Charta Sporca numero 1 - novembre 2011

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NUMERO I - NOVEMBRE 2011 Lilligrafia Paradosso? di Stefano Tieri Qualcuno, alla lettura del “manifesto” (numero zero, prima pagina) potrebbe avere storto il naso: come è possibile che sia il «dubbio» ad animare la penna, se – viene detto – ognuno avrà «la forza delle proprie idee»? Dal momento in cui si è consci della soggettività e, soprattutto, della non finitezza del proprio pensiero (continuamente rivisto, sulla base della propria – da qui la dimensione soggettiva esperienza), come è possibile possedere una forza di tale risma? Essa giunge proprio dalla presa di coscienza dell’impossibilità di una qualsiasi visione oggettiva (ogni prospettiva sul mondo presuppone un determinato punto di vista) e del continuo evolversi di un’idea, per sua natura – allo stesso modo in cui l’uomo nasce, cresce e si perfeziona, lo stesso avviene al suo pensiero – mai compiuta. La forza cercata, con queste premesse, non può che essere una forza mai dogmatica né fideista, sempre pronta ad essere messa – a mettersi essa stessa! – in discussione. Commento a margine: un pensiero potrebbe trarre linfa vitale nel momento in cui si collocasse fuori dal tempo. «Oggi viviamo sotto il giogo di un tempo standardizzato, un tempo industriale che ci viene imposto, qualsiasi cosa si faccia, dovunque ci si trovi. Un tempo unico che, come la moneta unica, ha un unico scopo: metterci tutti in concorrenza, da un capo all’altro del pianeta. Per sopravvivere dentro questo tempo unico, dobbiamo correre più svelti degli altri. Ci siamo fatti rubare il tempo!» (Hervé-René Martin, Claire Cavazza, Nous réconcilier avec la Terre). È possibile questa fuga? E in quale direzione è? In avanti o indietro? «Se ci si svincola dalla concezione lineare del tempo, non ci sono più solo un avanti e un indietro, ma anche tutte le altre direzioni» (Serge Latouche, il tempo della decrescita). I Un sentito ringraziamento allo studente di ingegneria il quale, rimasto purtroppo anonimo, ha vinto il concorso indetto per il “miglior utilizzo di Charta Sporca”. Es- sendo anonimo non potrà ritirare l’ambitissimo premio in palio: l’abbonamento a Charta Sporca in triplice copia rilegata, con annesso recapito a domicilio ad opera di una mistress ardentemente infatuata di Umberto Eco.

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Charta Sporca numero 1 - novembre 2011 - periodico culturale dell'Università di Trieste.

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Page 1: Charta Sporca numero 1 - novembre 2011

NUMERO I - NOVEMBRE 2011

Lilligrafia

Paradosso?di Stefano Tieri

Qualcuno, alla lettura del “manifesto” (numero zero, prima pagina) potrebbe avere storto il naso: come è possibile che sia il «dubbio» ad animare la penna, se – viene detto – ognuno avrà «la forza delle proprie idee»? Dal momento in cui si è consci della soggettività e, soprattutto, della non finitezza del proprio pensiero (continuamente rivisto, sulla base della propria – da qui la dimensione soggettiva – esperienza), come è possibile possedere una forza di tale risma?

Essa giunge proprio dalla presa di coscienza dell’impossibilità di una qualsiasi visione oggettiva (ogni prospettiva sul mondo presuppone un determinato punto di vista) e del continuo evolversi di un’idea, per sua natura – allo stesso modo in cui l’uomo nasce, cresce e si perfeziona, lo stesso avviene al suo pensiero – mai compiuta. La forza cercata, con queste premesse, non può che essere una forza mai dogmatica né fideista, sempre pronta ad essere messa – a mettersi essa stessa! – in discussione.

Commento a margine: un pensiero potrebbe trarre linfa vitale nel momento in cui si collocasse fuori dal tempo. «Oggi viviamo sotto il giogo di un tempo standardizzato, un tempo industriale che ci viene imposto, qualsiasi cosa si faccia, dovunque ci si trovi. Un tempo unico che, come la moneta unica, ha un unico scopo: metterci tutti in concorrenza, da un capo all’altro del pianeta. Per sopravvivere dentro questo tempo unico, dobbiamo correre più svelti degli altri. Ci siamo fatti rubare il tempo!» (Hervé-René Martin, Claire Cavazza, Nous réconcilier avec la Terre).

È possibile questa fuga? E in quale direzione è? In avanti o indietro? «Se ci si svincola dalla concezione lineare del tempo, non ci sono più solo un avanti e un indietro, ma anche tutte le altre direzioni» (Serge Latouche, il tempo della decrescita).

I

Un sentito ringraziamento allo studente di ingegneria il quale, rimasto purtroppo anonimo, ha vinto il concorso indetto per il “miglior utilizzo di Charta Sporca”. Es-sendo anonimo non potrà ritirare l’ambitissimo premio in palio: l’abbonamento a Charta Sporca in triplice copia rilegata, con annesso recapito a domicilio ad opera di

una mistress ardentemente infatuata di Umberto Eco.

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II

Dopo aver frequentato un corso se-rale - una di quelle cose che dovreb-bero servire a “fare curriculum”, per utilizzare un’espressione tanto vuota quanto abusata - mi tornano spesso alla mente le righe di una poesia di Sergio Solmi del 1963 intitolata, appunto, La scuola se-rale. Solmi, classe 1899, morto nel 1981, è ricordato soprattutto per la sua attività critica e di traduzione; la sua produzione poetica è picco-la (il volume Poesie complete, che raccoglie i testi dal 1924 al 1975, conta a malapena 120 pagine, note comprese) e appartata rispetto alle grandi correnti novecentesche. “La scuola serale” è qui la scuo-la di chi è alla sera della vita: una scuola per anziani, vecchi che si sforzano di rimediare agli errori commessi: «noi / che sbagliammo tutti i sentieri, fino a che ci colse / all’improvviso la sera». L’errore è inevitabile, e giunge inaspettata la vecchiaia, quando è più difficile riparare ai danni fatti. Inutile chia-mare in aiuto l’esperienza: le «re-gole spietate» per correggersi – le pene sofferte, i rimorsi, le cattive coscienze – non eviteranno di sba-gliare di nuovo, perché si hanno sempre «occhi sbarrati nel buio serrati alla luce».Una poesia cupa, rinchiusa in un’aula di scuola, a tarda sera, dove il buio limita anche l’imma-ginazione che potrebbe scaturire dal guardare fuori dalle finestre, e tutto si fa ambiguo e inconoscibi-le: «Talora sembrano fluttuarvi / a lato forme incerte: cespi di sar-gasso, avvisaglie / di terre ignote, o equivoche / ombre che la sera su-scita? È ben difficile / la soluzione

