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1 ECONOMIA DELLA PRODUZIONE” “Perché a un certo punto il Veneto si è trasformato da una regione che esportava lavoro a una regione di immigrazione? Spiegare il fenomeno fornendo idonei apporti statistici.” EMIGRAZIONE ITALIANA E VENETA Nel secolo successivo al 1880, centinaia di migliaia di persone hanno lasciato le regioni dell’Italia orientale per cercare migliore fortuna nelle altre regioni italiane, in Europa e specialmente nel nuovo mondo. Di conseguenza, molte persone nate nel Nord Est hanno trascorso buona parte della loro vita altrove. Nel 1971, il 24% dei nati nel Nord Est viventi in Italia (1 milione e 600 mila persone ) risiedevano in altre regioni italiane. A titolo comparativo, sempre nel 1971 solo il 4% dei nati nelle regioni del Triangolo Industriale risiedeva in un’altra regione italiana. È possibile individuare almeno tre cause profonde di questo continuo e intenso deflusso migratorio: la povertà di massa, accentuata dalla crisi agraria di fine ‘800 e dalla debolezza strutturale dell’economia veneta e trentina post unitaria; la sovrabbondanza di forza lavoro, legata soprattutto alla diminuzione ottocentesca della mortalità infantile, non accompagnata, fino alla prima guerra mondiale, da un parallelo declino della fecondità; la forte richiesta di manodopera, espressa dalle regioni esterne al Nord Est, specialmente Brasile e Argentina negli ultimi decenni dell’800, poi Stati Uniti, Europa, Australia, paesi dell’Europa Centrale e Settentrionale e regioni del Triangolo Industriale. Figura 1. Migrazione storica nel periodo 1869-1918. Nel grafico viene disegnato, sullo sfondo di una popolazione residente in aumento (espressa in istogrammi), il fenomeno dell’emigrazione quantificato come un numero degli espatri in percentuale della popolazione. Si vede la continua crescita degli espatri, interrotta solo dalla prima guerra mondiale. Nei primi anni del secondo dopoguerra, l’emigrazione viene ancora indicata come una scelta obbligata per combattere la disoccupazione nel Veneto e in Italia, sia da parte dei governi che dell’opinione pubblica. Con il senno di poi, possiamo dire che le emigrazioni di massa sono state un volano per lo sviluppo: hanno permesso di allentare la pressione della popolazione sulle risorse (alta pressione demografica e disoccupazione) e hanno finanziato direttamente l’economia del Nord Est, grazie alle rimesse degli emigranti, rappresentando così un contributo importate per l’equilibrio della bilancia dei pagamenti visto che l’Italia povera di materie prime deve importarle dall’estero;

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“ECONOMIA DELLA PRODUZIONE”

“Perché a un certo punto il Veneto si è trasformato da una regione che esportava lavoro a una

regione di immigrazione? Spiegare il fenomeno fornendo idonei apporti statistici.”

EMIGRAZIONE ITALIANA E VENETA

Nel secolo successivo al 1880, centinaia di migliaia di persone hanno lasciato le regioni dell’Italia

orientale per cercare migliore fortuna nelle altre regioni italiane, in Europa e specialmente nel

nuovo mondo. Di conseguenza, molte persone nate nel Nord Est hanno trascorso buona parte

della loro vita altrove. Nel 1971, il 24% dei nati nel Nord Est viventi in Italia (1 milione e 600 mila

persone ) risiedevano in altre regioni italiane. A titolo comparativo, sempre nel 1971 solo il 4% dei

nati nelle regioni del Triangolo Industriale risiedeva in un’altra regione italiana.

È possibile individuare almeno tre cause profonde di questo continuo e intenso deflusso

migratorio: la povertà di massa, accentuata dalla crisi agraria di fine ‘800 e dalla debolezza

strutturale dell’economia veneta e trentina post unitaria; la sovrabbondanza di forza lavoro, legata

soprattutto alla diminuzione ottocentesca della mortalità infantile, non accompagnata, fino alla

prima guerra mondiale, da un parallelo declino della fecondità; la forte richiesta di manodopera,

espressa dalle regioni esterne al Nord Est, specialmente Brasile e Argentina negli ultimi decenni

dell’800, poi Stati Uniti, Europa, Australia, paesi dell’Europa Centrale e Settentrionale e regioni del

Triangolo Industriale.

Figura 1. Migrazione storica nel periodo

1869-1918.

Nel grafico viene disegnato, sullo sfondo di

una popolazione residente in aumento

(espressa in istogrammi), il fenomeno

dell’emigrazione quantificato come un

numero degli espatri in percentuale della

popolazione.

Si vede la continua crescita degli espatri,

interrotta solo dalla prima guerra mondiale.

Nei primi anni del secondo

dopoguerra, l’emigrazione viene ancora indicata come una scelta obbligata per combattere la

disoccupazione nel

Veneto e in Italia, sia da parte dei governi che dell’opinione pubblica.

