicante nell’effet-to. Nella sezione delle scenedi vita popolare, quasi tutteperaltro di modesta levatu-ra e rivolte più agli aspetti“dialettali” che non a quellipropriamente pittorici, tracui alcune di quella infinitaserie che rese famoso ilLonghi, ne spicca una deci-samente migliore, a tempe-ra, di Giuseppe BernardinoBison (nato a Palmanovanel 1762), graziosa (credoripresa dal Longhi), che

deve tuttavia la sua celebri-tà al fatto di essere stataper lungo tempo riprodottasulle scatole di un dentifri-cio. Nutrita è anche lasezione ritrattistica, cheannovera, fra diverse fisio-nomie, un vecchio barbutodal vivace colorito, probabi-le raffigurazione fantasticadel filosofo Pitagora, abba-stanza espressivo anche selo sguardo, che vorrebbeessere profondo, risulta unpo’ vitreo, opera delTiepolo, figlio però, Gian-domenico (1727-1804), pit-tore di scaltrito mestierema ben al di sotto del gran-de genitore, Giambattista.

Varrebbero da soli la visi-ta alla mostra i cinquemagnifici volti a pastello diRosalba Carriera, dellaquale lo scorso anno sitenne una ricca esposizionea Palazzo Cini a Venezia; lamorbidezza delle sfumature(morbidezza che riguarda ilmezzo, non la raffigurazio-ne, che è invece perentoria)si coniuga in un modoquasi inspiegabile con ladefinizione dei contorni: davicino i tratti sono accenna-ti, quasi incomprensibili;alla media distanza si ottie-ne un’immagine di mirabilenitore e vivacità, in cuiall’espressione decisa deivolti si accompagna la pre-ziosità delle vesti e degliaccessori. Sarebbero basta-ti: ma il desiderio diampliare la rassegna,estendendola anche ad altricoevi non ha reso alla loromemoria un gran servizio:messi accanto alla grandeRosalba, l’onesto PietroRotari (veronese, 1707-1762), lui pure pastellistapresente con quattro picco-li ritratti, e Pietro Nogari(veneziano 1699-1763)escono massacrati dall’in-sostenibile paragone.

La parte più cospicua,soprattutto per la quantità,della mostra è quella dedi-cata alle vedute, ossia alpaesaggio come riproduzio-

ne e documento di luoghiesistenti o anche come“capriccio”, quell’assem-blaggio fantastico di archi-tetture reali o inventate,ricostruite e accoppiate adestro del pittore.

Molte sono le tele espo-ste, tutte più o meno piace-voli, a parte due grandi diGian Antonio Guardi dellequali non si comprende lanecessità né l’opportunità,essendo esse sgraziate,piatte, grossolane nel dise-gno e nei colori ed impreci-se nella prospettiva. Vi sitrovano, fra le altre, alcuneconsuete vedute venezianedi Michele Marieschi, dinon sempre irreprensibileortodossia prospettica, edalcuni meno ripetitivi e piùinteressanti scorci, sempreveneziani, di BernardoBellotto, virtuoso dellafedeltà paesaggistica, unodei quali dalle luci taglientie di lenticolare precisione; eun paio di vedute delGuardi vero, Francesco,che, pur distorcendoalquanto le proporzioni,limitandosi ad accennare ivolumi e trascurando i par-ticolari, rende intensamen-te l’atmosfera nella suaimmediatezza espressiva.Ci sono pure cinque tele delCanaletto: eccettuataneuna piuttosto grande didimensioni ma bruttina,con la chiesa della Salutesproporzionata e piatta, lealtre quattro sono immagi-ni terse e viventi, che sem-brano proiettarsi verso lospettatore più ancora cheattrarre il suo sguardo sulfondo.

Attorno ai grandi, unaconsistente corona diminori ricorda al pubblicola propria esistenza: nessu-no è tale da sconvolgereconsolidate classifiche; e laloro presenza, se mai, sem-bra avere la principale fun-zione di far capire ai menoesperti la differenza fra ipittori e gli artisti. Fra quel-li che oscillano tra le duecategorie si potrebbe anno-verare Luca Carlevarijssapido costruttore di“capricci”, forse un po’troppo descrittivo nellescene popolari poste adanimarli, e il già citatoMichele Marieschi che intal genere indulge partico-larmente al pittoresco.

In un’ultima saletta sonoesposte anche stampecoeve accanto ai quadrettida cui sono tratte, utili perqualche aspetto storico piùche per la pittura in sé, e amo’ di conclusione sincreti-stica, sintesi di tempi, ditemi e di luoghi, è postainfine una piacevole tela delgoriziano Italico Brass, pit-tore attivo a Venezia nellaprima metà del secolo scor-so, che ritrae una proces-sione su un canale venezia-no.

Lorenzo Tiepolo - Maschere venezianeOlio su tela, 49,5x72 cm

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GORIZIA È difficile chele banche riscuotano sim-patia: come tutti coloro dicui abbiamo bisogno e chenon hanno affatto bisognodi noi (singolarmente inte-si), esse dànno l’esatta sen-sazione di essere – ancheperché effettivamente losono – il contraente fortenel rapporto commercialee, anche quando offronoservizi e condizioni appa-rentemente vantaggiosi, èchiaro che non lo fanno peramore o amicizia ma perse-guono solo il proprio –quasi sempre legittimo,almeno formalmente – inte-resse. D’altronde, in qual-siasi economia avanzataesse sono un elementoindispensabile; e da alcunidecenni in qua hannoassunto un’ulteriore fun-zione che una volta spetta-va ad altri soggetti, i quali osi sono estinti o hanno adessa abdicato: la promozio-ne della cultura e delle arti,ossia, se si preferisce, ilmecenatismo. Non che siauna gran novità: anche inAmerica alcuni fortunatiindustriali e finanzieri delpassato, dopo aver accu-mulato colossali fortune(secondo taluno con unacerta disinvoltura almenosotto il profilo etico) eresse-ro grandi fondazioni benefi-che a protezione dei debolio delle arti. Ed in Italia daqualche tempo alcuni isti-tuti bancari hanno scorpo-rato una parte delle loroattività istituendo delleparallele fondazioni per ilperseguimento di fini uma-nitari; una di queste è la laFondazione Cassa diRisparmio di Gorizia che,con l’ausilio di altri sponsored il patrocinio di delComune e della Provinciadi Gorizia ha organizzato,nella sua sede di Palazzodella Torre, nel capoluogoisontino, una mostra note-vole dedicata alla pitturaveneziana e veneta del ‘700.

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Si tratta di dipinti, preva-lentemente ad olio, di auto-ri del ’700, nati o operanti aVenezia e nel Veneto: alcunidi loro sono entrati nellaStoria, altri conseguironogrande fama ai loro tempie, dopo essere stati alloraassai di moda ed aver pro-dotto una enorme quantitàdi opere la cui quantitàandava spesso a detrimen-to della qualità, sono statipiuttosto dimenticati; esopravvivono nella memo-ria dei cultori del genere,poco conosciuti dal grandepubblico, in attesa – chi samai! – di qualche improba-bile ma non impossibileribaltamento delle opinionicritiche che li riporti inauge (non è il caso di farparagoni, ma occorre purricordare che fino ad un’ot-tantina di anni fa ancheCaravaggio o Corot, pernon fare che due nomi,erano considerati con unacerta sufficienza).

La mostra si articola intre sezioni, dislocate secon-do un percorso espositivodi interesse crescente (nonnecessariamente in sensoqualitativo, ma riguardo algusto: solitamente la mag-gior parte del pubblico pre-ferisce le vedute di luoghiconosciuti alle raffigurazio-ni mitologiche o sacre), par-tendo da soggetti biblici edallegorici, passando allescene di genere ed al ritrat-to e approdando infine alpaesaggio o, più propria-mente, alla vedutistica: ilpanorama offerto può dirsicompleto. Fra i nomi prin-cipali che si trovano nellaprima sezione, quella mito-logico-allegorica, campeg-

gia quello di Marco Ricci,bellunese (1676-1730), chesi colloca a metà strada franarrazione e paesaggio: glieventi raffigurati in cinquesuoi dipinti di gradevoleeffetto sono in realtà il pre-testo per la raffigurazionedi ampi scorci paesaggisti-ci, nel cui vasto spettacolo

naturale le figure dei prota-gonisti sono relegate in unospazio marginale e sembra-no star lì più come compar-se per vivificare la scenache non per recitare un epi-sodio. In chiave meno con-sueta, lo stesso autore èpresente pure con un“Plenilunio” un po’ spettra-le e con un altro paesaggio,di fantasia, fluviale, sempredi quel genere arcadico invoga a quell’epoca, in cui ilgusto per il pittoresco loinduce a sfidare le leggidella fisica ponendo unamassiccia torre sulla cimasporgente di un dirupo, coneffetto spettacolare ancor-ché irreale.

Piuttosto ordinarie, senon addirittura mediocri,sono invece le opere espo-ste di altri autori coevimolto celebri ai loro tempi:Francesco Zuccarelli tosca-no, pittore arcadico dai toniun po’ troppo tenui ed insi-pidi, Giuseppe Zais, veneto

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Due grandi nature morte,di interesse più documen-tario che pittorico, rivelanoun aspetto ignoto del cele-bre Francesco Guardi, checon intento prevalentemen-te decorativo pone alcunipappagalli fra un rutilaregagliardo di fiori e frutta,ritratti tuttavia in modoalquanto sciatto e somma-rio, approssimativo nellaprospettiva, artificioso etroppo luccicante nell’effet-to. Nella sezione delle scenedi vita popolare, quasi tutteperaltro di modesta levatu-ra e rivolte più agli aspetti“dialettali” che non a quellipropriamente pittorici, tracui alcune di quella infinitaserie che rese famoso ilLonghi, ne spicca una deci-samente migliore, a tempe-ra, di Giuseppe BernardinoBison (nato a Palmanovanel 1762), graziosa (credoripresa dal Longhi), che

deve tuttavia la sua celebri-tà al fatto di essere stataper lungo tempo riprodottasulle scatole di un dentifri-cio. Nutrita è anche lasezione ritrattistica, cheannovera, fra diverse fisio-nomie, un vecchio barbutodal vivace colorito, probabi-le raffigurazione fantasticadel filosofo Pitagora, abba-stanza espressivo anche selo sguardo, che vorrebbeessere profondo, risulta unpo’ vitreo, opera delTiepolo, figlio però, Gian-domenico (1727-1804), pit-tore di scaltrito mestierema ben al di sotto del gran-de genitore, Giambattista.

Varrebbero da soli la visi-ta alla mostra i cinquemagnifici volti a pastello diRosalba Carriera, dellaquale lo scorso anno sitenne una ricca esposizionea Palazzo Cini a Venezia; lamorbidezza delle sfumature(morbidezza che riguarda ilmezzo, non la raffigurazio-ne, che è invece perentoria)si coniuga in un modoquasi inspiegabile con ladefinizione dei contorni: davicino i tratti sono accenna-ti, quasi incomprensibili;alla media distanza si ottie-ne un’immagine di mirabilenitore e vivacità, in cuiall’espressione decisa deivolti si accompagna la pre-ziosità delle vesti e degliaccessori. Sarebbero basta-ti: ma il desiderio diampliare la rassegna,estendendola anche ad altricoevi non ha reso alla loromemoria un gran servizio:messi accanto alla grandeRosalba, l’onesto PietroRotari (veronese, 1707-1762), lui pure pastellistapresente con quattro picco-li ritratti, e Pietro Nogari(veneziano 1699-1763)escono massacrati dall’in-sostenibile paragone.

La parte più cospicua,soprattutto per la quantità,della mostra è quella dedi-cata alle vedute, ossia alpaesaggio come riproduzio-

ne e documento di luoghiesistenti o anche come“capriccio”, quell’assem-blaggio fantastico di archi-tetture reali o inventate,ricostruite e accoppiate adestro del pittore.

Molte sono le tele espo-ste, tutte più o meno piace-voli, a parte due grandi diGian Antonio Guardi dellequali non si comprende lanecessità né l’opportunità,essendo esse sgraziate,piatte, grossolane nel dise-gno e nei colori ed impreci-se nella prospettiva. Vi sitrovano, fra le altre, alcuneconsuete vedute venezianedi Michele Marieschi, dinon sempre irreprensibileortodossia prospettica, edalcuni meno ripetitivi e piùinteressanti scorci, sempreveneziani, di BernardoBellotto, virtuoso dellafedeltà paesaggistica, unodei quali dalle luci taglientie di lenticolare precisione; eun paio di vedute delGuardi vero, Francesco,che, pur distorcendoalquanto le proporzioni,limitandosi ad accennare ivolumi e trascurando i par-ticolari, rende intensamen-te l’atmosfera nella suaimmediatezza espressiva.Ci sono pure cinque tele delCanaletto: eccettuataneuna piuttosto grande didimensioni ma bruttina,con la chiesa della Salutesproporzionata e piatta, lealtre quattro sono immagi-ni terse e viventi, che sem-brano proiettarsi verso lospettatore più ancora cheattrarre il suo sguardo sulfondo.

Attorno ai grandi, unaconsistente corona diminori ricorda al pubblicola propria esistenza: nessu-no è tale da sconvolgereconsolidate classifiche; e laloro presenza, se mai, sem-bra avere la principale fun-zione di far capire ai menoesperti la differenza fra ipittori e gli artisti. Fra quel-li che oscillano tra le duecategorie si potrebbe anno-verare Luca Carlevarijssapido costruttore di“capricci”, forse un po’troppo descrittivo nellescene popolari poste adanimarli, e il già citatoMichele Marieschi che intal genere indulge partico-larmente al pittoresco.

In un’ultima saletta sonoesposte anche stampecoeve accanto ai quadrettida cui sono tratte, utili perqualche aspetto storico piùche per la pittura in sé, e amo’ di conclusione sincreti-stica, sintesi di tempi, ditemi e di luoghi, è postainfine una piacevole tela delgoriziano Italico Brass, pit-tore attivo a Venezia nellaprima metà del secolo scor-so, che ritrae una proces-sione su un canale venezia-no.

Lorenzo Tiepolo - Maschere venezianeOlio su tela, 49,5x72 cm

e-antiqua.it

Un Grazie ai nostri

Amici e Clienti

che ci hanno consentito

di festeggiare i nostri

45 anni di attività!

Clodio Taccari

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IL MASSIMILIANO8 Gennaio - Marzo 2009

Matej Sternen, Verd, 1870 - Lubiana, 1949Ragazza con libro, 1930 c.

