Charta Sporca numero 2

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NUMERO II - DICEMBRE 2011 Lilligrafia Provocazione di Stefano Tieri Trentasei anni fa moriva Pier Paolo Pasolini: difficile ricordare in poche righe un uomo come lui. Impossibile addomesticarlo, specie prendendo in considerazione ogni sfaccettatura del suo pensiero. Forse perché, se un caposaldo è possibile afferrare tra le righe dei suoi scritti, questo è la volontà di “provocare”, unica strada da percorrere se si vuole smuovere l’adagiamento passivo sulle proprie convinzioni (e vedremo poi quali convinzioni) che ha avvelenato la «maggioranza» degli uomini. Sul Corsera del 19 gennaio 1975, in un articolo intitolato “sono contro l’aborto”, scriveva: «la maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo». Si tratta di una violenza, mascherata e ipocrita, particolarmente diabolica in un’era che si stava lasciando indirizzare verso un sistema culturale radicalmente assoggettato alle logiche di mercato e di consumo, dentro cui – oggi – siamo totalmente immersi: a portare ognuno per mano (e quindi tutti, nella solitudine delle loro stanze) la televisione, allora nuovo medium di massa. In un saggio del 1966 dal titolo esaustivo (“Contro la televisione”) Pasolini denunciava: «il video è una terribile gabbia che tiene prigioniera dell’Opinione Pubblica servilmente servita per ottenere il totale servilismo – l’intera classe dirigente italiana». Non solo la classe dirigente: questo sadico gioco di schiavitù, che ha visto inizialmente i “controllori” imporre (tramite le ferree regole dell’audience) i palinsesti, ha visto poi distruggere questa capacità di scelta, a causa delle stesse modalità tramite cui quel “potere” era nato (l’audience, appunto): tutti i “prodotti” – che, per definizione, devono essere vendibili e accattivanti – vengono ad assomigliarsi, a diventare uguali. Eccoci arrivati, direbbe Tocqueville, alla «dittatura della maggioranza»: un unico e indiscusso ideale (paradossalmente proprio quel liberalismo abbracciato da Tocqueville), un solo credo (il dio I Denaro, e di conseguenza il vice-dio Mercato), un grande mito (quello delle «magnifiche sorti e progressive»). Pasolini, in una lettera a Italo Calvino su “Paese Sera” dell’8 luglio 1974, confrontando la vita contadina e quella «piccolo-borghese», scriveva: «è questo illimitato mondo contadino pre-nazionale e pre-industriale […] che io rimpiango». E poi: «Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro», bensì «un’età del pane»: «erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria viva. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita». (prosegue a pagina II) Nuovo concorso di Charta Sporca: trova un senso a questa foto! Come premio 50 azioni del nostro titolo acquistabili a prezzo agevolato nelle più oneste banche d'Italia

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Charta Sporca numero 2

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NUMERO II - DICEMBRE 2011

Lilligrafia

Provocazionedi Stefano Tieri

Trentasei anni fa moriva Pier Paolo Pasolini: difficile ricordare in poche righe un uomo come lui. Impossibile addomesticarlo, specie prendendo in considerazione ogni sfaccettatura del suo pensiero. Forse perché, se un caposaldo è possibile afferrare tra le righe dei suoi scritti, questo è la volontà di “provocare”, unica strada da percorrere se si vuole smuovere l’adagiamento passivo sulle proprie convinzioni (e vedremo poi quali convinzioni) che ha avvelenato la «maggioranza» degli uomini.Sul Corsera del 19 gennaio 1975, in un articolo intitolato “sono contro l’aborto”, scriveva: «la maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo». Si tratta di una violenza, mascherata e ipocrita, particolarmente diabolica in un’era che si stava lasciando indirizzare verso un sistema culturale radicalmente assoggettato alle logiche di mercato e di consumo, dentro cui – oggi – siamo totalmente immersi: a portare ognuno per mano (e quindi tutti, nella solitudine delle loro stanze) la televisione, allora nuovo medium di massa. In un saggio del 1966 dal titolo esaustivo (“Contro la televisione”) Pasolini denunciava: «il video è una terribile gabbia che tiene prigioniera dell’Opinione Pubblica – servilmente servita per ottenere il totale servilismo – l’intera classe dirigente italiana». Non solo la classe dirigente: questo sadico gioco di schiavitù, che ha visto inizialmente i “controllori” imporre (tramite le ferree regole dell’audience) i palinsesti, ha visto poi distruggere questa capacità di scelta, a causa delle stesse modalità tramite cui quel “potere” era nato (l’audience, appunto): tutti i “prodotti” – che, per definizione, devono essere vendibili e accattivanti – vengono ad assomigliarsi, a diventare uguali.Eccoci arrivati, direbbe Tocqueville, alla «dittatura della maggioranza»: un unico e indiscusso ideale (paradossalmente proprio quel liberalismo abbracciato da Tocqueville), un solo credo (il dio

I

Denaro, e di conseguenza il vice-dio Mercato), un grande mito (quello delle «magnifiche sorti e progressive»). Pasolini, in una lettera a Italo Calvino su “Paese Sera” dell’8 luglio 1974, confrontando la vita contadina e quella «piccolo-borghese», scriveva: «è questo illimitato mondo contadino pre-nazionale e pre-industriale […] che io rimpiango». E poi: «Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro», bensì «un’età del pane»: «erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria viva. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita».

(prosegue a pagina II)

Nuovo concorso di Charta Sporca: trova un senso a questa foto! Come premio 50 azioni del nostro titolo acquistabili a prezzo agevolato nelle più oneste banche d'Italia

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II

È caduto. L’imperatore, il re, il tiranno, il mo-narca, il dittatore, o semplicemente il presidente del consiglio, Berlusconi, ha cessato di esistere. Ma se c’è qualcuno che crede che questa sia la fine di un’epoca di sofferenze, di soppressioni della Democrazia, o quant’altro, si illude: la li-bertà ci è stata tolta ben prima degli eventi del secondo dopoguerra, ben prima della nascita delle dittature del primo Novecento, ma bensì al sorgere degli stati nazionali, che invece di basa-re la propria forza sulla Democrazia, si sono ab-bandonati alla facilmente applicabile, ma altret-tanto facilmente fuorviante via della “tirannia della maggioranza”. Già ne parlava il sociologo Tocqueville, ma vorrei riesumare questa formu-la per riportare alla luce alcuni avvenimenti che hanno deluso l’intera popolazione proprio nel momento in cui si credeva più potente.Il cavaliere è sceso dal cavallo, un altro coman-dante è salito. È davvero questa la democrazia che tanto vogliamo sentire nostra, con la quale ogni mattina dovremmo svegliarci e gridare al mondo la nostra malconquistata libertà? O pos-siamo soltanto disperarci, lamentarci, distrug-gerci in un mondo politico che non si cura che di cose superflue, invece che di quelle necessa-rie. E mentre i programmi politici non variano che di poche virgole in termini generali, l’intera popolazione si divide in fazioni che combattono

