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IL MAESTRO

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il maestro

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thomas saintourens

il maestro

Traduzione diMaria Moresco

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titolo originale: Le Maestro © Éditions stock 2012

Gli estratti di alcuni dei brani principali riportati nel libro si possono ascoltare a que-sto link: www.ilmc.iti ventiquattro volumi dell’enciclopedia di Francesco lotoro KZ Musik sono disponi-bili sul sito della casa discografica musikstrasse (www.musikstrasse.it).

redazione: Edistudio, Milano

isBn 978-88-566-3615-4

i edizione 2014

© 2014 - eDiZioni Piemme spa, milano www.edizpiemme.it

anno 2014-2015-2016 - edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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Barletta, 9 luglio 2011

ecco, è qui. Via dell’industria, Barletta, italia. Profondo sud, il cuore della Puglia.

una strada di fabbriche e magazzini, una linea d’asfalto che non porta da nessuna parte. il mezzogiorno delle ma-nifatture, un litorale senza ombrelloni dove lo scirocco brucia la pelle, portando con sé spruzzi di acqua marina sporca e miasmi di metallo in fusione. l’asfalto si incolla alle scarpe come un chewing-gum troppo masticato. Cin-quecento metri più a nord c’erano ancora fiori alle fine-stre, qualche scooter, insomma la vita.

Per raggiungere via dell’industria dal centro, bisogna svoltare tre volte; costeggiare il centro commerciale mon-golfiera, una specie di vascello urbano sormontato da un pallone aerostatico di plastica verde. Quindi girare intorno alla fabbrica di cemento, arrugginita fino alle ossa. Die-tro i cespugli e gli ulivi, una muraglia maschera la strada ferrata, diretta verso Bari.

Questa strada non è fatta per camminare. non ci sono marciapiedi, solo delle banchine laterali sabbiose. Gli edifici, di due piani al massimo, sono protetti da cancelli automatici. il numero 93 è un blocco di cemento costruito simmetricamente attorno a una scala bianca che custodi-sce una statua di Cristo a grandezza naturale.

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Dal balcone proviene della musica. le note di un pia-noforte si susseguono in un vertiginoso saliscendi di ar-peggi, coprendo persino il canto dei grilli. un cane lupo esce dall’ombra, si blocca con aria vigile, il petto in fuori. altri cani, meticci, spuntano da sotto le macchine e si im-mobilizzano ai piedi dei gradini.

salire ugualmente. seguire la musica.l’appartamento è immerso nella penombra delle ore più

calde. lo spazio è soffocante, l’aria ancora più appiccicosa che all’esterno. Vi si avanza come sommozzatori, le tempie compresse, le membra di piombo. l’interno sa di ascesi, di semplicità. i muri sono bianchi, i mobili di legno grezzo.

la musica viene dal fondo, da una stanza ingombra di carte, raccoglitori e dischi. lungo il muro, tre banchi di scuola. sul primo, un quaderno a spirale e un porta-matite. sul secondo, un computer e una stampante. sul terzo, un pc portatile. ovunque, intorno, pile di cd, di 45 giri, di musicassette. e due pianoforti: un piano a mezza coda di tutto rispetto, coperto da strati e strati di spartiti e un piano elettrico made in Japan. mani come gigan-teschi ragni maltrattano i suoi morbidi tasti. il pianista suona, invischiato nel proprio sudore. Gli occhiali scuri gli scivolano sul naso. la traspirazione dà ai suoi capelli leggermente arricciati lo splendore della brillantina dei concertisti del passato. la camicia celeste ha le maniche rimboccate molto al di sopra dei polsi.

suona, ma la sua mente è altrove, certamente non a Barletta.

Dietro di lui, una serie di scaffali fa da cassa di riso-nanza. le scatole vi si ammucchiano, gonfie di spartiti. sulle etichette: Praga, Berlino, Brno. e poi goué, Kro-PinsKi, ullMann. sulla fila superiore: terezín, Dachau, auschwitz.

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sono vent’anni che Francesco lotoro non interpreta più mozart e Chopin. Guarda più lontano, forse troppo, si è dato una missione: risuscitare la “musica dei lager”, composta più o meno clandestinamente da prigionieri di ogni origine, di ogni religione, tra il 1933 e il 1945.

in questo pomeriggio d’estate ha i nervi scoperti, il cervello saturo. strozzato dai debiti, ebbro di stanchezza, suona solo, come fuori dal mondo, una sinfonia del com-positore ceco erwin schulhoff. Dal fondo di questa strada sinistra, tra una fabbrica di coni gelato e un centro di pu-lizia di tappeti, le note si involano dalla finestra, si affie-voliscono nell’aria bollente. a quarantasette anni, Fran-cesco non ha nient’altro che la musica, ma è il suo tesoro.