Gli impressio di Walter aBrami

[email protected] Negli anni Ottanta le fre-

quentazioni con la famiglia dell’acquerellista e caricatu-rista Robert Hlavaty e alcu-ne personali di Luigi Spacal mi portarono ripetutamente a Lubiana. Fu in quella città che ebbi modo di vedere al-cune ricche collezioni private e diversi quadri dei pittori im-pressionisti sloveni, di Zoran Music e di Augusto Cernigoj. Rividi alcune opere di Jacopič, di Sternen e di Grohar in una delle prime mostre antiquarie a Trieste. Solo pochi anni fa anni il Centro d’Arte e Cultura Skerk di Ternova Piccola dedi-cò un’importante rassegna agli impressionisti sloveni. Lo sco-po principale del Centro fu fin dal 1998 quello della reciproca conoscenza delle culture e dei popoli nell’ambito Alpe Adria e in specie dell’arte slovena in Italia. In questo decennio, nella galleria che occupa uno spazio di trecento metri qua-drati sono state organizzate im-portanti mostre di noti artisti, pittori, grafici e scultori quali Zora Koren, Lojze Spacal, Giu-seppe Zigaina, Bogdan Borčič, Andrej Jemec, Marcello Ma-scherini, Jože Ciuha, Valentin Oman, Lisa Sotilis e Vladimir Veličkovič; altre manifestazio-ni hanno destato forte interesse in un pubblico colto e raffinato e un significativo numero di visitatori sia dalla Slovenia che dall’Austria: una di queste fu appunto l’esposizione dedicata agli Impressionisti sloveni oggi ampliata e meritevole di visita presso La Galleria Nazionale della Slovenia a Lubiana. La mostra, intitolata Gli impressio-nisi sloveni e il loro tempo 1890-1920 inaugurata nel mese di aprile 2008 si concluderà l’8 febbraio 2009. Nelle vaste, stupefacenti sale della Galleria sono esposti permanentemen-te lavori di artisti sloveni e dal 1994 quelli di varie scuole europee. La Galleria Naziona-le fu fondata da un gruppo di intellettuali nel 1918 ed operò quale associazione fino al 1945. In tale data la sua attività e il suo patrimonio furono acqui-siti dallo Stato ed elevati ad Ente Pubblico. Nel 1925 le fu assegnato l’edificio del Narodni dom (Casa Nazionale) oggi am-pliato con un’ala ed un ampio vestibolo. Nel 1928 fu inau-gurata la prima rassegna e nel 1933 fu realizzata la raccolta sistematica della tradizione ar-tistica in Slovenia dalla fini del XII° secolo sino all’inizio del

XX°. Attualmente la Galleria Nazionale di Slovenia dispone di un’importante raccolta di ol-tre diecimila quadri, sculture e lavori su carta nonché manife-sti museali e d’autore di un ric-co archivio di documentazione fotografica, di un catalogo di documentazione degli artisti che operano in Slovenia e di un laboratorio ben attrezzato di restauro. In cinquant’anni ha organizzato una serie di mostre con le quali ha portato l’Im-pressionismo sloveno alla cono-scenza del grande pubblico, fa-cendolo entrare nella coscienza popolare quale parte integrante dell’identità nazionale slovena. La costituzione dell’Associazio-ne degli artisti sloveni avvenne nel 1899 nello stesso anno in cui a Venezia s’inaugurò la III Esposizione Internazionale di Belle Arti e si costituì una Cor-porazione dei pittori e scultori italiani. Fu anche l’anno nel quale il governo italiano acqui-stò la Galleria e il Museo Bor-ghese, in Spagna si celebrò il centenario di Velasquez e morì il celebre pittore Giovanni Se-gantini. Successivamente, la seconda generazione di artisti

sloveni formatasi a Monaco di Baviera nell’ultimo decennio del Secolo e in parte presso la scuola privata di Anton Ažbe attiva a Monaco dal 1891, ri-lanciò nuovamente nelle regio-ni di appartenenza il proprio potenziale di forze creative, la propria verve dinamica e vitale se non proprio esuberante. La scuola di Ažbe fu infatti un am-biente tradizionale ma di alta qualità didattica e tecnica. La maggior parte di questi pittori rientrò nella terra di apparte-nenza e Rihard Jacopic, Ivan Grohar, Matija Jama e Matej Sternen furono tra i soci fon-datori dell’ Associazione. Prima del 1902 fu organizzata una se-conda mostra ma ebbe scarso successo e fu causa di contrasto tra gli artisti più carismatici che sciolsero la combriccola e la ne-onata lega. Soprattutto i quat-tro poc’anzi nominati furono considerati dal pubblico e dalla critica superficiali e portatori di mode passeggere. La pratica della pittura en plein air messa soprattutto in atto dai france-si e importata altrove in anni successivi, divenne per molti un nuovo modo di intendere

il rapporto con la realtà e la sua rappresentazione pittorica. Jacopič, Grohar, Jama e Ster-nen erano epigoni di quell’Im-pressionismo che si formò negli anni ‘60 e combattè l’Accade-mismo contrapponendogli una pittura naturalistica basata sull’impressione (impressione retinica) che un oggetto, vei-colato dalla luce, lascia nell’oc-chio del pittore e che viene poi trasposta sulla tela attraverso tocchi di colore puro. Come Monet, Ćėzanne Degas o Re-noir, anche i minori rappre-sentanti sloveni usano il colore puro e le infinite possibilità dei colori complementari, rifiuta-no il chiaroscuro e il nero come assenza di luce (da qui l’intro-duzione di ombre colorate) e determinano nel loro Paese un totale sovvertimento della pit-tura finora proposta. Anche la pittura degli sloveni, praticata a diretto contatto con la natura così come fece il giuliano Um-berto Veruda a Burano prima di introdurla a Trieste, vuole trasportare sulla tela l’istante della visione attraverso la luce e il colore. Il movimento france-se entrò in crisi già nel 1880 e

alcuni artisti intrapresero nuovi percorsi di ricerca. Da tale crisi prese avvio il Neoimpressioni-smo detto anche Pointillisme ma non è il caso dei nostri. I quattro sloveni rimasero squat-trinati e senza pubblico in un ambiente culturale ancora ar-retrato e furono etichettati non senza una vena d’ironia “gli stranieri”. Jacopič si trasferì a Šcofja Loka e gli altri scelse-ro altre mete. Grohar finì in carcere prima e a Vienna poi, Jama vagabondonò per la Kra-jna su un carro di zingari. Per capire meglio il rapporto tra lui e Jacopič è d’aiuto lo scambio epistolare che intercorse tra i due.

Nel 1904 mentre Gustav Klimt stava preparando a Vien-na gli schizzi per i mosaici di Palazzo Soclet a Bruxelles (poi eseguiti dalla Wiener Wer-Kstätte), gli sloveni riuscirono ad organizzare una mostra nel Salon Miethke presentandosi con il nome di Freie Künstler-vereinigung SAVA. Gli artisti offrirono al pubblico viennese soggetti familiari e ricchi di pa-thos, di stimmung e ai letterati Ivan Cankar e Oton Župančič eredi del prezioso lascito del grande Prešeren, occasione di polemica nei confronti dei circoli culturali sloveni che li avevano rinnegati. In alcuni casi i loro dipinti non solo ri-chiamavano alla memoria la pittura paesaggistica russa, ma includevano elementi decora-tivi tipici della Sezession, così come alcuni caratteri del Divi-sionismo e del Neoimpressio-nismo. A posteriori Jacopič di-

chiarò che alla fine di quell’an-no fortunato l’impressionismo sloveno aveva già raggiunto il suo apice. Ci sforzammo, disse, di esprimere le rivela-zioni più profonde dell’animo umano con i pennelli, con i colori. Grohar che in seguito fu influenzato dalla pittura di Segantini, ed ebbe inclinazione simbolista, nel riguardare dopo molto tempo un proprio di-pinto ambiva essere coinvolto emotivamente come nei suoi primi momenti creativi. La-sciò la pittura paesaggistica per avvicinarsi alla figura umana e attraverso essa cercò di cogliere i moti dell’anima. Jacopič tentò la via della pittura astratta ma si accorse di non essere in grado di dipingere senza una fonte d’ispirazione esterna. Quale soggetto avrebbe potuto esse-re per lui più stimolante della Chiesa dei Crociati d’inverno o di una collina autunnale o di una soleggiata giornata lungo la Sava. I quattro non riuscirono a ripresentarsi individualmente a Vienna. Nel 1905, mentre Klimt e i suoi amici lasciarono il gruppo della Secessione, gli sloveni presentarono in una collettiva un quadro ciascuno. Negli anni seguenti partecipa-rono alle mostre degli artisti slavi a Cracovia e a Varsavia. Due anni dopo, mentre Klimt incontra Egon Schiele prossi-mo ad una capatina a Trieste, nel porto adriatico Grohar pre-sentò Il Seminatore I opera che rappresenta un motivo biblico all’epoca molto diffuso. Negli anni seguenti Jakopič presen-tò al Consiglio Comunale di

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Splendori del Gotico nel Friuli patriarcaleFino al 31 marzo 2009

Chiesa di San Francesco – Udine

coMUne di Udine – diPartiMento Politiche sociali edUcatiVe e cUltUrali

U. o. ciVici MUsei e gallerie di storia e arte

33100 Udine – castello

tel. o432 271591 – FaX 0432 271982

[email protected] - www.comune.udine.it

Rihard Jakopic, Lubiana, 1869 - ivi, 1943Sole invernale, 1905 c.

Page 6: IL MASSIMILIANO - artericerca.com

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IL MASSIMILIANO 9Gennaio - Marzo 2009

Lubiana il suo progetto per un padiglione d’Arte eretto in gran parte a sue spese e inaugurato nel 1909 con la prima mostra degli artisti della SAVA nella città. La sua raggiunta autore-volezza fece sì che altri artisti sloveni convergessero in un’as-sociazione informale che colmò il vuoto lasciato dallo sciogli-mento dalla precedente Asso-ciazione Artistica Slovena. La pittura di Jacopič, Jama, Gro-har e Sternen predilige angoli intimi di natura incontamina-ta, paesaggi solitari ripresi nelle varie stagioni, campi innevati o dipinti sotto il sole cocente, stradine di villaggi e chiese mo-numentali, ponti colti per esal-tarne la prospettiva su acque ferme o morbide colline. Il sa-lone Jacopič fu il primo spazio espositivo pubblico a Lubiana e rese possibili i primi possibili regolari acquisti da parte dello Stato. Come nota il dottor An-drej Smrekar “all’inizio gli im-pressionisti sloveni abbraccia-rono l’impressionismo in senso lato, ma in seguito assorbirono il simbolismo secessionista di matrice monacense e viennese, conobbero scuole quali quel-la di Dachau e la modernista Hagenbund, diressero la loro attenzione verso pittori fran-cesi quali Paul Besnard, allora molto stimato nell’Europa cen-trale, e Claude Monet. Furono questi gli stimoli che, in speci-fiche circostanze storiche e re-gionali, li spinsero ad elaborare il proprio stile personale tra i

numerosi volti assunti dal post-impressionismo in Europa. Così radicati nel contesto arti-stico internazionale dell’epoca, diedero nuovo slancio alla tra-dizione artistica locale che da allora non ha cessato di evol-versi vertiginosamente”.

Brevi cenni biografici sugli artisti citati

Rihard Jakopič (Lubiana 1869-1943)

Grazie al padre che ebbe uno spiccato senso degli affari, Jacopič ebbe un‘educazione artistica , ma giovane fu ma-laticcio. Fu costretto più vol-te ad interrompere gli studi. Nel 1887 fu a Vienna presso Franz Rumpler e nel 1890 si iscrisse all’Accademia di Mo-naco. La abbandonò ben pre-sto per perfezionarsi assieme ad Anton Ažbe e Ferdo Vesel. Divenne segretario dell’Asso-ciazione artistica Slovena, si stabilì a Lubiana ma dopo il clamoroso flop della seconda mostra si trasferì a Škofia Loka nella casa della sua fidanzata. Dopo un’esperienza semestrale nell’atelier di Voitech Hynais a Praga, ritornò definitivamente a Lubiana nel 1906 e tre anni dopo fece costruire il celebre paviljon. Fino alla metà degli anni Venti organizzò e condus-se la vita artistica in città. Tra il 1907 e il 1914 aprì con Ster-nen una scuola d’arte. Indub-biamente Monaco aperse loro gli occhi anche da un punto di

vista pratico, commerciale. In anni successivi a Trieste, fece-ro altrettanto Guido Grimani e Giovanni Zangrando. Sino al 1912 trasfigurò le visioni del mondo reale in armonie co-loristiche post-impressioniste, ma in seguito e fino al 1917 i suoi lavori si differenziarono, passando dalla fase di lirismo a una composizione caratte-rizzata da un uso di tratti più vigorosi. Dopo la II Guerra Mondiale il suo stile si orien-tò più verso l’Espressionismo. Sono state catalogate più di 1200 sue opere tra schizzi, disegni, e dipinti ad olio. Egli scelse il fiume Sava nella zona tra Tacen e Černuče come sog-getto principale di molti di-pinti e per soddisfare le nume-rose richieste di committenti ripetè molti soggetti eseguiti quand’era più giovane: in par-ticolare i motivi delle betulle e del lavoro nei campi. Negli ultimi anni dipinse numerose nature morte. Tra i suoi sog-getti sono pure numerosi gli interni che rappresentano sa-lotti borghesi.

Matjia Jama(Lubiana 1872 -1947)

E’ l’artista sloveno che mag-giormente si attenne alla fede

impressionista. La luce naturale ed i colori furono per lui fonti inesauribili di nuove sfide.

Jama studiò a Zagabria e nel 1892 entrò nella scuola d’ar-te privata di Simon Hollosy a Monaco dove rimase due anni. Nel 1897 Jakopič gli presentò Ažbe e gli altri artisti sloveni che frequentavano la sua scuo-la, mentre l’anno successivo per un semestre seguì i corsi di Johann Kaspar Henterich all’Accademia d’Arte di Mona-co. Iniziò subito a guadagnarsi da vivere non solo dipingen-do ritratti commissionati, ma pure lavorando in qualità di fotografo ed illustratore per la rivista Dom in svet. Fu animo irrequieto, vagabondo; visse un periodo in un carro trainato da cavalli, dipinse sia in Slovenia che in Croazia non disdegnan-do puntate lungo il Danubio, a Vienna, a Belgrado ed anche in Olanda. Negli anni Venti si recò spesso a Bled e a Volčji Potok mentre negli anni Trenta furona la Bela Krajina e la Valle della Kolpa ad ispirare i suoi pa-esaggi. Tra le sue opere oltre ai deliziosi paesaggi ci sono pure interessanti e suggestive pano-ramiche urbane e parchi. Non disdegnò la figure di uomini o donne colte mentre lavorano.

Ivan Grohar (Sorica 1867-Lubiana 1911)

Fu il parroco del paese natio ad individuarne le capacità ar-tistiche. Grohar studiò a Graz con un sussidio regionale, ma non fu ammesso all’Accade-mia di Vienna poiché poco istruito. Tra il 1895-96 fu a Monaco; nella città bavarese copiò opere di artisti impor-tanti nelle gallerie d’arte. Tra-sferitosi a Škofja Loka conob-be Jakopič. Prima della fine del secolo si affermò quale pittore di soggetti religiosi. Ricevet-te numerose commissioni ed eseguì diverse pale d’altare. Dopo il 1902 fu in Friuli e poi a Vienna. Espose a Belgrado, a Berlino, a Sofia, a Zagabria e alla mostra Imperiale di Lon-dra. Nel 1907 espose a Trieste e negli anni seguenti a Craco-via, a Varsavia, nel Padiglio-ne di Jacopič e nel 1910 alla mostra del Giubileo “80 anni di arti figurative in Slovenia”. Arnold Boöcklin gli suggerì alcune composizioni simboli-ste. Lavorò su medie e grandi dimensioni facendo pure uso delle spatole. Fu influenza-to da Franz Defregger ma gli piacque molto Segantini. Tra le sue opere due da ricordare soprattutto a Trieste: il paesag-

gio con il Castello di Duino e San Giovanni di Duino.

Matej Sternen

(Verd 1870-Lubiana 1949)Tra gli impressionisti slove-

ni fu l’unico a considerare la pittura come un rito personale e non una professione nono-stante avesse grande tecnica e mestiere. Studiò a Graz e a Vienna prima di recarsi a Mo-naco dove rimase fino al 1905. Fu a Lubiana dove tenne scuola di pittura con Jacopič e viaggiò molto in Italia. Visse a Duino, nei pressi di Trieste dove fu Rilke. Dopo un viag-gio a Parigi ritornò a Lubiana continuando ad esporre. Ebbe una grande padronanza del disegno e se ne servì più dei colleghi anche prima della stesura dei colori ad olio sul-la tela.. Tra ci suoi modelli vi furono i pittori tedeschi Leo Putz, Lovis Corinth e Fritz von Uhde. Dipinse molti pa-esaggi, ma anche interni con voluttuose figure femminili che posteriormente divenne-ro il suo soggetto principale. Si dedicò anche alla grafica e all’acquerello e realizzò molti studi di nudi femminili e di-pinti ad olio con il medesimo soggetto.

Crocifisso del XVIII secolo

Ottone

(Rif.89582/12)

Crocifisso del XVII secolo

legno dorato, cm 60

(Rif.89630/3)

Pisside del XViii secoloArgento, cm

31 x 13(R

if.91083/1)

Calice del XViii secolo

Argento(R

if.90029/1)

reliquario del XiX secoloArgento, cm

29 x 14 x 9(R

if.91088/2)

nisti sloveni

Matija Jama, Lubiana, 1872 - ivi, 1947Leo Souvan, 1900 c.

Ivan Grohar, Sorica, 1867 - Lubiana, 1911Il mandriano, 1910 c.

HarrY BerToia 1915 – 1978. “Decisi che una sedia non poteva bastare”Pordenone, Civici musei d’arte e Spazi espositivi ProvincialiDal 23 maggio al 20 settembre 2009

info: tel. 0434. 392311 - [email protected]

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IL MASSIMILIANO10 Gennaio - Marzo 2009 IL MASSIMILIANO 11Gennaio - Marzo 2009

superbia: la pecca più diffusaI sette vizi capitali

di romano Sancin

Superbia: ovvero, alteri-gia, altezzosità, albagia, ar-roganza, boria, burbanza, disdegno, grandigia, iattan-za, immodestia, impertinen-za, orgoglio, ostentazione, presunzione, prosopopea, protervia, spocchia, traco-tanza, vanità, vanagloria… (così, e di più, il glossario).

Nella teologia cattolica, è uno dei Sette Vizi capitali, consistente in una conside-razione talmente alta di se stessi da giungere al punto di stimarsi principio e fine del proprio essere, disco-noscendo così la natura di creatura di Dio e offenden-do, quindi, il Creatore (Gre-gorio Magno).

Abbiamo rilevato, uno sproposito di sinonimi a rappresentare una delle pecche più diffuse e fasti-diose del genere umano.

