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Il libro
Caroline Reynolds ha un fantastico appartamento a San Francisco, un invidiatissimo
robot Kitchen Aid, ma nessun fidanzato, e nessun O (sì, avete capito di cosa stiamo
parlando…). Ha una brillante carriera di designer, un ufficio con vista sulla baia, la
ricetta per una formidabile torta alle zucchine, e nessun O. Ha Clive – il miglior gatto
del mondo –, un gruppo di amiche fantastiche, e nessun O.
Ma soprattutto, Caroline ha un vicino fissato con il sesso, il sesso rumoroso, che ogni
notte la tiene sveglia a suon di colpi contro la parete. Ogni gemito, sculacciata, – e
cos’era quello, un miagolio??? – oltre a toglierle il sonno, le ricordano che da troppo
tempo, ormai, non ha (sì, avete indovinato) nessun O.
Quando il continuo sbattere contro la parete minaccia di sbalzarla letteralmente fuori
dal letto, un’esasperata Caroline, vestita solo del suo striminzito babydoll rosa, decide
di affrontare il misterioso vicino. Il loro incontro sul pianerottolo nel bel mezzo della
notte sarà a dir poco esplosivo…
Spassoso come Il diario di Bridget Jones, intrigante come Sex and the City, Mr
Sbatticuore è una frizzante commedia romantica che ci mostra come, a volte, l’amore
possa nascondersi proprio dietro la porta accanto. Incredibile successo del self-
publishing, ha fin da subito conquistato il cuore delle lettrici in America. E voi, siete
pronte a lasciarvi sedurre?
L’autrice
Dopo aver lavorato per molto tempo nel
settore dei cosmetici, all’età di trentatré anni Alice Clayton ha deciso di dedicarsi a
una nuova carriera, quella di scrittrice. Nel 2010 è stata candidata ai Goodreads
Awards come miglior autrice con i suoi romanzi d’esordio, i primi due libri della serie
“Redhead”.
L’autrice vive a St Louis (Missouri).
Alice Clayton
Mr Sbatticuore
Traduzione di Teresa Albanese
Mr Sbatticuore
A mia madre,
per avermi lasciato mettere il cocco
sulla torta di compleanno
anche se non piace mai a nessun altro.
A mio padre,
per avermi letto le vignette di Garfield
finché non piangevamo tutti e due dal ridere.
Grazie.
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni
dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia
con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
RINGRAZIAMENTI
Sono tante le persone che devo ringraziare per avermi aiutato a tirare fuori questa
storia. Lauren, che ha rivisto il romanzo fin dall’inizio e mi ha sempre detto quando
funzionava. Sarah M. Glover, per la sua conoscenza di San Francisco e per aver
insistito sul fatto che ho una mia voce e devo essere incoraggiata a usarla. Elizabeth,
per avermi permesso di fare la pazza. Brittany e Angie per aver riconosciuto che ero
una di loro e avermi consentito di giocare con le Curvy Girls. A Deb, per essere la
migliore cheerleader del pianeta. Le mie mentori nella vita reale, Staci e Janet, sulle
quali è interamente basato il personaggio di Jillian. La fantastica Banger Nation, le
meravigliose ragazze che sono state lì fin dal primo capitolo e si sono divertite
insieme a me. Le Filets, per il loro supporto nelle ore piccole e le loro costanti prove
di coraggio. Tutti i miei meravigliosi lettori e amici su Twitter, che rendono un vero
piacere comunicare in 140 caratteri. Autrici come Laura Kaye, Ruthie Knox, Jennifer
Probst, Michelle Leighton, Tiffany Reisz, Karen Marie Moning e Jennifer Crusie per
aver scritto alcune delle mie storie preferite in assoluto. Sono sempre stata prima di
tutto una lettrice e solo in secondo luogo una scrittrice, e niente mi rende più felice di
consigliare a un’amica un bel libro che ho appena finito e al quale non riesco a
smettere di pensare.
La community che mi ha offerto lo spazio e il privilegio di creare un testo di cui
potessi davvero andare fiera.
Keili e Ashley, per avermi fatto divertire e aver giocato con me su Not Your Mother’s
Podcast.
La mia nuova editor Micki Nuding, non solo per essere stata disposta a prendermi
come nuova autrice ma anche per essere stata tanto folle da volermi aiutare a portare
alla luce Mr Sbatticuore e la serie “Redhead”.
La mia agente Jennifer Schober, con cui è scattata l’intesa dalla prima volta in cui le
ho parlato al telefono e che mi ha detto che per uno scrittore è del tutto normale avere
bisogno di continue conferme.
Un ringraziamento speciale alla mia editor e carissima amica Jessica, un mix perfetto
di intelligenza e sfacciataggine. Sei una perfezionista, sei un’asse che risuona in una
stanza con la moquette, sei il punto sopra la mia virgola.
Un enorme ringraziamento alla mia addetta stampa e socia a delinquere Enn, non solo
per essere il mio barometro immorale ma anche per avermi dato sicurezza. Grazie per
aver ascoltato i miei deliri, per aver sistemato la mia punteggiatura ed esserti fatta in
quattro. Per avermi sempre coperto le spalle. In paradiso c’è untaco con il tuo nome
scritto sopra.
E naturalmente un grosso e grasso ringraziamento a Peter per avermi sempre dedicato
le sue attenzioni. Adoro i tuoi pollici giganti.
Grazie a tutte le mie lettrici, a tutte le Nuts Girls, a tutte le Bangers, a tutte le pollastre.
Grazie davvero.
Alice
xoxo
1
«Sì!»
Sbam.
«Oh, sì!»
Sbam-sbam.
«Dio, è fantastico!»
Mi svegliai di soprassalto e mi guardai attorno confusa in quella stanza poco
familiare. Scatoloni sul pavimento. Quadri appoggiati alla parete.
“La mia nuova stanza, nel mio nuovo appartamento” ricordai a me stessa, posando
entrambe le mani sul piumone e trovando sostegno in quel tessuto pregiato. Anche da
mezza addormentata, ero consapevole del titolo del filato.
«Mmh… sì, è fantastico. Così… Non ti fermare, non ti fermare!»
“Oh, porca miseria…”
Mi misi a sedere, mi strofinai gli occhi e mi girai verso la parete alle mie spalle,
iniziando a capire cosa mi aveva svegliato. Le mie mani continuarono ad accarezzare
svogliate il piumone, attirando l’attenzione di Clive, il mio micio adorato. Venne a
infilarmi la testa sotto la mano, pretendendo di essere coccolato. Lo accarezzai, e
intanto mi guardavo attorno, tentando di orientarmi in quello spazio nuovo.
Avevo traslocato poche ore prima. Era un appartamento meraviglioso: stanze enormi,
pavimenti in legno, porte ad arco… c’era persino il caminetto! Non avevo idea di
come si facesse ad accendere un fuoco, ma non era questo il punto. Morivo dalla
voglia di disporre i soprammobili sulla mensola. Da buona designer di interni, avevo
il vizio di creare composizioni mentali in qualsiasi spazio, anche quando non mi
apparteneva. Questo a volte irritava un tantino i miei amici, perché ero sempre pronta
a scombinare le loro carabattole.
Il trasloco mi aveva impegnato per tutta la giornata, e dopo essermi immersa nella
profonda vasca vecchio stile fino ad avere la pelle livida, mi ero infilata nel letto per
godermi tutti gli scricchiolii e i rumorini di una nuova casa: un po’ di traffico fuori,
una musica ovattata, e il rassicurante clic-clic di Clive che esplorava. Erano le sue
unghiette, sapete…
Ed ecco che alle 2.37 mi ritrovavo a fissare il soffitto con un uno sguardo ebete,
cercando di capire cosa mi avesse svegliato, e mi spaventai a morte quando la testiera
del letto si mosse, o per essere più precisi, andò a sbattere contro la parete.
“Che cavolo?” Poi sentii delle parole: «Oh, Simon, è bellissimo! Mmh…».
“Ma porca…”
Sbattei le palpebre. Mi sentivo più sveglia e quasi un po’ affascinata da quello che, a
quanto pareva, stava accadendo nell’appartamento accanto. Guardai Clive, lui guardò
me e, se non fossi stata tanto stanca avrei giurato che mi strizzasse l’occhio. “Mi sa
che qualcuno se la sta spassando.”
Era da un po’ che io andavo in bianco. Un bel po’ davvero. Dosi di sesso meccanico e
scadente e una sveltina al momento sbagliato mi avevano rubato l’orgasmo. Ormai era
latitante da sei mesi. Sei interminabili mesi.
A forza di cercare il piacere da sola, stavo accusando i primi sintomi del tunnel
carpale. Ma O sembrava essersi preso un periodo sabbatico. E non sto parlando di
Oprah.
Scacciai i pensieri sul mio O latitante e mi raggomitolai su un fianco. Tutto ormai
sembrava tacere, e ricominciai a scivolare nel sonno, mentre Clive, soddisfatto, faceva
le fusa accanto a me. A quel punto scoppiò il finimondo.
«Sì! Sì! Dio… sì!»
Un quadro che avevo appoggiato alla mensola sopra il letto cadde, precipitandomi
sulla testa con un tonfo. “Così imparo a vivere a San Francisco e a non montare tutto
con i chiodi. A proposito di montare…”
Dopo essermi sfregata la testa e aver detto una sfilza di parolacce tale da far arrossire
Clive – se i gatti potessero arrossire – guardai di nuovo la parete dietro di me. La
testiera del letto vi stava praticamente rimbalzando sopra mentre nell’appartamento
accanto continuava il trambusto.
«Mmh… sì, tesoro, sì, sì, sì!» ripeté la logorroica… concludendo con un sospiro
soddisfatto.
Al che, lo giuro su Dio, sentii una sculacciata. Impossibile non riconoscere il suono di
una sculacciata ben assestata, e qualcuno, nell’appartamento accanto, la stava
prendendo sul sederino.