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erwin schulhoff

Fortezza di Wülzburg, Germania, 1942

in quelle ultime ore, nella penombra della sua cella, er-win schulhoff ha lavorato ancora più in fretta. il com-positore ceco sa che presto la tubercolosi lo sfinirà. Che Wülzburg, la fortezza a forma di stella costruita su una collina bavarese, non ci metterà molto ad avere la meglio sulle sue forze. Valuta il numero di ore che gli restano da vivere, il numero di movimenti che potrà aggiungere alla sinfonia. tra le note tracciate con tratto malfermo, il pianista quarantottenne lascia degli indizi per lo scono-sciuto che forse un giorno si occuperà di quell’opera e le darà vita. Per guadagnare tempo e aggirare la censura procede per scorciatoie. sullo spartito, le «a», le «B» e le «C» rimandano ai passaggi da ripetere. Piccole stelle e strani segni, sorta di lumache in miniatura (@) compa-iono qua e là suggerendo un linguaggio in codice, delle parole proibite. l’artista vuole comporre, comporre fino all’ultimo, e trasmettere la sua opera.

a cosa pensa, a chi, mentre fa scricchiolare il pennino? Di sicuro non conosce Barletta e non può immaginare che la sua sinfonia verrà suonata proprio lì, sessant’anni dopo, da un pianista italiano con le maniche rimboccate.

erwin schulhoff è morto il 18 agosto 1942.erwin schulhoff è morto a pagina ventitré, al quarto

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movimento della sua ultima sinfonia, la numero 8, il suo testamento musicale.

la storia di questo musicista dimenticato ci riporta all’inizio del xx secolo. un’epoca in cui i “maestri” della mitteleuropa abitavano a Vienna, Colonia, lipsia. il gio-vane erwin, praghese di nascita, gira quindi come un piccolo mozart dall’uno all’altro. lettera di raccoman-dazione di Antonín Dvořák, lezioni private con Claude Debussy… nel 1910, a soli sedici anni, si è gia fatto un nome. solo il servizio militare riesce a interrompere la sua ascesa. a vent’anni vive il momento peggiore, ar-ruolato nell’esercito austroungarico (1914-1918). Dalle trincee all’ospedale militare, nel raffinato pianista si ve-rifica una trasformazione. Durante la battaglia di asiago (1916), sotto i picchi acuminati delle Dolomiti, compone mentalmente Fünf Grotesken, per pianoforte. uscirà dalla Grande Guerra spossato, ubriaco di morte e di stupidità.

Comunista convinto, avanguardista ribelle, scopre l’atonalità e si abbandona a sperimentazioni musicali che risvegliano il suo spirito burrascoso, in cui sonnec-chia la follia. la sua parte in ombra si svela, tutti i sensi sono all’erta, la ritmica come il battito del cuore, l’ani-malità liberata. Passa le sue notti insonni a ballare come un indemoniato con le ragazze da bar. a Berlino bazzica i dadaisti. a Praga, dove la radio nazionale ricorre ai suoi talenti, compone una Sonata erotica per donna sola: la cantante finge l’orgasmo accompagnata dal piano.

nelle immagini dell’epoca, schulhoff è inafferra-bile. un’incisione su legno di Conrad Felixmüller, da-tata 1924, tradisce i suoi tormenti: sopracciglia asimme-triche, sguardo febbrile, piccola bocca maliziosa, capelli corvini appiattiti dalla brillantina, nodo a farfalla e com-pleto nero. un vampiro dalle mani nodose davanti a un

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immenso pianoforte, un vero e proprio organo da fiaba sormontato da uno spartito.

la sua arte è totale, senza compromessi, la sua musica è una sfida alla rigidità di spirito, un tappeto di bombe sonore che esplodono in deflagrazioni jazz, in fragorose sinfonie. Crea Ogelada, un “balletto-mistero” tratto da una leggenda messicana, un cocktail a base di fox-trot scatenato. e arriva persino a immaginare la grandiosa orchestrazione del Manifesto del partito comunista, con effetti luminosi e sonori.

il suo talento strabordante colpisce tanto quanto infa-stidisce. lo si sente alla BBc, i festival reclamano la sua presenza, l’europa si meraviglia per le sue stravaganze. lo applaudono dappertutto fuorché nella Germania del terzo reich, dove non può andare, e dove la sua opera Flammen, ispirata al mito di Don Giovanni, viene elimi-nata dal cartellone. etichettato dal regime nazista come “musicista degenerato”, nel corso di un’esposizione or-ganizzata a Düsseldorf nella primavera del 1938 viene inserito tra gli artisti giudicati impuri e pericolosi (perché ebrei, perché di sinistra, perché zingari…). Due anni dopo, il suo nome si aggiudicherà una buona posizione nel Di-zionario degli ebrei nella musica. agli occhi dei censori tedeschi il genio praghese è tre volte “degenerato”: ebreo, comunista, occasionalmente omosessuale. lui si adatta e gioca d’astuzia utilizzando degli pseudonimi. hanuš Petr, Georg Hanell, Eman Balzar, Franta Michálek, Jan Kaláb: tutti schulhoff mascherati.