Dante precipita i superbi, al pari degli iracondi, nel V° cerchio dell’Inferno: “Quanti si tengon or là su gran regi che qui staranno come por-ci in brago, di sé lasciando orribili dispregi!” La terre-na presunzione punita qui col sguazzare nella sordida melma.

Nel Canto decimo e nei successivi del Purgatorio, il Vate infligge ai superbi la pena di camminare ran-nicchiati reggendo gravi pesi sulle spalle. E, mentre arrancano sotto le moleste “some”, invocano Dio in un “Pater Noster” sui generis, parafrasato ad hoc dal Po-eta.

“Quest’ultima preghiera, signor caro, già non si fa per noi, ché non bisogna, ma per color che dietro a noi resta-ro.”

E’ l’espressione di sincera carità ed altruismo con la quale i superbi, ora penti-ti, intercedono in favore dei loro simili, ancora sulla ter-ra. Cosa che, considerata la protervia dei loro costumi, mai avrebbero fatto in vita.

Fra le anime penitenti compare Omberto Aldo-brandeschi, intrepido con-dottiero senese. Sicuramen-te perito di morte violenta per effetto della superbia che gli aveva suscitato con-tro inimicizie ed odi.

E poi, Oderisi da Gubbio, eccellente celebre miniatore che, nella seconda metà del XIII° Secolo, operò in Roma, per volere del Papa, ed a Bologna.

Infine, Provenzan Salva-ni, cittadino di Siena che, dopo la vittoria di Monta-perti, con somma iattanza, si pose alla guida della cit-tà.

“Quelli è…Provenzan Sal-vani; ed è qui perché fu pre-

suntuoso a recar Siena tutta nelle sue mani. Ito è così e va, senza riposo, poi che morì; cotal moneta rende a sodisfar chi è di là troppo osò.”

L’ambizione smodata bene si riassume in una locuzione di Svetonio: “Aut Caesar, aut nihil.” Motto privilegiato dei superbi. Assunto come emblema da Cesare Borgia.

In pieno Rinascimen-to, il ferrarese Fulvio Testi (1593-1646), con sempli-ci, eleganti versi, tesse le lodi della troppo trascurata “modestia”.

“Non aura popolar che va-ria ed erra, non folto stuolo di servi e di clienti, non gem-me accolte o accumulati ar-genti, petto mortale pan far beato in terra.

Beato è quei che in libertà sicura povero ma contento i giovani mena, e che fuor di speranza e fuor di pena, pompe non cerca e dignità non cura”.

Ma, per quanto il buon senso e la riflessione do-vrebbero guidare ad una pratica consapevole della virtù semplice dell’umiltà, le umane genti sono parti-colarmente tentate dall’esa-gerata stima di sé, dai pro-pri meriti, pregi od averi, reali o fasulli che siano.

Ed a ciò concorre, di fre-quente, l’interessata piag-geria degli “amici di tutte le ore”.

Una sontuosa “galleria” di personaggi superbi ed arroganti è racchiusa nelle preziose pagine de “I pro-messi Sposi”.

Il Manzoni è maestro nel costruire ritratti di sottile fattura dai quali emergono, come da arcane icone, pun-tuali stereotipi delle più fre-quentate debolezze umane.

Ci si imbatte, subito, nel-la protervia rozza e malde-stra di don Rodrigo, agiato e fatuo signorotto di cam-pagna.

Alla mercè delle canzona-ture e dei dileggi del paren-te, conte Attilio, di simile temperamento, ma ben più scaltrito ed arguto.

Sovrasta, poi, l’ombra possente e malvagia dell’In-nominato, vero despota, al-lora, di quei luoghi e quelle genti.

L’Autore riferisce di co-stui, seguendo le Cronache del tempo, come di “un tale che, essendo de’ primi tra i grandi della città, aveva

stabilito la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurando-si a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovra-nità; menava una vita affat-to indipendente…”.

Persino quel sant’uomo di frà Cristoforo “non era sempre stato così”.

Da giovane, col nome battesimale di Lodovico, fi-glio di un facoltoso mercan-te, era persona altezzosa assai, pronta a por mano

alla spada per un nonnulla, anche se, solitamente, a fin di bene.

Un malaugurato, cruento fattaccio gli cambia la vita, indirizzandolo ad un per-corso di umiltà e redenzio-ne.

Ma la “spezzatura signo-rile”; l’idea della “superiori-

tà e della potenza”, impera-vano fra i “gentiluomini” del tempo.

Basta rileggere la lezione di “galateo” che il principe-padre dà ad una Gertrude ancora bambina,

“Se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; per-ché il sangue si porta per tutto dove si va.”

Uno degli uomini più

eminenti del mondo clas-sico, Cesare: condottiero, politico, letterato, fu anche personaggio d’insolente su-perbia.

A lui viene attribuita la locuzione: “Meglio essere il primo in un villaggio che il secondo a Roma”.

Ed ancora, il celeberrimo: “Alea iacta est!” pronuncia-to nel varcare il Rubiconde, contrapponendo alle dispo-sizioni del Senato romano ed impadronendosi, con il suo esercito, del potere.

E proprio il cumulo delle cariche e degli onori lo rese sempre più sospetto e gli inimicò l’oligarchia senato-ria che, invidiosa ed insoffe-rente, organizzò la congiura delle Idi di marzo del 44 a. C., conclusa con la sua uc-cisione.

La letteratura picaresca ci narra, nelle sgangherate vicende di Don Chisciotte della Mancia, di come an-che questo generoso ed in-genuo eroe cadde facile vit-tima delle subdole lusinghe della vanagloria.

Il protagonista, decaduto signorotto di campagna, si esalta al momento dell’inve-stitura a cavaliere da parte di un oste buontempone che si finge un nobile ca-stellano.

Con questo strampala-to viatico il nostro parte a compere le gesta più bizzar-re e, per la maggior parte, rovinose.

Arguta metafora di Miguel de Cervantes su infatuazio-ni e facili chimere umane.

Tanto basta a riflettere sull’insensata superbia che così spesso avvolge e travol-ge, in particolare, i politici e le schiere di “umbre” che attorno vi bazzicano.

Si costituisce, così, gradi-no dopo gradino, la “Casta” degli Intoccabili, o presunti tali.

Checché ne pensi o dica l’On. Andreotti, che lo ha frequentato alquanto, il “potere logora”, eccome!, soprattutto coloro che lo ge-stiscono –e sono tanti- sen-za discernerne bene i limiti e le insidie.

Il potere, non inteso con sagacia, è sicura fonte di al-lucinazioni, deliri e, quan-tomeno, di esternazioni di alterigia ed arroganza.

Perciò, ogni consorzio umano necessita, periodi-camente, di salutari e salvi-fici ricambi.

Ma oggi, oltre che nell’are-na politica, burbanza ed impertinenza trovano libera espressione e stabile sfogo nelle capaci spire del tubo catodico.

Anzi, si può tranquilla-mente sostenere che la poli-tica stessa e, cioè, il potere, è totalmente condizionato, se non fagocitato, dalla te-levisione.

Argutamente, qualcuno ha osservato che, nella so-cietà attuale, una persona non esiste se la sua imma-gine non appare costante-mente sullo schermo.

E la superbia è imparen-tata strettamente al narci-sismo, che ne è anche una singolare espressione.

Tale atteggiamento psico-logico può assumere, talvol-ta, dimensioni e significati patologici, quando l’indivi-duo si propone come centro preminente od esclusivo di compiaciuta ammirazione, indifferente all’esistenza ed alle qualità altrui.

Emblematici model-li si possono riconosce-re nell’esuberante critico Sgarbi o nella scosciata opi-nionista Parietti.

Ma il contenitore capace della TV accoglie, giorno dopo giorno, schiere di feti-cisti dell’ostentazione e del-la vanità, e di aspiranti tali.

Il delirio di protagonismo si presenta come una sorta di droga subdola che coin-volge e travolge i più.

Di questi tempi, non vi è strumento mediatico più influente ed efficace del tea-trino televisivo, per coinvol-gere e fagocitare una massa smarrita ed acefala, perva-sa solo dalla cupidigia di schiavitù.

E’ l’apice del successo, ove superbia e narcisismo coesistono e si rinsaldano, l’un l’altro, nel “Peana” ge-nerale. Finché dura.

I Frati Trappisti, ogni vol-ta che si incontrano, si ri-petono, vicendevolmente, il motto “Memento mori”.

Ma senza rincorrere l’al-

legro “incipit” degli ami-ci Trappisti, di quando in quando –e non solo il mer-coledì delle Ceneri- è baste-vole richiamare alla mente il passo scultoreo della Ge-nesi: “Memento homo, quia pulvis es, et in pulverem re-verteris”.

Meditate, Superbi, medi-tate…

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IL MASS

IMILIA

NO

Franz Von Stuck, particolare del Lucifero Galleria Nazionale d’Arte di Sofia

Capolavori mancatiDI ROBERTA TOSI

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VERONA Non era facilecatturare la luce dellaPiccardia per un pittore delQuattrocento, quell’imper-cettibile trasparenza da farvibrare tra le proprie maniper poi lasciare che si fon-desse in sfumature terse,pure, quasi algide che siscioglievano nell’ardesia disfondi paesaggistici persiall’orizzonte o nei blucobalto del manto di unaVergine figlia, madre,sposa. Una luce che siriverberava nei volti delledonne velati da un’acerbabellezza o negli sguardi dichi ascoltava racconti dinobili imprese e di conqui-ste senza eguali. Ma eragrazie ad essa che prende-vano vita capolavori di stra-ordinaria originaria bellez-za quotidiana e divina.

Chiamare questi artistisorprendenti e, a loromodo, rivoluzionari, con iltermine “primitivi”, comevengono comunementeidentificati, sarebbe comeoffuscare quella luce intimae propria che armonizzavanelle singole cromie ognipiù piccolo dettaglio. Untermine ambiguo, quello di“primitivi”, legato più chealtro alla concezioneromantica della visione diqueste opere e che sfocianel significato di ingenuo,semplice, primordiale…Forse sarebbe più correttodefinirli “pionieri” questipittori perché hanno son-dato ed attraversato isegreti, con voluttà artisti-ca e miniaturistica pazien-za, della rappresentazione,colmata da un’attenzionedel tutto unica e perfettaper ciò che Panofsky defini-va come i diritti del partico-lare dinanzi alle prerogativedell’universale, e il dirittodei sensi (necessariamentelimitati al particolare) difronte alle pretese dell’intel-letto.

Tra questi artisti della“prima ora”, ce n’è uno dicui non si conosce quasinulla ma i cui capolavori,come ben sottolineaGiovanni Iudica nel suorecente saggio Il pittore e lapulzella, sono lì a testimo-niare che visse e che nonvisse invano. L’incertezzaavvolge persino il suonome: Quarton, Charton,Charonton o Charretier. Lefonti, poche, lo voglionoattivo in Provenza nellaprima metà delQuattrocento. I dati sullasua vita, scarsi, presumonosia nato tra il 1418 e il1419 a Laon ma dopo il1466, di lui non si trova piùalcuna notizia ad Avignone,sua ultima dimora, forse

caduto vittima, come tantialtri, della terribile pesteche quell’anno si era abbat-tuta sulla città. E’ facileperò intuire come nella suaformazione abbiano influitola visione e la maestria diopere di artisti come Rogiervan der Weyden, RobertCampin e dei fratelli VanEyck, eppure il suo lin-guaggio così geometrica-mente espressivo, il suorealismo semplificato elineare, la sua inventiva atratti assolutamente inno-vativa ne fanno un artistaunico che, a sua volta,influenzerà non poco l’in-terpretazione artistica dipittori come Antonello daMessina.

E allora eccoli sfilaredavanti agli occhi della me-moria i suoi capolavori piùnoti: il Retable Requin,1444-1445, del Musée duPetit Palais di Avignone, ilRetable Cadard, 1444-1445, del Musée Condé aChantilly, il Retabled’Altenburg, 1450 circa,dello Staatliches LindenauMuseum di Altenburg, LeCouronnement de la Vierge,1454, del Musée Pierre duLuxembourg a Villeneuve-les-Avignon, la Pietà deVilleneuve-Lez-Avignon ,1455- 1460 circa, delMusée du Louvre diParigi… Sullo sfondo dellasua evoluzione pittorica,s’intuiscono le fitte tramedi avvenimenti storicientrati nella leggenda: laFrancia, tormentata e feritadall’invasione degli inglesi edagli orditi di palazzo, l’av-vento di un’inviata da Dio(che la prima vera autriceitalo-francese contempora-nea Christine de Pizan elo-gerà apertamente nel suoultimo testo), l’apoteosi deltrionfo della corona, il con-solidamento di Avignone, lacittà dei papi… tutto questoattraversa, in qualchemodo l’opera diEnguerrand Quarton. Eallora non ci si sorprenderànel vedere perfino inun’opera “tradizionale”come Le Couronnement dela Vierge, accenni rivoluzio-nari proprio laddove si vor-rebbe una visione il piùpossibile aderente alla con-suetudine e ai dettami reli-giosi. Quarton coglie infattila Trinità, che sta incoro-nando la Vergine Maria,con un’interpretazione deltutto personale. Così men-tre la colomba soffiata, ali-tata, rappresenta senzadubbi il Santo Spirito,Padre e Figlio sembranoincarnare la più modernateologia e, allo stessotempo, sembrano racchiu-dere prima di tutti gli altrila visione di una Chiesa,contemporanea all’artista,

che si andava riformando,dopo il suo drammatico sci-sma. Enguerrand li dipingeuguali. Uguali le vesti, ilmanto, la tunica, uguali icolori, perfino nel movi-mento si discostano dipochissimo ma la loro stra-ordinarietà è che il pittore lirende davvero identici.

Sono Padre e Figlio, Dio eGesù Cristo eppure qui nonsi sa chi sia l’uno e chi sial’altro. Entrambi sono l’unoe l’altro insieme. Uniti dal-l’origine dei tempi, dall’ori-gine del mondo perchétutto è stato creato dalPadre attraverso il Figlio,rappresentano il perenneoggi di Dio. Una visione cheparrebbe trovare soltantoun altro corrispettivo, rea-lizzato circa quarant’anniprima da un monaco russo,Andrej Rubljov. Quella cheviene chiamata la suaTrinità, straordinaria edintensa, riferita al passodella Genesi 18, 1-16, vedeperò un’interpretazionediversa per ogni personag-gio seduto alla mensa diAbramo. Nonostante la lorocomune identica naturadivina, differiscono infattinella posa e nei colori. Nellavisione di Enguerrand inve-ce, che certamente nonaveva avuto modo di vederela Trinità di Rublev, l’uno èl’altro, senza incertezze,

senza esitazione. Trattenutinel pieno della giovinezza,novelli Adamo senza pecca-to, ci narrano della reden-zione dell’uomo attraversoquell’unico Dio divenutouomo, in tutto e per tuttouguale a noi. Così come ilvolto della Vergine incoro-nata, bellissimo e solenne,

ha poco della Madonna acui siamo abituati e moltodelle donne della sua terra,con gli occhi così singolar-mente allungati, il bell’ova-le leggermente pingue. Unavisione romantica di questovolto tramanda l’idea che ilpittore abbia voluto ritrarrecosì la Pucelle d’Orléans,Giovanna d’Arco. Un suoomaggio a chi aveva datotanto alla Francia? Non losappiamo. Certo è che quelviso così enigmaticamenteassorto, vince lo sguardo elo lascia estatico.

Altrettanto intimamenteelegante, avvolto da unpathos così distante dalnostro, sobrio e contenutoma allo stesso tempo vissu-to e subìto, quasi fossedolore di angeli cristallizza-to nell’attimo dell’attesa,giunge il capolavoro diEnguerrand Quarton, lacosiddetta Pietà deVilleneuve-Lèz-Avignon. Quila preziosa luce della suaProvenza che si effonde sof-fusa e dorata, come d’oro

sa essere soltanto la gloriadi Dio, penetra ogni singolapiega dei volti, delle vesti,dei corpi. Quasi fossero lacupola di un Battistero ogià un luogo di sepoltura, itre santi, Maria Maddalena,la Vergine e il discepoloamato, circondano e sor-reggono il corpo del Cristo,innaturalmente irrigiditodall’abbraccio mortale, condelicatezza e commossapartecipazione. E non c’èdisperazione nei loro gesti,l’angoscia non piega laschiena della Maddalena,neppure le lacrime sonoenfatizzate, la preghieraincontra il volto di Maria, latenerezza s’accosta timida-mente alla corona di spineattraverso le mani diGiovanni. Il tempo paresospeso in lungo intermi-nabile istante di raccogli-mento: è il silenzio cheesige il sepolcro prima del-l’alba di gioia. Ma vi è unquinto protagonista del-l’opera, vicino e allo stessotempo distante, nell’operama non dell’opera: il dona-tore, colui che la rappre-sentazione di quel sacromomento ha commissiona-to a Quarton e che lì hachiesto di essere presente,di partecipare a quello cheè l’estremo saluto al Figliodi Dio. Ed Enguerrand loha così inserito, rendendoquasi estraniata la sua pre-senza, con quel suo sguar-do disinteressato alla scenache si svolge lì accanto, magià del tutto assorto in unacontemplazione “oltre”.Un’opera, questa Pietà diQuarton, che CharlesSterling ha definito comeuna sintesi senza eguali didolore e di sacra ritualità.Un capolavoro che nonavrebbe neppure necessitàdei dettagli iconografici chel’autore vi ha invece inseri-to, come i fiori e le foglied’ortica sull’abito dellaVergine a simboleggiare ilsuo profondo dolore o l’is-sopo officinale per SanGiovanni a testimoniare lasua purezza, l’innocenza,l’umiltà del discepoloamato…

Pur se ispirata in qualchemodo alla Pietà di Van DerWeyden, nella sua operaEnguerrand Quarton silibera anche qui dell’inter-pretazione più tradizionale,fosse essa nordica oppureitaliana e, secondo quellasua propria visione, la tra-duzione in pittura di ciòche si anima in lui, inaugu-ra un nuovo genere icono-grafico divenendone così ilprecursore, il capostipiteper i pittori provenzali.