«Oh, Simon. Sì. Sono stata una bambina cattiva. Sì, sì!»
“Ditemi che non è vero…” Altre sberle e poi l’inconfondibile suono di una voce
maschile che gemeva e grugniva.
Mi alzai, spostai il letto a qualche centimetro dalla parete e tornai sbuffando sotto le
coperte, lanciando al muro qualche sguardo omicida.
Quella notte mi addormentai dopo aver giurato che avrei bussato alla parete se avessi
sentito un sospiro. O un gemito. O una sculacciata.
Benvenuta nel quartiere, Caroline.
2
Il mattino dopo, il mio primo mattino ufficiale nella casa nuova, mi trovai a
sorseggiare una tazza di caffè e a sgranocchiare una ciambella avanzata dalla festa di
inaugurazione del giorno prima.
Non ero sveglia come avevo sperato di essere durante la full immersion negli
scatoloni, e tra me e me maledicevo le scorribande notturne dei vicini. La ragazza era
stata montata; era stata sculacciata; era venuta; si era addormentata. Idem per Simon.
Davo per scontato che si chiamasse Simon, visto che la fanatica delle punizioni
corporali aveva continuato a chiamarlo così. Se era un nome inventato, avrebbe potuto
trovarne uno più bollente, tra uno spasmo e l’altro.
Gli spasmi… Oddio, quanto mi mancavano gli spasmi.
«Ancora niente, eh, O?» sospirai, abbassando gli occhi. Durante il quarto mese di
scomparsa di O, avevo iniziato a parlagli come se fosse una persona in carne e ossa.
Tempo fa, quando faceva fuoco e fiamme, mi era sembrato assolutamente reale, ma
nella deplorevole era in cui mi aveva abbandonato, non ero nemmeno più certa di
riconoscerlo. “È proprio un giorno triste quando una ragazza smette di riconoscere il
suo orgasmo” pensai, lanciando uno sguardo malinconico allo skyline di San
Francisco fuori dalla finestra.
Sciolsi le gambe incrociate, mi alzai e andai al lavandino a lavare la tazza. Dopo
averla messa ad asciugare sulla rastrelliera, mi raccolsi i capelli biondo chiaro in una
coda morbida e osservai il caos che mi circondava. Anche se avevo cercato di
organizzare tutto alla perfezione, anche se avevo etichettato con estrema precisione
ogni scatola, anche se avevo detto mille volte a quell’idiota del facchino che se c’era
scritto “cucina” non andava in “bagno”, il caos regnava. Per fortuna la sera prima
avevo avuto la lungimiranza di tirare fuori la mia tazza da caffè preferita.
«Che dici, Clive? Iniziamo da qui o dal soggiorno?» Lui era acciambellato su uno dei
profondi davanzali. Mentre cercavo un nuovo posto in cui vivere avevo espressamente
osservato i davanzali. Clive amava guardare fuori dalla finestra, ed era bello vederlo
che mi aspettava quando tornavo a casa.
In quel preciso momento mi fissò e sembrò fare un piccolo cenno con la testa in
direzione del soggiorno.
«D’accordo, e soggiorno sia» dissi, rendendomi conto che da quando mi ero svegliata
avevo parlato solo tre volte, e ogni parola da me pronunciata era stata rivolta a un
felino. Ehm-ehm…
Una ventina di minuti dopo Clive stava guardando in cagnesco un piccione e io stavo
mettendo in ordine i DVD quando sentii delle voci sul pianerottolo. I miei vicini
rumorosi! Corsi alla porta, rischiando di inciampare in uno scatolone, e appiccicai un
occhio allo spioncino per vedere fuori. “Certo che sono una bella pervertita.” Ma non
provai neppure a smettere.
Non vedevo molto bene, ma potevo sentire la conversazione: la voce bassa e suadente
dell’uomo, seguita dall’inconfondibile sospirare della sua compagna.
«Mmh, Simon, ieri notte è stato fantastico.»
«Pensavo che anche stamattina fosse stato fantastico» disse lui, stampandole sulla
bocca quello che suonava come un bacio appassionato.
Ah. Quel mattino dovevano aver fatto i loro comodi in un’altra stanza. Non avevo
sentito niente. Tornai a premere l’occhio sullo spioncino. “Schifosa pervertita.”
«Ma certo. Chiamami appena puoi, okay?» disse la donna, sporgendosi in avanti per
ricevere un altro bacio.
«Certo. Mi faccio sentire quando torno in città» promise lui, dandole una pacca sul
sedere. Lei si allontanò con una risatina.
Sembrava un po’ bassotta. “Addio, Ciaf Ciaf.” Dalla mia prospettiva non riuscivo a
vedere Simon, e lui rientrò nell’appartamento prima che riuscissi a farmi un’idea del
suo aspetto. “Interessante. Quindi la ragazza non vive con lui.”
Non avevo sentito nessun “Ti amo” quando lei se n’era andata, eppure sembravano
molto in confidenza. Mi tormentai la coda, sovrappensiero. Dovevano esserlo per
forza, viste le sculacciate e tutto il resto.
Scacciando dalla mia mente i pensieri su Simon e le sculacciate, tornai ai mieiDVD.
“Se fosse una band, si chiamerebbe Simon Sberla…” Passai oltre.
Un’ora dopo, stavo sistemando Il mago di Oz e La fabbrica del cioccolatoquando
bussarono alla porta. Mentre andavo ad aprire, sentii un trambusto sul pianerottolo e
soffocai un sorriso.
«Così la fai cadere, cretina» sbraitò una voce sensuale.
«Ma taci, non fare tanto la sbruffona» ribatté una seconda voce.
Alzando gli occhi al cielo, aprii la porta e trovai le mie due migliori amiche, Sophia e
Mimi, con una voluminosa scatola in mano. «Non litigate, ragazze. Voglio bene a
tutte e due» dissi, scoppiando a ridere.
«Ah-ah-ah. Spiritosa» rispose Mimi, barcollando all’interno.
«Che cavolo è quel coso? Non posso credere che l’abbiate portato su per quattro
rampe di scale!» Le mie amiche non si sobbarcavano lavori manuali se qualcuno
poteva farli al posto loro.
«Credimi, abbiamo aspettato fuori dal taxi che passasse qualcuno, ma niente. Così ci
siamo fatte la sfacchinata da sole. Tanti auguri per la tua nuova casa!» disse Sophia.
Posarono la scatola, e lei si lasciò cadere sulla poltrona vicino al caminetto.
«E piantala di traslocare. Siamo stufe di farti regali.» Mimi scoppiò a ridere e si sdraiò
sul divano, portandosi teatralmente le braccia davanti al viso.
Io tastai la scatola con l’alluce e chiesi: «Allora, cos’è? Non vi ho mai chiesto di farmi
un regalo. Lo spremiagrumi strepitoso dell’anno scorso non era necessario, davvero».
«Non fare l’ingrata. Aprilo, no?» mi ordinò Sophia, indicando la scatola con il dito
medio, per poi alzarlo in verticale e agitarlo nella mia direzione.
Con un sospiro, mi sedetti sul pavimento davanti alla scatola. Sapevo che veniva da
Williams-Sonoma, il negozio di elettrodomestici, perché aveva l’inconfondibile nastro
con il minuscolo ananas attaccato. La scatola era pesante.
«Santo cielo. Cosa avete architettato?» chiesi, intercettando l’occhiolino di Mimi a
Sophia. Tirai il nastro e aprii la scatola, e quello che vidi mi mandò su di giri.
«Ragazze, ma non dovevate!»
«Sappiamo quanto ti manca quello vecchio» esclamò Mimi, con un sorriso.
Alcuni anni prima, mi avevano regalato il vecchio frullatore KitchenAid di una prozia
dopo che lei era passata a miglior vita. Aveva più di quarant’anni ma funzionava da
Dio. Quegli arnesi erano fatti per durare e aveva resistito fino a pochi mesi prima,
quando mi aveva lasciato in modo spettacolare. Un pomeriggio, mentre frullava la
torta alle zucchine, aveva iniziato a sputare fumo e a vibrare e, per quanto l’idea mi
ripugnasse, avevo dovuto buttarlo.
Ora, mentre guardavo il lucente, nuovissimo robot KitchenAid di acciaio inox, visioni
di torte e biscotti iniziarono a danzarmi nella testa.
«Ragazze, è bellissimo» sospirai, guardando estasiata il mio nuovo bambino. Lo
sollevai per ammirarlo. Lo sfiorai con le dita, lo toccai per sentire le sue linee sinuose,
deliziata dalla sensazione del metallo freddo contro la pelle. Con un lieve sospiro, lo
strinsi tra le braccia.
«Preferisci che vi lasciamo soli?» chiese Sophia.
«No, tranquille. Voglio che restiate qui ad assistere al nostro amore. E poi è l’unico
attrezzo meccanico che ha qualche probabilità di darmi piacere nell’immediato futuro.
Grazie, ragazze. Non dovevate spendere così tanto, ma lo apprezzo moltissimo» dissi.
Clive si avvicinò, annusò il frullatore e saltò senza indugio nella scatola vuota.
«Promettici solo di prepararci qualche buon dolcetto e ne sarà valsa la pena, tesoro.»
Mimi si mise a sedere e mi lanciò uno sguardo pieno di aspettativa.
«Che c’è?» chiesi, sospettosa.
«Caroline, adesso potrei iniziare con i cassetti?» chiese, avviandosi fuori dal
soggiorno.
«Iniziare a fare cosa con i miei cassetti?» domandai stringendo un po’ il laccetto che
portavo in vita.
«La cucina! Muoio dalla voglia di iniziare a sistemare tutto!» esclamò, ormai
correndo sul posto.
«Oh, al diavolo! Vai! Datti da fare!» le urlai, mentre Mimi, trionfante, si precipitava
nell’altra stanza.