alla vigilia della guerra, la sua vita privata va in pezzi: sua moglie è malata, lui si invaghisce di uno studente, la madre muore. schulhoff divorzia, si risposa, gli vietano di suonare, è braccato. anche se i suoi amici lo supplicano di fuggire in Gran Bretagna o negli stati uniti, per sé, per

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la nuova moglie e per il figlio Petr, sceglie la naziona-lità sovietica. il 13 giugno 1941 l’intera famiglia ottiene il visto per emigrare in urss. ma hitler dichiara guerra a stalin, e ordina l’invasione a est. Dieci giorni dopo erwin schulhoff viene arrestato e deportato a Wülzburg sotto il falso nome di Gustavovič. Non in qualità di ebreo – né come comunista o omosessuale – ma in quanto cittadino sovietico. la falsa identità gli permette almeno di evitare il lavoro nei campi, riservato agli ebrei.

Fin dai primi mesi di prigionia, il freddo e la fame mi-nano la sua salute, minacciata dalla tubercolosi. soltanto la scrittura musicale lo tiene in vita. Chiuso tra quelle mura fortificate compone pezzi per pianoforte senza mai sfiorarne uno.

il 14 marzo 1942, due giovani russi che cercano di fug-gire da Wülzburg vengono abbattuti su un sentiero nella foresta. i loro cadaveri sono poi esposti nel cortile cen-trale, sotto gli occhi di tutti. l’avvertimento fa piombare nel silenzio i compagni di detenzione. schulhoff, invece, si siede davanti a un foglio vergine e butta giù le prime note della sua ottava sinfonia, dedicata agli eroi. alla fine di aprile porta a termine il secondo movimento. al principio dell’estate, mentre la febbre lo divora, termina il terzo, allegro con molto fuoco, e comincia il quarto, che inizialmente riprende delle arie di polka e poi si tra-sforma in una fanfara trionfante. alla ventottesima bat-tuta, il 18 agosto 1942, la marcia si interrompe. schulhoff si spegne, vinto dalla malattia. sul tavolo lascia i ventitré fogli della sua sinfonia. Questi documenti, salvati dalla distruzione prima e dall’oblio poi, riprenderanno vita sei decenni dopo in italia, nella zona industriale di Barletta.

Francesco lotoro pensava a erwin schulhoff fin dal suo primo soggiorno a Praga, nel 1990. ma all’epoca non

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aveva abbastanza informazioni sulla Sinfonia numero 8. nella fretta aveva anche sbagliato posto, e si era messo a cercarne le tracce al museo nazionale mentre lei dormiva nei depositi del museo della musica.

Dodici anni dopo, nell’agosto 2002, Francesco torna a Praga per tentare finalmente di recuperare una copia dell’opera incompiuta. Pochi giorni prima della partenza la moldava straripa sommergendo con le sue acque fan-gose la capitale ceca. la televisione trasmette barche in piazza e abitanti in costume da bagno. l’elefante, grande attrazione dello zoo, muore annegato. metropolitana e tram sono bloccati. la Sinfonia numero 8, conservata nel seminterrato del museo sarà in pericolo? Francesco se la immagina già galleggiare sotto il ponte Carlo…

Quanto mai stressato, posa i bagagli all’hotel Palma e corre a cercare informazioni sugli archivi di schulhoff. il custode di turno all’entrata del museo gli risponde con voce carica di rabbia: «si rende conto di quello che è suc-cesso qui?». Francesco lotoro decide di tener duro. si siede su una poltrona, di fronte a una sala in cui è riunita la direzione, e pazienta lì tutto il giorno finché un’impie-gata non lo nota, proprio un attimo prima che vengano spente le luci. stando a lei, gli spartiti sono stati trasfe-riti in luogo sicuro, ai piani superiori. un assegno in dol-lari permetterà al visitatore italiano di ottenere, già l’in-domani, una copia dei microfilm. a nessuno prima di lui era venuto in mente di consultarli.

una volta ingrandite, le partiture si rivelano dei fogli enormi. all’inizio venti righe per pagina, poi quattordici, dodici per gli ultimi movimenti. una pioggia di note che bisogna decifrare e ricopiare a mano. schulhoff era preciso, meticoloso. tre giorni di vita in più e avrebbe portato a ter-mine la sua opera. Quanto a Francesco, ci metterà tre anni.