Con il senno di poi, possiamo dire che le emigrazioni di massa sono state un volano per lo

sviluppo: hanno permesso di allentare la pressione della popolazione sulle risorse (alta pressione

demografica e disoccupazione) e hanno finanziato direttamente l’economia del Nord Est, grazie

alle rimesse degli emigranti, rappresentando così un contributo importate per l’equilibrio della

bilancia dei pagamenti visto che l’Italia povera di materie prime deve importarle dall’estero;

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indirettamente, la circolazione delle idee e delle abilità professionali rese possibili dagli scambi

migratori ha contribuito a modellare e accelerare lo sviluppo artigianale e industriale (Castiglioni e

Dalla Zuanna, 2002).

LA SVOLTA MIGRATORIA

Già dagli anni Settanta l’Italia ha smesso di registrare un’emigrazione netta. Da questi anni la

realtà sociale delle tre Venezie si trasforma da società di emigrazione a polo di attrazione

dell'immigrazione: il progressivo sviluppo economico soprattutto di piccola e media industria offre

posti di lavoro. Le medesime tre cause profonde delle migrazioni caratterizzano anche l’attuale

momento storico, ma la

posizione del Veneto (e di tutta

l’Italia Centrale e

Settentrionale) è cambiata: la

povertà di massa e la

sovrabbondanza di forza lavoro

caratterizzano i paesi situati a

Est e a Sud dell’Europa, mentre

una forte richiesta di

manodopera è espressa sia

dalle famiglie che dalle imprese

italiane.

Inizialmente l'immigrazione arriva soprattutto dall’ex Jugoslavia, le associazioni degli industriali

incitano ad assumere personale dell'Europa dell'est più che manodopera africana, ma presto

viste le necessità delle aziende arrivano anche immigrati africani. Alla fine degli anni 70, la

presenza di africani deriva da spostamenti interni alla penisola. Gli immigrati sono qui impiegati

nei lavori più pericolosi o nocivi: nella metalmeccanica più "sporca", nell'industria conciaria, o

nell'edilizia, ma anche donne nella verniciatura e lucidatura dei mobili.

Dopo gli anni '80 un'economia in espansione fa sì che le richieste di manodopera aumentino, e

attraverso la "catena migratoria" iniziano ad arrivare folti gruppi nazionali richiamati dalle

opportunità di lavoro e dall'appoggio dei connazionali; lavorano in gran numero nelle concerie del

vicentino, nelle aziende di lavorazione marmi del veronese, nelle industrie metalmeccaniche del

padovano e trevigiano.

LO SVILUPPO INDUSTRIALE

Figura 2. La quota dell'occupazione totale nei distretti sul totale dell'occupazione nazionale, per distretto e per anno (in

percentuale).

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0,0 0,5 1,0 1,5 2,0 2,5 3,0 3,5 4,0 4,5 Aumento % annuo del reddito a prezzi costanti (91-99)

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Piccole e medie imprese si addensano localmente nei cosiddetti distretti

industriali, all’interno del quale si svolgono tutte le fasi della filiera. Sono in parte effetto della

politica di decentramento delle grandi imprese per sottrarsi alla conflittualità del sindacato, ed in

parte la risposta ad una evoluzione della domanda interna e mondiale in alcuni comparti specifici

verso la diversificazione e personalizzazione del prodotto (Nardozzi, 2004). La crescita della

piccola impresa è stata quantitativamente superiore a quanto si potrebbe dedurre considerando il

dato medio dell’occupazione distrettuale, perché essa ha riempito il posto in precedenza tenuto

dalle grandi fabbriche, dall’altro è stata qualitativamente diversa da quanto è avvenuto in altre

regioni della terza Italia, perché i legami con la grande fabbrica ne hanno variamente condizionato

lo sviluppo. Molte piccole imprese, infatti, operano o hanno operato come fornitrici o subfornitrici

di imprese medie e grandi.

SOSTENERE LO SVILUPPO

Ai nuovi imprenditori italiani che nei decenni post ‘70 si affermano sui mercati mondiali per la loro

intraprendenza produttiva e commerciale e specialmente per i bassi costi che la Lira debole

permette non si offrono altre alternative se non di farsi largo nei settori a bassa intensità di

capitale e tecnologia lasciati progressivamente liberi dai paesi europei.

Come si nota dai dati occupazionali, la crescita dell’industria è dovuta principalmente a quella

cosiddetta “leggera” condotta dal basso da migliaia di piccole imprese, che, col limite delle

dimensioni e dei problemi storici della nostra economia (inflazione e svalutazione), vedono il

progressivo abbandono di settori produttivi nei quali è intensa l'attività di ricerca e sviluppo di

nuovi prodotti. Il risultato è che le imprese venete stimolano un mercato del lavoro che diviene

affamato di manodopera. Nel corso degli ultimi anni del ‘900 la popolazione straniera residente

nel Centro e Nord Italia è aumentata a ritmi crescenti. L’analisi dei dati demografici conferma che

questa accelerazione può essere dovuta dalla forza di attrazione di tale mercato: le imprese di

fase si caratterizzano per lo sfruttamento di questo particolare segmento dell’offerta di lavoro, gli

extracomunitari.