dei problemi, se ogni volta / ce ne cambiano i dati».Il dilemma inquietante che Solmi pone, sotteso a tutto il componi-mento, è l’effettiva utilità di ogni insegnamento. Inevitabile pensare a cosa è la scuola oggi, alla qua-lità dell’istruzione messa continua-mente in discussione da più situa-zioni soggettive e oggettive, prima fra tutte la difficoltà di trovare un lavoro dignitoso – che, nell’ottica utilitaristica a cui il mondo è pie-gato, dovrebbe essere il fine ultimo di ogni scuola. Per questo mi suonano e risuonano nella mente certe righe della poe-sia: «L’esperienza / dello studio fu dunque soltanto un lungo tentativo / di logorarci, di appiattirci, di farci lisci / nella corrente del tempo?». Un ottundimento di coscienza che instrada a una vita altrettanto ottusa e prona. Un’eventualità terrifican-te. Ma come non pensarci, quando l’istruzione non fa la differenza?Il mondo che viviamo ci invita a un continuo appagamento di ogni pulsione, al godimento massiccio e immediato di ogni esperienza. In questa epoca di accesso totale alle informazioni e alle nozioni, an-che il sapere è investito da questa sollecitazione ininterrotta. Tutto è a portata di mano, in un flusso in-contenibile e incontrollabile in cui è facile essere risucchiati, come nel maelstrom di Poe. Un tutto sovrab-bondante che comunque non colma il vuoto connaturato all’esistere. Anzi spinge a un continuo rinno-vare l’esperienza di “consumo” (nel senso di “consùmere”, e cioè distruggere), con varianti sempre nuove e diverse ma in fondo sem-

pre uguali, che azzera ogni spinta all’approfondimento. Una spin-ta in senso orizzontale che, dove non si risolve in un confusionario rifiuto (a scopo precauzionale: il cervello agisce al risparmio) por-ta tutt’al più a uno sterile sapere enciclopedico. Basti pensare alla fruizione selvaggia di narrativa di genere. Senza nulla togliere al va-lore intrinseco delle singole opere, i lettori consumano avidamente il prodotto-libro; ne cercano sempre di nuovi, ma con un piacere sempre minore – come nella progressiva assuefazione data dalla droga – perché sempre più consapevoli dei meccanismi e degli stilemi su cui appoggia l’esperienza ludica; un po’ come succede con il Can-D in Le tre stimmate di Palmer Eldritch di P.K. Dick. Lo psicologo freudiano francese Jacques Lacan sostiene che il de-siderio in senso radicale è un desi-derio di morte. Riducendo all’osso il suo ragionamento, il godimento, questa soddisfazione del deside-rio tanto facile nei termini sopra descritti, è una forma simbolica e reiterata di morte (ma simbolica fino a che punto?). Qualcosa di simile l’avevano intuito i cantori dell’amor cortese: l’amore è ide-alizzato, un desiderio inappagato, continuamente ravvivato ma mai pienamente goduto, e comunque fuori dal matrimonio. Il quale era invece “consumato”, era la nega-zione – la morte – dell’amore (an-che se in questo caso “consumo” viene da “consumàre”, cioè perfe-zionare, inteso in senso giuridico).L’insegnamento dovrebbe porre un discrimine, mettere in discussione

e soprattutto insegnare a farlo, portare a “consumàre” e non a “consùmere”. Si appiattisce inve-ce nella corrente, rendendoci – e qui torniamo a Solmi – «assuefatti a un inesplicato dovere». Il solo fine è quello di arrivare, in fretta e senza intoppi, a ottenere il famige-rato “foglio di carta”. E lo stesso modo ottuso di portarsi nel mondo sarà poi nel lavoro, mentre all’in-quietudine dell’esistenza si potrà ovviare con un ulteriore consumo, alla continua ricerca del placebo di un’esistenza felice.Lo studio dovrebbe invece indur-re a una differenza consapevole, una cesura e una spinta verticale nel flusso costante e orizzontale delle cose. Ravvivare il desiderio di sapere, mantenerlo acceso. Do-potutto Adamo ed Eva sono stati cacciati dal paradiso terrestre per aver violato il divieto sull’albero della conoscenza; e la storia ci conferma che il sapere è “satani-co”, che le dittature si costruisco-no sull’ignoranza. Ormai è chiaro che solo intraprendendo vie lon-tane da quelle che abbiamo im-parato come “ufficiali”, ci si può impegnare in «un corpo a corpo col virus dell’oblio», per dirla con Raboni. Significa combattere la morte, il non-essere, il vuoto. Lot-tare contro le negligenze del pen-siero, che non possono che portare a danni e tragedie. Infilarsi negli spazi vuoti tra i discorsi, mette-re paletti, costruire sulla palude. Ribaltando il famoso assioma di Goya, se la ragione da qualche parte si è risvegliata, dovrà ap-profittare del sonno dei mostri per usurparne il trono.

Trieste: la mia finestra verso il tempio di Solivagus Rima

Abito in via San Nicolò. Proprio di fronte alla libreria antiquaria “Umberto Saba” … davanti all’edificio in cui abitò il grande Joyce per un periodo della sua vita. Chi io sia non ha importanza.Amo questa città, il suo mare, la sua storia. Passo gran parte del mio tempo, e questa è una caratteristica della mia persona, a cer-car di carpirne i più intrinseci e misteriosi segreti, che essa cela all’interno dei suoi mille aspetti.Tuttavia, ci tengo a rendere voi, o lettori, edotti di un lato di Trieste che mi affascina nel modo più assoluto. Si tratta dei collega-menti fra Trieste e la massoneria.La massoneria, se dovessi descriverla per come è definita consuetamente, direi è una “società segreta”. Ma, se mi venisse chie-sto di spiegare ciò che empiricamente son

riuscito a trarre dai miei studi su di essa e dalle cose che ho visto, posso dire che non è affatto così, o meglio lo è in parte. Infat-ti, la massoneria è ben conosciuta e i suoi membri non tentano di nascondere il fatto che all’interno di essa vengano compiuti dei riti. Quindi, la definirei, più che “socie-tà segreta”, “società riservata”, in quanto i massoni non si nascondono e ammettono chiaramente di appartenere alla massone-ria. Ma amano una certa riservatezza per quanto riguarda i loro riti. Sono dei “cultori della privacy”, diciamo così.Per continuare questa mia relazione, vi posso dire che il mio interesse per la mas-soneria cominciò proprio da quando venni ad abitare qui in via san Nicolò. Infatti, da quel momento mi dedicai a un bel passa-tempo: guardare dalla finestra.