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Di ritorno a Barletta incappa subito negli spazi vuoti lasciati nel testo come autentici enigmi. tagli netti, de-stinati a evitare la censura. sarà Petr schulhoff, figlio del maestro, a fornire una chiave di comprensione: nel linguaggio in codice dell’artista, i personaggi mancanti si chiamano “marx”, “lenin” o “stalin”. Quanto alle misteriose “@”, designano gli arbeiten, i lavoratori. a poco a poco, Francesco colma i vuoti. siccome non ha ancora un computer, un suo amico, il direttore d’orche-stra Paolo Candido, ricopia il tutto in una calligrafia ni-tida e precisa; ogni due giorni gli manda una nuova pa-gina da studiare.

la n. 8 è una montagna, non è stata scritta per il solo pianoforte. schulhoff immaginava un’intera orchestra, una strumentazione lussureggiante, che indicava per mezzo di segni scritti a mano. «tamburi» qui, «tromboni» là… in lotta contro il tempo, datava sempre il suo lavoro dal giorno dell’inizio dei movimenti. la sua ultima annota-zione, «12/05/1942», annuncia il quarto…

al principio, la mano sinistra, tranquilla, sviluppa un’atmosfera serica, con il ritmo dei timpani e del con-trabbasso, quindi di tube tonanti. la mano destra, nella parte di tastiera che gli compete, dirige i violini e genera una tempesta di note. in fondo alla pagina ventidue schul-hoff promette una carica epica, un nuovo inizio. «subito in tempo di marcia trionfale», scrive ambiziosamente. ma crollerà proprio prima dell’annunciato trionfo, lasciando un semplice accordo in la maggiore appollaiato in cima alla ventitreesima pagina.

Da Wülzburg a Barletta, tra il 1942 e i primi anni del Duemila, si stabilisce tra i due artisti una sorta di comu-nicazione cerebrale. le mani del pianista italiano seguono quelle del prigioniero ceco. manca soltanto la conclusione,

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il movimento finale, che dovrebbe riprendere la sostanza dell’opera e sublimarla.

Per trovarla, Francesco si chiude nell’appartamento al pianterreno in cui all’epoca abita con la moglie Grazia a Barletta, in via san ruggero 7, una stradina del cen-tro storico che digrada dolcemente verso la spiaggia. ai suoi occhi conta solo la sua missione, ogni altra cosa è diventata secondaria: la vita sociale, il riposo, i corsi di pianoforte, persino Grazia. Perché schulhoff è un’enorme orchestra da suonare con dieci dita. l’ottava sinfonia è quasi un’ora e dieci minuti tutta d’un fiato, una gara di fondo con l’andatura di una volata. sullo spartito il pri-gioniero ha precisato in caratteri minuscoli la stima della durata dei movimenti. «Circa 13 minuti» per il primo. «9» per il secondo. «21» per il terzo. lotoro fissa i suoi tempi intermedi su quelle indicazioni, perfeziona la sincroniz-zazione. ma la mente precipita. le sue urla rabbiose ri-suonano per il centro. Grida ai ragazzini che giocano a calcio contro il cancello. non sopporta più i loro palloni, li odia. Vuole traslocare ma non ne ha il tempo. la n. 8 lo ossessiona, vi si consacra anima e corpo, senza un giorno di pausa. le braccia lavorano in automatico, il cervello si surriscalda. non approfitta del sole, non cammina più lungo la spiaggia insieme a Grazia, si ferma solo per tran-gugiare gli spaghetti.

ogni notte, per otto mesi, suona il pianoforte digi-tale, spento, mentre sua moglie cerca di dormire dietro la libreria che fa da divisorio tra il soggiorno e il letto. il suono non serve: a Francesco bastano il ticchettio dei tasti e la ginnastica delle dita. Percuote la tastiera fino a notte fonda, quando Grazia insiste per l’ultima volta: «Vieni a dormire».

Per padroneggiare meglio l’ottava sinfonia, Francesco

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la interpreta nell’ordine giusto e poi al contrario. un’ora all’andata, un’ora al ritorno, fino a sei viaggi al giorno, prima di concedere al suo corpo ancora vibrante di sten-dersi sul letto. a furia di suonare schulhoff anche il piano cede, perde la sua forma, i tasti ondeggiano. in meno di un anno, il tac tac tac notturno ne ha rovinato i meccani-smi. un amico riparatore viene ad auscultarlo: «France’, lo hai consumato!» esclama. «non so cosa gli hai fatto, non voglio saperlo, ma non ho mai visto niente del ge-nere.» al suo interno le caviglie sono fuse sotto la forza bruta del musicista.

nel momento in cui lo strumento esala il suo ultimo respiro, Francesco lotoro è teso come la corda di un vio-lino, ma raggiunge il virtuosismo. sente di essere pronto a registrare l’ottava sinfonia.