per inutilità separatorie quali nazionalità, reli-gione, diritti e dovere di omosessuali e clande-stini: tutte cose importanti, ma non necessarie, di cui uno stato che vuole chiamarsi Repubblica (da Res Publica – cosa comune) non dovrebbe nemmeno occuparsi, in quanto le materie sopra-citate non sono che divisioni extra-partes.Quindi, non posso che dire: fermi, aspettate un attimo, pensiamoci su. È questa Democrazia? O è solo tirannia della maggioranza, che sfruttan-do i temi che più dividono le persone, cavalca l’onda del potere in un’orgia sfrenata di desideri di cupidigia celata da storti sorrisi e false pro-messe di vana speranza?Questa dittatura instaurata da chi detiene il 50% più uno dei deputati parlamentari non è che una maschera, un’illusione che non permette all’individuo creativo, al libero pensatore, di esprimersi e di dar vita alle proprie idee e così illuminare il resto del mondo, perché non riesce a condividere il proprio pensiero con una larga maggioranza di ignoranti. Pensateci un po’: tutti i grandi pensatori che il mondo ha donato, in una democrazia rappresentativa di maggioranza semplice, non avrebbero potuto esprimersi, per-ché il loro modo di vedere le cose non sarebbe stato condiviso. Un Einstein oggi non avrebbe che un povero parlamentare del gruppo misto senza voce in capitolo, perché più si abbassa lo

standard intellettuale e filosofico, più si hanno numeri per ottenere la maggioranza.L’addio di Berlusconi ci faccia da lezione. Mor-to un papa, se ne fa un altro, ma abbiamo davve-ro bisogno di avere un papa? Nel farci coman-dare, siamo certi di poterci sentire veramente realizzati?Più una società è vasta e più persone ci sono, più si ha bisogno di una democrazia diretta, e credo che proprio ai giorni nostri, con l’uso dell’in-formazione immediata, miglioreremo non solo il nostro futuro (quel mito che non è che un cassetto chiuso di illusioni fallite), ma il nostro presente, e finalmente daremo sfogo alla nostra creatività, tratto che ci rende umani più di ogni altra cosa.Solo così la tirannia della maggioranza cesserà di esistere, e potremo parlare di Democrazia e Libertà, laddove più l’uomo, con l’uso della ra-gione e dell’intelletto, tramite l’infallibilità del-la scienza, potrà trascendere le divisioni faziose di destra e sinistra, di ateismo e religione, di co-munitarietà ed extracomunitarietà, e quant’altro ancora, per volgersi verso ciò per cui è al mon-do: vivere in armonia con gli altri, con se stesso, e con la natura.Perché cosa sono gli ideali, il patriottismo, le grandi mete, il capitalismo, quando si dimentica l’essenziale: senza vivere, la vita è un male.

Una buona occasionedi Ivan Pavlov

Questo duemilaundici ha visto sorgere spontanee proteste in ogni parte del mondo, proteste tipi-camente occidentali, ma fino ad un certo punto.Il senso comune di un po’ tutto è stato un al-largamento del concetto di democrazia. Mentre nel mondo arabo i giovani e le giovani punta-vano alla creazione di un sistema democrati-co simile ai nostri sistemi europei, noi qua, e i nostri cugini yankees, stiamo praticando un nuovo metodo. La democrazia è tale solo se è dal basso, diretta, e si basa sull’autogestione, dei beni pubblici (cosa che il referendum non ha portato a fare, è stato solo mettere un osta-colo nel percorso dei “potenti privatizzatori”), del proprio corpo anche in quanto cittadino, abitante della polis, una ripresa delle Agorà.E’ proprio questo nuovo metodo, quindi il mezzo e non il fine, a far la differenza. Perseguendo il fine ad ogni costo, come diceva il caro Machia-velli, alla fine si reitererà il solito meccanismo di potere che avviene nei momenti di cambiamen-to: un gruppo minore guidato da un forte leader crea una dittatura determinandola come volontà

popolare; si pensi solo a Robespierre o a Lenin.Il rispetto tra gli individui, il dialogo tra le va-rie posizioni nelle assemblee, diventano l’abc per poter andare avanti senza lacerazioni.Anche qua a Trieste, come molti di voi sapran-no, si è scesi in piazza, si sono “piantate” tende, si sono fatte assemblee, si sono fatte rivendica-zioni locali (a mio avviso la marcia in più per questa città così de-localizzata dai grandi cen-tri di potere), si è uniti sotto la linea del cam-biamento globale, dal basso, principalmente portata avanti dalle occupazioni statunitensi.Molti hanno scritto se questa nuova forma di lotta si riallacci a un possibile nuovo ses-santotto o ad una nuova rivoluzione france-se, sinceramente spero non si riallacci, ma crei delle dinamiche nuove, altrimenti si sca-drebbe in un rituale già scritto, in un’este-tica che non porterebbe da nessuna parte.Difatti, la spinta di contenuti arriva da una gene-razione che è maturata, o sta maturando a seguito del crollo del Muro di Berlino, disillusa sui gran-di sistemi, anzi apertamente sfavorevole, se non

contraria, ai grandi sistemi di dominio. L’attuale sistema capitalista diviene evidente nella sua ne-gatività, mostrando la sua vera anima predatri-ce: anche durante la sua stessa crisi, chi domina questo sistema, riesce a ricavarne profitto, dan-neggiando i più, già derubati dalla crisi stessa. Un’avidità senza rispetto alcuno per l’individuo. È forse proprio questa mancanza di rispetto, che molti avevano dato negli anni novanta al capita-lismo vincente, creatore di ricchezza (nonostan-te la sua bassezza etica) che ha scatenato i più, sparsi per il mondo, a ribellarsi. C’è da dire che più di qualcuno da vent’anni ormai, sensibilizza su questa “vittoria” del capitalismo, su questo termine della globalizzazione (P. Sloterdijk, L’Ultima Sfera), basti vedere da Seattle ‘99 (No WTO) fino alla locale lotta della Val Susa NoTAV.Sembrerebbe che avevano ed hanno ra-gione, detto così potrebbe sembrare arro-gante, ma a mio avviso invece è un atto di umiltà, è dire le cose come stanno, è urlare, come nella celebre fiaba, “il Re è nudo!”.

L’iniziodi Maximiliano Cappellina

Ed ecco che l’azione capace di combattere il buonsenso piccolo-borghese, la “provocazione”, non si dimostra più tale: è questa società, fortemente volgare e ipocrita, negatrice della vita per mezzo di un consumismo totalizzante, a provocare. L’uomo che non ha dimenticato la sua natura originaria,

la sua dimensione sociale, il rispetto per il mondo naturale circostante, è diventato “provocatore”. Gli altri, la «maggioranza», sono invece la “normalità”, terrificante parola attraverso cui esercitare un nuovo – a cui ognuno, volontariamente e abitualmente, sottostà – dispotismo.Nota al lettore di “Charta Sporca”:

quando, su queste pagine, troverai una frase che reputerai provocatoria, non ignorarla come se nulla fosse, mettendola in disparte, ma domandati piuttosto da dove provengono le tue convinzioni, come sono nate, perché sono tali e non diverse. Riflettiamo non solo sulle idee, ma anche

sul loro perché: questo è forse l’unico modo per annullare ogni influenza esterna, affermando così la propria (e non altrui) volontà.