Parecchie sere mi mettevo lì, tra gli infis-si, ad osservare la gente che passava e a studiarla nei movimenti. Presto mi accorsi che un discreto numero di persone si in-contrava con una certa frequenza davanti al portone di fronte al mio. Si salutavano, ridevano assieme. Per molte volte alla setti-mana, frequentemente. Spesso giungevano una donna bionda, abbastanza alta, e due uomini dall’aspetto imponente, uno sulla cinquantina e uno molto vecchio.Il più vecchio inforcava una Philiph Mor-ris tra due dita della mano e la fumava. Poi, entravano assieme nell’edificio. Salivano a piedi fino all’ultimo piano. Io lo sapevo perché all’ultimo piano c’era sempre una luce che s’accendeva poco dopo il loro in-gresso dal portone.

(continua nel prossimo numero)

Il sonno dei mostridi Giuseppe Nava

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inserto letterario

Terza Pagina

III

Enormi catene, le reti che ci congiungono, unendo il lontano, traducendo il diverso, creando un tutt’uno onnicomprensivo. Reti di fittissime trame, tese in fili metallici a for-mare un muro di cemento armato, dal quale persino l’aria stenta a passare. Di questi fili, di questa rete, di questo muro, non è possibile vedere nulla; eppure sono lì, a soffocare ogni istinto di ribellione, ogni ricerca d’una boccata d’aria fresca. L’azione si limita al tessere avanti queste reti, non accorgendosi di stare tessendo, con loro, i confini del proprio mondo, sempre più ridotto – eppure sembra così immenso – limitato ad una stanza. Si rimane così immobili, dipendenti (non stipendiati) di un mondo di cui si è padroni. Padroni di una stanza.

La tramontana tra gli scuri capelli, pur soltanto di qualche nodo, ti desta dal tuo leggero sonno, negligente d’un giovane marinaio. Pensi che nessuno ti veda, sull’alto del tuo albero? E anche se così fosse? Non attendi null’altro anche tu, che intravedere sull’orizzonte il raggio di luce d’un faro, o in alternativa, le lampade ad olio di qualche famiglia ancora seduta a tavola per la cena? No… nulla può ripagare la quiete di una leggera brezza sul mantello ondulato del mare, nulla le nuvole perforate dal sole, dopo la tempesta. E non era anco la tempesta, con il suo furore struggente, degna d’essere affron-tata? La pioggia scrosciante che, lama ghiacciata, segna il volto; istantanee fotografie di disperazione, sempre seguite dal cupo battito della grancassa; foto di suoni. Eppure qual gioia, nello svegliarti accompagnato dal volo dei gabbiani, a richiamarti la solida terra che presto avresti toccato. Ma allora? Forse era solamente il gusto d’aspet-tare, carico d’attesa, a sugellare quegli scenarî idillici. La malinconia di saperle ultime, quelle ore di viaggio, perciò da assaporare perché lontane dalle sue successive. Cos’era un viaggio, se non l’attimo della decisione di intraprenderlo e gli ultimi istanti prima del suo compiersi? Null’altro che decisioni già prese e itinerarî da percorrere. Nell’infinità degli oceani potete arrivare ovunque, ed in nessun posto. Venendosi a moltiplicare – sul mare – le rotte da percorrere, il tempo a disposizione risultava irrime-diabilmente diviso.

Le mete, i viaggi, le avventure si accumulavano sulle tue spalle, e col loro peso ti ri-cordavano di esserti fin troppo allontanato da quella giovinezza che continuavi ostentato ad inseguire, vagando ancora per le sempre nuove vie del mare. La spuma delle onde ora richiama più il colore dei tuoi radi capelli, che la purezza degli ideali di quando sei partito per quest’infinita spedizione; la salsedine ed il sole, già rovinata la pelle, erano ormai particolari insignificanti della tua esistenza, non più piccole gioie quotidiane. La tramontana, dapprima consolazione al caldo torrido del sole estivo, sta ora a poco a poco aumentando, preludio di sventura. Ti senti terribilmente solo: l’orizzonte appare vuoto, ogni pesce rifugiato nelle profondità marine, al riparo. Ecco che ti si prospetta an-cora una sfida, come tante affrontate finora; con qualche acciacco in più nel fisico, certo, ma con la forza dell’esperienza dalla tua. Le vele iniziano a soffrire le raffiche d’aria sempre più violente, meglio ammainarle; il mare, mosso, schiaffeggia quelle travi di legno logorate dal tempo, a poppa quanto a prua stai imbarcando grandi quantità d’acqua; fissato quindi il timone, giudichi il miglior consiglio rifugiarti sottocoperta. Quant’è dolce l’ignoranza, delle volte! Una falla sta ingrossandosi col passare dei se-condi e dei litri imbarcati – come se quelli sopra la tua testa non bastassero – il tuo destino ti si legge stampato sul volto, lo sguardo disilluso.

Sei morto. Torna all’inizio del viaggio. Perdi 564 punti esperienza.

“Non esiste vento favorevole per un marinaio che non sappia dove andare” (Seneca)

Alla derivaIl Piccolo Calvo

Mute le campane squillano di sera,di notte,nel campo, tra le viti della primavera.Solo. Una coppia a baciarsi s’appropinqua.Tremore.Sassetti brulicanti nel deserto sotto le scarpe.Bacio. Sangue.Una ventina di stremanti …. arpe … battiti … Un ballo forsennato

Solivagus RimaOde del disadattato

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IV

Mi sei apparsa come una nota di violinoin una stanza spentacome la musica di un usignoloentrato per errore.Ma è guasta la nota nella sinfoniache non inizierà:qualcuno ha acceso le luci,una porta si allenta nei cardinicome lo sguardo di chi si allontanaper strada.

Vi sonano una banda allegraun canto popolare ma dall’altra partespunta rosso su nero,un figurino e poiun camice bianco e sguardo attraente,l’artigiano, altre figure e figurinitutte come voci spaiatesopra cui un ometto col berretto a terrasona il violino.Tu fermi il passo, guardi, passi avanti.Imbocchi la viuzza che profumadi panni stesie di orina notturna di un matto o di un ragazzo.Ma tu forse non sei mai uscita,nè la viuzza nè la piazza con le sue figureti sono appartenute.

Sei rimasta spaesatacome l’usignolo che non dà segnonella stanza, rimaste le luci accese,ma è pieno giorno,rimasto l’odore della notte,

Angelo Baciocchi

Quando la notte calaspunta la luna d’oro,

sibila fra l’alloroil vento; muove l’ala

un guardingo gabbiano.Ronza la strada, e tace.