Quando si presenta nell’auditorium del conservatorio di Foggia, schulhoff è dentro di lui, la pelle nella sua. 63 minuti di performance incisi su cd, prima di tornarsene tutto solo a Barletta.

arriva alla stazione con un’ora di anticipo sul treno. aspetta in piedi sul marciapiede, irrigidito in un momento di pace, come un alpinista sulla vetta.

il giorno dopo fatica a svegliarsi. È come se avesse bisogno di dormire per un anno intero. ha le braccia ri-gide, la testa fuori uso. Fa un passo giù dal letto e crolla. l’orso è spompato, deve andare in letargo. un anno senza pianoforte. ma la ricerca può continuare…

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Barletta, 10 luglio 2011

un tempo Barletta era un baluardo dell’industria calza-turiera, soprattutto di quella delle scarpe con le suole in gomma.

ma questo accadeva prima dei cinesi.alcuni produttori resistono intaccando i profitti, ma

c’è un solo modello prodotto unicamente a Barletta: gli scarponcini di sicurezza. Come se nelle fabbriche del Guangdong le calzature da cantiere di qualità fossero più difficili da copiare delle scarpe eleganti. e poi ci sono gli abiti monella Vagabonda, vago orgoglio locale dal mar-chio a forma di ranocchia. le altre aziende hanno mante-nuto l’insegna originaria ma non lavorano più sul posto. scendono a patti con le manifatture asiatiche o albanesi, e servono solo da testa di ponte commerciale per rivendere all’italia ciò che fino a pochi anni fa si fabbricava da sola.

Barletta conta novantamila abitanti, ventuno chiese e due santi patroni: san ruggero vescovo e la santissima madonna dello sterpeto. È l’inizio di luglio e la città si dedica alle sue occupazioni estive, divisa tra la siesta e la spiaggia. le pettegole di quartiere e i giocatori di carte si contendono ogni angolo in ombra. nelle vie centrali, la-stricate di pietre bianche che catturano la luce e restitui-scono un alone bollente, i passi risuonano in modo strano,

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come se annunciassero una processione di penitenti o volessero ricordare che qui si cammina su due millenni di cristianità. ai tempi delle crociate la città non è forse stata la sede dell’arcidiocesi di nazareth? Curiosamente, l’attuale arcivescovo gode ancora del titolo onorifico di arcivescovo di trani-Barletta-Bisceglie e… nazareth.

nel 1978 nei dintorni di via dell’industria la zona in-dustriale accoglieva ogni mese nuove fabbriche. lo zio di Francesco era il proprietario di Fregilegno, un’azienda di scultura su legno in via Vecchia madonna dello sterpeto.

Quell’anno il quindicenne Francesco trasferisce il pro-prio pianoforte dal salotto di famiglia allo stabilimento dello zio. laggiù almeno non disturberà nessuno e potrà suonare anche durante le partite dell’inter, quando il pa-dre e il fratello, bardati di nerazzurro, esigono un silen-zio monastico. France’ invece è un ragazzo cerebrale, che preferisce la compagnia dei libri a quella dei centravanti. Di notte esplora le enciclopedie come un minatore, con una lampada da speleologo. Di giorno fa i compiti del fratello minore e delle due sorelle.

la fabbrica dello zio è a cinque chilometri da casa. in fondo al capannone principale c’è un solaio vuoto, è qui che gli operai ebanisti hanno posizionato il pianoforte. Francesco vi si reca tutti i giorni in bicicletta, a orari fissi, dalle due e mezza alle dieci di sera. mamma Concetta non dimentica mai di infilargli un panino e una bottiglia d’acqua nello zaino.

nella penombra, il giovane si esercita in solitudine. al piano di sotto gli operai levigano, raschiano, scolpiscono fregi, maniglie, madonne e statuette di Gesù Bambino. nonostante sia avvolto da una nebbia di segatura che gli rovina gli occhi Francesco persevera, tanto che trasferisce su quel podio un secondo pianoforte, questa volta a coda.

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Vi sistema anche una stufa per scaldarsi le dita in inverno. la domenica, quando il custode chiude lo stabilimento dalle cinque alle dieci di sera, si lascia imprigionare nel suo antro. Di notte aspetta la partenza di suo zio, che guida la macchina dietro la bicicletta con tutti i fanali accesi per scortarlo, e tiene lontani i cani randagi a colpi di clacson.

Giuseppe, suo padre, è sarto. una volta si è messo in società con un cugino per aprire un negozio in centro. È un appassionato di opera; quando l’inter vince, gli capita di cantare La traviata in cucina. Concetta invece è “pan-taloniera”: cuce i bottoni e fa gli orli perché il fondo dei calzoni cada bene sulle scarpe.

loro figlio riversa la stessa energia ossessiva nel pia-noforte e nella scuola. tranne nei giorni in cui fa finta di andare a lezione. il giovedì mattina esce a piedi, poi de-via verso la Fregilegno e torna a casa per pranzo, come se niente fosse. a quel punto deve solo imitare la firma di Concetta – dei riccioli concentrici ottenuti facendo girare tre volte la penna – e giustificare l’assenza con queste po-che parole: «Per una gravissima situazione famigliare». lo stratagemma funzionerà per un mese. alla fine Francesco otterrà ugualmente cinquantotto sessantesimi alla maturità.