(segue da pagina I - Provocazione di Stefano Tieri)

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inserto letterario

Terza Pagina

III

Cari lettori,Mi è doveroso oggi farVi una piccola introduzione. Nel precedente numero la poesia di Baciocchi è stata mutilata da un errore di tra-scrizione (mero copia - incolla fallito). L’errore è dispiaciuto a tutti: una poesia di cui si tralascino i versi finali è una poesia che non si conclude, che non porta a termine il discorso iniziato, e questo non va bene. Per problemi di spazio non mi sarà possibile inserirla nuo-vamente per intero, Vi lascio quindi l’ultima strofa, stavolta com-pleta (chi non l’avesse presente potrà trovarla sul sito del periodico e completare agevolmente la lettura confrontando le due parti). Vi chiedo scusa nuovamente, primo fra tutti al nostro caro Baciocchi.

Giovanni Benedetti

Il tempo che vince non vincala voce con che mi rimordi

(G. Gozzano)

Incontro

Ettore Spada

[…]

Sei rimasta spaesatacome l’usignolo che non dà segnonella stanza, rimaste le luci accese,ma è pieno giorno,rimasto l’odore della notte,e la musica della strada che non entra dalle finestre.

Nel mio piccoloritrovo i tuoi capelli

di cui si nutrono i ricordi miei.

Il tuo profumo...persiste ancora sul morbido altare

assaporato con la dolcezza... che sei.

Sentirà di nuovoil mio orecchio i versi tuoi? Chi lo sa?

Perché sei indecisa... nell’ovvio dei pregiudizi tuoi.

Dima

Aspettavo, sai, una tua apparizioneche riuscisse finalmente a sciogliere il cantointricato fra le mie ossa come un rovetopieno di spini, pronto a ferire al minimo tocco.Ma le tue dolci dita l’hanno sbrogliatoe, ascolta: le rime si dileguano piano…Mi hai sorpreso così, che le gambeerano stanche di correre l’affanno consueto,la quotidiana meta del sognocorrusco di mille sentieri, vicoli incertidov’è facile perdersi. Ma tuhai appesantito le mie piume d’alba,mi hai preso, fermato, trascinatoall’inevitabile nulla, a dirti la mia miseria,a confessarti l’ingannodei gesti ripetuti e nauseabondi…Sì, qualche incontro, i compagniche scrivono, i giochi di notte…Ascoltarmi mi era un supplizio, inventare lo spazioche ci separa di mille colori, mentire,fregarmi da solo, avvilirmi.Tu invece la gioia del mondorapita al mistero sottile,lo sguardo distratto, il sorriso spontaneo…Tu corri, non volti lo sguardo, continuitenace. Quanta miseria avevi davanti!

La pioggia non ci ha bagnato all’abbraccio,furtiva rapina di sogni per me, per teun gesto che valse poi nulla…Il tuo amico forse ti aspetta,vai, fuggi lontano,io rimarrò a scavarmi la facciae a rifare gli inutili sogni, le stesse illusioni.E’ stato un piacere vederti… Io pure!

Ingoio il veleno letalee muoio un poco ogni giorno.

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IV

Qualcosa da raccontare (ai figli che – forse – non avremo) di questi cazzo di Anni zero

Era da un po’ di tempo che meditavo che avrei dovuto in qualche maniera cambiare il giorno trascritto su quella maglietta che avevo acquistato la scorsa estate con la scritta The Saturday Heroes. Fanculo, il sabato. È ormai diventato l’appuntamento fisso fonda-mentalmente per quattro categorie di persone. 1) Coppie datate e appena sbocciate, che camminano per mano tra Molo Audace e gli orrendi led di Piazza Unità, più offuscate (le coppie, non i led) delle luci del Mexico. Ragazz* - sì, con l’asterisco, come usano gli antisessisti. Patetici. – già morti da vecchi. A vent’anni. 2) Ragazzini tamarrissimi e sbarbati che fanno la spola tra i soliti bar dietro la piazza e la fontana. Ubriachi, veri o presunti, già alle dieci. Accompagnati dalle ragazzine di turno più grezze di un diamante del Botswana. Così belle. Così ruvide. 3) Venticinquenni – a spanne – futuri ingegneri aerospaziali, economisti, notai, chirurgi delle nanotecnologie. Stronzi, insomma, che vedono il sabato come il miraggio di una settimana di cazzeggio inframmezzata da momenti di studio. Ovviamente poi più di uno spritz aperol in Portizza non lo bevono. E alla fine il loro sabato è più incompiuto di quei finali aperti dei Piccoli Brividi (che ricordi). Senza storia né fantasia. 4) Donne quarantenni assatanate. Vedove. Single. Sole. Divorziate. Annoiate. Forse l’unico punto dei quattro per cui meriterebbe uscire ancora, il sabato.