Mimi era una professional organizer. Quando eravamo tutte insieme a Berkeley, ci
mandava fuori di testa con le sue tendenze ossessivo-compulsive e la sua patologica
attenzione al dettaglio. Un giorno Sophia aveva suggerito a Mimi di farne una
professione, e lei, dopo la laurea, aveva seguito il consiglio. Adesso lavorava in tutta
la Bay Area, aiutando le famiglie a riordinare le loro carabattole. L’azienda di design
d’interni per cui lavoravo a volte si era avvalsa della sua consulenza, e lei era
addirittura apparsa in alcuni programmi dellaHGTV, il canale di arredamento. Quel
mestiere era tagliato su misura per la mia amica.
Dunque, lasciai che Mimi facesse il suo lavoro, certa che tutto sarebbe stato sistemato
con tale perfezione da lasciarmi a bocca aperta. Io e Sophia continuammo a ciondolare
in salotto: lei si mise a esaminare la mia collezione diDVD, ridendo di quelli che
avevamo guardato insieme tempo fa. Ci soffermammo su ogni singolo film
adolescenziale degli anni Ottanta…
Più tardi, dopo che le mie amiche se ne furono andate, mi accoccolai con Clive sul
divano del soggiorno per guardare le repliche di “Barefoot Contessa”, il mio
programma di cucina preferito. Mentre fantasticavo sulle prelibatezze che avrei creato
con il mio nuovo mixer e sulla cucina uguale a quella del programma che avrei avuto
un giorno, sentii dei passi sul pianerottolo, e due voci. Strizzai l’occhio a Clive. Ciaf
Ciaf doveva essere tornata.
Balzai dal divano e andai di nuovo a premere l’occhio sullo spioncino, cercando di
intravedere il mio vicino. Ancora una volta non ci riuscii, e catturai solo un’immagine
della sua schiena mentre entrava nell’appartamento dietro a una donna altissima con i
capelli castani lunghi.
“Interessante. Due ragazze in due giorni. Un donnaiolo.”
Vidi la porta chiudersi e sentii Clive che si strusciava sulle mie gambe, facendo le
fusa.
«No, non puoi uscire, sciocchino» mormorai, chinandomi a prenderlo in braccio. Mi
strofinai il suo manto morbido sulla guancia e lo guardai sorridendo mentre si
abbandonava tra le mie braccia. Clive era il vero donnaiolo del quartiere. Si sarebbe
venduto a chiunque gli massaggiasse la pancia.
Tornai sul divano e al programma che insegnava a tutti noi come si organizza un
dinner party negli Hamptons con semplice eleganza, e un conto in banca all’altezza.
Qualche ora dopo, con l’impronta del bracciolo del divano incisa sulla guancia, mi
preparai ad andare a dormire. Mimi aveva organizzato il mio guardaroba con tanta
efficienza che l’unica cosa che mi restava da fare era appendere i quadri e sistemare
qualche gingillo. Decisi di togliere il resto dei quadri dalla mensola sul letto. Quella
sera non volevo correre rischi. Mi fermai al centro della stanza, tendendo l’orecchio ai
rumori oltre la parete. Niente di nuovo sul fronte occidentale. Fin lì tutto bene. Forse
la notte precedente era stata un’eccezione.
Mentre mi preparavo per andare a letto, guardai le foto incorniciate dei miei amici e
famigliari: io e i miei genitori che sciavamo a Tahoe. Io e le ragazze vicino alla Coit
Tower: Sophia amava farsi fotografare di fianco a qualsiasi oggetto di forma fallica.
Suonava il violoncello nell’Orchestra sinfonica di San Francisco e, anche se aveva
avuto a che fare con gli strumenti musicali per tutta la vita, non si faceva mai sfuggire
una battuta quando vedeva un flauto. Era un po’ fissata.
Al momento eravamo tutte e tre single, circostanza rara. Di solito almeno una delle tre
usciva con qualcuno, ma da quando Sophia aveva rotto con il suo ultimo ragazzo
qualche mese prima, eravamo tutte in astinenza. Per la fortuna delle mie amiche, la
loro astinenza non era totale quanto la mia. Per quello che ne sapevo, erano ancora in
buoni rapporti con i loro O.
Ripensai con un brivido alla notte in cui io e O ci eravamo detti addio. Avevo avuto
una sfilza di appuntamenti sfortunati ed ero sessualmente così frustrata che mi ero
ridotta a salire in casa di un tizio che non avevo più intenzione di frequentare. Non
che fossi contraria di principio alla “botta e via”. Avevo passato tante notti a casa di
sconosciuti. Ma con quel tizio in particolare avrei fatto meglio a soprassedere. Cory
Weinstein, bla bla bla. La sua famiglia era proprietaria di una catena di pizzerie sparse
in tutta la West Coast. Sulla carta una favola, no? Ecco, solo sulla carta. Era piuttosto
bello, ma insulso. Era da un po’ che non andavo a letto con qualcuno e, dopo diversi
Martini e un discorsetto preparatorio nel tragitto verso casa, mi ero arresa e avevo
lasciato che Cory “si prendesse delle libertà”.
Ora, fino a quel punto della mia vita, avevo condiviso la vecchia teoria che il sesso
fosse come la pizza. Abbastanza appetitoso, anche quando è fatto male. Adesso
odiavo la pizza. Per varie ragioni.
Era stato il tipo di sesso peggiore. Quello a mitraglietta: un, due, tre, un, due, tre.
Trenta secondi per le tette, sessanta per una cosa che era almeno un paio di centimetri
sopra a dove avrebbe dovuto essere, e poi dentro. E fuori. Dentro. Fuori. Dentro.
Fuori.
Almeno era finita in fretta, no? No, per la miseria. Quell’orrore era andato avanti per
mesi. Be’, non proprio. Ma almeno trenta minuti buoni. Dentro, fuori, dentro, fuori,
dentro, fuori, dentro, fuori. La mia povera cosina sembrava essere stata scartavetrata.
Prima che finisse e urlasse: «Fantastico!», per poi crollare sopra di me, avevo
riordinato nella mia mente tutte le spezie della mia cucina e avevo iniziato con i
prodotti per la pulizia sotto il lavabo. A quel punto mi ero rivestita, operazione
abbastanza veloce dato che non mi ero tolta quasi niente, e me ne ero andata.
La sera seguente, dopo aver lasciato che le mie parti basse si riprendessero, avevo
deciso di coccolarle con una languida, prolungata sessione di autoamore,
accompagnata dal protagonista delle fantasie di ogni donna, George Clooney nei
panni del dottor Ross. Ma con mio grande sgomento, O aveva levato le tende. Non ci
avevo dato tanto peso, immaginando che forse aveva solo bisogno di una notte di
riposo, essendo ancora traumatizzato da Pizza Cory.
Ma la notte successiva, ancora niente O. Non aveva più dato segni di vita, né quella
settimana, né la successiva. A mano a mano che le settimane diventavano mesi, e i
mesi si susseguivano, avevo sviluppato un profondo, accanito odio verso Cory
Weinstein. Lo scopatore a mitraglietta…
Scossi la testa per scacciare quei pensieri mentre mi infilavo sotto le coperte. Clive
aspettò che fossi in posizione prima di infilarsi nello spazio accanto alle mie
ginocchia. Fece per l’ultima volta le fusa mentre spegnevo la luce.
«Notte, Mr Clive» sussurrai, e mi addormentai come un sasso.
Sbam.
«Sì.»
Sbam-sbam.
«Oh, sì.»
“Ditemi che non è vero…”?
Stavolta mi svegliai subito, perché conoscevo la natura del rumore. Mi sedetti sul
letto, guardando con odio la parete alle mie spalle. Il letto si trovava ancora in salvo
lontano dalla parete, quindi non si muoveva, ma era sicuro come l’oro che qualcosa si
muoveva di là.
Dopodiché sentii… un sibilo?
Guardai Clive, che aveva la coda ritta. Inarcò la schiena e si mise a camminare avanti
e indietro ai piedi del letto.
«Ehi, signorino. Tutto tranquillo. Abbiamo solo un vicino un po’ rumoroso, non è
niente» lo calmai, allungando una mano verso di lui. Fu allora che lo sentii.
«Miao.»
Inclinai la testa, ascoltando con più attenzione. Osservai Clive, che mi guardava come
per dire: “Non sono stato io”.
«Miao! Oh, sì, sì. Miao!»
La ragazza della porta accanto stava miagolando. Cosa diavolo le stava facendo il mio
vicino per farle quell’effetto?
Clive, a quel punto, diede di matto e si lanciò contro la parete. Iniziò praticamente a
scalarla, cercando di arrivare nel punto da cui arrivava quel suono e unendo al coro i
suoi miagolii.
«Oooh, sì, così, Simon.. Mmh… miao, miao, miao!»
Oddio, quella notte c’erano felini in calore da entrambi i lati del muro. La donna
aveva un accento straniero, anche se non riuscivo a identificarlo con precisione.
Europa dell’Est, senza dubbio. Ceco? Polacco? Ero sveglia come un grillo alle…
vediamo… 1.16 di notte e stavo cercando di stabilire la nazionalità della donna che si
faceva scopare nell’appartamento accanto?
Cercai di acchiappare Clive e di calmarlo. Niente da fare. Era castrato, ma pur sempre
un maschietto, e voleva quello che c’era dall’altra parte del muro. Continuò a
miagolare, mescolando i suoi versi a quelli di lei finché quasi non scoppiai a ridere per
la comicità della situazione. La mia vita era diventata un teatro dell’assurdo con un
coro di gatti impazziti.
Mi ricomposi, perché a quel punto sentivo “Simon” gemere. Aveva la voce bassa e
pastosa e, mentre la donna e Clive continuavano a fare baccano, mi concentrai su di
lui. Ansimò, poi iniziò lo sbam-sbam alla parete. Stava arrivando al culmine.
La donna miagolò sempre più forte, certo quasi al culmine dell’orgasmo. I suoi
miagolii si trasformarono in urla scomposte e finalmente strillò: «Da! Da! Da!».