Guadagnarsi da vivere con la sartoria come i suoi geni-tori per Francesco è fuori discussione, così come diventare medico o avvocato. lui si immagina concertista, e solo questo. una volta intascato il diploma di maturità si iscrive al conservatorio di monopoli. Persino il suo servizio mili-tare avrà a che fare con la musica: assegnato ai bersaglieri, in sardegna, entra a far pare della banda del reggimento e si chiude nella cappella, fortunatamente provvista di un pianoforte. eccolo pronto a riorchestrare le canzoni dei soldati trasformandole in inni sgargianti, o a dare un con-certo in alta uniforme marrone e cappello piumato.

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il suo superiore, pieno di ammirazione, lo manda da un sarto nel sud dell’isola perché abbia finalmente un abito della sua taglia, con redingote nera e camicia bianca.

Di ritorno a Barletta, il soldato lotoro ritrova i suoi pianoforti. in sua assenza nessuno li ha toccati. al piano di sotto gli operai fanno sempre tre turni di otto ore. Fuori gironzolano i cani.

in quel periodo, al conservatorio di monopoli, Fran-cesco incontra un ungherese che gli parla dell’accade-mia musicale Franz liszt, prestigiosa scuola di Budapest. laggiù, almeno, potrà confrontarsi con il rigore degli in-segnanti. Comunque sia, lui è fermamente intenzionato a tentare la fortuna. Divora Bach e Bartók come compiti delle vacanze e supera l’esame di ammissione.

Di Budapest non riuscirà mai a vedere i monumenti. i professori ungheresi sono molto più esigenti dei colleghi italiani. Per perfezionare la sua arte Francesco deve eser-citarsi ininterrottamente, dalle sei e mezza del mattino alle dieci di sera. intuisce che quell’apprendistato lo condurrà verso territori sconosciuti, musicali e intellettuali. a poco a poco si avvicina a nietzsche, a Pasternak. e, l’ultimo anno, ai componimenti dei prigionieri del campo ceco di Terezín: Viktor Ullmann e Gideon Klein. Musiche recluse che lo prendono alla gola.

nel dicembre 1989 Francesco torna a Barletta per le vacanze di natale. Qualche giorno in famiglia, poi tor-nerà in ungheria per concludere il secondo anno di ac-cademia. Per non perdere la mano si esercita nel garage dei genitori, dove i pianoforti sono stati ora sistemati. il posto non è comodo: tutt’intorno sono posati dei bidoni; vi è odore di gasolio e di olio d’oliva; l’artista deve re-stare il più vicino possibile alla tastiera perché il paraurti della opel Vectra del padre preme sulla schiena.

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una mattina di gennaio, comincia a prudergli l’oc-chio sinistro. sulla palpebra sente premere una specie di palla di carne, gonfia. la vista si appanna e fatica a di-stinguere i tasti del pianoforte. sale in casa dei genitori e corre in bagno, davanti allo specchio: il lato sinistro del viso è gonfio, sembra la faccia di un pugile. Francesco sa quanto la sua vista sia delicata. sua madre Concetta lo ripete di continuo, gli aveva persino lasciato delle lenti speciali, che però in ungheria non ha mai messo. Per lui quel paese era un giorno senza fine. Ci ha lasciato la sa-lute, e molti sogni.

a Budapest non tornerà. il padre lo accompagna all’ospedale di Bari. un chirurgo gli richiude la palpebra come fa Concetta con gli orli dei pantaloni. Per la prima volta, il pianista è fuori servizio. l’occhio bendato come un pirata, Francesco aspetta ora un donatore di cornea. ar-riverà del tutto accidentalmente da parte della zia, morta in febbraio. trapianto. Pupilla ricucita, miopia risolta, la “macchina rotta” può ripartire all’assalto. ma questa volta in italia, non più in ungheria.

nel 1990, dopo un anno passato a razziare concorsi regionali e dare concerti, il pianista si regala il Dizio-nario Enciclopedico Universale della Musica e dei Mu-sicisti (DeuMM). una pagina dopo l’altra studia i dodici volumi soffermandosi sui luoghi di nascita e di morte di ciascun compositore. i suoi occhi si focalizzano allora su un nome ripetuto cento volte: auschwitz. anche un altro nome ricorre spesso: terezín, la città-ghetto nei pressi di Praga dove furono rinchiusi alcuni dei più grandi musi-cisti del tempo.

nel novembre 1990 Francesco lotoro si imbarca su un volo per la capitale ceca senza avere in mente nulla di preciso, spinto unicamente da una folle curiosità, senza