Per chiunque si rechi alLouvre, è un privilegioquasi per eletti poter gode-re della presenza di opere

come questa, straordinaricapolavori che passanoquasi silenziosamente difronte alle molte creazioniartistiche più ridondanti,senza dubbio impedibili maforse meno prodigiose, dicui il Museo è in possesso.Come ben sottolineaTzvetan Todorov parlandodi un altro padre “primiti-vo” della pittura come Janvan Eyck e della suaVergine del cancelliereRolin, il pubblico del Louvresi accatasta davanti allaMonna Lisa e lascia questodipinto di Van Eyck nellacalma penombra della pic-cola stanza, alcune centina-ia di metri più lontano, mal-grado quest’ultimo segni, inmodo forse più decisivo lastoria della pittura (…). VanEyck ha reso la sua immagi-ne degli individui così per-fetta che essa diventa auto-noma a sua volta, costrin-gendoci non soltanto avedere quel che l’opera raffi-gura, ma piuttosto a credereche il mondo intero esistasoltanto per essere rappre-sentato in un’immagine. Unnuovo destino della pitturasi annuncia nella paraboladi colui che, per primo, l’haportata alla perfezione.

Del Louvre e dei suoicapolavori, recentemente siè parlato parecchio per lamostra tanto annunciata aVerona, prima sbandieratapoi smentita e adesso forsericonfermata. Un gâchis,come direbbero i francesi,che forse, per prendere inprestito un’espressione albuon Manzoni, “non s’ha-veva da fare”, come ribadi-vano di continuo coloro chele mostre (con la M inmaiuscolo) le fanno dasempre. Noi non vogliamoentrare nel merito di questadisputa che ha tenutobanco sulle pagine del quo-tidiano locale e non solo,lasciamo che siano altri,molto più esperti ad espri-mere la propria sacrosantaopinione e restiamo in atte-sa degli eventi. Ciò che, inogni caso, saltava agli occhinell’annuncio delle opereprestate a Verona, è vederecome la maggior parte deicapolavori presenti alLouvre, quelli per i qualivale la pena affrontare cen-tinaia di chilometri, quelliche difficilmente si potreb-bero ammirare in altreoccasioni, quelli che esigo-no una contemplazionesilenziosa e non chiassosa,sarebbero rimasti tranquil-lamente nella loro sede,senza spostarsi neppure diun centimetro.

Un’occasione sprecataanche nelle migliori inten-zioni. Insomma alla fine,comunque vada, non cisarà Enguerrand Quarton.

Enguerrand Quarton, La Pietà di Avignone

IL MASSIMILIANO LUGLIO • SETTEMBRE 200810

A VERONA NIENTE LOUVREIl Louvre. Capolavori a Verona

Leonardo, Raffaello, Rembrandt e gli altri.Ritratti e figure

Linea d'ombra comunica che la mostra "Il Louvre.Capolavori a Verona", in programma dal 19 settembre2008 al 15 febbraio 2009 nel Palazzo della GranGuardia a Verona, non potrà aver luogo.Allo stato attuale, il tempo a disposizione si rivela ormaitroppo breve per l'organizzazione di questa importanteesposizione, tenuto conto dei lavori da realizzare e del-l'insieme delle condizioni tecniche, amministrative egiuridiche necessarie per garantire l'arrivo, la sicurezzae la conservazione dei capolavori.Il Museo del Louvre non può pertanto accordare i pre-stiti promessi e si rammarica per questa situazione,conoscendo la qualità delle collaborazioni tra MarcoGoldin e i grandi musei internazionali.

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Diagnostica per l’Arte FabbriIl “radiografo” di Raffaello, Tiziano, Van Gogh ma anche della testa di Tutankhamon

di giorgio ruggieri

Dal 27 al 29 novembre 2008 si è svolto il IV Salone del Restauro al Palaexpo di Verona, dove abbiamo in-contrato Davide Bussolari titolare della Diagnostica per l’Arte Fabbri di Modena, laboratorio di diagnostica non distruttiva per immagi-ni che opera a livello inter-nazionale.

Dott. Bussolari di che cosa si occupa la diagnosti-ca applicata ai Beni Cultu-rali?

La diagnostica artistica fornisce un prezioso con-tributo per il restauro e lo studio delle opere d’arte.

Per quanto riguarda il restauro, attraverso le ana-lisi non distruttive come la radiografia, la fluorescenza ultravioletta e la riflettogra-fia infrarossa - per citare le più comuni - si può valu-tare l’effettivo stato di con-servazione di un’opera e programmarne un restauro mirato e scientifico.

Per quanto riguarda lo studio, la diagnostica è l’unico ausilio che abbia-mo per osservare l’opera “in profondità”, andando al di là di ciò che vediamo ad occhio nudo. Frequen-temente, soprattutto in pit-tura, l’aspetto esteriore del dipinto come lo si vede oggi non corrisponde all’origina-le: per esempio a causa di restauri o di modifiche ap-portate per seguire il gusto stilistico di un’epoca suc-cessiva. “Vedere” il quadro come è stato concepito è fondamentale per studiar-lo in modo corretto. Grazie alle analisi fisiche si ha la possibilità di considerare le varie fasi che hanno porta-to alla creazione dell’opera, valutando ad esempio la qualità dell’eventuale dise-gno preparatorio o dell’ab-bozzo, il procedimento di costruzione attraverso so-vrapposizioni di colore o ve-lature e la presenza di pen-timenti. Tutto questo senza arrecare nessun danno.

Che cosa si intende per pentimenti?

I pentimenti sono i ri-pensamenti che l’artista ha avuto durante la realizza-zione dell’opera portandolo a variarne alcuni aspetti, come la posizione di una mano o di un profilo. Tan-to è vero che spesso in ra-diografia o in riflettografia infrarossa si trovano figure con due teste o tre mani.

I procedimenti di crea-zione, la lettura del disegno preparatorio e la scoperta di pentimenti sono ele-menti fondamentali ai fini dell’attribuzione, perché

rappresentano la calligrafia di un autore che può esse-re difficilmente imitata, so-prattutto se pensiamo che si tratta di aspetti invisibili ad occhio nudo. La presen-za di pentimenti, poi, diven-ta un fattore fondamentale per distinguere un dipinto originale da una replica o da una co-pia

E per quan-to riguarda i falsi?

Questo è un aspetto delicato e dif-ficile. Solita-mente viene eseguita una comparazio-ne con ana-lisi eseguite su opere di comprovata or ig inal i tà e si valuta la risposta all’irraggia-mento sul-le diverse l unghe z z e d’onda im-piegate; se i risultati delle analisi sono in li-nea con la presunta epoca di appar-tenenza e rispecchiano dei canoni ben precisi, la va-lutazione dell’opera ha al-cuni punti fermi dai quali partire. Questi sono i casi nei quali le macchine sono importanti, ma fondamen-tale è la lettura dei risulta-ti e quindi l’esperienza del diagnostico.

Anni fa, lavorando in col-laborazione con la Fonda-zione De Chirico di Roma, abbiamo esaminato nume-rosi dipinti, mettendo in rilievo lo stile costruttivo assolutamente personale del Maestro De Chirico. E

in questo caso è risultato molto agevole scoprire, tra i dipinti, un’opera falsa che non rispecchiava nessuna delle caratteristiche riscon-trate in tutti gli altri.

Qual è l’analisi più com-pleta?

Le analisi sono comple-mentari quindi ognuna di

esse contribuisce con in-formazioni diverse, che in-sieme, forniscono il quadro diagnostico complessivo. La radiografia, ad esempio, rileva la “struttura profon-da” dell’opera: dal tipo si supporto alla preparazio-ne, dall’abbozzo alle stesu-re pittoriche, ma non svela il disegno preparatorio che risulta invece visibile in ri-flettografia infrarossa. Allo stesso modo non vengono visualizzate alcune ridi-pinture leggere o antiche vernici ossidate rilevabili grazie alla fluorescenza ul-travioletta.

Quali sono i campi di ap-plicazione della diagnostica per immagini?

Le occasioni più frequenti di intervento riguardano i dipinti su tela e tavola che per loro natura si prestano a rivelare aspetti nascosti; ma si analizzano frequentemen-te anche sculture lignee o

lapidee, strumenti musicali e materiali cartacei antichi. Parte della nostra attività interessa anche le opere ar-chitettoniche, in particolare affreschi, per i quali realiz-ziamo esami propedeutici al restauro che visualizzano le ridipinture e i problemi di conservazione; sugli edifici storici eseguiamo analisi termografiche per il rileva-mento di anomalie struttu-rali, distacchi dell’intonaco, risalite di umidità, presenza di aperture tamponate e osservazione della tessitu-ra muraria sottostante agli intonaci.

Quanto costa esaminare un dipinto?

Molto dipende dalle di-mensioni dell’opera e dal livello di approfondimento che si desidera ottenere. Come dicevo, ogni analisi fornisce informazioni sup-plementari ed è ovvio che tralasciare un esame può

voler dire non avere un quadro comple to . Io solita-mente con-siglio di fare almeno la radiografia e poi even-tualmente andare oltre con la riflet-tografia in-frarossa e la fluorescen-za ultravio-letta. Esa-minare una tela delle di-mensioni di cm. 50x80, ad esempio, nelle tre analisi so-praindicate, non costa più di un migliaio di

euro.E’ da molto tempo che fa

questo lavoro?Per quanto mi riguarda

sono dieci anni che mi oc-cupo di diagnostica anche se il laboratorio è nato alla fine degli anni Settanta. Questo ci permette di ave-re un archivio ricchissimo di immagini che compren-de analisi eseguite sui più importanti maestri dell’arte italiana ed internazionale di tutti i tempi. Per citare i più noti: Piero della Fran-cesca, Raffaello, Tiziano, Caravaggio, Van Gogh.

Quali sono i lavori che le

hanno dato più soddisfazio-ne?

Il più recente si è svol-to quest’estate al Museo Egizio del Cairo dove, tra le tante opere che ho esa-minato in collaborazione con l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Re-stauro di Roma, ho potuto lavorare sulla scultura li-gnea raffigurante la testa di Tutankhamon bambino. Un’esperienza appagante sia dal punto di vista scien-tifico che dal punto di vista personale. Tenerla tra le mani è stato molto emozio-nante!

L’anno scorso, invece, ho avuto l’opportunità di radiografare la Pietà di Ti-ziano alle Gallerie dell’Ac-cademia di Venezia. Come noto questa è stata l’ultima opera del maestro, eseguita in tarda età, sorprendente per la forza delle pennella-te e degli impasti di colore. La radiografia è stata pub-blicata sul volume L’ultimo Tiziano, edito in concomi-tanza con la mostra che si è svolta recentemente alle Gallerie dell’Accademia.

Qualche anno fa mi è ca-pitata una delle vicende più sorprendenti. Un antiquario mi chiamò per esaminare una tela dicendosi convin-to che fosse un originale di Caravaggio. Io mi recai sul luogo poco fiducioso… Sai quante persone credono di avere un Caravaggio!? Ad ogni modo, eseguite le ana-lisi richieste, ci siamo resi conto che il dipinto pre-sentava molti pentimenti e quindi difficilmente poteva essere ritenuto una copia.

Quali sono i suoi progetti per il futuro?

Uno degli aspetti più stimolanti del mio lavoro, essendo una attività che utilizza la tecnologia, è la ricerca nel campo del mi-glioramento delle tecniche che abbiamo a disposizio-ne. Anche l’aggiornamento e lo studio dei sistemi per l’elaborazione delle imma-gini è importante, al fine di ottenere immagini sempre più ricche di informazioni e di elevata qualità.

Per il futuro vorrei riu-scire a coniugare al meglio questo aspetto tecnologi-co con il lato più “umano” del mio lavoro. Ad esempio vorrei analizzare diver-si dipinti di alcuni autori emiliani e veneti a me cari, per ricostruire il modus operandi di questi artisti e come questo si è evoluto nel tempo. Capire a fondo come un artista lavora, come stende i colori, come costruisce le figure è come immaginarmi e afferrare la sua personalità.

Davide Bussolari al Museo Nazionale di Belgrado davanti alla Sacra conversazione di Palma il Vecchio

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IL MASSIMILIANOLUGLIO • SETTEMBRE 2008 15

Friuli Venezia Giulia

BUTTRIO (UD)Fino al 27 settembreAnteprima FVG – arti visive59 artisti esordienti residenti in FriuliVenezia Giulia, invitati da 20 critici attential lavoro di ricerca prodotto sul territorio.Villa di Toppo FlorioVia Morpurgo, 6, www.spacbuttrio.it

CODROIPO (UD)Fino al 28 settembreGod & GoodsSpiritualità e confusione di massaCome la religione, l’arte è spinta da un’ur-genza e una necessità e questa mostravuole leggere la necessità attraverso lesue inafferrabili fonti e indefinibili con-seguenze.A cura di Francesco Bonami e SarahCosulich Canarutto.Villa Manin di Passariano0432 821211www.villamanincontemporanea.it

GORIZIAFino al 24 agostoJosef Maria Auchentaller (Vienna, 1865– Grado, 1949)Un secessionista ai confini dell’ImperoMusei Provinciali di GoriziaPalazzo Attems PetzensteinPiazza De Amicis, 20481 547541 - 0481 547499

Fino al 27 luglioLe meraviglie di VeneziaDipinti del’700 in collezioni private120 opere del Settecento veneziano riper-corrono una delle stagioni più raffinatedella storia dell’arte italiana.Palazzo della TorreVia Giosuè Carducci 2www.fondazionecarigo.it

MONFALCONE (GO)Fino al 31 agostoSoft CellDinamiche nello spazio in ItaliaCelebrazione per il Centenario delCantiere Navale di Monfalcone, Soft Cellmette in relazione il Cantiere, fucinaindustriale, con la Galleria, laboratorioartistico, per reinterpre.Galleria Comunale d’ArteP.zza Cavour0481494369

MUGGIA (TS)Fino al 22 luglioFiloRossoAppuntamento internazionale con ilgioiello contemporaneoAssociazione Gioiello ContemporaneoMuseo “Ugo Carà”Via Roma 9040775379web.mac.com/filorosso1/filorosso

PORDENONEFino al 26 luglioGianni PignatScritture della menteUn codice di segni, che spesso apparesempre uguale a se stesso, nella sua ripe-tizione e aspirazione ad un moto infinitoche segna il ritmo speciale di ogni opera.Centro Iniziative CulturaliVia Concordia, 70434553205, www.culturacdspn.it

TRIESTEDal 30/07 al 25/01/09Medioevo a Trieste Istituzioni, arte, società nel ‘300

Finalmente il castello di San Giusto tornaalle proprie origini. E’ stato oggetto di unradicale intervento di restauro, interventoche può ora ritenersi quasi completato perl’intero “cuore” dell’antico complesso forti-ficato.Castello di San Giusto040-309362

Fino al 18 agostoClaudio AmbrosiniAttimi relativiSpartiti, grafismi musicali, compressioni,installazioni,performances, videotapes 1969-1979a cura di Giuliana CarbiStudio Tommaseovia del Monte 2/1040 6 3 9187www.triestecontemporanea.it

UDINEFino al 31 agostoGiovanni Frangi. PasadenaGiovanni Frangi ( Milano, 1959) è uno deimaggiori artisti italiani di oggi. Esponepresso le sale dalla G.A.M.UD. tutto inedi-to, a cui ha lavorato in questi anni, tenen-

dolo gelosamente nel cassetto: l’incisione.Via Ampezzo, 20432295891, [email protected]

Veneto

PADOVAFino al 3 agostoGioielli d’autoreLa scuola orafa di Padova rappresenta unfenomeno unico in Europa.Nella mostra sono sposti più di 500 gioiel-li di cui molti inediti creati dagli anniCinquanta del Novecento ad oggi.Palazzo della Ragione0492010067