Ma no. Il sabato no. Ho già dato. Il mercoledì… nì. Troppi universitarî (dedicata al Direttore, la “î”) stranieri. Cioè, italiani. Ma non triestini. E io sono razzista. E il 90% di loro non li sopporto. A prescindere. E ne ho, eh, di amici non di Trieste universitarî. Rientrano tutti nel restante 10% però. Mah. Sarà l’invidia, forse. O l’odio represso. L’odio è un sentimento umano. Come l’amore. E non andrebbe represso, ma sfogato. E poi, in un mese e mezzo non ho preso una mancia che sia una da loro. Nemmeno il 7 ottobre. Temperatura in picchiata di ventidue gradi. Un venerdì. Sarà un caso? Dicevo. No, il sabato no. Basta. Voglio il venerdì. E venerdì sia… Mi chiama G. Alle 6 solito bar? Ma come cazzo xe?!? Lavoro ogni giorno dalle 6 alle 9. Se va bene. Fino alle 10.15 se va male. Niente aperitivo, quindi. Piazza della Borsa, 10.30? Bene. Serata? Sì, serata. Per capirci, con serata intendeva Serata. Giri su giri. Di bicchieri. E perché no, di qualcos’altro. Dipende da chi trovi in bagno. Si inizia. Solite facce. Maledette. Spritz (bianchi) pesanti, senza ghiaccio. Uno. Due. Tre. Quattro. Basta? Cinque, dai. Non c’è scampo con G. Lo amo per questo. Altri cinque. Gin lemon però. Lui. Io opto per la Vodka-Red Bull. Uno dei cocktail peggiori che ci siano. Ne amo il gusto, ma è una merda. Concentrato di coloranti, taurina, caffeina, zuccheri. E vodka, ovviamente. Urge un secondo fegato. Sono quasi le 2. Abbiamo fame. Scrocchiamo qui e là qualche cosa di commestibile. Patatine Pai vecchie di almeno due-tre giorni. Sanno di muffa. Per non parlare di quello che non si vede. Sudore intriso sui bordi della bacinella. E sappiamo tutti che noi maschi non ci laviamo mai le mani dopo aver pisciato. E tocchiamo tutto. Anche se io le mani me le lavo. Prima però. Mica mi piscio sulle mani, poi! Si ricomincia. Tequile. Sale e limone. Il colpo del ko. Quasi. Intanto, dentro, è delirio. Garbo-tour? gridano tutti. Amen. Entra M. Non l’avevo ancora visto oggi. Ovviamente disintegrato. Tanto lui non paga mai. Nemmeno noi: noi, la crisi, non la pa-ghiamo. Vado in bagno (o ci ritorno?). Fila. Bagno unico, as usual. Quindi attesa minima di venti minuti. Cazzo, noi maschi andiamo in bagno trenta secondi prima dello stimolo. Siamo essenziali. Le femmine no. Intanto si mettono in fila, poi chissà. C’è anche M. Ha due euri. Li butta nelle macchinette. È Gesù! La moltiplicazione dei pani e dei pesci. Duecento euro. Che culo! Lo obblighiamo a offrire un giro. A tutti. Bene così. Sono le 2 e 45. Il bar chiude. Che si fa? Etnoblog? Ausonia? Proviamo. All’Etno non ci fanno entrare. Troppa gente. Un classico. Meglio: sarà stata la solita solfa con gruppo pseudo-alternativi indie in apertura, dj set penoso a chiudere. Proviamo all’Auso. Serata techno. Cinque euri una consumazione. Regalato. Entriamo. Ultima VR (nome in codice). Dentro è una merda. G. si siede vicino a una bionda da paura, ma con dei pantaloni osceni. Io ci provo con un’altra, ma la convinzione è nulla in entrambi. G. si siede, io mi distendo. Ore 3.30 chiude tutto. Venticinque minuti di camminata silenziosa a testa bassa dall’Ausonia al Night Food (ho tralasciato la parentesi scabrosa del Ten-der: G. voleva convincermi a cantare Vasco (Rossi). Io ammiravo la voce di una novella Elisa che interpretava però una canzone di Ron da squarcio delle vene. Meglio il coro che ha coinvolto tutti sulle note di “El can de Trieste” del mitico Luttazzi. Quello vero.). Arriviamo al Night Food. Non so come fa G. a bere un’altra cosa. Una birra credo. Io crollo. Mi eclisso. Mi cancello. A fianco a me un palestrato. Gli cozzo sopra. Mi scansa via. Alzo gli occhi vitrei. Lo voglio pestare. G. si scusa e mi porta via. Mi avrebbe ucciso, il palestrato. Ma non conta. Non conta un cazzo. Non conta un cazzo darle o prenderle. Conta provarci. E non conta la stazza. E poi l’automiglioramento è masturbazione di se stessi (vecchio Tyler!). L’autodistruzione invece è accettazione. Accettazione di un mondo. Senza aggettivi. Non ce ne sono. Vuoto, folle, romantico, forse sono gli unici buoni.

E nonostante tutto, trovo più romanticismo nelle auto bianche degli operai diventate grigie per i fumi della Ferriera che nelle BMW parcheggiate in doppia fila davanti al Greif. E nonostante tutto, trovo più amore negli insulti tra due alcolizzati che negli abbracci compiaciuti dei fighetti di Piazza Oberdan. E nonostante tutto, trovo più vita in un uomo bastonato e caracollante che in una statua di marmo.

Torniamo verso casa. Sono morto. Saluto G. Il sabato no, non lo voglio più. Al prossimo venerdi (senza accento, alla triestina). Ore 6 solito bar? Lavoro, stronzo. Mi ride dietro. Lo odio. Lo amo. Siamo come due cani bastardi. Romantici. Che non parlano e non si esprimono. Ma persi. Vuoti. Vivi. Ma non molto. Quasi nulli. Ma meno nulli del nulla che ci circonda. Molto meno. Ma vuoti, comunque. Entro in camera. Vasco (Brondi) mi aspetta. Ma forse, lui, mi odierà per tutto ciò. Fa niente. Siamo noi l’esercito del SerT. Quelli che i rave sull’Enterprise li fanno davvero. Anche se l’acne non l’hanno mai combattuto.

Al prossimo venerdì.

Romantico. Nichilista. Urbano. Lorenzo Natural

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V

Dialogo tra quattro e sei cordedi Nicola Narciso

Il piccolo Jaco vede attorno a sé un vortice, un ibrido di colori: sulle teste un grigio ciclamino, quasi malva, che non fa intuire il terra di Siena originale dei pannelli di legno ruvido scanala-to, l’avorio circoscritto dei lumi subito sfumato in un pagliericcio addosso al legno delle pareti, l’arcobaleno infinito dei cocktails, l’ebano e la-vorio del Pianoforte, la Chitarra acustica in soli-dago ed il Basso rubino scuro.Non è tuttavia un semplice effetto di sguardo, non di una impressione solo degli occhi. Jaco non guarda e basta, ascolta i musicisti lì a pochi metri sul piccolo palco, respira l’aria ombrosa di legno polveroso, guarda tanto quegli stru-menti coi loro artigiani quanto quella stanza, dove una dozzina di grandi beve con ritmo len-to le proprie acque colorate, mirando il piccolo palco e scambiandosi sguardi, unici incontri che non muoiono e non stonano con la musica tanto forte.Volgendo di poco il capo a destra, Jaco vede il Papà, che non si accorge della flebile attenzione del Figlio: Vittorio fissa con serenità e trasporto la musica, il capo lievemente inclinato a sinistra e le braccia appoggiate al tavolino, con la guan-cia mollemente sulla sinistra a pugno.Sul palco, Jaco vede due signori in piedi che suonano allegri e divertiti e disinvolti le Chi-tarre ed un altro seduto, che preme i tasti della tastiera.I musicisti proseguono la danza e Vittorio chie-de al Figlio se gli piace la musica e se si sta divertendo. Jaco, tornato già lo sguardo al pic-colo palco, resta in silenzio, pochi secondi ed alza la mano indicando i musicisti: “Ma Papà, perché ci sono due Chitarre?”. Vittorio sorride: “Il signore con gli occhiali, con la maglia viola sta suonando una Chitarra, quello senza capelli alto, invece, suona il Basso elettrico”. “Ma cosa cambia?”, chiede Jaco, “sono uguali!”.Il pezzo è marcatamente Funky: la chitarra man-tiene tonalità di Re Maggiore, ogni due quarti un colpo ritmico sulla cassa di risonanza acu-stica e, di tanto in tanto, qualche azzardata fuga spregiudicata fingerstyle.