Ecco. Era russa. Da San Pietroburgo con furore.
Un ultimo colpo, un ultimo grugnito… e un ultimo miagolio. Poi, grazie al cielo, calò
il silenzio. Fatta eccezione per Clive, che continuò a struggersi per il suo amore
perduto fino alle quattro del mattino.
La guerra fredda era ricominciata…
3
Quando infine Clive si tranquillizzò e smise di miagolare, ero completamente esausta
e con gli occhi sbarrati. Comunque avevo la sveglia un’ora dopo, e mi resi conto che
non sarei riuscita più a dormire. Tanto valeva alzarsi e preparare la colazione.
«Stupida gatta in calore» dissi alla parete, e andai in soggiorno. Dopo aver acceso la
televisione, misi su il bollitore e studiai la luce dell’alba che iniziava a filtrare dalle
finestre. Clive si acciambellò attorno alle mie gambe e io lo guardai esasperata.
«Ah, adesso vuoi me, è così? Dopo che ieri notte mi hai abbandonato per Miagolina?
Che stronzo che sei, Clive» borbottai, allungando il piede e accarezzandolo con il
tallone.
Lui si rovesciò sul pavimento e mi mostrò la pancia. Sapeva che non riuscivo a
resistere quando faceva così. Risi e mi inginocchiai. «Sì, sì, lo so. Adesso mi vuoi
bene perché sono quella che ti compra le crocchette.» Con un sospiro, gli grattai la
pancia.
Prima di fare la doccia, andai ad accendere la radio per ascoltare le notizie. Fu allora
che sentii un rumore sul pianerottolo. Tornai in cucina, con Clive alle calcagna, e gli
versai un po’ di cibo nella ciotola. Ora che aveva quello che desiderava, mi dimenticò.
Mentre mi dirigevo verso la doccia, sentii dei movimenti sul pianerottolo. Da brava
guardona, corsi allo spioncino per vedere come andava a finire tra Simon &
Miagolina.
Lui era sulla soglia, ma ancora troppo indietro perché potessi vedere la sua faccia.
Miagolina era sul pianerottolo, e vedevo la mano di lui che le accarezzava i lunghi
capelli. Oddio, quasi la sentivo fare le fusa attraverso la porta.
«Mmh, Simon, stanotte è stato… purrrr» miagolò, premendo contro la mano che lui
le aveva posato sulla guancia.
«Sono d’accordo. Un bel modo per descrivere la serata, e stamattina» sussurrò, ed
entrambi ridacchiarono.
Fantastico. Un’altra doppietta.
«Mi chiami quando torni in città?» chiese lei, mentre lui le scostava i capelli dal viso.
Il viso di una che è appena stata scopata. Quanto mi mancava quell’espressione.
«Certo, ci puoi contare» rispose lui e poi la attrasse di nuovo a sé per quello che
potevo solo immaginare fosse un bacio da infarto. Lei sollevò il piede come nei film.
Feci per alzare gli occhi al cielo, ma c’era qualche complicazione logistica. Capite,
avevo l’occhio destro appiccicato allo spioncino…
«Do svidaniya» mormorò la donna nel suo accento esotico. Sembrava molto più
simpatica ora che non miagolava come una gatta in calore.
«A presto» rise lui, e lei si allontanò con passo elegante.
Cercai di intravederlo prima che rientrasse, ma niente da fare. Mi era sfuggito un’altra
volta. Dovevo ammettere che dopo le sculacciate e le miagolate, morivo dalla voglia
di vedere che faccia avesse. Nell’appartamento accanto andavano in scena prodezze
erotiche di un certo calibro. Solo non capivo perché tutto ciò dovesse guastarmi il
sonno. Mi staccai dalla porta e andai a farmi la doccia. Sotto il getto d’acqua, mi
chiesi quali cose mirabolanti bisognasse inventarsi per far miagolare una donna.
Arrivate le sette e mezzo, saltai su un tram e ripassai mentalmente la giornata che mi
aspettava. Dovevo incontrare un nuovo cliente, perfezionare qualche dettaglio di un
progetto che avevo appena concluso e pranzare con il mio capo. Sorrisi pensando a
Jillian.
Jillian Sinclair dirigeva uno studio di design, dove avevo avuto la fortuna di fare uno
stage durante l’ultimo anno a Berkeley. Vicina alla quarantina, ma con l’aspetto di
una che non ha ancora compiuto trent’anni, si era fatta un nome nell’ambiente del
design fin dall’inizio della carriera. Amava sfidare le convenzioni, era stata una delle
prime a spazzare via lo shabby chic e a riportare in auge i colori neutri e le stampe
geometriche dello stile “modern” che in quel momento andava per la maggiore.
Terminato lo stage, mi aveva assunto, offrendomi il meglio che una giovane designer
potesse desiderare. Jillian era stimolante, perspicace, e aveva un istinto infallibile e un
occhio ancora più infallibile per i dettagli. Ma il bello di lavorare per lei è che era
davvero simpatica.
Appena scesa dal tram, intravidi il mio “ufficio”. La Jillian Designs aveva sede a
Russian Hill, una splendida zona della città: ville da favola, strade tranquille e una
meravigliosa vista panoramica. Alcune delle più grandi vecchie case erano state
convertite in spazi commerciali, e il nostro edificio era uno dei più eleganti.
Entrando in ufficio, sospirai. Jillian voleva che ognuno dei suoi designer
personalizzasse il proprio spazio. Era un modo per mostrare ai potenziali clienti cosa
dovevano aspettarsi, e io mi ero impegnata molto ad allestire il mio ufficio. Pareti
grigio scuro spezzate da soffici tende rosa salmone. La scrivania era in ebano, con una
sedia imbottita di seta oro e champagne. La stanza era sobria e distinta, con un tocco
eccentrico dato dalla mia collezione di pubblicità della zuppa Campbell’s degli anni
Trenta e Quaranta. Le avevo trovate in un mercatino, tutte ritagliate da vecchi numeri
della rivista “Life”. Le avevo fatte incorniciare, e mi veniva ancora da sorridere ogni
volta che le guardavo.
Passai qualche minuto a gettare i fiori della settimana precedente e a sistemare un
nuovo mazzo. Ogni lunedì mi fermavo dal fioraio per scegliere qualche fiore per la
settimana. Le specie cambiavano, ma i toni tendevano a essere sempre gli stessi. Mi
piacevano soprattutto gli arancioni scuri e i rosa, il pesca e l’oro. Quel giorno avevo
scelto rose ibride di tea, di una bella tinta corallo, con un tocco lampone sulle punte.
Soffocai uno sbadiglio e mi sedetti alla scrivania, preparandomi per la giornata.
Intravidi Jillian che sfrecciava davanti alla mia porta e le feci un cenno di saluto. Lei
tornò indietro e infilò dentro la testa. Sempre impeccabile, era alta, slanciata e
adorabile. Quel giorno, fasciata di nero da capo a piedi, a eccezione delle scarpe
fucsia aperte sul davanti, era davvero chic.
«Ciao, bimba! Come va la casa?» chiese, sedendosi sulla poltrona davanti alla mia
scrivania.
«Una meraviglia! Grazie mille, di nuovo. Non potrò mai ripagarti. Sei la migliore»
esclamai.
Jillian mi aveva subaffittato il suo appartamento, in cui aveva abitato da quando si era
trasferita in città molti anni prima. Ora stava finendo di arredare una villa a Sausalito.
Con gli affitti che c’erano in giro, era un’occasione d’oro. L’affitto bloccato rendeva il
prezzo incredibilmente conveniente. Mi preparai a sdilinquirmi ancora ma lei mi
fermò agitando la mano.
«Figurati. So che dovrei liberarmene, ma è stata la mia prima casa da adulta in città, e
per quei due soldi mi spezzerebbe il cuore lasciarla! E poi mi piace l’idea che sia di
nuovo vissuta. Quel quartiere è fantastico.»
Sorrise, e io soffocai un altro sbadiglio. Il suo sguardo acuto lo intercettò.
«Caroline, è lunedì mattina. Com’è possibile che stai già sbadigliando?» mi rimbrottò.
Scoppiai a ridere. «Quando è stata l’ultima volta che hai dormito in quella casa,
Jillian?» La guardai sopra l’orlo della tazza di caffè. Era già il terzo. Presto avrei
iniziato a carburare.
«Oh, è passato un bel po’ di tempo. Forse un anno fa? Benjamin era via per lavoro, e
avevo ancora un letto lì. A volte quando lavoravo fino a tardi passavo la notte in città.
Perché me lo chiedi?»
Benjamin era il suo fidanzato. Un milionario che si era fatto da solo, venture
capitalist, e di una bellezza mozzafiato. Io e le mie amiche eravamo innamorate cotte
di lui.
«Hai mai sentito rumori provenienti dall’appartamento accanto?» chiesi.
«No, non mi pare, tipo?»
«Mmh, rumori, rumori… notturni.»
«No, non che ricordi. Non so chi ci viva adesso, ma penso che qualcuno si sia
trasferito lì l’anno scorso. O forse l’anno prima? Non l’ho mai conosciuto. Perché?
Cos’hai sentito?»
Diventai paonazza e continuai a sorseggiare il caffè.
«Aspetta un secondo. Rumori “notturni”? Caroline? Stai scherzando? Hai sentito
qualche suono osé?» incalzò.
Lasciai cadere la testa sulla scrivania con un tonfo. Oh, no. Flashback. Basta tonfi.
Alzai gli occhi verso di lei, che aveva la testa rovesciata all’indietro dal ridere.
«Oh santo cielo, Caroline. Non ne avevo idea! L’ultimo vicino che ricordo era
sull’ottantina, e l’unico rumore che ho mai sentito provenire da casa sua era il sonoro
di qualche film western. Ma, adesso che ci penso, quei film li sentivo davvero
bene…» concluse.