Nella notturna paceun brontolio lontano.

Il cielo scuro affondanel mar fitto di luci,

e pare quasi brucinella notte profonda.

Ma al largo, dove vagail mio sguardo irrequieto

tutto è oscuro, segreto,e l’occhio non si appaga

di questo arcano specchio,delle iraconde stelle,minuscole fiammelle

in cui non mi rispecchio.

Si copre un poco il cielodi nubi silenziose,

oppresso dalle cosesi spezza questo stelo.

Caute le pigre navipoggiano sovra le acque

dove posare piacqueal gabbiano le gravi

membra, e la nebbia assortadistese le sue dita.La distesa infinita

pur viva, è così morta...

Tu dove sei, che pensi?Sei tu ciò che più manca

alla mia anima stanca,ai miei aridi sensi...

Una notte passatad’estate parigina

nell’ora più bambinati colsi addormentata

nella fotografia.La stringo fra le mani

mentre attendo il domaniche questa fantasia

d’incanto scioglierà.Tra nuovi desideri,

fra gli antichi pensieri,domani giungerà;

ma è questa l’ora in cuila mia mente si libra,cresce di fibra in fibra,rimembra chi, che fui...

Gorgheggiano lontanicon versi improvvisatigabbiani addormentatiin larghi cerchi piani.

Un ricciolo di ventosommuove un po’ le foglie,i pensieri raccogliee corre via, lo sento.

Un rombo sulla strada,freme l’ultima voltala nuvola dissolta;il gabbiano gli bada

con l’ultimo saluto...croa croa, poi s’addormenta.Il vento ancora tentaun ramo, e giace muto.

Croa croa... una notte eternaed io che veglio invano.Nei sogni mi rintanoe spengo la lucerna.

Croa croa, dolce collega,la notte è fonda; solomi lasci, ed al mio duolo,ma sai quanto mi frega...

Splendida notte atroce.Croa croa, a volte torni,amico, ed i miei giornisegni con la tua voce.

Ti starò un poco accantoancora per un poco,la sigaretta, e fiocosi spegnerà il mio canto.

Il tuo continua rado,la rima più riuscita,notte bella infinita,bellissima... or vado.

Terrò dentro il mio cuorela notte che già sa...il vento, il volo, odoredella felicità.

Notturno con gabbiano e terrazzoEttore Spada

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V

La traccia del ricordo: “ricordati di non dimenticare!”di Davide Pittioni

Ritengo la questione del ricordare un punto dolente dell’epoca presen-te, vista in particolar modo la sua smemoratezza, che disperdendo il passato in atomi di tempo caotico, scardina legami sociali, certezze, parole, significati... Riallacciando-mi alle considerazioni dell’artico-lo sul ricordare di Nicola Tarciso del numero precedente di Charta sporca, vorrei aggiungere qualche ragionamento a quanto già detto.Nel film di Christopher Nolan Me-mento il protagonista, Leonard, si trova a dover convivere con una rara disfunzione della memoria a lungo termine, provocatagli dallo stupratore della moglie. I suoi ri-cordi si interrompono nel momen-to stesso in cui accusa il trauma cranico: da quell’ istante fino al tempo presente in cui vive c’è un vuoto. Questa anomalia costringe il protagonista a vivere il momen-to, l’attimo presente, utilizzando l’unica facoltà ancora ben salda nella sua coscienza: l’istinto (an-che se la natura di questo istinto non è del tutto chiarita, nel senso che sembra più che altro un che di artificiale). Egli possiede solo la memoria a breve termine, che ricopre pochi istanti appena vis-suti, mentre il passato remoto è cancellato, non catturato dalla pre-sa della sua memoria. E’ come se continuamente si svegliasse senza sapere come si sia addormentato.

Questa circostanza ci permette di considerare la memoria e il ricor-do sotto una luce diversa. Nel film infatti l’ impossibilità di ricordare deve essere sublimata-deviata ver-so uno scopo che dia senso a una vita decisamente peregrina. E per costruirsi una meta sembra essere di fondamentale importanza cono-scere o costruirsi una provenienza,

un luogo che sancisca l’inizio, che colori di senso la direzione verso la meta: questo è il motivo di Memen-to. Ed è in questa prospettiva che si rivela la natura dell’ appartenenza. Appartenere non è un bisogno che dobbiamo in qualche modo soddisfare una volta assicurati i bisogni primari. Appartenenza è condizione primaria del nostro de-siderio, è l’eredità che riceviamo dal passato e che ci assicura un appoggio e una collocazione nel nostro presente. Anche se volessi-mo considerare l’aspetto naturale dell’appartenere, credo che non ci siano dubbi sul fatto che un’anima-le è tale perché appartiene ad una specie e in questo modo, seguen-do gli istinti propri della specie, è in condizione di soddisfare i suoi bisogni. L’uomo, non perché debo-le, ma in quanto (troppo) umano è per eccellenza l’animale che eredi-ta, che eredita un mondo sociale: è gettato in una realtà e conosce il desiderio perché lo impara dal pa-dre, dalla famiglia, dalla comunità, cioè proprio perché appartiene.

E’ proprio in quest’ottica che in Memento il protagonista è costret-to continuamente a recuperare l’ul-timo ricordo, lo stupro e l’omicidio della moglie, per immedesimarsi nella causa, che dà senso e spe-ranza alla sua vita, della vendetta. I suoi ricordi sono quindi delle foto, degli appunti, una traccia che dia significato al suo presente. Il ricordo è traccia del passato. Non solo: è produzione del passato. Ricordo che non si produce in un rivolgimento autoriflessivo di certe esperienze soggettive, ma sempre in qualche modo dal rapporto, dal confronto spesso traumatico (come in Memento) con una dimensione altra irriducibile alla nostra perso-

na. Un presupposto errato che con-diziona fortemente l’ipermodernità è quello della piena autosufficien-za, è l’illusione che possa esistere Robinson Crusoè senza Venerdì, che l’Altro sia un mero accidente, utilizzabile come mezzo, ma non necessario all’algebra delle nostre coordinate: insomma, il rifiuto adolescenziale della dipendenza dagli altri, del debito costitutivo che abbiamo nei confronti di qual-cun altro. E’, a mio parere, questo implicito che ci conduce a conside-rare il ricordo come uno strumento aggiuntivo volto a soddisfare un bisogno secondario e quasi pateti-co (“poveretto l’uomo che si illude di far parte di una comunità auten-ticamente”). Persino Nietzsche, nonostante il suo disprezzo per il debole uomo sociale, quando parla degli uomini nobili (quelli almeno che nel passato interpreta come spiriti forti), li considera sotto la luce dell’amicizia. Certo, un’ami-cizia radicalmente diversa da quel-la utilitaria dello schiavo, spacciata ipocritamente come amore, ma che si fonda pur sempre sul rispetto.