“Il signore con la Chitarra sta strofinando tutte le corde insieme e poi batte con la mano…”, “Il signore”, risponde Vittorio, “sta facendo degli accordi e quei colpetti che dà alla Chitarra ser-vono per tenere il tempo alla canzone. Infat-ti - hai visto? - non c’è il signore che suona i tamburi e i piatti”. “Cos’è un accordo, Papà?”. Vittorio sorride di nuovo, emozionato per la cu-riosità vivace che Jaco ha da sempre dimostrato rispetto alla musica. Risponde: “Un accordo è quando si suonano più note assieme. Hai ragio-

ne: sembra proprio che il signore con la Chi-tarra stia sfregando le corde disordinatamente, tutte assieme. Guarda però la sua mano sinistra, quella che impugna la Chitarra dalla parte lun-ga; guarda come sono le sue dita: sono in una posizione molto particolare – sembra quasi in-naturale, con l’indice dritto che tocca tutte le corde e le altre dita una dietro l’altra. Con quella posizione della mano, il signore riesce a fare più note allo stesso tempo e, in questo modo, l’altra mano – la destra – pizzicando tutte le corde in-sieme in quella maniera che sembra disordinata e casuale, riesce a suonare le note giuste per fare l’accordo, le note che la mano sinistra le prepara lassù tenendo quella strana posizione”.Jaco sta ora provando ad imitare con la sinistra la posizione della mano del chitarrista: “Ma è difficile! Come fa a tenerla così?!”. Il volto di Vittorio è felice, il sorriso sembra non poter cessare, gli occhi luminosi. “I colpetti, inve-ce”, continua il Papà, “tengono il tempo. Pro-va a contare: uno, due, tre, quattro, uno, due, tre, quattro”; Vittorio, contando, batte piano la mano sul tavolo per scandire il tempo. “Prova a fare attenzione: ad ogni due e quattro, il chitar-rista batte il colpetto”. Jaco, tutto assorto, prova a tenere il tempo e, ad ogni due e quattro, i suoi colpi di mano sul tavolo si fanno un po’ più for-ti, accompagnati da un piccolo movimento del-la testa. “Sembra”, dice Jaco, “che la Chitarra cammini saltellando; ogni colpetto è un saltello in avanti!”.Il Basso elettrico tiene un groove altrettanto marcatamente Funky, in slap: nitidi colpi di pol-lice/thumb in battere e rapidi strappi/pluck in levare, in sedicesimi.

“Papà, ma anche l’altro signore, quello senza capelli, dà colpi al suo strumento. Perché tutti colpiscono lo strumento?”. Vittorio, che tra tut-ti gli strumenti musicali prova una misteriosa passione per il Basso elettrico, questa volta fa una piccola risata, stringendo a sé il Figlio in un avvolgente abbraccio. “L’altro signore, quello col Basso elettrico, sta suonando con una tecni-ca particolare, che si chiama slap. Vuol dire, in effetti - come dici tu – che sta proprio picchian-do lo strumento, che lo sta colpendo. Il Basso, generalmente, viene suonato in un altro modo, cioè pizzicando le corde con due dita: l’indice ed il medio. Ma ci sono sempre moltissimi modi con cui suonare uno strumento. Uno di questi modi, per il Basso, è questa tecnica slap”.

Jaco ha da molto fissato lo sguardo sul bassista e sembra ipnotizzato dalla sinuosità della mano destra, che ora colpisce e ora alza le corde, con ritmo molle, deciso e perfettamente cadenzato, a passo di danza.“Al Papà piace molto il Basso – lo sai? – e quel signore lì sa il fatto suo.”. “Ehi, Piccolo, ti sei incantato sul bassista?!” dice Vittorio ridendo al Figlio, spettinandogli i riccioli. “Dai, smettila, Papà!” esclama Jaco, ridestandosi dall’incanto, ridendo; ed aggiunge: “Papà, ma è più facile suo-nare la Chitarra o il Basso e qual è più bello?”. Vittorio sorride e si fa pensoso, con coinvolgi-mento e trasporto. Pensa: “Figlio mio, la tua spontaneità, la tua curiosità, la tua giovinezza e la tua bellezza… Così spesso le tue domande, ingenue forse, mi disarmano. Potessi io, Piccolo Jaco, darti le combinazioni esatte del mondo, potessi io darti le risposte che cerchi, ora da bambino, e sempre più cercherai, da Uomo…”. Risponde quindi Vittorio, sorridendo: “Non so, Piccolo. La Musica è tutta bellissima e facilissi-ma e difficilissima”.Ma intanto Jaco si era rigirato verso il piccolo palco. Un ultimo accordo di La Minore di Pia-noforte ed un Fa# di Basso, unica nota pizzicata, chiudono il pezzo, sfumando piano in calare in un’ascesa di applausi. Piccolo era il pubblico quella sera, ma tutto lì sembrava compiuto e perfetto.Vittorio volge di poco il capo a sinistra verso il Figlio e, come all’inizio del pezzo ma ora nell’inverso delle parti, vede Jaco, che non si accorge della flebile attenzione del Papà e che fissa con serenità e trasporto la musica, applau-dendo felice.

...parole al vento...

Godi delle tue prime inge-nue e testarde esperienze,

timido dinamitardo, padro-ne delle notti libere, ma ri-

corda che tu sei qui solo per essere odiato, per rovesciare

ed uccidere.

(Teorema) Pier Paolo Pasolini

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Sembrerebbe il nome di qualche santone islamico o di qualche vecchio eremita vissuto secoli fa. Invece è la traduzione in italiano dello pseudonimo di una delle più importanti figure del XX secolo: Ho Chi Minh. Nato nel 1890, vis-se quasi tutta la sua esistenza con lo scopo di vedere la sua patria, il Vietnam, libera dall’occupazione dei paesi invasori quali: Giappone, Francia e Stati Uniti. Ma perché ho deciso di parlarvi di una figura così poco conosciuta come quella dello “Zio Ho” (come veniva chiamato dai suoi compagni d’arme)? Per il fatto che quest’an-no in Italia si festeggiano i 150 anni dell’unità. In verità egli, con il no-stro paese, non ha mai avuto niente a che fare, tuttavia potrebbe inse-gnarci un valore che ormai sembra essersi perso nella melma di altri meno nobili: il patriottismo.Ho Chi Minh lasciò il Vietnam nel 1911, occupato dalla Francia, per farvi ritorno appena nel 1941, ritro-vandolo tuttavia sottomesso all’Im-pero Giapponese. Ma dove andò per quasi trent’anni? Paradossal-mente in Francia. Per capire meglio ciò che può sembrare un’assurdità cito una sua famosa frase: “Cono-scere l’occidente per combattere l’occidente”. Egli trascorse quasi tutta la sua giovinezza viaggiando nei paesi che gestivano gli affari del mondo: da Parigi a New York, per poi ritrovarsi a Londra fino a ri-tornare in clandestinità nuovamen-te a Parigi dove ebbe stretti contatti con i membri del Partito Comuni-sta Francese, da cui apprese il pen-siero di Marx. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale tornò in Vietnam per fondare il movimen-to di liberazione: il Viet Minh. Il 2 settembre 1946 sembrò essere il giorno tanto atteso; con la carica di presidente proclamò la Repubblica Democratica del Vietnam. Tutta-