«Be’, ecco, adesso non si sente niente del genere. Si sente sesso puro. E non sesso
discreto, o di routine. Parliamo di roba… interessante.» Sorrisi.
«Cos’hai sentito?» chiese, con gli occhi che brillavano.
Non importa quanti anni hai, o da quale ambiente provieni, ci sono due verità
universalmente valide. Tutti ridiamo di… un’emissione di gas, se capita al momento
sbagliato, e tutti siamo curiosi di sapere cosa succede nelle camere da letto altrui.
«Jillian, ti giuro. Non ho mai sentito niente del genere! La prima notte sbattevano
contro la parete così forte che mi è caduto un quadro in testa!»
Lei sbarrò gli occhi, sporgendosi in avanti. «Stai scherzando?»
«Macché! Poi ho sentito… santo cielo, ho sentito delle sculacciate.» Stavo parlando di
sculacciate con il mio capo. Capite perché amo la mia vita?
«Nooo» esclamò, e ridacchiammo come due scolarette.
«Sìììì. E mi ha fatto muovere la testiera del letto, Jillian. Me l’ha fatta muovere! Il
giorno dopo ho visto Ciaf Ciaf.»
«Ciaf Ciaf?»
«E chi, altrimenti? Poi, ieri notte…»
«Due notti di fila! Ciaf Ciaf le ha prese di nuovo?»
«Oh, no, ieri notte ho avuto il piacere di conoscere uno scherzo della natura che ho
ribattezzato Miagolina» continuai.
«Miagolina? Sarebbe?» chiese.
«La russa che lui ha fatto “miagolare”.»
Lei rise di nuovo, inducendo Steve della contabilità a infilare la testa nello studio. «Di
cosa ridete tanto, voi due galline?» domandò, poi se ne andò sghignazzando e
scuotendo la testa.
«Niente» rispondemmo in coro e scoppiammo a ridere di nuovo.
«Due donne in due notti, è un tipo sportivo» sospirò.
«Macché sportivo, è un maniaco!»
«Wow, sai come si chiama?»
«In realtà, sì. Si chiama Simon. Lo so perché Ciaf Ciaf e Miagolina continuavano a
urlare il suo nome. Riuscivo a distinguerlo sopra tutto quello sbattere… stupido Mr
Sbattitore» mormorai.
Jillian restò un attimo in silenzio, poi sorrise. «Simon Sbatticuore… ecco così mi
piace!»
«Piacerà a te. Sicuramente non era il tuo gatto quello che cercava di accoppiarsi con
Miagolina attraverso la parete ieri notte.» Esalai una risatina esausta e appoggiai di
nuovo la testa alla scrivania.
«Bene, ora mettiamoci al lavoro» disse infine, asciugandosi le lacrime. «Oggi devi
accaparrarti questi nuovi clienti. A che ora vengono?»
«Ah, Mr e Mrs Nicholson saranno qui all’una. I progetti e la presentazione sono
pronti. Penso che apprezzeranno come ho riprogettato la stanza da letto. Saremo in
grado di offrire un salottino e un bagno completamente rifatto. È davvero un bel
progetto.»
«Mi fido. Ti va di espormi le tue idee a pranzo?»
«Certo, volentieri» risposi, mentre si avvicinava alla porta.
«Sai, Caroline, se riesci ad aggiudicarti questo lavoro per lo studio sarebbe un grosso
colpo» mi disse, scrutandomi da sopra gli occhiali di guscio di tartaruga.
«Aspetta solo di vedere cosa ho pensato per il loro nuovo home theatre.»
«Ma non hanno un home theatre.»
«Non ancora» dissi, con un sorriso diabolico.
«Così mi piaci» approvò e uscì per iniziare la sua giornata.
I Nicholson erano la coppia che volevo a tutti i costi, che chiunque avrebbe voluto.
L’anno prima Mimi aveva fatto qualche lavoretto per Natalie Nicholson, aristocratica
e ricca sfondata, in occasione della riorganizzazione del suo ufficio. Quando era
arrivato il momento di ristrutturare il suo appartamento, Mimi aveva fatto il mio
nome, e io mi ero lanciata a fare progetti per la sua nuova stanza da letto.
Al diavolo Mr Sbatticuore.
«Fantastico, Caroline. Semplicemente fantastico» esclamò Natalie mentre
accompagnavo lei e il marito alla porta principale. Avevamo passato quasi due ore a
guardare i disegni e, anche se su alcuni punti chiave ero dovuta scendere a
compromessi, il progetto restava esaltante.
«Quindi pensi di essere la designer giusta per noi?» chiese Sam con gli occhi scuri che
brillavano mentre cingeva con un braccio i fianchi della moglie e giocava con la sua
coda di cavallo.
«Dovrete dirmelo voi» risposi, sorridendo a entrambi.
«Penso che sarà un piacere lavorare con te» disse Natalie, stringendomi la mano.
Dentro di me mi diedi un cinque, pur mantenendo un’espressione compassata.
«Perfetto. Vi contatterò presto, così potremo stabilire le tempistiche» dissi, tenendo
aperta la porta per loro.
Restai sulla soglia a salutarli con la mano, poi mi girai e lasciai che la porta si
chiudesse alle mie spalle. Lanciai un’occhiata ad Ashley, la nostra segretaria. Mi
guardò con un’espressione interrogativa, che ricambiai.
«Allora?» chiese.
«Ah, sì. È fatta.» Sospirai, ed entrambe ci mettemmo a strillare.
Jillian scese le scale mentre noi facevamo un balletto e si fermò di botto. «Che diavolo
è successo quaggiù?» chiese, trattenendo un sorriso.
«Caroline è stata assunta dai Nicholson!» strillò Ashley.
«Bene.» Jillian mi abbracciò. «Sono fiera di te, bimba» sussurrò, e io ero raggiante. E
dico raggiante.
Tornai nel mio ufficio a passo di danza, urtando qualche oggetto mentre mi facevo
strada verso la scrivania. Mi misi a sedere, feci piroettare la poltrona e guardai fuori,
verso la baia.
“Bel colpo, Caroline. Bel colpo.”
Quella sera, quando uscii a festeggiare il mio successo con Mimi e Sophia, forse
ingollai qualche margarita di troppo. Poi continuai con gli shot di tequila, e mi stavo
ancora leccando il sale ormai esaurito sul polso mentre venivo portata di peso su per
le scale di casa mia.
«Sophia, sei proprio uno schianto. Lo sai, eh?» tubai, appoggiandomi a lei.
«Sì, Caroline, sono uno schianto. Hai scoperto l’acqua calda» disse. Alta quasi un
metro e ottanta, con capelli rosso fuoco, Sophia era ben consapevole della sua
bellezza.
Mimi scoppiò a ridere, e io mi voltai verso di lei.
«E tu, Mimi, sei la mia migliore amica. E sei così piccola! Ti potrei portare nel
taschino.» Ridacchiai mentre cercavo di trovare il mio taschino. Mimi era una
graziosa filippina con la pelle color caramello e capelli nerissimi.
«Avremmo dovuto fermarla dopo che il guacamole è sparito dal tavolo» mormorò
Mimi. «Non le sarà mai più permesso bere in assenza di cibo.» Mi trascinò su per gli
ultimi gradini.
«Non parlare come se non ci fossi» piagnucolai, togliendomi la giacca e iniziando a
slacciarmi la camicia.
«Ma sì, spogliamoci qui sul pianerottolo, perché no» disse Sophia, prendendomi le
chiavi dalla borsa e aprendo la porta. Cercai di baciarla sulla guancia, ma lei mi
respinse.
«Sai di tequila e repressione sessuale, Caroline. Stammi lontana.» Rise e mi aiutò a
entrare. Mentre andavamo verso la camera da letto, vidi Clive sul davanzale.
«Ciao, Clive. Come sta il mio maschione?» cantilenai.
Lui mi lanciò un’occhiataccia e si spostò in soggiorno. Disapprovava il mio abuso di
alcol. Gli feci la linguaccia. Mi gettai sul letto e guardai le ragazze sulla soglia.
Avevano la classica espressione da “tu-sei-ubriaca-e-noi-no-quindi-ti-giudichiamo”.
«Non fate tanto le superiori, belle. Vi ho viste anche più ubriache di così in più di
un’occasione» osservai, mentre i miei pantaloni seguivano la camicetta sul pavimento.
Se mi chiedeste perché avevo tenuto le scarpe con i tacchi, non ve lo saprei dire.
Le mie amiche scostarono il piumone, e io mi ci infilai sotto e le guardai male. Mi
rimboccarono talmente bene la coperta che avevo fuori solo le palle degli occhi, le
narici e i capelli arruffati.
«Perché la stanza gira? Che cavolo avete fatto all’appartamento di Jillian? Se le
sputtano l’affitto bloccato, mi ammazza!» esclamai, gemendo mentre guardavo la
stanza muoversi.
«La stanza non sta girando. Calmati.» Mimi fece una risatina, si sedette vicino a me e
mi diede un colpetto sulla spalla.
«E questo bum bum, che diavolo è questo bum bum?» sussurrai nell’ascella di Mimi,
per poi annusarla e lodare la sua scelta del deodorante.
«Caroline, non c’è nessun bum bum. Oddio, mi sa che sei più fuori di quanto
pensassimo!» esclamò Sophia, sedendosi in fondo al letto.
«No, Sophia, lo sento anch’io. Ascolta» disse Mimi a voce bassa.
Sophia restò in silenzio, e ci mettemmo tutte e tre ad ascoltare. Si sentì un tonfo
distinto e poi un inequivocabile gemito.
«Micette, preparatevi. Vi presento Mr Sbatticuore» dichiarai solennemente. Sophia e
Mimi sbarrarono gli occhi, ma non dissero niente. Chissà se era Ciaf Ciaf? O
Miagolina? Sperando nella seconda, Clive entrò nella stanza e saltò sul letto. Guardò
rapito la parete.