VENEZIA

Fino al 21 luglioUn mondo di cartaOltre ottanta tra abiti, accessoires etrompe-l’oeil realizzati interamente incarta dall’artista belga Isabelle deBorchgrave.San Marco, [email protected]

Fino al 22 novembreLa 53. Esposizione Internazionaled’ArteNelle tradizionali sedi dei Giardini edell’Arsenale, nonché in vari luoghidella città, la 53. EsposizioneInternazionale d’Arte della Biennale diVenezia.Ufficio Stampa041 5218846/849www.labiennale.org

VERONA

Dal 20/06 al 9/11Rovereto BarniFermi tutti - pittura e sculturaCurata da Giorgio Cortenova e PatriziaNuzzo, da tempo attesa dal pubblico edalla critica, la rassegna è dedicata aRoberto Barni, artista di fama inter-nazionale, nato a Pistoia nel 1939.Galleria d’Arte Moderna Palazzo FortiVia A. Forti, 1045 8001903www.palazzoforti.it

Fino al 27 luglioI Macchiaioli.Capolavori della collezione MarioTaragoniCirca settanta capolavori della pittura “diMacchia” di autori quali Lega, Fattori,Signorini, Boldini, Spadini, Puccini e altri.Palazzo FranchettiSanto Stefano 294502 54919www.istitutoveneto.it

VICENZA

Dal 20/09 al 6/01/2009PalladioL’obiettivo è di catturare l’attenzione e sti-molare l’immaginazione del pubblico: nonsoltanto grazie alla qualità e varietà delleopere originali esposte (dipinti, disegni,medaglie, frammenti architettonici origi-nali, sculture) ma anche all’impiego dimodelli, compresi plastici realizzatiappositamente, video e animazioni inter-attive create al computer.Museo Palladio0444323014www.cisapalladio.org

Trentino Alto Adige

Rovereto (TN)Fino al 16 novembreEurasiaDissolvenze geografiche dell’arte

Fino al 26 ottobreGermania contemporaneaDipingere è narrare Tim Eitel, David Schnell, MatthiasWeischer

Fino al 17 agostoLa Raccolta TalamoniAl centro dell’Informale europeo

Fino al 31 agostoYervant Gianikian e Angela RicciLucchi - Il Trittico del ’900

Fino al 17 agostoProject RoomGiuseppe CapitanoQualcosa di gialloM.A.R.T.Corso Angelo Bettini, 430464438887, www.mart.trento.it

In giro per mostreInviateci le notizie e le date entro

il 20 settembre 2008 a Trieste 34123 – in Via Armando Diaz 26/a

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LIBRERIA di MISAN ACHILLE

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Entro bordo decorato da globetti la raffigurazione del trono “Bhadrapitha” compos-to da triangoli e linee che, secondo Pamela Gutman, rappresentano i simboli dellacosmologia buddista: il fuoco, l’aria e l’acqua.Nel campo il tempio di Sri, dea della fertilità. A sinistra il fulmine e in alto la luna.A destra una conchiglia ed in alto il sole. All’esergo quattro linee ondulate a sim-boleggiare l’acqua.Il popolo Pyu, di origine birmano-tibetana, si stabilì nella valle del fiume Irrawaddynel III secolo dell’era cristiana creando un regno crocevia dei traffici commercialitra l’India, la Cina ed il Siam. Il potere dei Pyu entrò in conflitto con l’impero cinesee, nonostante un’ambasceria inviata alla corte del Celeste Impero nell’801, si sgre-tolò con l’invasione cinese dell’832.Tutta<la monetazione dei Pyu è anonima e anepigrafe: pertanto è molto difficileuna precisa cronologia delle emissioni. Della dinastia Vikrama si conoscono sola-mente i nomi di tre re: Suryavikrama (+ 688), Harivikrama (+ 695) e Samhavikrama(+ 718), tratti da iscrizioni su urne cinerarie.Queste monete, coniate anche in moduli minori, non avevano una vasta area di cir-colazione: infatti sono state tutte rinvenute nella parte centrale della Birmaniaassieme ad esemplari del vicino Funan.Il centro più importante del regno era Srikshetra, “la città dello splendore”, circon-data da una muraglia difensiva in mattoni lunga 13.600 metri. La seconda cittàfortificata era Halim con una muraglia di 4.800 metri.Le linee ondulate, all’esergo del rovescio, forse indicavano un marchio di zecca per-ché nelle monete rinvenute ad Halim le linee erano due mentre in quelle trovate aSrikshetra erano tre o quattro.

BibliografiaM. Robinson, L. A. Shaw – The Coins and Banknotes of Burma, 160 pagine, 7 tav-ole, Manchester 1980.

Schede Numismatiche

BIRMANIARegno dei Pyu (ca 200 – 832 d.C.)

Monetazione del periodo intermedio (ca 400 – 750 d.C.)

Unità interaArgento g. 10.8

mm. 34

IL MASSIMILIANOLUGLIO • SETTEMBRE 2008 5

Danilo di SherwoodNella recente campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia

il precursore ed ideologo della Robin Hood TaxDI GIOVANNI TALLERI

www.giovannitalleri.it

Tra i candidati alle ulti-me elezioni, alle Regionaliin Friuli Venezia Giulia, c’èstato pure un signore che siè qualificato, simpatica-mente, come Slokar Hood,con in testa il cappello delleggendario Robin Hood,l’ardito cavaliere scozzeseche, nel XV secolo, rubavaai ricchi per distribuire aipoveri. Ma non è stato elet-to benché la schiera deileghisti, alla quale appar-tiene, abbia conseguito unlusinghiero successo.Comunque è uno da tantodi cappello, indifferente diche tipo, volendo farsi eleg-gere ad una carica pubblicaper poter “rubare” a chi hatroppo e distribuire a chiha poco.

Ma uno che venga elettoin base a tali dichiarazioni,che richiedono logicamenteun ben preciso programmapolitico, una volta elettopuò discostarsene? Egli èstato eletto dalle personeche hanno creduto nel suoprogramma, e appunto peravere in parlamento unoche si battesse per le lororagioni. Altrimenti perchéeleggere lui e non un altro?Perché in definitiva elegge-re qualcuno se questo qual-cuno può fare, una voltaeletto, ciò che vuole?

Io non so. Si parla dipopolo sovrano, di demo-crazia e dunque di elezionida parte del popolo dei pro-pri rappresentanti, cioè dicoloro che discuteranno,decideranno, legifererannoin suo favore, o meglio infavore della parte che li haeletti, cioè che essi rappre-sentano. Però, se non c’èvincolo di mandato (art. 67della Costituzione), glieletti chi è che rappresen-tano? in nome di chi agi-scono? per quale ragionehanno speso nelle lorocampagne elettorali unamontagna di soldi deglielettori, soldi che avrebberopotuto servire a scopi benpiù nobili? Qui non parlaun giurista, un professore:parla un qualsiasi uomo dibuon senso, parla un sem-plice “buon padre di fami-glia”.

Dicevano: nel caso delleelezioni politiche non esistepiù il mandato imperativoperché vi è stata un’evolu-zione del concetto di rap-presentanza politica inmodo da eludere qualsiasivincolo tra elettore ed elet-to, rifacendosi addiritturaallo statuto del re CarloAlberto di Sardegna, untipo assolutista, paternali-

sta, il quale aveva precisato(art. 41 dello statutoAlbertino) che “i deputatirappresentano la nazionein generale e non gli puòessere dato dagli elettorinessun mandato imperati-vo”. E’ possibile che larepubblicana, democraticaItalia a un secolo di distan-za (1948) lo abbia mante-nuto in vita? Perché?

Ritornando al nostro“Hood”, quello da lui propo-sto è infatti un problemamolto attuale che ha presoa gonfiarsi giorno dopogiorno nella nostra crona-ca, ormai di parecchi anni.Un professore di liceo, confamiglia, dopo una carrieradi studio e di lavoro, cheviene retribuito con 20.000euro annuali; un ragazzoche prende a calci un pallo-ne o lo lancia in un cane-stro, per quanto modesto eagl’inizi sia, che si prendedieci volte tanto, e, se èbravo, cento volte tanto.Per non dire della gente chevive nella TV svolgendomansioni non particolar-mente difficili, sebbenerichiedano di base unagrande faccia tosta e amici-zie e raccomandazioni. Pernon dire di tutti i nostriamministratori, quelli chenoi eleggiamo, dai consi-glieri comunali ai senatori,agli onorevoli, pronti adelargirsi stipendi e privilegida sogno, e scale mobiliparticolari, e diritti a pen-sionamento particolari. Pernon dire della folla di com-mercianti e professionisti eartigiani che pagano letasse in base a ciò chedichiarano al fisco, non inbase a ciò che in effettiintascano, e questo contra-riamente alla sorte di tutti imilioni di lavoratori dipen-denti; benché si tratti didisposizioni di legge impo-ste dopo la famosa svolta asinistra della fine degli annisessanta e l’inizio deglianni settanta, momento incui, tra l’altro, la scala

mobile prese ad aumentarevertiginosamente. Ho dettodopo la svolta a sinistra,con la sinistra che non hasaputo creare nulla, ha sol-tanto sprofondato il paesein un immenso lago didebiti per poter accontenta-

re qualcuno e creare l’im-pressione del benessere,conservando un’ideologiache è fallita ovunque hannocercato di applicarla, d’im-porla. Basti vedere l’exURSS, gli Stati dell’Europaorientale.

Tutti si appellano, emolto spesso, alla nostraCostituzione, si riempionola bocca e ci riempiono leorecchie, lo stomaco, ilsacco di pazienza che c’è in

ognuno di noi. Eppure,dopo sessant’anni di socia-lismi e comunismi vari(infatti ne sono di tanti tipicon varie insegne) hannosaputo solamente spingercisu quel difficile e scivolosopiano inclinato che è il libe-

rismo economico, su cuilentamente ma inesorabil-mente si dissolve lo Statosociale e, appunto, il riccodiventa sempre più ricco eil povero sempre più pove-ro. Non è da meravigliarsi:l’uomo è l’automa di sem-pre, i suoi istinti non sonomutati, i condizionamentidella sua natura hannosubito mutamenti, miglio-ramenti talmente minimida tenerlo ancora molto

lontano dal sapere, dalpotere attuare quei pochi esemplici comandamentiche tutti conosciamo.

E’ proprio il caso di ricor-dare - lo avevo già fattoqualche anno fa, inutil-mente neanche a dirlo - ciòche aveva a suo tempoaffermato un certo signore,non quello di cui sopra conil cappello da Robin Hoodma quello con il fez nero nel1924, “ l’ideale del superca-pitalista è la standardizza-zione del genere umanodalla culla alla bara”; equanto diceva dell’impresacapitalistica, che “cessa diessere un fatto economicoquando le sue dimensionila conducono ad essere unfatto sociale, momentopreciso nel quale, trovan-dosi in difficoltà, si getta dipiombo nelle braccia delloStato” (cioè sulle spalle delpopolo). Ed è quello che èsempre successo e ci haportato alle presenti condi-zioni senza che lo volessimoammettere, né, purtroppo,che pensassimo di doverammettere. La standardiz-zazione, in effetti, ricordi digioventù a parte, oggigior-no corrisponde parecchioalla situazione reale; lo sipuò rilevare nelle manife-stazioni popolari, oltre chedall’osservazione un po’attenta, disincantata, ditante piccole vicende indivi-duali e collettive. Il singoloche si chiude nel proprioegocentrismo e ignora lacollettività rimanendoindifferente nella sua sferaindividuale.

Più soldi per vivere era ilmotto del candidato Slokar,ma penso che, se lo puòconfortare, anche se eletto,non avrebbe potuto risolve-re l’immenso problema.

Avevo già scritto a suotempo che ci vorrebbe unavera rivoluzione per smuo-vere questa nostra classepolitica di sofisti, chiac-chieroni inconcludenti. Enon è che sia cambiato

molto. Comunque oggi unapiccola speranza, ma assaipiccola, la si può avere se siconsidera che gli elettorihanno saputo eliminarecon i loro voti quella massadi partitini di destra e disinistra, da baruffe chioz-zotte, i quali con i loropunti e le loro virgole e laloro testa nel sacco, rossoo nero che fosse, impediva-no qualsivoglia decisione inmerito ad un’infinità diargomenti, specie trattan-dosi di investimenti peropere pubbliche in ordinecol progresso di ogni gene-re.

Speriamo si cominci colfederalismo fiscale, delquale si ritrovano chiare leradici nell’art. 5 dellaCostituzione. E con l’os-servare l’art. 8 della mede-sima dove è stabilito che“gli statuti delle varie reli-gioni non devono contra-stare con l’ordinamentogiuridico italiano”. E siregoli il penultimo capover-so dell’art. 10 che specieper la piccola Italia èimproponibile, direi assur-do. E l’art. 16 dove parla disanità e sicurezza, datal’evidente sporcizia allaperiferia di moltissimecittà; e alla libera circola-zione delle prostitute,degli spacciatori di droga,dei camorristi. E l’art: 17sulle riunioni in luogo pub-blico per impedire anchecon la violenza l’effettuazio-ne di lavori nell’interessedella collettività, della suasalute e del suo decoro. Eper quanto all’art. 19 eall’art. 21 definire, specifi-care, descrivere che cosaoggi si debba intendere per“buon costume”, perché sen’è perduta traccia. Eall’art. 27 si restringano itempi per la condanna defi-nitiva (che secondo il cita-tissimo Beccarla deve esse-re certa e immediata)e siaumenti il numero deimagistrati e li si metta incondizioni di lavorare benesenza soffocarli con valan-ghe di leggi. Ormai di espe-rienza se ne ha avuta tantain sessant’anni che sarebbeben ora di portare qualcheradicale modifica al nostrocomplessivo sistema divita. Non sono i regolamen-ti, le leggi e leggine chemancano, anzi, dato chefiniscono col servire quasiesclusivamente da alibi:sono invece da ricostruire,riplasmare sia pure condurezza e inflessibilità, ipochi , i sani principi gene-rali; come quando si potaun albero e lo si cura allaradice. Se no è tempo but-tato.

Il “santino” di Danilo Slokar

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IL MASSIMILIANOLUGLIO • SETTEMBRE 2008 15

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CODROIPO (UD)Fino al 28 settembreGod & GoodsSpiritualità e confusione di massaCome la religione, l’arte è spinta da un’ur-genza e una necessità e questa mostravuole leggere la necessità attraverso lesue inafferrabili fonti e indefinibili con-seguenze.A cura di Francesco Bonami e SarahCosulich Canarutto.Villa Manin di Passariano0432 821211www.villamanincontemporanea.it

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mm. 34

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IL MASSIMILIANO12 Gennaio - Marzo 2009 IL MASSIMILIANO 13Gennaio - Marzo 2009

...agli eredi lascerà “maman” di lorenzo paolo Scorziati

NAPOLI Da qualche tem-

po – e la cosa è prevista du-rare fino al 25 gennaio 2009 – nel cortile centrale della splendida reggia borbonica di Capodimonte a Napoli incombe sinistro un enor-me ragno stilizzato: sembra un mostro da luna park o un relitto della scenografia di qualche film dell’orrore. “Maman”, ne rivela il titolo un cartello poco discosto, che, fornendo ulteriori illu-strazioni in merito, specifi-ca trattarsi del ritratto (sì, non allegoria, che già non sarebbe molto carino, ma proprio ritratto) della madre dell’autrice, una signora tedesca nata nel 1908, un po’ meno nota di Brueghel o Cranach e a me prima del tutto ignota, tale Louise Bourgeois, a cui la direzio-ne delle Gallerie Nazionali di Capodimonte ha avuto la poco felice idea di dedicare una mostra in quel ricchis-simo museo.

Seguendo un andazzo di-venuto di moda, le “opere” di costei, che catalogo e di-dascalie non hanno ritegno ad accreditare come una delle maggiori artiste con-temporanee, sono dissemi-nate fra le opere d’arte vere esposte stabilmente.

Fra alcune mirabili tavole quattro-cinquecentesche, in una delle prime sale del primo piano, una piccola teca in plexiglas dall’aria manifestamente intrusa contiene una rozza bambo-letta in panno lenci, priva di arti, con una approssimati-va e del tutto inespressiva faccia da Frankenstein tut-ta cuciture a vista, sul cui lato anteriore una sacca in tulle rosa racchiude un in-forme pupazzetto di pezza, che starebbe a simboleggia-re la gravidanza.

Se uno proponesse come bambola di tipo economico ad un negoziante di giocat-toli una mostruosità simile, verrebbe cacciato in malo modo: in uno dei più im-portanti musei del mondo, a quell’inqualificabile coso si consente di far compa-gnia a Pietro Perugino, al Botticelli e ad altri Maestri del Rinascimento.