Un soggetto può certamente citare Nietzsche perché desidera apparte-nere ad una comunità, ad un gruppo di amici fondata ad esempio sulla cultura e la filosofia, ma ciò non spiega perché desidera appartenere a quel gruppo particolare. Potrem-mo rispondere per una casualità. Ma non rispondiamo al perché quella casualità venga accettata; quindi la casualità dell’incontro con delle persone è certamente la condizione necessaria dell’appar-tenenza, ma non sufficiente. La mia idea è che l’appartenenza sia fondata proprio sul ricordo e non il contrario. Noi apparteniamo ad una comunità, persino all’uma-nità, perché abbiamo una storia, perché abbiamo ereditato e impa-rato la nostra condizione dai no-stri padri, perché in ultima analisi accettiamo la nostro provenienza. Una piramide come quella di Ma-slow ( che sostiene una serie di bisogni partendo dai primari a quelli di realizzazione) credo sia il miglior esempio di pregiudizio metafisico, proprio perché non si interroga sulla circostanza in cui si trova una persona, ma ritiene que-ste circostanze ininfluenti sulla re-altà metafisica del nostro bisogno. In quest’ottica l’appartenenza è una scelta rivolta alla soddisfazio-

ne di un bisogno universale. Ciò che non si considera è il fatto che quest’uomo astratto semplicemen-te non esiste, è una proiezione di desideri specifici che si rivolgono verso oggetti o situazioni che si presentano durante l’arco della vita. Lo scenario reale, e sempre particolare, è invece la persona storicamente determinata, caratte-rizzata da interessi, passioni, desi-deri che ha ereditato: la provenien-za è quindi il limite della nostra esistenza trattenuta dal ricordo, condizione del nostro appartenere.Il ricordo come traccia del passa-to, fin qui abbozzato, non signifi-ca comunque un uso mnemonico delle nostre conoscenze. Non è una questione riducibile alla memoria. Il ricordo è ben più profondo: co-stituisce la radice che ci lega alla nostra provenienza, sia che questo legame venga accettato sia che venga rifiutato in nome di un narci-sismo senza futuro. Lo smemorato di Memento è impossibilitato nel far uso della memoria, ma non per questo è lasciato alla deriva, disper-so nel suo presente. Egli produce un ricordo, un passionale attacca-mento a quel passato che, pur non riuscendo a rammemorare, riscrive sulle tracce che si lascia alle spalle, su quegli appunti che costituisco-no il fondamento del suo presente.E’ in questo senso che considero il ricordo una traccia del passato.

G. Giacobonio ad Aldum Manutium

jun. - 15/XII/1584

«..il mondo è guasto più che mai fusse;

li Cardinali, Prencipi, Si-gnori omnia in pecunia

ponunt;lettere non amano se non bancharie, et di cambio,queste han care, et chi di

esse è possessore:si che nihil eis nobiscum.»

...parole al vento...

Page 6: Charta Sporca numero 1 - novembre 2011

In questi ultimi mesi uno dei temi più delica-ti e dibattuti dall’opinione pubblica è stato quello riguardante la costruzione di impian-ti nucleari in Italia. Il referendum, raggiun-gendo il quorum( 57% i votanti), ha bloc-cato la proposta del governo, e così l’Italia dovrà fare ufficialmente a meno di tale energia.Ma qual è stata la motivazione che ha spin-to la popolazione a schierarsi massicciamente contro questi tipi di impianto? Il sentimento che più si è avvertito nell’aria è stato, soprat-

tutto, quello della paura, scaturito dai fatti re-centi, come l’incidente in Giappone di questo inverno, e da fatti passati, il dramma di Cher-nobyl. Quest’ultimo, come uno sfregio nelle nostre coscienze, ci ha lasciato, quasi come un monumento di quell’orrore, la città di Pripjat. Pripjat è diventata tristemente famosa per esse-re l’unica città fantasma d’Europa ( Chernobyl stessa ha comunque almeno quattrocento abi-tanti). A soli 3 km dalla centrale, la città era sta-ta costruita nel 1970 per far dimorare gli operai e i costruttori dell’impianto, i quali ,contando anche le famiglie, raggiunsero la cifra di 47.000 abitanti. Con due ospedali, un centro commer-ciale, due hotel, una piscina, un cinema e un tea-tro, era una città tra le più moderna dell’ex Urss, pur nella sua piccolezza. Il giorno del disastro la popolazione fu evacuata in fretta e in furia, costretta a lasciare tutti i propri beni nelle case, a causa del rischio delle radiazioni, e ad essa, fu fatto credere, che prima o poi, sarebbe potuta tornare a riprendere i propri averi. A distanza

di venticinque anni, tutto è ancora così come è stato lasciato: le macchine ferme in strada, la mobilia intonsa negli appartamenti, addirittura in alcune cucine vi sono le pentole sul fuoco della cena mai consumata: il tutto sullo sfondo di un Luna Park arrugginito, con la ruota pano-ramica che beffardamente si staglia nel cielo.Oggigiorno la zona è off limits, a causa del pericolo radiazioni, che a detta degli esperti spariranno del tutto tra circa mille anni. Gli ex abitanti possono andarvi solo il 9 maggio, an-niversario del disastro, accompagnati da una guida, che li porta a visitare i posti in cui sono cresciuti e dove ormai vi sono solo animali selvatici (persino orsi) che scorazzano liberi.Quando si parla dei vantaggi del nuclea-re, mi riferisco in particolar modo ai poli-tici, forse si dovrebbe fare prima un sem-plice click su google immagini e digitare Pripjat, per vedere il nostro prossimo futu-ro nel mondo del “vantaggioso” nucleare.