Restammo tutti e quattro in attesa. Posso a stento descrivere cosa ci toccò sentire
quella volta.
«Sì.»
Sbam.
«Oh, sì.»
Sbam-sbam.
Mimi e Sophia guardarono me e Clive. Noi ci limitammo a scuotere la testa, tutti e
due. Un sorriso si aprì piano piano sul volto di Sophia. Mi concentrai sulla voce che
filtrava dalla parete. Era diversa… Era meno acuta e, insomma, non riuscivo a capire
di preciso cosa stesse dicendo. Non era né Ciaf Ciaf né Miagolina…
«Mmh, Simon» … risatina… «sì»… risatina… «così»… risatina.
“Che roba è?”
«Sì, sì»… grugnito… «sì! Scopami, scopami»… risatina, uh… «scopami, sì!»
Ridacchiava. Era una di quelle che ridono sul più bello.
Noi tre ridevamo insieme a lei mentre si avvicinava a quello che suonava come un
orgasmo da record. Clive, essendosi reso conto che la sua amata non sarebbe entrata
in scena, si affrettò a ritirarsi in cucina.
«Ma che cavolo succede?» sussurrò Mimi, gli occhi strabuzzati.
«È la tortura sessuale a cui sono stata sottoposta nelle ultime due notti. Non avete
idea» gemetti, sentendo gli effetti della tequila.
«Ridarola è stata scopata così nelle ultime due notti?» strillò Sophia, portandosi la
mano alla bocca mentre altre risate e gemiti filtravano dalla parete.
«Oh, santo cielo, no. Questa è la prima notte che ho il piacere di fare la sua
conoscenza. La prima notte c’era Ciaf Ciaf. Era una bambina tanto, tanto cattiva che
aveva bisogno di essere punita. E ieri notte Clive ha incontrato l’amore della sua vita
con l’entrata in scena di Miagolina…»
«Perché la chiami Miagolina?» la interruppe Sophia.
«Perché quando lui la fa venire, miagola» dissi, nascondendomi sotto le coperte. Il
giramento di testa iniziava a calmarsi, rimpiazzato dalla pesante deprivazione di sonno
che mi aveva colpito dal momento in cui mi ero trasferita in quel covo di debosciati.
Sophia e Mimi mi scoprirono il viso proprio mentre la pollastra urlava: «Oddio, è…
è… ah-ah-ah-ah-ah… una favola!».
«Il tizio della porta accanto fa miagolare le donne?» chiese Sophia, perplessa.
«A quanto pare.» Sghignazzai, mentre mi sentivo investita dalla prima ondata di
nausea.
«Perché sta ridendo? A chi verrebbe in mente di ridere mentre viene sbattuta in questa
maniera?» chiese Mimi.
«Non ne ho idea, ma è bello che si stia divertendo» disse Sophia, ridendo a sua volta
per una risata particolarmente sguaiata. “‘Sguaiata’, sembro mia nonna…”
«L’hai visto, il tizio?» chiese Mimi, sempre fissando la parete.
«No. Ma sto consumando lo spioncino.»
«Sono contenta di sapere che almeno un buco qui venga usato» mormorò Sophia.
Le lanciai un’occhiataccia. «Molto divertente, Sophia. Gli ho visto la nuca, e basta»
risposi, alzandomi a sedere.
«Però! Tre donne in tre notti. Il tizio ha una certa resistenza» disse Mimi, guardando
con ammirazione la parete.
«Per me è disgustoso. Non riesco nemmeno a dormire la notte! Il mio povero muro!»
piagnucolai, mentre sentivo un profondo grugnito maschile.
«Il muro, che c’entra il muro…?» chiese Sophia, e io alzai la mano.
«Aspetta e vedrai» dissi, mentre lui iniziava la cavalcata finale.
La parete cominciò a tremare a ritmo con i colpi, e le risate della donna si fecero
sempre più forti. Sophia e Mimi erano attonite, e io scuotevo la testa.
Sentivo Simon gemere, e capii che era al limite. Ma i suoi versi furono subito
sovrastati da quelli della sua amica di turno «Oh»… risatina… «sì»… risatina…
«così»… risatina… «non ti»… risatina… «fermare»… risatina… «oh…»… risatina…
«sì»… risatina-risatina, grugnito… «non ti»… risatina… «fermare!»
“Ti prego, ti prego, fermati.”
Risatina-gemito.
E dopo un’ultima risata e un ansimo, il silenzio calò. Sophia e Mimi si scambiarono
un’occhiata, e Sophia disse: «Oh».
«Dio» aggiunse Mimi.
«Mio» conclusero in coro.
«E questo è il motivo per cui non riesco a dormire» dissi.
Mentre noi tre ci riprendevamo da Ridarola, Clive tornò a giocare nell’angolo con una
pallina di cotone.
Ridarola, sei la peggiore…
4
Nelle notti successive regnò un silenzio beato. Niente tonfi, niente sculacciate, niente
miagolii, niente risatine. Certo, Clive di tanto in tanto appariva depresso, ma tutto il
resto a casa era perfetto. Conobbi alcuni dei vicini, tra cui Euan e Antonio, che
vivevano al piano di sotto. Non avevo visto né sentito Simon dopo l’ultima notte con
Ridarola e, nonostante gli fossi grata per quelle notti di sonno tranquillo, ero curiosa
di sapere dove fosse andato a finire. Euan e Antonio furono sin troppo lieti di
aggiornarmi.
«Tesoro, aspetta di vedere il tuo caro Simon. Quel ragazzo è proprio un bocconcino!»
esclamò Euan. Antonio mi aveva intercettato sul pianerottolo mentre tornavo a casa e
nel giro di pochi secondi mi aveva ficcato un cocktail in mano.
«Oh, cielo, sì, è sublime! Se solo avessi qualche anno di meno» piagnucolò Antonio,
sventolandosi con la mano mentre Euan lo guardava da sopra il Bloody Mary.
«Se avessi qualche anno di meno, cosa? Ti prego. Non sei mai stato nel campionato di
Simon. Lui è un filetto, tesorino, diciamoci la verità, mentre io e te siamo soltanto
braciole di maiale.»
«Lo dici tu» ridacchiò Antonio, mentre succhiava il gambo di sedano con fare
allusivo.
«Signori, vi prego. Parlatemi di questo tizio. Ammetto che, dopo le sue performance
di qualche giorno fa, sono abbastanza curiosa di conoscere l’uomo dietro tutto quello
sbattere.»
Avevo vuotato il sacco sulle stravaganze notturne di Simon dopo essermi resa conto
che, se io non avessi messo in piazza tutto, loro non avrebbero ricambiato. Si
attaccarono a ogni parola come un maglione dolcevita a un reggiseno stretto.
Raccontai loro delle signore cui concedeva le sue grazie, e loro colmarono qualche
lacuna.
Simon era un fotografo freelance che viaggiava per il mondo. Secondo loro, adesso
era fuori a scattare qualche servizio, il che spiegava i miei sonni tranquilli. Simon
lavorava per Discovery Channel, Cousteau Society, “National Geographic”… tutti i
pezzi da novanta. Aveva vinto alcuni premi e qualche anno prima si era occupato
persino della guerra in Iraq. Quando viaggiava, lasciava sempre a casa la sua auto: una
vecchia, ammaccata Land Rover Discovery nera, di quelle che vedreste
nel bush africano. Di quelle che la gente guidava prima che gli yuppies se ne
appropriassero.
Tra quello che mi dicevano Euan e Antonio – l’auto, il lavoro – e la multinazionale
dell’orgasmo dall’altra parte della parete, stavo iniziando a mettere insieme il profilo
di quest’uomo, che ancora non avevo visto. E mi intrigava sempre di più ogni giorno
che passava.
Un tardo pomeriggio, dopo aver consegnato ai Nicholson qualche campione di
piastrella, decisi di tornare a casa a piedi. La nebbia si era alzata, rivelando la città, ed
era una bella serata per passeggiare. Appena voltato l’angolo della mia strada, notai
che la Land Rover non era al suo solito posto dietro l’edificio. Dunque si era spostata.
Simon era tornato a San Francisco.
Anche se mi ero preparata per un altro round di muri sbattuti, i giorni successivi
passarono tranquilli. Lavoravo, camminavo, spupazzavo Clive. Uscivo con le mie
amiche, preparavo ottime torte alle zucchine con il mio ormai rodato KitchenAid e
passavo il tempo libero a pianificare la mia vacanza.
Ogni anno mi prendevo una settimana e mi facevo una vacanza da sola da qualche
parte. Doveva essere una meta eccitante, e non tornavo mai due volte nello stesso
posto. Un anno avevo passato la settimana a fare trekking al Yosemite. Un anno avevo
volteggiato sulle teleferiche tra le fronde della foresta pluviale in un villaggio
ecosostenibile in Costa Rica. Un altro anno avevo passato la settimana a immergermi
al largo della costa del Belize. E quest’anno… non sapevo ancora dove andare.
L’Europa stava diventando proibitiva a livello di budget, quindi era da escludere.
Stavo considerando il Perù, perché avevo sempre sognato di vedere Machu Picchu.
Non c’era nessuna fretta, ma spesso decidere la meta era una grossa parte del
divertimento.
Passavo anche una quantità indecorosa di tempo attaccata allo spioncino. Sì, lo
ammetto. Ogni volta che sentivo chiudersi una porta, correvo a vedere. Clive mi
guardava con aria ironica. Sapeva benissimo cosa stavo facendo. Perché mi
giudicasse, comunque, non lo so, dato che le sue orecchie si rizzavano ogni volta che
sentiva un rumore dalle scale. Si struggeva ancora per la sua Miagolina.
Simon, non lo avevo ancora visto. Un giorno ero arrivata allo spioncino in tempo per
vederlo entrare nell’appartamento, ma ero riuscita a distinguere solo una maglietta
nera e una matassa di capelli neri. Avrebbero potuto anche essere biondo scuro,
difficile dirlo nella luce fioca del pianerottolo. Per il mio lavoro di detective, avevo
bisogno di una migliore illuminazione.