In altra sala, un altro tronco di bambola in stoffa, dalla parte opposta dell’in-fame testa ha un buco dal quale spunta una non meno sgraziata testolina: vediamo se l’indovinate? Ma sì, è la rappresentazio-ne del parto. Un ragazzino delle elementari fresco di spiegazione avrebbe certo saputo raffigurarlo meglio, ma i pargoli non hanno di-mestichezza con le Muse né con la critica d’arte contem-poranea.

In un’altra sala ancora, uno strano aggeggio somi-gliante a due grossi pettini paralleli messi in verticale e colorati a casaccio si li-mita a disturbare la visione

delle tele del ‘600 lì di casa; in una vetrina, confuso fra porcellane, bronzi e pietre dure dell’opificio mediceo, staziona un oggetto di inim-maginabile uso, costituito da una specie di testa dora-ta, appena sbozzata, proba-bilmente femminile, monta-ta su di un manico (?) az-zurro a forma di melanzana o di manganello. Le compli-cate spiegazioni non servo-no: con qualche miserabile artificio dialettico ed in as-senza di contraddittorio si riesce a giustificare tutto, ma dietro la cortina fumo-gena di espressioni contor-te ed ambigue nulla di se-rio c’è; al contrario, ciò che davvero vale si dimostra e si impone per forza propria, senza necessità di interpre-tazioni funamboliche o di filtri esoterici. Oltre tutto, le poche didascalie lette in precedenza erano di una banalità desolante e non di-mostravano alcunché: il va-lore artistico di quella roba, posto che vi fosse, doveva essere accettato come atto di fede, senza possibilità di discussione.

Ma se tratto di questa mostra, indecentemente strombazzata come evento artistico, è solo per chia-rire alcuni piccoli ma fon-damentali principi utili a chiunque sia appassionato d’arte e non abbia la voca-zione a farsi turlupinare.

Le arti figurative, ed in particolare la pittura, hanno avuto in passato un almeno quadruplice fine: didascali-co, documentario, celebrati-vo ed ornamentale.

In epoche di prevalente analfabetismo, i rudimenti della Religione e della Sto-ria venivano insegnati con le raffigurazioni dei prin-cipali avvenimenti ad esse connessi; statue di condot-tieri e sovrani, cicli pittorici su tavole e tele o parietali documentavano – magari in modo fantasioso e non troppo fedele, ma comun-que comprensibile – eventi storici; ritratti ed allegorie magnificavano personaggi potenti, le loro imprese, le loro virtù, la Religione. E di-pinti e sculture abbellivano palazzi nobiliari e chiese.

Con l’avvento di macchi-ne fotografiche, cineprese e finanche telefonini, tutto oggi si ritrae, si documenta e si celebra (la celebrazione spesso con l’ausilio della stampa e della televisione) in modo molto più rapido ed efficace (anche se non necessariamente più veri-tiero: anche l’obbiettivo non è sempre obbiettivo). Alle arti figurative è perciò rima-sto solo il fine estetico: ciò le ha esonerate dalla neces-sità della verosimiglianza e perfino della raffigurazione, determinando una produ-zione sempre più affrancata dalla realtà e protesa verso l’astrazione (comunque pe-raltro una certa componen-te di astrazione, nel senso

strettamente etimologico del termine, esisteva anche nei lavori più rigorosamente figurativi, in cui non tutto veniva riprodotto, ma solo quel che interessava).

Ha questa evoluzione de-cretato la morte dell’arte pittorica (e quella delle arti plastiche in genere)? Non

so; può darsi. Certamente la consunzione dei linguag-gi provoca una crisi: quan-do tutto ciò che poteva es-sere espresso lo è stato, c’è solo ripetizione, senza pos-sibilità di progresso.

Quello che invece è certo è che la pittura consiste in una produzione bidimen-sionale di immagini rea-lizzate manualmente con tecniche varie su un sup-porto più o meno piatto: qualunque altra cosa non può considerarsi pittura. La fotografia, il manifesto, il poster, la stampa ed al-tre forme di riproduzione di immagini non sono pittu-ra; non lo è tutto ciò che è prodotto meccanicamente o escludendo l’intervento, al-meno prevalente e comun-que decisivo, di una perso-na fisica; non lo è ciò che non è bidimensionale; non lo è ciò che è immateriale o che non è stabile (gas, fumi, luci, liquidi, cibi, suoni o rumori, parole); non lo sono altre cose che pure, in altro ambito, hanno tutto il di-ritto di essere ritenute arti: la scultura, la letteratura, la musica, il cinema o, per certi versi, la cucina.

Già allora è improprio esporre in una pinacote-ca oggetti diversi da opere pittoriche. È ovvio che nei musei, anche quelli deno-minati pinacoteche, si tro-

vano non solo dipinti ma pure oggetti d’arte plastica (statue, arredi, paramen-ti, vasi), solitamente coevi o comunque correlati alle opere pittoriche; ma non ci si mettono cibi, non ci si proiettano film, non ci si recitano drammi, perché sono cose diverse.

Questo criterio di ele-mentare buon senso viene invece accantonato per le mostre di “arte contempo-ranea”; e, col pretesto che la pittura tradizionale sarebbe superata, si ospitano in ve-nerande sale ogni sorta di stramberie che nulla hanno a che vedere con l’arte tra-dizionalmente intesa.

Le cosiddette “installa-zioni”, roba varia costitui-ta da ogni sorta di aggeggi, luci, suoni, ferraglie, detriti, talora persino esseri viven-ti (ricordo che alcuni anni fa alla Biennale di Venezia fu “esposto” un poveret-to affetto da mongolismo: il “politicamente corretto” impone di definire “diversa-mente abile” chi abbia me-nomazioni anche gravi, ma non insorge contro l’ignobi-le uso di un essere umano impossibilitato a difendersi e pubblicamente umiliato; e che nell’America centrale un pervertito delinquente che si spaccia per pittore con la complicità di critici e galleristi, ha “rappresen-tato” la tortura di un cane legando in una “galleria d’arte” (!) ad una corta ca-tena un povero randagio e mostrandone l’agonia stra-ziante per fame e per sete ad un pubblico, indifferen-te o compiaciuto, sadico e perverso al par di lui) ven-gono contrabbandate come

manifestazioni artistiche.Perché questa roba, che

nulla ha a che vedere con l’arte figurativa, viene espo-sta in gallerie e musei? Semplice: se essa venis-se mostrata in luoghi ad essa consoni, capannoni industriali abbandonati, baracche, discariche, nes-suno andrebbe a vederla o, quand’anche ci andasse, non le attribuirebbe neppu-re un millesimo del valore che si millanta essa abbia.

Se invece, negando l’evi-denza, si fa credere che quella robaccia non è di-versa dalla pittura, ma ne rappresenta una evoluzione del linguaggio, anche il più incapace degli imbrattatele può professarsi collega di Michelangelo o di Rubens e loro ideale discendente. È ovviamente una pretesa truffaldina, ma spesso con gli sprovveduti ha successo.

Sono sempre in attesa che qualcuno mi spieghi che cosa abbiano di arti-stico i sacchi bruciacchiati di Burri, o il pregio estetico dei tagli sulle tele di Fonta-na. Se un pittore incapace o anche solo meno bravo imita o copia un pittore fa-moso, la differenza si vede; se uno pratica un taglio in una tela o incolla su una tavola dei sacchi rotti e mezzi carbonizzati, come si fa a capire se sono di Fon-tana o di Burri o di qualche altro? In proposito non si può dimenticare la figurac-cia fatta da alcuni famosi critici d’arte a proposito di certi pupazzi di pietra ritro-vati in un canale, attribuiti con saccente sicumera a Modigliani e rivelatisi, poco dopo, opera di ameni ra-gazzotti armati di ordinaria utensileria.

Perché i cartoni da im-ballaggio, che giustamente ci si invita a smaltire nei contenitori della raccolta differenziata, se vengono depositati in qualche pre-stigiosa sala da un certo Rauschenberg dovrebbero essere venerati come opere d’arte? Perché professare ammirazione per un ori-natoio che un impostore francese espose tempo fa in non ricordo quale museo, quando analoghi oggetti vengono usati nelle latrine pubbliche per meno artisti-che operazioni?

So la risposta che diversi apostoli della modernità so-gliono dare al quesito: non importa per loro la bellezza del prodotto o la perizia oc-corrente per farlo, ma il suo pregio starebbe nel valore del gesto, nel suo impeto dirompente o, secondo altri, nella sua “originalità”, ossia nel fatto che nessun altro ci avesse pensato prima. Sem-bra vaniloquio o raggiro, ma, non ostante l’evidenza, occorre replicare.

In primis, ammesso e non concesso che il valore dell’”opera” fosse la sua ca-pacità di stupire o di scan-

dalizzare (e ammesso pure che ne avesse la capacità: uno sputo, se mi si perdo-na la rudezza del parago-ne, non è un’inondazione: lorda, ma non bagna e non travolge), ciò dimostrereb-be che la sua natura non è pittorica, ma critica, o retorica, o dialettica, o che altro vi piaccia: una cosa è un dipinto, altro è una dimostrazione – sensata o no – di un’idea sulle arti. Secondariamente, l’attitudi-ne a produrre scandalo o il fatto storico l’averlo prodot-to è un evento accidentale in cui non può consistere il valore dell’opera, esatta-mente come il rombo di un motore non è la sua potenza ma solo una fastidiosa con-seguenza del suo funziona-mento: ci sono motori ben silenziati e potentissimi e motori scadenti e assai fra-cassoni. E poi lo scalpore in sé non è un valore, perché non è permanente e tende rapidamente a scomparire: fenomeni artistici accom-pagnati alla loro apparizio-ne da reazioni clamorose o veementi sono entrati, se dotati di intrinseche quali-tà permanenti, fra i classici o, in caso contrario, sono finiti nell’oblio. Non solo: ciò che per emergere deve sorprendere o sconcertare è come la barzelletta rispetto al romanzo: questo, anche se se ne conosce la trama, può essere piacevolmente riletto per i suoi pregi lette-rari, quella, una volta esau-rita la sua vis comica fon-data sulla sorpresa, non si può raccontare una secon-da volta, non fa più ridere e non costituisce produzione letteraria.

Inoltre, l’originalità inte-sa nel senso – meramente temporale – che mai altri prima avesse fatto qualcosa del genere non dimostra la bontà dell’atto: non c’è pro-va che non ci si fosse pen-sato in precedenza ed anzi, considerato il basso o ne-gativo valore del gesto, ben potrebbe credersi che esso fosse stato scartato a priori come cosa inutile, sciocca, vergognosa o disdicevole.

Agli spesso non disinte-ressati sofisti che, pren-dendo spunto dalla attuale crisi dell’arte, lodano e pre-dicano il superamento delle storiche definizioni di pittu-ra, scultura ed altro, propo-nendo o avallando insensati ed indecifrabili miscugli in cui tutto è lecito, varrebbe la pena di far notare che l’abbattimento delle cate-gorie non è una liberazione che consenta di raggiunge-re mete ulteriori, ma una distruzione, apportatrice solo di confusione e non di nuova vita: sarebbe come pretendere di dare impulso alla letteratura eliminando il congiuntivo o altre regole della sintassi: se si abolisce la grammatica anche l’anal-fabeta è letterato. Questa è la realtà. Purtroppo.

Louise Bourgeois, Maman, 1999 (particolare dell’installazione al Museo di Capodimonte) coll.priv., courtesy Cheim & Read, New York

Le tre età di Gustav Klimt Davanti al quadro

di annamaria VitteS

[email protected]

Un dipinto non è che una pelle su di un’altra pelle e fu così che io fui morbidamente posata su questa tela. Morbidamente ma senza pietà per questo mio corpo esposto in tutta la sua miseria e in un atteggiamento di assoluto sconforto, di fronte alla serena freschezza della giovinezza. Mi ha dipinta, l’autore, come se essere vecchi fosse una disgrazia anziché un privilegio. Pensate come sono stati venerati gli anziani nei tempi antichi. Per questa ragione, forse, si usava dire in tutte le circostanze di auguri: “Possa tu vivere cent’anni”. Nell’antico e nel nuovo testamento i vecchi erano venerati alle porte della città, dove ogni giorno gli uomini si radunavano per i loro affari, i discorsi e i commerci. Lì vicino alle porte, come leggiamo spesso, dove arrivavano anche le notizie dall’esterno, gli anziani erano una casta importante, memorie tramandate e saggezza. Le

vecchie donne erano delle matriarche e le vedove protette dalla legge di Dio. Ora mi chiedo, però, se qualche granello di saggezza è rimasto nell’animo umano o se anche gli anziani di questi tempi hanno cambiato linguaggio per paura o per dimenticanza.

Io, sotto quelle mie mani, che con indulgenza coprono il mio volto, non sto piangendo, ma sorrido. Sorrido di questo artista che, figlio di un’arte egregiamente decorativa e gradevole all’occhio ha dovuto cimentarsi con ciò che degrada e inserirlo con tanta accortezza. Eppure c’è Bahr che dice: “Sentiamo sempre che egli ha da dire di più, ma che non vuole, perchè la sua natura è pudica e silenziosa”.

Allora ve lo racconterò io in che modo ho inteso tante volte nella mia vita le braccia dei bimbi attorno al mio collo, ma mai, come in questa mia veneranda età, quelle manine hanno saputo raccontarmi tante cose.

Anch’io ho amato credendo che di più non

si potesse e ho avuto un volto luminoso e occhi felici e pieni di speranza, che volevano cambiare il mondo. Ora so che i buoni propositi si vanificano e gli errori si ripeteranno puntualmente.

Una volta, come tutti forse, ho rinunciato alla felicità per dei principi prestabiliti e ineluttabili, che ancora mi pesano sul cuore come macigni.

Poi è venuto il momento di cedere al peccato,

inderogabile, prioritario. Il momento della verità. Allora ho detto anch’io con il salmista:”Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo?” (Sal. 55,7).

Ma l’uomo non può cambiare né la propria natura né il proprio carattere e allora ascoltiamo cosa dice Pascal : “Come due venti contrari tengono in piedi, così due vizi contrari tengono sulla strada della virtù”. Una forte affermazione di un grande filosofo, ed io, inconsapevole, ho lottato con i miei vizi contrari per restare in piedi. Però ciò che ho avuto sempre vicino è stata la speranza e l’evidenza non è mai riuscita a spegnere i miei sogni.

Perchè ora dovrei piangere?Io farò quello che non

ho saputo o potuto fare quando, bambina, mi guidava un angelo verso il mio destino o quando il caldo sangue della giovinezza ha confuso il mio vivere e i miei pensieri. Io ora alzerò il volto dal pianto e allargherò le mie braccia verso ogni direzione, poi mi lascerò andare piano piano e questa pelle di colori, fatta

di particelle, come quella del mio corpo, si scioglierà nel desiderio inespresso di tutta una vita: espandersi senza dolore. Sentirò vibrare ogni atomo e il mio corpo dilatarsi leggero assieme ai miei sensi e perdere la sua immagine nell’infinito essere. Come ali le mie braccia mi porteranno in un lento beato volo e sarò sulle cime innevate, sull’erba umida dei ruscelli, nelle pieghe delle onde, sui cedri del Libano e nelle foreste di stelle.

Poi, ancora più vaste, le mie ali voleranno nell’infinito del cosmo finché, ricreata, avrò trovato il mio posto nell’eternità. E solo allora dirò con una Sura del Corano: “Per tutte le cose che avrei dovuto pensare e non ho pensato, per tutte le cose che avrei dovuto dire e non ho detto, per tutte le cose che avrei dovuto fare e non ho fatto... chiedo perdono al Misericordioso”.

La vita non è un festino, siamo venuti qua per imparare e nessuno si lamenta quando finisce la scuola, perchè poi gioiose arrivano le vacanze.

Gustav Klimt, Le tre età

Profumati ricordi I calendarietti da barbieredi FulVia coStantinideS

Tra le molteplici tipologie cui si rivolge il collezionismo odierno, una consistente propensione la si registra nei confronti dell’oggettisti-ca dei tempi andati, specie per un passato a noi rela-tivamente vicino; tra essi i calendarietti da barbiere.

Una definizione questa non del tutto appropriata poiché oltre che dai bar-bieri essi venivano dati in omaggio alla clientela an-che farmacie, drogherie profumerie ed altre tipolo-gie merceologiche.

I calendarietti da barbie-re vedono la luce sul volge-re dell’Ottocento; venivano distribuiti ai clienti in occa-sione delle festività dell’an-no ed il loro uso andò ad af-fievolirsi poco dopo la metà del Novecento.