Figura 3.

Incremento del reddito e

saldo migratorio nelle

province del Veneto nel

corso degli anni ’90.

Fonti: elaborazioni dai siti

demo.istat.it e

www.tagliacarne.it.

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Come si vede nel grafico in figura 3, esiste una chiara e forte relazione positiva fra l’incremento

del reddito e il saldo migratorio. Le province più dinamiche dal punto di vista economico sono

anche quelle che maggiormente attraggono popolazione, che si tratta in larga misura di nuovi

cittadini stranieri. Al contrario, dove lo sviluppo è meno vivace, anche il saldo migratorio è più

moderato. Ormai nei primi anni 2000 in Veneto i disoccupati sono pochissimi, e ciò spiega cosa

sta dietro a questo fenomeno. Inoltre, anche se gran parte delle attività economiche in cui

vengono coinvolti gli stranieri sono ad alta intensità di lavoro, si tratta spesso di lavori in cui non è

facile aumentare rapidamente la produttività. Quindi, se si vuole espandere la produzione o se si

vuole soddisfare la domanda di servizi alle persone, è necessario ricorrere a lavoratori esterni alla

regione. In Veneto, nel periodo 1997-99, il reddito è aumentato del 2,1% l’anno, mentre il saldo

migratorio è stato di +21.000 persone l’anno. Pertanto ogni anno per aumentare il reddito dell’1%,

sono stati necessari 10.000 immigrati in più.

Ma non si tratta solo di garantire un’ulteriore espansione economica. È un problema di

sopravvivenza di un intero sistema industriale. Nel prossimo ventennio “sparirà” un milione di

abitanti del Nord Est di età 25-44 (ISTAT, 2005). L’attuale leva di lavoratori giovani, figlia del baby

boom degli anni 1955-75, verrà sostituita dalle ben più striminzite e più scolarizzate leve nate

negli anni 1975-95.

CONCLUSIONI

È possibile dire che senza le immigrazioni tutto il modello di produzione (e di vita) del Nord Est è

seriamente a rischio. Qualsiasi imprenditore di buon senso sa che è impossibile spostare tutto il

“lavoro sporco” in Romania, ad esempio. L’economia dei distretti industriali e delle piccole

imprese “a rete”, il motore del modello produttivo veneto, vive anche delle contiguità territoriali,

delle micro innovazioni e delle economie di scala garantite dalle interazioni giornaliere fra i diversi

operatori.

Gli imprenditori sono consapevoli dell’impossibilità di mantenere senza l’apporto migratorio quello

stile di lavoro e d’impresa che ha caratterizzato il riscatto del Veneto degli ultimi tre decenni e che

continua a rappresentarne l’essenza fondamentale dello sviluppo. Una consapevolezza che

riconosce di essere al centro di una parte importante dello sviluppo economico del Paese, ma che

contemporaneamente è ai margini della scala del prestigio sociale e della produzione culturale.

Senza veli e ipocrisie sono, infatti, le diagnosi dei motivi che hanno portato alla creazione di un

panorama territoriale con “tante fabbriche e pochi operai” autoctoni, del disagio che accompagna

il lavoro in fabbrica dei giovani italiani, dei loro stessi figli, della scarsa attrazione che riservano

molti lavori manuali. Cresce la necessità di coinvolgere sempre più manodopera immigrata

interessata a lavorare a queste condizioni. Condizioni dure, ma che possono offrire, a volte, un

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percorso di carriera operaia interno, che possono portare a contrattazioni al rialzo dei salari e di

aspetti non economici d’interesse dei nuovi lavoratori.

Azioni quotidiane orientate su aspetti extrasalariali che hanno lo scopo, da un lato di superare le

difficoltà d’inserimento nell’impresa e dall’altro tendono a creare legami non solo economici tra

l’azienda e il lavoratore, perché il primo si senta più vincolato a rimanere nell’impresa stessa,

abbassando il livello di mobilità tra impresa e impresa che costituisce uno dei problemi più sentiti

nelle aziende che occupano lavoratori immigrati (Belotti, 2003).

BIBLIOGRAFIA

Belotti V., 2003, “Integrazione, le sfide e le idee”, www.fondazionenordest.net

Castiglioni M. e G. Dalla Zuanna, 2002, “Immigrazioni di stranieri”, www.fondazionenordest.net

Nardozzi G., 2004, Miracolo e declino, Laterza, Bari.

www.istat.it