Un’altra volta vidi la Land Rover imboccare la strada mentre voltavo l’angolo di
ritorno dal lavoro. Mi sarebbe passata di fianco! Proprio mentre stavo per scorgerlo
per la prima volta – per vedere dal vivo l’uomo dietro la leggenda – inciampai e franai
sul marciapiede. Fortunatamente Euan mi vide e aiutò il mio ego e il mio sedere
ammaccati ad alzarsi dall’asfalto, poi mi accompagnò a casa sua per somministrarmi
un disinfettante e un bicchiere di whisky.
Di notte, però, tutto tranquillo. Sapevo che Simon era a casa, e di tanto in tanto lo
sentivo: una sedia che strisciava sul pavimento, una risatina. Ma niente harem, e
dunque niente sbam-sbam.
Eppure, buona parte delle notti dormivamo insieme. Lui, dalla sua parte, metteva un
disco di Duke Ellington o Glenn Miller, mentre io, dalla mia, lo ascoltavo senza
pudore. Mio nonno aveva l’abitudine di mettere i suoi vecchi dischi di notte, e il
crepitio dell’ago sul vinile mi aiutava a addormentarmi, con Clive acciambellato al
mio fianco. Devo spezzare una lancia a favore di Simon: a livello musicale, aveva
ottimi gusti.
Eppure, quella calma e quel silenzio erano davvero troppo belli per durare e, infatti,
qualche notte dopo, tornò a scatenarsi l’inferno.
Si partì con un nuovo round di sculacciate. La tizia era di nuovo stata una bambina
cattiva e di sicuro meritava le sonore sberle che stava ricevendo… una punizione che
durò quasi mezz’ora e finì con le urla: «Ecco! Lì, lì. Sì, proprio lì!» prima che le pareti
iniziassero a tremare. Quella notte non chiusi occhio, e mi sentii più frustrata ogni
minuto che passava.
Il mattino seguente, dalla mia postazione allo spioncino, vidi Ciaf Ciaf uscire e riuscii
per la prima volta a vederla bene. Con il viso arrossato e radioso, era una ragazza
minuta, morbida e burrosa con fianchi e cosce abbondanti, e il sedere che faceva
provincia. Era bassa, molto bassa, e direi pienotta. Doveva alzarsi sulle punte dei piedi
per baciare Simon, e non riuscii a vederlo perché ero impegnata a guardare lei che si
allontanava. Il suo gusto in fatto di donne mi lasciava perplessa. Lei era l’esatto
contrario di Miagolina, che sembrava invece una modella.
Prevedendo che Miagolina sarebbe stata la prossima, la notte successiva diedi a Clive
una manciata di erba gatta e una ciotola piena di tonno. Speravo di metterlo KO prima
che iniziasse lo spettacolo. Quelle leccornie ebbero l’effetto opposto. Il mio ometto
era pronto a far faville quando i primi acuti di Miagolina filtrarono dalle pareti attorno
all’una e un quarto.
Se Clive avesse potuto indossare una giacchetta da smoking, lo avrebbe fatto.
Si mise a passeggiare avanti e indietro davanti alla parete, facendo l’indifferente.
Quando Miagolina iniziò a miagolare, però, non riuscì più a contenersi. Ancora una
volta si scagliò in direzione della parete. Saltò dal comodino al cassettone alla
mensola, scalando cuscini e persino una lampada per avvicinarsi alla sua amata.
Quando si rese conto che non sarebbe mai riuscito a scavarsi un cunicolo sotto
l’intonaco, le fece una serenata come una specie di Barry White felino, raggiungendo
l’intensità dei suoi ululati.
Quando le pareti iniziarono a tremare, e Simon si avvicinava al culmine, mi sorprese
che riuscissero a mantenere la concentrazione in mezzo a quel baccano. Se noi
sentivamo loro, per forza loro dovevano sentire Clive e i suoi lamenti. Sebbene
immaginassi che, impalata sul super membro di Mr Sbatticuore, anche io sarei forse
riuscita a non lasciarmi distrarre…
Per il momento, però, ero impalata su un bel niente e iniziavo a innervosirmi. Ero
stanca, arrapata senza sfogo in vista, e dalla bocca del mio gatto spuntava un cotton
fioc che assomigliava in modo inquietante a una sigarettina.
Dopo una notte di sonno decurtato, il mattino seguente mi trascinai allo spioncino per
un’altra sessione di osservazione dell’harem. Fui ricompensata con una rapida vista
del profilo di Simon mentre si chinava a baciare Miagolina. Fu un lampo, ma mi bastò
per scorgere la sua mascella: volitiva, definita, perfetta. Una mascella splendida. La
cosa migliore di quella giornata fu la vista della sua mascella. Il resto andò da schifo.
Tanto per cominciare, c’era un problema con il responsabile dei lavori alla casa dei
Nicholson. A quanto sembrava, non solo faceva pause pranzo interminabili, ma ogni
giorno si faceva le canne nel loro attico. Tutto il terzo piano puzzava come un
concerto dei Grateful Dead.
Poi, un intero pallet di piastrelle per il pavimento del bagno arrivarono crepate e
scheggiate. La quantità di tempo che occorreva per rifare l’ordine e la nuova
spedizione avrebbero ritardato l’intero progetto di un paio di settimane almeno, non
lasciando la minima possibilità di finire nei tempi previsti. Ogni volta che si svolge un
lavoro di ristrutturazione di una certa importanza, il termine dei lavori è calcolato in
maniera approssimativa. Eppure io non avevo mai sforato una scadenza, ed essendo
quello un lavoro così importante, mi ribolliva il sangue (e non in senso buono) all’idea
di non poter fare niente per accelerare le cose, a parte volare di persona in Italia e
caricarmi quelle piastrelle in spalla.
Dopo un pranzo veloce, durante il quale versai un’intera bottiglia di gassosa sul
pavimento vergognandomi come una ladra, tornai al lavoro e mi fermai in un negozio
per dare un’occhiata a un nuovo paio di scarponcini da trekking. Quel weekend avevo
in programma di andare a fare una camminata nelle Marin Headlands.
Mentre esaminavo le scarpe, sentii un fiato caldo nell’orecchio, che mi fece ritrarre
d’istinto.
«Ehi, tu» sentii, e il terrore mi paralizzò. I flashback mi tornarono a frotte e sentii che
mi si annebbiava la vista. Provai caldo e freddo allo stesso tempo, e l’esperienza in
assoluto più terrificante della mia vita tornò a tormentarmi. In quel momento mi girai
e vidi…
Cory Weinstein. Lo scopatore a mitraglietta che aveva rapito il mio O.
«Caroline, qual buon vento ti porta?» chiese con una voce suadente alla Tom Jones.
Mi rimangiai la bile e mi sforzai di mantenere la calma. «Cory, che piacere vederti.
Come stai?» farfugliai.
«Non posso lamentarmi. Sto facendo un giro di ricognizione delle pizzerie per il
vecchio. E tu come stai? Come ti sta trattando l’industria dell’arredamento?»
«L’industria del design d’interni, comunque bene. Anzi, stavo giusto tornando al
lavoro, quindi se vuoi scusarmi» borbottai, schivandolo.
«Ehi, non avere troppo fretta, tesoro. Hai già pranzato? Posso farti uno sconto su una
pizza a pochi isolati da qui. Cosa ne dici del cinque per cento?» disse. Se una voce
avesse potuto fare la ruota come il pavone, la sua l’avrebbe fatta.
«Però, il cinque per cento. È difficile resistere, ma per stavolta passo.» Feci una
risatina.
«Allora, Caroline, quando posso rivederti? Quella notte… caspita, è stata una bomba,
eh?» Mi strizzò l’occhio, facendomi accapponare la pelle.
«No. No, Cory. E porca miseria, no» sbottai, di nuovo piena di bile. Mi arrivavano
lampi visivi del dentro, fuori, dentro, fuori, dentro, fuori. La Caroline Sotto la Cintura
era in assetto di guerra. Non che tra noi corresse buon sangue negli ultimi tempi, ma
sapevo quanto fosse terrorizzata dalla mitraglietta. Finché comandavo io, non c’era
pericolo.
«Andiamo, piccola. Facciamo un po’ di acrobazie» mi blandì.
Si chinò verso di me, e sentii che di recente aveva mangiato salsiccia. «Cory, ti avviso
che sto per vomitarti sulle scarpe, quindi se fossi in te, mi tirerei indietro.»
Lui impallidì e arretrò.
«E per la cronaca, preferirei sbattere la testa contro il muro che fare ancora
“acrobazie” con te. Te, me e il tuo sconto del cinque per cento? Non esiste. E ora
ciao» sibilai, uscendo dal negozio.
Tornai al lavoro, sola e infuriata. Niente piastrelle italiane, niente scarponcini, niente
uomini e niente O.
Passai la serata sul divano, con il muso lungo. Non risposi al telefono. Non preparai la
cena. Mangiai il thailandese avanzato dalla scatola del takeaway e ringhiai verso Clive
quando cercò di fregarsi un gamberetto. Offeso, si mise nell’angolo e mi guardò di
traverso da sotto una sedia.
Guardai “Barefoot Contessa”, che di solito mi sollevava l’umore. Quella sera Ina
preparava una zuppa di cipolle alla francese e la portava in spiaggia per pranzare con
il marito Jeffrey. Di solito guardare quei due mi rallegrava e mi inteneriva. Erano così
dolci. Quella sera mi facevano venire la nausea. Avrei voluto esserci io su una
spiaggia di East Hampton, avvolta in una coperta a mangiare la zuppa con Jeffrey.
Cioè, non per forza con Jeffrey, ma con un suo equivalente. Il mioJeffrey.
“Fanculo Jeffrey. Fanculo ‘Barefoot Contessa’. Fanculo mangiare takeaway sola
come un cane.”