E’ il caso di ricordare che la bottega del barbiere, all’epoca, si poneva come punto d’incontro, luogo di ritrovo di uomini d’affari, rappresentanti, impiegati ed altri che vi recavano ol-tre che per “barba e capelli” per commentare i fatti del giorno, quelli altrui e tutto ciò che faceva notizia “sulla piazza”, pettegolezzi inclu-si. Incontrarsi dal barbiere

era, in sentesi, una sorta di rito per fare ed ascoltare chiacchiere e confidenze.

Come i loro confratelli, cartoline, santini figurine di carta, menù, carte da gioco, etichette di alberghi e via discorrendo i calenda-rietti hanno in comune con il materiale d’opera, ovvero la carta, materiale povero e, pertanto, spesso errone-amente definiti da taluni “carte povere”.

Si tratta invero di mate-riale che, pur nella mode-stia del valore intrinseco, fa parte della memoria col-lettiva, del vissuto, raccon-ta uno spaccato di vita, di storia e rappresenta altresì un significativo fatto di co-stume.

Occupano a tutti gli effet-ti una loro precisa posizio-ne nell’ambito del collezio-nismo. Collezionismo con la “C” maiuscola.

Tra i produttori di calen-darietti da barbiere, ben conosciuti dai collezionisti, spicca un nome, quello di Achille Bertelli, fondatore nel 1884 della “Società A. Bertelli e Co.” Che, sul finite dell’Ottocento diede l’avvio a questo tipo di produzione pubblicitaria della sua casa milanese di profumi.

Sono piccoli, deliziosi al-

manacchi che rappresenta-no per il collezionista una vera e propria chicca.

Una chicca non soltanto per l’alta qualificazione sul piano grafico, bensì anche su quello delle illustrazioni di gusto Liberty, aventi per protagoniste vezzose figure femminili e improntati più

tardi alle tematiche ispirate alla moda degli anni Trenta con grafismi dai tratti più moderni di sapore geome-trizzante.

A questo genere di piccoli capolavori contribuì con la sua creatività Filippo Romo-li, disegnatore d’eccellenza. Di questo autore sono noti

in particolar modo i suoi manifesti e le sue grafiche pubblicitarie. Romoli ideò per Bertelli alcuni esem-plari realizzati dal 1935 al 1942 in cui infuse la sua incomparabile impronta personale rappresentando, nel panorama specifico, i pezzi tra i più significativi.

Il calendarietto assume all’epoca il ruolo di impor-tante strumento pubblici-tario per negozi da barbiere e di prodotti di bellezza, per reclamizzare profumi, co-smetici, saponi, ciprie bril-lantine, essenze profumate, in sintesi tutto ciò che si attiene alla cura del corpo

e dell’estetica.Erano impostati con pro-

porzioni tali da poter esse-re facilmente inseriti nel taschino della giacca o del portafoglio degli avvento-ri, così come nelle borsette delle signore.

Gli esemplari classici erano generalmente di for-ma rettangolare con quat-tro o più pagine. Rari quelli comparsi successivamente che assumono altri forma-ti, a tavolozza di pittore, a fisarmonica, a ventaglio, a forma di fiore a rilievo o fu-stellati.

A titolo di curiosità si ri-corda che per pubblicizzare la Lotteria Nazionale Italia-na fu realizzato nel 1912 un calendarietto a forma di sacchetto di monete d’oro…

Essendo rivolti in parti-colare al sesso maschile, la tematica privilegiata è stata sempre quella rappresen-tata dalla figura femminile, belle donnine più o meno svestite, dalle silhouette più o meno provocanti che mettevano bene in mostra le loro bellezze.

Uno dei primi esemplari prodotti da un’antica ditta milanese di profumi, nel 1881, destinato al “Ballo Excelsior” (rappresentazio-

ne che, attraverso scene in forma di balletto, intendeva celebrare le conquiste del-la scienza e della tecnica), recava in copertina l’imma-gine di una leggiadra figu-ra femminile dalla bionda chioma fluente, avvolta in candidi veli.

Una peculiarità di alcuni calendarietti era rappre-sentata dal fatto che era-no spesso profumati con il profumo che reclamizzava-no tant’è che ancor oggi, a distanza di decine di anni, qualcuno di essi odora an-cora dell’essenza di cui era irrorato (violetta, gelsomi-no, mughetto).

In alcuni il profumo era più persistente in quanto contenuti in una bustina di cellophane.

Ad ingentilirne la presen-tazione erano graziosamen-te muniti di un cordoncino colorato in seta terminante in pappina.

I calendarietti non furo-no soltanto appannaggio dei negozi da barbiere o di categorie similari in cui eb-bero la massima diffusione, furono infatti usati anche da negozi di generi alimen-tari per promuovere dolci, liquori, cioccolata, marmel-late ed altre tipologie mer-ceologiche. (Continua)

poco più e lo faceva nellegallerie Cartesius e Trib-bio 2.

Fu soprattutto dopo il

1984 che i nostri incontrisi intensificarono: ci sivedeva, infatti, una o duevolte alla settimana. Conl’automobile raggiunge-vamo rapidamente qual-che paese del Carso:Sgonico, Sales, Sama-torza, Malchina, Slivia…

In seguito lo indussiallora a fare l’indispensa-bile lasciapassare perentrare in Slovenia: erarestio perché, pur cono-scendo i paesi che untempo appartenevano al-l’Italia per averli percorsia piedi, non vi era piùandato allo scoppio dellaSeconda GuerraMondiale.

Dopo cinquant’anni fufelice di rivedere Voliano,San Daniele, Tomadioecc.

Saltuariamente ci spin-gevamo in Istria a Isola eSicciole o lungo la costaitaliana verso MaranoLagunare.

Per Brumatti la gita eral’occasione per scoprirescorci pittorici diversi,per me un’ interessantelezione si storia della pit-tura triveneta. Davantiun piccolo santuario, unadolina, uno squero, se-

condo me panorami insi-gnificanti, Brumatti inve-ce vi trovava motivo vali-do per un dipinto. Allora

spostavo l’automobile fi-no a posteggiarla nellaposizione che egli preferi-va.

Infilava un foglio inuna tabellina di cartone,lo fermava con un elasti-co: usava matite e car-boncini teneri. La manoagiva senza titubanze.Era padrone del suo sog-getto, lo affrontava condevota attenzione. Pochevolte l’ho visto cancellareun tratto, un breve sgnocon il polpastrello. Acca-deva che in una mattinaeseguisse due schizzi,magari rigirando il mede-simo foglio.

Quando sollevava gliocchi dalla carta, li pro-teggeva dal sole con ungesto della mano sullafronte. Un contadino o unpescatore si fermava connoi e scambiavamo qual-che parola.

“C’è saggezza e poesiainconscia in questi uomi-ni delle nostre terre”, midiceva.

Poi si ripartiva.

Cenni biograficiGiovanni Hermet(Gianni Brumatti)Brumatti nacque a

Trieste il 2 luglio 1901.La madre, AntoniaBrumat (poi Brumatti)era figlia di un proprieta-rio terriero friulano, ilpadre, Luigi Hermet, diorigine armena, portavaun cognome illustre; eglilegittimò Gianni solopoco prima di morirequindi il pittore, che ini-ziò a dipingere giovanis-simo, firmò sempre i suoiquadri con il cognomematerno. Brumatti tra-scorse l’infanzia e l’adole-scenza in un ambienteartistico: la nonna Ameliaera costumista teatrale eaffittava camere a gentedi teatro (tra gli altri ospi-tò Mascagni che più diuna volta le fece visita aTrieste), la mamma e lazia erano due brave can-tanti liriche e il padre undiscreto musicista (suo-nava il corno). Gianninutrì sempre un grandeamore per la musica, mascelse di fare il pittore eincominciò a stendere iprimi colori ad olio fin dal1914 mentre frequentavail Ginnasio di Gorizia.Loscoppio della PrimaGuerra lo costrinse adabbandonare gli studi elasciare la città isontina.Ritornò a Trieste pressola famiglia: furono annidifficili e dovette arran-giarsi per vivere: iniziò unduro apprendistato comeassistente scenografopresso il Teatro Fenice eil Teatro Rossetti accantoa professionisti esperticome Rossi e Moscotto.Nel frattempo frequentòvari artisti (lo svizzeroKoch e Carlo Wostry) fin-ché decise di seguire

qualche lezione di pitturapresso lo studio diGiovanni Zangrando. Lapersonalità e la bravuradi questo pittore (…maanche le belle donne chespesso venivano a trovar-lo, lo circondavano espesso posavano nudeper lui!) attirarono moltigiovani a Scorcola: nelsuo studio mossero iprimi passi anche Nathane Levier (che divenneroamici di Brumatti), Mar-chig, Finazzer e Sambo.Poco dopo il 1922 Bru-matti incominciò ad es-porre nelle mostre collet-tive del Circolo ArtisticoTriestino e nel 1923 daUmberto Michelazzi: miraccontò che ‘gli sembròdi toccare il cielo con undito’ quando Wostry, do-po aver ammirato un suoquadro, lo elogiò pubbli-camente. Non a caso leprime opere di Brumattipiacquero anche a Bari-son, Parin e Grimani chesubito lo notarono. Nel1924 frequentò la Scuolaper Capi d’Arte di Trieste;in quegli anni era impos-sibile vivere di sola pittu-ra e per mantenersi eglieseguì vari lavori decora-tivi e pubblicitari che siprocurò frequentando ilCircolo Artistico Tries-tino. Dipinse a Capo-distria con Cocever, aIsola d’Istria intervennenei lavori di restauro diun affresco nel Duomo ea Trieste fu spesso ac-canto a Bidoli e Quaiatti.Si ammalò di tifo e tra-scorse un lungo periododi convalescenza. E’ del1929 la sua prima perso-nale nel Salone Jerco;

ottenne subito vari rico-noscimenti e partecipò adimportanti mostre nazio-nali a Pola, Milano,Padova, Firenze e Roma.Strinse amicizia con Mar-cello Mascherini e altriesponenti della culturalocale. Nel ventennio se-guente collaborò conl’Ufficio Stampa della So-cietà Triestina di Navi-gazione Cosulich e realiz-zò affiches, disegni, oleo-grafie, calcografie e seicopertine della rivista‘Sul Mare’. Lavorò anchepresso la libreria anti-quaria d’Umberto Saba;conobbe bene il poeta etalvolta lo frequentò incase private. Spronato daUgo Carà, eseguì per laFinmare alcune operedestinate al Conte Bian-camano. Negli anni Tren-ta si recò diverse volte aVenezia dove ebbe mododi ammirare opere di VanGogh e degli impressioni-sti francesi, ma anchequadri di Munch, diKokoschka, di Picasso, diChagall e degli italianiSemeghini, Rossi, Sei-bezzi, Rosai, De Pisis eMorandi... Nel 1934 fupresente alla XIX MostraBiennale Internazionaledella città lagunare; l’an-no seguente ottenne ilPremio del Duce per laPittura; pure nel 1936 enel 1938 espose rispetti-vamente alla XX e allaXXI Biennale interna-zionale veneziana. Tra-scorse gli anni dellaSeconda Guerra Mon-diale a Trieste città dallaquale si allontanò rara-mente e per brevissimiperiodi continuando ad

esporre da UmbertoMichelazzi. Nel 1943 ot-tenne un premio acquistodel Ministero dell’Edu-cazione Nazionale a mez-zo della Regia Soprin-tendenza alle Gallerie diVenezia. Espose più voltein varie mostre nazionalid’arte Sacra all’Angeli-cum a Milano, a Novaraal Palagio dell’Arengo, adAssisi presso la Basilicadi San Francesco, a Bo-logna, a Pallanza, a Ver-celli, a Salerno ecc. Nel1949 vinse il premio P.Coscia con uno splendidoquadro realizzato a SanGiusto. Nel 1951 e nel1955 presentò alcuneopere alla QuadriennaleRomana e tornò nellacapitale nel 1959 conuna personale all’YMCA.In questo decennio fre-quentò più d’altri Levier,Torelli, Giordani, Nou-lian, Samuel e Rosigna-no; nel 1966 collaboròcon altri artisti per illu-strare il libro di KettyDaneo Un ragazzo, centostrade. Negli anni Set-tanta dipinse a MaranoLagunare e si dedicòanche all’incisione. Nel1988 ricevette un impor-tante riconoscimento dalComune di Trieste. Con-tinuò a dipingere instan-cabilmente e ad esporrein Italia e all’estero quasifino alla fine sopraggiun-ta all’età d’ottantanoveanni nel gennaio del1990.

In Carso non c’erasole accecante o buferadi neve che potesseroimpedirgli di disegnarequotidianamente o di-pingere quello che siera prefisso con ostina-ta testardaggine, sensi-bilità, e grande amore.Cosa aspettano i comu-ni di Trieste e di Sgo-nico (ma i Sindaci cono-scono i Pittori triestinidel Novecento?) o quellidi Santa Croce e diMuggia di dedicargliuna via o una piazzadopo 18 anni della suascomparsa? Un sentierosolitario con il suonome lo avrebbe com-mosso…

Ma i poeti sonoincompresi e oggi nonsono di moda. Brumattifu poeta con i pennelli elo capirono CarolusCergoly che gli dedicòversi indimenticabili,Umberto Saba, VirgilioGiotti e, tra i tanti suoicolleghi, il primo fuNathan.

Per fortuna non furo-no gli unici…

IL MASSIMILIANOLUGLIO • SETTEMBRE 2008 9

Gianni Brumatti in porticciolo a Muggia

comuni di Trieste o di Sgonico Gianni Brumatti

Gianni Brumatti, Ceroglie, 1968

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IL MASSIMILIANO14 Gennaio - Marzo 2009 IL MASSIMILIANO 15Gennaio - Marzo 2009

Digressioni musicali

Breve... ma ancora in vitadi giulio partenio

In un non lontano pas-sato il mercato discografi-co della musica operistica, sinfonica e da camera era di tipo quasi oligopolisti-co, dominato da quattro o cinque grandi case editrici che legavano a sé gli artisti più famosi, condizionando piuttosto rigidamente in tal modo anche la composizio-ne dei cast e le collaborazio-ni artistiche. La Deutsche Gramophon Gesellschaft, la Decca, la Voce del Padrone (versione italiana dell’ame-ricana R.C.A. Victor), la C.B.S. e, a qualche passo di distanza, la Philips, dete-nevano il grosso della pro-duzione, lasciando ad altri minori il rimanente della musica colta, (polifonia, canto gregoriano, musica strumentale dal XIII al XVII secolo, musica contempo-ranea).

Poiché peraltro l’intento di fornire riproduzioni mu-sicali di pregio e di elevato valore storico-artistico do-veva necessariamente co-niugarsi con le inesorabili leggi del profitto, ne risul-tavano influenzate anche le scelte di repertorio: do-vendo ingaggiare complessi orchestrali di livello inter-nazionale, nonché direttori, solisti e cantanti famosi, si cercava anche di scegliere opere liriche o sinfoniche anch’esse molto conosciute e amate dal pubblico, di cui si potesse facilmente preve-dere l’acquisto da parte di un notevole numero di ap-passionati. Ciò significa che lavori meno noti, ma non per questo necessariamen-te di minor valore, venivano scartati e ben raramente registrati o incisi; e questo generava un circolo vizioso, perché la maggior parte del pubblico finiva per cono-scere solo i pezzi più cele-bri, di cui poteva trovare di-verse versioni, ed ignorava pressoché totalmente altri musicisti ed altri lavori di importanza e gradevolezza non inferiore ma non esal-tati dalla fama.

Chi avesse voluto ascol-tare opere fuori repertorio a cui non avesse potuto assistere di persona doveva procurarsi fortunose regi-strazioni pirata delle rare esecuzioni dal vivo; prima che Joan Sutherland, col marito e direttore di fiducia Richard Bonynge, conse-gnasse al disco buona parte della nutrita filza di regine

che Donizetti aveva sfor-nato a ciclostile un secolo prima e che erano poi finite in archivio, a documentare gli albori della rinascita del belcanto e della risuscitata vocalità primottocentesca furono le registrazioni dal vivo di una casa bologne-se, la Bongiovanni, a cui si deve l’aver perpetuato la memoria di storiche esecu-zioni e mitiche voci.

Da una decina d’anni il progresso tecnologico ha sovvertito questa situazio-ne: se prima, per ottenere una adeguata resa foni-ca, occorreva attrezzare apposite sale con diversi microfoni ed ingombranti apparecchiature, con costi anche sotto questo aspetto notevoli che pochi potevano permettersi e che necessi-tava poi comunque ammor-tizzare, attualmente con pochi microfoni ed appa-recchiature di modeste di-mensioni e alte prestazioni e con un impegno finanzia-rio relativamente contenuto si possono effettuare ripre-se, in studio o dal vivo, di ottima qualità.