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sospettare che quel viaggio gli cambierà la vita. appena prima della partenza, la madre ha aggiunto in valigia un paio di scarpe molto calde. Pensava forse che a Praga, città remota vista da Barletta, avrebbe trovato i pinguini e gli igloo. France’ ha protestato, ma la mamma in fondo non aveva torto: la città è coperta di neve e i cigni passeg-giano sulla moldava gelata. ai primi passi fuori dall’ho-tel Palma i suoi mocassini si aprono in due. Dal punto di vista politico, invece, il paese sta vivendo il momento del disgelo: il comunismo implode, sulle banconote vengono appiccicate delle etichette per stare al passo con la svalu-tazione della moneta nazionale.

Blanka Cervinkova, direttrice del dipartimento di mu-sica della biblioteca municipale, si prepara a ricevere il misterioso italiano. uno straniero tanto interessato a Gi-deon Klein e Viktor Ullmann è una faccenda intrigante.

a Praga Francesco è un orologio: si sveglia all’alba, lascia la sua stanza del Palma alle sette del mattino, bor-botta in inglese per farsi aprire le porte delle biblioteche universitarie, per sondare gli archivisti e interrogare i ri-gattieri. siccome nulla è salvato in digitale, è necessario ricopiare ogni spartito.

a mezzogiorno torna in albergo, il pranzo è in genere poco costoso ma corroborante. riprende quindi a lavo-rare fino alla chiusura delle sedi. Cataloga tutto, fa una fotocopia dopo l’altra, razionalizza ogni gesto per siste-mare il foglio nella macchina nel momento in cui prepara il successivo. Per due volte dimentica una pagina incol-lata alla precedente; non ha tempo di tornare indietro. la frenesia della ricerca lo divora.

il sesto giorno la sua stanza è tappezzata di spartiti. il settimo la moquette scompare sotto l’opera di Gideon Klein, mentre quella di Viktor Ullmann raggiunge in fogli

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sparsi la porta del bagno. il solitario Francesco popola la propria mente di figure scomparse. legge la loro musica come un tempo divorava i libri di storia. la notte fatica a prendere sonno: pentagrammi incartapecoriti gli suonano in testa un’aria senza fine.

una mattina sacrifica trenta minuti del suo programma per andare a comprare una seconda valigia, un modello economico, morbido ma solido. in soli quindici giorni stana più di cento spartiti e recupera diversi documenti della Grande Guerra, opere di maestri del xix secolo. ora lo sa: per capire i dannati di terezín deve penetrare la loro anima, studiarne i mentori, Vilém Kurz, Alois Hába, Ar-nold schönberg…

C’è un destino che lo ossessiona: quello di Gideon Klein, fucilato a venticinque anni in un campo satellite di Auschwitz. Prima, a Terezín, Klein aveva composto sonate per pianoforte, terzetti per strumenti a corda, fu-ghe e persino ninnenanne… Francesco sa quanto quel ragazzo prodigio sia stato prolifico dietro le porte chiuse del campo. si immerge nella sua foto, un’immagine color seppia di un bel giovane col naso diritto e lo sguardo di velluto. l’ultima sera, funambolo sul suo tappeto di spar-titi, realizza che ha fatto delle scoperte così straordinarie che, se continuasse allo stesso ritmo, potrebbe forse tro-var tutto e suonare tutto, Gideon e gli altri. non si è mai sentito tanto forte. sì, deve farlo: andrà avanti.

torna a Barletta dai genitori, ma intende ripartire al più presto. Per guadagnare qualche soldo moltiplica i concerti e le serate di piano bar. Poche settimane dopo la “rivelazione” di Praga, fa ritorno sulle rive della mol-dava. la bibliotecaria Blanka Cervinkova e il composi-tore Petr Pokorný, un ex dissidente, lo indirizzano verso gli archivi segreti e gli indicano alcuni negozi di dischi

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specializzati. nel luglio 1991 Blanka lo accompagna alla libreria musicale Divertimento, luogo d’eccezione, dove la memoria musicale della mitteleuropa si declina in spar-titi dalle copertine ingiallite.

Quel giorno è proprio il fantasma di Gideon Klein quello che Francesco lotoro avvicina per primo. mentre sta esplorando una pila di documenti nel retrobottega, si ritrova a faccia a faccia con un viso noto. non ci sono dubbi: è Klein… Klein al femminile. Eliška, sua sorella, ex detenuta di terezín. ha dedicato la vita alla memoria del fratello. Con Francesco parla in tedesco. lui non ca-pisce una parola ma non dice niente, impietrito dall’emo-zione. il solo fatto di vederla è un ricordo fisico della tra-gedia, ed è visibilmente scosso.

eliška ha appena trovato un’intera scatola di spartiti composti dal fratello durante la prigionia. tende a Fran-cesco una pergamena color sigaro, un rotolo di carta vel-lutato annerito con una stilografica dalla punta fine su un supporto di pentagramma prestampato: la sonata di Gi-deon, composta il 23 ottobre 1943 a terezín. una scan-sione scarabocchiata indica che l’artista disponeva di un metronomo. un lusso. la sorella, anche lei pianista, alza le mani e batte il tempo canticchiando, per mostrare come bisogna interpretare il terzo movimento. Prima di andarsene scrive una dedica sullo spartito. e per un lap-sus firma: «Praga, 20.07.1944».