Quando fu abbastanza tardi perché fosse giustificabile andare a letto e lasciarmi alle
spalle quella giornata infame, mi trascinai mestamente in camera. Feci per mettermi il
pigiama e mi resi conto che non avevo fatto la lavatrice. Miseriaccia. Frugai nel
cassetto, sperando di trovare qualcosa, una cosa qualsiasi. Avevo un sacco di capi
sexy, dall’epoca in cui io e il mio O ancora andavamo d’amore e d’accordo.
Borbottando e imprecando, finii per tirare fuori un babydoll rosa. Era carino e
superdecorato. Un tempo mi piaceva dormire indossando biancheria elegante, anche
se al momento lo detestavo. Era un concreto promemoria della latitanza di O. In
effetti, però, era da qualche tempo che non cercavo di evocarlo. Magari quella sarebbe
stata la serata giusta. Certo la tensione non mancava. A nessuno poteva servire uno
sfogo più che a me.
Spedii fuori Clive e chiusi la porta. Nessuno doveva assistere.
Misi su gli INXS, perché mi serviva veramente tutto l’aiuto possibile. Michael
Hutchence non mancava mai di farmi arrapare. Salii sul letto, sistemai i cuscini e mi
infilai sotto le lenzuola. Le mie gambe nude scivolarono sulle lenzuola fresche. Non
c’è sensazione più bella delle gambe appena depilate su un tessuto pregiato. Forse
c’era speranza. Chiusi gli occhi e cercai di rallentare il respiro. Le ultime volte che
avevo cercato di recuperare O, era stato così frustrante che avevo quasi finito per
mettermi a piangere.
Quella sera iniziai con un ripasso delle solite fantasie. Cominciai con un po’ di Jordan
Catalano, facendo scivolare le mani sotto l’orlo del babydoll, fino a raggiungere il
seno. Pensai a Jordan Catalano, ovvero Jared Leto, che baciava Angela Chase, ovvero
Claire Danes, nel seminterrato della scuola, immaginando di essere al posto di lei.
Sentivo i suoi baci pesanti e succosi sulle labbra, ed erano esattamente le sue mani a
raggiungermi i capezzoli… Mentre le dita di Jordan iniziavano a massaggiarmi, sentii
una familiare tensione al basso ventre, una specie di calore diffuso.
Con gli occhi ancora chiusi, l’immagine passò a Jason Bourne alias Matt Damon che
si avventava sul mio corpo. Stavamo scappando dal governo, e solo la nostra intesa
sessuale ci teneva in vita. Le dita di Jason scivolarono piano lungo la mia pancia,
infilandosi nelle mutandine. Sentivo che il mio tocco faceva effetto. Stava svegliando
qualcosa, muovendo qualcosa dentro. Sussultai quando sentii che ero pronta per
Jason, e per Jordan.
Oddio. Il pensiero di quei due che lavoravano insieme per riesumare O mi dava quasi
le convulsioni. Con un gemito, passai al pezzo forte.
Clooney. Lampi di Clooney mi ottenebravano la mente mentre le mie dita si
piegavano e si contorcevano, sfioravano e stuzzicavano. Danny Ocean… George
in Ocean’s Eleven…
E poi tirai fuori l’asso nella manica.
Il dottor Ross. Terza stagione di “E.R.”, dopo che il taglio alla Giulio Cesare era stato
corretto. Mmh… Ansimai e mugolai. Stava funzionando. Ero eccitata come una
pazza. Per la prima volta da mesi, il mio cervello e il resto di me sembravano andare
d’accordo. Mi girai su un fianco con una mano tra le gambe, visualizzando il dottor
Ross che si inginocchiava davanti a me. Si leccava le labbra e mi chiedeva quando era
stata l’ultima volta che mi aveva fatto urlare.
“Tanto tempo fa. Fammi urlare, dottor Ross.”
A occhi chiusi, lo vidi chinarsi su di me, la sua bocca sempre più vicina. Mi divaricò
con delicatezza le ginocchia, baciandomi l’interno coscia. Sentivo davvero il suo fiato
sulle gambe, e mi dava i brividi.
Aprì la bocca e la lingua perfetta di Clooney guizzò per assaggiarmi.
Sbam.
«Sì.»
Sbam-sbam.
«Sì.»
“No, no, no!”
«Simon… mmh»… risatina.
Non potevo crederci. Anche il dottor Ross aveva l’aria confusa.
«È»… risatina… «così»… risatina… «eccitante… ah-ah-ah-ah!»
Con una smorfia, sentii che il dottor Ross si staccava da me. Ero bagnata, ero
frustrata, e ora Clooney pensava che qualcuno stesse ridendo di lui. Iniziò ad
allontanarsi…
“No, dottor Ross, non mi lasciare, almeno tu!”
«Sì, così… oh… ah-ah-ah-ah-ah!» Le pareti iniziarono a tremare, e cominciò il solito
frastuono.
“Ora basta, adesso ti faccio ridere io, brutta stronza…”
Mi alzai in piedi, Catalano e Bourne e l’adorabile dottor Ross stavano sparendo in
raffiche di fumo carico di testosterone. Spalancai la porta e uscii dalla camera da letto.
Clive mi bloccò la strada con la zampa e fece per lamentarsi perché l’avevo chiuso
fuori, ma quando vide la mia espressione, ebbe la saggia idea di mettersi da parte.
Andai alla porta a passo di marcia, sbattendo i talloni sul parquet. Non ero arrabbiata,
di più. Ero furiosa. Ci ero andata così vicino… Aprii il portone con la forza di mille O
furibondi, a cui da secoli veniva impedito di scaricarsi. Iniziai a bussare alla sua porta.
Mi misi a sbattere senza pietà, come era stato sul punto di fare con me Clooney.
Bussai ancora e ancora, senza arrendermi. Sentii un rumore di passi che si
avvicinavano alla porta, ma ancora non smisi di bussare. La frustrazione di quella
giornata e dell’intera settimana e dei mesi senza un solo O si stava sfogando in una
scenata di proporzioni epiche.
Sentii che veniva tolto il catenaccio, ma io continuavo imperterrita a colpire. A un
certo punto iniziai a strillare. «Apri la porta, brutto stronzo, o la sfondo!»
«Calma, smettila di bussare» sentii dire da Simon.
Poi la porta si aprì di scatto e io restai a bocca aperta. Eccolo lì. Simon.
Stagliato contro una morbida luce alle sue spalle, si ergeva, una mano a tenere la
porta, l’altra a reggere un lenzuolo bianco attorno ai fianchi. Lo squadrai da capo a
piedi, la mano stretta a pugno ancora sospesa nel vuoto. Mi pulsava per la violenza
con cui avevo bussato.
Aveva i capelli neri scarmigliati, come se Ridarola ci avesse affondato le mani mentre
lui ci dava dentro. I suoi occhi erano di un azzurro tagliente, e gli zigomi marcati
come la mascella. Completavano il pacchetto due labbra gonfie di baci e quella che
sembrava una barba di tre giorni.
“Mio Dio, la barba non fatta. Com’è possibile che mi sia sfuggito stamattina?”
Scrutai il suo corpo alto e slanciato. Era abbronzato, ma non di un’abbronzatura
premeditata: era un’abbronzatura sportiva, stagionata, virile. Il suo petto si alzava e
abbassava con il fiatone, e la sua pelle era coperta da una sottile patina di sudore
erotico. I miei occhi, scendendo ancora, videro una spolverata di peli scuri sul basso
ventre, che andavano a finire sotto il lenzuolo. Sotto gli addominali a tartaruga. Sotto
la V che alcuni uomini hanno, e su di lui non sembrava ridicola o gonfiata in palestra.
Era bellissimo. Non c’era niente da dire. E perché doveva avere anche la barba non
fatta?
Senza volere sussultai mentre il mio sguardo scendeva più di quanto avessi
programmato. I miei occhi erano attratti come da una calamita, sempre più giù. Sotto
il lenzuolo, che già era scivolato sui fianchi più di quanto la legge avrebbe dovuto
consentire…
Lo.
Aveva.
Ancora.
Duro.
5
“Sì.”
Sbam.
“Sì.”
Sbam-sbam.
Le sue spinte mi facevano risalire sempre più su nel letto. Sprofondava dentro di me
con impeto implacabile, dandomi quello che potevo prendere, poi facendomi superare
il limite. Mi fissava con un sorriso sornione. Chiusi gli occhi, per sentire fino in fondo
l’effetto che aveva su di me. E quando parlo di fondo, intendo proprio “fondo”…
Mi afferrò le mani e me le mise sopra la testiera del letto.
“È meglio se ti tieni stretta” sussurrò, mettendosi una delle mie gambe sulla spalla
mentre i suoi fianchi cambiavano ritmo.
“Simon!” gridai, sentendo che nel mio corpo iniziavano gli spasmi. I suoi occhi, quei
maledetti occhi azzurri, restarono inchiodati ai miei mentre ero scossa dalle
convulsioni.
“Mmh, Simon!” strillai di nuovo. E di colpo mi svegliai, con le braccia sopra la testa e
le mani strette alla testiera del letto.
Chiusi gli occhi per un attimo e obbligai le mie dita a mollare la presa. Quando li
riaprii, vidi che avevo dei segni sulle mani per la forza con cui mi ero aggrappata.
Mi alzai a sedere. Ero ansimante e fradicia di sudore. Ansimante, nel vero senso della
parola. Trovai le lenzuola appallottolate ai piedi del letto, con Clive nascosto sotto.
Solo il naso faceva capolino.
«Oh, Clive, ti sei nascosto?»
«Miaooo» fu la rabbiosa risposta, e il musetto seguì il naso felino.
«Puoi uscire, sciocchino. La mamma ha finito di gridare. Credo.» Feci una risata
imbarazzata, passandomi una mano tra i capelli bagnati.
Fine dell'estratto Kindle.
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