via i paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale decisero in modo diverso e consegnarono il Vietnam, insieme alla Cambogia e al Laos, alla Francia, per riformare l’Indo-cina Francese. Fu di nuovo la guer-ra. Grazie agli aiuti militari dell’ URSS i francesi furono costretti a rinunciare alla colonia, solo dopo 9 anni di guerra sanguinaria, nel 1954, lasciando sul terreno 75.000 soldati. Ancora una volta però il sogno d’indipendenza del capo vietnamita dovette essere rinviato. Nella Conferenza di Ginevra i paesi occidentali decisero per la divisio-ne del Vietnam in due zone: quella del Sud, controllata indirettamente dagli USA, e quella del Nord, sotto la giurisdizione del Viet Minh. In risposta all’ennesima prepotenza e delusione “Ho” rispose con la fon-dazione del movimento comunista di liberazione: il Vietcong.Dal 1965 la potenza bellica ameri-cana mostrò tutta la sua forza en-trando direttamente nello scontro armato: sostituendosi alle deboli truppe sudvietnamite, attuò attac-chi via terra e aerei, quest’ultimi avvenuti tramite bombardamenti a tappeto, compiuti ad oltre 10.000 metri dal suolo in tutta sicurezza per i piloti (durante la guerra verranno sganciate, su un territorio grande come l’Italia, un numero di bombe 16 volte superiore a quelle lanciate nel corso di tutto il secondo con-flitto mondiale). Tuttavia questa strategia, per certi versi immorale, non scalfì minimamente né l’appa-rato militare Vietcong, né lo stato d’animo della popolazione, quasi tutta schierata dalla parte del Nord. Due milioni di civili persero la vita a causa di queste bombe, spedite in nome della “democrazia” ad ogni costo e della illibertà di non poter scegliere il proprio tipo di governo (tale politica aggressiva verrà usa-ta nuovamente in Afghanistan 40 anni dopo, ancora una volta inutil-mente!). Ho Chi Minh, pur vecchio e malato, si nascose nella giungla spostandosi, da una grotta all’altra, da un rifugio improvvisato ad un villaggio di contadini fedeli, com-piendo in 4 anni più di 2000 km con mezzi di fortuna, spostando in continuazione il proprio quartier generale, da cui diresse le opera-zioni militari più importanti dei propri guerriglieri, come l’offen-siva del Tet del 1967. Non fu mai acciuffato dai servizi segreti ame-ricani. Per tutto il conflitto diresse i suoi compatrioti nella difesa della propria identità e della propria tra-dizione, abiurando i costumi e le

tecnologie futili importate da oltre-oceano. Di queste godettero i capi vietnamiti del sud, i quali finirono per corrompersi a vicenda, crean-do una guerra parallela interna fra rivali per il potere, incrementando così l’astio della popolazione di Saigon capitale del Vietnam del sud. Ho Chi Minh Si spense il 3 settembre 1969 ad Hanoi, in piena guerra contro gli Stati Uniti, allora guidati da Nixon, non riuscendo purtroppo a vedere il suo sogno di libertà e indipendenza avverarsi. Infatti il Vietnam verrà unificato definitivamente solo il 30 aprile 1975 costando agli americani più di 60.000 soldati, contro il mezzo milione di perdite vietcong.Per la sua patria, oltre alla lotta sul campo di battaglia, inviò una let-tera a Woodrow Wilson nel 1919, chiedendo il riconoscimento del suo popolo, tenne testa a Stalin e a Trotsky definendosi prima un vie-tnamita che un comunista, dichia-rò guerra a De Gaulle, presidente della Francia nei primi anni del do-poguerra, fece credere a Mao Tse Tung di essere un burattino nelle mani del gigante cinese per ottene-re più armamenti, fino a voltargli definitivamente le spalle, deviando sull’URSS, che non aveva mire di controllo diretto sul Vietnam. Ma soprattutto permise, con la fedeltà ai valori millenari dei suoi antena-ti, alla tradizione e ai costumi re-ligiosi mai rinnegati, pur credendo all’ideologia comunista (presa ad esempio da tutto il popolo), di in-fliggere agli Usa la prima sconfitta della loro storia. Ora il suo nome è immortalato nel tempo: la città di Saigon, capitale dell’ex Vietnam del Sud, simbolo, durante il conflit-to, del capitalismo americano nel sudest-asiatico, è stata rinominata Ho Chi Minh.Ho voluto narrare, brevemente, la storia di questo grand’uomo per cercare di risvegliare un sentimen-to che sembra essersi assopito. Il patriottismo dei vietnamiti do-vrebbe servire da lezione: è scrit-to nella costituzione del Vietnam che “chiunque offenda la figura o la memoria di Ho Chi Minh potrà essere perseguibile per legge”. Da noi, in Italia, chi ama la patria, la bandiera e gli eroi dell’unità viene definito, da alcuni (troppi!), nazio-nalista estremo e criminale: perse-guibile per legge.Pur comprendendo i sentimen-ti multietnici e sovranazionali di molti dei nostri concittadini, sono dell’idea che non bisogna mai di-menticarsi della propria storia e

della propria identità, perché come diceva Tolkien: “Le radici profon-de non gelano”. Ho Chi Minh lo ha dimostrato.

VI

Colui che porta la lucedi Luca Zampino

Caro François,Io ti scrivo da un’altra epoca illuminata di ragione e di tecnica, dove l’uso della corda “che fa sapere al tuo collo quanto pesa il tuo culo” si è fatto più raro e lontano senza tuttavia scomparire del tutto. La stessa guerra, rinno-vatasi di cento anni in cento anni, non è ancora finita e gli uomini amano come allora menare le armi e le mani e se non ci sono più le caldaie per far bollire i falsari, gli strumenti per dare la morte si sono perfezionati al punto che uno solo di quei cento onnipotenti, un solo Thibault d’Aussigny può decretare la fine dell’umanità in un tempo così breve quanto la pressio-ne di un dito su un pulsante. […] Ancora oggi siamo capaci di forti sentimenti ma più volentieri li trasformiamo in lacrime seduti a teatro di fronte al dramma di Oreste o di Amleto e ritornando a casa ad occhi asciutti non degnia-mo neppure di uno sguardo la nostra vicina intenta a con-tare gli spaghetti per sfamare i figli. […] Oggi nessuno fugge più e se per te “da qui a Rossiglione / non esiste macchia o cespuglio / che non porti un lombo del mio giubbone” oggi le macchie, i cespugli, gli alberi e i boschi scompaiono rapidamente tra-smutando in cataste di legna e denaro.

Fabrizio De Andrè, parte della prefazione

alle poesie di François Villon

...parole al vento...

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VII

Trieste: la mia finestra verso il tempiodi Solivagus Rima

Poi, devo dire, non si vedeva male dalla mia finestra, riusci-vo a perlustrare con lo sguar-do gran parte del salone adibito ai loro incontri. Veramente, vi dico, seguivo tutto il loro rito, dal suo cominciamento fin alla fine.Vi posso dire, dopo molte analisi, le mie considerazioni sui loro riti. Durante la cerimonia, più volte vengono messi in atto all’uniso-no quattro “toccamenti” o “segni” particolari. Il primo consiste nel portare la propria mano verso la gola ai fini di formare una squa-dra, il secondo sta nel tocco del-le articolazioni delle dita, il terzo vede la mano a squadra portata verso il cuore e l’ultimo è un sini-stro modo di disporre i piedi, che non riuscii mai a vedere a causa della posizione della mia finestra. Sono movimenti in sequenza che rispettano un particolare ordine.Tengo precisare che i massoni si rifanno al senso proprio della pa-rola “rito”, quello derivante dal sanscrito “rita”, cioè “equilibrio” o “ordine”. I massoni identifica-no il latino “ordo” con “rita”. Per loro, spesso, solo l’ordine è la chia-ve per la buona riuscita del rito. Tuttavia, anche il latino “ordo”viene utilizzato, quando lo associano ad un simbolo pretta-mente: la piramide con l’occhio, chiamato anche “delta luminoso”. “NOVUS ORDO SECLORUM” appare sul retro del dollaro statu-nitense, che dicono abbia subito una notevole influenza massonica al tempo del primo conio. Ma non vorrei perdere di vista l’argomenti centrale e dilungarmi su questo. Il rito è compiuto conformemen-te all’ordine e viceversa l’ordine è compiuto conformemente al rito.A Trieste, oltre a quello in via San Nicolò, dove si dice avvengano riti massonici e dove si racconta ci sia un tempio, scoprii che esistono anche altri luoghi della massone-ria verso cui prestare attenzione: Rotonda Panciera, edificio risalen-te ai primi anni del 1800 e proget-tato dall’architetto Matteo Pertsch, localizzato in via Felice Venezian 27. Sulla facciata dell’edificio emerge un ordine gigante caratte-rizzato dai dei rilievi di ispirazione classica. Emergono degli episodi di Ifigenia , Lucrezia e Coriolano.Tutti e tre sono dei personaggi che sacrificano la loro vita per dei fini superiori, dal sacrificio per il bene della patria di Ifigenia, a quello