Francesco lotoro registra un primo disco al pianoforte, distribuito in Francia con il titolo Les musiciens martyres de l’Holocauste (i musicisti martiri dell’olocausto)1. ma, a cd appena inciso, capisce che non può limitarsi al solo pianoforte. la musica dei campi va ben oltre, ancora non

1 lotoro F., Shoah. Les musiciens martyres de l’Holocauste, arion, 1995.

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riesce a sfiorarne i contorni. Ci sono altri strumenti, altre vittime oltre agli artisti ebrei di Praga, condizioni di pri-gionia diverse, epoche differenti. ormai deve ragionare da ricercatore, da archeologo, e raccogliere una sfida: ri-trovare e classificare tutta la musica prodotta in cattività nel tempo intercorso tra l’apertura del campo di Dachau, nel 1933, e la capitolazione giapponese, nell’agosto del 1945. ridestare le note concepite e morte nella prigionia. infrangere un silenzio nella storia della musica del xx se-colo. Davanti a lui, un’ecatombe di compositori. molti sapevano che non ce l’avrebbero fatta, ma questo non li aveva dissuasi dal battersi per preservare almeno la loro creatività, l’ultima libertà.

negli anni ’90, Francesco porta avanti le sue ricerche in parallelo a un’attività pianistica tradizionale. un terzo del suo tempo, largamente esteso alla notte, è dedicato a diversi progetti: la registrazione delle messe di Bach con il maestro aldo Ciccolini e di un disco per celebrare i quarant’anni della Primavera di Praga. Poi, man mano che la sua scrivania si riempie di documenti, decide di concentrarsi al cento per cento sulla musica dimenticata. la passione diventa una missione che lo trascina verso un orizzonte artistico di cui nessuno si è mai seriamente occupato. Per fortuna avvia una corrispondenza con una manciata di storici solitari, gli unici esistenti: il tedesco Guido Fackler (dell’università di Würzburg), l’americano Bret Werb (del museo dell’olocausto di Washington)… Può anche contare su una cerchia di appassionati pronti ad aiutarlo e su alcuni discendenti dei musicisti che lo incoraggiano a proseguire su quella strada.

Praga resta la sua meta preferita, ma gli archivi del campo di terezín, conservati nel museo locale, si rivelano deludenti. le copie degli spartiti sono esposte all’interno

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di vetrine cui non ha accesso. nonostante presenti il suo progetto di enciclopedia e menzioni i nomi dei suoi con-tatti cechi, non riesce nell’intento. Fortunatamente nota che in orario di visita i pittori sistemano i cavalletti da-vanti ai quadri realizzati nel campo, per trarne ispirazione. si siede allora in mezzo a loro, tira fuori un quaderno a spirale e, battuta dopo battuta, nota dopo nota – facendo attenzione al riflesso del vetro – comincia a copiare gli spartiti dei maestri prigionieri: Klein, Krása, Berman e tutti gli altri.

nel 1994, Francesco si reca per la prima volta in isra-ele. È un viaggio desiderato da anni. Prende una stanza in un piccolo albergo di tel aviv. ma questa scelta si ri-vela un errore: le biblioteche e gli archivi sono a Geru-salemme. e poi è solo, e di gran lunga troppo commosso a calpestare quella terra. i cinque giorni di ricerca non sono fruttuosi: un simile viaggio richiede una prepara-zione più seria e ponderata nel tempo. Fa così ritorno in europa, dove continua il giro iniziato a Praga. ogni volta che il suo conto in banca glielo permette, lascia il quartier generale di Barletta e, valigia vuota alla mano, segue le orme delle musiche perdute. Parigi, Vienna, Berlino, Za-gabria, Copenaghen, Cracovia, Brno, norimberga, am-sterdam… senza dimenticare Praga e Gerusalemme, al-meno una volta l’anno. lungo il percorso, scopre che ad auschwitz c’erano sei orchestre e a Buchenwald un’altra composta da ottantaquattro persone; decine di ottimi mu-sicisti suonavano a terezín; maestri francesi compone-vano nelle prigioni per ufficiali e diversi cori femminili erano a ravensbrück, e il fior fiore del cabaret olandese si trovava invece a Westerbork…