Per coloro ai quali, come il sottoscritto, sov-venga sovente l’insana ideuzza di anteporre aspirazioni di rinsavimento del mondo ai più morigerati, ludici quotidiani sollazzi, la Rete rappresenta una grande risorsa. Davvero. Un’overdose di disincanto per i più sinceri e indefettibili rivoluzionari contemporanei i quali, auspichiamo, sapranno stracciarsi an-zitempo le messianiche vesti, allorquando la Suddetta avrà infine rivelato loro per quale im-mensa manica di GEEK/NERD*** graveolen-ti e asessuati stiano essi sprecando le proprie esistenze: uno sterminato plotone di giovanotti dalla costola malandata, coloratissimi e ab-bronzati, pervicacemente inclini a ringalluz-zirsi mediante giochini dalla grondante eversi-vità, quali: “Clicca MI PIACE su Berlusconi Puzza” ; mezzi uomini per i quali è sufficiente apporre una firmetta sull’inutile petizione con-tro l’innalzamento dell’ennesimo iper – mega centro commerciale, per sentirsi sani, rilassati, ma soprattutto fieri d’aver contribuito al rim-pinguamento della Cassa di Risparmio dell’In-dignazione Popolare. E poi, tutti a irrorare il proprio rimarchevole senso civico di succu-lenti McFlurry d’annata. In un cambio di rotta rigoroso da parte della comunità responsabile e intellettualoide, a essere onesti, non ho mai riposto speme alcuna. Ma ora, visto il cemen-tificarsi di taluni aberranti scenari, non posso esimermi dal serbare una stima viepiù maggio-re ai figli d’introcchia nostrani, quelli del Boh Signoreggiante, delle sempiterne spallucce, del Me ne frego di default: loro, almeno, ogni tanto copulano. Voi, portabandiera della Democrazia (ah – ah), dell’attivismo del Web, della Poli-tica dal basso (ah –ah ³²), coi vostri spasimi chikkosamente radicali da incalliti grillisti, con le vostre pose variegate e provocanti, le vostre passioni (?) sciorinate a mo’ di elenco della spesa sulle vostre dirimenti piattaforme sociali, siete altresì scarsamente avveduti, poi-

ché le siete troppo avanti, della vostra comica arretratezza.Si prenda, quale mero esempio della stessa, Facebook (alias Esso), santuario del disimpe-gno relazionale nonché della socializzazione individualistica: Esso si palesò inizialmente preposto, oltre che alla devastazione del con-cetto di Amicizia, all’annullamento del com-plesso di inferiorità, comune alla maggior par-te degli individui, nella costituzione di tanto nuovi quanto fecondi rapporti interpersonali, specie quelli – giungiamo al nodal punto - vol-ti al soddisfacimento di una sessualità inedita nella sua stereotipata, meccanica, barbosa tra-sgressività. Orbene, laddove la tecnica degli innati Dongiovanni ha inventato in tale mezzo un’espansione infinitesimale della propria ef-ficacia, l’inettitudine che vi appartiene (a voi timbernersiani praticanti, s’intende) ha posto radici su di un terreno desolatamente arido. Ed ecco che, mentre per il playboy più consumato Esso permane ciò che fu in principio, ovvero – lo ribadiamo – utile strumento di cazzeggio volto all’agile rimedio di graziosi boccagli, nei polpastrelli del sobrio ragazzetto maldestro ma sensibile di questi Anni Zero Esso medesimo degenera, esondante, in canale di scolo delle collettive frustrazioni personali; catalizzando proteste, rimostranze, sollevazioni, appelli, i quali, imperscrutabilmente, non presentano ulteriori sbocchi se non quell’usuale, posticcia lassità orgogliosa che ogni atto saturo di pietas

Elogio dello scetticismo oltranzistadi Carlo Umberto Catetere

Uno specchio dal futurodi Luca Zampino

VI

c’insuffla nei polmoni. E poi un soffio di vento da dentro, a spazzare via, per un attimo, la miseria che siamo: uomini d’un marmo intaccabile dal più flebile afflato, assillati dalle quote di borsa e ossessionati dalle quote rosa.

Oh, già: la donna. Che dire di queste donne alla moda, cacciatrici, dominanti ed emancipate, che discorrono sboccate di tutto quanto appaia sin-tomatico dell’agguantata (presunta) parità con il sesso forte (?) ?Niente, se non che ripenso spesso ai passi pesanti, eppure innegabilmente femminili, che facevano trasalire Milton nel giardino di Fulvia, all’ombra del terzo ciliegio; al potere autentico di quegli stessi passi, magari miserrimi, certamente asse-verati eppure dignitosi nelle loro scarpe bucate, il cui logorìo, così dissimile dalle abbacinanti pia-nelle d’argento di questa donna nuova, smaschera alfine la grottesca discrepanza dei suoi passi quo-tidiani: sempre più giganti, sempre più impalpa-bili. Diafani. Come la speranza che vi sia, in quel che ho scritto, un sottile rivolo di senso.

*** Geek: individuo ambiguo, asociale e dal Q.I. ingannevole, incapace di qualsivoglia azione in-formatica complessa. Nerd: individuo ambiguo, asociale e dal Q.I. sommamente ingannevole, detiene ampie com-petenze informatiche atte a renderlo, ai suoi soli occhi, superiore al resto dell’Umanità. Inclusi i Geek.

Page 7: Charta Sporca numero 1 - novembre 2011

VII

In morte di Londra (e di una rivoluzione)di Lorenzo Natural

Quando un uomo è stanco di Lon-dra è stanco della vita, perché a Londra si trova tutto ciò che la vita può offrire. Queste le parole dello scrittore Samuel Johnson, quando l’Inghilterra si trovava nel bel mez-zo della Rivoluzione Industriale. Parole che ancora oggi gli amanti dell’ Old Smoke citano per esaltar-ne il fascino e la bellezza.Che si trovi di tutto, a Londra, in effetti, è vero.

A Piccadilly Circus lo spettacolo si era appena concluso: il balleri-no giamaicano – o perlomeno gia-maicana era l’identità che voleva attribuirsi – aveva già terminato il suo limbo estremo, ammaliando le dozzine di turisti infreddoliti stupi-ti dalle sue abilità contorsionisti-che. Dall’altra parte della strada, uno delle centinaia di Sub-Way stava accogliendo con il suo ca-ratteristico odore di curry e spe-zie gli ultimi barcollanti clienti in maniche di camicia, sebbene fosse già novembre inoltrato, sbronzi di pinte di birra vendute a 4£ al pub all’angolo. Nella piazza, un gruppo di ragazzini orientali stanziavano a semicerchio sulle scalette in pietra della fontana, sfoggiando piumini sgargianti e calzando scarpe Nike dai colori quantomeno improbabi-li.L’ultima immagine che mi è rima-sta impressa della City è questa: di british, oramai, ne resta ben poco e d’altronde non è che mi aspettassi granché di diverso.Spensieratezza, gioia, multicultu-ralismo, globalità: un condensato delle mille sfaccettature di una megalopoli sempre più capitale del mondo occidentale, alla pari di New York, dove le identità si intrecciano tra di loro avvinghian-dosi, fino quasi a soffocarsi l’un l’altra, e sempre meno “città”.Di mesi, da quel giorno di novem-bre, ne sono passati. Eppure la do-manda che mi ronzava nella testa