d’onore e disperazione di Corio-lano a quello di fedeltà di Lucre-zia. Il committente della struttura architettonica fu Domenico de’ Panciera , importante commercian-te di Trieste, membro della stori-ca famiglia friulana dei Panciera.Molti sostengono che all’interno della Rotonda avvenissero dei riti esoterici e che probabilmente quel-la fosse la sede di un tempio mas-sonico. Alcuni anziani sostengono di esserci entrati attraverso delle condutture idriche ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, ma non esiste ancora una documentazione a riguardo. Possiamo fidarci solo dei ricordi e delle supposizioni per ora. In questo discorso, oltretutto, ha una grandissima importanza il trie-stino Matteo Pertsch, originario in una città della bassa Germania. Egli ha molti collegamenti con la massoneria, innanzitutto perché è un architetto e, quindi, sembra fat-to per essere massone. Ci tengo a dire che i massoni sono per lo più architetti, dato che la massoneria ha origine da un movimenti di li-beri muratori. L’architetto, come il muratore, è in grado di imprimere degli elementi e di fissarli perma-nentemente nelle proprie opere. L’architetto è una sor-ta di “muratore d’elìte”.Al’importanza di Pertsch si vede ad esempio Palaz-zo Carciotti e Casa Steiner.Casa Steiner si trova in Corso Italia 4. Sulla facciata di questo palazzo si trova una serie di rilievi che com-pare fra la seconda e la terza fila di finestra. Vediamo che in mano alle figure rappresentateci sono dei mar-telli, dei compassi e altri elementi che si possono ricondurre alla mas-soneria. C’è anche e un alberello, che azzarderei a dire che potrebbe trattarsi di un’acacia per i batuffoli che sembrano esserci disegnati so-pra. L’acacia, che qui viene abba-gliata da una moltitudine di raggi solari, con i suoi batuffoli minuti e gialli rappresenta per i massoni un albero pieno di piccoli soli. Molti elementi del tempio devono essere costruiti in legno d’acacia. Il ramo-scello d’acacia è un segno di pace e un simbolo d’alleanza, raggiante all’interno del tempio. Nel 1745 si diffuse la convinzione che la tomba dell’architetto di re Salomone Hi-ram fosse in legno d’acacia. Hiram fu il costruttore del primo tempio massonico, il tempio di re Salomo-ne, a quale tutti i templi si rifanno.

L’acacia simboleggia l’immortali-tà di Hiram e della massoneria per le sue foglie persistenti. “Acacia” deriva da un termine greco che significa “integro”. Ciò fa capire che il suo compito per il massone è saldo nella sua testa, che egli per-seguirà per sempre la sua opera.Il simbolismo nella massoneria è essenziale, perché è tipico di questa società esprimersi attra-verso dei simboli. I simboli rap-presentano un linguaggio perma-nente ed immortale, che non può subire gli effetti del tempo, è un linguaggio che non può mutare.In Piazza Goldoni, sulla facciata dell’edificio che dà dritto sulla piaz-za, c’è una statua particolare in una nicchia, una Madonnina inquietan-te con le braccia raccolte al petto. Ha la testa piegata verso il basso ed è incappucciata. Si dice fosse stata lì posta per esorcizzare l’edificio da strani riti esoterici che dentro si compivano. La gente parla di riti massonici e di un probabile tempio. E’ da tener presente che la masso-neria non è sta mai ben vista dalla popolazione, sono stati sempre visti con un occhio particolare, proprio a causa della loro riservatezza e dei loro collegamenti con l’esoterismo. Molti credevano che fossero capa-ci addirittura di evocare demoni, pensate un po’. Ed ecco il perché della madonnina. A lato della nic-chia compare anche lo stemma del-la famiglia Parisi, che pare intorta-ta con la massoneria. Sullo stemma è presente una nave, la stessa nave che si trova anche sullo stemma della famosa città francese Parigi.La chiesa di Santa Maria Maggiore fu edificata nel 1638. Anche sulla facciata di questa possiamo trova-re degli elementi d’interesse. Ad esempio il martelletto presente sul-la grata in ferro battuto, che sovra-sta l’accesso centrale alla chiesa. Molti di questi elementi mistici e massonici si trovano spesso nelle chiese dei gesuiti. All’interno della chiesa, infatti, nel tabernacolo po-sto sopra l’altare c’è il ricorrente occhio nel triangolo, simbolo del-la “divinità massonica”, ovvero il Grande Architetto dell’Universo. Tuttavia, l’occhio nel triango-lo è anche simbolo di Dio, nella tradizione cristiana e semitica.Quel che è strano è che i massoni, che tendono a voler essere più per la “scienza” che per la “religione”, abbiano tanti elementi in comu-ne con le tradizioni religiose ….

Inoltre, sotto la chiesa ci sono dei sotterranei, da poco tempo scoperti e perlustrati per bene. Sono vera-mente particolari, sinuosi, ricchi di celle , pozzi e passaggi bloccati da detriti. All’interno delle celle compaiono scheletri, ossa e te-schi, probabilmente appartenenti ai gesuiti sepolti in quelle gallerie. Certi sostennero che le gallerie dei sotterranei potessero essere servite ai gesuiti per dei processi inqui-sitori. Ma, anche qui, non ci sono prove sufficienti per accertarlo.Oltre ciò, sono stati fatti degli esperimenti di tipo paranormale-scientifico. Sono stati fatti studi di radioestesia, pratica che per-mette con l’utilizzo di una bac-chetta biforcuta di captare onde radioattive particolari. Tali onde per gli esperti sono “positive” o “negative” e possono, in base al loro stato, conseguentemente ren-dere possibile la guarigione di una persona oppure la sua malattia. Nel sotterranei di Santa Maria Maggiore si sono percepite delle “radiazioni positive”, che quindi fanno sì che un ammalato, se con-dotto lì, possa guarire. Strano che tali onde siano proprio nei sotterra-nei di una chiesa dedicata alla Ma-donna della Salute. Non trovate?