La conseguenza prati-ca di questa diminuzione di costi è che ora sono di-sponibili su compact disc numerose opere di musica che un tempo nessuno si sarebbe azzardato ad inci-dere nel timore di non ot-tenerne ricavi sufficienti; in particolare, accanto ad alcune case discografiche storiche che perseguono la loro tradizionale politica, basando le nuove offerte soprattutto sulla fama de-gli interpreti, altre ne sono sorte che si dedicano alla diffusione di brani meno noti, dando un contribu-to prezioso – ed anzi indi-spensabile – al panorama di quest’arte, che sarebbe ingiusto e limitativo ridurre ai soli autori più celebri e frequentati.

In questo campo è par-ticolarmente attiva e svol-ge un’azione di altissimo valore culturale una casa discografica, la Naxos (si tranquillizzi il lettore: non sto facendo pubblicità né ho percepito alcun paga-mento o altra utilità, ma mi limito ad esprimere una privatissima e convinta opi-nione), nel cui catalogo si trovano molti titoli incon-sueti ed interessanti, so-prattutto di autori di varie epoche almeno da noi poco conosciuti o quasi del tutto dimenticati – molti ameri-

cani anche recenti, alcuni europei di cui si era persa memoria (Antonio Bazzini, per esempio, ai suoi tempi celebre compositore e violi-nista) – che riservano assai spesso piacevoli sorprese, eseguiti non di rado anche

da esecutori e complessi or-chestrali di buon livello ma piuttosto sconosciuti dal-le nostre parti, di cui non può dispiacere apprendere l’esistenza ed apprezzare le doti.

In questo quadro gene-rale, fra le altre ho avuto occasione di trovare una edizione, non nuovissima peraltro essendo del 2002, di un’opera che in Italia è scarsamente rappresen-tata e ai più sconosciuta: La vida breve di Manuel del Falla. La vidi in teatro un’unica volta alla Fenice di Venezia, una ventina d’anni or sono, in una esecuzione dignitosa ma non certo me-morabile, che tuttavia non rendeva sufficiente giusti-zia a questo lavoro molto bello ma un po’ sfortunato del pur celebre musicista spagnolo. Sfortunato per-ché attese molto per giun-gere sulle scene: scritto nel

1905, ebbe la sua prima a Nizza nel 1913 e non si può dire che, dopo alcuni suc-cessi iniziali sia entrato nel repertorio dei grandi teatri né che abbia ottenuto mol-to favore dalla critica, che anzi, quando lo ha degnato

di attenzione, lo ha trovato un po’ esangue dal punto di vista drammatico.

Talora i pregiudizi acce-cano: come si fa – mi chiedo – ad accettare, accreditan-dola persino come un capo-lavoro, la Traviata verdiana, la cui trama è datatissima ed assolutamente inattua-le e le cui musiche, a parte due o tre pezzi di qualche originalità, sono dei bal-labili di non eccelsa fattu-ra, e storcere poi il naso di fronte alla vicenda di Salud (anch’essa oggi piuttosto improbabile, dati i tempi e la disinvolta etica delle nuove generazioni) che, in-namorata perdutamente di Paco, doppiogiochista sen-timentale, dopo aver prima subodorato e poi accertato il suo tradimento, muore di crepacuore durante la festa di nozze di lui? E qualcosa del genere non accade an-che a Cio Cio San, Madama

Butterfly, e, in modo dram-maturgicamente ancor più grezzo e meno credibile, all’Elvira de I Puritani e alla Lucia di Lammermoor, che nessuno si azzarda a discu-tere e che tutti accettano senza batter ciglio? Dopo tutto, la somatizzazione, con relative più o meno for-ti conseguenze – pazzia, de-perimento, morte, suicidio – delle pene d’amore non è una novità nel teatro e tutto dipende da come viene pre-sentata ed elaborata.

Le musiche de La vida breve, fra l’altro, sono as-sai più note di quanto non si creda, perché almeno le danze sono molto frequen-temente eseguite come pez-zo da concerto fra quelli più accattivanti e di successo, per i loro temi orecchiabi-li, per il colore tipicamente spagnolo, per la brillantez-za dei timbri e per la elet-trizzante andatura ritmica. Ed anche l’Intermezzo, ta-lora suonato isolatamente, che accompagna con intenti descrittivi il crepuscolo su Granada, è pagina di terso lirismo e intensa capacità evocativa.

La struttura dell’opera, breve anch’essa come il suo titolo (dura all’incirca un’ora), in due atti, ricalca quella della zarzuela gran-de, ossia del genere operi-stico spagnolo caratterizza-to da un marcato aspetto folclorico nazionale e dal collocarsi a mezza strada tra melodramma ed operet-ta: nella zarzuela grande, di solito non vi erano (o erano piuttosto ridotte) le parti parlate, estese invece nel genero chico (operetta co-mica o di mezzo carattere) e nel sainete (farsa breve), e l’argomento non era ne-cessariamente quello della commedia brillante, ma po-teva anche essere, come in questo caso, drammatico; tuttavia manteneva sempre una leggerezza di tono che faceva la differenza dal me-lodramma ottocentesco o dal dramma lirico del seco-lo successivo. De Falla, che in precedenza aveva scritto sei zarzuele, da una di que-ste, non rappresentata, Los amores de la Ines, aveva ri-utilizzato alcuni pezzi, che hanno evidentemente man-tenuto quello spirito, pur subendo marginalmente anche l’influsso del Verismo in auge a quell’epoca.

Benché non abbiano rag-giunto la notorietà di altri brani operistici dello stesso

tipo, sono di incontestabile bellezza e sapienza l’aria di Salud al primo atto ed il duetto successivo fra lei e Paco, che potrebbero tran-quillamente reggere il para-gone con tanti altri duetti e romanze celebri usati a mo’ di bis o per infarcire i pro-grammi di quei concerti an-tologici di discutibile valore come quello che da qual-che capodanno da Venezia fa concorrenza ai valzer di Vienna..

L’edizione della Naxos, pure molto economica, cosa che non guasta, è in-teressante anche perché fa conoscere le non disprez-zabili prestazioni di una a me prima ignota Orchestra Sinfonica delle Asturie e del Coro della Fondazione Principe delle Asturie: al di là della loro esecuzione soddisfacente, il lato par-ticolarmente positivo della questione è la constatazio-ne che da un paio di decen-ni in qua la Spagna sta re-cuperando il tempo perso e dopo un periodo di buio, in cui la notorietà (probabil-mente anche per la qualità) di nessuna formazione ibe-rica oltrepassava i confini nazionali (neppure quella del pur famoso Teatro Liceu di Barcellona), sono sorte diverse orchestre di ottimo livello (una per tutte quella Sinfonica di Tenerife).

Gli interpreti, pur sen-za eccellere, non deludono e si mostrano comunque all’altezza dei loro compiti: l’impostazione generale del direttore Maximiano Valdés è piuttosto marcatamente etnica, così come la voce del cantante gitano che esegue il soleares con timbro voca-le ed accenti da flamenco; Ana Maria Sanchez, Salud, soprano di apprezzabile vocalità e timbro, non dà tuttavia grandi emozioni e non oltrepassa una corretta ordinarietà, mantenendo-si a notevole distanza dal-la colorita interpretazione che ne diede in un’edizione discografica del 1978 Te-resa Berganza, lì alquanto impetuosa e molto “gitana”, ed ancor più da quella, se-condo me esemplare ed in-superata, di Victoria de los Angeles, che la incise (per la seconda volta) nel 1965 con il triestino Carlo Cos-sutta e sotto la direzione di Rafael Fruhbeck de Burgos, fragrante di un lirismo ap-passionato e fragile, come il personaggio appunto ri-chiede.

DÉCo. arte in italia 1919 - 1939rovigo, Palazzo roverellaDal 31 gennaio al 28 giugno 2009

arte in italia tra le due guerre.il Déco nuovo protagonista a Palazzo roverella.in una grande mostra promossa della Fondazione Cassa di risparmio di Padova e rovigo con accademia dei Concordi e Comune di rovigo

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Fino al 15 gennaio 2008io sono un dinosauro... giorgio Voghera (1908-1999).

Mostra documentaria nel centenario della nascita dello scrittore e saggista triestino.Catalogo omonimo dall’Archivio e Centro di documentazione della cultura regionale.

Dal 26 gennaio al 28 febbraio 2008

Mostra fotografica“gian Buttarini. Le foto fuori”.

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Cooperativa sociale Confini, Provincia di Trieste

Dal 6 al 28 marzo 2008“il mito della terra. arte & Società”

Rassegna di arti visiveOrganizzata dall’A.I.R.S.A.C.

Associazione Italiana Ricerca e Sviluppo Aree Culturali in EuropaA cura di Carlo Milic.

Friuli Venezia Giulia

PORDENONEFino al 1 febbraioTestimonianze d’arte in FriuliCapolavori della Fondazione CRUPLa mostra propone un centinaio di opere provenienti da una collezione di oltre 500 pezzi dal VI Secolo ai giorni nostri. Le opere sono di recente acquisizione della Fondazione CRUP: dipinti, sculture, incisioni, oreficerie, codici, libri miniati e monete, patrimonio proveniente in origine dai Monti di Pietà.Ex convento di S. Francesco0434 932929www.studiocreta.it TRIESTEFino al 1 febbraioFederico Righi (1908 – 1987)Nel centenario della nascitaColori di una vitaE’ stato una delle maggiori figure artistiche triestine del dopoguerra, sicuramente la più cosmopolita, un personaggio leggendario. Allestì mostre personali di pittura in tantissime città italiane; partecipò a varie Biennali veneziane e a molte edizioni della Quadriennale Roma. Espose ampiamente negli Stati Uniti, in Svizzera, in Slovenia, Inghilterra, Francia e Austria.Museo RevoltellaVia Diaz, 27040 6754350www.museorevoltella.it Fino al 25 gennaioMedioevo a Trieste Istituzioni, arte, società nel ‘300Finalmente il castello di San Giusto torna alle proprie origini. E’ stato oggetto di un radicale intervento di restauro, intervento che può ora ritenersi quasi completato per l’intero “cuore” dell’antico complesso fortificato. Castello di S. Giusto040 309362 Fino al 25 gennaioTrieste 1918 La prima redenzione novant’anni dopo Mostre, dibattiti, filmCon il titolo complessivo di “Trieste 1918” viene proposto un percorso espositivo che si dipana in cinque diverse sedi e altrettante esposizioni. Si tratta di vere e proprie mostre monografiche, una delle quali - quella allestita nelle Pescheria - a sua volta articolata in sei sezioni.040 6754068 www.triestecultura.it Fino al 25 gennaioIl tesoro riscopertoUna preziosa eredità austriaca nell’Archivio di Stato di TriesteTremila preziosi consegnati fin dal ‘700 al Tribunale di Trieste come depositi giudiziali, mai reclamati dai proprietari, trasferiti dal governo austriaco a quello italiano. Attraverso la schedatura di questo “tesoro” si è potuto ricostruire l’attività di alcune botteghe orafe triestine e regionali.Palazzo GopcevichCanale di PonterossoVia Rossini, 4040 6754072www.triestecultura.it Fino al 28 febbraioAlberto TadielloPremio Giovane Emergente EuropeoConosciuto per le sue installazioni e

performances incentrate sul rapporto tra suono e visione ha realizzato una nuova installazione sul concetto energia. Un’idea espositiva che parte da una estrema concettualizzazione di un circuito elettrico.Studio TommaseoVia del Monte, 2/1040 639187www.triestecontemporanea.it

UDINEFino al 31 marzoSplendori del Goticonel Friuli patriarcaleChiesa di S. Francesco0432 271591www.comune.udine.it PASSARIANO DI CODROIPO (UD)Fino al 18 gennaioSergio AlteriFigure nel mito 1949 – 2008L’esposizione racconta sessant’anni di attività ininterrotta, dal 1949 al 2008, attraverso sessanta quadri che ripercorrono tutti i periodi e le fasi creative di questo versatile artista.Azienda speciale Villa Manin Piazza Manin, 10 0432 821211 www.villamanincontemporanea.it

VenetoCASTELFRANCO V. TO (TV)Fino al 17 febbraioLynn CarverFiliUn’artista veramente originale, un grande violoncellista e un singolare sodalizio di intellettuali.AntiruggineBorgo Treviso, 158La mostra è visitabile nelle sole serate Antiruggine il cui calendario è consultabile sul sito http://brunelloantiruggine.blogspot.com PIEVE DI SOLIGO (TV)Dal 08/02 al 19/04Oltre il paesaggioNella villa settecentesca più di 100 opere che rappresentano l’arte e il paesaggio, non nella grande storia dell’arte veneta ma nei suoi più recenti sviluppi, dal secondo dopoguerra all’attualità.Villa BrandoliniPiazza Libertà, 70438 985335 www.pievecultura.it PADOVAFino al 31 gennaioTelemaco SignoriniE la pittura in EuropaI massimi capolavori dell’artista toscano (oltre 100 le opere) vis a vis con quelli di altri grandi maestri della pittura. Da Degas a Van Gogh, Cailebotte, Manet, Monet, Sargent, Tissot, Liebermann, Decamps, Troyon, Toulouse-Lautrec…

Palazzo ZabarellaFondazione Bano049 8753100www.palazzozabarella.it Fino al 15 marzoClemente XIII Rezzonico.Un papa veneto nella Roma di metà Settecento

Negli spazi scenografici del Palazzo Vescovile di Padova, sede oggi del Museo Diocesano opere di Mengs, Batoni, Piranesi, Canova…Piazza Duomo, 11 www.clementexiii.it 049 652855 Fino al 22 febbraioMichelangelo Grigoletti “Tancredi e Clorinda”Una raffinata esposizione curata dal bravo mercante Luciano Franchi intorno ad un capolavoro ritrovato. Galleria Nuova Arcadia Via San Martino e Solferino 10/12049 666161 ROVIGODal 31/01 al 28/06/2009DécoArte in Italia 1919 - 1939A Palazzo Roverella è la volta del Déco, un termine che indica uno stile, un gusto che segnò nelle diverse arti il periodo compreso tra i due conflitti mondiali.Palazzo RoverellaVia Laurenti, 80425 27991www.palazzoroverella.com VENEZIAFino al 1 marzoDeperoOpere della collezione FedrizziOltre ottanta opere per aprire le celebrazioni per il Centenario del Futurismo.Museo CorrerPiazza S. Marco041 5209070www.museiciviciveneziani.it Fino al 22 marzo ItalicsArte italiana fra tradizione e rivoluzione 1968-2008Quarant’anni di composita scena artistica italiana curati di Francesco Bonami. Con 106 artisti per oltre 250 opere.Palazzo GrassiS. Samuele 3231 041 5231680www.palazzograssi.it ROMANO D’EZZELINO (VI)Fino al 15 marzoRally: Arrivano i mostriI terribili Gruppo “B”Museo dell’AutomobileBonfanti-VimarVia Torino, 20424 513690www.museobonfanti.veneto.it

trentino Alto Adige BOLZANOFino al 25 gennaioJosef Maria Auchentaller (1865- 1949)Un secessionista ai confini dell’ImperoPittore e grafico, Auchentaller è stato per quasi un decennio un attivo protagonista all’interno del movimento della Secessione fondato a Vienna da Gustav Klimt nel 1897.Mostra in collaborazione con i Musei Provinciali di Gorizia.Galleria CivicaPiazza Domenicani, 180471 997581www.comune.bolzano.it AnticipazioneDal 10/03 al 25/10/2009Mummie, sogno di vita eternaSarà allestita una grande esposizione sulla storia naturale e la cultura delle mummie. Con oltre 60 mummie trovate in tutto il mondo, numerosi reperti e preziosi oggetti rituali.Museo ArcheologicoProvinciale dell’Alto Adige0471 320114 ROVERETO (TN)Fino al 15 febbraioIl secolo del JazzArte, cinema, musica e fotografia da Picasso a BasquiatLa grande esposizione propone una lettura multidisciplinare di una delle espressioni più importanti del XX Secolo, la musica jazz, dalla pittura alla fotografia, dal cinema alla letteratura, dalla grafica al fumetto.

***Fino al 8 marzoGiuseppe Uncini. Scultore 1929 – 2008La mostra ripercorre l’intera vicenda artistica di uno dei più originali interpreti della scultura internazionale contemporanea.M.A.R.T.Corso Bettini, 430464 438887www.mart.trento.it TRENTOFino al 28 febbraioRiflessi d’Oriente L’immagine della Cina nella cartografia occidentale e il ruolo del gesuita trentino Martino Martini nelle relazioni culturali tra Oriente e Occidente.Martini e stato l’autore del primo atlante moderno della Cina pubblicato ad Amsterdam da Joan Blaeu nel 1655.Castello del BuonconsiglioVia B. Clesio, 50461492803 www.buonconsiglio.it BRESCIAFino al 8 febbraioZigaina. Opere scelte 1976-2006 La mostra anticipa la grande antologica che al maestro friulano sarà dedicata a Villa Manin di Passariano a partire dal prossimo 21 marzo, in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno.Museo di Santa Giulia0422 429999www.lineadombra.it

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