è la medesima che mi pongo oggi: quanto durerà tutto ciò?La risposta non ha dovuto attende-re molto. Già allora lo sfavillio dei maxi-schermi pubblicitari di Pic-cadilly contrastava con le fiamme scaturite dalle molotov artigianali lanciate dagli studenti inglesi, in-dignados dal triplice rincaro delle rette universitarie. Niente di tanto diverso da ciò che accadeva qui in Italia poco fa: una generazione intera allo sbaraglio più totale, in bilico sul proprio presente e spinta dal passato in un futuro melmoso.Ma – mi si permetta l’incipit con una congiunzione avversativa – se a Londra in piazza a scendere era chi tremila sterline le sborsava co-munque, prima che diventassero novemila, era dalle periferie che le eco dei “tamburi di guerra” si sen-tivano più forte: Tottenham, East London, Isle of the Dog non sono proprio la Notthing Hill di Hugh Grant e Julia Roberts; lì la gente è scontrosa, ruvida, ti squadra, ti os-serva, ma è tua alleata se dimostri rispetto e lealtà. Lungi da me fare il panegirico moraleggiante della “bella povertà”, ma spesso queste periferie hanno delle leggi proprie, per alcuni violente e becere, per altri rudi, ma oneste, e non nego di propendere più per questa opi-nione.Devo confessarvi che non appena sentii il fragore delle bombe che esplodevano a Nord di Londra, mi si stampò sulla faccia un ghingo sadico, compiaciuto dal rumore degli scricchiolii del sistema che crollava su se stesso e dal puro godimento che avrei provato nel rinfacciare ad amici e parenti un bel “Ve l’avevo detto, io..”. Crede-vo, infatti, che questa non fosse la solita rivoluzione verdegiallovio-labianconerablù nata su FaceBook e rinvigortita dalle mailing lists; l’alienazione e la disillusione sfo-ciata nel nichilismo suburbano del-le grandi città inglesi come Man-

chester, Sheffield, Birmingham, Bristol, nate con la Rivoluzione Industriale e le prime mushrooms town, e sviluppatesi fino al gover-no Thatcher, stavano riaffiorando una generazione rabbiosa e stanca di essere tenuta a bada da qualche promessa politica.

Tutto falso.A scendere in strada non erano l’operaio in cerca di giustizia socia-le, lo studente medio che rivendi-cava una nuova scuola, l’impiegato stanco di una vita passata nella City tra i meandri di un sistema classista e a compartimenti stagni. Nulla di tutto questo: nata per vendicare la morte di uno spacciatore freddato dalla polizia in uno scontro a fuo-co, questa rivolta degenerò subito in un vortice di violenza e rabbia, sicuramente innescato da un ma-lessere esistenziale, specialmente di quei giovani immigrati di secon-da e terza generazione in cerca di un non ben precisato “riscatto”.La tristezza nel vedere ragazzi de-diti al saccheggio dei grandi marchi multinazionali, Nike, Apple, Sony, per citarne alcuni, allo sciacallag-gio di bar e pub, per non parlare de-gli scippi ai danni di giovani feriti a terra, è l’emblema del miserevole stato in cui è caduto l’Occidente materialista e neoliberista, nonché la triste constatazione di come que-sto pensiero abbia attecchito radi-calmente nelle menti dei giovani europei. La spirale di violenza e rincorsa al furto del bene di consumo è riuscita nell’intento di unire bianchi e neri, poveri e meno poveri, occupati e disoccupati, fieri di sentirsi per qualche giorno un po’ più membri della middle class d’oltremanica, classe determinata inevitabilmen-te dal possesso di questi oggetti, elevati al rango di status symbol e sintomi di benessere economico e sociale.

Se si volessero indicare i motivi e le contingenze storico-sociali che hanno portato a questo appiatti-mento umano non basterebbero decine di manuali e ricerche dei migliori studiosi. La sintesi che si può trarne è che l’illusione di po-ter ambire a elevarsi di rango, in una società fortemente classista come quella inglese, dove ognu-no occupa un ruolo ben definito, è inevitabilmente figlia di una men-talità materialista, che pone il bene economico sopra a ogni esigenza comunitaria, che ha trovato forte spazio di manovra in tutta Europa,

esaltandosi nelle grandi metropo-li. Basta passeggiare tra Carnaby Street e Regen Street per rendersi conto della miriade di grandi cate-ne multinazionali, dai fast food ai negozi di elettronica, dai negozi di vestiti alle gioiellerie: paradigmi di una globalizzazione delle merci e di un appiattimento culturale che hanno distrutto le identità locali e culturali nel nome di un’unica grande identità, dove il ballerino giamaicano, il ragazzino giappo-nese, l’indiano che lavora nel fast food e l’impiegato di Chelsea sono parte di un medesimo grande vil-laggio, che più che un melting pot assomiglia a quei piatti che si pre-parano la domenica sera quando non si ha voglia di cucinare, fre-gandosene se i fagioli, i gamberetti e il formaggio si prestino o meno a assere consumati in un unico boc-cone. Colpevolizzare il sistema, signifi-ca anche colpevolizzare noi stessi, parte integrante di questo meccani-smo che non accetta più le diver-sità, in nome di un’uguaglianza ecunemica che abbraccia Gesù Cri-sto, Marx e von Hayek allo stesso tempo, dove Londra non rappre-senta che la punta di un iceberg alla deriva, diretto verso un mondo che, volendo citare Massimo Fini – sebbene in un contesto diverso – ha guadagnato in estensione, ma ha perso molto (se non tutto, aggiun-gerei) in profondità.

E non me ne voglia Samuel John-son se a ventidue anni, per nulla stufo della vita, mi sento terribil-mente stanco di Londra, delle Lon-dre…

Charles Bukowski

«La differenza tra Democrazia e Ditta-tura è che in Demo-crazia prima si vota e poi si prendono gli ordini, in Dittatura non dobbiamo nep-pure sprecare tempo andando a votare.»

...parole al vento...

Page 8: Charta Sporca numero 1 - novembre 2011

Stefano Tieri: L’uomo e la na-tura: che diritti ha il primo sulla seconda? L’intelletto umano può porsi al di sopra di essa, plasmar-la a suo piacimento? Le “grandi opere”, ad oggi, si sprecano: si pensi al TAV Torino-Lione, o al ponte sullo stretto di Messina, per rimanere ad esempi italiani. In che misura questo “progresso” migliora la vita degli uomini? E quanto viene, invece, irrimediabil-mente perduto? Citerò, a proposi-to, le parole di Fedor Dostoevskij: «non tentate di intimorirmi con il vostro benessere, le vostre ricchez-ze, la rarità delle carestie e la ve-locità dei mezzi di comunicazione! Le ricchezze sono aumentate, ma le forze sono diminuite. Non c’è più una forza che diriga il pensiero: tutto si è rammollito, tutto e tutti sanno di marcio» (l’Idiota, 1869).