Certo le cose che scoprii, dai ge-sti dei massoni e dai loro riti e dai libri che lessi, mi incuriosirono pa-recchio. Spero di aver incuriosito anche voi …. affettuosi saluti ….

...parole al vento...

(segue dal numero precedente)

«troppo sono solleciti di guadagnar denaro in modo che si può quasi dire di loro: “sempre

arde in essi il desiderio dell’acquisto”»

(Descriptio Florentiae, 1339) Dante Alighieri

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A. BACIOCCHI: Fin dall’Antich-tà la figura del poeta si proponeva di fare ποίησις; l’etimologia deriva dal verbo greco ποιέω, “faccio”. Quindi l’artista si presentava come un artigiano, o dicendola assieme a Nietzsche, un orafo della parola (riferendosi più specificatamente alla figura del filologo). Il suo ruo-lo era dunque riconosciuto nella società come qualcosa che avesse un fine pratico, utile. A questo pro-posito si ricordi soltanto l’esempio della poesia omerica che gli antichi leggevano come una vera e propria enciclopedia contenente di tutto, oppure il ruolo del teatro come fat-tore di aggregazione, discussione e presa di coscienza all’interno delle πόλεις (città).

GIOVANNI: Hai fatto giustamen-te il nome di Omero, forse il più eccelso e noto esempio di poeta classico. Tuttavia le sue opere trat-tano un genere, quello epico, che dopo aver conosciuto grande fortu-na presso diversi popoli e diverse epoche (l’epica cavalleresca ne è d’altronde lontana discendente), è andato progressivamente estin-guendosi, proprio a causa del de-cadimento all’interno della società di quei valori di cui si faceva por-tavoce. Ricordiamo che l’ultimo romanzo epico è stato il Don Chi-sciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, che riportando in auge il genere ne ha sancito allo stesso tempo l’ironica fine. La realtà si è trasformata, è diventata un’altra. Il mondo di Omero è morto per lasciare spazio a nuove tematiche, nuovi mondi.

A. BACIOCCHI: Già, il mon-do di Omero è morto. È viva la sua poesia. È viva anche quando un suo verso è letto senza essere pienamente compreso in una le-zione scolastica. Del resto la for-tuna di Omero è assai legata oltre all’interpretazione – emulazione (concetto cardine della letteratu-ra latina, vedi Livio Andronico in primis) alla scuola. Omero era letto e studiato come esempio so-prattutto linguistico, ma laddove

non era seguito la sua fortuna non uscì diminuita (penso ai distici ele-giaci di Callimaco che si propone come modello Esiodo piuttosto che Omero, al tempo stesso è cosciente dell’eredità omerica). Ora, quanto si è coscienti oggi di una tradizione poetica?

GIOVANNI: Il punto di vista lin-guistico da te citato è un concetto cardine della poesia. Omero venne ammirato ieri come ancora oggi; senza nulla togliere a questo ma-estro vorrei però notare che, sem-pre, a nuovo contenuto corrisponde nuova forma. Gli uomini si susse-guono e cambiano opinioni, desi-deri, affetti. Le parole ugualmente nascono, si evolvono e tramontano (grazie a Dio non muoiono, e spesso dopo lungo silenzio si ripresentano rinnovate da nuovi geni). La poesia muta la propria forma per adattarsi ai nuovi contesti e alle nuove esi-genze, la tradizione (soprattutto oggi) viene percepita come fardel-lo da cui si è appesantiti. Il ritmo del verso, tradizionalmente rifinito e tornito dall’ingegno del poeta, ha ceduto il passo al ritmo dell’ani-mo. Il bravo poeta è riuscito a far coesistere i due mondi (Baudelai-re, che nonostante le forme tradi-zionali sentiva comunque i suoi passi simili all’albatro che toccato il ponte della nave è zimbello dei marinai), ma lo stacco netto do-veva arrivare comunque. Il poeta, dopo aver perso aureola e alloro (“Oggi l’alloro è premio di colui/ che tra clangor di buccine s’esalta,/ che sale cerretano alla ribalta/ per far di sé favoleggiar altrui...”), ha modificato la propria composizio-ne. Ecco i versicoli di Ungaretti e la poesia novecentesca, sempre più esistenzialista e affacciata all’abis-so del mondo contemporaneo dopo le grandi guerre (La terra desolata di Eliot).

A. BACIOCCHI: Tuttavia la po-esia di D’Annunzio rivela il poeta vate, questo a dire che la storia del-la letteratura non è fatta di marcate divisioni. Pascoli recupera il clas-sico (ho in mente i bellissimi Poe-

metti conviviali) ma resta una voce isolata nel nido. Se si guarda oltre-manica spicca la poesia di Auden, la quale nella splendida “Al museo delle Belle arti” fa vivere un qua-dro di Brueghel, “Dedalo e Icaro”, allargando così le influenze della poesia alle arti. Del resto molti ar-tisti cercano di creare un’armonia delle arti. Auden recupera il classi-co ma lo trasforma nell’esperienza presente, c’è poi un gusto raffina-to di fare il verso ai colleghi poeti come d’altronde l’Eliot della terra desolata, il cui titolo originale era: “He Do the Police In Different Voices” che rimanda a questa vo-lontà di imitazione. Kavafis alterna il passato mitico e storico al pre-sente, così che noi abbiamo quasi la sensazione di trovarci dopo un breve incontro che ricorda amori al caffè il volto di un Ulisse che ha molto viaggiato e conosciuto i modi di pensare e di agire di popoli diversi, per restare deluso dalla po-vera Itaca. Ma di sicuro dimentico nomi importanti. Ciò che mi pre-meva dire è che la poesia del ‘900 è ingente, richiede ancora pazien-ti letture ed è strano che un poeta come Zanzotto faccia parlare più da morto che da vivo.

GIOVANNI: Quello che dici è vero: d’altronde non c’è poeta se-rio che non riconosca il valore di quanto hanno fatto i predecessori. Non esistono scompartimenti sta-gni nella letteratura. Penso a due sommi autori della nostra storia letteraria a cavaliere fra Neoclas-sicismo e Romanticismo che riu-scirono a far coesistere le istanze dell’una e dell’altra corrente: Fo-scolo e Leopardi. La tradizione non nega l’innovazione, e vicever-sa. D’altronde come disse Gustav Mahler: tradizione non è culto del-le ceneri ma custodia del fuoco.

INSIEME: In questo scontro ci siamo ambedue posti su posizioni antitetiche (inizialmente). Quello che abbiamo cercato di dimostrare è che non si danno due estremi e si combatte aspramente finché uno

dei due non annienta l’altro. Se è vero che autoeducazione è trarre alla luce il meglio di sé (Gandhi), educazione è trarre alla luce il me-glio. Chi sogna di fare il poeta so-gna qualcuno che riconosca il suo lavoro, quindi qualcuno da educa-re; per questo deve trarre alla luce il meglio. Di tutto: non c’è solo male e solo bene. Est modus in re-bus (Orazio: c’è una misura nelle cose).

Direttore Responsabile: Stefano Tieri

Impaginazione e grafica: Alberto Zanardo

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IIIV

ScontrPennetra

Lilligrafia

“Or dov'è il suono di que' popoli antichi?”