Maximiliano Cappellina: L’uo-mo non ha diritti, la natura non dà concessioni. La natura è una mera convenzione sociale, da sempre come termine è stato usato per de-finirla come un insieme sottomesso all’uomo, bacino di risorse illimi-tato. La conferma ci arriva, oltre che dai disastri ecologici dell’indu-strializzazione, anche dalla nuova ideologia “eco-capitalista” ugual-mente legata al profitto e al gran-de dio Mercato (basti pensare al green marketing di molte aziende come l’Eni, che di green ha solo il colore nei loghi pubblicitari), forse ultimo soffio vitale di un percorso nato molto tempo prima, che ha radici proprio nella dinamica uo-mo-natura. Questo meccanismo di sottomissione della seconda, prima terminologico poi effettivo, può essere ben riassunto e illustrato da questa frase: «Il dominio dell’uo-mo sulla natura è originariamente causato dal dominio reale dell’uo-mo sull’uomo» (M.Bookchin, “Ecologia della Libertà”). È quin-di nella liberazione dell’uomo dai rapporti gerarchici una possibile soluzione al disastro ecologico (dal greco oikos=casa, ambiente –

logos=linguaggio, parola) ed eco-nomico (sempre dal greco oikos – nomos=leggi, regole), liberazione che porti anche ad un’armonia tra l’uomo e la natura?

Stefano: Hai riportato l’etimolo-gia greca delle parole “ecologia” ed “economia”, fai bene: la cultura greca non può che essere un pun-to di partenza per questo discorso. Platone, padre del pensiero occi-dentale, disprezzava la tecnologia; sul frontespizio dell’oracolo di Delfi era riportata la celebre mas-sima “nulla di troppo”; il concetto di hybris (“tracotanza”, “eccesso”) e il rispetto dei limiti proprî della natura umana ha permeato tutto il mondo ellenico, fino a riflettersi nelle opere teatrali giunteci. Tutto ciò lo ritroviamo totalmente capovolto più di 2000 anni dopo, nel riduzionismo. Personalmen-te individuerei proprio in questa corrente di pensiero, conseguenza della rivoluzione scientifica del XVII secolo, l’errata impostazio-ne del rapporto uomo-natura: sia all’interno del proprio stesso cor-po (nella medicina positivista), sia rispetto alla realtà esterna (con in-terventi invasivi verso l’ambiente naturale).A tuo avviso le dinamiche di pote-re che hanno permesso all’uomo di imporsi sulla natura risiederebbero nella gerarchia tra gli uomini. Farò un passo ulteriore, coinvolgendo la linguistica: è lo stesso concetto di “natura” ad essere gravido di questo potere gerarchico. Nel suo stesso affermarsi identifica infatti anche cos’è “contro natura”, allo stesso modo in cui il normale ghet-tizza l’anormale. Come si esce da questo paradosso?

Maximiliano: Ciò che è “natu-rale” e ciò che è “contro-natura”, “innaturale”, è puramente prodot-to dell’uomo, ovvero è un nostro “derivato”. L’uomo si sente sicuro nel definire, giudicare, un aspetto o una condizione che incontra nel-la sua vita secondo due parametri

principali, a cui si legano numero-si aggettivi, così, ad esempio: una persona che viene giudicata “folle” per via di certi suoi comportamenti che appaiono strani, diviene l’in-cipit di una classificazione tra ciò che è secondo o contro natura. Poi spesso capita che una conoscenza più prossima del personaggio che precedentemente si è modellato in tal modo (folle quindi contro-na-tura), si sveli nella sua profondità, fino alla nascita di un’amicizia, ov-vero il linguaggio diviene comune, una koiné, si fonde. E tramite la co-noscenza dell’altro, che si potreb-be estendere quindi all’ambiente che ci circonda, potrebbe divenire una base per un rapporto armonico, non-gerarchico con la natura stessa.

Stefano: provo a riflettere sulla na-tura di questo linguaggio “comu-ne”, perché è chiaro che alla base di ogni rapporto gerarchico sta – come hai osservato – il linguaggio stesso, strutturato sulle esperienze (non prive di pregiudizi e giudizi) del genere umano. È evidente che dovrà essere un punto di incontro fra linguaggi diversi, poiché ognu-no possiede un proprio linguaggio (sebbene la contemporanea ten-denza sia quella dell’appiattimento sulla totale mancanza di profondità comunicativa). Ma allo stesso tem-po non credo che il perno di questo incontro sia da collocare nel punto mediano fra i differenti linguaggi: dovrà invece valorizzare la diver-sità, dovrà saper vedere quanto di più positivo e genuino sia possibile cogliere nel contatto con il “fol-le”. Quest’incontro dovrà quindi giocarsi sulla continua messa in discussione del proprio linguaggio, per raggiungere quella conoscenza diversificata e “plurale” possibile solo in questo particolare (e non poco problematico) punto di con-tatto.

Maximiliano: Mi trovo d’accordo con te sul fatto che non deve essere un punto medio il punto di contat-to, ma appunto ciò che annulla le

distanze, le diversità che divengo-no simbiotiche. Non sarà la ricer-ca di un equilibrio a salvarci, nè l’ennesimo messianico Savonarola o Mussolini di turno, ma l’ascolto dell’altro, come si ascolta il vento, come ci si bagna inevitabilmente sotto la pioggia. Come è necessario il sole, il calore, l’energia, un fon-dersi con essa di cui siamo fatti e di cui tutto è fatto, solo da questo pun-to di partenza, egualitario, si potrà discutere di un futuro, ma anche di un presente valido. Invece gli argini di cemento aumentano sem-pre di più, intorno, il cemento non parla, non ha un linguaggio, non sa ascoltare, è un immenso collante rigido, il dogma del profitto (senza dilungarsi in esempi vari riguardo ai cementifici e alla loro tossicità e nocività) che incolla il dominio dell’Uomo sulla Natura. Ma a che prezzo? La voracità dell’uomo (oc-cidentale in primis) è arrivata a tal punto che un’autoestinzione sem-bra la strada – il linguaggio – che stiamo percorrendo.

Direttore Responsabile: Stefano Tieri

Impaginazione e grafica: Alberto Zanardo

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per contattarci:[email protected]

IIIV

ScontrPennetra

Tra uomo e natura

sfida a colpi d’ inchiostro